Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2019
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Scandali Stellari.
Demi Moore racconta: "Violentata a 15 anni".
Charlize Theron.
Brad Pitt e Angelina Jolie.
I Ritrovi delle Star.
Lorenzo Riva il super collezionista di Hollywood.
Benedetta Paravia.
Adelaide Manselli, ma tutti la conoscono con il nome di Anna Pannocchia.
Riconosciuti Figli d'arte. Camilli e gli altri.
Il maestro Riccardo Muti.
Plácido Domingo: l'highlander dell'opera.
Vittorio Grigolo: tenore rock.
Ezio Bosso ed “I Sani Cronici”.
Roberto Bolle ed i Ballerini.
L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona.
Canzoni stralunate.
Da Prince a Zucchero, le accuse di plagio più clamorose nella musica italiana.
Zucchero. Questa Italia non mi piace.
Nel nome di Mariele Ventre: gli eterni bambini dello Zecchino d’Oro.
I Tiromancino ed i Zampaglione.
Queste vuote teste di "Rap".
Chi decide cosa ascoltiamo?
Disco rotto. Meglio Live.
Ecco come funziona l'organizzazione dei concerti live in Italia.
Vercelli: sigilli a mille giostre in Italia autorizzate senza controlli in cambio di tangenti.
La storia non detta del Carnevale di Rio.
La Verità in tv è femmina. Roberta Petrelluzzi; Franca Leosini; Federica Sciarelli.
I 30 anni di “Un giorno in pretura”.
“Tutta la verità” sui casi controversi.
Blob Job di Marco Giusti.
La Claque non è Bue.
Se nei programmi passa quello che il pubblico vuole vedere.
La televisione si nutre del passato.
Televendita dell’arte.
Gli addetti stampa dello spettacolo: Enrico Lucherini.
Racconta Adriano Aragozzini.
Marracash.
Rino Barillari.
Giorgio Lotti.
Marcellino Radogna
Giovanni Ciacci.
Beppe Convertini.
Vieni avanti, Savoia: Emanuele Filiberto.
Gli influencer dello spettacolo & Company. Kim Kardashian, Chiara Biasi, Chiara Ferragni e Fedez, Giulia De Lellis, Greta Menchi, Valentina Pivati, Elisa Maino.
Maurizio Seymandi ed il telegattone.
I figli delle stelle.
Il bimbo di Benigni: Giorgio Cantarini.
Liam e Noel Gallagher. I fratelli coltelli degli Oasis.
Albertino.
Thegiornalisti.
I Cugini di Campagna.
Stefano De Martino e Belen Rodriguez.
Rocco Papaleo.
Rosanna Lambertucci.
Coez.
I Mogol.
Edoardo Bennato.
La vita normale del figlio di Bruce Springsteen.
Renato Zero.
Lino Capolicchio.
Non è la D'Urso.
Michele Cucuzza.
Luca Sardella.
Amadeus ricorda gli anni bui.
Ilaria D’Amico.
Alessia Marcuzzi, un impensabile aneddoto.
Isola dei Famosi 2019: Riccardo Fogli e la verità sul tradimento.
Antonio Zequila: Er Mutanda.
Miriam Leone.
Dj Ringo.
Luca Argentero.
Camila Raznovich.
Selvaggia Lucarelli.
Barbara Chiappini.
Alba Parietti: “Alla camomilla dei buoni preferisco l’adrenalina dei cattivi”.
Lorella Cuccarini e Heather Parisi. Nemiche amatissime.
Carolyn Smith.
Paola Ferrari.
Maurizio Costanzo e Maria De Filippi.
Maurizio Costanzo. Uno di Noi.
Pippo Baudo: «Non rimpiango niente (anzi, due cose)».
Smaila & Company. Le avventure dei Gatti di Vicolo Miracoli.
Enrico Vanzina.
I Montesano.
Lando Buzzanca.
Andrea Giordana.
Carlo Verdone.
Francesca Manzini.
La Super Simo.
Antonella Clerici, pop e imperfetta.
Fabio Volo.
Marisa Berenson.
Helmut Bergher: il diavolo.
Elisa Isoardi.
Le Parodi e la cucina.
Mara Maionchi: “la starlette”.
Levante.
Il Watusso Edoardo Vianello.
Fabio Rovazzi contro i superficiali.
Tiziano Ferro e l'amore.
Ezio Greggio vs Vittorio Feltri.
Massimo Boldi.
Enrico Brignano.
Stefano Accorsi.
Kasia Smutniak.
Francesca Barra.
Valeria Golino e le quote rosa.
Violante Placido.
Ornella Muti.
Silvio Berlusconi, la confessione di Carlo Freccero: "Perché devo tutto a lui".
Lucci tra Lele Mora e Emilio Fede.
Enrica Bonaccorti: "Perché mi hanno fatta fuori dalla tv”.
Gemma Galgani. Tina Cipollari. "Quanto prende al mese per fare la cafona".
L’irruenza di Magalli.
Caccia alla Volpe.
Nina Zilli.
Antonella Mosetti.
Art Attack Giovanni Muciaccia.
Antonio Lubrano: il difensore civico.
Manuela Blanchard: Manuela di Bim bum bam.
Simone Annicchiarico, l'astro nascente della tv scomparso.
Banfi e capelli.
Raffaella Carrà: "Se ho fatto delle cazzate è perché le avevo scelte io".
Marco Columbro: il templare.
Parla Carmen Russo ed Enzo Paolo Turchi.
Bertolino e il calcio per i bimbi delle favelas con la maglia dell’Inter.
Con Paolo Bonolis: addio “Libertà”.
Così diventai Carlo Conti.
Giorgio Panariello.
Parla Nek.
Ed Sheeran l'artista più ascoltato al mondo.
Alberto Camerini.
Marco Masini e la sfortuna.
L’ipocrisia su Mia Martini.
Loredana Bertè.
Grillo e Celentano. I Santoni della Tv. Ne parlano Michelle Hunziker, Antonio Ricci e Teo Teocoli.
Eros Ramazzotti.
Fiorello e il fastidio sui presunti compensi.
Rosalino Cellamare: detto Ron.
Parla il Pupo.
Sono Lory, non sono una santa.
Sabrina Paravicini: insultata perché malata.
Claudia Pandolfi.
Sara Tommasi.
Piera Degli Esposti.
Justine Mattera ed i colpi di culo…
Valentina Ruggeri: “Così George Clooney mi ha scelto..”
Dov’è la Vittoria (Risi)?
Le Donatella.
Viky Moore.
Sonia Eyes.
Franco Trentalance.
Davide Iovinella. Il calciatore porno.
Siffredi Family.
Amandha Fox a Pulsano.
Moana Conti.
Max Felicitas.
Valentine Demy.
LadyBlue – Angelica.
Veronica Rossi.
Sabrina Sabrok. Porno Satana.
Bridget the Midget - Cheryl Murphy: Porno sangue.
Malena. Filomena Mastromarino.
Valentina Nappi.
Carolina Abril.
Natalie Oliveros. Nome d'arte, Savanna Samson. Dal porno al Brunello.
Eva Henger.
Morena Capoccia.
Rossana Doll.
Omar Pedrini.
Ottavia Piccolo.
Miriana Trevisan.
Roberto Brunetti, “Er Patata”.
Tina Turner compie 80 anni.
Parla Stefania Casini.
Martina Smeraldi.
Milly D’Abbraccio.
Priscilla Salerno.
Giuseppe Povia.
Alanis Morissette.
Natalie Imbruglia.
Giordana Angi.
Piero Pelù.
Parla Giorgia.
Parla Luisa Corna.
Giorgio Mastrota.
Natalia Estrada senza rimpianti.
Parla Enrico Beruschi.
Parla Anna Maria Barbera.
Parla la cornuta Simona Izzo.
Parla il truffato Corrado Guzzanti.
Elena Santarelli e la guerra contro il tumore del figlio.
Si parla di Ambra Angiolini.
Francesco Renga.
Pamela Petrarolo.
Caterina Balivo.
Mara Venier.
Stella Manente.
Che allegria, c'è Diaco.
Chi è Alessio Orsingher marito di Pierluigi Diaco.
Aldo Baglio confessa.
Franco Battiato: il ritorno del maestro.
Memo Remigi.
Quelli di Propaganda Live.
Milva ne fa 80.
Ornella Vanoni: ragazza irresistibile.
Peppino di Capri, 80 anni e non sentirli.
Gli ABBA: i giganti del Pop.
Rosalina Neri.
Giovanna Ralli.
Cucinotta: “51 anni di magia grazie a Massimo Troisi”.
Martina Colombari.
Paola Turci.
Sabrina Salerno.
Dramma per Valentina Persia.
Si parla di Paola Barale.
Raz Degan.
Alena Seredova.
Eleonora Pedron.
La velina Mikaela Neaze Silva.
Lorena Bianchetti.
Bianca Guaccero.
Parla Rita Dalla Chiesa.
Ilary Blasi. Lady Totti.
Sylvie Lubamba riparte dalla moda.
Le Donatella tornano alla musica.
Ligabue tra Palco e realtà.
Le corna di Clizia Incorvaia a Francesco Sarcina.
Pippo Franco.
Christian De Sica.
Antonio Sorgentone.
Taylor Mega.
Giorgia Venturini.
Sara Manfuso.
Hoara Borselli.
Gigi Marzullo.
Vittoria Hyde: front woman dei Vittoria and the Hyde Park.
Alfonso Signorini.
Edwige Fenech.
Tony Sperandeo.
Gli Iglesias.
Michelle Pfeiffer.
Jennifer Aniston.
Benji & Fede.
Romina Mondello.
Daria Bignardi.
Federico Paciotti.
Giorgio Poi.
Michele Bravi e quell’incidente mortale.
Domenico Diele.
Sabrina Ferilli.
Mariana Rodriguez.
Giusy Ferreri.
Elodie: "Sexy come Rihanna? Magari..."
Francesco Gabbani.
Ermal Meta: «Così ho scoperto l’Italia».
Magari Mika.
Magari Moro.
Meglio Mora.
Fabio Concato.
Niccolò Fabi.
SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
1999-2009-2019. Pamela Prati: ogni dieci anni annuncia un matrimonio.
Carlo Taormina: “Se sono un grande avvocato…lo devo a mia moglie!”.
Il Matrimonio di Eva Grimaldi.
Ana Bettz, la cantante imprenditrice.
Gabriel Garko.
L’amore saffico delle Spice Girls.
I Porconi del Gangnam.
Corinne Clery.
Catherine Spaak. Quella sex symbol rivoluzionaria ed eterna.
Il Personaggio Platinette.
Guillermo Mariotto: “una gran mignotta”.
Malgioglio intervista Cristiano.
Comanda Vladimir Luxuria.
Asia Comanda, Morgan subisce.
Gianluca Grignani.
Benji e Fede bullizzati.
Diana Del Bufalo.
J-Ax insulta Matteo Salvini.
Fermato per furto il cantante Marco Carta.
Gerry Scotti.
Caduta Libera, il campione Nicolò Scalfi.
Caduta Libera. Il Campione Christian Fregoni.
Caduta Libera: battuto il campione Gabriele.
Giuseppe Cruciani: “Le mie passioni? La radio e le donne”.
Abramo Orlandini il maggiordomo di Vittorio Sgarbi.
Pio e Amedeo. I filosofi trash della tv.
Simona Tagli.
Ramona Badescu.
Mauro Marin.
La Gatta morta Marina La Rosa.
Al Gf la figlia d’arte Serena Rutelli.
Martina Nasoni, vincitrice del GF 2019
I guai di Gianni Nazzaro.
Gigi D’Alessio.
Gérard Depardieu.
Franca Valeri: non mi annoio.
Parla Lina Wertmüller.
Giancarlo Giannini.
Franco Zeffirelli teme la morte.
Guai, amori e Oscar di Vittorio Cecchi Gori.
Luca Barbareschi e "La mafia dei froci".
Lucrezia Lante della Rovere.
Il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione".
Umberto Orsini si racconta.
Pierfrancesco Favino e le donne.
Nicolas Vaporidis.
Giulio Scarpati, il medico in famiglia.
Pupi Avati.
Ferzan Ozpetek.
Maurizio Ferrini.
Ficarra e Picone.
Lizzo.
Mary Rider.
Rebecca Volpetti.
Gabriele Paolini.
Alex Britti.
Juliette Binoche.
Marta Flavi.
Le Rodriguez.
Mario Lavezzi.
Saverio Raimondo.
Gianna Nannini.
Creedence Clearwater Revival.
Red Hot Chili Peppers.
Andrea Scanzi.
Arturo Brachetti.
Roberto D’Agostino.
Mandy Jean Prince in arte Prince.
Luana Borgia.
Angela Gritti.
Francesca Conti Cortecchia.
Costantino Vitagliano.
Giuliano Fildigrano in arte Julius.
Maria Giovanna Ferrante diventata Mary Rider.
Viviana Bazzani.
La confessione di Ivana Spagna.
Monica Bellucci: «Non mi spaventa il corpo che cambia».
Giovanni Allevi.
Ronn Moss: il Ridge di “Beautiful”.
Keanu Reeves. Quello che non sapevate di lui.
Renzo Arbore.
Marisa Laurito ed i falli.
Sandra Milo ed il Fisco.
Claudia Gerini: ho detto tanti no.
Stefani Sandrelli apre il cuore.
Max Pezzali e gli 8-8-3.
Enrico Ruggeri.
Cesare Cremonini.
I Morandi.
Francesco Facchinetti: “Io, Jim Carrey e quel folle weekend…”.
Daniele Bossari.
Cristina Chiabotto.
Parla Gino Paoli.
Shel Shapiro.
Francis Ford Coppola: l’ultimo Re di Hollywood.
Essere Martin Scorsese.
Clint Eastwood.
Giorgio Tirabassi.
Quentin Tarantino.
Oliver Stone.
Parla Carla Signoris.
Parla Vasco.
Achille Lauro come l' armatore.
Salmo e i concerti sulla nave.
I Linea 77.
Una vita da Madonna.
Miles Davis.
Michael Stipe ed i Rem.
Elton John.
Lodovica Comello.
I Ricchi e Poveri.
Giorgio Moroder: Viva gli anni Ottanta!
Tatti Sanguineti. Patate, patacche e "fake".
Fonzie e la sua vita da dislessico.
Robert De Niro e la famiglia arcobaleno.
Al Pacino.
Jack Nicholson, il ghigno folle dell'antieroe di Hollywood.
Il segreto della longevità: Kirk e Anne Douglas.
Sofia Loren.
Gina Lollobrigida.
Claudia Cardinale.
Sharon Stone.
Olivia Newton-John: la guerriera.
Il 2 volte premio Oscar Jodie Foster.
Diane Keaton ed il suo funerale.
Buon compleanno Meryl Streep: l'attrice compie 70 anni.
Britney Spears, dramma senza fine.
Anna Mazzamauro.
Milena Vukotic: «Ero per tutti la Pina di Fantozzi.
Ilona Staller ed i suoi cimeli.
Barbara Bouchet.
Ludovica Frasca.
Angela Cavagna.
Paola Caruso: ci è o ci fa.
Debora Caprioglio.
Serena Grandi.
I Pentimenti di Claudia Koll.
Anna Falchi.
Tinto Brass, una grappa, un sigaro e i trastulli della provincia italiana.
Chi guida la Lamborghini?
Frankie Hi NRG.
Arisa
Annalisa
Emma Marrone.
Alessandra Amoroso.
I Boomdabash.
Antonella Ruggiero e la sua voce.
Marcella è Bella.
Rita Pavone.
Donatella Rettore.
Caterina Caselli: «Ho battuto il cancro, e sono tornata».
Gerardina Trovato.
Lo Stato Sociale.
Sara Wilma Milani.
I 50 anni di Jennifer Lopez.
Paolo Conte.
Lucio Dalla Genio senza tempo.
Bob Dylan: perché è il cantautore più influente del rock.
Nunzia De Girolamo: “Finalmente è esplosa la mia femminilità”.
Nathalie Caldonazzo.
Dilettatevi con Diletta.
Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina».
Aida Yespica.
Loretta Goggi.
Danika Mori.
Alessandro Haber.
Tutto su Pedro Almodovar.
Antonio Banderas.
Brigitte Bardot: la prima vera animalista.
Delon, vittima di una cultura del linciaggio.
Il professor Jovanotti.
Pilar Fogliati.
Philippe Daverio.
Alberto Angela.
Giacobbo, misteri in tv e ossa rotte.
Federico Fazzuoli, storico conduttore di “Linea Verde”.
Daniela Martani.
Laura Chiatti.
Bella Hadid.
Patrizia De Black.
Massimo Giletti.
Claudio Cecchetto.
Maria Teresa Ruta.
Vinicio Capossela.
Marco Ferradini ed il suo Teorema.
Maddalena Corvaglia.
Lucia Sinigagliesi: la donna del del Guinness World Records.
Serena Enardu.
Gianluca Vacchi.
Alberto Dandolo.
Robbie Williams.
Bill Murray, l’outsider.
John Travolta.
Takagi & Ketra.
James Senese.
Paolo Brosio.
Giulia Calcaterra.
Guido Bagatta.
Claudio Lippi.
Trio Medusa.
Isabella Ferrari.
Giangiacomo Schiavi. Il regista che ha fondato la TV.
Milly Carlucci.
Lucia Bosé.
Mina.
Patty Pravo.
Serena Autieri.
I Bastards Sons of Dioniso.
Paolo Vallesi.
Stefano Zandri, in arte Den Harrow.
Ndg (acronimo del suo vero nome, Nicolò Di Girolamo).
Eleonora Giorgi.
Aiello.
William Shatner.
Gregoraci e Briatore.
Andrea Roncato.
Flavio Insinna: "Grazie a Fabrizio Frizzi sono un conduttore".
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Achille Bonito Oliva.
Da Vasco a Loren, storie (famose) dal carcere: quando attori e cantanti finiscono dietro le sbarre.
Amanda Lear: 80 anni d’arte tra Disco music, pittura e teatro.
Silvio Orlando.
Nina Moric.
Richard Gere.
Irina Shayk.
Paola Senatore.
Antonio Albanese Cetto La Qualunque.
I Ghini.
Alessandro Gassmann.
Silvio e Gabriele Muccino, fratelli-coltelli.
Mauro Pagani racconta Guccini.
Gianni Fantoni.
Emily Ratajkowski: "È difficile essere sexy".
Valentina Dallari.
Marco Mengoni.
I Negramaro.
Francesco Incandela.
Giulia Accardi, la modella curvy.
I Ristoratori Vip. Abbasso i cuochi d'artificio. Chef Rubio & compagni...
Oliviero Toscani.
Raoul Bova.
Malika Ayane.
Ricky Gianco.
Raf e D’Art.
Francesco Nuti.
Anna Galiena.
Claudio De Tommasi, vj storico.
Beatrice Venezi.
Susanna Torretta e il giallo della morte della contessa Vacca Agusta.
TERZA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.
Claudio Bisio il comunista.
Al Bano nella lista nera di Kiev.
Toto Cutugno viene bandito in Ucraina.
Sanremo 2019: i cantanti che hanno vinto più volte il festival.
Michele Torpedine: il talent scout.
Festival di Sanremo: le 25 canzoni più belle di sempre.
Presentatori Sanremo: tutti i “condottieri” del Festival della Canzone Italiana.
Sanremo: tutte le vallette che hanno partecipato al Festival.
Aneddoti, curiosità e drammi, amori e scandali a Sanremo.
Johnny Dorelli: «Modugno arrivò secondo e mi prese a schiaffi al Festival.
I 12 big che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo.
La biellese Gilda, vinse un Festival (minore).
Guida minima ai conflitti d’interesse di Baglioni.
Mahmood. Il vincitore politicamente corretto.
Simone Cristicchi e la sua “Abbi cura di me”.
Sanremo, 30 fatti poco noti della serata finale.
Sanremo, il Festival dalla A alla Z.
Troppi compagnucci? Per la Rai si vive di "contiguità amicale".
Litigi e battute, Sanremo specchio d'Italia.
"Aiutini", code, bufale: tutto ciò che non vedete in tv.
Sanremo 2019, settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese.
Sanremo solo a Sinistra.
Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra".
Sandro Giacobbe: “Sanremo non ha voluto la mia canzone per Genova”.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli italiani e lo sport? Ne parlano tanto... ma ne fanno poco.
Milano-Cortina, le olimpiadi ed il Movimento 5 cerchi.
Coni, i conti che non tornano.
Il Podista Fantozzi.
Great e quel record nazionale negato perché non ha cittadinanza.
Osvaldo ballerino, seconda vita: nel calcio ero solo un numero.
Berruti: «I miei inaspettati 80 anni Sono bi-bastone, non più bi-turbo».
Mi ritiro…e poi?
L'addio al campo. Paolo Silvio Mazzoleni.
Antonio Cassano.
Balotelli e le balotellate.
Roma. Edin Dzeko, Capitan passato e Capitan futuro.
Miralem Pjanic.
Messi è meglio di Cristiano Ronaldo.
Cristiano Ronaldo: il comunista.
Ronaldo (il Fenomeno).
Maradona nella casa del sonno.
Dino Zoff.
Albertosi. Nome ordinario, Enrico. Nome straordinario, Ricky.
Buffon: "Qui per aiutare dalla panca".
Gigi Riva.
Tardelli, dall’urlo al Mondiale: «Ho 65 anni, mi sento un ragazzino».
Non sa chi è Paolo Rossi?
Gianluca Pagliuca.
Claudio Marchisio saluta il mondo del calcio.
Samuel Eto'o lascia.
Genio e Sregolatezza: Paul Gascoigne.
Eric Cantona.
Zlatan Ibrahimovic: La Furia.
Maldini Family.
Fiorentina, ecco Ribery.
Gabriel Batistuta.
Icardi e le regole del Mobbing.
Sandro Mazzola.
Gianni Rivera.
Calcio Dotto (Emanuele).
Sandro Piccinini.
Che brutto il calcio moderno, ha tolto l’anima al pallone.
"Così ho fatto entrare Italia-Germania nel mito".
San Siro: la storia di un tempio del calcio (1926-2019).
Sla, ecco perché uccide i calciatori.
Davide Astori, la scoperta agghiacciante: tra il 1980 e il 2015 190 giovani atleti morti come lui.
Sport e demenza.
Beppe Marotta vs Fabio Paratici.
Pallonari. Figli di…
Il Calciomercato. Il Romanzo dell’Estate.
Calcio e business: ecco le plusvalenze delle squadre di Serie A.
Prestiti e panchine: così il calcio italiano brucia i suoi giovani talenti.
Calcio, quanto ci costa la sicurezza negli stadi.
Ladri di Sport e pure di Calcio.
Platini. Quei sospetti di corruzione sull’assegnazione al Qatar dei mondiali.
Quelli che…sono in fuorigioco.
Zdenek Zeman.
Non solo Allegri e Mihajlovic, guarda le sexy figlie dei mister.
Il Guerriero Mihajlovic.
Morta la bimba di Luis Enrique.
Silvio Baldini: l’anarchico.
Stiamo Allegri.
Giovanni Galeone.
Maurizio Sarri. Da bancario a banchiere.
Il Giramondo Stramaccioni.
Arrigo Sacchi: «Vendevo scarpe».
Antonio Conte e la stella in panchina.
Calcio: Ritiri ed Ammutinamenti.
Ancelotti 60.
Trapattoni ne fa 80.
Quando gli allenatori "marcano visita".
Quei grandi allenatori che a volte ritornano.
Calcio, da Simeone a Mazzone: quando l'esultanza degli allenatori è una provocazione.
Thohir lascia l'Inter con un capolavoro.
Palermo calcio, Zamparini ai domiciliari.
Razzismo: così il calcio italiano si sta ribellando.
Questo calcio "sessista" e la saggezza della Morace.
Violenza di genere: due pesi e due misure.
Il Calcio e l’ideologia.
Il marcio nascosto di Calciopoli.
Bruno Pizzul.
Ma Baggio è Baggio.
Il Calcetto è per vecchietti.
Roberto Mancini. Il Ct della Nazionale dei Record.
Gli Immortali del Calcio.
Francesca Schiavone ed il cancro.
Le Ombre sull'alpinismo.
Tania Cagnotto.
Valentino Rossi, i primi 40 anni del Dottore di Tavullia.
Formula Uno, Hamilton 6 volte campione del mondo.
La vita spericolata di Raikkonen.
Schumacher family.
Damiano Caruso e la mafia.
Vincenzo Nibali.
Mario Cipollini.
Saronni vs Moser.
La Maledizione del Tour.
Il Doping. Tutti dopati. Armostrog: anche senza si vince lo stesso.
L’affaire Marco Pantani.
Schwazer, una perizia dei Ris per provare la sua innocenza.
Marcello Fiasconaro il re degli 800.
Potenza della Fede.
Benedetta Pilato: non ho l’età.
Magnini si ribella dopo la squalifica.
Le memorie di Adriano Panatta.
Nicola Pietrangeli ed il funerale al Foro Italico.
Dino Meneghin.
Messner, il Re degli Ottomila a quota 75.
Messner…e gli altri.
La discesista Sofia Goggia.
Manfred Moelgg, le 300 gare del veterano dello sci.
Lorenzo Bernardi: Mister Secolo della pallavolo.
Chiude la palestra di Oliva. Salvava i bimbi dalla strada.
Ai Giochi 2020 la boxe data in appalto. La crisi nerissima dell’ex nobile arte.
Frankie Dettori.
Varenne va in pensione.
Gli Scacchi. Garry Kasparov.
I 70 anni del bigliardino.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
TERZA PARTE E-BOOK
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.
Da "Striscia" nuove accuse su Sanremo. Con una nota ufficiale l'ad della Rai Salini chiede chiarimenti al suo portavoce. Laura Rio, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Si avvicina Sanremo e Striscia la notizia torna a fare le pulci al Festival. L'altra sera l'attenzione del tg satirico si è concentrata sulle agenzie di comunicazione che lavoreranno per fare da cassa di risonanza alla kermesse. In sostanza, fa notare l'inviato di Antonio Ricci, Pinuccio, sarebbe stato dato - o sarebbe in corso di assegnazione - un appalto all'agenzia Mn, la stessa nella quale lavorava fino allo scorso anno l'attuale direttore della comunicazione Rai, Marcello Giannotti. Insomma, si chiede Striscia, è una pura coincidenza che venga scelta una società di amici ed ex colleghi di quello che ora è in sostanza il portavoce dell'ad Fabrizio Salini? La stessa Mn si occupa anche della comunicazione per Fiorello e per l'operazione RaiPlay e, sempre secondo Pinuccio, anche del nuovo programma di Mara Venier intitolato La porta dei sogni. Una questione sollevata a Canale 5 che crea scompiglio in Rai tanto che a tarda sera una nota ufficiale dell'azienda recita che «L'amministratore delegato ha chiesto chiarimenti sull'utilizzo dei fornitori contrattualizzati nel campo della comunicazione». In sostanza Salini chiede a Giannotti perché è stata coinvolta Mn, ravvisando dunque sostanza nelle accuse di Striscia. Di certo la scelta è poco elegante. Chi conosce il mondo televisivo, sa che l'agenzia in questione è una delle più grandi e serie. E che ha seguito tutte le produzioni di Fiorello in Rai e sulle altre tv. Mentre su Sanremo negli ultimi anni ha lavorato un'altra grande agenzia, la Mignardi PromoPress. Si tratta di società che lavorano in appoggio all'ufficio stampa Rai, che mantiene sempre il ruolo centrale. Il nodo sta nel fatto, spiegano ufficiosamente in Rai, che si voleva sostituire quest'ultima, avendo già avuto incarichi per 5 anni. Mentre per il programma della Venier, l'incarico a Mn non sarebbe pagato dalla Rai, ma dalla società di produzione. In una nota del pomeriggio, la Rai sottolineava che «Il coinvolgimento di uffici stampa esterni non si attiva su indicazione della Direzione comunicazione la quale si limita a esprimere un nulla osta sulla scelta». In sostanza Giannotti dice che per Sanremo la scelta è stata del conduttore Amadeus. Sia come sia, la questione crea un problema tra l'ad e il suo portavoce.
Giuseppe Pietrobelli per ilfattoquotidiano.it il 15 dicembre 2019. Ci sono altri due persone coinvolte nell’inchiesta penale che riguarda la “guerra dei concerti” che vede contrapposti, come parte offesa, l’organizzatore veneto Zed Live e come indagato principale Ferdinando Salzano, il manager dei vip, l’uomo che controlla in buona parte la gestione degli eventi canori in Italia. Il sostituto procuratore Padovano Valeria Spinosa ha infatti iscritto nel registro degli indagati, nell’ipotesi di violenza privata, anche due collaboratori di Salzano. Si tratta di Ivana Coluccia, direttore dei concerti in Italia e all’estero, e di un altro componente dello staff, Fabio Maria Rhodio. Il magistrato sta verificando se esistano gli estremi della violenza privata nel comportamento aggressivo di TicketOne che controlla il mercato delle prevendite dei biglietti. Ormai è attraverso quel canale che passa la maggior parte degli acquisti dei biglietti di un evento. Sono state acquisite dalla polizia giudiziaria alcune mail, in cui viene posto in modo ultimativo il dilemma se accettare che i biglietti vengano venduti da TicketOne o se annullare il concerto. Ed è per questo che l’ipotesi di reato è stata estesa ad alcuni collaboratori di Salzano. “L’artista è mio, le condizioni e detto io. I biglietti li vende solo TicketOne” è ad esempio una delle frasi che ricorrono nei carteggi o nelle telefonate. In un caso l’artista in questione era il cantautore Caparezza, al secolo Michele Salvemini. Oppure: “I biglietti li vende TicketOne, altrimenti puoi già informare Sherwood che lo show non si fa. Punto. Di quello che fa Sherwood normalmente me ne sbatto. A svelare l’esistenza di questi dialoghi è stata a comunicazione dell’Antitrust di aprire un procedimento riguardante TicketOne e Cts Eventim. E’, invece, “Il Mattino di Padova” a dare la notizia dei due nuovi indagati. Il promoter padovano Zed ha come soci Diego Zabeo, Valeria Arzenton e Daniele Cristofoli. E’ da Zed che è partita la prima segnalazione, diretta all’Antitrust, che ha dato il via a una serie a cascata di inchieste. L’Antitrust ha infatti aperto un procedimento (ancora in corso) nei confronti di TicketOne e CTS Eventim per abuso di posizione dominante. Le interviste rilasciate da Valera Arzenton a “Striscia la notizia” la scorsa primavera hanno provocato le querele per diffamazione (a Milano) da parte di Salzano e delle società tirate in ballo, in cui la Arzenton è indagata. Successivamente la Procura di Padova ha autonomamente avviato un’indagine preliminare per violenza privata e questa volta l’indagato è Ferdinando Salzano.
Enrico Ferro e Claudio Malfitano per “la Stampa” il 12 dicembre 2019. «Benissimo, cancelliamo Padova». Detto, fatto. Quattordici concerti previsti a Nordest dissolti in un soffio. Non un soffio qualunque, a dire il vero. Il tocco è quello mortale del gigante degli spettacoli live in Italia, potente tycoon della televisione, "padrone" di Sanremo, Ferdinando Salzano, boss della F&P che fa parte del gruppo Cts Eventim-TicketOne. Questo "Golia" della musica italiana ha messo nel mirino Zed, società che a Nordest organizza e promuove spettacoli. Forte del quasi monopolio del sistema, avrebbe puntato l'impresa di Diego Zabeo, Valeria Arzenton e Daniele Cristofoli. La polizia indaga su presunte minacce, pressioni via mail e messaggi, ritorsioni. Per tutto questo Ferdinando Salzano, già condannato a 1 anno e 6 mesi per omicidio in seguito al crollo del palco della Pausini a Reggio Calabria, è formalmente indagato dalla Procura di Padova per il reato di violenza privata (che prevede fino a 4 anni di reclusione), insieme a due suoi collaboratori. I sequestri Il fascicolo è nelle mani del pubblico ministero Valeria Spinosa, che recentemente ha incaricato la Squadra mobile di sequestrare i nastri delle interviste registrate dal tg satirico Striscia la notizia e mai andate in onda per mancanza dell' autorizzazione degli intervistati. Quelle testimonianze, raccolte sentendo cantanti e imprenditori del mondo dello spettacolo, traccerebbero la figura egemone e dispotica di Salzano. Ma questa non è solo una disputa commerciale tra privati, in discussione c' è l' intero sistema dei concerti in Italia. Abuso di posizione Agcom, l'autorità garante della concorrenza e del mercato (l' antitrust), ha aperto un' istruttoria per abuso di posizione dominante, con l' aggravante di minacce, ritorsioni e boicottaggio. Oggetto dell' inchiesta sono TicketOne, Cts Eventim e i promoter nazionali che fanno parte del gruppo, tra cui la F&P di Salzano. «Così non andiamo da nessuna parte, togliamo Padova dall' annuncio». Ancora: «Adesso però mi arrabbio, non sto scrivendo in cinese. I C1 (l'intestazione fiscale dell' evento) sono nostri e di nessun circuito oltre a TicketOne». È il 3 ottobre 2018 quando intercorre uno scambio di mail tra F&P e Zed. Il casus belli è un concerto di Alessandra Amoroso. Le presunte minacce Zed gestisce il Gran Teatro Geox di Padova, il Morato di Brescia e l'Arena di Mantova, ma ha convenzioni anche con la Kioene Arena di Padova, la Zoppas di Conegliano, il Palageorge di Montichiari. Secondo quanto raccolto dagli inquirenti Salzano pretendeva di utilizzare la Kioene Arena intestandosi la fiscalità dell' evento, cioè obbligando gli imprenditori locali ad accettare le sue condizioni diventando ospiti in casa loro. Come? Con la minaccia di non pagare i debiti pregressi. Nel fascicolo istruito dalla polizia si fa riferimento a un saldo di 313 mila euro. Minacciando di non restituire quella cifra sarebbe riuscito a imporre data e condizioni del concerto della Amoroso. Un po' come entrare in casa di altri e pretendere di disporne a proprio uso e consumo.
La trattativa. Il 23 ottobre 2018 Zabeo e un collaboratore si recano a Milano nella sede di F&P, in via dei Sormani. Vogliono trovare un' intesa ma non c' è nulla da fare. Accettare subendo condizioni capestro o perdere i 313 mila euro. Una presa di posizione ai limiti dell' estorsione - secondo le carte d' accusa - quella del gigante milanese, sorta nel momento in cui Zed ha deciso di inserire tra i suoi sistemi di vendita biglietti anche il circuito Ticketmaster. Il 16 ottobre 2018 F&P è tassativa: «Nessun biglietto può essere venduto online. Solo TicketOne ha questo diritto per i nostri concerti». Stessi toni per altri concerti, messi in vendita senza l'autorizzazione dei proprietari delle strutture. In un regime equo dovrebbe funzionare così: il manager dell' artista vende il concerto a Zed, che paga anticipatamente e si assume il rischio d' impresa, ottenendo però il diritto di vendita dei biglietti e di tutti i servizi connessi. Salzano, sempre secondo l'accusa, avrebbe sovvertito questo regime, introducendo ulteriori balzelli fortemente penalizzanti dal punto di vista economico. Così è se vi pare, prendere o lasciare. "Sudditanza psicologica e commerciale", si profila nelle carte dell' inchiesta. La cancellazione delle quattordici date previste (tra cui Elisa, Gigi D' Alessio, Il Volo, Fiorella Mannoia, Nek, Modà, Ficarra e Picone, Panariello) è solo la punta dell' iceberg. Valeria Arzenton ha deciso di denunciare all' antitrust le angherie subite. Salzano respinge le accuse: «Sappiamo tutto, ci stanno lavorando i nostri legali. Abbiamo fiducia nella giustizia», dice Barbara Zaggia, la moglie. E il legale: «Ci sono procedimenti in corso, abbiamo l' obbligo del riserbo», dice l' avvocato Francesco Isolabella.
Da andreagiacobino.com il 16 dicembre 2019. Sarà anche il più potente tycoon della musica italiana, ma gli affari di Ferdinando Salzano, recentemente finito sotto inchiesta dalla procura di Padova per violenza privata, dopo essere stato condannato a un anno e sei mesi per omicidio in seguito al crollo del palco di Laura Pausini a Reggio Calabria, non brillano. Il principale business di Salzano, infatti, è quello che lo vede socio e tra l’altro di minoranza al 40% tramite la sua Habita srl, della Friends & Partners il cui controllo è invece col 60% della Cts Eventim. Questa è una società tedesca, quotata, attiva nel mercato degli eventi ricreativi, sia di biglietteria che di intrattenimento dal vivo, con sede a Brema: tramite le sue controllate offre servizi di biglietteria in numerosi paesi europei e in Italia gestisce la piattaforma TicketOne. La società è nata a fine del 2017, quindi quello dello scorso anno è il primo bilancio significativo chiuso sì con ricavi per 37,5 milioni ma co un rosso di un milione. L’attivo di 75,8 milioni è rappresentato da 35,2 milioni di avviamento, crediti per quasi 11 milioni e liquidità per 22 milioni. Nel dettaglio Friends & Partners è nata quando ha comprato la F&V, agenzia di promozione artistica di Salzano che a sua volta aveva rilevato la Vivoconcerti dell’altro noto promoter italiano Clemente Zard, poi soggetta a fusione inversa. Salzano è consigliere di Friends & Partners che è presieduta da Klaus Peter Schulenberg, ceo di Cts Eventim, mentre l’amministratore delegato è Barbara Zaggia. Tramite la sua Habita, Salzano poi detiene il 50% di Arena Campovolo la cui altra metà è di Claudio Maioli, manager del rocker Luciano Ligabue. Poche settimane fa, poi, Salzano ha girato a Habita, incassando 15,5 milioni, il 100% della Mercalli srl, che possiede il palazzo nell’omonima strada milanese ove ha sede la Friends & Partners.
SANREMO, COSA NOSTRA. Marco Molendini per Dagospia il 17 ottobre 2019. Gira la ruota di Sanremo. Al Festivalone torna Lucio Presta, dopo sette anni. Il suo cavallo di Troia è Amadeus, ragioniere della conduzione cerimoniosa, stile «signori e signori ecco a voi...». Torna Presta e non se ne andrà, almeno non del tutto, Ferdinando Salzano. E' la legge dello spettacolo made in Italy guidato, condotto e comandato da pochi tycoon che fanno il buono e cattivo tempo anche perché da viale Mazzini, al massimo, possono fornire la scorta. La Rai non sarebbe mai capace di reggere da sola la macchina festivaliera (non lo è più da anni) senza la presenza di chi è in grado di accendere le luci e farla girare. Salzano, con la sua F&P, è il monopolista del mercato musicale nazionale: si può fare un Festival della canzone italiana senza bussare alla sua porta? Tanto più che oggi la musica è dominata da artisti fatti in casa, in un andirivieni dove la data di scadenza del successo è sempre più ravvicinata. Certo, non sarà più come negli ultimi anni, con Salzano mano operativa del direttore artistico Baglioni, in un conflitto di interessi diretto ed esplicito. Anche Presta ha i suoi conti da fare: vuoi che al Sanremo del suo Amadeus non convochi gli altri suoi artisti? Ne ha bisogno, ne hanno bisogno loro, gli artisti, ne ha bisogno il Festival. Ci sono da celebrare i 70 anni del più folle appuntamento musicale mondiale: in quale altro paese ci si mobilita per una settimana ad ascoltare canzoni per lo più dimenticabili, ripetute in continuazione in una sorta di bombardamento a tappeto che poi dal lunedì viene sostituito da un immancabile oblio da saturazione (a parte piccole eccezioni: lo è stato un anno fa Mahmood)? Una vocazione televisiva al martirio tutta italiana: del resto succede ogni giorno coi talk politici e gli spettatori che seguono programmi dove si alternano sempre le stesse persone, che dicono le stesse cose. Una recita dalle repliche infinite. Tornando al Festival, anche Presta avrà da festeggiare, appena finito Sanremo farà 60 anni, sperando che ci sia da brindare anche per il successo. Intanto si è scaldato mettendo le mani su Castrocaro, la gara delle voci nuove (ormai è tutta una gara di voci nuove). Poi è passato al festival della Leopolda del suo ultimo artista, Matteo Renzi (si siederà in platea all'Ariston?). Qualche giorno fa è stato segnalato già in azione a Sanremo: c'è da dare una bella mano a Amadeus se non vuole farlo naufragare. E c'è da fare anche un po' di scongiuri. La storia insegna che il Festival è campato di alti e bassi, trionfi, cadute e resurrezioni. Ed è troppo tempo che le cose vanno bene: esattamente da cinque anni, tre di Conti, due di Baglioni. Comunque non resta che rimboccarsi le mani e fare appello a tutti i conflitti di interesse possibili. Quindi dentro gli artisti della sua Arcobaleno 3. Chissà che non ci sia spazio anche per Roberto Benigni, guardacaso attore nel ‘’Pinocchio’’ di Garrone, in cui l'ex regista (il suo, di Pinocchio, finì in lacrime e sangue) è Geppetto: il film, coprodotto dalla Rai, uscirà a Natale, chissà che a febbraio non abbia ancora bisogno di un rinfresco di promozione. Della partita potrebbe allora far parte anche la coppia di Castrocaro, De Martino-Belen (che stavolta dovrà usare una farfallona al posto della farfallina se, dopo otto anni da quell'exploit, vorrà alzare un clamore adeguato). Poi c'è Bonolis, già convocato alla Leopolda: farà la doppietta? Amadeus, che ha fatto sapere che vuole «un festival straordinario», che è già un bel proposito, ha già fatto un po' di telefonate ai vecchi amici. La prima, ma non c'era neanche bisogno di farla, a Fiorello: il cui nome viene evocato ogni volta che c'è da immaginare un ospite per l'Ariston. E sembra difficile che possa sottrarsi facendo l'anguilla, per vari motivi. Per amicizia, per colleganza (ai tempi di Cecchetto e di Radio Deejay), per contratto visto il nuovo rapporto con la Rai (debutta il 4 novembre con ‘’Viva Raiplay’’). Rosario ha già posto una condizione, un po' per gioco, un po' sul serio: ha detto che vuole il neopensionato Mollica sul balconcino dei collegamenti del Tg1. Al festival transiteranno, come sembra, anche gli altri amici dei vecchi tempi di Amadeus compreso Jovanotti, altro ragazzo fortunato della scuderia Cecchetto: e poi Sanremo è sul mare e uno scampolo di Jova beach party ci sta bene. Al resto ci penserà la Rai, con un po' di autopasserelle di programmi e qualche ospite a cachet, orizzontandosi anche con i tour promozionali: ci starebbero provando con Lady Gaga. Quanto al Festivalone, fra tocchi e ritocchi, la pappa sarà sempre la stessa anche se tornano le Nuove proposte, vale a dire i giovani con gara a sé separata dai big e l'età minima di partecipazione abbassata a 15 anni. La ruota della fortuna della caccia ai big, intanto, sta già girando: ci sono le canzoni da ascoltare, gli equilibri da centellinare, le pressioni da controllare, i tour da promuovere. Difficile escludere la scuderia Salzano e non credo che nessuno voglia farlo anche perché, insieme a Presta, a far ritorno a Sanremo c'è Giammarco Mazzi, suo sodale ma anche sodale di Salzano come regista e organizzatore di quel gigantesco giro musical-produttivo che si è stabilito da qualche anno attorno all'Arena di Verona, diventata il luogo delle grandi celebrazioni del pop nazionale, in un format di incontri e incroci con tanto di regolare ripresa televisiva da parte della Rai. Insomma, il cerchio si chiude. I conflitti di interesse sono il sale del successo. Sarebbe impossibile il contrario, il conflitto di interesse è il rubinetto attraverso il quale passa tutto il mondo dello spettacolo nazionale.
Da “la Stampa” il 17 ottobre 2019. Un primo vincitore per Sanremo c' è già. E a metterlo nero su bianco lo scorso settembre ci ha pensato il numero uno della Rai, Fabrizio Salini che ha affidato ad Antonio Marano, già vice direttore generale della Rai e presidente di Rai pubblicità il progetto "tra palco e città". Marano nei fatti coordinerà praticamente tutto del prossimo Festival: dalla logistica, alla valorizzazione editoriale alle strutture tecniche. Naturalmente - scrive l' Ad di viale Mazzini - in raccordo con tutte le direzioni competenti. Nella sostanza la prossima edizione del concorso canoro ligure sarà la prova generale del nuovo piano editoriale che l' amministratore delegato della Rai sta portando a compimento dove i direttori di rete avranno sempre minor peso rispetto alle nuove direzione sui generi che stanno per essere varate. Un modo, dicono i più maliziosi di viale Mazzini non solo per svuotare i capi dei tre canali senza rimuoverli - a cominciare proprio dalla Rete ammiraglia con l' evento clou - ma di riscrivere il perimetro editoriale della Tv pubblica anche sul fronte dei ricavi pubblicitari. Perché come dice un vecchio slogan Sanremo è sempre Sanremo ma oltre allo share deve portare a casa gli spot pubblicitari.
S. Can. per “il Messaggero” il 17 ottobre 2019. Sarà la prima Leopolda senza il Pd. E dunque la colonna sonora non potrà che non essere questa: Non avere paura, l'ultima canzone di un altro scissionista, Tommaso Paradiso, ex voce dei The Giornalisti. Quella che andrà in scena a partire da oggi fino a domenica è l'edizione numero 10 della kermesse di Matteo Renzi, pronto a battezzare nell'ex stazione ferroviaria di Firenze Italia Viva. «Abbiamo dovuto togliere i guardaroba: stiamo superando le 20mila iscrizioni», dicono dall'organizzazione. La regia dell'evento è nelle mani di Lucio Presta, il super agente televisivo ormai inseparabile braccio destro dell'ex premier (nonché allenatore nel duello tv dell'altro giorno con Matteo Salvini). Si parte oggi parlando di strategie green da mettere in manovra con il ministro Teresa Bellanova, domani poi toccherà a un piano per la famiglia con il titolare del relativo dicastero Elena Bonetti. E sarà anche svelato il nuovo logo (messo ai voti in rete). Domenica il finale: con la piantumazione («Per ogni tessera pianteremo un albero») e una serie di scosse ben assestate alla manovra. «Vedrete - racconta un parlamentare - torneremo all'assalto su Quota 100: non ci piace». Lo slogan di questa Leopolda è Italia VentiNove perché il nuovo partito guarda ai prossimi 10 anni. Ma dalle parti del leader aggiungono anche con una battuta Italia VentiNuovi. Arriveranno altri parlamentari a rinforzare la pattuglia di Iv? Renzi sta pensando ai tempi dell'annuncio. «Deciderà Matteo, ma è probabile che ci saranno sorprese in questo senso», raccontano dall'organizzazione. «E comunque sia non arriveranno dal Pd». E dunque dal Misto, ma forse anche da Forza Italia e, addirittura, dal M5S? Anche se la linea sembra essere questa: «I nuovi arrivi saranno ufficializzati dopo la Leopolda, d'altronde l'effetto confronto tv ha fatto aumentare le richieste», raccontano i renziani. Dunque si tratterà di aspettare. Anche Maria Elena Boschi conferma la notizia: «Non so se anche dal Pd, sicuramente ce ne sono di interessati che arriveranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Tra un anno saremo a parlare di tutt'altri numeri». L'unico addio al Nazareno sicuro che si paleserà sarà quello di Isabella Conti, sindaco di San Lazzaro di Savena (Bologna), paladina dei nidi gratis. Per il resto in quota Pd ci saranno il sindaco Dario Nardella, a portare i saluti di Firenze, e l'europarlamentare Simona Bonafè. La scenografia gioca molto sul numero 10 e sul palco è stato piazzato un albero, come segnale di quanto l'ambiente sarà centrale. Il convitato di pietra sarà il Pd (e il premier Conte). «Sto vedendo un po' di terrorismo in giro, credo che stiano mettendoci attorno un po' di filo spinato per evitare che arrivino dirigenti dem», dice il capogruppo di Iv al Senato Davide Faraone. In effetti, il governatore Enrico Rossi e il senatore Luigi Zanda hanno consigliato di non andare. Nardella ammette: «C'è curiosità da parte di tutti su questa Leopolda».
· Claudio Bisio il comunista.
Claudio Bisio: "Mai più a Sanremo. Sui social mi danno del comunista". "Non parlerei di pressioni, né di censura: ma di clima pesante e faticoso: c'era paura per tutto". In un'intervista a Repubblica, Claudio Bisio dice che il Festival di Sanremo 2019 è stato il primo e l'ultimo della sua carriera. "Mai più all'Ariston", scrive Roberto Bordi, Lunedì 25/02/2019, su Il Giornale. Una seconda volta di Claudio Bisio al Festival di Sanremo dopo l'esperienza di quest'anno? Non ci sarà. A dirlo è il diretto interessato in un'intervista a Repubblica. "Non parlerei di pressioni o censura, ma proprio di clima Rai: pesante, faticoso. C'era timore per ogni cosa". Dovevo "spaccare tutto", alla fine l'unica cosa che ho fatto è stata dire: "Ecco a voi la canzone...". A due settimane dalla fine dell'evento nazional-popolare per eccellenza, lo storico presentatore di Zelig ha parlato della sua esperienza sul palco dell'Ariston a fianco di Claudio Baglioni e Virginia Raffaele. Una prima volta che, leggendo le parole di Bisio, sarà anche l'ultima. C'è stato "un clima Rai pesante e faticoso. Se rifarò il Festival? No, l'ho promesso a mia moglie", la battuta dell'attore piemontese ma milanese di adozione. "Ho scoperto che non si può essere di lotta e di governo". "Fare lo 'spacca tutto' e poi annunciare 'ecco a voi la canzone…'. Ho tenuto fede al compito che mi era stato dato: presentare. L'altra mia unica volta a Sanremo, da ospite della finale, sette anni fa, ed eravamo pure sotto elezioni, fu più facile: arrivai con un monologo forte, duro, che partiva anticasta e finiva con un pugno nello stomaco verso noi italiani. Stavolta era tutto più complicato", ammette Bisio. Il noto presentatore si è soffermato sulla sua prima volta, da ospite, sul palco più "difficile" d'Italia. Parlando delle polemiche per un testo troppo politico. "Con Michelle Hunziker abbiamo fatto 'La lega dell'amore', un pezzo di un mio spettacolo di 25 anni fa, inserito poi in un disco con Elio e le storie Tese. Il ritornello è 'gioia fratellanza cuore amore mamma t'amo e nulla più'... Beh, non sa i problemi. È stata sollevata perfino la par condicio, perché c'era 'lega'. Io in Rai c'ero stato 25 anni fa con "Cielito lindo", la Rai di Guglielmi, Frassa… È tutto cambiato, sospettoso. Certo, è cambiato anche il mondo, si è incattivito. Sui social mi dicono cose come 'sporco comunista'", racconta dispiaciuto. Infine, una battuta sulla questione del premio a Loredana Berté che per adesso è ancora a casa Bisio. "Ma le pare? Il premio c'è, è un piatto, e ci stiamo organizzando per darglielo proprio da Fazio. E con quello spero proprio che Sanremo sia archiviato. Ho un mucchio di cose in testa", la battuta finale del comico di Novi Ligure. Claudio Bisio, addio festival...
Marcia antirazzista, Claudio Bisio in piazza: "Orgoglioso della mia città, qui parte migliore del Paese", scrivono Andrea Lattanzi e Antonio Nasso il 2 marzo 2019 su Repubblica Tv. "Questa è l'Italia che mi piace, sono molto orgoglioso della mia città. Una manifestazione bellissima e pacifica". Come annunciato anche il comico e attore Claudio Bisio è sceso in piazza per 'People-Prima le persone' a Milano. "Siamo qui per dimostrare che non c'è da aver paura di nessuno - spiega - perché noi italiani siamo molto meglio di come spesso veniamo descritti".
Corteo a Milano, Claudio Bisio all'attacco di Matteo Salvini: in piazza contro il governo, scrive il 2 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Questa è l'Italia che mi piace prima di tutto la gente, c'è un po di paura ma siamo qui per dimostrare che non c'è da avere paura di nessuno". Lo ha detto Claudio Bisio durante People, la marcia a Milano contro le politiche del governo. La manifestazione di sinistra era capitanata, ovviamente, da Laura Boldrini. A Sanremo, Bisio si era lamentato che i vertici della Rai per le presunte pressioni riguardo i contenuti degli interventi. Non si poteva parlare di politica e la cosa ha infastidito il comico, che infatti durante tutto il Festival è apparso decisamente poco a proprio agio.
Da I Lunatici Radio2 il 26 febbraio 2019. Albano Carrisi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Albano ha parlato del suo prossimo progetto: "Sto preparando un nuovo album e presto partirò per un nuovo tour in giro per il mondo che mi vedrà in Giappone, Lituania, Polonia, Russia, Canada, Stati Uniti. Una troupe televisiva mi ha seguito negli ultimi mesi per girare un docufilm su di me che ora stanno montando e che dovrebbe andare in onda, penso, il 20 maggio, quando festeggerò i settantasei anni. La musica italiana? In Italia è sottovalutata. All'estero la amano, noi invece ci appropriamo delle musiche americanizzate. Sanremo? Mahmood ha fatto un brano simpatico. Ogni epoca ha il suo tipo di musica. Oggi il rap avanza, va per la maggiore. Negli anni '50 c'era il terzinato. Poi è arrivato il momento del rock, adesso tocca al rap. Piacenti o spiacenti è l'espressione di questo periodo". Albano ha confermato che sta per diventare di nuovo nonno: "E' in arrivo una nipotina che nascerà attorno al Ferragosto. Una grande emozione. Un discorso è diventare padre, come mi è accaduto sei volte, un altro diventare nonno. Vorrò dei video della bimba per vedere giorno dopo giorno come crescerà". Sulle difficoltà di Celentano con Adrian: "Non voglio entrare in un certo tipo di polemiche. Sono un grande ammiratore di Adriano, ho avuto la fortuna nel 1964 di stare nel clan con una etichetta secondaria, ho inciso nel clan un brano meraviglioso, è stata la mia prima esperienza canora, e chi se la dimentica. Fantastico quel periodo. Per me Adriano è stato, è e sarà un grandissimo. Anche se forse questo non è un bel momento per lui. Adriano è stato un grande rivoluzionario e lo resterà. Un periodo di difficoltà può capitare a tutti". Sulle difficoltà incontrate in carriera: "Ricordo il 1968, venivo da una estate incredibile. A Sanremo tutti mi davano per vincente e invece arrivai settimo. Vidi come da un momento all'altro chi ti porta alle stelle può gettarti nella sabbia. Iniziarono a chiedere di me in Spagna e andai in Spagna. Lì vidi che c'era la vera meritocrazia. Ci ho lavorato per 15 anni meravigliosi. Negli anni 70 l'Italia era invivibile. Gli anni '70 per l'Italia sono stati deleteri. In Spagna invece c'era una primavera artistica e umana straordinaria. Feci bene. L'istinto mi salvò in quel periodo. Uno come me che aveva partecipato alle Canzonissime e ai Sanremo, in quegli anni veniva vestito come un povero deficiente che aveva dato l'oppio ai popoli. L'espressione nazional-popolare è una espressione scema, creata da un coglione, almeno secondo me. Colui che coniò questo termine lo dedicò a Pippo Baudo e usava questa espressione in termini dispregiativi. SI chiamava Enrico Manca. Non mi manca per niente". Sulla fiction con Lino Banfi: "Stanno scrivendo, hanno trovato la chiave giusta per questa fiction, inizieremo a girare probabilmente nella prossima primavera". Su Salvini: "L'ho incontrato quando tre cinesi importanti mi hanno comunicato che in Cina la Francia ha il 50 percento di vendita dei vini francesi. L'Italia ha solo il 5%. Mi hanno chiesto di andare da Salvini. L'ho incontrato per questo, mi è stato simpatico. Un bell'incontro, normale. E' un uomo che ti mette a tuo agio. Tre giorni dopo il nostro incontro il Ministro Centinaio era già in Cina per trattare questa tematica. Io ho fatto del bene all'Italia. Io non mi sono mai venduto, ho fatto semplicemente un favore al vino italiano e all'Italia. Io non sono leghista. Ovviamente vado a votare, non dirò mai per chi. Voto sempre per quello che mi sembra l'uomo giusto in un certo momento".
· Al Bano nella lista nera di Kiev.
Al Bano nella lista nera di Kiev: «Nemico dell’Ucraina? Io canto solo la pace». Pubblicato lunedì, 11 marzo 2019 da Corriere.it. Quando Al Bano ha saputo di essere «una minaccia per la sicurezza nazionale dell’Ucraina», aveva appena salutato il nipotino Kai, di nove mesi: «Avevo fatto due giorni da nonno, stavo tornando a casa e ho cominciato a essere tempestato di messaggi, scoprendo di essere considerato un terrorista internazionale», racconta al Corriere. «Ho pensato che fosse uno scherzo o che si era diffusa una fake news». Invece no. Era vero. Al Bano, il cantante, è entrato nella black list dei 147 indesiderati di Kiev. Cosa possa aver mai fatto per meritarselo è un mistero. Sempre che gli ucraini non credano alla vulgata che lo vuole «amico» di Vladimir Putin per il solo fatto di aver cantato per lui, il loro nemico numero uno da quando la Russia si è annessa la Crimea, nel 2014. La lista nera è compilata dal ministero della Cultura in base alle richieste del Consiglio di Sicurezza e Difesa nazionale, dei servizi di sicurezza, del Consiglio di Tv e Radio nazionali. A dicembre scorso, era stato aggiunto anche Michele Placido, forse reo d’aver detto, a una serata a Mosca su Dante, «Putin è il numero uno in Europa per politica estera».
Al Bano, appurato che non era una fake news, che ha pensato?
«Mi sono stupito che questa cosa arrivi dal ministero della Cultura, dato che tutti sanno che ho sempre cantato la pace. Ora chiederò chiarimenti all’ambasciata. Devono dirmi da cosa nasce questo mio essere bombarolo: non ho mai fatto del male all’Ucraina, ho cantato lì ed è andato sempre tutto bene, non ho mai parlato delle loro questioni politiche, le mie canzoni non hanno mai istigato a violenza e terrorismo». Quando ha cantato in Ucraina? «Sempre. L’ultima volta cinque anni fa e, da poco, un impresario mi ha proposto un nuovo tour, da fare fra ottobre e dicembre prossimi». Pensa anche lei, come scrivono le agenzie, che agli ucraini non piaccia la sua amicizia con Putin? «Magari fossi amico suo! Ho cantato per lui quattro volte, ma è una conoscenza da strette di mano. Non ci ho mai parlato. Zero». Lei ha forse amici, invece, nelle alte sfere russe? «Io conosco solo gli impresari che mi procurano i concerti. In Russia, ne faccio sette o otto l’anno, neanche tanti, considerando la vastità del Paese. Poi, certo, arrivo, mi presentano le autorità, ma posso dire che li conosco come conosco l’ex presidente ucraino, come si chiamava? Viktor Janukovyc. Me l’hanno presentato, gli ho stretto la mano. Fine». Quando ha cantato per Putin la prima volta? «Era il 1986, era ancora solo capo del Kgb. Venne a vedermi a Leningrado a un concerto con Romina. Il giorno dopo, passò in hotel, trovò solo me, mi strinse la mano e si complimentò. Questo è il contatto più intimo che abbiamo avuto. Le pare contro la sicurezza ucraina?». Le altre volte di Putin? «Al centesimo anniversario del Kgb, con tanti altri artisti. Tutti hanno cantato un brano, a me ne hanno chiesti due. Ho scelto Libertàe Felicità. Un’altra volta, mi sono esibito a un Capodanno al Cremlino, con l’orchestra sinfonica di Mosca, festa incredibile, stretta di mano a Putin. Ma non è che adesso una stretta di mano è un reato».
La quarta e ultima volta?
«A Budapest. C’erano i Mondiali di judo, io ho inciso l’inno della Federazione internazionale di judo, di cui Putin è presidente onorario. Anche lì, indovini...». Stretta di mano e ciao? «Io non so neanche quali siano le sue canzoni preferite. Comunque, ha sempre attorno 50 guardie del corpo, non è che sei lì e diventi suo amico». Però, Putin le piace? «Apprezzo i suoi valori religiosi e il suo piglio forte, ma un uomo è libero di avere le sue opinioni?». Quando Bruno Vespa la intervistò a Mosca, il Cremlino le concesse di usare l’ascensore privato di Putin. Come mai? «Perché si fidano di me, non sono mai stato considerato pericoloso per la sicurezza di una nazione. Non lo sarei neppure se facessi un corso accelerato da sovversivo». Ora è offeso? «No, se è un errore o un cavillo burocratico. Per esempio: anni fa, dovevo cantare da Gheddafi e mi negarono il visto perché sul passaporto avevo il timbro di Israele. Dovetti rifare il passaporto». Se parla con l’ambasciatore ucraino, vi chiarite e fate pace, ci va a fare il tour a fine anno? «Io non ho fatto la guerra a nessuno. Voglio che loro siano in pace con me. Dopodiché, vado dove sono desiderato e grazie al cielo, di Paesi ce ne sono tanti».
Il Governo Ucraino mette il cantante Al Bano nella "black list", scrive Il Corriere del Giorno l'11 Marzo 2019. Il Ministero della Cultura ucraino considera il cantante di Cellino San Marco “minaccia a sicurezza nazionale”. Il ministero della Cultura ucraino ha inserito ha inserito anche il cantante Albano Carrisi (Al Bano) nella lista degli individui che considera una “minaccia alla sicurezza nazionale”. La lista nera è compilata e aggiornata dal ministero della Cultura in base alle richieste del Consiglio di Sicurezza e Difesa nazionale dell’Ucraina, dei servizi di sicurezza ucraini e del Consiglio della Tv e Radio nazionali. Nella black list ucraina ci sono ora 147 persone. Lo riferisce l’agenzia Interfax. Circa cinque anni fa il cantante pugliese si era schierato contro le sanzioni alla Russia e aveva apertamente difeso il presidente Vladimir Putin, dicendo: “Si dimentica cosa era la Russia e com’è cambiata. Da uomo libero voglio dire che ho visto questo cambiamento. Poi di certo se vuoi mantenere il potere, ogni tanto devi avere pugno di ferro in guanto di velluto. Putin – aveva aggiunto il cantante pugliese – ha fermato la guerra in Siria, quando il buon Obama aveva deciso di attaccarla”. Così aveva dichiarato Albano dopo essersi esibito sul palco del Crocus City Hall a Mosca, per il concerto “Felicità italiana”. Al Bano e Romina Power negli anni Ottanta e Novanta erano molto famosi anche in Unione Sovietica. Nel dicembre 2017, il cantante pugliese, come spiegò lui stesso, è stato l’unico cantante straniero ad esibirsi durante le celebrazioni per i 100 anni del Kgb (ora Fsb) il servizio segreto russo, alla presenza del presidente di Vladimir Putin, di cui è un noto sostenitore. “Lo sostengo da tempi non sospetti. È un grande. Ha un senso religioso della vita. Ha il pugno di ferro e non ci vedo nulla di male”, aveva dichiarato Al Bano circa un anno fa in un’intervista parlando di Putin. Dopo la decisione del ministero della Cultura ucraino, Al Bano è tornato a ribadire: “Non faccio politica, ma se Putin è bravo lo dico”.
“Se qualcuno merita di essere nominato in positivo io lo faccio, ma non ho mai fatto nessuna dichiarazione contro l’Ucraina. Io porto canzoni di pace e non di guerra – ha aggiunto il cantante pugliese -. Non a caso il brano ‘Libertà‘ è stato inserito tra quelli di maggior successo in Ucraina”. E sui viaggi in Russia Al Bano risponde “Ci vado perché mi chiamano per cantare, come è normale”.
Da I Lunatici Radio2 del 12 marzo 2019. Albano Carrisi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Albano è tornato sull'Ucraina che lo ha inserito tra i pericoli per la sicurezza nazionale: "Certo questo titolo mi mancava. Non sono preoccupato ma non so ancora a che cavolo si riferiscano. Vorrei avere una motivazione, non ho fatto mai niente contro nessuna nazione, tanto meno l'Ucraina. Ho cantato anche per il loro presidente, non riesco a capire da dove nasca questa cosa. Dicono che tutto dipenda dal mio apprezzamento per Putin e per la Russia? Ma se mi fanno una domanda avrò il mio diritto di rispondere come la penso. Ma questo non vuol dire che sono contro l'Ucraina. Non ho avuto ancora tempo di parlare con nessuno, nelle prossime ore mi metterò in moto per capire esattamente che cosa è accaduto e che cosa cercano. Io mi considero un uomo di pace, non vedo perché mi debbano far passare per terrorista. Addirittura potrei attentare alla sicurezza nazionale, ma stiamo dando i numeri? Appena mi hanno dato la notizia ho pensato a un pesce d'aprile anticipato, o a qualcosa del genere. La mia coscienza è a posto. Non ho mai detto mezza parola contro l'Ucraina. Mi aspetto anche delle scuse". Sulla Tav: "Farla o non farla? Secondo me usando un po' di buona coscienza, visto che è un'opera che sta lì a metà, visto che ci sono in ballo tutti questi soldi, e l'Italia ne ha bisogno, va fatta". Sul reddito di cittadinanza: "Può essere giusto un aiuto per chi ha davvero bisogno, su questo sono d'accordo, ma conoscendo l'Italia lo chiederanno solo quelli che ne hanno davvero bisogno o anche altri? C'è il rischio furbi, e i furbi crescono ogni giorno in maniera incredibile".
Al Bano nella lista nera Ucraina: "Minaccia per la sicurezza nazionale". Il ministero della Cultura ha inserito il cantante pugliese nella lista nera in base alle richieste del consiglio di Sicurezza. Il ministero della Cultura ha inserito il cantante pugliese nella lista nera in base alle richieste del consiglio di Sicurezza, scrive Stefano Damiano, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Un tempo amato in tutta l’Unione sovietica ora Albano rappresenta, per la post comunista Ucraina, una “minaccia per la sicurezza nazionale”. Albano Carrisi, tra i cantanti italiani più amati all’estero, così è entrato nella lista nera redatta dal ministero della Cultura ucraino in base alle richieste provenienti dal consiglio di Sicurezza nazionale. “Galeotta”, probabilmente, l’ammirazione mai nascosta di Albano per il presidente russo Vladimir Putin; non a caso a dicembre 2017 è stato l’unico cantante straniero ad esibirsi durante le celebrazioni per i 100 anni del Kgb, alla presenza del presidente russo. Inoltre, nel 2004 cantò al Cremlino per festeggiare il Capodanno e allo stesso tavolo c' erano Putin con la famiglia e il precedente presidente russo Boris Eltsin e famiglia. Si tratta di un duro colpo per il cantante che in passato, nel duo con Romina Power, era amatissimo in tutto il mondo compreso l’Urss, con un gran numero di concerti nel blocco sovietico come quelli del tour del 1986, dove fede 18 concerti a Leningrado e altri 18 a Mosca. Comunque, arrivata la notizia il cantante ha detto "Non ho mai fatto politica, ma se Putin è bravo lo dico. Non ho mai detto una parola contro l’Ucraina. Mai fatto neanche un apprezzamento. È inaccettabile che proprio io che canto da sempre la pace ora venga trattato come un terrorista. Non ho mai posseduto armi, neanche quelle mentali. Chiamerò subito l’ambasciatore e quindi il ministero della Cultura ucraina. Voglio capire come il mio nome sia finito nella lista. Quando l’ho saputo questa mattina ho pensato a uno scherzo, o a uno scambio di persona", ha affermato all'Agi. Albano, dunque, secondo quanto riferito dall’agenzia Interfax, si trova in compagnia di altre 147 persone definite “una minaccia” per la sicurezza dell’Ucraina, nazione che, nel frattempo ha deciso di non partecipare all’ultima edizione dell’Eurovision, il prossimo maggio in Israele, perche parteciperà la cantante Maruv aveva, tra le più attese, si è rifiutata di cancella dei concerti previsti in Russia, così come successivamente hanno deciso di fare altri tre artisti presenti in classifica.
Giulia Cavaliere per Il Corriere della Sera il 12 luglio 2019. La storia tra Albano Carrisi (Al Bano) e Romina Power non finisce mai, come la cartolina di un'Italia lontana e perduta si disvela di continuo e regolarmente al grande pubblico attraverso speciali reunion che dalla piazza Rossa di Mosca raggiungono i salotti bianchi ricostruiti negli studi televisivi delle reti nazionali. Va in scena l'amore che fu, l'icona provinciale della love story mediatica italiana più famosa di sempre — anche oltre confine, va in scena riarrangiata però, come i pezzi della coppia: abbandonati il synth pop e le basi rarefatte anni '80 ne abbiamo una versione adulta, aggiornata, plastica, forse spoetizzata. Al Bano & Romina si conoscono sul set del musicarello Nel Sole nel 1967, è il primo musicarello di Al Bano, ancora agli inizi della sua carriera, la canzone dà il titolo al film — come da grande tradizione del genere cinematografico — e può essere considerata ancora oggi non solo il suo più grande successo discografico da solista ma pure uno dei suoi pezzi «classici», tra cui forse resta il migliore in assoluto. Il film racconta la storia d'amore impossibile tra la ricca Lorena Vivaldi e il giovane cameriere Carlo Carrera. Mai trama fu più fatale e profetica. Nato nella provincia di Brindisi, in quella famosa Cellino San Marco ora nota proprio per avergli dato i natali, Albano Carrisi è figlio di contadini, scrive canzoncine tradizionali su stornello fin da piccolino e scopre in età giovanissima una particolare predilezione per la musica, così abbandona gli studi (l'istituto magistrale) e si trasferisce giovanissimo a Milano in cerca di fortuna. Lavora al ristorante il Dollaro come cameriere e incontra attraverso il suo lavoro un gran numero di personaggi famosi, cantanti, donne e uomini che fanno parte del mondo dello spettacolo. Lì conosce Pino Massara ed entra a far parte della Celentano - Massara dopo un provino che lo porterà ad aprire i concerti di Adriano Celentano. Il suo primo successo mediatico arriva con l'applausometro del programma Settevoci, condotto da Pippo Baudo. Su chi fosse la pur giovanissima Romina Power prima di incontrare Al Bano bisognerebbe scriverci un libro, un libro lunghissimo che ne intreccia i dati biografici con la storia del mondo beat e controculturale degli anni '60. Romina nasce a Los Angeles all'inizio degli anni '50, è la figlia di due star di Hollywood, Tyrone Power e Linda Christian. Porta un nome poco noto, glielo dà il padre Tyrone innamorato di Roma e della cultura italian, e proprio grazie a lei, si diffonderà in tutto il Paese. Proprio Tyrone morirà alla fine degli anni ‘50 e spingerà Linda, il nuovo compagno e la famiglia a trasferirsi in Inghilterra e poi in Italia, dopo un periodo in cui la piccola Romina venne lasciata in Messico dalla nonna. Come una bambina prodigio debutta al cinema a soli 13 anni e lavora a 15 pellicole in meno di 5 anni — tra cui anche film erotici. La cosa che fa la differenza e che proietta Romina in uno scenario poetico certamente ancor più distante da quello del suo futuro marito e sodale è la sua partecipazione in giovanissima età alla scena artistica di Roma, Londra e Los Angeles: da Mario Schifano ai Rolling Stones, conosce McCartney e Jimi Hendrix. Firma un contratto discografico l'anno precedente al suo incontro con Al Bano. Quella tra Al Bano & Romina è una storia che fa sognare, insomma, le premesse ci sono tutte: lei figlia di personaggi famosi e protagonista di una vita rock'n'roll già in età giovanissima e lui figlio di contadini del Sud Italia venuto a Milano in cerca di fortuna. Sembra proprio Nel sole, il loro film galeotto. La famiglia di lei si oppone all'unione, ma non funziona: il 26 luglio del 1970 i due convolano a nozze nella cornice di Cellino San Marco. C'è qualcosa di fiabesco, agli occhi dell'Italia, in questa unione impossibile, entrambi parlano di segni del destino, lei è già incinta della loro primogenita ma questo, sottolineeranno sempre rispondendo alle illazioni dei giornalisti, «è un matrimonio d'amore». Dopo Ylenia, nascono Yari, Cristel e Romina Jr. A fine ’93 si consuma il dramma della scomparsa, a New Orleans, della prima figlia, Ylenia, una storia di cronaca che entrerà nelle case degli italiani con una prepotenza simile a quella Felicità di una decina d'anni prima. I due si separeranno, lui avrà altri due figli dalla nuova compagna Loredana Lecciso ma a fasi alterne i due vengono avvistati insieme, poi qualcuno dichiara che neppure si parlano e poi eccoli nella piazza Rossa, sulle Tv italiane, sui rotocalchi. E adesso la storia continua.
Al Bano, tutto risolto con l’Ucraina: verrà rimosso dalla «black list». Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 sa Corriere.it. Tra Al Bano e l’Ucraina torna il sereno: il cantante verrà presto rimosso dalla «black list» degli individui considerati una minaccia alla sicurezza nazionale di Kiev. Ad annunciarlo è Cristiano Magaletti, il legale che ha seguito la vicenda per conto dell’artista: «Tutto chiarito col nuovo governo - ha spiegato -. Ringrazio l’ambasciata, che ci ha aiutato nel dialogo per chiarire la posizione neutrale di Al Bano: le sue competenze sono artistiche, musicali e la sua visione è e sarà sempre pacificista». Il riferimento dell’avvocato è alle presunte dichiarazioni rilasciate negli anni dal suo assistito, conoscente di lunga data di Vladimir Putin, a favore dell’annessione russa della Crimea. Le stesse che, lo scorso marzo, avevano motivato la singolare decisione del locale Ministero della Cultura. Al Bano aveva immediatamente respinto ogni accusa. Oggi tira un sospiro di sollievo: «Essendo un cantante e non un politico - ha detto - non mi sono mai interessato della vicenda. I media italiani, senza andare in profondità e senza interessarsi al diritto internazionale su questo caso, mi hanno abbinato dichiarazioni riguardo a questioni che non sono di mia competenza. Essendo stato coinvolto, senza volerlo, nella questione, ho preso atto della posizione della comunità internazionale riguardante l’integrità territoriale dell’Ucraina inclusa la Crimea, così come affermano i documenti dell’Onu, dell’Ue, della Nato e di altre organizzazioni internazionali, nonché della posizione ufficiale del mio stesso governo italiano». Poi un auspicio: «Spero di essere invitato e accolto in Ucraina per un grande concerto di pace e musica».
Al Bano - Ucraina, pace fatta: sarà tolto dalla black-list. Il cantante di Cellino San Marco (Br) era finito nel mirino per alcune dichiarazioni sull'appartenenza della Crimea alla Russia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2019. Niente più blacklist per Al Bano in Ucraina. «Tutto chiarito col nuovo Governo - dichiara l’Avvocato Cristiano Magaletti che ha seguito la vicenda -. Lo toglieranno dalla blacklist. La visione di Al Bano è e sarà sempre pacificista». L’Ucraina aveva contestato ad Al Bano alcune dichiarazione in merito all’appartenenza della Crimea alla Russia. «Non mi sono mai interessato della vicenda, essendo un cantante e non un politico. Spero di essere invitato ed accolto in Ucraina per un grande concerto di pace e musica», ha detto il cantante.
Al Bano - Ucraina: la pace è vicina? L'incontro con l'ambasciatore.
«Vorrei specificare e chiarire ciò che ho espresso nel 2014 in merito all’appartenenza della Crimea alla Russia. I media locali italiani di allora, senza andare in profondità e senza interessarsi al diritto internazionale su questo caso, mi hanno abbinato dichiarazioni riguardo a questioni che non sono di mia competenza - ha spiegato in una nota Al Bano -. Essendo stato coinvolto, senza volerlo, nella questione, mi sono interessato a questa complicata vicenda internazionale ed ho preso atto della posizione della comunità internazionale riguardante l’integrità territoriale dell’Ucraina inclusa la Crimea, così come lo affermano i documenti dell’ONU, dell’UE, della NATO ed altri organizzazioni internazionali, nonché della posizione ufficiale del mio stesso Governo italiano».
Albano è single, con Loredana e Romina c'è solo amicizia. Dopo diversi mesi di gossip sul presunto ritorno di fiamma con Romina, sulla presunta crisi e successivo matrimonio annunciato con Loredana Lecciso, Albano Carrisi spiazza tutti e si dichiara single. Francesca Galici, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Albano Carrisi è single. Non c'è Romina e non c'è Loredana nella vita sentimentale del cantante di Cellino San Marco, che a dispetto del gossip ha ribadito di non essere più impegnato in una relazione con nessuna delle due donne. La saga dei Carrisi, come viene affettuosamente chiamata dal pubblico televisivo, ha appassionato migliaia di persone. D'altronde, fin dagli anni Sessanta, Albano Carrisi e Romina Power sono state una delle coppie più amate e invidiate del mondo dello spettacolo. Erano giovani, talentuosi e innamorati. La loro era la favola italiana per eccellenza, lui era il contadino con il dono della musica che non ha mai voluto lasciare la sua terra, lei una bellissima ragazza figlia di una grande star di Hollywood. Il destino non è stato generoso con loro e il corso della vita li ha portati ad allontanarsi dopo la tragedia di Ylenia, scomparsa negli Stati Uniti e mai ritrovata. La loro separazione colpì fortemente l'opinione pubblica anche per le successive discussioni tra i due, che si sono protratte per tanti anni. Romina Power non si è mai del tutto allontanata dalla residenza di Cellino San Marco, dove hanno sempre vissuto i figli della coppia assieme a quelli che Albano ha successivamente avuto da Loredana Lecciso. La relazione con la bionda showgirl leccese ha fatto molto parlare per la differenza di età tra i due, eppure la coppia ha resistito per tanto tempo, anche se non è mai arrivata al matrimonio per volontà di Albano. Negli ultimi tempi Romina e Albano hanno ritrovato un equilibrio e l'armonia tra loro li ha portati a cantare nuovamente insieme in giro per il mondo, scatenando la gelosia di Loredana e l'aumento delle acredini tra le due prime donne di Cellino San Marco. Tensioni crescenti e frecciatine mal celate tra le due si sono susseguite per tanti mesi, nonostante Albano Carrisi abbia sempre cercato di fare da pacere. Si erano susseguite varie voci, prima su un ritorno di fiamma con Romina al quale era seguita di conseguenza una crisi con Loredana, prima che venisse annunciato per l'ennesima volta il matrimonio con la bionda salentina. Non si contano le ospitate nei salotti televisivi Rai e Mediaset, dove ormai la famiglia Carrisi è di casa, sia come singoli che come coppie, spesso alternate. Anche per questo motivo stupiscono le parole che Albano ha rilasciato al settimanale Di Più dichiarandosi single ma spendendo aggettivi affettuosi per le sue donne. Sebbene nessuna delle due sia più la sua compagna, per entrambe Albano parla di rispetto, affetto e amicizia.
Loredana Lecciso e Al Bano: nessuna parola, solo immagini d’amore. Loredana ha postato una tenera foto di lei e di Al Bano, che spegne le polemiche degli ultimi giorni e mostra invece una coppia affiatata e felice. Roberta Damiata, Sabato 19/10/2019, su Il Giornale. “Quando il colore è un optional…” con queste parole, seguite da un cuoricino, Loredana Lecciso ha postato una bellissima foto di lei e di Al Bano, presa in un momento di vita quotidiana. Non una foto in posa, semplicemente uno scatto, magari fatto da uno dei loro figli, che racconta nella sua semplicità tutto l’amore che esiste tra di loro. Un amore che va al di là del gossip, delle chiacchiere fatte solo per farle, e mostra tutto l’affetto che da sempre c’è tra i due. Loredana, al contrario di altre persone, non parla molto della sua storia, nonostante sia stata richiesta e invitata spesso in molto trasmissioni, ma preferisce che a parlare siano le immagini. I due che si conoscono e sono insieme da tanti anni hanno dato vita e cresciuto due figli bellissimi. Uno scatto, questo, che conferma l’armonia della coppia, nonostante spesso venga attaccata per colpa di intromissioni. Ma quello che conta sono i fatti e che lo sguardo tra Loredana e Al Bano sia davvero di grande amore, affetto e complicità, non c’è davvero dubbio.
Loredana Lecciso, fucilata contro Romina Power: "Perché complicarsi la vita?". Rottura insanabile. Libero Quotidiano il 28 Luglio 2019. Torna ancora una volta a parlare del suo rapporto con Romina Power, ex moglie di Al Bano Carrisi. E a parlare è l'arci-rivale Loredana Lecciso. Questa volta le confidenze sono raccolte dal settimanale Vero, a cui racconta: "Amo condividere con le persone che vogliono condividere con me, ma rispetto chi ha un pensiero differente e resto un passo indietro se qualcuno non vuole. Vado verso i 50, non cerco attriti con nessuno, l’importante è che ci siano rispetto e serenità, perché ormai siamo adulti". Il tutto, ovviamente, riferendosi alla Power. Dunque la Lecciso aggiunge: "Con gli anni sto imparando a stare in pace con me stessa e con le persone che mi circondano. Mi piace circondarmi di serenità e condividerla perché nel mondo ci sono già tante cose brutte, perché complicarci ulteriormente la vita?". Insomma, Loredana e Romina non hanno alcuna intenzione di costruire un rapporto. Comunque sia, la Lecciso chiarisce che i suoi figli vanno d'accordo con Romina Power: "I miei figli sono stati educati a rispettare tutti e a stare bene con tutti. Trovo che sia giusto così", conclude.
Lecciso: "Rimasi incinta ma la storia con Al Bano era ancora segreta". In una lunga intervista al settimanale Chi, Loredana Lecciso parla della della sua storia con Al Bano, della nascita di Jasmine e del rapporto con Romina Power e con la madre di Al Bano. E sul Gf Vip rivela: "Con Signorini alla conduzione potrei anche partecipare". Gianni Nencini, Mercoledì 10/07/2019 su Il Giornale. La saga familiare di Cellino San Marco si aggiorna di nuovi particolari grazie a una lunga intervista di Loredana Lecciso al settimanale Chi. La Lecciso esordisce rivelando un particolare sul periodo precedente alla nascita di Jasmine: "Nessuno sapeva dalla relazione fra me e Al Bano, non potevo dire che ero rimasta incinta nemmeno ai miei genitori". Ma un problema costrinse la coppia a venire allo scoperto: "Ebbi una minaccia d’aborto e fui costretta a rivelarlo". La donna parla poi dei rapporti familiari e descrive Al Bano come un padre attento e - a dispetto dei luoghi comuni - "molto aperto mentalmente"; "va con Jasmine persino ai concerti dei rapper o di Justin Bieber", sostiene soddisfatta. Sul periodo della separazione, Loredana Lecciso rivendica orgogliosa: "I ragazzi non hanno mai sofferto le nostre scelte, anche perché con i figli siamo stati più bravi, Al Bano come papà merita un dieci pieno". La Lecciso chiarisce anche che - al momento - lei e il cantante non stanno insieme. "Sembra un paradosso, ma oggi gli voglio bene più di quanto gliene volessi prima, è una dimensione serena che non richiede alcun tipo di definizione: non voglio identificare i rapporti, li voglio vivere", aggiunge però sibillina. La bionda showgirl, inoltre, spiega che i problemi di salute dell'ex compagno li hanno uniti molto: "In mezzo a ostacoli più grossi è tutto più semplice da capire". Proprio questa nuova presa di coscienza fa dire alla Lecciso di essere pronta a passare sopra "persino" alle incomprensioni con Romina Power ma puntualizza ancora una volta di non essersi messa in mezzo alla loro storia. Più diplomatica la risposta di Loredana sui rapporti - forse deteriorati - con la signora Iolanda, la madre del cantante: "Ho sempre avuto grande rispetto per lei, sia come mamma che come nonna".
La Lecciso al Grande Fratello Vip? Nell'intervista a Chi c'è anche spazio per parlare degli impegni televisivi della Lecciso che promette: "Ci rivedremo nel salotto di Barbara d’Urso". Sull'eventualità di una sua partecipazione al Grande Fratello Vip, Loredana prima si mostra categorica: "Ho sempre rifiutato, si immagina la mattina senza trucco?". Ma poi sembra lasciar spazio alla possibilità di poter cambiare idea grazie alla nuova conduzione: "L’unica cosa che mi tenta è il fatto che lo conduca Alfonso Signorini perché ha un animo sensibile e riuscirebbe a tirare fuori il meglio di me [...] ma non so se avrei il coraggio di farlo". "È la prima volta che mi lascerei sfiorare dall’idea", aggiunge enigmatica la Lecciso.
Al Bano, morta la mamma 96enne. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. La mamma di Al Bano Carrisi, «donna» Jolanda, è morta all’età di 96 anni nella sua casa di Cellino San Marco a Brindisi, dove è nato e vive il cantante. Che era molto legato alla mamma, spesso aveva coinvolta in interviste e servizi televisivi girati nella tenuta di famiglia. Per Albano la mamma era la colonna portante della sua vita, tanto da averla definita «la migliore donna e mamma del mondo». I funerali si terranno mercoledì alle 16.00 nella chiesa madre di Cellino San Marco.
Andrea Parrella per fanpage.it il 10 dicembre 2019. Lutto per il cantante Albano Carrisi: si è spenta a 96 anni a Cellino San Marco mamma Jolanda. A riportare la notizia del decesso della donna, legatissima al figlio e da sempre sua sostenitrice accanita, è il Quotidiano di Puglia. Il cantante di Cellino aveva più volte omaggiato pubblicamente la donna, descrivendola come un perno assoluto per la sua vita. Il cantante aveva dedicato alla madre un libro dal titolo "Madre mia, l'origine del mio mondo", piuttosto evocativo del tipo di rapporto che legava l'artista a sua madre.
I funerali l'11 dicembre a Cellino. L'annuncio della scomparsa della donna, che più volte Al Bano aveva portato in televisione, è stato dato anche a La Vita in Diretta. I conduttori del programma hanno inoltre aggiunto che il cantante, diretto in Albania per impegni di lavoro, è stato prontamente avvisato da suo fratello ed è diretto in questo momento in Puglia. I funerali si terranno domani, mercoledì 11 dicembre alle 16, naturalmente a Cellino.
Il forte legame tra Al Bano e sua madre Jolanda. Jolanda ha avuto grande influenza sulla vita di Al Bano. In un'intervista rilasciata nelle settimane di presentazione del libro dedicato alla madre, il cantante di Cellino aveva confidato anche un aneddoto sul primo litigio con lei: Il nostro primo scontro avvenne quando mollai la scuola e decisi di tentare la fortuna come cantante, al Nord. La capisco: mi sognava maestro, con un posto fisso, e io andavo lontano a fare non si sa cosa. Le dissi che lavoravo al Comune di Milano, invece facevo il cameriere. Quando un cellinese di passaggio fece la spia scoppiò un putiferio.
Le divergenze con Loredana Lecciso. Un'influenza, quella della madre Jolanda, che avrebbe avuto forte peso anche sulle vicende sentimentali di Al Bano. Fu proprio lui a raccontare che nella turbolenta relazione tra la Lecciso e Al Bano, Jolanda avesse sempre preso le parti del figlio. Negli anni 2000, dopo che Loredana lasciò il cantante in diretta tv, mentre lui era all'Isola dei Famosi, si scatenò un immenso fenomeno mediatico sulla coppia. Nonostante i due siano poi tornati insieme, il rapporto tra la Lecciso e la suocera nonera mai stato più recuperato: Dopo quell'intervista in cui Loredana dichiarò che voleva lasciarmi, mia madre non le ha più rivolto la parola. È una leonessa: chi ferisce suo figlio non ha scampo….
Mamma Jolanda adora invece Romina Power. Ben diverso il rapporto tra la signora e Romina Power, moglie di Al Bano dal 1970 al 1999 (il divorzio è stato ufficializzato nel 2012). Inizialmente faticò ad accettare l'amore tra l'adorato erede e l'americana figlia di Tyrone Power e Linda Christian. Poi, a detta di Al Bano, tra le due nacque uno splendido legame: Figuriamoci. Provi a immaginare una contadina, che non era mai stata più in là di Brindisi, di fronte alla figlia di due grandi attori di Hollywood. Divorziati, peraltro! “Questa avrà mille grilli per la testa”, pensava. Per cambiare idea le bastò incontrarla. Romina era una ragazza semplice, bisognosa di quella famiglia che non aveva mai avuto. Mia moglie si appoggiò a mia madre e Jolanda s’innamorò di lei.
Grave lutto per Al Bano: è morta la mamma. Il cantante ha appreso la notizia al telefono dal fratello, mentre si recava in Albania per lavoro e sta tornando precipitosamente in Puglia. Un dolore immenso per una donna a cui Al Bano aveva anche dedicato un libro. Roberta Damiata, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Si è spenta a 96 anni nella sua casa di Cellino San Marco “mamma Jolanda”, Jolanda Ottino, il cui vero nome era Lolanda, mamma del cantante Al Bano e vero cardine della famiglia Carrisi. Una donna amatissima da tutti a cui il cantante era molto legato. Le condizioni di salute dell’anziana signora si erano aggravate negli ultimi giorni fino alla morte avvenuta nel pomeriggio. Una donna d’altri tempi la signora Jolanda che a gennaio avrebbe compiuto 97 anni. Era stata proprio lei a spingere il figlio a intraprendere la carriera di cantante e ad esserne poi fiera per il grande successo che lo ha fatto diventare uno dei cantanti italiani più amati nel mondo. Nella tenuta di Cellino San Marco dove si producono olio e vino delle “tenute Albano” dopo la morte di Don Carmelo, era diventata lei il vero punto di riferimento della famiglia. Con lei infatti sono cresciuti i figli di Al Bano avuto dal matrimonio con Romina Power, ma anche quelli avuti dalla seconda unione con Loredana Lecciso. Proprio alla mamma che adorava, il cantante aveva dedicato il libro: “Madre mia, l’origine del mio mondo”, e non c’era momento che Al Bano non ricordasse il grande valore che questa donna minuta ma fortissima aveva avuto nella sua vita. Uno dei capitoli più intensi del libro ricorda del loro primo scontro: “Avvenne quando mollai la scuola e decisi di tentare la fortuna come cantante, al Nord. La capisco: mi sognava maestro, con un posto fisso, e io andavo lontano a fare non si sa cosa. Le dissi che lavoravo al Comune di Milano, invece facevo il cameriere. Quando un cellinese di passaggio fece la spia scoppiò un putiferio”. Ma non solo, anche in vari speciali televisivi che ripercorrevano la lunga carriera artistica del cantante, si era spesso lasciato andare ad alcuni ricordi di: “Una donna che ha affrontato cose molto più grandi di lei”. La notizia del decesso è stata data oltre che da alcuni quotidiani locali anche dalla trasmissione “La Vita in Diretta”. Nelle poche notizie che si riesce ad avere al momento sembra che Al Bano in questo momento era diretto in Albania per impegni di lavoro, ma avvisato del fratello sta tornando a casa in Puglia. I funerali si svolgeranno domani pomeriggio nella chiesa madre di Cellino San Marco, in piazza Moro. In mattinata la camera ardente sarà allestita nella chiesetta delle "Tenute Carrisi".
Romina Power assente al funerale della mamma di Al Bano. Romina Power spiega perchè sarà assente ai funerali di donna Jolanda, l'amata suocera scomparsa nella giornata di ieri, 10 dicembre. Luana Rosato, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. Oggi si terranno i funerali di donna Jolanda, la mamma di Al Bano Carrisi scomparsa ieri, 10 dicembre, e grande assente sarà Romina Power. Ad anticipare la mancata partecipazione ai funerali della suocera è stata proprio la ex moglie del cantante di Cellino San Marco che, dopo aver condiviso con i suoi follower il dolore per la perdita di una persona che aveva tanto amato come donna Jolanda, ha espresso anche il suo grande rammarico per l’impossibilità di essere presente all’estremo saluto. Una scelta, quella di Romina, dovuta ad una serie di situazioni, fisiche e personali, che le hanno impedito di volare in Puglia per salutare per l’ultima volta l’amata suocera. Postando su Instagram uno scatto tenero che la ritrae abbracciata e sorridente a donna Jolanda, la Power ha spiegato che le due si sarebbero dovute incontrare in occasione del compleanno della mamma di Al Bano, l’1 gennaio prossimo, ma il destino ha voluto che venisse celebrato prima il funerale della signora. “Avevo programmato di passare il compleanno di mamma Yolanda insieme a lei, il 1 gennaio. Ma non il suo funerale oggi, no – ha esordito Romina Power, che con la suocera era sempre rimasta in ottimi rapporti nonostante la fine del matrimonio con Al Bano - .Sono vari i motivi per cui mi trovo impossibilitata a recarmi oggi a Cellino ed unirmi alla famiglia nella solenne funzione. Una delle quali il non poter camminare”. La Power, dunque, pare abbia dei problemi fisici che le impediscono di essere presente al funerale di donna Jolanda e, consapevole di come questa assenza possa essere spiegata e strumentalizzata dai media, ha preferito dare lei personalmente le motivazioni di ciò che è avvenuto. “Conoscendo quanto i mezzi di comunicazione siano, in altre occasioni, andati oltre i limiti del rispetto umano e fuori controllo, devo confessare che ne sono rimasta alquanto traumatizzata. E questo momento di grande dolore preferisco viverlo in privato. Ognuno vive il proprio dolore a modo suo – ha aggiunto ancora l’americana - .Ciò non significa che io la ami di meno, essendo lei una delle persone che ho amato di più nella mia vita! Mi unisco comunque spiritualmente agli abitanti di Cellino, alla famiglia, ai miei figli e soprattutto ad Albano che è stato un figlio amorevole ed esemplare. E passerò comunque con lei queste due date importanti pregando e meditando affinché abbia una favorevole reincarnazione”.
Il dolore di Romina Power per la suocera: "Mamma Jolanda mi ha accolto come una figlia". La scomparsa della madre di Albano ha colpito profondamente la cantante italo-americana, che sui social ha dedicato parole di stima e affetto all'ex suocera. Novella Toloni, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. Il recente lutto che ha colpito la famiglia Carrisi ha toccato profondamente Romina Power. La morte della madre di Albano Carrisi, mamma Jolanda, ha gettato nello sconforto l'intera famiglia del cantante che, sui social, ha dedicato parole d'affetto alla donna. Prima Cristel, poi Yari e infine Romina, tutti le hanno dedicato parole d'amore affidandole al web. Jolanda Ottimo si è spenta all'età di 96 anni nella sua casa di Cellino San Marco a causa di complicanze dovute all'età. Albano Carrisi ha appreso la notizia mentre si trovava all'estero ed è rientrato immediatamente, dopo la telefonata del fratello che lo avvertiva della morte dell'anziana madre. Personaggio forte e centrale della famiglia, la signora Jolanda aveva un ottimo rapporto con l'ex nuora, Romina Power, con la quale Al Bano è stato sposato dal 1970 al 1999. Proprio per ricordare questo forte legame che le univa, la cantante italo-americana ha voluto scrivere un messaggio sui social in suo onore. Nelle ultime ore la Power ha pubblicato sul suo account Instagram due vecchie fotografie che la ritraggono insieme alla suocera, dedicandole frasi struggenti: "Mamma Jolanda, mi hai accolta come una figlia ed io te ne sarò eternamente grata. Vivrai per sempre nel mio cuore". Romina Power ha ricordato come, negli anni '70, la mamma di Albano la accolse in famiglia. L'amore con il cantante di Cellino era appena sbocciato e la coppia viveva un momento d'oro, supportata anche dall'affetto incondizionato della donna. "Così per sempre. Non si muore mai quando si vive nel cuore di qualcuno", ha scritto Romina in un altro post sempre su Instagram. Anche se il matrimonio con Al Bano è naufragato e il loro rapporto è stato pieno di luci e ombre, tra Romina Power e Jolanda Ottimo l’affetto è sempre rimasto grande e immutato nel tempo, anche dopo il divorzio dei due cantanti. Lo testimoniano gli scatti recenti delle due donne che si abbracciano, segno di un legame profondo che le univa. La scomparsa della donna è un nuovo duro colpo per la cantante 68enne, che da mesi tiene alta l'attenzione mediatica sulla figlia Ylenia, che secondo lei potrebbe essere ancora viva.
Romina Power dice addio all'ex suocera: "Per sempre nel mio cuore". In due nuovi post pubblicati su Instagram, Romina Power ha detto addio a Jolanda Ottino. La madre di Al Bano Carrisi è venuta a mancare lo scorso 10 dicembre. Serena Granato, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. La famiglia Carrisi vive ore difficili. Lo scorso 29 novembre è ricorso il compleanno di Ylenia Carrisi, la figlia che Albano Carrisi ha avuto dalla sua unione con Romina Power e che, 25 anni fa, scompariva a New Orleans. E ora i Carrisi sono di nuovo al centro dell'attenzione mediatica, per via di un grave lutto subito dal cantante Al Bano, originario di Cellino San Marco. Nelle ultime ore giungono ovunque, specialmente sui social, messaggi di cordoglio da parte di chi si stringe al dolore provato da Al Bano e i suoi cari, per la morte della madre del cantante, la signora Jolanda Ottino. Oltre alle sentite condoglianze riportate in rete dai sostenitori della famiglia Carrisi, si leggono, intanto, anche le parole scritte su Instagram dall'ex moglie di Al Bano, Romina Power.“Mamma Jolanda, mi hai accolta come una figlia -si legge nello struggente messaggio pubblicato dalla cantante Power, che ha così parlato ai follower dell'ex suocera, spentasi il 10 dicembre all'età di 96 anni -. E io ne sarò eternamente grata. Vivrai per sempre nel mio cuore”. Al messaggio in questione, riportato dalla Power nella descrizione di una foto condivisa su Instagram - che ritrae la cantante mentre abbraccia teneramente l'ex suocera- è poi seguito un nuovo post di Romina, contenente un altro scatto che immortala la Power insieme alla compianta familiare. “Così per sempre -sono le parole, che la cantante ha scritto a corredo della seconda foto-ricordo condivisa con il web, per ricordare Jolanda -. Non si muore mai, quando si vive nel cuore di qualcuno“. E i due post pubblicati da Romina Power sul suo profilo Instagram hanno, in poco tempo, fatto incetta di cuori."Le mie più sentite condoglianze per te e per la tua famiglia", è la traduzione di un messaggio di cordoglio in inglese, che un utente ha riportato sotto il penultimo post della cantante statunitense.
La vita in diretta lancia la notizia della morte della mamma di Al Bano Carrisi. A lanciare in tv la notizia della scomparsa di Jolanda Ottino sono stati, per primi, i conduttori de La vita in diretta, Lorella Cuccarini e Alberto Matano. “Purtroppo è morta la madre di Al Bano Carrisi -hanno fatto sapere nella giornata di ieri, i due noti volti televisivi-. Sapete, la signora Jolanda, che è stata una grande donna ed ha accompagnato Al Bano in tutta la sua vita”. Nell'ultima puntata de La vita in diretta, i due conduttori Rai hanno fornito alcune indiscrezioni circa il lutto che ha colpito la famiglia Carrisi, in un collegamento con il giornalista Vincenzo Sparviero della Gazzetta del Mezzogiorno. Quest'ultimo, ieri, dichiarava: “Al Bano è stato informato dal fratello Franco e sta tornando da Roma, dove doveva imbarcarsi per l’Albania, per un impegno professionale. Jolanda Ottino, la moglie di don Carmelo e madre di Al Bano e Franco, si è spenta nella tenuta di Cellino, proprio sotto la casa di Al Bano. I funerali si svolgeranno mercoledì 11 dicembre alle ore 16, nella chiesa di Cellino e ovviamente la notizia si è subito diffusa nel paese, tra le persone più vicine alla famiglia Carrisi”.
Da ilmessaggero.it" il 12 dicembre 2019. Al Bano, dolore ai funerali della mamma Jolanda, morta martedì 10 dicembre all'età di 96 anni. Presenti centinaia di persone tra i concittadini e tanti altri accorsi dalle città vicine. Addoloratissimo Al Bano. In una chiesa gremita e vietata ai fotografi, Al Bano ha cantato per l'ultimo addio alla mamma Jolanda Ottino. Un'esibizione struggente, accompagnata dalle lacrime di molti amici e parenti. Il rito funebre è stato celebrato da monsignor Renna nella chiesa dei Santissimi Marco e Caterina a Cellino alla presenza di tutti i componenti della famiglia Carrisi. Romina Power assente. Romina Power scrive così su Instagram: «Avevo programmato di passare il compleanno di mamma Yolanda insieme a lei, il 1 gennaio. Ma il suo funerale oggi, no. Sono vari i motivi per cui mi trovo impossibilitata a recarmi oggi a Cellino ed unirmi alla famiglia nella solenne funzione. Una delle quali il non poter camminare. Conoscendo quanto i mezzi di comunicazione siano, in altre occasioni, andati oltre i limiti del rispetto umano e fuori controllo, devo confessare che ne sono rimasta alquanto traumatizzata. E questo momento di grande dolore preferisco viverlo in privato. Ognuno vive il proprio dolore a modo suo. Più nella mia vita ! Mi unisco comunque spiritualmente agli abitanti di Cellino, alla famiglia, ai miei figli e sopratutto ad Albano che è stato un figlio amorevole ed esemplare. E passerò comunque con lei queste due date importanti pregando e meditando affinchè abbia una favorevole reincarnazione». Jolanda Ottino, Yari: per tutti noi un grande esempio. «Penso che lei sia stata un bell'esempio. Una persona dalla grande dignità che con la sua semplicità ha rispettato la sacralità della sua terra. Negli anni '80 quando mio padre e mia madre erano in giro per il mondo, è stata anche genitore per me e i miei fratelli. Devo ringraziare tutti per i tanti messaggi di affetto che stiamo ricevendo, significa che la nonna, con la sua semplicità ha lasciato veramente un segno». A dirlo è Yari, uno dei figli di Albano Carrisi, parlando con i giornalisti dinanzi alla camera ardente della nonna paterna, Jolanda Ottino, scomparsa ieri all'età di 96 anni. Jolanda Ottino, il ricordo di Loredana Lecciso. «Nonna speciale!» e un cuore rosso accanto. Così Loredana Lecciso su instragram rompe il silenzio sul lutto che ha colpito Al Bano e pubblica una foto presa dall'album di famiglia che la ritrae con la mamma e il padre del cantante, Jolanda Ottino, scomparsa ieri a 96 anni, e Carmelo Carrisi. Nella foto i due tengono in braccio uno dei due figli della coppia. I funerali della mamma di Al Bano si terranno oggi pomeriggio a Cellino San Marco. Mentre ieri Romina Power aveva subito pubblicato un omaggio alla mamma di Al Bano, l'assenza di un ricordo da parte della Lecciso aveva suscitato ieri diverse critiche sui social.
Cellino, tutta la città stretta intorno alla famiglia Carrisi dopo la scomparsa di «donna Iolanda». L'ultimo saluto alla mamma di Al Bano nella chiesa Madre. Federica Marangio su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Dicembre 2019. Tanta gente, in quella chiesa, non si vedeva dal 26 luglio 1970. Allora, però, dominavano applausi e sorrisi per il matrimonio dell’anno: quello tra il cantante del Sud e la figlia dei divi americani. Ieri, solo lacrime per Iolanda, la mamma di Al Bano, che nei suoi 96 anni di vita ha avuto modo di farsi apprezzare e amare non solo perché madre di uno dei cantanti più popolari e apprezzati del mondo ma anche perché con la sua semplicità aveva conquistato tutti: vip e gente comune. È questa solo una delle ragioni per cui ieri la chiesa matrice di Cellino era stracolma, nonostante il cattivo tempo (non c’era però Romina Power, bloccata da un guaio fisico, né Loredana Lecciso che aveva salutato la salma nella cappella di famiglia). Tutti a manifestare vicinanza ad Albano, al fratello Franco e ai nipoti ma anche a tributare il giusto saluto ad una donna che ha avuto un ruolo fondamentale nella vita del cantante. Ed è a lei che pochi attimi prima della benedizione Al Bano ha rivolto un saluto speciale, dedicando nella Chiesa di colpo muta, sebbene le centinaia di presenze, una canzone. «Amica mia di sempre, madre mia, stasera voglio restare solo con te che mi hai scolpito uomo sulla terra, con te che hai coltivato il seme della vita, con te che nutri i giorni miei con il tuo sorriso, con te il mio domani è sempre acceso. E se tu vuoi stasera andremo insieme verso il mare, tu chiamerei le stelle ad una ad una e poi noi pregheremo insieme sotto la luna e poi la ninna nanna che cantavi tu…». Tra l’emozione e le lacrime sono esplosi ripetuti applausi quando il celebrante, Monsignor Luigi Renna che ha fatto le veci di don Luca, parroco della chiesa madre momentaneamente a Roma per una missione, ha così commentato «eravamo già commossi, adesso ci uniamo al dolore della famiglia Carrisi anche attraverso il canto, un dono che, caro Al Bano, utilizzi egregiamente anche in questa circostanza». A volte, concludendosi un funerale, c’è chi legge una poesia, chi racconta della vita di chi ci ha lasciato con parole e discorsi. Ieri, Al Bano, ha come per un attimo sospeso la celebrazione in un’altra dimensione e, cantando con lui, al ritmo di quella dolce ninna nanna per Iolanda, ci si è stretti attorno ad un dolore inimmaginabile. È accorsa tutta Cellino e non solo. Oltre ai parenti più stretti, agli amici, ai curiosi accorsi a fare due foto, ai giornalisti di testate locali e tv anche nazionali, c’era tantissima gente che schivava i riflettori, ma era giunta a porgere l’estremo saluto a Iolanda, donna «sempre laboriosa, che con semplicità di tratto e di parole, è stata sposa, madre, nonna attenta, sempre disponibile, solerte, vigile, garbata e mai sopra le righe» come definita dal sacerdote durante l’omelia. «Una donna che ha amato immensamente i suoi figli e ha ricevuto da loro lo stesso amore» ha sottolineato l’imprenditore Massimo Ferrarese, tra le prime file in chiesa, il quale ha precisato che «scavare nei cassetti della memoria alla ricerca di un ricordo particolare è difficile. Ne ho tanti, che conservo con affetto. A me che frequento assiduamente la sua casa ha preparato il pranzo tante volte, gesto che si riserva alle persone di cui ci si prende cura. E lei cucinava sempre per tutta la famiglia, aggiungendo con disinvoltura un posto a tavola».
I funerali di mamma Jolanda, Al Bano le dedica una canzone in chiesa. In chiesa, vietata ai fotografi, Al Bano ha cantato una canzone dedicata alla madre. Romina aveva spiegato di essere impossibilitata a recarsi a Cellino San Marco, sottolineando il suo dolore. La Voce di Manduria mercoledì 11 dicembre 2019. Si sono svolti oggi pomeriggio, mercoledì 11 dicembre, a Cellino San Marco, i funerali di Jolanda Ottino, la madre di Al Bano. Aveva 96 anni. Il rito funebre celebrato da monsignor Renna, si è svolto nella chiesa madre dei Santissimi Marco e Caterina a Cellino alla presenza di tuti i componenti della grande famiglia Carrisi, di artisti e di una folla numerosissima di amici e conoscenti cellinesi e da ogni parte d'Italia (se ne contano più di tremila). In chiesa, vietata ai fotografi, Al Bano ha cantato una canzone dedicata alla madre. Tra i parenti era assente Romina Power. La cantante ieri aveva spiegato di essere impossibilitata a recarsi a Cellino San Marco, sottolineando il suo dolore per la scomparsa della donna a cui è stata sempre molto legata. Inoltre ha speso parole di stima per l’ex Albano, con il quale, nell’ultimo periodo, ha ricucito i rapporti sia professionali sia umani. Nelle scorse ore, sui social, anche l’altra ex celebre di Albano, Loredana Lecciso, ha dedicato un pensiero a mamma Carrisi, solo due parole scritte sui social nel giorno dell’addio: “Nonna speciale” aggiungendo un cuore rosso.
Al Bano in tv dopo il lutto: il duetto con Simona Ventura in diretta. Laura Pellegrini il 15/12/2019 su Notizie.it. Dopo la morte di mamma Jolanda, Al Bano torna in televisione e si esibisce in un duetto in diretta con Simona Ventura. A pochi giorni dalla morte della mamma Jolanda Carrisi, Al Bano torna in televisione e si esibisce in un duetto in diretta con Simona Ventura. Negli studi di Settimana Ventura, infatti, il cantante ha ripercorso la sua carriera guidato dalle domande dell’amica e conduttrice. Poi, in diretta ha deciso di duettare con Simona, lasciandosi alle spalle il dolore dei giorni precedenti. L’esibizione ha fatto emozionare il pubblico ed è balzata sui social a ritmo crescente.
Al Bano e Simona Ventura. “Se alla terra dai, la terra ti darà” ha esordito co queste parole Al Bano ai microfoni del programma condotto da Simona Ventura su Rai2. Dopo l’ingresso in studio a Settimana Ventura, la conduttrice e amica del cantante ha iniziato a ripercorrere il suo passato e la sua carriera costellata da enormi successi. La giornalista Maria Barresi ha raccontato dei primi lavoretti di Al Bano nel capoluogo milanese: da cameriere a imbianchino, fino ad essere uno dei cantanti più apprezzati in Italia. Al Bano è arrivato a Milano a 17 anni, “senza alcun sostegno”. “Non fu facile – ha spiegato il 76enne -, ma non mi lasciai prendere dallo sconforto nei quattro anni in cui tirai avanti facendo tanti lavori e cominciando comunque a pensare e a scrivere canzoni ispirandomi ai canti tradizionali delle campagne pugliesi”. Le sue prime esibizioni gli fruttavano appena 25mila lire al mese. Ma poi è arrivato il successo grazie alle case discografiche. Tra le tante offerte di lavoro, però, Al Bano ricorda di aver rifiutato quella di spacciatore (“Papà mi aveva messo in guardia” ha spiegato).
La morte di mamma Jolanda. Mamma Jolanda lo ha lasciato all’età di 96 anni il 10 dicembre scorso, ma a breve ne avrebbe compiuti 97. Al funerale il cantante si è commosso quando il figlio ha proposto alcune delle sue canzoni. Inoltre, alla madre aveva dedicato un documentario e un libro: “Madre mia, l’origine del mio mondo“. Non è esclusa la possibile partecipazione del cantante a Sanremo, stavolta però senza Romina.
Al Bano di nuovo in tv, è la prima volta da quando è morta la mamma: ma c'è qualcosa che non torna. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Al Bano Carrisi è stato ospite a Settimana Ventura di Simona Ventura. Il cantante di Cellino San Marco è tornato per la prima volta in televisione dopo la morte di mamma Jolanda. Molti si sarebbero aspettati le parole di Al Bano sulla mamma nella sua prima apparizione in televisione dopo la grave perdita, invece così non è stato. Simona ha parlato di tutto, dall’arrivo a Milano al tifo per il calcio fino a Sanremo e l’avventura all’Isola dei famosi. Nessun accenno all'adorata mamma Jolanda, venuta a mancare pochi giorni fa. Questa è apparsa come una chiara scelta da parte del cantante, ovvero non parlare del lutto durante questa intervista a Settimana Ventura. Oppure è stata proprio la conduttrice ad assicurare al suo ospite che non avrebbe fatto domande sulla madre.
Oppure, spunta un'altra spiegazione: forse l'intervista è stata registrata e risale a prima che la mamma morisse. La cosa sarebbe plausibile.
Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 17 dicembre 2019. Dopo la morte di mamma Jolanda a 96 anni, Albano ha deciso di tornare in tv come ospite di Simona Ventura. Alla “Settimana Ventura“, la trasmissione in onda la domenica mattina su Rai2, si è scelto però di dare spazio alla sua vita, al suo lavoro ma anche ad aneddoti mai raccontato che hanno strappato un sorriso: “Quando facevo il cameriere certa gente mi diceva "Potresti dare delle bustine a chi ti dico io e potresti guadagnare molto di più". Ma risposi che io con 25 mila lire al mese stavo benissimo, non avevo bisogno d’altro”, ha rivelato il cantante di Cellino San Marco. “Mi proponevano droga da portare ai loro clienti cosa che non ho accettato. E’ la fortuna di avere una famiglia solida alle spalle. Ho sempre scelto la strada della positività”, ha aggiunto l’artista pugliese che fin da giovanissimo aveva come mito Domenico Modugno: “Quando vidi Domenico Modugno che vinceva a Sanremo con ‘Nel blu dipinto di blu’ dissi anche io un giorno sarò lì. Leggevo tutto ciò che riguardava Modugno, ho copiato alla lettera il suo fare. E mi è andata bene”. Anche il suo nome è finito da settimane nel totonomi di Sanremo 2020, addirittura in coppia con Romina Power. Il rapporto con l’ex moglie e con Loredana Lecciso alla ricerca di un equilibrio per la serenità dei figli: “Sono due donne belle e anche intelligenti. Bisogna stare attento che non ti innamori solo della bellezza ma anche dalla forza dell’intelligenza. Essendo un uomo di pace, io vorrei sempre e solo serenità non solo intorno a te, ma nella società, in giro per il mondo. Lavoro affinché ci sia serenità attorno a me”, ha concluso Carrisi.
I fusilli a casa Carrisi. «Mio papà Al Bano? In cucina lui è meglio di mamma». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Elvira Serra, inviata a Cellino San Marco, su Corriere.it. Per telefono chiede al giardiniere Nocita di portargli su pomodori, basilico e prezzemolo. Riempie una pentola d’acqua, aggiunge foglie di alloro e olio, e mette a bollire. Intanto sminuzza l’aglio direttamente sul ripiano di ulivo. Nocita arriva con gli ortaggi, il padrone di casa affetta pure quelli, senza lavarli: viene tutto dall’orto, l’unico fertilizzante è il Sole. Chiede all’ospite di scegliere la pasta: fusilli integrali fatti a Napoli. Affida a «Bido» il compito di apparecchiare. Albano senior e Albano junior sono come non te li aspetti. Quasi timidi, ospitali, attenti a cercare il registro adatto a questa conversazione intorno al tavolo con vista sulle Tenute di famiglia, a Cellino San Marco, 12 chilometri dall’Adriatico e 24 dallo Ionio, 150 ettari di terra con 3.500 alberi di ulivo, boschi e vigne da cui si ricavano, tra gli altri, il Felicità con cui il padrone di casa, con borsalino di paglia sempre in testa, ha condito il sugo, e il Platone con cui pasteggiamo (è un Primitivo e Negroamaro premiato nel 2009 come «Miglior vino del mondo» tra quelli prodotti dai «vip»). Jasmine, l’altra figlia avuta come Bido da Loredana Lecciso, diserta la tavola: sta dormendo. «A che ora è tornata?», sonda il padre. «Non tardi», evade il figlio. Cominciamo dal soprannome: perché Bido? «Mia sorella da piccola non riusciva a dire bimbo. E così è rimasto, anche per gli amici». Albano Junior ha sedici anni e mezzo, a settembre comincia il quarto anno del liceo linguistico di Lecce, è appena stato promosso con la media del 7. «Minimo sforzo, massimo risultato», chiosa e precisa: «Non ho mai preso debiti». Il papà abbozza: «Potrebbe studiare di più...». Ma sull’università non transige. Il figlio: «Dopo la maturità lavorerei subito: voglio fare il manager delle nostre tenute, seguire il vino, l’accoglienza...». Il padre: «Non se ne parla, tu farai Economia, non voglio fare con te lo stesso errore di Yari...». I toni però restano affettuosi. E Bido va avanti: «D’estate lavoro qui, affianco il manager». Al comando, senza gavetta... «Ma no, l’anno scorso ho imbottigliato il vino per un mese», replica. «Non erano due giorni?», rimbecca il padre. Approfittiamo di quando il più anziano si alza per il bis (o il tris?) della pasta squisita e chiediamo a Bido se è difficile avere un papà così esposto. «Non so come sia essere figlio di un altro. Il lavoro di mio padre è sempre stato questo, in mezzo alle persone. Quando usciamo, anche qui nella tenuta, vedo come si rapporta con gli altri: mi piace la sua semplicità, l’umiltà, la gentilezza. Ecco, forse non vorrei essere disponibile come lui, perché a volte è troppo... Quando gli sconosciuti lo cercano per chiedergli aiuto, non si tira mai indietro». Guarda caso, ricorda come uno dei momenti più belli spesi insieme quel viaggio di una settimana ad Abu Dhabi. «Non era proprio una vacanza, perché doveva lavorare. Ma eravamo solo io e lui, lo avevo tutto per me, ogni giorno facevamo qualcosa, siamo andati a Dubai, in spiaggia, sul Burj Khalifa...». Il papà, invece, ricorda quella volta a Malibu, Bido piccolino, che avevano dormito nello stesso letto in tre, anche con Jasmine. «Lui mi ha tirato così tanti calci che sono dovuto scendere al piano di sotto e sdraiarmi per terra!». Junior ha fatto conoscere a Senior le canzoni del rapper Ghali. E lo ha trascinato a un concerto del deejay Martin Garrix. «Certi artisti mi sembrano blasfemi...», commenta il padre. «Ma no, sei tu che non li capisci...», dice il figlio. E ancora non si sono intesi su Instagram. «Che belli i miei tempi quando non c’era nemmeno il telefonino», sospira uno. E l’altro: «Ma papà, oggi anche le notizie passano dai social!». Le due generazioni si riavvicinano quando si parla del guardaroba. Spiega Bido: «Ogni tanto mi metto qualche vestito che lui non usa più: magari una bella camicia, una giacca...». Il papà guarda e sorride. E quando il figlio si alza per sparecchiare ammette: «È bello essere padre di un adolescente così coscienzioso e maturo. Da piccolo aveva un carattere più aperto: una volta fece così tante battute che il maestro Alterisio Paoletti se le volle scrivere tutte!». Bido è troppo educato per dirlo, ma si capisce che frigge. Prima di liberarlo gli chiediamo un voto alla pasta del padre: «Otto. Cucina meglio di mamma». La sera gli dà sempre il bacio della buonanotte. Il papà è felice.
Anticipazione stampa da “Oggi” il 16 ottobre 2019. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, rivela alcuni retroscena della tournèe di Al Bano e Romina in Australia. Davanti a quasi 4 mila persone, alla Margaret Court Arena di Melbourne, la coppia si è esibita introdotta dal figlio Yari, alla chitarra, e con la figlia Romina jr come improvvisata corista: «Di norma ho quattro coriste», commenta Al Bano, «ma tre purtroppo hanno dato forfait per vari motivi personali, e Romina Jr. è arrivata in supporto debuttando come cantante e cavandosela egregiamente. Questo lo dico da spettatore, non da papà». A una fan che li ha invitati a tornare insieme anche nella vita, Al Bano ha risposto: «Ma fosse stato per me non l’avrei mai lasciata, Romina: è stata lei ad andarsene…». E sulla possibilità di una loro partecipazione a Sanremo aggiunge: «Esistono effettivamente due canzoni che giacciono in un cassetto da tempo... Nessuna delle due però è stata presentata ufficialmente al Festival. Dove io in gara fra l’altro non voglio più tornare. Al limite potrei anche presentarmi all’Ariston, ma solo se mi inviteranno fra gli ospiti d’onore».
Marina Lanzone per ilgiornale.it il 16 ottobre 2019. "Al Bano e Romina? Insieme non li rivedrete mai più". Questa affermazione rischia di spazzare via secoli di ipotesi e speranze riguardo una delle coppie più amate e seguite della televisione italiana. E chi è stata a pronunciarla? Proprio Loredana Lecciso. A riferilo nel corso della puntata di martedì 15 ottobre di Mattino 5 è stato il direttore di Nuovo, Riccardo Signoretti. Ospite di Federica Panicucci, Riccardo Signoretti ha parlato del numero del suo giornale già in edicola e ha svelato questo piccolo retroscena. Loredana Lecciso, infatti, ha deciso di aprire il suo cuore e di "raccontarsi" a Nuovo. "Loredana Lecciso di solito si arrampica sugli specchi rispondendo con altre domande, ora invece si è aperta", ha detto il giornalista, soddisfatto del suo lavoro. E puoò dirlo forte. La Lecciso, infatti, ha speso parole per Al Bano e Romina mai dette prima. In questa lunga chiacchierata, quindi, Loredana Lecciso è tornata a parlare di Al Bano. I due, nonostante si siano lasciati ormai da qualche tempo, sono in ottimi rapporti. Tra loro la stima e l'affetto è davvero invidiabile e tutto questo non può che fare bene ai loro figli. Ma ora arrivano queste parole di Loredana. Parole inaspettate. Questo pezzo è stato aggiornato alle 12.35 del 16 ottobre in quanto pubblicato erroneamente attribuendo le frasi a Romina Power.
Loredana Lecciso e la figlia Jasmine Carrisi, foto dietro le quinte di Live - Non è la D'Urso: tsunami social. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. La foto fa il pieno di like in poco tempo. Loredana Lecciso e sua figlia Jasmine Carrisi sono belle come il sole. Sembrano sorelle. Lo scatto, realizzato dietro le quinte di Domenica Live, diventa subito virale. Loredana, che il pubblico ha apprezzato qualche settimana fa al “Live non è la d’Urso”, sta vivendo un momento di forte popolarità in televisione. Tra l’altro, ai follower non sono sfuggite le foto con Al Bano (alcune scattate in auto) dove si nota una certa complicità. A tratti sospetta. E’ bastato questo particolare ai fan per riaccendere la miccia di un gossip mai sepolto. Anzi, mai spento. Al Bano e Loredana sono tornati insieme? E’ questa la domanda da “cento milioni di dollari”. Loredana, proprio nello show del lunedì sera della d’Urso, si è raccontata senza filtri parlando di un rapporto di grande complicità, stima e affetto con Carrisi. Insomma, un rapporto invidiabile che piace a tutti. Tra l’altro Al Bano e Loredana hanno due figli (Jasmine e Bido) e la loro storia d’amore, durata circa 20 anni, ha fatto sognare il pubblico. Adesso il loro sembrerebbe un rapporto di vera e pura simbiosi. Almeno questo è quello che giunge alle nostre orecchie indiscrete. E pare che Loredana sembra sia diventata la regina di Cellino, da sempre quartier generale di Al Bano.
Mattino 5, Romina Power e la pietra tombale su Al Bano Carrisi: "Non ci vedrete mai più insieme". Libero Quotidiano il 15 Ottobre 2019. Fine dei giochi. Cala il sipario. Si spegne per sempre la luce su Al Bano Carrisi e Romina Power. L'ultima roboante conferma arriva direttamente da Romina, le cui anticipazioni al settimanale Nuovo sono state anticipate dal direttore, Riccardo Signoretti, nel corso dell'ultima puntata di Mattino 5: "Al Bano e Romina insieme non li vederete più". Questa l'anticipazione di un'intervista data dalla cantante al rotocalco. Signoretti ha dunque aggiunto: "Romina di solito si arrampica sugli specchi, rispondendo con altre domande, ora invece si è aperta". E avrebbe messo una pietra tombale sul suo rapporto con Carrisi. Non è chiaro, però, se il riferimento della Power sia al rapporto sentimentale o a quello lavorativo, oppure a tutti e due. Eppure, da tempo si sussurra che i due potrebbero presentarsi assieme al Festival di Sanremo 2020: come stanno le cose, dunque?
Romina Power smentisce la notizia sulla rottura con Al Bano: “Tutte palle”. Romina Power, dopo aver letto la notizia riguardante una sua presunta rottura definitiva con Al Bano, smentisce via social e sbotta: "Non credete ad una sola parola". Luana Rosato, Mercoledì 16/10/2019, su Il Giornale. Solo qualche ora fa, ha iniziato a circolare in rete la notizia riguardante una presunta rottura tra Romina Power e Al Bano. Stando a quanto dichiarato da Riccardo Signoretti, direttore del settimanale Nuovo, a Mattino Cinque, Romina avrebbe rilasciato una intervista nella quale annunciava che i fan non l’avrebbero mai più vista accanto all’ugola di Cellino San Marco. “Romina di solito si arrampica sugli specchi, rispondendo con altre domande, ora invece si è aperta”, aveva dichiarato il direttore del settimanale di cronaca rosa ai microfoni di Federica Panicucci, lasciando di stucco i fan della coppia, ancora speranzosi di rivederli uno accanto all’altra e non solo per motivi di lavoro. A distanza di qualche ora dalla notizia che ha fatto da subito il giro della rete, Romina Power ha deciso di intervenire sui social per smentire categoricamente qualunque annuncio infondato che riguarda lei e l’ex marito. “Cosa mi tocca leggere sul web. Tutte palle!!! – ha sbottato la cantante, aggiungendo - . Non credete ad una sola parola!”. Per Romina e Al Bano, dunque, nessuna rottura in vista, anzi iniziano a diventare sempre più insistenti le voci secondo cui la coppia sarebbe pronta per un ritorno in grande stile alla 70esima edizione del Festival della Musica Italiana. Pare, infatti, che Amadeus stia lavorando per averli a Sanremo 2020, forte anche del fatto che Cristiano Malgioglio abbia scritto per loro una importante canzone.
Al Bano e Romina Power, la confessione choc sulla fine del loro matrimonio: di chi è stata la colpa. Libero Quotidiano il 10 Agosto 2019. La fine del matrimonio tra Al Bano e Romina Power è ancora un mistero. I due si sono allontanati dopo qualche mese la scomparsa della loro primogenita Ylenia Carrisi. Quest'ultima nel 1993 ha fatto perdere le sue tracce mentre si trovava in vacanza a New Orleans gettando nello sconforto i suoi genitori. Fino a qualche tempo fa si pensava che la causa della separazione fosse dovuta a questo. Ma in realtà le motivazioni sarebbero diverse. "È Romina che ha portato il germe della separazione nella famiglia Carrisi. Prima di allora nella mia famiglia non si sapeva cosa significasse la parola divorzio. È lì che è uscita l'americana che è in lei. Forse anche l'amata Cellino a lei stava stretta", ha dichiarato il 76enne. Nonostante l'allontanamento e la relazione del cantante con Loredana Lecciso, la ex coppia è tornata a cantare insieme. Infatti dopo un periodo di stop, la storica coppia si è esibita in Estonia.
Al Bano Carrisi, confessione straziante su Ylenia: "Perché ho dovuto chiedere scusa a Dio". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Ylenia Carrisi è scomparsa da 25 anni, ma i genitori non si vogliono ancora rassegnare. L'ultimo a parlare è stato Al Bano Carrisi, che racconta il suo strazio in un'intervista esclusiva pubblicata su Oggi. Il cantante di Cellino San Marco spiega: "Quando perdi una figlia in quella maniera, anzi in qualunque altra maniera succeda, ti chiedi perché proprio a me che sono un credente, che sono un cristiano?. In quei momenti di pazzia mentale non puoi evitare quei pensieri perché sono loro che ti aggrediscono", spiega Al Bano. E ancora: "Poi, improvvisamente, mi sono reso conto che stavo male due volte: la prima perché mi sentivo contro Dio, l’altra perché avevo perso mia figlia. Ancora quando ne parlo c’è qualcosa dentro di me che va in subbuglio. La cosa bella - rimarca - è quando ho chiesto scusa al Signore, quando ho chiesto scusa a Dio per questa mia reazione. Ho passato veramente un periodo nero. Poi proprio la fede, insieme alla musica, mi ha salvato da questo buio profondo", conclude un commosso Al Bano Carrisi.
Romina Power e l’appello per la figlia scomparsa, 25 anni dopo. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Valentina Santarpia. La cantante e showgirl, dopo 25 anni, ancora spera di riabbracciare la figlia Ylenia. Commovente l’appello su Instagram. Una mamma non dimentica mai. Romina Power, dopo 25 anni dalla scomparsa della figlia Ylenia, torna a lanciare un appello su Instagram, pubblicando una foto della ragazza e chiedendo a chiunque possa ravvisare le sue fattezze in un donna, che sarebbe ormai adulta, di contattarla. «Novembre è il mese in cui è nata Ylenia- scrive la showgirl e cantante- È scomparsa negli Stati Uniti nel gennaio 1994. Aveva 23 anni. Non ho mai perso la speranza di abbracciarla di nuovo. So che da allora deve essere cambiata, ma se qualcuno riconosce una donna che assomiglia a questa ragazza, per favore mi contatti». Ylenia, la primogenita di Romina Power di Al Bano Carrisi, si trovava a New Orleans nell’inverno del ‘94 per scrivere un libro che raccontare la vita e la carriera di un musicista del luogo, ma poco dopo è svanita nel nulla. Era con Alexander Masakela, un cornettista di 54 anni che aveva conosciuto con la famiglia Carrisi e di cui qualcuno ipotizza che la ragazza si fosse invaghita. Ylenia tornò a New Orleans il 30 dicembre e i suoi genitori la sentirono per l’ultima volta al telefono il 1 gennaio. Da quel momento sono state tantissime le ipotesi. Una testimonianza tra le più accreditate sosteneva che Ylenia Carrisi, drogata, si sarebbe suicidata lanciandosi nel Mississipi. Addirittura si è ipotizzato che fosse entrata in un programma di protezione testimoni e avesse quindi cambiato aspetto e nome, oppure che fosse stata ricoverata in una clinica svizzera in stato confusionale. Negli anni sono state fatte molte indagini e ipotesi ma della sua sorte non si è saputo più nulla. La morte presunta della giovane è stata dichiarata nel 2014 su istanza del padre. Nel 2018 la trasmissione «Chi l’ha visto» ha pubblicato la foto di lei come sarebbe a 48 anni.
Le figlie di Al Bano e Romina: "Per colpa della mamma non abbiamo più una casa". Romina e Cristel Carrisi hanno rivelato in diretta di vivere un disagio quando arrivano a Roma per colpa della loro madre, scrive Anna Rossi, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. Ospiti di Mara Venier a Domenica In, Romina e Cristel Carrisi hanno parlato della loro vita privata, della carriera e hanno fatto una rivelazione inaspettata. In particolare, le due figli di Al Bano hanno confessato che "per colpa della mamma non abbiamo più una casa a Roma". In che senso? "C'è gente che fa meditazione nella mia stanza da letto - ha sbottato seppur ridendo Cristel -. Ormai non abbiamo più una casa a Roma e quando veniamo in città siamo costrette ad andare in hotel. Questa è nostra madre: doveva ripulirsi il Karma". Una rivelazione inaspettata e mai confessata prima né da Al Bano né da Romina Power. Le due belle sorelle parlano del loro disagio sorridendo, ma sempre un problema rimane. Tanto che con "zia Mara" si lamentano. La casa non ce l'hanno più perché la madre l'ha donata a un gruppo di buddisti.
Da Il Messaggero il 21 giugno 2019. Romina Power ha pubblicato una foto su Instagram che ha fatto preoccupare immediatamente tutti i fan. La cantante appare ricoverata in ospedale, subito dopo un'operazione. «Tutto bene quel che finisce bene! Grazie a tutti i dottori , infermieri e anestesisti» questo il messaggio che accompagna il post. Ma cosa è successo alla ex moglie di Al Bano e quali sono le sue attuali condizioni di salute? La frase scritta da Romina Power lascia presupporre che la donna si sia sottoposta a un intervento chirurgico (visto il coinvolgimento degli anestesisti), ma non si conosce il motivo dell'operazione né se sia trattato di un intervento d'urgenza o di qualcosa già in programma. Quello che è certo è che al suo fianco c'erano le figlie Cristel Carrisi e Romina Jr Carrisi. Quest'ultima ha commentato il post scrivendo: «Love you mommy, solo per te e i voli internazionali mi sveglio alle 6 del mattino»; Romina Jr ha poi postato la foto nelle sue stories con la scritta "Strong woman". Proprio ieri è circolata la notizia riguardo alla volontà di Loredana Lecciso di riappacificarsi con Romina Power. Lo stesso Al Bano aveva espresso il desiderio che tra le donne più importanti della sua vita ci fosse un clima sereno. «Se lei mi tendesse la mano, io gliele tenderei tutte e due. E di tutto ciò non potrebbero che gioirne i nostri figli, ma soprattutto Al Bano», ha dichiarato la Lecciso al settimanale "Oggi".
Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 21 giugno 2019. Come sono belle le battaglie donchisciottesche. Chi di noi non ne ha combattuta almeno una in passato, e non ne sta combattendo almeno dieci nel presente, e non ne combatterà almeno altre cento finché campa. Quella di Loredana Lecciso sembra proprio che lo sia, una fallimentare, romantica, appassionante guerra contro i mulini a vento. E invece è una furbata, anzi: vorrebbe esserlo, e non lo sarà mai, quindi è soltanto un disastro assoluto, con l' aggravante del patetismo e della noia. «Mi piacerebbe che tutti insieme tornassimo a condividere dei bei momenti, da vera famiglia allargata», ha detto a Oggi, in un' intervista che è quella che è, e fa il mestiere che deve fare, e cioè gossip progresso, e nella quale per l' ennesima volta è tornata a farci sapere che brava persona è, quanto sani e mediterranei sono i suoi valori, e quanto è in pace con sé stessa, gli ulivi, la maternità e Romina Power. Niente di vero, specie l' ultimo file, quello su Romina, che per Lecciso dovrebbe tenderle la mano, così che lei gliene tenderebbe due (ovvero: la strega è lei, mica io - e che fine fa quel sacro valore mediterraneo dell' andare incontro alle signore più grandi?). Tanto è in pace con la prima moglie dell' uomo che definisce il suo «passato, presente e futuro», che nelle due pagine che concede a Oggi non tralascia nessun particolare su quanto lui l' abbia amata («mi diceva che ero la sua primavera», ovvero: l' ho fatto rinascere io, dopo l' inverno del suo scontento, cioè quella prima di me); sottolinea che lei è arrivata quando «tra Romina e Al Bano erano state prese decisioni. Per meglio dire, quando Al Bano aveva subìto delle decisioni» (il diavolo è nel «per meglio dire»); specifica che la pace tra lei e Power farebbe «gioire i nostri figli, ma soprattutto lui» (ovvero: la strega se ne fotte di quanto fa soffrire tutti, e guardate invece quanto son tranquilla io); rivela che «ci siamo baciati accanto a una chiesetta abbandonata» (ovvero: come potete dirmi che sono una sfasciafamiglie, io bacio nelle case del Signore!). E così, nel chiedere addirittura «una nostra domenica delle Palme», Lory Lecciso indossa l' elmetto di Don Chisciotte per dirci che lei combatte per la pace, ma Romina Power le impedisce di raggiungerla. In verità, e in tutta evidenza, prepara la guerra. L' ennesima.
Da ilmessaggero.it il 20 novembre 2019. Polemiche per la foto pubblicata da Romina Carrisi, figlia di Al Bano e Romina Power. L'immagine su Instagram che la ritrae in posa sulla tomba del nonno Tyrone Power ha scatenato l'ira dei fan, indignati per quella che considerano una «mancanza di rispetto». «Raccontano che eri un tipo cool, avrei voluto conoscerti..», scrive Romina Carrisi nel post sui social. Ma non sono le sue parole a indispettire i follower. È la posa, a piedi nudi con una rosa bianca in mano, che ha provocato la reazione dei suoi seguaci. «Almeno potresti non sederti sulla tomba... Un po' di rispetto e buon senso non guastano mai», scrive un utente. E ancora: «Fare foto con la tomba di un defunto, per di più in posa perché il parente era famoso lo trovo di indubbio gusto... l’esibizionismo è un conto, pregare nella spiritualità dell’atmosfera di un cimitero è altra cosa». Ma c'è anche chi non ha trovato nulla di male nell'iniziativa della figlia di Al Bano e Romina. «Sei bellissima, tuo nonno sarebbe stato orgoglioso di te», commentano. E anche: «Ciao Romina buon sangue non mente anche tu sei bellissima - tuo nonno è stato grande sia come attore che come padre».
Romina Carrisi in posa di fronte alla tomba di nonno Tyrone. E si scatena la polemica: «Irrispettosa». Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. Romina Carrisi, una delle figlie di Romina Power e Albano Carrisi, non ha resistito a manifestare i propri sentimenti agli oltre 80mila follower che la seguono su Instagram. Si trova ora in viaggio negli Stati Uniti e si è fatta scattare una foto in cui è comodamente seduta, a piedi scalzi e con un fiore bianco in mano, sulla tomba del nonno materno Tyrone Power all’Hollywood Forever Cemetery di Los Angeles. In inglese ha scritto: «Ho sentito che eri un uomo affascinante... Avrei voluto conoscerti» con un cuoricino a fianco. L’immagine è diventata virale in brevissimo tempo scatenando la solita diatriba che si verifica in questi casi: da un lato i detrattori che hanno ritenuto poco rispettosa un’immagine alquanto disinibita pur trattandosi di un luogo dedicato ai defunti. Dall’altra, invece, molti si sono espressi in maniera positiva ritenendo che fosse un atteggiamento poetico fatto da una nipote che non ha mai conosciuto il proprio nonno. Tyrone Power è stato un grande divo della Golden Age di Hollywood. Dal suo matrimonio con Linda Christian (celebrato in Italia) nacque Romina Power. Morì prematuramente a Madrid a causa di un infarto.
Romina Power operata per un problema al ginocchio. La cantante ha pubblicato sui social una nuova foto dove spiega il motivo del ricovero ospedaliero avvenuto nei giorni scorsi. "Grazie ai medici e ai miei figli che mi hanno sostenuto", scrive la Power su Instagram. Novella Toloni, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. Svelato il mistero del ricovero in ospedale di Romina Power. La popolare cantante italiana nelle scorse ore aveva pubblicato una fotografia sui social dove si mostrava in un letto di ospedale con l'ago della flebo nella mano. Poche parole per dire che tutto era andato bene e per i ringraziamenti a medici, infermieri e anestesisti. Ma nessun dettaglio in più sul ricovero. Fan e follower si erano, così, preoccupati per le sue condizioni di salute incerte. Oggi l'ex moglie di Al Bano Carrisi ha pubblicato sul suo account Instagram un nuovo post dove spiega cosa è successo: "Lasciando la clinica Villa Margherita dopo l'intervento in Artoscopia al ginocchio, ringrazio di cuore il prof Petrucci, il prof Cauti , il prof Alicicco, la caposala Gabriella D'Angelo e tutto lo staff estremamente gentile della clinica . Più, naturalmente i miei figli Romina e Yari ,che mi hanno sostenuta e tenuta compagnia con sottofondo anche musicale". La cantate si è sottoposta a un intervento di routine al ginocchio, un'operazione programmata da tempo ma che comunque l'ha costretta al ricovero ospedaliero. Ora la cantante dovrà osservare un periodo di riabilitazione di poche settimane prima di poter tornare a camminare bene. Intanto al suo fianco, come lei stessa ha confermato, c'è la sua famiglia, in primis i figli Yari e Romina Carrisi che l'hanno spronata e supportata in questi giorni.
“I MIGRANTI? BISOGNA AIUTARLI NEL LORO TERRITORIO”. Filippo M. Capra per “Libero quotidiano” l'1 aprile 2019. Lo stato su WhatsApp di Al Bano Carrisi recita: «Ciao! Ti auguro un bel carico di Felicità!!!», e al telefono risponde con «Hello?», accompagnato da un tono di voce allegro che non tradisce la delusione per essere finito nella black-list di coloro che non possono entrare nel Paese ucraino. La speciale lista, compilata dal ministero della Cultura in base alle richieste del Consiglio di Sicurezza e Difesa nazionale, dei servizi di sicurezza e del Consiglio della Tv e Radio nazionali dell' Ucraina, è una condanna «insensata. Mai fatto politica». Il caso, che ha avuto risonanza mediatica mondiale, non è ancora prossimo a una soluzione.
Al Bano, si è dato una spiegazione del perché? State lavorando per risolvere la situazione?
«Sì, ci sta pensando il mio avvocato. Speriamo torni tutto com' era, altrimenti peggio per loro che non mi avranno più lì in concerto».
Dopo lei, anche Cutugno è finito sotto accusa. A Kiev (città con un folto elettorato di destra, ndr) un uomo gli ha mostrato fiero il saluto romano. Crede che se il concerto si fosse tenuto a Donetsk (storicamente di sinistra, ndr) sarebbe stato diverso?
«Ho sentito di Toto. Io non lo so, ma non ho mai giudicato la politica interna altrui perché sono rappresentanti voluti da un popolo che ha votato. Delle differenze di destra e sinistra dell' Ucraina non mi sono mai interessato e non sono additabile come "pericolo per la Nazione" perché io non faccio politica. Io faccio musica».
Ha ricevuto messaggi di solidarietà?
«Sì, moltissimi, specie dai politici. Mi ha fatto molto piacere».
È soddisfatto dalle politiche del governo Lega-Cinquestelle?
«Io sono apartitico, il mio partito è quello del Papa che grazie al cielo risiede in Italia. A me piacciono le persone che si danno da fare per migliorare il nostro Paese, che ho come l' impressione sia ormai agli sgoccioli».
Quale tipo di persone le piacciono?
«Matteo Salvini. Ho avuto modo di tastare l'odio che viene provato nei suoi confronti, ma lavora per il bene dell'Italia. Io mi detti da fare per l' esportazione in Cina dei vini italiani, che al tempo copriva solo il 4.7% del mercato mentre quelli francesi sfioravano il 50% e sono meno buoni dei nostri».
Dunque la "via della seta" è un accordo che la convince?
«Sì, è importantissimo. Possiamo imparare molto dalla Cina così come dal Giappone, realtà che conosco molto bene».
Ad esempio?
«La cultura del lavoro: in Cina sono degli stakanovisti, in Giappone si rifiutano di scioperare per continuare a lavorare. Qui ormai ci si è abituati a fare sempre e comunque il meno possibile, non si ha più voglia di lavorare».
Quindi il suo giudizio sul reddito di cittadinanza...
«È negativo. Aiutare i poveri è fortemente cristiano, aiutare i fannulloni non lo è per niente».
Molti pensano che l' Italia sia stata svenduta alla Cina.
«Questi accordi devono essere regolamentati a dovere, ma possono portare grandi cose».
Cosa ne pensa della questione migranti?
«Quello che sta accadendo in Siria, con tutti quei bambini che sembrano non potere avere un futuro, è disarmante. C'è un senso di violenza contro l' umanità di questi tempi».
Anche lei è stato un migrante, molto tempo fa.
«Sì, fui costretto a lasciare la mia terra per trovare fortuna altrove, dunque conosco la condizione psicologica di queste persone. Io sento spesso la mancanza della mia terra, ma ho opportunità di ritrovarla. Mentre loro sono costretti a lasciarla e non vederla più».
Sono ormai celebri alle cronache i casi "Diciotti" e "SeaWatch". Sarebbero dovuti sbarcare prima?
«Io sono dell' idea di aiutarli nel loro territorio, perché il problema è lì. Le persone possono essere accolte, ma è il ciclo delle partenze che deve trovare una soluzione: la loro realtà è devastata e bisogna aiutarli a trovare una normalità affinché possano continuare a vivere lì».
Molti problemi, però, nascono dalle razzie precedenti che hanno costretto alla povertà questi Paesi, sfruttandoli per i propri interessi. È d' accordo?
«In parte. Credo che sia una delle cause di questa situazione, ma certamente non l'unica: ora servono azioni vere di pace. Bisogna arrivare lì con un ramoscello d'ulivo e aiutarli».
Come vede la scena politica di oggi?
«Quando guardo i cosiddetti salotti televisivi fatico a capire, come chiunque. Tutti si attaccano, tutti si insultano in continuazione. Lo spettatore è disorientato, non c' è più l'eleganza dialettica di una volta. C' è una perdita costante di valori nella politica attuale».
Tour a parte, sta lavorando a nuovi progetti?
«Sì, un paio di album. Uno mio personale, e un con Romina».
Un anno denso di impegni.
«Sì per il progetto con Romina ci serve ancora del tempo: voglio che siamo totalmente d'accordo sui brani da proporre, ma l' intenzione di lavorare ancora insieme c'è».
Con la signora Power, quindi, è tutto ok?
«Assolutamente sì. Stiamo per diventare ancora una volta nonni, la nostra famiglia è unita. Non c' è motivo per non andare d' accordo».
· Toto Cutugno viene bandito in Ucraina.
Ucraina, dopo Al Bano i deputati chiedono il divieto di ingresso a Toto Cutugno. Pubblicato venerdì, 15 marzo 2019 da Corriere.it. Dopo Al Bano, tocca a Toto Cutugno. Un gruppo di deputati ucraini ha chiesto al capo dei servizi di sicurezza (Sbu) Vasily Gritsak di precludere l’ingresso nel Paese al cantautore: il motivo sarebbero le sue presunte posizioni filorusse. La notizia confermata da uno dei parlamentari che hanno avanzato la richiesta, Viktor Romanyuk. Cutugno ha in programma un concerto a Kiev il 23 di marzo, e nel documento viene definito «un agente di appoggio della guerra della Russia in Ucraina». E ancora, secondo i deputati che hanno avanzato la richiesta «Cutugno fa parte dell’associazione Amici di Putin e ha sostenuto l’annessione della Crimea». La notizia arriva a pochi giorni da quando proprio Kiev ha inserito Al Banonella «lista nera» del ministero della Cultura, indicandolo come una «minaccia alla sicurezza».
Dopo il caso Al Bano ora anche Toto Cutugno viene bandito in Ucraina. Cutugno, come Al Bano, rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza nazionale, motivo per il quale i loro nomi sono stati inseriti nella black list delle persone sgradite nel Paese, scrive Pina Francone, Venerdì 15/03/2019, su Il Giornale. Dopo Al Bano, l'Ucraina mette al bando anche Toto Cutugno. Già, perché alcuni deputati hanno chiesto al capo dei servizi di sicurezza del Paese, Vasily Gritsak, di non permettere al cantante75enne di mettere piede in territorio ucraino. Il motivo? Lo stesso valido per Albano Carrisi, ovvero le presunte posizioni filorusse dell'artista. Lo ha reso noto uno dei parlamentari che hanno avanzato la richiesta, Viktor Romanyuk, confermando così di fatto il contenuto di un articolo apparso ieri su Economistua. La testata online ha pubblicato anche una copia di quello che dovrebbe essere il documento inviato dai parlamentari all'Sbu. Insomma, Cutugno come Al Bano rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza nazionale, motivo per il quale i loro nomi sono stati inseriti nella black list delle persone sgradite nel Paese. Toto Cutugno, che aveva un concerto in programma a Kiev il 23 marzo, viene definito "un agente di appoggio della guerra della Russia in Ucraina". Romanyuk ha dichiarato all'Ansa che la richiesta è stata lanciata "perché Cutugno fa parte dell'associazione 'Amici di Putin' e ha sostenuto l'annessione della Crimea".
"AL BANO MI HA SALVATO LA VITA". Da “I Lunatici – Radio 2” l'11 maggio 2019. Toto Cutugno è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Toto Cutugno ha svelato: "Albano Carrisi mi ha salvato la vita. Mi rivolgo agli uomini: fate prevenzione, cazzo. Io mi sentivo una roccia dieci anni fa, mi sentivo di spaccare tutto il mondo, invece mi alzavo di notte, tre quattro volte, per andare a fare la pipì. Mi sono confidato con Albano e mi ha consigliato un medico. Quel medico che si è accorto, alla prima visita, che non avevo una prostata, ma un melone. Non mi ha fatto uscire dall'ospedale, ha detto subito che era una cosa grave, avevo le metastasi del cancro che arrivavano quasi ai reni. Se non mi facevo operare subito le metastasi del cancro mi arrivavano ai reni ed ero finito. Il professor Rigatti, il medico che Albano mi ha consigliato, mi ha salvato la vita. Io sono, grazie ad Albano Carrisi, un miracolato. Ora sto bene, ogni mese vado a fare i controlli, faccio un po' fatica a camminare, mi stanco facilmente, però sto da Dio". Sulla canzone L'Italiano, che lo ha reso celebre in tutto il mondo: "Ero a Toronto, stavo facendo un concerto in un grandissimo teatro. Alla fine della mia esibizione ho fatto accendere le luci e ho visto la gente che era in sala. 3500 persone con la faccia da italiano. Li ho guardati, mi sono emozionato, e mi sono detto che avrei detto una canzone per loro, una canzone dedicata a tutti quegli italiani che erano in giro per il mondo. Sono andato al ristorante dopo il concerto e con la chitarra in mano mi è venuta fuori la canzone, naturalmente. Volevo farla cantare a Celentano, ha sentito la canzone due volte e poi ha detto che non poteva cantarla. Sono rimasto sbigottito, ma lui ha detto che non voleva farla. E' stata la mia fortuna. Nell'ultimo cd di Adriano e Mina c'è una mia canzone, siamo sempre in contatto, anche con Claudia Mori. Per me Celentano è il massimo, conoscerlo è un prestigio. E' un grande artista. Per lui ho scritto tredici canzoni, tra cui 'Soli' e 'Il tempo se ne va'". Sulla musica italiana: "Intesa come melodia, la musica italiana è un po' dimenticata. Oggi ci sono i rapper, i trapper. Poi sono anche bravi questi ragazzi, raccontano storie originali. Ma manca, secondo me, la melodia che ci invidia il mondo intero". Sull'Ucraina, che per iniziativa di qualche deputato avrebbe voluto bandirlo dal Paese: "Sono andato a Kiev e ho fatto uno dei concerti più belli della mia carriera. C'è stato un uomo che è salito sul palco, io gli avrei dato un calcio in faccia, ero pronto, ma non si è capito se voleva farmi del male o stringermi la mano. Proprio in questi tempi comunque hanno eletto il nuovo presidente dell'Ucraina: è un mio carissimo amico, ho fatto una trasmissione televisiva a Kiev e il presentatore dell'epoca oggi è diventato presidente".
UN SOVRANISTA VERO. Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” l'1 aprile 2019. Fortuna che da noi non c' è la sinistra al potere, perché altrimenti stilerebbe una black-list simile a quella dell' Ucraina nei confronti degli artisti filo-putiniani. Alla pari tutti i personaggi dello spettacolo che hanno dichiarato la propria preferenza per Salvini rischierebbero di essere considerati dei traditori dagli esponenti dei salotti radical chic che da sempre si ritengono unici depositari della cultura in Italia. Ma tant' è: ormai il leader della Lega non fa solo breccia tra gli elettori comuni ma acquista credito tra i vip del cinema, della tv e della musica forse perché è diventato lui stesso una rockstar. Tra i personaggi che hanno fatto un endorsement a suo favore alcuni appartengono a quel filone musicale che, più che nazional-popolare, sarebbe corretto definire nazional-populista. In primis Al Bano che, prima ancora che fan di Putin, è un cantore di Salvini il quale «ha trasformato la Lega in un partito nazionale» e «mi sembra stia mantenendo il programma annunciato in campagna elettorale», soprattutto sulla questione immigrazione: «Ci vuole un po' d' ordine con questa ondata di migranti», ha spiegato l' artista. Ad aggiungersi al coro, è il caso di dire, c' è un altro cantante "italiano vero" come Toto Cutugno che ammette: «C' è un personaggio della politica attuale che mi piace: Salvini. Perché quando lo sento parlare è un uomo con i coglioni». Oltre che con le idee chiare sull' immigrazione: «Sarei favorevole a ospitare queste persone, ma credo che prima, noi italiani, abbiamo problemi da risolvere», continua Cutugno. L' eterno secondo convertito sulla via del «Prima gli italiani». Una che ormai pare verde-blu leghista pur essendo rossa di capelli è Rita Pavone che lo scorso anno, commentando alcune dichiarazioni dei Pearl Jam contro la chiusura dei porti, aveva detto: «Ma farsi gli affari loro, no?», guadagnandosi l' apprezzamento del leader leghista che l' aveva tributata con un «Onore a Rita Pavone, che non si inchina al pensiero unico!». Se c' è chi le canta, con tanto di sviolinate, a Salvini, c' è anche chi gli esprime sostegno a partire dal mondo forse a lui più ostico: il cinema. Da questo punto di vista hanno destato stupore le affermazioni di Riccardo Scamarcio, secondo cui «Salvini non è razzista. Il suo governo ingloba una larga parte del pensiero nazionalista, nel senso più nobile del termine». E ancora di più hanno suscitato polemiche le prese di posizione di due attori che, di certo, non possono dirsi di destra: Claudio Amendola ha definito il leader leghista «il miglior politico degli ultimi vent' anni, anzi degli ultimi trenta», e Claudia Gerini ha plaudito al governo gialloverde in quanto «fa delle mosse giuste per gli italiani», giudicando «ottima» l' idea di un censimento dei rom (poi entrambi hanno fatto una piccola retromarcia, forse perché il cinema certe cose non le perdona...). tutti sul carro Chi ha tenuto il punto sono stati due personaggi del piccolo schermo come Giancarlo Magalli e Lorella Cuccarini, abituati a condurre e capaci di apprezzare il conduttore del Paese Italia, Matteo Salvini. Il primo ha ricordato che il ministro dell' Interno «non è razzista, è protezionista», e ha elogiato il sovranismo che «si fonda sull' amore e il rispetto dell' identità nazionale»; la seconda ha sostenuto che «bloccare l' immigrazione non è di destra, è sacrosanto». Insomma, il numero degli artisti #iostoconsalvini, quasi in risposta al manifesto vip dell' anno scorso su Rolling Stone «Noi non stiamo con Salvini», cresce più va avanti il governo. La speranza è che tutti costoro non stiano soltanto salendo sul Carroccio del vincitore.
· Sanremo 2019: i cantanti che hanno vinto più volte il festival.
Sanremo 2019: i cantanti che hanno vinto più volte il festival. Tra i 24 partecipanti in gara quest’anno, solo Renga, Cristicchi, Arisa e Il Volo hanno già vinto la kermesse canora, scrive Gabriele Antonucci il 4 febbraio 2019 su Panorama. Le ultime edizioni del Festival di Sanremo hanno lasciato poche tracce nella memoria collettiva, mentre alcune canzoni, soprattutto del passato meno recente, sono entrate di diritto nella storia del costume e dello spettacolo del nostro Paese. Una vittoria a Sanremo non è più, oggi, garanzia di successo e di vendite milionarie, ma è certamente un ottimo trampolino di lancio, soprattutto per i giovani artisti in gara in questa 69esima edizione del festival. Tra i 24 partecipanti di quest'anno, che non prevede distinzione tra big e giovani, hanno già vinto il festival Francesco Renga nel 2005 con Angelo, Simone Cristicchi nel 2007 con Ti regalerò una rosa, Arisa nel 2014 con Controvento e Il Volo nel 2015 con Grande Amore. Ma chi sono gli artisti che hanno vinto più volte il festival della canzone italiana?
Claudio Villa è il recordman di Sanremo, vinto in quattro edizioni: nel 1955 con Buongiorno tristezza insieme a Tullio Pane, nel 1957 con Corde della mia chitarra in coppia con Nunzio Gallo, nel 1963 con Addio…addio accompagnato da Domenico Modugno e nel 1967 con Iva Zanicchi cantando Non pensare a me.
Secondo posto per Domenico Modugno, che ha vinto tre volte la kermesse: nel 1958 con Johnny Dorelli con l’iconica Nel blu dipinto di blu, l’anno successivo sempre con Dorelli con Piove e nel 1966 insieme a Gigliola Cinquetti quando interpretò Dio come ti amo.
Iva Zanicchi è la donna con il maggior numero di vittorie a Sanremo, ben tre: nel 1967 con Non pensare a me, nel 1969 con Zingarainsieme a Bobby Solo e nel 1974 con Ciao cara come stai?.
Sono nove gli artisti ad aver vinto due edizioni del Festival: Nilla Pizzi (Grazie dei fiori nel 1951 e Vola colomba nel 1952), Johnny Dorelli (Nel blu dipinto di blu nel 1958 e Piove nel 1959); Bobby Solo (Se piangi se ridi nel 1965, Zingara nel 1969); Gigliola Cinquetti (Non ho l'etànel 1964, Dio come ti amo nel 1966); Peppino Di Capri (Un grande amore e niente più nel 1973, Non lo faccio più nel 1976); Nicola Di Bari (Il cuore è uno zingaro nel 1971, I giorni dell'arcobaleno nel 1972); Matia Bazar (…E dirsi ciao nel 1978,Messaggio d'amore nel 2002); Anna Oxa (Ti lascerò nel 1989, Senza pietà nel 1999); Enrico Ruggeri (Si può dare di più nel 1987, Mistero nel 1993). Chi vincerà, quest’anno, il Festival più amato d’Italia?
· Michele Torpedine: il talent scout.
Michele Torpedine: “Ho scoperto Bocelli in un pianobar di Pontedera”, scrive Giulia Cherchi il 14/02/2019 su Il Giornale Off.
Giorni fa ha ricevuto il premio “Dietro le Quinte” assegnato a chi ha contribuito a rendere più prestigioso il Festival di Sanremo e la musica italiana nel mondo. Per il resto, qual è il bilancio di questo Festival?
«Rispetto agli artisti che c’erano (un rinnovo totale di rapper), eravamo un po’ distanti da questo festival, e quindi già l’essere rientrati sul podio vuol dire che è andata bene. Fino a venerdì avremmo anche vinto ma siamo stati penalizzati dalla Commissione Qualità, sostantivo che andrebbe tolto da quella commissione, perché di qualità non ha niente. Hanno le loro professioni personali, ma non dovrebbero parlare di musica. Dovrebbero essere eliminate sia la votazione dei giornalisti che la commissione qualità. Non ha senso tenere questi personaggi e penalizzare artisti che lavorano tutto l’anno per quel progetto. Poi è emerso quell’episodio di Bastianich, che mandava i messaggi affinché tutti votassero quel suo amico. Credo che non si farà più vedere in Italia!»
Lei in passato è stato anche batterista. Oltre a suonare con tanti artisti italiani, ha addirittura fatto da supporter a Jimi Hendrix e si è esibito con Ray Charles. Che ricordo ha di questi due miti?
«Con Jimi Hendrix per me è stato come andare in chiesa. Lui ha stravolto la musica, la chitarra, e vederlo di persona è stato molto emozionante, come un miracolo. Con Ray Charles invece è stata una pura casualità. Era stata organizzata una grande serata a Rimini, all’Altro Mondo, un locale che negli anni ‘60/ ‘70 andava di moda e portava i più grandi artisti. Lui e il suo gruppo una sera sono andati ad esibirsi nel locale in cui suonavo io. La fortuna ha voluto che mancasse il batterista e così abbiamo suonato una mezz’ora insieme. Una cosa del genere può capitare massimo due volte nella vita!»
Poi ha intrapreso la carriera come manager di cantanti divenuti poi celebri nel panorama musicale. Come è avvenuto questo passaggio?
«A differenza di altri miei colleghi, io ero musicista. Ho finito di suonare con Gino Paoli. Ero il suo batterista e insieme inventammo la tournée Vanoni-Paoli anche per un’esigenza particolare: eravamo tutti e due rovinati. Così in un locale di Bologna una sera gli ho dato questa idea che ha cambiato la vita un po’ a tutti e due. Quando ho intrapreso la carriera da manager la prima cantante in assoluto è stata Gianna Nannini, era il 1980. Io lavoravo in una agenzia dove si produceva Pino Daniele. Andavo sempre con lui nei vari tour in giro e lì ho imparato a conoscere il più grande artista che l’Italia abbia mai prodotto. E da lì ho cominciato a seguire Gino Paoli, sono tornato a suonare con lui: è stato il primo a darmi la possibilità di fare questo lavoro, aveva capito per primo certe mie intuizioni, certe idee. Poi sono arrivati Zucchero, Giorgia, Bocelli, Biagio Antonacci e tutto il resto».
Dei molti cantanti con cui ha lavorato chi le ha lasciato un po’ di amarezza?
«Quasi tutti, tranne IlVolo. Ormai sono dieci anni con loro. Mi hanno dato un respiro nuovo, mi hanno dato la voglia di rimettermi ancora in gioco. Loro sono diversi, magari anche perché quando li ho conosciuti erano molto giovani, ma adesso c’è un bellissimo rapporto, anche con i genitori. Sono gli unici genitori che non si intromettono nel lavoro e guardano con molta intelligenza quello che facciamo. I tre ragazzi sono giovani e spero che la mia salute regga così da fare anche il ventennale con loro».
Che cosa hanno questi ragazzi di diverso rispetto agli altri artisti con cui ha lavorato?
«IlVolo insieme ad artisti come Laura Pausini, Eros e Bocelli, sono i quattro veri artisti del panorama musicale italiano che fanno successo in tutto il mondo. E nonostante il successo sono persone molto umili che si preoccupano ancora di chiedere scusa se un giornalista scrive male di loro. Dicono: scusa mi fai leggere quella cosa orribile che hai scritto su di me? Sono persone ancora molto umili».
A loro ha anche dedicato il titolo del suo libro Ricomincio dai Tre. Come è nata l’idea di scriverlo?
«Avevo voglia di mettere un po’ di chiarezza nell’ambiente, volevo che non venissero raccontate più bugie. Ho voluto mettere dopo tanti anni di musica un po’ di verità nell’ambiente. Ho sperato molto che i miei colleghi prendessero la palla al balzo per affiancarmi e fare chiarezza, ma vedo che c’è molta diplomazia (chiamiamola “diplomazia”) nel mio ambiente. Nessuno ha voglia di mettersi in gioco, di rischiare, di parlare, di mettere a posto le cose, di mettere a posto Sanremo e la musica. È un popolo che si adatta quello italiano, basta che non gli togli il campionato di calcio».
Nel libro racconta tante curiosità…c’è stata anche una reazione di Zucchero…
«Sono anni che racconta bugie. Lui è stato uno dei motivi per cui ho fatto questo libro. Racconta episodi dove al posto mio con Pavarotti in America c’era lui. Oppure racconta che Joe Cocker è rimasto ammaliato dalla sua voce…E i soldi che ho speso io, non se li ricorda più? Allora il problema è che tutti possono anche far finta di non ricordare una cosa, ma così è impossibile. Tutti i duetti pagati senza mai ricevere un grazie. Una volta ti può anche sfuggire per sbaglio un ringraziamento, ma non puoi tutta la vita raccontare che i grandi artisti sono arrivati perché sentivano questa voce meravigliosa. Va bene Sinatra, Tony Bennett o Pavarotti, ma non credo che per una voce normale soul impazzisca qualcuno».
Quindi mi sta dicendo che è stato Zucchero il cantante che le è stato più ingrato?
«Sì, Zucchero è stato il peggiore. Su Andrea (Bocelli n.d.r.) non posso dire niente. Magari diciamo che nelle risposte successive non è stato molto corretto. Ha fatto un film in cui la mia figura di manager risultava molto più simile a quella di un impresario di feste di piazza. Diciamo che c’è stato poco rispetto dopo».
Invece i ragazzi de IlVolo mi pare la ringrazino sempre…
«Anche in maniera esagerata. Poi anche Luca Carboni con cui ho lavorato, in un disco fortunato (Ci vuole un fisico bestiale), è una persona meravigliosa, e anche Ron. Non ultimo ho visto in un programma di Bonolis, Jovanotti che ringraziava Cecchetto per avergli cambiato la vita. Tanto di cappello a personaggi così! Tutti gli artisti che ho trovato partivano da zero, io non ho mai preso un artista già avviato, tranne Paoli (ma all’epoca era rovinato perché non faceva più niente, erano sette anni che non faceva un disco perché nessuno lo voleva più): Giorgia la vidi in un locale di Roma che si chiamava Il Classico, era in una balera che si esibiva con suo padre. Biagio Antonacci era a zero punti, Zucchero era in un locale di Forte dei Marmi, Bocelli in un pianobar di Pontedera. Io li ho presi tutti da zero e sono diventati ciò che sono diventati. Non ho mai preso un artista già formato».
Vuole dirmi che è stato lei la loro fortuna?
«No, magari sarebbe arrivato anche qualcun altro ma non so se avrebbe fatto il lavoro che ho fatto io. Può darsi che non sarebbe riuscito o anche che avrebbe fatto meglio… però io ho fatto delle cose come uniche in Italia: ho inventato il Pavarotti International, insieme a Zucchero chiaramente, per dodici anni e non c’è stata più una rassegna così. I miei artisti sono ancora da trenta anni al primo posto quando escono. Noi vediamo abitualmente gli artisti che durano sei mesi, un anno, poi spariscono. Però nessuno si vuole convincere di questo. Dicono sempre che sono molto fortunato».
Dopo i tanti successi della sua carriera quale aneddoto OFF è ancora inciso nella sua memoria?
«Venivo da una famiglia povera emigrante a Bologna. Ricordo che scappavo sempre in parrocchia a suonare e quando tornavo a casa prendevo tante botte da mio padre: eravamo una famiglia povera e io invece di studiare andavo a suonare, che non era certo un lavoro. Ero talmente convinto di fare qualcosa nella musica che non sentivo nulla. Era del tutto stabilito forse».
Attualmente a quali progetti sta lavorando?
«Con IlVolo ne ho tanti. Adesso abbiamo il Giappone, Matera per la televisione americana e il tour mondiale. I ragazzi, insieme ad artisti come Bocelli, sono gli unici che girano tutto il mondo e che hanno successo ovunque. Sanremo è stato un episodio promozionale, anche se venerdì sera avremmo vinto noi il festival, poi succedono delle cose strane. Ma tutti gli anni succedono cose strane al festival, finché la canzone è in mezzo alla politica, agli affari, in mezzo al business. L’arte non dovrebbe essere così. C’erano altre canzoni belle, ma è naturale che le cose vadano come sono andate se poi si confonde il festival di Sanremo con IL Club Tenco, con Il Primo Maggio. Se tu vuoi dare un taglio particolare della tua carriera poi non puoi venire a Sanremo. Infatti anni fa fecero Il Club Tenco, la Musicultura a Macerata e Il Primo Maggio. Se vuoi fare comunicazione politica vai al Primo Maggio. Non c’è più la canzone italiana e quindi Sanremo non si può più chiamare il Festival della canzone italiana. Molti poi hanno paura di non andare in radio, è tutto condizionato al risultato successivo. Ad esempio con la voce di Arisa non si può fare un pezzo del genere! Quando venne fuori con La notte era un pezzo meraviglioso, la sua voce è quella! Cosa si mette a fare Jennifer Lopez adesso!»
· Festival di Sanremo: le 25 canzoni più belle di sempre.
Festival di Sanremo: le 25 canzoni più belle di sempre. I brani dell'Ariston che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica italiana, scrive Gianni Poglio il 4 febbraio 2019 su Panorama. Sul palco dell'Ariston in oltre sessant'anni di Festival si è sentito proprio di tutto: canzoni straordinarie, brani improponibili, veri e propri orrori musicali, e decine di pezzi insignificanti. La stessa cosa si può dire per gli artisti, un mix eterogeneo, tra geni della musica, dilettanti allo sbaraglio, finti cantanti, vecchie glorie alla frutta, giovani talenti e giovani bidoni. Di tutto questo, quel che rimane, per fortuna, sono una manciata di canzoni che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica italiana. Questa è la nostra TOP 25:
1) Luce (tramonti a Est) - Elisa
2) Vita spericolata - Vasco Rossi
3) Nel blu dipinto di blu - Domenico Modugno
4) Lucio Battisti - Un'avventura
5) La terra dei cachi - Elio e le Storie Tese
6) Chi non lavora non fa l'amore - Adriano Celentano e Claudia Mori
7) Spalle al muro - Renato Zero
8) Per Elisa - Alice
9) Ricomincio da qui - Malika Ayane
10) Gli uomini non cambiano - Mia Martini
11) Il cuore è uno zingaro - Nada e Nicola Di Bari
12) 4.3.1943 - Lucio Dalla
13) Gianna - Rino Gaetano
14) Un'emozione da poco - Anna Oxa
15) Mina - Le mille bolle blu
16) Controvento - Arisa
17) Jesahel - Delirium
18) Lontano dagli occhi - Sergio Endrigo
19) Una lacrima sul viso - Bobby Solo
20) Salirò - Daniele Silvestri
21) Una storia importante - Eros Ramazzotti
21) Chiamami ancora amore - Roberto Vecchioni
22) Il solito sesso Max Gazzè
23) Come saprei - Giorgia
24) E dimmi che non vuoi morire - Patty Pravo
25) Ti regalerò una rosa - Simone Cristicchi
· Presentatori Sanremo: tutti i “condottieri” del Festival della Canzone Italiana.
Presentatori Sanremo: tutti i “condottieri” del Festival della Canzone Italiana, scrive il 31 gennaio 2019 la Redazione di junglam.com. 38 presentatori per 69 anni: ecco i “numeri ” del Festival di Sanremo. Scoprite qui tutti i “condottieri” che si sono succeduti alla guida della kermesse canora più famosa di Italia! Si può amare o odiare, ma il Festival di Sanremo è una pietra miliare della televisione italiana. Non a caso, in 68 anni di vita ha visto alternarsi alla conduzione alcuni tra i più importanti presentatori del piccolo schermo, tra cui Enzo Tortora, Corrado, Mike Bongiorno e Pippo Baudo, oltre che celebrità e e nomi noti dello showbiz. In attesa di vedere all’opera nell’edizione 2019 Claudio Baglioni, alla sua seconda presenza come conduttore e direttore artistico, affiancato dai bravissimi Virginia Raffaele e Claudio Bisio, vi proponiamo un tuffo nel passato, con l’elenco completo di tutti i “condottieri” della kermesse musicale italiana più famosa nel mondo. E se volete conoscere le donne bellissime, affascinanti e ironiche che li hanno “spalleggiati” e aiutati nell’ardua impresa, non perdetevi l’articolo dedicato alle vallette della storia del Festival. Festival di Sanremo conduttori: tutti i nomi dal 1951 al 2016:
1951 – 1954: Nunzio Filogamo. Nato a Palermo nel 1902, Nunzio Filogamo è stato un conduttore radiofonico e televisivo e il “papà” dei presentatori del piccolo schermo. La frase con cui tiene a battesimo il primo Festival di Sanremo – “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate!” – è entrata nella storia.
1955: Armando Pizzo. Alla guida del Festival di Sanremo per un solo anno, Armando Pizzo è stato un giornalista italiano e il “presentatore” di un giovanissimo Mike Bongiorno, con cui poi ha condotto alcuni programmi in stile talk show.
1956: Fausto Tommei. Originario di Venezia, Fausto Tommei è stato un attore di teatro, radio e cinema e ha lavorato come doppiatore.
1957: Nunzio Filogamo.
1958: Gianni Agus. Noto al grande pubblico per la parte del capufficio di Fracchia, nell’omonima serie di film interpretati da Paolo Villaggio, è stato un conduttore televisivo e un apprezzato attore cinematografico e teatrale.
1959: Enzo Tortora. Il papà di Portobello, trasmissione cult della televisione italiana, conduce il Festival di Sanremo per un solo anno. Presentatore, giornalista e politico, è stato il protagonista di un caso di malagiustizia che ha fatto scalpore in Italia e all’estero.
1960: Paolo Ferrari. Tifosissimo della squadra di calcio della Lazio, Paolo Ferrari è un attore, doppiatore e conduttore tv. Negli anni ’60 conosce una enorme popolarità come interprete delle pubblicità del detersivo Dash.
1961: Lilli Lembo, Giuliana Calandra, Alberto Lionello. La decima edizione del Festival di Sanremo è caratterizzata da una conduzione multipla con “staffetta”. Lilli Lembo e Giuliana Calandra, rispettivamente attrice, annunciatrice e presentatrice e attrice di teatro e cinema (con una parte anche nel film cult di Dario Argento Profondo Rosso), presentano le prime serate della kermesse per lasciare poi la gestione dell’ultima ad Alberto Lionello, attore, doppiatore, conduttore televisivo e cantante, mancato nel 1994.
1962: Renato Tagliani. Milanese di origine, Renato Tagliani conduce una sola edizione del Festival di Sanremo, dopo essere stato alla guida di Canzonissima nel 1958 insieme a “mostri sacri” del cinema e del teatro come Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Gianni Agus ed Enza Soldi.
1963 – 1967: Mike Bongiorno. Il Festival di Sanremo del 1963 segna il debutto sul palco dell’Ariston di uno dei più grandi presentatori del piccolo schermo: Mike Bongiorno. Padre fondatore della televisione italiana con Corrado, Enzo Tortora, Pippo Baudo e Raimondo Vianello, vanta la carriera tv più lunga al mondo.
1968: Pippo Baudo. In un simbolico quanto suggestivo passaggio di testimone, il presentatore della diciassettesima edizione del Festival di Sanremo è Pippo Baudo. Il conduttore televisivo catanese è il “recordman” della kermesse canora con 13 presenze.
1969-1970: Nuccio Costa. Nuccio Costa è stato un conduttore televisivo italiano molto noto negli anni ’60. Dopo il Festival di Sanremo presenta anche alcune edizione de Il Cantagiro.
1971: Carlo Giuffré. Attore di teatro insieme al fratello Aldo, con il quale ha recitato nella maggior parte delle commedie di Eduardo De Filippo, Carlo Giuffré conduce una sola edizione del Festival di Sanremo.
1972-1973: Mike Bongiorno.
1974: Corrado. Corrado Mantoni, in arte semplicemente Corrado, è stato uno dei più importanti conduttori e autori televisivi, oltre che conduttore radiofonico, attore, doppiatore, cantante e paroliere, ed è considerato uno dei padri della tv italiana. Ironico ed elegante, tra le sue trasmissioni cult si ricordano Il pranzo è servito e La corrida.
1975: Mike Bongiorno.
1976: Giancarlo Guardabassi. Di nobili origini, è figlio del conte Alberto Guardabassi e della baronessa Orietta Danzetta, Giancarlo Guardabassi è un cantante, disc-jockey, autore di spettacoli e tv, paroliere e conduttore radiofonico.
1977: Mike Bongiorno.
1978: Stefania Casini. Attrice, doppiatrice e regista, Stefania Casini è ufficialmente la prima donna a condurre il Festival di Sanremo, anche se l’ingerenza di Vittorio Salvetti durante tutte le serate spinge molti a considerare la prima vera conduttrice al femminile Loretta Goggi, al timone della manifestazione nel 1986.
1979: Mike Bongiorno.
1980-1982: Claudio Cecchetto. Claudio Cecchetto, celebre produttore discografico e talent-scout (tra le sue “scoperte” ci sono tra gli altri Gerry Scotti, Jovanotti, Fiorello, Amadeus e Leonardo Pieraccioni), conduce tre edizioni del Festival di Sanremo.
1983: Andrea Giordana. Andrea Giordana conduce la ventiduesima edizione del Festival di Sanremo, ma è principalmente un attore e cantante.
1984-1985: Pippo Baudo.
1986: Loretta Goggi.
Artista poliedrica, Loretta Goggi contende a Stefania Casini il primato di prima presentatrice donna del Festival di Sanremo. La sua edizione ha un grandissimo successo di critica e pubblico e la canzone che canta in apertura – Io nascerò, scritta per lei da Mango – ottiene il disco d’oro, surclassando (ironia della sorte) quelle dei partecipanti al Festival.
1987: Pippo Baudo.
1988: Miguel Bosé. Figlio dell’attrice italiana Lucia Bosè e del torero spagnolo Luis Miguel Dominguín, il cantante, attore, presentatore ed ex ballerino spagnolo naturalizzato italiano Miguel Bosé (al secolo Luis Miguel González Dominguín) è recentemente apparso in tv ad Amici.
1989: Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi. Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, ovvero i “figli d’arte”, conducono la ventottesima edizione del Festival di Sanremo in un tentativo di contaminazione tra generi che ottiene scarso successo.
1990: Johnny Dorelli. Attore di teatro, cinema e tv, cantante e conduttore televisivo, Johnny Dorelli partecipa a nove edizione del Festival di Sanremo arrivando otto volte in finale e nel 1990 – forte della sua “esperienza” – ne diventa il mattatore.
1991: Andrea Occhipinti. Con un passato da attore, Andrea Occhipinti è oggi l’amministratore unico di Lucky Red, società indipendente di produzione e distribuzione cinematografica.
1992 – 1996: Pippo Baudo.
1997: Mike Bongiorno.
1998: Raimondo Vianello. Considerato uno dei padri fondatori della televisione italiana con Mike Bongiorno e Corrado, Raimondo Vianello è stato un attore, conduttore e sceneggiatore. La grande intesa con la moglie Sandra Mondaini e la loro comicità di coppia brillante e garbata hanno fatto storia.
1999 – 2000: Fabio Fazio. Forte del grande successo di Quelli che il calcio e Anima mia, Fabio Fazio approda a Sanremo con la “missione” di rinnovarne la formula. Impresa riuscita il primo anno, ma non il secondo. Tuttavia, il suo modo di fare tv gli vale una seconda doppia chance nel 2013 e 2014.
2001: Raffaella Carrà. La signora della televisione italiana è la terza donna a condurre il Festival di Sanremo, ma non riesce a bissare il successo ottenuto da Loretta Goggi nel 1986. L’edizione che la vede al timone, inoltre, è aspramente criticata dall’allora first lady Franca Ciampi per l’eccessiva volgarità dei valletti: Enrico Papi e Massimo Ceccherini.
2002 – 2003: Pippo Baudo.
2004: Simona Ventura. La showgirl, conduttrice e attrice conduce la cinquantreesima edizione del Festival di Sanremo “spalleggiata” da un trio comico di tutto rispetto: Paola Cortellesi, Maurizio Crozza e Gene Gnocchi. Nonostante la forza sulla carta, tuttavia, la kermesse canora ottiene scarsi ascolti e viene battuta anche dal Grande Fratello.
2005: Paolo Bonolis. Iscritto dal 2010 nel libro del Guinness dei primati per il record di numero di parole pronunciate in un minuto (332), Paolo Bonolis con la sua parlantina conquista anche l’Ariston. Il ritorno quattro anni dopo – affiancato da Luca Laurentis – non è però altrettanto fortunato.
2006: Giorgio Panariello. Di origini campane ma fiorentino d’adozione, Giorgio Panariello è uno dei “ragazzacci toscani” insieme a Carlo Conti e Leonardo Pieraccioni, con i quali furoreggia nei teatri locali nella formazione comica Fratelli d’Italia. La sua conduzione del Festival, tuttavia, non ottiene il successo sperato.
2007 – 2008: Pippo Baudo.
2009: Paolo Bonolis.
2010: Antonella Clerici. Forte del successo de La prova del cuoco, Antonella Clerici approda a Sanremo nel 2010 ed è la quarta donna a condurre il Festival. La sua edizione vede trionfare Valerio Scanu e ottiene un ottimo successo di pubblico.
2011 – 2012: Gianni Morandi. L’eterno ragazzo Gianni Morandi è il conduttore di due edizioni del Festival di Sanremo, la prima delle quali è ricordata per il famoso “scandalo della farfallina”. Belen Rodriguez, valletta insieme a Elisabetta Canalis, si presenta infatti sul palco dell’Ariston con un vestito sgambatissimo che scatena la fantasia degli italiani…
2013 – 2014: Fabio Fazio.
2015 – 2016: Carlo Conti. Dopo una lunga gavetta, Carlo Conti raggiunge il successo con L’eredità, i Migliori anni e Tale e Quale Show, che fanno da trampolino di lancio per la definitiva consacrazione di Sanremo. Dopo i buoni riscontri ottenuti con l’edizione 2015, condotta con Arisa, Emma e Rocio Munoz Morales, Conti punta al bis affiancato da Madalina Ghenea, Virginia Raffaele e Gabriel Garko.
2017: Carlo Conti e Maria De Filippi. Alla guida della kermesse sanremese per la terza volta consecutiva, nel 2017 Carlo Conti è affiancato da “Nostra Signora della TV” Maria De Filippi.
2018-2019: Claudio Baglioni. Per tentare di ripetere il successo delle edizioni guidate da Carlo Conti, nel 2018 sale sul palco del Festival di Sanremo nelle vesti di conduttore e direttore artistico Claudio Baglioni. Il cantautore ha avuto al suo fianco Michelle Hunziker, continuando la combinazione Rai-Mediaset inaugurata durante la precedente edizione, e Pierfrancesco Favino, alla sua prima esperienza come presentatore. Claudio Baglioni torna al comando anche nel 2019 affiancato da Virginia Raffaele, che con le sue imitazioni e parodie ha già divertito il pubblico dell’Ariston nel 2016 accanto a Carlo Conti, e Claudio Bisio, per la prima volta al Festival come co-conduttore ma non novellino assoluto sul palco della kermesse: è stato infatti ospite di Fabio Fazio durante l’edizione del 2013.
· Sanremo: tutte le vallette che hanno partecipato al Festival.
Sanremo: tutte le vallette che hanno partecipato al Festival, scrive il 31 gennaio 2019 361magazine.com. La prima edizione si è tenuta nel 1951. Sanremo 2019 è ormai alla porte. Quest’anno Claudio Baglioni ha scelto al suo fianco Claudio Bisio e Virginia Raffaele. Ormai da anni la figura della valletta, concepita come donna di bella presenza e non parlante è stata superata e sradicata. La comica con le sue imitazioni farà sicuramente discutere (e arrabbiare qualcuno), ma di certo la Raffaele non starà in disparte così come l’anno scorso non ha fatto Michelle Hunziker. Tante le figure femminili che hanno calcato il palco dell’Ariston, ci sono state modelle, attrici, cantanti, show girl. La prima edizione nel 1951, non aveva delle vallette ma c’era solo il conduttore Nunzio Filogamo che avrebbe premiato Nilla Pizzi, così come nel 1987 quando ci fu solo Pippo Baudo.
Chi è stata la prima?
1955 (e nel 1956) c’è Maria Teresa Ruta, zia dell’omonima conduttrice Rai.
1957: Fiorella Mari, Marisa Allasio e Nicoletta Orsomando.
Le prime due sono due attrici e la Allasio ha recitato in film di Zeffirelli e Dino Risi mentre la Orsomando è stata un’annunciatrice della televisione italiana.
1958: Fulvia Colombo: considerata la prima annunciatrice della storia della televisione italiana.
1959: Adriana Serra: vincitrice di Miss Italia 1941.
1960: Enza Sampò: è giornalista e conduttrice.
1961: Lilli Lembo e Giuliana Calandra, attrici. La Calanda ha recitato in “Profondo Rosso” di Dario Argento.
1962: Vicky Ludovisi e Laura Efrikian: la prima è un attrice e annunciatrice trevisana; la Ludovisi ha recitato in “L’audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy.
1963: Edy Campagnoli, Rossana Armani, Maria Giovannini e Giuliana Copreni. La Campagnoli è stata una delle vallette più celebri della tv; Rossana Armani è la sorella dello stilista italiano Giorgio ed è stata anche presentatrice televisiva; la Giovannini è stata valletta in “Lascia o raddoppia”, modella e interprete di fotoromanzi; la Copreni era una delle vallette di Mike Bongiorno.
1964: Giuliana Lojodice: attrice teatrale e televisiva, è in alcuni film come “La dolce vita” (Fellini), “La vita è bella” (Benigni) e nell’ultimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo “Il ricco, il povero e il maggiordomo”.
1965: Grazia Maria Spina: attrice di teatro e cinema.
1966: Carla Maria Puccini e Paola Penni. La prima è stata attrice e conduttrice, la Penni è stata anche cantante.
1967: Renata Mauro: soubrette, attrice e conduttrice degli anni ’50-’60.
1968: Luisa Rivelli: attrice e poi giornalista degli anni ’50-’70.
1969: Gabriella Farinon: attrice e conduttrice della televisione italiana.
1970: Ira Furstenberg: figlia di un principe, è stata attrice e designer italiana.
1971: Elsa Martinelli: modella e attrice toscana.
1972: Sylva Koscina: nata a Zagabria nel ’33, è stata un’attrice in Italia.
1973 – 1974: Gabruella Farinon.
1975: Sabina Ciuffini: showgirl italiana.
1976: Serena Albano, Tiziana Pini, Maddalena Galliani, Karla Strano Pavese, Lorena Rosetta Nardulli e Stella Luna: le soubrette di questa edizione del Festival sono state conduttrici sul piccolo schermo.
1977: Maria Giovanna Elmi: soubrette, conduttrice e cantante italiana.
1978: Maria Giovanna Elimi e Stefania Casini: Lla Casini è attrice e regista.
1979: Anna Maria Rizzoli: attrice e modella romana famosa negli anni ’70-’80.
1980: Olimpia Carlisi: attrice di teatro e cinema.
1981: Nilla Pizzi ed Eleonora Vallone: la Pizzi vinse la prima edizione del Festival, la Vallone è attrice e giornalista romana.
1982: Patrizia Rossetti: conduttrice e attrice.
1983: Anna Pettinelli, Emanuela Falcetti e Isabel Russinova: le prime due sono conduttrici mentre la Russinova è stata modella cantante e conduttrice.
1984: Iris Peynado, Edy Angelillo, Elisabetta Gardini e Tiziana Pini: la Gardini è stata attrice e conduttrice, oggi è in politica, la Angelillo è un’attrice veneta, Tiziana Pini è cantante e attrice, la Peynado è una modella e attrice dominicana.
1985: Patty Brard: showgirl e giornalista olandese.
1986: Loretta Goggi e Anna Pettinelli: la Goggi celebre show girl e anche conduttrice.
1988: Gabriella Carlucci: conduttrice.
1989: Rosita Celentano e Paola Bosè Dominguin: la figlia di Adriano Celentano, conduttrice e cantante; la Dominguin è nipote del cantante Miguel Bosè.
1990: Gabriella Carlucci.
1991: Edwige Fenech: Attrice francese naturalizzata italiana.
1992: Alba Parietti, Milly Carlucci e Brigitte Nielsen: Showgirl italiane le prime due, la Nielsen è nata in Danimarca.
1993: Lorella Cuccarini: showgirl cantante e ballerina.
1994: Cannelle e Anna Oxa: Cannelle è Helena Viranin nata a Guadalupe e conosciuta in Italia per lo spot delle caramelle Morositas, la Oxa è una cantante.
1995: Claudia Koll e Anna Falchi: la prima è una attrice la seconda una conduttrice.
1996: Valeria Mazza e Sabrina Ferilli: la Mazza è stata una top model argentina mentre la seconda è una celebre attrice romana.
1997: Valeria Marini: nota showgirl.
1998: Eva Herzigova e Veronica Pivetti: la prima è una delle più famose top model mentre la Pivetti è attrice.
1999: Laetitia Casta: modella e attrice francese ex di Stefano Accorsi.
2000: Ines Sastre: modella e attrice nata in Spagna.
2001: Megan Gale e Raffaella Carrà: la Gale ottenne il successo per gli spot della Vodafone. La Carrà è una delle figure più celebri della tv italiana.
2002: Manuela Arcuri e Vittoria Belvedere: la prima è un’attrice la Belvedere si è dedicata anche al teatro.
2003: Claudia Gerini e Serena Autieri: due attrici italiane.
2004: Simona Ventura e Paola Cortellesi: la Ventura è una conduttrice e la Cortellesi è una comica.
2005: Federica Felini e Antonella Clerici: la conduttrice celebre per “La Prova del Cuoco” scelse la modella e cantante lodigiana.
2006: Victoria Cabello e Ilary Blasi: conduttrici della tv italiana.
2007: Michelle Hunziker: conduttrice svizzera ex moglie di Ramazzotti.
2008: Bianca Guaccero e Andrea Osvàrt: la prima è oggi alla conduzione di “Detto Fatto” due modelle, la seconda è una modella ungherese.
2009: Eleonora Abbagnato, Alessia Piovan e Gabriella Pession: la ballerina dell’Opera di Roma affiancata da due attrice.
2010: Antonella Clerici.
2011: Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez: l’ex velina di Striscia La notizia con l’argentina.
2012 Ivana vana Mrazova, Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez: la modella ceca, concorrente del Grande Fratello Vip affianca le due show girl.
2013: Bianca Balti, Luciana Littizzetto e Bar Rafaeli: due top model internazionali con la celebre comica torinese.
2015: Arisa ed Emma, affiancate da Rocio Munoz Morales: la compagna di Raoul Bova affiancata dalle due cantanti.
2016: Madalina Ghenea e Virginia Raffaele: l’attrice rumena con la comica.
2017: Maria De Filippi: volto dei programmi Mediaset.
2018: Michelle Hunziker.
· Aneddoti, curiosità e drammi, amori e scandali a Sanremo.
I pugni di Modugno, il bacio di Benigni, la farfallina di Belen: amori e scandali a Sanremo. Il Festival in sette momenti: dai pugni di Domenico Modugno a Johnny Dorelli, al finto pancione di Loredana Bertè alla dichiarazione d’amore di Raoul Bova, scrive il 31 gennaio 2019 Annalisa Grandi su "Il Corriere della Sera".
Rino Gaetano sdogana la parola «sesso». Nel 1978 sul palco dell'Ariston Rino Gaetano canta «Gianna» e sdogana (fra le polemiche), la parola «sesso» a Sanremo.
Il bacio di Benigni. Nel 1980 sul palco di Sanremo va in scena il plateale bacio di Roberto Benigni, preceduto da una lunga dichiarazione d'amore, a Olimpia Carlisi, sua compagna dell'epoca. Un bacio durato ben 45 secondi.
La pancia di Loredana. Il 1986 passa alla storia come l'edizione del Festival in cui Loredana Bertè fa scandalo perché si esibisce sul palco con un pancione clamorosamente finto.
La caduta di Michelle. Sanremo 2007 è l'anno di una caduta eccellente. E d'altronde le scale di Sanremo sono un po' per tutti un grande spauracchio: a finire per terra tocca a Michelle Hunziker, che però la prende con ironia.
La farfallina di Belen. In tema di momenti sanremesi che hanno fatto discutere, non si può non citare la «farfallina» di Belen Rodriguez. Anno 2012, la showgirl insieme ad Elisabetta Canalis affianca Gianni Morandi al Festival, e sfodera uno spacco a mostrare il tatuaggio sull'inguine. Le immagini, naturalmente, rimbalzano in Rete e lo «scandalo sexy» è servito.
L’amore di Rocío e Raoul. Il palo dell’Ariston fa da cornice anche a una grande dichiarazione d’amore in diretta tv. Protagonisti Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova. L’attore italiano e la compagna (che nel 2015 aveva fatto da valletta al Festival), si presentano come ospiti nel 2017. E lui si rivolge a lei così: «Rocìo, hai una stella sul vestito. E io lo so perché. Perché tu sei il mio cielo».
Cantanti, conduttori, ospiti: ecco come si sono avvicendati aneddoti, curiosità e drammi nella storia del Festival più popolare del mondo, scrive lamialiguria.it. Sanremo non è solo un festival della canzone. È un fenomeno pop e culturale, di moda e di costume. Musica, scandali e gossip si sono sempre alternati nella storia del festival. Non sono solo canzonette: sul palco spesso finisce anche la vita privata degli artisti. Da sempre il Festival di Sanremo fa parlare di sé e suscita polemiche. In 67 edizioni, quella del 2018 è la 68°, molti sono stati gli scandali sul palco dell'Ariston, eventi che poco hanno a che fare con i brani in gara. Amori, liti, look audaci, provocazioni e contestazioni, il festival è sempre stato animato da aneddoti e scandali. Sanremo ha ispirato e anticipato tendenze grazie a eventi destinati a segnare, nel bene o nel male, la storia della tv, della musica, del costume.
1958. Pugni tra Dorelli e Modugno. Domenico Modugno prese a pugni il collega Johnny Dorelli per convincerlo a salire sul palco. E aveva proprio ragione: la coppia vinse quell’edizione di Sanremo con “Nel blu dipinto di blu”.
1964. Una lacrima sul… trucco. È il 1964 quando Bobby Solo, per cantare Una lacrima sul viso, si presenta sul palco con gli occhi truccati. Non fa in tempo a partire il gossip che viene superato da un'altra polemica: Bobby Solo canta in playback per una (finta) laringite. Ottimo effetto: un milione e 700mila copie vendute.
1966. Svenimento in diretta. Oggi forse è un espediente televisivo usato per catturare qualche minuto di fama, ma nel 1966 era una novità, una mossa di marketing e un colpo di scena eclatante. L’anno in cui Mike Bongiorno condusse il Festival con Paola Penni e Carla Maria Puccini si accorse che quest’ultima, insieme con Renzo Arbore, aveva pensato di attuare un finto svenimento sul palco per ottenere un po’ di popolarità. Quando la cosa venne messa in atto, Mike, contrariato, fece spostare l’inquadratura delle telecamere.
1967. Il dramma di Luigi Tenco. Si tratta del fatto più tragico accaduto a Sanremo. Era il 1967, Luigi Tenco cantava Ciao amore ciao in coppia con Dalida. Nella notte tra il 26 e il 27 gennaio il grande cantautore si tolse la vita puntandosi una pistola alla tempia nella sua camera d’albergo come protesta al verdetto della giuria che lo aveva escluso. Dal 1974 il festival lo celebra ogni anno con il Premio Tenco, autorevole riconoscimento musicale per la musica d’autore.
1973. Le spalle di Celentano. Provocatorio come sempre. Prima con il rock&roll e le spalle date al pubblico, poi per aver annunciato la sua mancata partecipazione al Festival. Adriano Celentano nel 1973 decise di lasciare il Festival per l’esclusione di artisti come Ivano Fossati, Lucio Dalla e Antonello Venditti.
1978. Rino Gaetano proibito. Nel 1978 Rino Gaetano pronuncia per la prima volta la parola "sesso" nella sua canzone Gianna. Fu clamore e scandalo. Quanto sono cambiati i tempi!
1986. Il pancione della Bertè. Loredana Bertè è incline a scandalizzare. Nel 1986 sale sul palco con un costume in latex nero che racchiude un vistoso pancione. “Voglio mostrare tutte le sfaccettature della donna: da femme fatal a mamma” dichiara lei. La provocazione riesce bene, ma la casa discografica la allontana. Trenta anni dopo, una grande star internazionale l’ha imitata: Lady Gaga.
1987: Patsy Kensit e la spallina galeotta. È il festival del 1987 e, mentre si esibisce come ospite, Patsy Kensit casualmente “perde” una spallina del vestito. Gli occhi dei telespettatori ne seguono, ipnotizzati, la traiettoria. E fu uno scandalo di bellezza.
1995: Pippo Baudo finto eroe. Nel corso delle varie edizioni sanremesi sono stati compiuti gesti estremi per farsi notare. Il più famoso è quello di Pino Pagano, disoccupato bolognese che nel 1995 minacciò di buttarsi dalla balconata dell’Ariston. Pippo Baudo convinse l'uomo a scendere. Il conduttore è stato osannato come un eroe ma, qualche anno dopo, Pagano stesso ha ammesso la finzione.
1999: Il perizoma di Anna Oxa. Nel 1999 Anna Oxa ha fatto scalpore non tanto per la canzone Senza pietà ma per il perizoma che fa capolino dai pantaloni. La Oxa non è certo famosa per i suoi look sobri ma quell’anno la cantante ha superato se stessa facendo clamore grazie al perizoma che le portò fortuna: vinse il Festival!
2007. La caduta di Michelle Hunzicher. Una caduta tra le più memorabili sul palco dell’Ariston. In diretta Michelle inciampa e cade rovinosamente a terra, subito assistita dal conduttore dell'edizione, Pippo Baudo. Nell’edizione 2018 starà più attenta?
2007. “Wojtilaccio” Benigni. È l'anno di Roberto Benigni e del suo "Wojtilaccio" rivolto a Papa Giovanni Paolo. È un modo troppo friendly di rivolgersi a un Pontefice. L'Italia si scandalizza e per ore il centralino dell'Ariston è bersagliato di telefonate con le critiche più feroci per il provocatorio comico toscano.
2010: Spartiti in volo. L'orchestra di Sanremo, per la prima volta nella storia del festival, protesta per il risultato finale della competizione. Quando Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici si sono aggiudicati il secondo posto con Italia amore mio, l’orchestra ha deciso di protestare lanciando in aria gli spartiti.
2012. La farfallina di Belen. Il festival 2012 è rimasto famoso per la farfallina di Belen Rodriguez. Il tatuaggio audace nell'interno coscia della soubrette continua ancora a far parlare la gente. E così è diventato fenomeno social.
2017. Leotta: cyber-attacchi sexy. La giornalista di Sky Sport Diletta Leotta appare a Sanremo con uno spacco sensuale, bersaglio di molte polemiche. Si presenta con un abito rosso molto sexy e invita a "denunciare le violazioni della privacy" e a "non aver paura". Non è mancato il disappunto di Caterina Balivo in un feroce tweet. Con un severo tubino nero il messaggio della Leotta sarebbe stato più autorevole?
· Johnny Dorelli: «Modugno arrivò secondo e mi prese a schiaffi al Festival.
Johnny Dorelli: «Modugno arrivò secondo e mi prese a schiaffi al Festival», scrive sabato, 09 marzo 2019 Il Corriere.it.
Giorgio Guidi, in arte Johnny Dorelli: già, allora andava di moda «fare l’americano»...
«Mezzo americano lo sono. Nato a Milano e sfollato a Meda, dopo la guerra papà, tenore, venne scritturato a New York: nome d’arte Nino D’Aurelio, storpiato dagli americani in D’Orelli. Così il cognome mi rimase appiccicato, anche perché divenni una star dei concorsi canori tv: vinsi per otto puntate di fila nella trasmissione condotta da Robert Alda, l’attore che interpretava George Gershwin nel film Rapsodia in blu. Cominciavo così: “Oj Marì, oj Marì...”. Prima in napoletano, poi a swing. Accadde tutto per caso. Un giorno arrivò a New York un amico di papà invitato in una trasmissione. “Nino, fammi accompagnare da tuo figlio”. Dietro al palco c’era uno Steinway a coda. Io studiavo il contrabbasso alla High School of Music and Art e prendevo lezioni di pianoforte. Nell’intervallo cominciai ad accarezzare i tasti di quella magnifica preda. Due note e mi venne un colpo: dietro di me c’era Percy Faith, il compositore della colonna sonora di Scandalo al sole. “Perdoni...”. “No, vai avanti: te la senti di partecipare a una trasmissione?”».
Da Meda a New York: che botta...
«Io e mamma giravamo con il naso in su mangiando spesso per strada. I musicisti vivevano nel loro mondo. Presto, però, ne conoscemmo un altro. Morì l’impresario di papà e il suo contratto passò al proprietario del ristorante Zi Teresa. Gente simpatica, italiani, gentilissimi. Poi capimmo che non erano proprio dei bonaccioni. Degli ingaggi si occupava don Paolino Palmieri e ogni tanto apparivano altri “don”: Joe Barbara, Vito Genovese... Non bastasse, allo scadere dei cinque anni in America ci obbligarono a uscire dal Paese per non darci la residenza. Tornammo in Italia lo stretto necessario e mamma rivide una vecchia amica, Igea, conosciuta quando studiava ballo alla Scala. “Venite a cena da noi, così vi presento mio marito”. Ci mandarono a prendere con un macchinone, salutammo Igea e, poco dopo, arrivò il marito. “Mama, mi ch’el lì ‘l cunusi”, lo conosco. “Tas”, disse mamma. Mamma diceva sempre “tas”, taci. “Mama, l’è minga el Luchi Luciano?”. “Sì l’è lü, ma tas”. Lucky Luciano parlava di persone che avevamo conosciuto in America e di boxe. Io raccontai di quando Jack La Motta mi mise ko. Di ritorno dal Madison Square Garden mi portò un paio di guantoni. Li indossai e lo sfidai. Gli bastò sfiorarmi per stendermi come una pelle di fico. Mamma prese il mattarello e glielo picchiò in testa».
In Italia ebbe subito vita facile, vero?
«Tornammo a Meda nel 1955. Feci la gavetta nell’avanspettacolo e cantando per la casa editrice musicale napoletana Bideri. Guadagnavo 7 mila lire al giorno: 4 a casa, 3 per vivere. Finalmente venni scritturato dalla Rai per Il Musichiere, ma feci solo tre puntate perché Ladislao Sugar mi spedì a Sanremo in coppia con Domenico Modugno. Avevo 20 anni, cantammo Nel blu dipinto di blue arrivammo primi».
E cominciò a «volare».
«Non proprio. A Meda mi accolsero in piazza 5 mila persone, le stesse che una settimana dopo parteciparono ai funerali di papà. Si sentì male in piazzale Cadorna, a Milano, dove aspettava il treno per Meda. Lo ricoverarono all’ospedale di Seregno, dove arrivò subito mio cugino Ventura, medico. Scosse la testa: “L’è mei ch’el vaga”, non c’era più niente da fare. È morto sull’ambulanza mentre lo portavamo a casa. Rimasi solo con tre donne: nonna, mamma e Ivana, mia sorella di 6 anni. Lo zio mi prestò i soldi per il funerale. L’anno successivo vinsi ancora il Festival con Modugno cantando Piove. Ma il terzo anno rifiutai l’accoppiata: dovevo capire cosa potevo fare da solo. Arrivai decimo. Modugno secondo. Venne nel camerino e mi mollò un ceffone: “Così impari!”. Nel frattempo erano cominciati i problemi di salute: ho avuto più noie fisiche che successo. Mi ero già infilato la punta di un pugnale delle SS in un occhio nel ’45. Dopo la morte di papà, per lo stress, persi la voce. Dovetti subire un intervento alle corde vocali senza anestesia. Dopo un mese di silenzio dissi: “Mamma”, e mi uscì una voce che neanche un evirato cantore... Per fortuna recuperai. Ma non era finita lì: a Londra, dove recitavo in Aggiungi un posto a tavola, uscii dal Savoy per andare a teatro dimenticando che le auto circolano al contrario. Un taxi mi spiaccicò contro a un palo e andai in coma. Però è vero, cominciai a girare i primi film e ad avere successo. La grande notorietà la devo all’Italia dei buoni sentimenti: la canzone Carissimo Pinocchioe lo sceneggiatoCuore».
Sui palcoscenici sono sbocciati i suoi grandi amori, tutte donne bellissime: come accadde con la prima, Laura Masiero?
«Aveva dieci anni più di me. Eravamo sul set di Tipi da spiaggia. Dormivamo all’Hotel San Domenico Palace di Taormina e avevamo i balconi comunicanti. Una sera scavalcai l’inferriata ed entrai nella sua camera. Due parole e la baciai. Ero così impacciato che le strappai la camicia da notte. Dalla vergogna, fuggii. L’indomani, domenica, tutti i negozi erano chiusi. Tornato in albergo, bussai alla sua porta: “Che c’è?”. “Non ho trovato una camicia da notte da comprarti”. Lei scoppiò a ridere e, dopo un po’, nacque nostro figlio Gianluca. Conobbi invece la mamma di Gabriele, Catherine Spaak, mentre interpretavamo La Vedova allegra. Donna difficile e bellissima. Per due mesi quasi non mi salutò poi, due giorni prima della fine, prese l’iniziativa. Mi invitò nella sua camera proprio il giorno che stavo malissimo per colpa degli stivali realizzati dal costumista per alzarmi un po’. Mi si gonfiarono i piedi e avevo dei mancamenti. Le risposi: “Ti spiace se facciamo domani?”».
Poi tutto finì in Gloria.
«Con Gloria Guida siamo insieme da 39 anni. Ovviamente il primo passo l’ha fatto lei. Recitavamo nella commedia musicale Accendiamo la lampada e fingevamo di darci un bacio. Il pubblico non vedeva e non era necessario appoggiare le labbra. Una sera, però, mi mollò un bacione vero e io cominciai a frequentare il suo camerino. Con una certa eleganza. Ma se ne accorsero tutti. Trentanove anni: abbiamo litigato tanto facendo sempre pace. Il segreto? Rigare dritto. L’ho sposata due volte, prima civilmente, poi in chiesa, ed è nata Guendalina».
Una fama di sciupafemmine usurpata!
«Sciupafemmine? Sono l’uomo più timido che conosca, talmente imbranato che nelle donne scatta il meccanismo di protezione. Quando girai Il Cappotto di Astrakan dovevo infilarmi a letto, entrambi nudi, con Carole Bouquet. Ce l’ha presente? Poi mutava la scena e dovevamo aspettare che cambiassero le luci. Ero così contratto che mi addormentai. Mi svegliò un elettricista: “A’froscio, svéjate!”».
Un rapporto complicato?
«Con Monica Vitti in Amori miei. Un caratterino... L’ho fatta piangere. In una scena ero di spalle e inquadravano lei mentre parlava, poi toccava a me. Mentre io recitavo lei ruotava la spalla e toglieva l’attenzione dalle mie parole. Anche il regista glielo fece notare. Per tutta risposta scoppiò a piangere, mi mandò a quel paese e scappò via. Allora presi la bicicletta, la rincorsi, la caricai sulla canna e la riportai indietro. Ma niente da fare, litigi tutto il giorno».
Lavorò in Rai fino a quando arrivò la sirena Berlusconi. Non deve essere stato facile?
«Con il mio carattere in Rai non c’erano problemi. Lasciavo fare, come quando Modugno mi diede lo schiaffone. Poi un giorno mi chiamò Mike Bongiorno. In America mi metteva la sedia sotto per farmi arrivare al microfono e nascondeva la Gazzetta dello Sport per non farsela rubare da papà. “Ti chiamerà Silvio, non puoi dire di no”. Quando lo incontrai, si mise al pianoforte e cantò qualcosa in francese, poi toccò a me. Dopo i primi anni, però, cominciò a chiedermi di fare le trasmissioni della mattina, come Corrado. Non era per me».
Grandi amici?
«Giuseppe Di Stefano. Mi portava ovunque, alla Scala, al Metropolitan. A New York passava l’ultimo dell’anno da noi ma alle dieci spariva. Raggiungeva una villa sul fiume, dove abitava Arturo Toscanini. Si sedevano uno di fronte all’altro e a mezzanotte brindavano. Il suocero di Di Stefano lavorava nel teatro dove provava Toscanini. Mi faceva entrare di nascosto e accucciare per terra nella terza fila: “Non fiatare”. Ascoltavo le prove, condite di feroci incazzature, del maestro. L’unico che si poteva prendere delle libertà era Di Stefano. Pippo strascicava le vocali (“...questa o quellaaa per me pari sono...”) e durante le prove lo faceva ancora di più per provocare lo sguardo iniettato d’odio di Toscanini. Una volta tirò la corda più del dovuto: disse al maestro di andare più veloce perché non ce la faceva con la voce. Toscanini cedette, accelerò, poi lanciò la bacchetta e se ne andò imprecando. Allora Di Stefano fece rifare il pezzo più lento del dovuto e con la voce ce la fece benissimo. Poi alzò il braccio destro e, nel gesto dell’ombrello, si diede una pacca sull’avambraccio con la mano sinistra: “tiè!”».
Gloria Guida: “Potevo fare qualche doccia in meno, ma..” Gustavo Marco Cipolla. Il Giornale Off il 07/12/2019. “Mi chiamo Gloria Guida e sono una ragazza degli anni ‘70”. Non poteva che iniziare così il racconto dell’attrice e conduttrice, icona della commedia sexy all’italiana, già impegnata in tivù con il format di successo “Le ragazze” su Rai 3. Storie di donne comuni e celebri in un intreccio narrativo confezionato con cura per il piccolo schermo e in cui la presentatrice ha dimostrato di riuscire in una nuova sfida professionale dopo le tante ospitate. I 40 anni d’amore con Johnny Dorelli, la pausa dalle scene, il debutto come cantante ed Edwige Fenech, il suo alter ego cinematografico. Poi, la prossima conduzione di due speciali natalizi dello “Zecchino d’Oro” con Paolo Belli su Rai 1, il sogno di Sanremo e di interpretare i ruoli che furono dell’immensa Virna Lisi, un mito per lei.
Ai Weiwei sul suo documentario sui migranti: cosa potevo fare? Nel ’79 conosce Johnny Dorelli, un incontro che le ha cambiato la vita?
«Sì, perché poi è nata nostra figlia Guendalina. Stiamo insieme da 40 anni. Quando l’ho conosciuto era nel pieno della sua attività artistica e stargli dietro non è stato facile nonostante la differenza ventennale di età. Un periodo frenetico, abbiamo fatto teatro, prosa. Per un po’ ho continuato anche io, poi mi sono dedicata alla famiglia perché non mi piaceva l’idea di delegare a qualcuno l’educazione di Guendalina, che ho seguito fino alla scuole medie. Ho rifiutato diverse opportunità, ma dopo qualche anno sono stata contattata da Patrizia de Santis, la mia agente, che ha cercato di convincermi a ritornare sul palcoscenico, ma in modo felpato».
Il suo debutto nella commedia sexy all’italiana è avvenuto con “La ragazzina”, a cui sono seguiti film cult, ancora molto apprezzati dal pubblico, come “La minorenne”, “La novizia”, fino a “Sesso e volentieri” di Dino Risi. Che effetto le fa quando le ricordano di essere stata un’icona di quel genere di pellicole?
«Mi diverte tanto. Icona sexy di un tipo di commedia ridanciana in cui non c’è mai stato niente di sporco e tutto veniva realizzato in maniera leggera. Quando mi rivedo ho nostalgia di quella giovinezza e mi dico che, forse, avrei potuto fare qualche “doccia” in meno davanti alla cinepresa. Non rinnego nulla e sono felice della mia carriera».
Negli anni ‘70 le sue interpretazioni hanno suscitato non poche reazioni negative da parte delle femministe. Come ha reagito?
«All’inizio mi arrabbiavo, ma poi ho imparato a farmi scivolare tutto addosso. Per me si trattava di film adatti a tutti. E, al contrario, proprio perché la protagonista era una donna, avrei voluto che le prime spettatrici, orgogliose per la femminilità e il femminismo portati sullo schermo, fossero loro».
Le scene di nudo sul set non erano un problema per lei?
«Sono sempre state scene velate. La donna in doccia era un classico, così come l’inquadratura dal buco della serratura. Faceva tutto parte di quei racconti in cui non c’erano situazioni volgari. Ma siamo in un’altra epoca, allora c’era più pudore, era tutto diverso. Però è un’esperienza che mi è servita e fa parte dello zainetto che mi porto sempre dietro».
Edwige Fenech: siete state un po’ le Coppi e Bartali di quel periodo per il Cinema?
«Assolutamente no, non c’è mai stata competizione fra noi due. Lei era la professoressa, io la liceale. Lei mora, io bionda. Ruoli sempre molto differenti. Inoltre, il produttore di quelle commedie era il suo compagno, Luciano Martino, sempre contento per i nostri trionfi al botteghino. Purtroppo io ed Edwige non abbiamo mai lavorato insieme, avrebbero potuto pensare ad una storia in cui coinvolgere entrambe. Poi però il tempo è passato e non c’è stata la possibilità».
Un episodio off e divertente che le è accaduto agli inizi della sua carriera?
«Avevo 11 anni, papà lavorava come barman in un locale di Riccione e nel ’71 vinse addirittura un premio come campione del mondo. Frequentavo dei corsi di canto e ricordo che mi spinse sul palco dove suonava una piccola orchestra, chiedendo di farmi intonare “A chi” di Fausto Leali perché ero davvero brava secondo lui. Con una faccia tosta come poche ho iniziato a cantare e il risultato fu una standing ovation. Mio padre mi ha sempre supportato, probabilmente avrebbe voluto fare spettacolo nella sua vita».
“Le ragazze”, un format di grande successo, prodotto da “Pesci Combattenti”, che ha condotto in prima serata su Rai 3. Storie di donne comuni e famose che appartengono un po’ a tutti…
«Questa trasmissione mi è arrivata dal cielo all’improvviso, proprio quando avevo deciso di dire basta alla varie partecipazioni televisive in qualità di ospite. Sono stata chiamata dal direttore di Rai 3 Stefano Coletta per un incontro ed ero abbastanza spaventata perché non avevo mai condotto un programma prima di allora. Coletta mi ha seguito e ammirato, prefiggendosi di propormi qualcosa che fosse adatto a me. Un’avventura che mi ha dato sicurezza, mi ha inorgoglita facendomi apprezzare quello che sono. “Le ragazze” è il mio gioiellino che mi ha regalato una nuova “Gloria”. Ed è grazie al suo successo che sono stata scelta accanto a Paolo Belli per presentare due speciali dello “Zecchino d’Oro” dall’Antoniano di Bologna, in onda su Rai 1 la vigilia e il giorno di Natale. Mi piace l’idea di avere come riferimento i bambini. Sono mamma, nonna, spero di diventare bisnonna. Me lo merito».
Che ragazza è, adesso, Gloria Guida?
«Una ragazza nonna. Non voglio fare la giovane a tutti i costi, sembrerei ridicola, ma dentro di me sento di avere 30 anni. Vado in palestra e non sto ferma un attimo».
Ha esordito come cantante, dimostrando in diverse occasioni di conoscere la musica, ad esempio nel programma “Tale e quale show”. Le dispiace di non aver mai calcato il palco dell’Ariston?
«Ho partecipato al “Cantagiro”, alla manifestazione “Un disco per l’estate” e al Festival di Venezia. Mi spiace non aver partecipato al Festival di Sanremo, ma so che sarebbe stato anche parecchio impegnativo e, di certo, bisognava avere la canzone giusta. Magari un giorno, chissà, come co-conduttrice o come ospite».
È sempre bellissima, tant’è che, nel gennaio 2018, ha sfilato per la maison Gattinoni Couture alle Terme di Diocleziano a Roma con donne di tutte le età e Gessica Notaro, ex Miss sfregiata con l’acido dal compagno. Le piacerebbe ritornare sul grande schermo o preferisce la tivù?
«Sono abituata a muovermi in diversi ambiti e settori. Vorrei ritornare al Cinema ma gli spazi da protagonista per le donne sono sempre meno. Se ci fosse una parte perfetta per me, accetterei volentieri. Anzi, c’è una proposta nell’aria da parte di un importante regista italiano per un cammeo, ma si saprà nell’arco di due mesi. Potrei interpretare la mamma, la nonna o la zia. Sarei anche lieta di vestire quei ruoli femminili della grande Virna Lisi, che ho adorato, e che da quando è scomparsa nessuno fa più. Non mi dispiacerebbe riempire quel vuoto che ha lasciato nel mondo della recitazione».
Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 23 novembre 2019. Voce: profondissima, invariabilmente profondissima; modi: garbati, attenti, borghesi; stile: garbato, attento, borghese. Aspetto: a 52 anni la forbice tra un atteggiamento adulto - troppo adulto al tempo dei suoi venticinque e passa anni - e l' età reale si è riequilibrata e "magari finirò con secchiello e paletta. Ma forse quella di allora era solo una forma di difesa". Quella difesa, in Gianluca Guidi, è rimasta sotto altre forme: "Sto sempre sul chi va là, temo perennemente la fregatura e spesso ci colgo"; così quando parla, di frequente, non guarda negli occhi, e non è una forma di scortesia, monitora tutto ciò che avviene attorno, tra una sigaretta accesa e una attesa, e un autocontrollo che lo porta a lottare contro se stesso, la gola, e i dolci più volte offerti dal barman. In questa stagione Guidi è nuovamente in scena con Aggiungi un posto a tavola, sold out ovunque, applausi da diverse stagioni teatrali, "per uno spettacolo che ho ammirato sin dal giorno del suo debutto del 1974, e a forza di vederlo l'ho imparato a memoria". Con un però: "La prima domanda che mi pongono i giornalisti quando vado nelle varie città è sempre la stessa: non teme il paragone con suo padre? “Il paragone con Johnny Dorelli non lo teme, e anche qui il tempo sta riequilibrando le prospettive: "Con le ultime generazioni non si pone la questione".
Quindi da ragazzo recitava a memoria "Aggiungi un posto a tavola".
«Oltre alla prima, poi sono andato a Londra con papà, ho visto in video la versione messicana, argentina, cilena, tedesca».
Aveva già deciso il suo futuro.
«No, o meglio: in parte lo speravo. Poi è capitato nell' età giusta, non tanto per il personaggio, più giovane di me, ma l' età scenica mi consente di evitare paragoni».
La preoccupano?
«In realtà me ne sono sempre fottuto, magari parte del pubblico credeva imitassi mio padre».
Invece.
«È proprio Dna».
Il paragone scema con gli anni.
«Ogni volta che mi pongono la domanda su mio padre, dentro di me penso: che due palle».
Insomma, sta scemando.
«Per le ultime generazioni è così, poi tra me e mio padre c'è stata un'edizione con Giulio Scarpati, e una volta con lui mi uscì una battuta: "Anche George Lazenby interpretò uno 007" (Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà del 1969 )».
Feroce.
«Era solo una battuta, e poi stimo molto Giulio, forse quello non era il suo ruolo ottimale in quanto a indole scenica e canto; comunque per il mio senso dell'umorismo ho perso molti amici».
A sua madre chiedeva dei film in cui ha recitato?
«Qualcosina mi raccontava, come quando ha girato con Totò Sua eccellenza si ferma a mangiare, e secondo mamma il principe manifestava un debole per lei, ma lei era una donna molto fedele, con le sue storie, però fedele; "Giangio", mi chiamava così, "lui era molto più anziano di me e non era mica Sean Connery"».
Com'era sua mamma?
«Una donna moderna, simpatica, grande humour, buona di carattere, e come tutti i buoni molto fessa: in tanti se la sono fatta fritta, compresa la vita, visti i dieci anni di Alzheimer».
Un dramma.
«È una malattia che toglie dignità».
Si è mai controllato sul piano genetico?
«Non voglio sapere un cazzo: se per caso un giorno me lo diagnosticano, allora mi chiudo in un ristorante, ostriche e champagne, per poi dirigermi in Svizzera e addio».
La Svizzera la conosce bene.
«Da ragazzo suonavo il piano e le maracas in un night, giusto per guadagnare due soldi mentre frequentavo l' università, dopo essere fuggito alle superiori dal Classico di Milano».
Un liceo "bene".
«Talmente bene da tramutarmi prima in una sorta di Renato Curcio, e poi diventare ateo come reazione ai "fratelli delle scuole cristiane", e alla loro manfrina cattolica».
Troppo.
«Un giorno il preside, evidentemente disperato, convoca mia madre: "Signora, se mi assicura che lo porta via, noi lo promuoviamo"».
Addirittura. Cosa combinava?
«Tra le mie varie imprese, ricordo un professore che mentre parlava sistematicamente sputava. Io per punizione ero perennemente al primo banco. Un giorno porto in classe l'ombrello e durante la sua spiegazione l'apro come forma di protezione; e questa è probabilmente la più sobria delle mie».
Quindi.
«Mamma decise che dovevo trasmigrare al collegio dei Gesuiti a Lodi, ma lì avrei rischiato di tramutarmi in Giusva Fioravanti; papà risolse la questione proponendomi l' Istituto internazionale di Ginevra: dopo mezz' ora ero già sul treno per la Svizzera».
Suonava.
«Durante i due anni di università con un repertorio vasto, ma principalmente concentrato su Frank Sinatra, poi un giorno papà lo scoprì, venne, e dovetti smettere».
Rimorchiava.
«Non andava male, però nella vita sono sempre stato un uomo abbastanza fedele».
Abbastanza.
«Non potrebbe essere altrimenti: sono sbadato, dimentico sempre tutto, e soprattutto non so dire le bugie».
Basta recitare.
«Non è la stessa cosa; l'unica volta che ho fatto sega a scuola, per andare a baciare la fidanzata di allora, i miei se ne sono accorti».
Le controllavano i compiti?
«Fino a una certa età, poi la situazione in casa è mutata, anche per i dissapori tra i miei, e mamma doveva lavorare: ero lasciato a me stesso, e non tanto sotto il profilo della forma, ma per quanto riguarda l' aiuto a crescere. E l' ho capito dopo essere diventato genitore».
E suo padre?
«Presente, ma di fatto viveva a Roma, io a Milano, e il mondo, per un periodo, è stato Dorelli-centrico, un po' come allora era anche Gassman-centrico, Tognazzi-centrico; alla fine le storie dei "figli di" sono tutte simili».
Cambia la reazione.
«A un certo punto ho iniziato a farmi scivolare addosso molte situazioni; negli anni ho compreso la necessità di tornare indietro e affrontare le questioni centrali, i classici "conti con la vita"».
Non si scappa.
«No, se vuoi diventare un uomo».
Prima di diventare uomo, ha presidiato un albergo solo per vedere Patsy Kensit.
«Come lo sa?
Succede.
«Avevo un gruppo di amici ed eravamo tutti pazzi di lei, sogno erotico assoluto; un giorno scopriamo in quale albergo di Milano avrebbe dormito, ci presentiamo lì ma era impossibile entrare e prendere una stanza; alla fine abbiamo affittato l' intero piano, quello sotto a lei».
Obiettivo raggiunto?
«No, l' ascensore era presidiato da tre gorilla e noi tutta sera a giocare a briscola. (Ci pensa). Ora la mia passione è Emily Blunt, per me il nuovo Mary Poppins è paragonabile a un porno, visto quattro volte. (Arrivano altri dolci, soffre ma non cede)».
L' attore è disciplina.
«Soprattutto quando hai in scena una spettacolo di tre ore».
Gioca sempre al Superenalotto?
«Tutte le settimane e a ogni concorso; una volta ho vinto 17 euro e ho chiesto ai miei figli come li dovevamo impiegare, e loro: "Investiamoli in mozzarella di bufala". Così è andata».
Com' è da padre?
«Il più presente possibile».
Scaramanzie?
«Nessuna».
Riti prima del sipario?
«Mica sono matto, tutte cazzate».
I suoi colleghi li hanno.
«Problemi loro».
Mondanità?
«Ho avuto la fortuna di potermene fregare di salotti, feste e sorrisi forzati».
Per contrapposizione alla vita da bambino?
«No, e da piccolo arrivavano a casa Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Paolo Villaggio, Alberto Lupo e Paolo Ferrari: ho vissuto situazioni meravigliose, spettatore-partecipe di una scuola inconsapevole di arte (ride), magari aprivo la porta e mi trovavo davanti Rossella Falk, donna della quale ero perdutamente innamorato».
Una lezione che ha ancora nella testa?
«In assoluto, la più importante, è quella ricevuta da Gigi Proietti, maestro enorme soprattutto per l' apertura mentale rispetto a questo mestiere; professionalmente parlando è stato un secondo padre, gli devo la carriera, grazie a lui ho ottenuto il ruolo da primo attore (gli brillano gli occhi). Con lui era un classico restare a tavola, post-spettacolo, fino alle cinque del mattino».
Questa lezione.
«Una sera, proprio alle cinque, entrambi avvolti dagli effetti del vino, mi fissa e con voce bassa, labbra serrate, mi lancia la perla: "Ricorda, in questo mestiere devi essere maniacale, altrimenti non andrai da nessuna parte"».
E...
«Lo sono diventato, mentre non trovo lo stesso atteggiamento nelle nuove generazioni: i ragazzi sono ossessionati da se stessi, passano la vita ad affrontare i loro cazzi».
L' attore è una professione di autoanalisi?
«Questa storia ha rotto, come i vari metodi di recitazione che ultimamente sono emersi: è un mestiere di tecnica, e come ho sentito recentemente "la tecnica preserva dai guru e dalla mode"».
Quando ha scoperto Proietti?
«Nel 1992 andai con mia mamma a vederlo recitare il Kean, ne rimasi folgorato e ci sono tornato trenta volte; dopo lo spettacolo Gigi voleva andare a mangiare, poi suonare, bere vino e grappa; finivamo sempre in orari improbabili; il giorno dopo mi svegliavo rintronato, lui andava a teatro e non sbagliava una virgola».
Fenomeno.
«Lì realizzi chi è un fuoriclasse, e simile a Proietti è Massimo Popolizio».
È fondamentale il dopoteatro?
«Fino a qualche anno fa partecipavo, ora mangio e subito a letto».
Niente liturgia.
«Ne ho condivise troppe, molte delle quali sbagliate: si finisce a parlare delle stesse cose, e a un certo punto si straparla; un tempo non comprendevo mio padre che cenava da solo in camera d' albergo, oggi lo capisco».
A 25 anni sembrava un uomo con un viso da ragazzo.
«Sono diventato grande troppo presto, magari è stata una difesa; c' è un commediografo inglese che sostiene: "Non vado in analisi perché ho il terrore di scoprire che a quattro anni ero innamorato del mio cavallo a dondolo". Oggi sono una persona centrata».
Da bambino la seducevano in quanto figlio di Dorelli?
«Credo di no, mai avuta la sensazione, o forse non me ne sono accorto. E il carattere di mio padre non prevedeva alcuna forma di seduzione traslata da me; papà con il suo carattere ha lasciato parecchi cadaveri in carriera».
Secondo Antonio Ricci lei "è il padre di Dorelli".
«Sì, e ha aggiunto: "Quando canta sembra perdere il catetere"; su di me hanno inventato due battute geniali, una è questa di Antonio, poi c' è Fiorello che in radio ha dichiarato: "Gianluca è entrato in un negozio di antiquariato e per sbaglio è stato venduto"».
Lei ha definito Fiorello "un talento inarginabile anche da se stesso".
«Ora è diventato adulto ed è più cosciente».
Per lei molto teatro, poco cinema e tv.
«Non mi chiamano, magari assomiglio troppo a mio padre».
Con Sorrentino è in "The young pope".
«Dopo un provino.
Teso?
«Per niente, mi fumo una sigaretta e via».
Lei da attore: giudizio.
«Non lo so».
Come regista?
«Mi piace, e credo di realizzare spettacoli che raccontano delle storie, senza tanti ghirigori, più dalla parte del pubblico».
Durante la recita è mai squillato un cellulare?
«Lì mi incazzo proprio, a volte ho interrotto lo spettacolo».
Chi è lei?
«Senz' altro un soldato che si è smazzato da solo gran parte delle questioni».
Da piccolo leggeva le favole?
«Poche, ho recuperato da adulto».
Pregio.
«Non ho rimpianti né invidie».
Proprio nessun rimpianto?
«Forse l' unico è di non aver dedicato maggior tempo al mare, il mio sogno era di vivere in barca con i miei figli e accompagnarli a studiare a Londra entrando in città attraverso il Tamigi».
Ateo o agnostico?
«Entrambi, per questo interpreto bene il ruolo del prete».
I figli li ha battezzati?
«Sì, almeno quello. Poi sceglieranno loro».
Jacopo Fo ha pubblicato una biografia della sua famiglia.
«Davvero? Certe situazioni vanno tenute per se stessi, non scriverò mai un libro su di noi, meglio di no».
· I 12 big che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo.
I 12 big che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo, scrive Marco Rimmaudo il 7 febbraio 2016 su 2duerighe.com. Il Festival di Sanremo è sicuramente una delle tappe più importanti ed ambite per la carriera di un artista, sia emergente che già affermato. C’è però chi, nonostante la fama e il successo, non ha mai calcato il palco della kermesse. Tutti vogliono andare a Sanremo, la grande vetrina della musica italiana, sono tanti i motivi che possono spingere un artista a partecipare al Festival della Canzone Italiana ed ogni anno, per la case discografiche è una corsa all’ultimo posto. Ma c’è chi, tra i big, non ha mai voluto o non si è mai ritrovato in gara sul palco del Teatro Ariston, e sono pure tanti! Abbiamo fatto una ricerca e composto una lista degli artisti che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo come concorrenti. Non contano le ospitate e la collaborazione come autori ovviamente, noi li vogliamo a gareggiare insieme agli altri! Fin dai grandi cantautori ai volti noti degli ultimi anni, ecco chi non ha mai partecipato in gara al Festival di Sanremo.
EDOARDO BENNATO. Per il cantante del rock di Capitano Uncino, il Festival di Sanremo sta diventando sempre più un’incombenza, tanto da aver dichiarato l’anno scorso “Ho un disco pronto ma le major non me lo pubblicano se non vado a Sanremo”. Per il momento nessuna partecipazione. E neanche l’album.
CLAUDIO BAGLIONI. E’ il nome a cui nemmeno noi avremmo mai pensato, eppure non è mai stato in gara a Sanremo. E’ stato ospite nel 1985 con “Questo piccolo grande amore”, anno in cui venne nominata “Canzone del secolo”. Più tempo passa, più impatto mediatico farà un suo ritorno.
FRANCESCO DE GREGORI. Poco si sa sul perchè non abbia mai partecipato, l’unica sua apparizione la troviamo in veste di autore con il brano “Mariù” presentato nel 1980 da Gianni Morandi. Più volte è stato omaggiato con le sue canzoni nella serata delle cover ma non ha mai partecipato nella categoria.
FRANCESCO GUCCINI. Al cantautore de “L’avvelenata”, solo una volta gli fu proposto di partecipare al festival come autore per Caterina Caselli e Gigliola Cinquetti, il brano però non passò le selezioni preliminari. La casa discografia chiese così ad altri due autori di modificare il testo e questo non fece piacere a Guccini tanto da fargli rifiutare altre collaborazioni future.
ANTONELLO VENDITTI. Nemmeno lui hai mai partecipato in gara a Sanremo. L’unica sua apparizione sul palco è stata nel 2000 come superospite nell’edizione condotta da Fabio Fazio. Si esibì con due brani tratti dall’album Goodbye Novecento: “Che tesoro che sei” e “Su questa nave chiamata musica”.
LIGABUE. Unica volta a Sanremo come ospite nel 2014, si esibì con la cover di Crêuza de mä di Fabrizio de Andrè e con quattro brani del suo repertorio (Certe notti, Il giorno di dolore che uno ha, Il sale della terra e Per sempre). Di una partecipazione in gara ancora nessuna novità.
GIANNA NANNINI. Pure lei, tante ospitate, autrice, ma niente gara. La Nannini partecipa nel 2007 in qualità di superospite, autrice nel 2008 del brano vincitore “Colpo di fulmine” interpretato da Giò di Tonno e Lola Ponce, nel 2015 torna come superospite esibendosi con L’immensità di Don Backy e Sei nell’anima.
PIERO PELU’. Il leader dei Litfiba è stato solo una volta, da solista, ospite speciale del Festival di Sanremo nel 2001, affrontò il tema delle mine antiuomo. Oltre a quel momento, non si è più presentato a Sanremo nè come ospite, nè tanto meno in gara.
TIZIANO FERRO. Di lui ormai lo sappiamo, a Sanremo, almeno per il momento, non vuole andarci. La sua prima canzone in assoluto “Quando ritornerai” la presentò alle selezioni per accedere alla categoria giovani nel 1999 ma non fu preso. Ha partecipato più volte come ospite, nel 2006 ha cantato con Michele Zarrillo, nel 2007 ha presentato “Ti scatterò una foto” e nel 2015 ci ricordiamo la sua gloriosa esibizione con il medley delle sue canzoni più belle. Ma in gara, proprio non se ne parla.
J-Ax. il Rap è iniziato ad essere più diffuso dai grandi media solo da pochi anni, non si può non pensare a J-Ax, una grande carriera nel settore. Mai stato ospite del Festival e nemmeno in gara. Tempo fa dichiarò “A Sanremo? Ci andrò per prendere il sole”.
CESARE CREMONINI. Sì, anche lui non lo abbiamo visto sul palco del Festival di Sanremo, nemmeno in qualità di ospite, nel 2014 quando si vociferava di una sua partecipazione lo stesso Cremonini dichiarò di aver rifiutato: “Non penso che Sanremo abbia bisogno di me, ma lo guarderò per imparare”. Cremonini dopo il successo nel 2015 con il PiùCheLogico Tour tornerà sulle scene fra qualche anno, che sia la volta giusta?
FEDEZ. Ancora non è arrivato al Festival, ma la sua carriera potrebbe riservarci qualche sorpresa. Fino ad oggi è soltanto co-autore di “Siamo uguali”, brano sanremese di Lorenzo Fragola nel 2015.
· La biellese Gilda, vinse un Festival (minore).
Sanremo 2019. La biellese Gilda, vinse un Festival (minore) ma poi venne accusata di usura. Una biellese a San Remo, scrive il 31 Gennaio 2019 laprovinciadibiella.it. Rosangela Scalabrino, in arte Gilda, iniziò a 14 anni a esibirsi nelle feste di paese, grazie ad alcuni concittadini ebbe l’opportunità di farsi conoscere anche fuori dall’ambito locale. Scoperta da Mina debuttò nel 1969 con “Nu ferru de calzetta”. Nel 1975 inviò alla commissione del Festival di San Remo il brano “Ragazza del sud” con il quale vinse. Da lì seguì il primo album “Bolle di sapone”. Gilda incise in seguito altri dischi e partecipò ad alcuni eventi musicali. Alla fine preferì la famiglia alla carriera dedicandosi anche alla gestione di un albergo a Torino, città dove andò a vivere. Diverse le sue esibizioni negli anni ottanta. Nel 2013, con altri artisti, ha contribuito alla realizzazione di un album, Omaggio a Umberto Bindi, realizzato e distribuito da “La voce delle donne”, riproponendo il brano il brano “Arrivederci”. La vita di Gilda è stata sconvolta in anni recenti: accusata di usura, nel 2011 viene condannata dal Tribunale di Torino insieme a un complice per aver prestato delle somme di denaro con interessi fino al 120% annuo. La condanna, di un anno e quattro mesi, viene poi sospesa. Le notizie più recenti della cantante la danno di nuovo sul palco nel 2017, durante una manifestazione nella sua città, Masserano.
Incidente per la cantante “Gilda” Scalabrino. La mitica “Gilda”, al secolo Rosangela Scalabrino, è stata la sfortunata protagonista di uno spiacevole incidente avvenuto in via Cernaia a Torino, città nella quale ormai vive da parecchi anni, scrive l'1 Dicembre 2016 su laprovinciadibiella.it. La mitica “Gilda”, al secolo Rosangela Scalabrino, è stata la sfortunata protagonista di uno spiacevole incidente avvenuto in via Cernaia a Torino, città nella quale ormai vive da parecchi anni. La mitica “Gilda”, al secolo Rosangela Scalabrino, è stata la sfortunata protagonista di uno spiacevole incidente avvenuto in via Cernaia a Torino, città nella quale ormai vive da parecchi anni. La scorsa settimana la cantante originaria di Masserano, divenuta famosa negli anni ‘70 con la canzone “Ragazza del sud” che le valse la vittoria al Festival di Sanremo, ha riportato numerose ferite in una caduta tanto banale quanto pericolosa. «Ho fatto tutto da sola – racconta -. Non ho visto una buca sul marciapiede e ci ho infilato il piede dentro. Mi hanno subito soccorsa e accompagnata all’ospedale, ma purtroppo mi sono fatta parecchio male, in particolare a un ginocchio, alle labbra e al naso. Sembra quello di un pugile adesso. La cosa peggiore è che mi si è rotta la capsula articolare di una spalla, quindi dovrò tenerla ferma e a riposo per parecchi giorni». Gilda ormai da tempo ha in parte reciso i legami con la nostra terra, ma qualche volta torna comunque nel Biellese: «Non capita spesso – spiega – perché la casa dei miei genitori, a Masserano, l’abbiamo venduta. Tuttavia mio fratello ed io abbiamo ancora diversi amici, soprattutto nel Cossatese».
· Guida minima ai conflitti d’interesse di Baglioni.
Guida minima ai conflitti d’interesse di Claudio Baglioni a Sanremo, scrive Francesco Prisco il 7 febbraio 2018 su Il Sole 24 ore. L’Italia non è Paese da conflitti d’interesse. Precisiamo: l’Italia non è Paese cui facciano più specie i conflitti d’interesse ché, gratta gratta, trovi sempre lo zio decisore pubblico che compra il pane per la cittadinanza dal nipote fornaio. Ma perché il pane è buono e costa il giusto, mica perché il fornaio è il nipote, sia chiaro. Se tuttavia volessimo metterci a ragionare alla brandeburghese - popolo curioso, quello del giudice a Berlino - non ci sarebbe in tutta probabilità ambito completamente al riparo da conflitti d’interesse. Sanremo compreso. Non ci credete? Facciamo un esercizio facile facile: prendiamo il «dittatore artistico» Claudio Baglioni e sottoponiamolo al giudice a Berlino con il metro brandeburghese. Ebbene, abbiamo ragione di credere che quest’ultimo ravviserà almeno quattro potenziali conflitti d’interesse nella di lui gestione del Festival della canzone italiana. Eccoli.
La sigla. L’avrete sentita: «Un giorno qualunque/ un suono soltanto/ che nasce dovunque/ e dura chissà quanto». E vai col rif: «Po, popopopo...». È Un giorno qualunque, la nuova, nuovissima sigla della kermesse musicale cantata da tutti e 20 i Big in gara a inizio di ogni puntata, come fossero i giovani concorrenti dell’ultimo talent show. E l’ha scritta Baglioni. Non intendiamo entrare nel merito della qualità della composizione: non sta certo a noi dare lezioni di songwriting all’autore di Poster. Ci limitiamo a segnalare che l’esecuzione della sigla consente al cantautore romano, già sotto contratto con la Rai per un cachet da 600mila euro, di arrotondare con le royalties.
Gli omaggi (a se stesso). Eggià, l’esecuzione di un brano in un contesto come quello del Festival di Sanremo porta a chi l’ha scritto ricavi in termini di diritto d’autore per ciascuna esecuzione: non è affatto un mistero. Ma è opportuno che il direttore artistico di una manifestazione del genere, che è anche autore di innumerevoli pezzi celebri del canzoniere italico degli ultimi cinquant’anni, assegni a ciascun ospite della manifestazione una propria composizione, aggiungendo gettone ai gettoni? È giusto che Fiorello debba cantare E tu? È etico che Biagio Antonacci gorgheggi sui Mille giorni di te e di me? È opportuno che i tre tenorini de Il Volo intonino La vita è adesso? Mettiamola così: se non è per forza inopportuno, di sicuro non è elegante.
Al via Sanremo. Sul palco dell’Ariston la sfida è tra case discografiche. Un festival «a maggioranza» Sony Music. Baglioni è il direttore artistico e, come tale, ha l’ultima parola su canzoni e artisti da ammettere al Festival. Qual è la casa discografica di Baglioni? Sony Music Italy. Qual è la casa discografica che ha più artisti in gara? Sony Music Italy: otto iscritti al concorso dei Big e uno a quello dei Giovani. Molto più diluita la partecipazione delle altre due major del mercato discografico Universal e Warner, ciascuna a tre concorrenti. Certo, non è la prima volta che Sony fa la parte del leone: ha nel proprio Dna pezzi imprescindibili della storia della musica popolare tricolore, quali furono Rca italiana e Ricordi, ha ricordato al Sole 24 Ore il presidente Andrea Rosi, quel segmento di mercato le interessa e lo presidia con convinzione. Ma vallo a spiegare al giudice che sta a Berlino...
Se Sanremo diventa «F&Pstival». Baglioni è direttore artistico, ha l’ultima parola su concorrenti e ospiti. Baglioni, per la parte live della propria attività musicale, è artista di punta della scuderia F&P Group, agenzia di promoting guidata dal suo manager Ferdinando Salzano in procinto di essere rilevata dalla multinazionale tedesca Cts Eventim. Ebbene, a guardare la lista di concorrenti e ospiti di Sanremo ti accorgi piuttosto facilmente che ci sono 21 nomi del roster di Salzano. Tra gli ospiti, Laura Pausini, Gianni Morandi, lo stesso Antonacci. Tra i Big, Roby Facchinetti e Riccardo Fogli, Red Canzian, Mario Biondi, The Kolors, Elio e le Storie Tese (per i quali F&P è diventata anche etichetta discografica). Si può fare? Certo che si può fare, pure il giudice a Berlino dovrà convenire su questo. Ma siccome ha il metro brandeburghese, siamo sicuri che chioserà: si può fare ma è meglio non fare, perché pare brutto. Non gliene vogliate, il crucco è un po’ così: da Kant in poi ha la fissa della bellezza, pure quando si parla di etica. Noi ci ispiriamo a ben altri filosofi: «Le canzoni sono coriandoli d’infinito, istanti di eternità, sono mare, sono cielo, sono neve di sogni, sembrano cadere da un altro pianeta e nessuno sa da dove possono provenire, in pochi secondi fanno piccoli miracoli». Also Sprach Herr Baglioni.
Sanremo, infornata di cantanti “vicini”: Baglioni accusato di conflitto d’interessi, scrive giovedì 10 gennaio 2019 Eleonora Guerra su Secolo d’Italia. Non c’è solo la questione migranti. A mettere Claudio Baglioni sulla graticola, all’indomani della presentazione del 69esimo Festival di Sanremo, è anche il conflitto d’interessi che il cantante avrebbe rispetto alla kermesse. A lui, in quanto direttore artistico, spetta l’ultima parola sulla scelta degli artisti in gara e degli ospiti, la maggior parte dei quali afferiscono alla sua stessa etichetta discografica e alla sua stessa agenzia di promoting: la Sony Music Italy e la F&P Group, controllata dalla multinazionale tedesca Cts eventim.
Baglioni in conflitto di interessi? Non si tratta di una questione del tutto nuova: già lo scorso anno vi furono polemiche in questo senso. Oggi a rilanciarla, mentre la maggior parte degli osservatori si concentrava sulle prese di posizione sui migranti, è stato Il Sole 24 ore, sottolineando che «la casa discografica meglio rappresentata», con 7 artisti in gara «è proprio Sony Music» (Achille Lauro, Simone Cristicchi, Einar, Il Volo, Enrico Nigiotti, Francesco Renga e Daniele Silvestri), mentre sono 8 «i concorrenti i cui concerti sono organizzati da agenzie del gruppo Cts Eventim» (Achille Lauro, Ex-Otago, Il Volo, Irama, Nek, Francesco Renga, Paola Turci e Ultimo) e quasi una mezza dozzina gli ospiti, tra confermati e potenziali, che hanno gli stessi promoter (Elisa, Giorgia, Ligabue, Biagio Antonacci e Laura Pausini).
Rossi: «Porterò il caso in CdA». «Il cittadino Baglioni ha diritto di manifestare tutte le opinioni che vuole, naturalmente. Parlare di immigrazione, però, mentre si presenta il Festival della canzone italiana è del tutto fuori contesto, anche quando lo si fa in risposta a domande specifiche poste dai giornalisti», ha commentato il consigliere Rai, Giampaolo Rossi, spiegando che «la questione più seria che, invece, io porrò sul Festival di Sanremo nel prossimo consiglio di amministrazione è un’altra: chiederò che la Rai verifichi se ci sono conflitti di interesse generati dal rapporto che il direttore artistico del Festival di Sanremo ha con la sua casa discografica, che è la stessa cui appartiene una buona parte degli artisti selezionati».
Di Nicola: «Se ne occuperà il nuovo management». Un tema affrontato anche dal vicepresidente grillino della commissione di Vigilanza, Primo Di Nicola. Ricordando che il Festival di Sanremo «è uno degli eventi più importanti dell’anno sotto il profilo dello spettacolo e del business per l’azienda pubblica» e «un appuntamento irrinunciabile per molti italiani», Di Nicola si è augurato che la kermesse «possa essere, quest’anno, uno spettacolo intelligente all’insegna della musica senza ridursi al solito inno al nazionalpopolare. Condito dalle usuali polemiche e dai soliti conflitti di interesse». «Quello descritto stamattina dal Sole 24 ore porta il nome di Claudio Baglioni. Se è vero, non mi piace. E sono sicuro che il nuovo management saprà porvi rimedio», ha concluso l’esponente del M5S.
REPETITA IUVANT, scrive Michele Monina l'11 gennaio 2019 su L’Inkiesta. Baglioni a Sanremo, sette domande alla Rai su un conflitto d’interessi che non ha precedenti. Riguardo la questione del conflitto di interessi di Baglioni a Sanremo si parla di deroga culturale consensuale. Siete sicuri che un artista legato a una casa discografica e a una agenzia di booking sia la migliore garanzia di trasparenza?
Gentili dott. dott.Salini, Amministratore Delegato della RAI e dott. Foa, Presidente della RAI. Ho letto ieri su un lancio di Adnkronos a firma Veronica Marino, che riguardo la questione del conflitto di interessi del Direttore Artistico Claudio Baglioni riguardo il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, si parla di deroga culturale consensuale, tirando in ballo la precedente esperienza di Gianni Morandi. Approfitto di questo mio tornavi a porre le medesime domande cui non avete ancora risposto, per farvi sommessamente notare che in quel caso non era Gianni Morandi a ricoprire il ruolo di Direttore Artistico, ma Gianmarco Mazzi. Quindi di deroga cultule consensuale, nel 2011 e 2012 non si è dovuto parlare. Precisato questo torno a porgervi le sette domande:
-Che fine ha fatto la salvaguardia di questo principio che dovrebbe essere un baluardo invalicabile per la tv pubblica?
-Nello stipulare il contratto con Claudio Baglioni è stata mantenuta detta clausola?
-Se sì, pensate sia stata rispettata?
-Siete sicuri che un artista legato da contratto a una casa discografica e a una agenzia di booking alle quali sono legati una buona porzione degli artisti da lui selezionati rappresenti la migliore garanzia di trasparenza?
-È vero che per conferire con il direttore artistico è stato necessario ed è tuttora necessario passare dal suo impresario, immancabile a qualsiasi riunione inerente il Festival?
-Potrebbero in futuro i dirigenti Rai essere chiamati a rispondere personalmente delle conseguenze di decisioni prese da incaricati in aperto conflitto d’interesse? Ultima domanda, piuttosto centrale in un momento storico come questo, scosso dal vento di cambiamento: -La RAI, televisione del servizio pubblico, sta dando al Paese un bell’esempio di trasparenza?
In attesa di vostre cortesi risposte porgo i miei saluti, Michele Monina.
Sanremo, ci risiamo: il problema non è il compenso di Baglioni, ma il suo conflitto d’interessi, scrive Michele Monina il 17 gennaio 2019 su L’Inkiesta. Una lettera aperta di Michele Monina a Renato Franco del Corriere della Sera sulle polemiche relative ai compensi dei conduttori di Sanremo. Peccato non sia lì il problema, ma in chi conduce le trattative. Che per la Rai è la madre del braccio destro di Baglioni.
Caro Renato Franco, ho letto con interesse il suo articolo di oggi sul Corriere riguardo le presunte polemiche sui compensi del Festival di Sanremo. Mi permetto però di farti notare che altro è il vero punto della questione. Che sono e rimangono le sette domande che continuiamo a porre alla Rai relativamente al potenziale conflitto d'interesse di Claudio Baglioni. Piccolo riassunto: ti sembra normale che l'impresario di Claudio Baglioni, direttore artistico del Festival debba trattare il proprio compenso con la madre del suo braccio destro, dirigente Rai responsabile dei contratti delle risorse artistiche? Potrà mai essere quella una trattativa a vantaggio del servizio pubblico? Idem per quel che riguarda i contratti dei vari ospiti che sempre a quella agenzia fanno capo. Ecco, forse sarebbe il caso di fare chiarezza su questo. Ne ho chiesto ai dirigenti Rai, ma per ora senza risposta. Con stima, Michele Monina.
Striscia la Notizia, bomba su Claudio Baglioni: "La mamma di...", clamoroso conflitto d'interessi a Sanremo, scrive il 28 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Il Festival di Sanremo di Claudio Baglioni sta per iniziare e Striscia la Notiziari prende a bombardare. Al direttore artistico della kermesse, infatti, riserva un velenosissimo servizio in cui si denuncia un presunto conflitto d'interessi che lo riguarderebbe. "Abbiamo scoperto una clausola di trasparenza nei contratti Rai – spiega l’inviato Pinuccio -. Non abbiamo capito se viene applicata o no a Claudio Baglioni". Il caso viene sollevato da Michele Monina de Linkiesta, che spiega: È una clausola che fa parte di tutti i contratti che riguardano il servizio pubblico e prevede che non ci siano relazioni (etichette, management, edizioni e booking) tra coloro che devono selezionare gli artisti che finiranno all’interno del concorso canoro. Baglioni si trova ad aver selezionato artisti che fanno parte della sua stessa agenzia". Claudio Baglioni però è legato alla Friends & Partners (F&P) di Ferdinando Salzano e questa, a sua volta, collabora con una serie di cantanti selezionati al Festival (Paola Turci, Nek, Achille Lauro, Renga, Il Volo e Nino D’Angelo). Da poco, inoltre, l’agenzia di Salzano è stata acquisita in parte dalla Cts, una multinazionale, che ha acquisito la Vivo Concerti e la Magellano Concerti. Di queste fanno parte altri concorrenti di Sanremo: Irama, Ultimo, Federica Carta, Shade ed Ex Otago. L’inviato di Striscia spiega: "L’anno scorso tra gli invitati al matrimonio di Salzano c’erano tanti cantanti. Sembrava quasi una preselezione per il Festival, perché chi ha cantato alla cerimonia, ora è a Sanremo". Alla festa, inoltre, era presente anche Baglioni. In chiusura di servizio, Pinuccio aggiunge: "La Rai ha un ufficio che fa i contratti per gli artisti. E chi ci lavora? La mamma di una collaboratrice di Salzano". L’inviato di Striscia allora domanda: "Chiediamo alla Rai se è opportuno scegliere un direttore artistico legato a un’agenzia che rappresenta e collabora con tanti cantanti che poi si ritrovano al Festival, ricordando pure che tra Baglioni e Salzano c’è evidentemente un’amicizia".
Sanremo, seconda bomba di Striscia la notizia: "Sapete che Fiorella Mannoia...", altro guaio per Baglioni, scrive il 29 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Questa sera, martedì 29 gennaio, a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Pinuccio torna sulle strane “coincidenze” del Festival di Sanremo e sull’edizione Giovani. L’inviato rivela che anche i cantanti confermati, che prenderanno parte al Festival come ospiti, ruotano intorno alla Friends & Partners (F&P), la società che gestisce anche Claudio Baglioni. Infatti Antonello Venditti, Elisa, Ligabue e Alessandra Amoroso sono legati alle F&P e Giorgia alla Vivo Concerti, società acquisita da una multinazionale che in parte ha acquisito anche la società di Ferdinando Salzano. "Alcuni di questi cantanti erano presenti al matrimonio di Salzano", sottolinea Pinuccio. Il caso è stato sollevato da Linkiesta e Dagospia. Le indiscrezioni su eventuali altri ospiti parlano di Umberto Tozzi, Raf, Fiorella Mannoia e Pio e Amedeo. Tutti quanti della F&P e molti di loro presenti alle nozze di Salzano, di cui Baglioni è stato testimone. Ma strane “coincidenze” sono presenti anche a Sanremo Giovani, che "aveva una giuria composta da 5 persone - spiega l’inviato – 3 con collaborazioni Rai e 2 esterni, Fiorella Mannoia e Annalisa. Queste due ruotano attorno alla Friends & Partners". Ma è non tutto: "I due vincitori che sono entrati di diritto nel Festival vero e proprio, da regolamento, sono stati votati per il 40% da una commissione musicale guidata da Baglioni, quindi riferibile al suo agente Salzano. Per il 30% dalla giuria di esperti - tra cui Fiorella Mannoia e Annalisa - artiste brave e competenti ma pur sempre in quota Salzano. E per il restante 30% dal televoto. Un semplice calcolo – sottolinea Pinuccio - mostra dunque che il primo 40% più il 12% della giuria di esperti fa 52%. Perciò più della maggioranza dei voti è astrattamente riconducibile a Salzano". Inoltre, l’inviato ricorda che "per la F&P lavora Veronica Corno: sua madre è Chiara Galvagni, capo struttura Rai responsabile delle risorse artistiche, che fa i contratti agli artisti di Sanremo". Pinuccio chiude il servizio con un appello alla Rai: "Ma per voi è tutto normale? Oppure c’è un conflitto?".
Striscia la Notizia, bomba atomica su Claudio Baglioni: "Come ha scelto i cantanti di Sanremo", scrive il 5 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. A poche ore dal via del Festival di Sanremo di Claudio Baglioni, da Striscia la Notizia arrivano nuove pesantissime accuse al direttore artistico della kermesse. Nel mirino di Pinuccio, in un servizio trasmesso lunedì 4 febbraio, ancora il conflitto di interessi. A parlare è il manager discografico Claudio Ferrante, che racconta come avvenivano le valutazioni degli artisti da parte di Baglioni: "Sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell'albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Ferdinando Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C'era anche Veronica Corno, c'erano tutti". Una testimonianza pesantissima, perché Salzano non è consulente né fornitore della Rai. Si collega a Viale Mazzini solo perché la sua per la sua Friends e partners Group Srl lavora la Corno (responsabile della comunicazione e del coordinamento artisti), figlia di Chiara Galvagni, la capostruttura Rai che firma i contratti, compresi quelli di Sanremo. Ma non è finita. Perché Pinuccio ha intervistato anche il giornalista Michele Monina, che ha aggiunto: "Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l'Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno. (...) Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente dalla Fep, non direttamente da Baglioni". Salzano, insomma, sembra sempre più essere l'eminenza grigia di questo Festival di Sanremo. E l'ombra del conflitto di interessi si fa sempre più pesante.
BAGLIONI E DINTORNI. Finché Sanremo va, lascialo andare: il Festival del Cambiamento è come gli altri (con un conflitto d’interessi in più), scrive il 5 febbraio 2019 Michele Monina su L’Inkiesta. Parte il sessantanovesimo festival della canzone italiana, all’insegna della querelle sulla direzione artistica di Claudio Baglioni, che di fronte alle domande fa spallucce. Da domani saranno in scena le canzoni. Chissà se arriveranno le risposte.
Finché la barca va lasciala andare. So che se qualcuno associa la canzone politica a una “Contessa” di Paolo Pietrangeli o, più recentemente, a “L'uomo col megafono” di Daniele Silvestri pensare a questa canzone di Orietta Berti come a un brano politico sembrerà una cosa incredibile. Ma tant'è. E la faccenda è così da praticamente quando esiste il Festival della Canzone Italiana, giunto alla sessantanovesima edizione. Conoscete il refrain, la canzonetta come termometro del paese. “Finché la barca va”, in passato, le canzoni di Motta, Negrita e Zen Circus, oggi. Questo a dare uno sguardo banalotto al tutto. Perché in realtà, forse non vi sarà sfuggito, quest'anno il vento di cambiamento, quello dell'era giallo-verde a Sanremo sembra esserci già arrivato, e non certo passando dalle canzoni. Provo a fare un breve riassunto delle puntate precedenti, sicuro che sarete già persone informate dei fatti, o che lo diventerete più approfonditamente andandovi a leggere il dossier che trovate qui. Claudio Baglioni si trova per il secondo anno di fila a ricoprire il ruolo di direttore artistico del Festival, e per il secondo anno, ahilui, e soprattutto ahinoi, contribuenti, si trova a incarnare un conflitto di interessi piuttosto palese.
Quale? Semplice, il suo manager e promoter, Ferdinando Salzano della Friends and Partners, si trova costantemente al suo fianco, a prendere decisioni importanti, comprese quelle di scegliere i cantanti in gara, e anche quelli che andranno ospiti. Buona parte dei quali, guarda un po', sono suoi artisti. Suoi nel senso che ne cura i live, che come sapete oggi è il vero e solo business della musica, e in alcuni casi anche il management.
Ieri alla conferenza di inaugurazione del Festival, il direttore di Rai 1, Teresa De Santis ci ha tenuto a fare una supercazzola degna di Amici miei, parlando proprio dI connessioni amicali, e finendo per dire sempre la stessa roba, Baglioni è Baglioni, mica vorremo dubitare della sua buonafede.
Non basta. Nel palese conflitto di interessi, ce n'è uno ancora più stridente, specie in epoca di conflitti di interessi, vento del cambiamento, etc etc. Al fianco di Ferdinando Salzano, l'uomo con le Hogan, c'è sempre il suo braccio destro Veronica Corno, la cui mamma è la dirigente Rai Chiara Galvagni, dirigente alle risorse artistiche. Cioè, per capirsi, quando Salzano è andato, si suppone con la Corno, a discutere il cachet di Baglioni, come quello di un Ligabue, superospite, aveva di fronte la mamma della Corno stessa. La cosa la abbiamo scritta. Lo avevamo già fatto l'anno scorso, ma il vieni del cambiamento era lì da venire. Stavolta se n'è accorto Dagospia, che ci ha a più riprese rilanciato, e poi se n'è accorto Pinuccio, inviato di Striscia La Notizia, che proprio a partire da una intervista a me ha cominciato a raccontare tutto questo. Così, di colpo, tutti, ma proprio tutti tutti hanno scoperto chi fosse Ferdinando Salzano, e anche le sue attività.
Io, sommessamente, avevo posto ormai un mese fa sette domande a Salini e Foa, direttore generale e presidente della Rai, ma risposte non ne sono mai arrivate. Voci, si, rumors, ma non risposte. Ieri, però, alla conferenza di inaugurazione del Festival, il direttore di Rai 1, Teresa De Santis ci ha tenuto a fare una supercazzola degna di Amici miei, parlando proprio dI connessioni amicali, e finendo per dire sempre la stessa roba, Baglioni è Baglioni, mica vorremo dubitare della sua buonafede. Baglioni ci ha pure scherzato, col sorriso di chi ha avuto una emiparesi facciale: l'unico conflitto di interessi che ha è che la mamma della sua spalla Virginia Raffaele è una sua grande fan. Nel mentre l'inchiesta di Striscia continua, e un Tapiro gigante aspetta Baglioni davanti all'Ariston, e io aspetto ancora le risposte alle sette domane. Da stasera partiranno le canzoni, ma nessuna saprà raccontare bene l'oggi come questo grande inghippo, come il silenzio stridente di Rai, Baglioni e di tutti i colleghi della Sala Stampa, e soprattutto dei commenti al sangue che si trovano sotto i miei articoli e i link dei servizi di Striscia. Commenti che parlano di cambiamento, signora mia. Perché se la barca non va, la faremo andare noi.
Paola Pellai per “Libero quotidiano” il 5 febbraio 2019. Non chiamatelo giornalista. Michele Monina è un narratore che non conosce neutri e che ama talmente la musica da volerla libera ed accessibile a chiunque se lo meriti. Per molti è un rompicoglioni, ora per tutti è l'uomo che ha scoperchiato il presunto conflitto d' interessi che sta facendo tremare il Festival di Sanremo.
Alla vigilia della manifestazione, la Rai non ha ancora risposto alle tue domande. È il Festival di Sanremo o di Salzano?
«Le mie domande sono diventate virali grazie a Striscia la notizia e ad un'interrogazione parlamentare. La Rai si è limitata ad un anonimo virgolettato senza rispondere a nulla. Ho chiesto se è normale che un direttore artistico possa essere legato a doppio filo con case discografiche ed impresari che scelgono gli artisti e gli ospiti del Festival. Già perché Fernando Salzano, promoter e manager di Claudio Baglioni, con la sua Friends&Partners è legato ad una parte consistente degli artisti ed ospiti, selezionati dallo stesso direttore artistico. Artisti che, in molti casi, condividono con Baglioni anche l'etichetta discografica, la Sony Music Italia. Inoltre Veronica Corno, la collaboratrice più stretta di F&P, è figlia di Chiara Galvagni, la dirigente Rai che ha fatto tutti i contratti agli artisti di Sanremo, Baglioni ed ospiti compresi. Incongruenze sbalorditive».
Oltretutto, come in ogni contratto pubblico, c' è una clausola di trasparenza che vieta qualsiasi tipo di legame professionale tra Baglioni e le aziende dei concorrenti.
«Ovvio. È lo stesso principio che vieta ad un rettore d' università di assegnare, tramite concorso, una cattedra ordinaria a un figlio o un parente. Sanremo è un concorso pubblico organizzato da un servizio pubblico, la Rai. Non è Amici, per intenderci...».
Gianni Morandi nel 2012 presentò il Festival rifiutandone la direzione artistica...
«Morandi ha semplicemente letto e rispettato il contratto. Nel virgolettato delle fantomatiche fonti Rai c' è scritto che per Baglioni vale una specie di deroga per la sua caratura professionale ed artistica. Come dire che Morandi non l'aveva».
Baglioni ha violato un contratto e la Rai sta muta.
«Un contratto violato può essere rescisso in qualsiasi momento, mi chiedo perché non sia stato fatto. Chi ci guadagna? Baglioni il suo ingaggio lo ha preso, ora il botto lo fa la F&P che ha molti cantanti in gara e quasi tutti gli ospiti. Faccio un esempio. Da martedì a sabato Nek in gara entra nella tv di tutti gli italiani, un megaspot a costo zero per le prevendite del suo tour. In genere le promozioni si pagano, qui no.
Idem per Ligabue, sempre della F&P, al via con un tour negli stadi: è stato scelto come ospite da Baglioni che, ripetiamolo, ha proprio Salzano come promoter e manager. Oltre allo spot gratuito, Ligabue verrà pure pagato e una percentuale finirà nelle tasche della sua agenzia. È vero che F&P ha moltissimi artisti pop in Italia, ma allora bastava evitare Baglioni».
Senza il rompicoglioni Monina nessuno si sarebbe accorto di nulla.
«Il mio è un ragionamento più ampio sul mondo della musica. Mi piacerebbe che ci fosse una possibilità anche per chi non fa parte del cosiddetto cerchio magico. Mi aspettavo che qualche big in gara s' incazzasse e spiegasse che era lì non per appartenenza al cerchio magico, ma per meriti. Tutti zitti. Io per scelta non sono un giornalista, mai preso il tesserino. Essere collaterale al circo mi ha aiutato. Non appartengo a nessun conclave e quindi racconto verità scomode perché non ho nulla da perdere né optional da rincorrere. Intorno a me, invece, vedo un gregge di pecore che ha una grande paura di perdere diritti acquisiti».
Se scrivi in modo petaloso hai un pacchetto di optional assicurati?
«Gente esperta di buffet abituata all' accredito, all' autista che li preleva e li porta al concerto, al biglietto aereo pagato... Tutto ciò non fa per me. Io sono un critico musicale libero, evito persino le conferenze stampa per non abboccare alla sagra della tartina. Li vedi i grandi nomi seduti in prima fila agli eventi, sempre compiacenti e coccolosi. Temono di perdere un ruolo e non si rendono conto che quel ruolo lo hanno già perso perché gliel' ho tolto io. Sono l'unico che sta trattando il tema del momento, il loro silenzio è una scelta strategica sbagliata. Io non devasto, non inquino e non affosso la musica. Io la musica la racconto, studiandola e curandone la scrittura. Sono un uomo di parole, campo con quelle».
Una scrittura non proprio vicina all' Accademia della Crusca.
«Ho uno stile veemente e virulento. So di disturbare scrivendo che una canzone fa cagare. Ma lo faccio consapevolmente, non giudicando mai le persone. Non a caso in oltre 20 anni non ho mai preso una querela, pur sdoganando termini scomodi nei titoli. Ho recensito un disco della Pausini titolando "A cazzo di cane". Non ne vado fiero, ma bisogna fare i conti con la rete che usa un linguaggio parlato e ha cambiato il modo di scrivere. Puoi attaccare la forma, ma non la sostanza del messaggio che vuoi veicolare».
Attacchi il Festival anche perché è misogino.
«Sì, 24 big in gara per un totale di 36 artisti, di cui solo 6 donne. Io rispondo portando in riviera il Festivalino di Anatomia Femminile, 25 cantautrici si esibiranno dal vivo in un mio spazio, cercando di pareggiare i conti con quello maschilista di Baglioni-Salzano. Già l'anno scorso mi ero ribellato allo strapotere degli uomini con un hashtag urticante, #LaFigaLaPortoIo, chiedevo alle donne dello spettacolo d' invadere i social con foto di tette e culi. Un flashmob virtuale che funzionò molto nei consensi, poco nella pratica».
Chi vince Sanremo?
«La canzone che mi piace di più è quella di Daniele Silvestri col rapper Rancore. Tutti dicono che vincerà Ultimo, ma occhio ad Irama e Achille Lauro»
La musica italiana fa cagare?
«Di musica buona ce n' è tanta, è il mercato italiano invaso da cagate. Fedez, per esempio, non è un artista, non ha prodotto nulla che esuli dal marketing spicciolo. Musica brutta ed immeritevole? Pausini, Antonacci, la maggior parte di chi esce dai talent.... Ma nel sottobosco ci sono i creativi, quelli interessanti che hanno capito che devono perdere di vista il mercato perché tanto il mercato non li guarderà mai».
Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 febbraio 2019. Il Festival di Sanremo parte all' insegna dei sospetti sul presunto conflitto d' interesse del suo direttore artistico e conduttore Claudio Baglioni. A creare imbarazzo è il ruolo di Ferdinando Salzano, agente di Baglioni e di molti dei cantanti che sfileranno sul palco della kermesse canora a partire da stasera. Ieri Striscia la notizia ha riportato alcune frasi di Claudio Ferrante, manager discografico del cantante Pierdavide Carone, che ha raccontato come siano avvenute le audizioni per Sanremo 2019: «Sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell' albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C'era anche Veronica Corno, c' erano tutti». Il punto è questo: Salzano non è consulente né fornitore della Rai. L' unico labile collegamento è che per la sua Friends e partners Group Srl lavora la Corno (responsabile della comunicazione e del coordinamento artisti), figlia di Chiara Galvagni, la capostruttura Rai che firma i contratti, pure quelli di Sanremo. L' inviato della trasmissione di Canale 5, Pinuccio, ha intervistato anche il giornalista Michele Monina, il quale ha aggiunto: «Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l'Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno. () Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente dalla Fep, non direttamente da Baglioni». Dunque Salzano è la presunta eminenza grigia di questo Festival con la sua Fep, anche se sarebbe meglio dire la sua Habita Srl. Infatti la Fep è stata da poco messa in liquidazione, dopo che lo stesso Salzano il 21 gennaio scorso ha rilevato le quote di proprietà della Warner Music Group Italy. Nello studio del notaio Luciano Quaggia, Salzano, in qualità di amministratore unico della Habita Srl, ha rilevato il 60% delle quote della Fep (valore nominale 600.000 euro) di proprietà della Warner, rappresentata per l'occasione dal presidente Marco Alboni. Insomma Salzano, alla vigilia del secondo Festival targato Baglioni, si è messo in proprio e, forse, punta ad allargare i suoi affari, magari diventando produttore anche di cd e altri supporti oltre che organizzatore di concerti. Se la sinergia con Sanremo sia fruttuosa per lui e la sua scuderia lo scopriremo a giugno quando la società presenterà il bilancio del 2018. Di certo la pagina Internet degli artisti della Fep sembra un po' il cartellone di Sanremo. Ci sono Baglioni, Nino D' Angelo, Achille Lauro, Nek, Francesco Renga, Paola Turci, Il Volo. A questo bisogna aggiungere la sinergia tra la Fep e la Cts, la multinazionale che ha acquisito la Vivo concerti e la Magellano concerti che rappresentano ulteriori concorrenti come Federica Carta, Irama, Ex Otago, Shade e Ultimo. Ci sono pure i super ospiti della manifestazione rivierasca: Biagio Antonacci, Alessandra Amoroso, Elisa, Ligabue, Fiorella Mannoia, Laura Pausini e Antonello Venditti. La maggior parte di loro era presente anche alle nozze di Salzano con la manager della Fep Barbara Zaggia, festeggiate a Formentera lo scorso ottobre. I video con i karaoke della serata sembrano un'anticipazione dei duetti del Sanremo che sta per iniziare. Teresa De Santis, direttrice di Rai 1, ieri ha cercato di smorzare le polemiche sul possibile conflitto di interessi di Baglioni in modo un po' fumoso: «La nostra produzione musicale e culturale vive anche di contiguità». Secondo la manager si deve «fare tesoro» di questo. Come? «Attraverso rapporti amicali si possono ottenere artisti che altrimenti non si sarebbero avuti () Nel caso di Baglioni quando si fa un contratto ad un artista vivente e operante è normale che abbia rapporti anche con l'industria della produzione musicale e dunque sta alla sua coscienza, che credo sia molto forte, portare avanti i risultati». Il vicedirettore di Rai 1, Claudio Fasulo, è stato meno criptico: «La clausola di trasparenza c' è ed è stata rispettata, il contratto di Claudio Baglioni è in linea con quello firmato dai direttori artistici precedenti. Le nostre scelte sono inattaccabili dal punto di vista della qualità. Questa situazione è figlia di un mercato molto concentrato, ma nella assoluta trasparenza» ha detto. Quindi ha aggiunto: «La commissione selezionatrice, di cui anche io faccio parte, ha lavorato nell' assoluta assenza di pressioni». L' inviato di Striscia ha provato a smentire questa versione: «C' è un'altra clausola, un obbrobrio giuridico, secondo cui il fatto che Baglioni abbia dichiarato di avere un rapporto con un'etichetta discografica (la Sony, ndr) e con la Friends e Partners di Salzano annulla la clausola di conflitto. Quindi non rappresenta conflitto solo perché l'ha dichiarato?». Pinuccio ha proseguito il suo attacco: «Come hanno detto le "fonti Rai", il contratto ha passato cinque step, tante persone, ma è stato firmato da un'unica persona: Mario Orfeo, l'ex direttore generale della Rai, che era al matrimonio di Salzano. E allora sono super "coincidenze"». Pinuccio ha concluso il servizio sottolineando: «La direttrice di Rai 1 Teresa De Santis ha detto che Baglioni è una brava persona, che la sua moralità garantisce tutto A questo punto è tutto a posto, solo che se è tutto a posto perché hanno inserito una seconda clausola in cui devono dire che i rapporti con la Fep e le etichette musicali non c' entrano niente?». Per evitare nuove polemiche c' è da scommettere che in Rai si augurino che a vincere la gara non sia un artista della premiata ditta Salzano&friends.
Striscia la notizia, il presunto conflitto di interessi di Baglioni e le strane coincidenze di Sanremo 2019. Striscia la notizia | il presunto conflitto di interessi di Baglioni e le strane coincidenze di Sanremo 2019. L'inviato Pinuccio si occupa di molte stranezze presenti nell'edizione in arrivo del Festival, scrive Mercoledì, 30 Gennaio 2019 maridacaterini.it. Striscia la notizia si sta occupando, attraverso l’inviato Pinuccio, di alcune strane “coincidenze” del Festival di Sanremo che interessano anche l’edizione Giovani e sul conflitto di interessi che Claudio Baglioni potrebbe avere come direttore artistico dello show. Gli argomenti sono stati affrontati in due puntate differenti del Tg satirico di Canale 5 in onda dal lunedì al venerdì alle 20.40. Nell’ultimo appuntamento del 29 gennaio, l’inviato rivela che anche i cantanti confermati, che prenderanno parte al Festival come ospiti, ruotano intorno alla Friends & Partners (F&P), la società che gestisce anche Claudio Baglioni. Infatti Antonello Venditti, Elisa, Ligabue e Alessandra Amoroso sono legati alle F&P e Giorgia alla Vivo Concerti, società acquisita da una multinazionale che in parte ha acquisito anche la società di Ferdinando Salzano. «Alcuni di questi cantanti erano presenti al matrimonio di Salzano», sottolinea Pinuccio. Le indiscrezioni su eventuali altri ospiti parlano di Umberto Tozzi, Raf, Fiorella Mannoia e Pio e Amedeo. Tutti quanti della F&P e molti di loro presenti alle nozze di Salzano, di cui Baglioni è stato testimone. Ma strane “coincidenze” sono presenti anche a Sanremo Giovani, che «aveva una giuria composta da 5 persone – spiegava l’inviato – 3 con collaborazioni Rai e 2 esterni, Fiorella Mannoia e Annalisa. Queste due ruotano attorno alla Friends & Partners». Ma è non tutto: «I due vincitori che sono entrati di diritto nel Festival vero e proprio, da regolamento, sono stati votati per il 40% da una commissione musicale guidata da Baglioni, quindi riferibile al suo agente Salzano. Per il 30% dalla giuria di esperti – tra cui Fiorella Mannoia e Annalisa – artiste brave e competenti ma pur sempre in quota Salzano. E per il restante 30% dal televoto. Un semplice calcolo – sottolineava Pinuccio – mostra dunque che il primo 40% più il 12% della giuria di esperti fa 52%. Perciò più della maggioranza dei voti è astrattamente riconducibile a Salzano». Inoltre, l’inviato ricorda che «per la F&P lavora Veronica Corno: sua madre è Chiara Galvagni, capo struttura Rai responsabile delle risorse artistiche, che fa i contratti agli artisti di Sanremo». Pinuccio chiude il servizio con un appello alla Rai: «Ma per voi è tutto normale? Oppure c’è un conflitto?». Nella puntata precedente, Pinuccio si occupava del conflitto di interessi che Claudio Baglioni potrebbe avere come direttore artistico dello show: «Abbiamo scoperto una clausola di trasparenza nei contratti Rai – spiegava l’inviato – Non abbiamo capito se viene applicata o no a Claudio Baglioni». Si tratta di una clausola che fa parte di tutti i contratti che riguardano il servizio pubblico e prevede che non ci siano relazioni (etichette, management, edizioni e booking) tra coloro che devono selezionare gli artisti che finiranno all’interno del concorso canoro. Baglioni si trova ad aver selezionato artisti che fanno parte della sua stessa agenzia. Claudio Baglioni infatti è legato alla Friends & Partners (F&P) di Ferdinando Salzano e questa, a sua volta, collabora con una serie di cantanti selezionati al Festival (Paola Turci, Nek, Achille Lauro, Renga, Il Volo e Nino D’Angelo). Da poco, inoltre, l’agenzia di Salzano è stata acquisita in parte dalla Cts, una multinazionale, che ha acquisito la Vivo Concerti e la Magellano Concerti. Di queste fanno parte altri concorrenti di Sanremo: Irama, Ultimo, Federica Carta, Shade ed Ex Otago. L’inviato raccontava: «L’anno scorso tra gli invitati al matrimonio di Salzano c’erano tanti cantanti. Sembrava quasi una preselezione per il Festival, perché chi ha cantato alla cerimonia, ora è a Sanremo». Alla festa, inoltre, era presente anche Baglioni. In chiusura di servizio, Pinuccio rivelava: «La Rai ha un ufficio che fa i contratti per gli artisti. E chi ci lavora? La mamma di una collaboratrice di Salzano». L’inviato di Striscia allora domanda: «Chiediamo alla Rai se è opportuno scegliere un direttore artistico legato a un’agenzia che rappresenta e collabora con tanti cantanti che poi si ritrovano al Festival, ricordando pure che tra Baglioni e Salzano c’è evidentemente un’amicizia».
Striscia ribatte alla Rai sul presunto conflitto di interessi di Baglioni per Sanremo 2019. Striscia la notizia ribatte alla risposta della Rai sul presunto conflitto di interessi di Baglioni per Sanremo 2019. L'azienda di viale Mazzini risponde al Tg satirico che, a sua volta, ribatte, scrive Joele Germani Mercoledì, 30 Gennaio 2019 su maridacaterini.it. Questa sera, mercoledì 30 gennaio, Striscia la notizia torna su Sanremo 2019. In particolare, l’inviato Pinuccio si occupa della risposta data dalla Rai, subito dopo la messa in onda dei servizi del Tg satirico di Antonio Ricci, a proposito del presunto conflitto di interessi Baglioni-Salzano-Sanremo. Pinuccio ha così esordito: «Attraverso alcune agenzie di stampa la Rai ha emanato un comunicato. Solo che non si capisce chi l’ha emanato, perché si parla di “fonti Rai”. E cosa sono? A me sembra fasullo. Se uno deve dire una cosa mette nome e cognome. Noi ci mettiamo la faccia». L’inviato ha poi precisato: «Abbiamo sentito Marcello Foa, presidente della Rai, che ha detto che al momento non vuole esprimersi sulla questione. Così abbiamo provato a sentire la direttrice di Rai Uno, Teresa De Santis». Ma la nuova responsabile di Rai 1 non ha risposto. Nel comunicato si dice che «Baglioni non può avere conflitto di interessi perché la caratura artistica e professionale» è al di sopra di qualsiasi dubbio e sospetto. «Ma è una caratteristica soggettiva» ha insistito Pinuccio. «Le fonti Rai – prosegue l’inviato – dicono anche che la F&P di Salzano non gestisce gli artisti, ma per molti di loro gestisce solo i concerti. Ma questi sono il nucleo di interesse degli artisti e quindi qui ci può essere il conflitto». L’azienda di viale Mazzini risponde anche all’ipotesi di conflitto per la figlia della dirigente Rai che lavora per Salzano. «La Rai dice che non ci sono conflitti perché i contratti passano diversi step. Ma questi contratti, anche quello di Baglioni, chi li va a fare? Anche perché Baglioni oltre al Festival fa altre cose in Rai. Noi vorremmo sapere chi gestisce i contratti di questi altri impegni». Pinuccio ha chiuso il servizio ricordando alla Rai che «in passato ha affidato la conduzione di Sanremo ad altri cantanti che, proprio per evitare conflitto di interessi, non erano anche direttori artistici. Il che vuol dire che questi cantanti non erano così integerrimi?».
Sanremo 2019 le rivelazioni di Striscia la notizia sul Festival. Sanremo 2019. Il Tg satirico di Canale 5 ha iniziato una serie di servizi finalizzati a far luce su alcuni aspetti contrattuali della manifestazione canora, scrive Camila Rossetti, Venerdì, 1 Febbraio 2019 su maridacaterini.it. Il Festival di Sanremo 2019 entra nel vivo. Mancano pochi giorni e le indiscrezioni su quanto sta accadendo occupano oramai tutti i programmi tv. Il Tg satirico di Antonio Ricci, in onda ogni giorno dal lunedì al sabato in access prime time, sta realizzando una serie di servizi sul Festival di Sanremo 2019. Non vi abbiamo già documentato i reportage di Pinuccio che, nel suo ruolo di inviato, si sta lentamente ma inesorabilmente avvicinando alla cittadina ligure dove si tiene la kermesse canora dal 5 al 9 febbraio. Non è la prima volta che il Tg satirico di Antonio Ricci si occupa della manifestazione che ha come palcoscenico il teatro Ariston. Nel corso degli anni i servizi dei vari inviati hanno rappresentato una sorta di cult per gli amanti della satira di costume. E fino alla data fatidica del 5 febbraio che segna l’esordio della 69esima edizione del festival, sono previste altre incursioni nella realizzazione del Festival e sui presunti “conflitti di interesse” di cui ha già parlato Pinuccio nel corso dei servizi precedenti. Insomma, il Tg satirico di Antonio Ricci si interroga sulla legalità di quanto sta accadendo sul palcoscenico del teatro Ariston. E non è ancora finita. Certamente ci saranno altri sviluppi.
Sanremo 2019. D’Agostino a Striscia: ecco il conflitto d’interessi di Baglioni. Sanremo 2019. D'Agostino a Striscia: ecco il conflitto d'interessi di Baglioni. Altre dichiarazioni sul direttore artistico della kermesse canora. Questa volta a intervenire è Roberto D'Agostino, scrive Venerdì, 1 Febbraio 2019, maridacaterini.it. Questa sera, venerdì 1 febbraio, Jimmy Ghione ha intervistato Roberto D’Agostino, fondatore del sito Dagospia.com, che ripercorre le tappe dell’affaire Baglioni-Salzano-Sanremo. Il Tg satirico di Antonio Ricci che va in onda dal lunedì al sabato alle 20.40 nella fascia dell’access prime time, torna a puntate i riflettori sul Festival di Sanremo. D’Agostino ha spiegato: «Il conflitto d’interessi c’è ed è lampante, tant’è vero che nel 2011 Gianni Morandi rifiutò di fare il direttore artistico dicendo che c’era una clausola sul contratto che diceva in maniera esplicita che chi sceglieva le canzoni, cioè il direttore artistico, non poteva appartenere a una casa discografica. Questa clausola improvvisamente scompare nell’anno 2017 quando si appalesa la silhouette di Claudio Baglioni. E quindi si ha il via libera e il conflitto di interessi non esiste più». Ed ha continuato: «Il peccato originale di tutta questa faccenda è che la più grande trasmissione Rai, cioè il Festival di Sanremo, sia stata appaltata dal 2000 in poi a estranei. Il Festival di Sanremo Rai non esiste più perché prima era il Festival di Ballandi, poi diventa il Festival di Gianmarco Mazzi con Lucio Presta e infine abbiamo l’epoca del Festival di Salzano. Salzano ha creato una holding legata al prodotto musicale con discografia, concerti, management, tv, radio, ecc. Tutto questo è sotto il grande cappello chiamato Friends & Partners. A quel punto c’è un monopolio totale».
D’Agostino sull’esclusione di Caramelle. A proposito dell’esclusione di Pierdavide Carone e dei Dear Jack da Sanremo il fondatore di Dagospia ha dichiarato: «Il vero motivo dell’esclusione di questo brano dicono sia il fatto che appartenga alla scuderia di Lorenzo Suraci, presidente di RTL 102.5. Suraci e Salzano erano soci, poi con la nascita del polo radiofonico di Mediaset c’è stata la rottura, pare abbastanza cruenta, tra i due. Salzano ha portato via a Suraci i Modà e i The Kolors. A quel punto anche i poveri Carone e Dear Jack finiscono fuori».
D’Agostino, infine, ha sottolineato anche l’importante ruolo politico di Salzano: «Quando Baglioni in conferenza stampa attacca Salvini sulla questione dei migranti, Salzano si precipita da lui e gli dice: chiamalo subito e rimettiamo le cose in pace perché se andiamo avanti con questa polemica cos’avremo in futuro? Addio Sanremo, torneremo ai concertini…».
Sanremo 2019, nuove rivelazioni di Striscia la notizia su Baglioni e Sanremo giovani. Sanremo 2019 | nuove rivelazioni di Striscia su Baglioni e Sanremo giovani. Il Tg satirico continua a indagare sulla manifestazione canora, scrive Lunedì, 4 Febbraio 2019, maridacaterini.it. Come aveva anticipato la scorsa settimana, Striscia la notizia è tornata ad occuparsi di Sanremo 2019 e dei presunti conflitti di interesse del direttore artistico Claudio Baglioni. E’ accaduto nella puntata del Tg satirico di Antonio Ricci andata in onda su Canale 5 alle ore 20.35. Pinuccio torna a occuparsi anche di Sanremo Giovani e rivela nuove “coincidenze” sulla vittoria di Einar. Rivelazioni su Sanremo Giovani: «Einar ha partecipato ad Amici e ha duettato con la Mannoia», ha spiegato l’inviato di Striscia, che ha aggiunto: «Durante Amici, Einar aveva un coach musicale che era il compagno della Mannoia, Carlo Di Francesco». Pinuccio sottolinea: «Possiamo dire che la Mannoia, giurato di Sanremo Giovani, evidentemente conosceva già Einar». Ma le “coincidenze” non finiscono. «Un altro elemento della giuria di Sanremo Giovani aveva già conosciuto Einar. E chi è? Annalisa – rivela Pinuccio – in quanto era coach esterno di Amici e proprio di Einar». L’inviato ha ricordato anche che al matrimonio di Ferdinando Salzano erano presenti Annalisa e Mannoia. Entrambe in orbita F&P ed entrambe giurati di Sanremo Giovani. La Mannoia è anche super ospite a Sanremo. Pinuccio chiude il servizio con una riflessione: «Gli altri ragazzi che hanno partecipato a Sanremo Giovani avevano pure loro delle “coincidenze” con qualche giurato?».
Rivelazioni sul contratto di Baglioni con la Rai. Nella stessa puntata Pinuccio torna a occuparsi del contratto che Claudio Baglioni ha firmato con la Rai per la conduzione e la direzione artistica del Festival di Sanremo. Durante la conferenza stampa di oggi al Teatro Ariston, Claudio Fasulo, Responsabile Intrattenimento di Raiuno, ha dichiarato: «La clausola di trasparenza c’è ed è stata rispettata, il contratto di Claudio Baglioni è in linea con quello firmato dai direttori artistici precedenti». L’inviato di Striscia precisa: «C’è un’altra clausola, un obbrobrio giuridico, secondo cui il fatto che Baglioni abbia dichiarato di avere un rapporto con un’etichetta discografica e con la Friends & Partners di Salzano annulla la clausola di conflitto. Quindi non rappresenta conflitto solo perché l’ha dichiarato?». E continua: «Come hanno detto le “fonti Rai”, il contratto ha passato cinque step, tante persone, ma è stato firmato da un’unica persona: Mario Orfeo, l’ex direttore generale della Rai, che era al matrimonio di Salzano. E allora sono super “coincidenze”». Pinuccio conclude il servizio sottolineando: «La direttrice di Raiuno Teresa De Santis ha detto che Baglioni è una brava persona, che la sua moralità garantisce tutto… A questo punto è tutto a posto, solo che se è tutto a posto perché hanno inserito una seconda clausola in cui devono dire che i rapporti con F&P e le etichette musicali non c’entrano niente?».
Rivelazioni sul conflitto di interessi di Baglioni. Infine: Striscia è tornata a occuparsi dell’affaire Salzano/Sanremo e riporta alcune frasi di Claudio Ferrante, manager discografico di Pierdavide Carone, che racconta come sono avvenute le audizioni per Sanremo 2019. «Le audizioni per il Festival sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell’albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C’era anche Veronica Corno, c’erano tutti».
Il giornalista Michele Monina aggiunge: «Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l’Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno: l’entourage F&P. È vero che sono il suo entourage, ma in teoria nel ruolo di direttore artistico non doveva essere così. Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente da F&P, non direttamente da Baglioni».
Sanremo Giovani: chi ha avuto successo, chi ha cambiato mestiere e chi è riapparso con un altro nome. Il Festival di Sanremo ha lanciato artisti come Eros Ramazzotti e Laura Pausini, ma molti altri cantanti in gara tra le Nuove Proposte non possono dire di aver avuto la stessa fortuna. Arianna Ascione il 17 dicembre 2019.
Laura Pausini. La partecipazione al Festival di Sanremo, dopo aver essersi fatti le ossa in concorsi dedicati ai talenti emergenti come Sanremo Giovani (o, prima del 1993, l'accesso al palco dell'Ariston tra le Nuove Proposte), può rappresentare un grande trampolino di lancio per gli artisti alle prime armi. Ad esempio grazie alla sua vittoria nel 1993 con «La solitudine», all'interno della sezione che allora si chiamava Novità, Laura Pausini è riuscita a lanciare la sua carriera. Ma se da un lato c'è chi ce la fa ad ottenere l'agognata svolta — che poi è quello che si augurano i 10 finalisti di Sanremo Giovani 2019, di scena giovedì 19 dicembre in prima serata su Rai 1, RaiPlay e Rai Radio 2 — dall'altro c'è chi è scomparso dai radar e persino chi ha ritentato l'avventura discografica da solista utilizzando un altro nome.
Nek. Anche Nek è tra gli artisti che devono molto a Sanremo: al suo debutto - nello stesso anno della vittoria di Laura Pausini, nella stessa categoria - l'autore di «Laura non c'è» e «Fatti avanti amore» presentò «In te» e si classificò terzo. Ma il brano a causa del suo contenuto (parlava di aborto) scatenò un nugolo di polemiche.
Cinzia Corrado. Cinzia Corrado ha vinto il Festival di Sanremo 1985 nella categoria Nuove Proposte con il brano «Niente di più» ma nel 1986, a causa di controversie discografiche, non potè esibirsi tra i Big come le sarebbe spettato ed è rapidamente scomparsa dai radar.
Eros Ramazzotti. Lo scorso febbraio, durante la 69ma edizione del Festival di Sanremo, Eros Ramazzotti è tornato sul palco dell'Ariston per celebrare i 35 anni dal suo trionfo con «Terra promessa»: all'epoca concorreva tra le Nuove Proposte e il brano gli regalò una grande popolarità, in Italia ma anche all'estero.
Mikimix. Che fine ha fatto il cantante Mikimix, originario di Molfetta, che partecipò a Sanremo Giovani (e poi al Festival nel 1997)? Dietro a quello pseudonimo si celava un certo Michele Salvemini, che qualche anno dopo sarebbe ricomparso con un nuovo nome: Caparezza.
Annalisa Minetti. Ben prima di Mahmood (che tra la fine dell'anno scorso e febbraio di quest'anno ha vinto sia Sanremo Giovani sia il Festival vero e proprio) la doppietta sanremese era riuscita ad Annalisa Minetti, che nel 1998 con «Senza te o con te» trionfò contemporaneamente tra i Giovani e tra i Campioni: quell'anno infatti il regolamento permetteva ai primi 3 classificati della sezione Giovani di giocarsi la vittoria finale nel corso dell'ultima serata, gareggiando accanto ai Campioni. La sua carriera - discograficamente parlando - negli anni successivi ha attraversato alti e bassi, anche se Annalisa non ha mai abbandonato la musica (in anni recenti ad esempio ha partecipato a «Tale e quale show» e «Ora o mai più»).
Alina. Nel 2003 l'edizione del Festival fu investita dalle polemiche a causa della presenza tra le Nuove Proposte di Alina, in gara con «Un piccolo amore»: all'epoca la cantante aveva soltanto 12 anni, e a partire dall'anno successivo nel regolamento l'età minima per la partecipazione alla kermesse fu alzata a 14 anni.
Future. I Future, che vinsero tra le Nuove Proposte nel 1988 con «Canta con noi», nel 1989 non furono ammessi al Festival perché cambiò il direttore artistico (e con lui il regolamento): la disavventura ispirò loro il brano «La legge». Riprovarono a salire sul palco dell'Ariston nel 1990 con «Ti dirò», sempre nella sezione Novità, e riuscirono ad accedere alla serata finale. Ma poco dopo si sciolsero definitivamente.
Gazosa. Sono stati i primi minorenni nella storia di Sanremo a vincere tra le Nuove Proposte (nel 2001), ma nel 2003 tutti i componenti dei Gazosa hanno deciso di prendere strade diverse. La cantante e bassista Jessica Morlacchi è tornata di recente alla ribalta grazie alla sua partecipazione ad «Ora o mai più» e «Tale e quale show», mentre il chitarrista Federico Paciotti è riuscito a tornare al Festival solo come ospite, per eseguire una versione rock della celebre aria della Tosca «E lucevan le stelle». Valentina Paciotti, tastierista e sorella di Federico, oggi è una make up artist invece il batterista Vincenzo Siani ha rimesso in piedi la band insieme ad altri componenti.
Arisa. Prima di approdare al Festival di Sanremo con il brano «Sincerità» (il tormentone dell'edizione con cui vinse tra le Nuove Proposte nel 2009) Arisa si era classificata al primo posto nell'edizione 2008 di SanremoLab. Nel 2019 ha festeggiato i suoi primi 10 anni di carriera tornando all'Ariston con «Mi sento bene».
Pinuccio e l’inchiesta sul Sanremo di Baglioni: coincidenze, contratto, testimonianze, scrive Rossella Smiraglia il 5 Febbraio 2019. Puntata al vetriolo quella del 4 febbraio, a Striscia la Notizia. L’inviato di Striscia, Pinuccio, torna ad occuparsi della questione Sanremo e il presunto conflitto di interessi. Parlando delle coincidenze a Sanremo Giovani; della clausola del contratto e delle modalità di selezione. Le inchieste di Striscia sono davvero pungenti, peccato che da Sanremo Baglioni non gli dia peso (stando alle diciarazioni nel corso della prima conferenza stampa di Sanremo), sottolineando che l’armonia è il vero spirito della musica, una conquista che forse raggiungerà solo alla fine di questa 69ma, tormentata, edizione del Festival della Canzone Italiana. Sanremo Giovani, LE COINCIDENZE: Pinuccio torna a occuparsi di Sanremo Giovani e rivela nuove “coincidenze” sulla vittoria di Einar. «Einar ha partecipato ad Amici e ha duettato con la Mannoia», spiega l’inviato di Striscia, che aggiunge: «Durante Amici, Einar aveva un coach musicale che era il compagno della Mannoia, Carlo Di Francesco». Pinuccio sottolinea: «Possiamo dire che la Mannoia, giurato di Sanremo Giovani, evidentemente conosceva già Einar». Ma le “coincidenze” non finiscono. «Un altro elemento della giuria di Sanremo Giovani aveva già conosciuto Einar. E chi è? Annalisa – rivela Pinuccio – in quanto era coach esterno di Amici e proprio di Einar». L’inviato ricorda anche che al matrimonio di Ferdinando Salzano erano presenti Annalisa e Mannoia. Entrambe in orbita F&P ed entrambe giurati di Sanremo Giovani. La Mannoia è anche super ospite a Sanremo. Pinuccio chiude il servizio con una riflessione: «Gli altri ragazzi che hanno partecipato a Sanremo Giovani avevano pure loro delle “coincidenze” con qualche giurato?».
IL CONTRATTO DI CLAUDIO BAGLIONI Pinuccio torna a occuparsi del contratto che Claudio Baglioni ha firmato con la Rai per la conduzione e la direzione artistica del Festival di Sanremo. Durante la conferenza stampa di oggi al Teatro Ariston, Claudio Fasulo, Responsabile Intrattenimento 2 di Raiuno, ha dichiarato: «La clausola di trasparenza c’è ed è stata rispettata, il contratto di Claudio Baglioni è in linea con quello firmato dai direttori artistici precedenti». L’inviato di Striscia precisa: «C’è un’altra clausola, un obbrobrio giuridico, secondo cui il fatto che Baglioni abbia dichiarato di avere un rapporto con un’etichetta discografica e con la Friends & Partners di Salzano annulla la clausola di conflitto. Quindi non rappresenta conflitto solo perché l’ha dichiarato?». E continua: «Come hanno detto le “fonti Rai”, il contratto ha passato cinque step, tante persone, ma è stato firmato da un’unica persona: Mario Orfeo, l’ex direttore generale della Rai, che era al matrimonio di Salzano. E allora sono super “coincidenze”». Pinuccio conclude il servizio sottolineando: «La direttrice di Raiuno Teresa De Santis ha detto che Baglioni è una brava persona, che la sua moralità garantisce tutto… A questo punto è tutto a posto, solo che se è tutto a posto perché hanno inserito una seconda clausola in cui devono dire che i rapporti con F&P e le etichette musicali non c’entrano niente?».
CLAUDIO FERRANTE, MANAGER DI PIERDAVIDE CARONE, RIVELA: «LE AUDIZIONI PER IL FESTIVAL AVVENIVANO IN UN HOTEL DURANTE IL TOUR DI BAGLIONI. ERA PRESENTE SALZANO CON IL SUO ENTOURAGE» E IL GIORNALISTA MICHELE MONINA CONFERMA: «SALZANO ERA SEMPRE PRESENTE DURANTE LA SELEZIONE DEI CANTANTI»: L’affaire Salzano/Sanremo e riporta alcune frasi di Claudio Ferrante, manager discografico di Pierdavide Carone, che racconta come sono avvenute le audizioni per Sanremo 2019. «Le audizioni per il Festival sono state fatte in un hotel davanti al Forum di Assago durante il tour di Baglioni. Nell’albergo era stato fatto allestire anche uno stereo perché si potesse sentire bene tutto. Non era un posto di fortuna, ma un posto organizzato per ricevere noi discografici, e questo ci poneva nella condizione di poter parlare direttamente con Baglioni. Ci sono i testimoni. Io penso che Salzano fosse lì in qualità di manager di Baglioni. Lui non esprimeva dei pareri, ma se poi quando una persona andava via, lui influenzasse le cose, questo non lo posso sapere. C’era anche Veronica Corno, c’erano tutti». Il giornalista Michele Monina aggiunge: «Le fonti dicono che Ferdinando Salzano fosse sempre presente durante la selezione dei cantanti. Io ho parlato con diversi di loro. Baglioni da settembre a novembre è stato in tour e ha fatto oltre 30 date in giro per l’Italia e le sale dove avvenivano le audizioni per Sanremo erano diventate i camerini dei palasport o le stanze di alberghi di fronte, tutto alla presenza costante di Ferdinando Salzano e Veronica Corno: l’entourage F&P. È vero che sono il suo entourage, ma in teoria nel ruolo di direttore artistico non doveva essere così. Alcuni tra i cantanti non selezionati mi hanno anche detto che i passaggi venivano fatti esclusivamente da F&P, non direttamente da Baglioni».
Il re è nudo. Sanremo, adesso il re è davvero nudo: anche “Striscia la notizia” si occupa del conflitto d’interessi di Baglioni. Il tg satirico entra a piedi uniti sulla vicenda sollevata da Linkiesta: perché nessuno si è accorto che buona parte dei cantanti del festival sono legati alla medesima agenzia e alla medesima etichetta di Baglioni? I vertici Rai non hanno mai risposto alle nostre domande. Risponderanno a Pinuccio? Scrive il 29 gennaio 2019 L’Inkiesta. Il re è nudo. Uno prova a raccontarlo, mettendo una dietro l'altra le informazioni che, prestando un po' di attenzione e non lasciandosi sopraffare né dalle pressioni né dalle paure, riesce a raccogliere. Il re è nudo. Lo scrive così, senza neanche troppi fronzoli. Non servono. Perché il fatto che il re sia nudo, in effetti, è lì, sotto gli occhi di tutti. Almeno di quanti col re hanno a che fare. E infatti, la corte, non potendo negare l'evidenza si appiglia a quello, al fatto che in fondo che il re sia nudo non è una gran novità. È sempre stato così, e nessuno ha mai avuto niente da ridire, abbozzano. È l'Italia, dicono. È il sistema, aggiungono. Di che ti sorprendi?, chiosano. Del fatto che il re è nudo, mi sorprendo. E soprattutto del fatto che nessuno fino a oggi si sia preso la briga di raccontarlo. E allora eccoci a dire che il sistema musica, in Italia, ha un serio problema. E questo problema è legato al suo momento più imporante, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo. E al fatto che a organizzarlo sia un cantante legato a doppio filo a un'agenzia, la Friends and Partners di Ferdinando Salzano, che a sua volta è legata a una parte consistente degli artisti selezionati dallo stesso Baglioni. Artisti, in molti casi, che condividono con lui anche la medesima etichetta discografica, la Sony Music Italia. Non basta, al fianco di Ferdinando Salzano, in Friends and Partners e di conseguenza nell'organizzazione del Festival, c'è una giovane donna, Veronica Corno, figlia di Chiara Galvagni, la dirigente che in Rai si occupa di contrattualizzare le risorse artistiche, tipo il direttore artistico del Festival, gli ospiti del Festival, insomma, ci siamo capiti. E allora eccoci a dire che il sistema musica, in Italia, ha un serio problema. E questo problema è legato al suo momento più imporante, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo. E al fatto che a organizzarlo sia un cantante legato a doppio filo a un'agenzia, la Friends and Partners di Ferdinando Salzano, che a sua volta è legata a una parte consistente degli artisti selezionati dallo stesso Baglioni. Artisti, in molti casi, che condividono con lui anche la medesima etichetta discografica, la Sony Music Italia. Un filotto di confiltti di interessi che ci ha portato a porre sette domande, sette, ai massimi dirigenti della Rai, il direttore generale Fabrizio Salini, e il presidente, Marcello Foa. Domande che non hanno avuto risposta, succede. Del resto sempre ai medesimi dirigenti avevamo chiesto conto anche di una strana metodologia adottata per selezionare l'azienda incaricata di organizzare votazioni e giurie del Festival, anche qui senza risposte. Da ieri, però, a dire che il re è nudo si è aggiunta una nuova voce, e forse adesso sarà più difficile non rispondere. Perché da che mondo è mondo sono i giullari che si ritrovano a dire questa verità: il re è nudo. E il giullare stavolta è Pinuccio, inviato pugliese di Striscia la notizia, che proprio a partire dai nostri articoli e anche attraverso la mia viva voce ha deciso di raccontare a tutti, e trattandosi di Striscia la notizia quando si dice tutti vuol dire proprio tutti, come stanno le cose.
Con ironia, questo fanno i giullari, ma non per questo con meno precisione chirurgica. Quitrovate il link del servizio.
I critici musicali e gli inviati di Striscia la Notizia, nello specifico un tizio coi codini e gli occhiali rosa e un altro che parla con un lucertolone pupazzo, io e Pinuccio, al momento, sembrano i soli interessati a perseguire la verità, andando a fare il lavoro che in genere dovrebbero fare i giornalisti. Sarà che questi ultimi, almeno quelli che si occupano di musica, sono troppo distratti a farsi i selfie coi cantanti o a abbuffarsi ai brunch alla fine delle conferenze stampa. Facce ride, aò, si dice in questi casi. E mai come questa volta si ride per non piangere.
Striscia la Notizia, nuovo servizio su Sanremo: “A giugno su Rai Uno…”, scrive la Redazione di Blitz il 7 febbraio 2019. “Striscia la Notizia” da giorni sta cercando di fare chiarezza su quelle che definisce “coincidenze” del “Festival di Sanremo” e su quelli che qualcuno ha definito presunti conflitti di interesse di Claudio Baglioni: “Abbiamo notato – racconta l’inviato “Pinuccio” nel servizio andato in onda ieri, mercoledì 6 febbraio – che c’è stato un altro Festival di Sanremo, andato in onda su Rai Uno. Questa volta proprio di produzione Salzano. Si chiama Pino c’è, era una trasmissione, andata in onda a giugno, che ricordava il grande Pino Daniele”. E ancora: “Molti dei cantanti di questa trasmissione li troviamo a Sanremo tra i super-ospiti o tra i cantanti in gara”. Si tratta, spiega “Pinuccio”, di Claudio Baglioni, Fiorella Mannoia, Alessandra Amoroso, Antonello Venditti, Elisa, Il Volo, Francesco Renga e Paola Turci. Inoltre, continua, c’è Eros Ramazzotti, che non è F&P ma che era presente a “Pino c’è” e che sarà super-ospite al Festival, e infine Giorgia, super-ospite a Sanremo e presente a Pino c’è. “Siccome il direttore di Rai Uno – spiega “Pinuccio” – ha detto che grazie a Baglioni si hanno le amicizie per far arrivare i cantanti, in realtà bastava vedere a giugno quella trasmissione e portarli a Sanremo”. Su Giorgia, “Pinuccio” apre un altro capitolo: “Nella puntata, insieme a Baglioni ha fatto praticamente una pubblicità al suo nuovo tour”. E aggiunge: “I super-ospiti F&P che saranno a Sanremo hanno tour nel 2019 da pubblicizzare. Sul sito F&P ci sono già i biglietti in vendita. E noi ci facciamo due domande: i cantanti che devono pubblicizzare il proprio tour o disco, come Fiorella Mannoia, è normale che vengano pagati dalla Rai per andare sul palco di Sanremo, che in realtà è una pubblicità delle loro attività gestite da F&P? La Rai è sempre convinta che non ci sia un conflitto di interessi con un’azienda privata che rappresenta Baglioni e che fa affari con i concerti?”. “Pinuccio” prosegue: “Un’altra ‘coincidenza’ che ci hanno segnalato è che durante la prima serata molti artisti, che ruotano attorno a Salzano, hanno cantato nella prima parte del Festival, quella che fa più ascolti”. E sottolinea: “Renga, Nek, Il Volo, Ultimo, Achille Lauro e altri si sono esibiti davanti a oltre il doppio degli spettatori rispetto a quelli capitati nella seconda parte della gara”.
"Striscia" e le strane coincidenze sulla giuria demoscopica di Sanremo, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Le date sul bando dʼappalto per la gestione del sistema elettronico di voto non quadrano: il lavoro doveva iniziare il 14 gennaio, ma la gara dʼappalto si è conclusa il 15. Alcuni giudici al Festival di Sanremo votano i cantanti in gara tramite un sistema elettronico la cui gestione sembra non essere del tutto trasparente. "Striscia la notizia" ha scoperto che la gara indetta dalla Rai per l'appalto di questo servizio è stata vinta dalla Noto Sondaggi. L'azienda, però, ha gli stessi soci della IPR Marketing, una impresa già nota per aver gestito il sistema elettronico di voto nel 2012 quando l'intero meccanismo si inceppò e i giudici dovettero aspettare il giorno successivo alle esibizioni per poter esprimere il proprio giudizio. L'inviato di "Striscia la notizia" Pinuccio dopo aver consultato il bando ha trovato una stranezza: "Se la gara aveva come data di scadenza il 15 gennaio, ma loro chiedono che il lavoro cominci il 14 gennaio. Chi ha lavorato il 14 gennaio se non si sapeva ancora chi doveva vincere?". Un dubbio che rimarrà senza risposta, almeno per ora.
Striscia la Notizia contro Sanremo 2019: "Ecco quali cantanti si esibiscono per primi, tutto truccato?" Scrive il 7 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Striscia la notizia fa notare un particolare, evidenziato durante la seconda serata anche dai social. L'inviato Pinuccio, che in questi giorni si sta occupando di Sanremo, spiega: molti artisti che ruotano attorno a Salzano, il manager di Claudio Baglioni, hanno cantato nella prima parte del Festival, quella che fa più ascolti. E sottolinea: "Renga, Nek, Il Volo, Ultimo, Achille Lauro e altri si sono esibiti davanti a oltre il doppio degli spettatori rispetto a quelli capitati nella seconda parte della gara". Come è noto, in prima serata il bacino dei telespettatori è maggiori, quindi la propria canzone risulta più ascoltata. La cosa favorisce ovviamente il televoto. Il particolare, non irrilevante, era stato evidenziato sui social da diversi utenti. Addirittura, c'è stato chi ha parlato di un complotto.
Striscia la Notizia, il nuovo servizio su Sanremo: “Anche Cocciante…”, scrive la Redazione di Blitz l' 8 febbraio 2019. “Striscia la Notizia” con un nuovo servizio torna a parlare delle “coincidenze” e dei presunti conflitti di interesse al “Festival di Sanremo” targato Baglioni. “Ci sono altri cantanti che non appartengono direttamente al circuito di F&P, ma che hanno comunque interessi con le società di Salzano – spiega “Pinuccio” – Un nome su tutti è Riccardo Cocciante”. E prosegue: “Una persona del settore ci ha spiegato che il musical Giulietta e Romeo di Cocciante è stato co-prodotto da F&P. E un altro famosissimo spettacolo di Cocciante, Notre Dame de Paris, di cui hanno cantato proprio ieri il pezzo al Festival, è in giro con la Vivo Concerti, società vicina a Salzano e acquisita, insieme a F&P, da una multinazionale”. L’inviato ricorda anche che “Vivo Concerti e F&P, stanno nello stesso palazzo”. Inoltre, racconta Pinuccio: “La persona contattata da Striscia (un impresario del settore musicale, ndr) e che ha collaborato anche con Salzano, ci ha parlato dei due super-ospiti di ieri, Pio e Amedeo”. L’impresario spiega al telefono: “A Pio e Amedeo, gli ha firmato il contratto ad agosto (riferendosi a Salzano, ndr) e ci ha messo che sarebbero stati ospiti a Sanremo”. Nel servizio si evidenzia che anche gli ospiti di ieri sera sono in orbita F&P e addirittura due di questi, Raf e Tozzi, spiega Pinuccio: “Hanno dichiarato che andranno come ospiti al Festival per promuovere il loro tour, prodotto da F&P”. Pinuccio rivela inoltre che nel contratto di Baglioni si legge: “L’approvazione della linea autorale e editoriale, del Dopo Festival e dell’Anteprima Festival, nonché dei relativi autori e conduttori, li decide Claudio Baglioni”. Il Pre-Festival è presentato da Anna Ferzetti, moglie di Pierfrancesco Favino. Anche lei presente al matrimonio di Salzano. Pinuccio sottolinea: “Favino ha condotto pure l’anno scorso e ha fatto anche la partecipazione al programma di Salzano, Pino c’é”. Pinuccio sente nuovamente l’impresario, che questa volta riferisce: “Ho visto dietro le quinte la sicurezza di Salzano e Baglioni, una società che lavora prevalentemente con loro. Fanno i bodyguard per gli artisti”. E spiega anche dei pagamenti fatti a Salzano: “Su 100 mila euro ne davamo 20/30 in contanti”. Pinuccio domanda: “Ma era un pagamento in nero a tutti gli effetti?”. E l’uomo replica: “Diciamo. È una prassi che si fa in Italia, non è la prima volta”. L’inviato chiude il servizio: “Io su tutte queste cose vorrei chiedere delucidazioni alla Rai o a Salzano stesso, per capire come sta la situazione”.
Cocciante, ospiti e tante coincidenze a Sanremo 2019, scrive Striscia la Notizia il 7 febbraio 2019. Questa sera, giovedì 7 febbraio, a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Pinuccio scopre e rivela ancora nuove “coincidenze” tra Salzano-Baglioni-Rai. «Ci sono altri cantanti che non appartengono direttamente al circuito di F&P, ma che hanno comunque interessi con le società di Salzano – spiega Pinuccio – Un nome su tutti è Riccardo Cocciante». E prosegue: «Una persona del settore ci ha spiegato che il musical Giulietta e Romeo di Cocciante è stato co-prodotto da F&P. E un altro famosissimo spettacolo di Cocciante, Notre Dame de Paris, di cui hanno cantato proprio ieri il pezzo al Festival, è in giro con la Vivo Concerti, società vicina a Salzano e acquisita, insieme a F&P, da una multinazionale». L’inviato ricorda anche che «Vivo Concerti e F&P, stanno nello stesso palazzo». Inoltre, racconta Pinuccio: «La persona contattata da Striscia (un impresario del settore musicale, ndr) e che ha collaborato anche con Salzano, ci ha parlato dei due super-ospiti di ieri, Pio e Amedeo». L’impresario spiega al telefono: «A Pio e Amedeo, gli ha firmato il contratto ad agosto (riferendosi a Salzano, ndr) e ci ha messo che sarebbero stati ospiti a Sanremo». Nel servizio si evidenzia che anche gli ospiti di questa sera sono in orbita F&P e addirittura due di questi, Raf e Tozzi, spiega Pinuccio: «Hanno dichiarato che andranno come ospiti al Festival per promuovere il loro tour, prodotto da F&P». Pinuccio rivela inoltre che nel contratto di Baglioni si legge: «L’approvazione della linea autorale e editoriale, del Dopo Festival e dell’Anteprima Festival, nonché dei relativi autori e conduttori, li decide Claudio Baglioni». Il Pre-Festival è presentato da Anna Ferzetti, moglie di Pierfrancesco Favino. Anche lei presente al matrimonio di Salzano. Pinuccio sottolinea: «Favino ha condotto pure l’anno scorso e ha fatto anche la partecipazione al programma di Salzano, Pino c’é». Pinuccio sente nuovamente l’impresario, che questa volta riferisce: «Ho visto dietro le quinte la sicurezza di Salzano e Baglioni, una società che lavora prevalentemente con loro. Fanno i bodyguard per gli artisti». E spiega anche dei pagamenti fatti a Salzano: «Su 100 mila euro ne davamo 20/30 in contanti». Pinuccio domanda: «Ma era un pagamento in nero a tutti gli effetti?». E l’uomo replica: «Diciamo. È una prassi che si fa in Italia, non è la prima volta». L’inviato chiude il servizio: «Io su tutte queste cose vorrei chiedere delucidazioni alla Rai o a Salzano stesso, per capire come sta la situazione».
Striscia la Notizia, altra bomba su Sanremo 2019: il bacio di Mario Orfeo che inguaia Claudio Baglioni, scrive il 9 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo le polemiche circa il presunto conflitto d'interessi di Claudio Baglioni al Festival di Sanremo a causa del ruolo di Ferdinando Salzano, da Striscia la Notizia arriva il video "del bacio" tra quest'ultimo e Mario Orfeo, ex direttore generale della Rai: i sospetti si infittiscono. Venerdì sera l'inviato del tg satirico Pinuccio, ha mostrato altre strane coincidenze. Infatti, tornando al contratto del direttore artistico Baglioni, la redazione di Striscia ha scoperto che l'unico firmatario era proprio Orfeo, ai tempi dg della rete pubblica. In particolare, nel servizio andata in onda su Canale 5, sono state mostrate delle foto esclusive, che ritraevano l'ex direttore Rai calorosamente accolto a Formentera tra i baci e gli abbracci di Salzano, in occasione del matrimonio tra questo e Barbara Zaggia. Come ha detto ironicamente l'inviato di Striscia Salvino, si trattava di "un bacio o di una clausola contrattuale"? Il dubbio è più che lecito.
· Mahmood. Il vincitore politicamente corretto.
Fenomeno Mahmood. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019, da Andrea Laffranchi su Corriere.it. Mahmood armeggia con lo smartphone. Per una volta non sta andando a caccia di Pokémon («La giornata sembrava partita bene ma ne trovo pochi»). È nel van che lo sta portando verso l’aeroporto, dopo due giorni di interviste con i media tedeschi, e sta preparando una storia su Instagram per annunciare che Soldi ha conquistato il disco d’oro in Olanda. Ultimo di una serie di riconoscimenti che arrivano da tutta Europa. La canzone che ha trionfato all’ultimo Sanremo, triplo disco di platino in Italia, grazie al passaporto dell’Eurovision è arrivata al disco di platino in Svizzera, Spagna e Grecia. In Israele è stata al numero 1 della classifica. È la canzone italiana più streammata di sempre, alla faccia di chi al Festival ha voluto parlare di popolo contro élite: più di 100 milioni su Spotify (e 120 milioni di views su YouTube). Un successo da esportazione: il 57% degli ascolti proviene dall’estero. Un interesse verso la musica italiana che, escluso il belcanto di Bocelli e di Il Volo, mancava da un bel po’ di tempo. «È un esempio cool per i giovani. Ha una canzone personale, che dice cose profonde. L’abbiamo messa nella nostra playlist anche se non è né in inglese né in tedesco. Puoi anche non capirne il testo, ma senti che trasporta emozioni e informazioni», dice Karen Scholz, deejay di Energy che lo ha intervistato per il suo programma serale. La giornata promozionale per Mahmood inizia presto. La sera prima una veloce presenza negli studi di Mtv, quindi un sushi e un drink con la discografica italiana che lo segue all’estero, la sua assistente che si occupa di pubbliche relazioni e lo staff tedesco di Universal. Il mattino sveglia attorno alle 10, colazione in hotel (caffèlatte e delusione per l’assenza di croissant, ma quello arriverà a rompere la fame di mezza mattina) e un’intervista per Leute/Heute, programma del pomeriggio della Zdf con circa 3 milioni spettatori. A fare da sfondo l’Oberbaumbrücke, ponte sulla Sprea che congiunge i quartieri di Friedrichshain e Kreuzberg, e la East Side Gallery, l’ultimo pezzo di muro rimasto in piedi. Il giornalista Sebastian Gorski gli chiede delle sue origini, del significato della canzone («Parla di come i soldi possano cambiare le relazioni fra le persone»), del suo punto di vista sui confini («Non credo alle differenze basate su nazionalità, sesso o altro. Quello che conta è il singolo individuo»). Una coppia di turisti italo-maltesi lo ferma per un selfie. Il pranzo è un delivery con insalatone e wrap. C’è un altro set pronto. Alessandro (nome di battesimo di Mahmood) estrae una spazzola e sistema i capelli. «Non può mancare in valigia: sono cortissimi ma indisciplinati. E non viaggio mai senza la Nintendo Switch per i rari momenti di svago. Dimentico spesso il deodorante e purtroppo chi viaggia con me usa lo stick mentre io preferisco lo spray», sorride Alessandro. Arriva Susanne Klehn, conduttrice di Brisant, un rotocalco quotidiano su ARD, il primo canale pubblico tedesco. «Ero a Tel Aviv per la finale dell’Eurovision. Avevo già sentito la canzone e mi era piaciuta, in sala ho notato qualcosa di speciale che arrivava dal pubblico. Ho pensato: è un ragazzo speciale e di successo, è una storia da raccontare». Il prossimo capitolo? A ottobre partirà un tour europeo. Il via il 23 a Lugano, quindi Zurigo, Londra, Parigi, Lussemburgo, Bruxelles, Berlino e Barcellona. «L’anno scorso ero sconosciuto perfino in Italia, il Paese in cui sono nato. Ora oltre al successo da noi è arrivato anche quello all’estero. E adesso mi diverto a vedere le reazioni del pubblico nei diversi Paesi».
Sanremo, Matteo Salvini boccia il vincitore: "Io avrei scelto Ultimo". Il vice premier Matteo Salvini commenta il vincitore di Sanremo 2019 e così cala il sipario sul Baglioni bis, scrive Carlo Lanna, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. Politica e intrattenimento si fondono nell’ultima serata di Sanremo 2019. Nel Festival di Baglioni, Mahmood ha trionfato con “Soldi”, stupendo il pubblico e in barba ai pronostici che davano Ultimo e Loredana Bertè tra i papabili vincitori. Anche il vice-premier Matteo Salvini, che ha seguito l’ultima puntata della kermesse, ha commentato la vittoria del cantante italo-egiziano. In un tweet, quindi, esprime un po' disappunto: "La canzone italiana più bella? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite?". La critica da parte del ministro non è passata inosservata. Tanto è vero che lo stesso Mahmood, consapevole del suo status, in conferenza stampa ha risposto. “No, non voglio entrare in nessuna polemica. Io sono un ragazzo italiano al 100%. Sono figlio di madre sarda e papà egiziano”. Sulla questione è intervenuta anche Elisa Isoardi, ex di Salvini, la quale secondo un tweet che ha pubblicato poche ore fa, ha apprezzato la vittoria del giovane cantante a Sanremo 2019. Resta comunque un’Italia divisa in due su questo Baglioni bis.
Sanremo 2019, Mariagiovanna Maglie silura la giuria d'onore: "Hanno fatto vincere Maometto", scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo il trionfo di Mahmood al Festival di Sanremo cresce la polemica sulla scelta soprattutto delle giurie di esperti e giornalisti di affidare il primo posto al rapper italo-egiziano. Il dubbio è che Mahmood abbia potuto vincere non tanto per la qualità della sua canzone, quanto per la sua storia personale, come scrive la giornalista Mariagiovanna Maglie su Twitter. Madre italiana della Sardegna, padre egiziano, Mahmood è nato a Milano ed è rapidamente diventato la nuova bandierina della sinistra contrapposta a Matteo Salvini. La Maglie, possibile conduttrice di una striscia informativa su Raiuno, scrive chiaro e tondo su Twitter: "Un vincitore molto annunciato. Si chiama Maometto, la frasetta in arabo c'è, c'è anche il Ramadan e il narghilè, e il meticciato è assicurato. La canzone importa poco. Avete guardato le facce della giuria d'onore?". C'è chi accusa la giornalista di aver fatto un commento razzista, ma a stretto giro è lei stessa a dover spiegare il significato delle parole: "Meticciato: combinazione di elementi linguistici o culturali di diversa provenienza o natura. In questo caso privilegiato sulla qualità di una canzone. Per il resto, il razzismo è nella testa di chi legge e vorrebbe impedire il pensiero critico".
Sanremo, il giallo sul televoto dietro il trionfo di Mahmood: il golpe della giuria, il ribaltone, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Dopo la vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo è scoppiata la polemica sulle procedure di voto che hanno portato il rapper italo-egiziano a trionfare nella 69esima edizione in finale contro Ultimo e il Volo. Nell'ultima parte della trasmissione ci sono stati pochi e fondamentali minuti per dare la possibilità ai telespettatori di esprimere il televoto, con nuovi codici assegnati da un notaio ai tre finalisti. Un elemento di novità che ha in parte disorientato il pubblico, qualcuno si è lamentato sui social, ma le operazioni comunque procedono e sul palco dell'Ariston arriva il momento della proclamazione del vincitore. Quando Claudio Baglioni, Virginia Raffaele e Claudio Bisio svelano che a vincere il Festival è stato Mahmood però nasce un giallo, che per tutta la notte scatenerà grandi polemiche per un possibile equivoco. La regia Rai ha mostrato le percentuali di voti incassati dai finalisti: Mahmood al 14%, Ultimo il 47% e Il Volo il 39%. Poco dopo però i numeri cambiano: Mahmood vince con il 38,9%, Ultimo arriva secondo con il 35,6% e il Volo terzi con il 25,5%. Il sospetto che qualcuno abbia ribaltato il risultato per ottenerne uno più gradito serpeggia sui social. Finché non vengono svelate le percentuali di voto arrivate dalla Giuria d'onore e dalla giuria della sala stampa: Mahmooh ha trionfato con il 63,7%, Ultimo ha ottenuto appena il 24,7% e il Volo l'11,6%. A spingere alla vittoria il rapper italo-egiziano è stata quindi non solo la stampa, ma anche la giuria seduta in platea all'Ariston, piena zeppa di personaggi dello spettacolo ben noti al pubblico. Ben noti soprattutto per il proprio orientamento politico, dal regista Ferzan Ozpetek alla conduttrice Serena Dandini, passando per il giornalista Beppe Severgnini, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi e Joe Bastianich e infine il presidente Mauro Pagani. Una manina in fondo c'era, ed era mancina.
Sanremo 2019, la reazione di Salvini per la vittoria di Mahmood: il sospetto, chi l'ha fatto vincere, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. La vittoria dell'italo-egiziano Mahmood con Soldi al 69esimo Festival di Sanremo ha ribaltato ogni pronostico, cogliendo di sorpresa non solo lo stesso cantante, incredulo alla consegna del trofeo sul palco dell'Ariston, ma anche chi meno si aspettava che a vincere il festival della canzone italiana fosse un ragazzo del 1992 con un papà egiziano. Come per esempio il vicepremier Matteo Salvini, che dalla sua pagina Facebook non ha nascosto una certa perplessità per l'esito della votazione incrociata, tra televoto, giudizi della sala stampa sanremese e naturalmente la giuria. Il ministro leghista ha commentato la vittoria di Mahmood con un eloquente: "Mahmood..... mah.... La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite??". Il favorito sin dall'inizio della gara canora è stato infatti Ultimo, che in sala stampa ha incassato solo fischi quando ha accusato i giornalisti di "avergliela tirata". Ma si sa, chi entra papa in conclave, ne esce cardinale, e poi in fondo bastava guardare come fosse composta la giura d'onore per farsi venire qualche sospetto che il risultato sarebbe stato quanto più antipatico per il convitato di pietra di questo Sanremo, cioè proprio Salvini. Oltre alla giuria demoscopica e quella dei giornalisti, a decidere il vincitore di Sanremo sono stati i giurati presieduti dal critico musicale Mauro Pagani: Ferzan Ozpetek, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini, Serena Dandini e Joe Bastianich. Il quadretto che ne esce è da Festa dell'Unità, una giuria orientata in modo plateale a sinistra, che quando si è vista arrivare in finale il terzetto con Ultimo, il Volo e Mahmood probabilmente non credeva ai suoi occhi. Non ci sarebbe stata occasione migliore per far torto al ministro dell'Interno, regalando la vittoria a un giovane italiano di Milano, ma figlio di un uomo immigrato in Italia. Una storia personale che ha mandato in brodo di giuggiole i compagni giurati, ridotti ormai il potere di decidere qualcosa in Italia soltanto al Festival di Sanremo.
Sanremo, quel coming out di Mahmood: "Ognuno deve dichiararsi quando meglio crede". Mahmood con la sua vittoria accende i riflettori su di sé e sulla sua vita privata, scrive Anna Rossi, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. Mahmood è il vincitore della 69esima edizione del Festival di Sanremo e dietro di sé ha lasciato Ultimo e Il Volo. Neanche il rapper si aspettava questa vittoria, tanto che quando è stato fatto il suo nome era incredulo. E Ultimo non l'ha presa troppo bene, forse si aspettava qualcosa in più. Tanto che durante la conferenza stampa ha sbroccato: "Voi siete così perché avete una settimana di gloria - ha detto ai giornalisti - e mi attaccate gratuitamente. Ma io non ho bisogno di alcun velo, non mi sento ipocrita. Non sono incazzato, sono soltanto amareggiato perché io punto all’eccellenza e non alla normalità". Ma ora andiamo a conoscere meglio Mahmood che ieri si è detto "un ragazzo italiano al cento per cento" nonostante sia figlio di madre sarda e papa egiziano. Il rapper è approdato sul palco dell'Ariston grazie alla vittoria della seconda serata di Sanremo Giovani 2018, aggiudicandosi il Premio della Critica. E nel 2016 aveva partecipato alla sezione Giovani del Festival di Sanremo con il brano Dimentica. I social si sono scatenati con la sua vittoria. E come in tutte le situazioni, c'è chi tifa per lui e chi proprio non apprezza la sua canzone. Poi, sono arrivati anche gli insulti e le offese, ma purtroppo questo fa parte del gioco al massacro della rete. Ma andando a conoscere meglio Mahmood, si scopre che nel lontano 2 agosto del 2016 aveva rilasciato una lunga intervista al sito gay.it. Il rapper parlava della sua musica, della sua carriera e della sua vita privata. Ma fra le domande, ne spunta anche qualcuna riferita alla comunità Lgbt e alla condizione "dei gay in Egitto". E proprio qui, Mahmood aveva forse fatto il suo primo coming out. Forse. "Apprezzo molto gli artisti che hanno avuto il coraggio di dichiararsi in pubblico, ma non giudico minimamente chi ancora non ha avuto la forza - diceva al sito gay.it -. Penso ognuno debba dichiararsi quando meglio crede. Quando pensa che sia il momento più opportuno. Come tutti. I gay in Egitto? A dire il vero qualsiasi disparità la vivo in maniera negativa e, in questo caso, ancor di più. Sono molto legato a quelle terre, pur non essendoci andato moltissime volte. Mi sento così impotente. Posso solo sperare che la situazione migliori, sia in Egitto che in tutti quei Paesi in cui vi è una disparità". Questa intervista del 2016 aveva acceso i riflettori sul rapper che incalzato sul tema poco fa - solo il 1° febbraio scorso - spiegava a Vanityfair: "Ho fatto coming out? No, ho rilasciato un'intervista a un sito gay oriented. Tutto qui. Dichiarare 'sono gay' non porta da nessuna parte, se non a far parlare di sé. Se continuiamo con questi distinguo, l’omosessualità non sarà mai percepita come una cosa normale, quale è".
Da “Chi” il 13 marzo 2019. Gli occhi azzurri, il neo sulla guancia destra, la barba sempre curata: per il cantante Mahmood, timido e introverso, i lineamenti del fidanzato sono le coordinate di un porto dove trovare pace e conforto. Chi ha conquistato il cuore del 26enne vincitore del Festival di Sanremo è un ragazzo dell’89: Lorenzo Tobia Marcucci. Toscano (originario di Lucca, poi ha frequentato l’università a Firenze), tifoso della Fiorentina, Lorenzo lavora nella moda per il brand Guidi 1896. Elegante, con una bellezza un po’ antica, ha gusti raffinati e qualche vezzo intellettual-chic (si veda su Instagram il selfie mentre legge La cantatrice calva di Eugène Ionesco). Gli amici comuni raccontano che un sentimento autentico lo lega a Mahmood: i due sono una coppia solida, che non si è lasciata destabilizzare dallo tsunami del successo. Nelle foto che “Chi” vi mostra in esclusiva il cantante, dopo essere stato a Radio Italia Live, raggiunge il fidanzato in un locale vicino a Porta Venezia, zona della movida gay, con una coppia di altri amici. Lorenzo lo guarda insistentemente, forse si sente un po’ trascurato, mentre Mahmood rimane sulle sue, preoccupato dalla presenza di occhi indiscreti. Poi, la coppia prende una macchina a noleggio. Si fermano sotto casa di Lorenzo. Si baciano: non solo il bacio della passione, ma quello tenero della coppia collaudata. Per più di un’ora, tra un bacio e l’altro, i due parlano: del presente e dei progetti futuri. Tra le sfide che si avvicinano, infatti, c’è l’Eurovision Song Contest, a Tel Aviv dal 14 al 18maggio, dove il cantante rappresenterà l’Italia. Mahmood non deve aver paura: Lorenzo sarà al suo fianco.
Sanremo, un problema tecnico durante esibizione di Mahmood. Bisio prova a stemperare la tensione. Ecco cosa è successo, scrive Luisa De Montis, Sabato 09/02/2019, su Il Giornale. Problema tecnico durante l'esibizione di Mahmood al Festival di Sanremo. Il microfono non funziona, quindi è costretto a interrompere e ripartire. "E' il bello della diretta...", ha detto Claudio Bisio intervenendo sul palco dell'Ariston per allentare la tensione e le proteste del pubblico perché un problema tenico aveva costretto Mahmood a interrompere subito l'esecuzione del proprio brano. Era infatti regolarmente partita l'orchestra ma il microfono a disposizione dell'artista non andava. Di qui l'interruzione e poi la ripartenza, questa volta senza intoppi fino alla fine.
Ultimo contro stampa e giuria: "Da casa erano il quadruplo". Sanremo si chiude tra fischi (in sala), sfoghi in conferenza e tweet al veleno. Il cantante: "Salvini? Non mi interessa". E spunta un video in cui manda a quel paese i giornalisti, scrive Chiara Sarra, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. Prima i fischi in sala all'annuncio della classifica finale e dei tre cantanti sul podio, poi gli sfoghi in conferenza stampa, infine tweet al veleno. Il Festival di Sanremo si chiude tra le polemiche. A infiammarle è soprattutto Ultimo, secondo classificato dietro Mahmood, che in sala stampa se l'è presa coi giornalisti: "Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto voi, tirandomela", ha sbottato, "Voi avete questa settimana per sentirvi importanti e rompete il cazzo. La mia vittoria sarà dopo il Festival di Sanremo, i live, la gente che si riconosce in quello che scrivo. Sono contento di aver partecipato al Festival". E non manca di rispondere a Matteo Salvini e al suo endorsement sui social: "Io nel momento in cui scrivo le mie canzoni e poi escono, non m'interessa se piacciono a Salvini o al fornaio o al muratore..", taglia corto, "Io punto all'eccellenza, non al buono". Oggi poi rincara la dose con un tweet al veleno (ora non più online): "La gente è la mia vittoria", cinguetta, "Da casa eravamo il quadruplo rispetto agli altri. Dalla parte vostra per sempre. Ci vediamo al tour e allo Stadio Olimpico". Ma c'è anche un video che svela il carattere non proprio accomodante di Ultimo - al secolo Niccolò Moriconi -. Lo ha pubblicato Alberto Dandolo, giornalista di Dagospia sul suo account Instagram e mostra il cantante mentre attraversa la folla di reporter e operatori accompagnato da un bodyguard. Una giornalista prova a fargli una domanda, lui passa oltre. "Grazie Ultimo", "Ma chi cazzo sei? ", "Simpatico", "Ciao Gesù", urla qualcuno ironizzando evidentemente su quello che viene considerato un atteggiamento un po' arrogante. E lui replica stizzito: "Ma vaff...". "Ultimo sì, ma in quanto a buona educazione", scrive Dandolo. Sottolineando come la scena ripresa fosse l'apice di un rapporto burrascoso tra stampa e cantate: "Ecco come il giovane artista è stato solito rivolgersi ai giornalisti per tutta la kermesse sanremese. La neuro please!".
Ultimo sbotta con i giornalisti: "Per sentirvi importanti, mi rompete il cazzo". Il secondo classificato al 69° Festival di Sanremo, durante la conferenza stampa, ha discusso con un giornalista. Prima su Mahmoud, che lui ha definito "un ragazzo", e poi, tra il serio e il faceto, sulla mancata vittoria: "Me l'avete tirata e anche se mi sono grattato non è bastato", scrive Luisa De Montis, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. In conferenza stampa, subito dopo la proclamazione di Mahmoud, come vincitore del 69° Festival di Sanremo, Ultimo è sembrato un po' risentito. Ad accoglierlo, in sala stampa, l'applauso dei giornalisti, al quale, però, il giovane cantante romano ha risposto con un gelido "grazie, troppo buoni, troppo buoni".
Ultimo: "Me l'avete tirata". La frecciata, infatti, è arrivata dopo poco: "Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, al contrario di quello che tutti voi e tutti i siti hanno sempre fatto, tirandomela. Io mi sono sempre grattato ma non è servito, non è servito a niente". Poche risate, infatti, e qualche momento di imbarazzo. "La mia vittoria, se posso dirlo", ha continuato il giovane cantante romano, "così come quella di tanti artisti che, magari, non sono arrivati neanche in fondo al Festival, sarà sicuramente dopo il Festival di Sanremo. La mia vittoria sono i live, la gente che mi vuole bene e che si riconosce in quello che scrivo".
La discussione con i giornalisti. Ma la vera polemica si è accesa subito dopo, quando Ultimo ha dichiarato di essere stato contento di aver partecipato alla kermesse e di essere stato felice per il primo classificato, Mahmoud. Che lui ha definito "ragazzo", poco più grande di lui, tra l'altro. La frase ha colpito la sala stampa, provocando la reazione del cantante: "Ragazzo, quanti anni c'ha? Come lo devo chiamare? L'uomo, il ragazzo? È un ragazzo, lo chiamo ragazzo. Lo sai perché non mi va bene e parlo con te (indicando un giornalista in particolare, ndr), perché voi, in questa settimana, per sentirvi importanti, voi dovete sempre rompere il cazzo. È questo che non mi va bene, a me non interessa, qualsiasi cosa io dica, voi troverete qualcosa da dire". La lite è proseguita tra imbarazzo e qualche fischio. Ultimo ha poi concluso dicendo: "Non sono assolutamente rancoroso, sono contento di aver partecipato, punto".
Mahmood vince Sanremo, ma il preferito del televoto era Ultimo che twitta: "Da casa eravamo il quadruplo", scrive il 10 febbraio 2019 La Repubblica. Sulla vittoria di "Soldi" ha avuto un grande peso il giudizio di sala stampa e giuria d'onore. Il pubblico a casa, che influenzava il giudizio al 50%, avrebbe premiato "I tuoi particolari". Mahmood vince la sessantanovesima edizione del festival di Sanremo ma per il televoto la vittoria doveva andare a Ultimo. Analizzando i dati scorporati delle votazioni si riscontra che Soldi del rapper italoegiziano ha ottenuto il 38,9 % sommando televoto, sala stampa e giuria d'onore seguito da Ultimo con il 35,6% e da Il Volo con il 25,5%. Ma la classifica del televoto dà un risultato molto diverso, segno che il pubblico a casa la pensa diversamente rispetto ai giurati capitanati da Mauro Pagani e ai critici e cronisti. Per il televoto infatti Ultimo sarebbe stato il vincitore con 46,5% di voti rispetto a 39,4% de Il Volo e solo 14,1% per Mahmood. Il sistema di votazione è composto dal televoto (50% sulla classifica di fine serata), dal voto della sala stampa (30%) e dal voto della giuria d’onore (20%). La classifica totale è la media di tutte le serate del Festival: i tre artisti più votati accedono alla finalissima e si esibiscono di nuovo. Le nuove votazioni (sempre televoto, sala stampa e giuria) si sommano a quelle precedenti e la canzone più votata è la vincitrice. Intanto nella notte Ultimo aveva twittato: "La gente è la mia vittoria. Da casa eravamo il quadruplo rispetto agli altri. Dalla parte vostra per sempre. Ci vediamo al tour e allo Stadio Olimpico". In sala stampa era stato chiara la delusione del musicista romano che in sala stampa si era sfogato con i cronisti: "Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto voi, tirandomela". Poi aveva attaccato la sala stampa dicendosi infine amareggiato.
Sanremo 2019, lo sfogo di Ultimo con i cronisti: ''Vi sentite importanti e rompete il cazzo'', scrive il 10 febbraio 2019 Repubblica tv. Sotto pressione, probabilmente deluso per la mancata vittoria, Ultimo incontra i cronisti e si lascia andare. ''Io non ho mai avuto la pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto voi, tirandomela – dice – Mi sono grattato ma non è servito a niente. La mia vittoria e quella di tanti altri artisti è sicuramente dopo il festival. La mia vittoria sono i live, la gente che mi vuole, che si riconosce in quello che scrivo''. Poi, dice ''sono contento che abbia vinto il ragazzo Mahmood'', e di fronte al rumoreggiare della sala stampa per l’uso di quell’espressione, ''il ragazzo Mahmood'', Ultimo esplode: ''Sapete perché non mi sta bene? – dice rivolto ai giornalisti – Perché voi avete solo questa settimana per sentirvi importanti, e rompete il c…''. Salvo aggiungere: “Non ce l’ho con voi, ce l’ho con me stesso, sono amareggiato''.
Sanremo 2019, Ultimo e il tifo di Salvini: "Non mi interessa, le canzoni non sono più mie", scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Ultimo era arrivato a Sanremo come grande favorito, lo ha finito piazzandosi secondo, ma incassando almeno il tifo di Matteo Salvini, che ha confessato di aver sperato nella sua vittoria fino all'ultimo. Il vincitore di X-Factor però arriva in conferenza stampa fin troppo nervoso, la pressione subita sin dall'inizio della kermesse vissuta da favorito lo ha esasperato e l'idea di andare a parlare con i giornalisti, seduto accanto al rapper Mahmood che gli ha sfilato il primo posto, proprio non lo entusiasma. Per tutto il tempo Ultimo cerca di ignorare Mahmood, in un passaggio lo chiama anche "il ragazzo", tenendosi idealmente il più lontano possibile. Inevitabile la domanda sul sostegno di Salvini, Ultimo taglia corto e si scrolla di dosso potenziali etichette politiche: "Le canzoni che scrivo non sono piu' mie. Se piacciono a Salvini, a un dentista, a un muratore, non mi cambia nulla".
Sanremo 2019, trionfa Mahmood con Soldi. Ma è rivolta all'Ariston: il pubblico incorona Loredana Bertè, scrive il 10 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Per l'Ariston il Festival di Sanremo lo ha vinto Loredana Bertè: quando viene relegata al quarto posto la platea impazzisce, protesta, grida "Loredana, Loredana". Tanto che Claudio Bisio è costretto ad ammettere: "Per l'Ariston vince Loredena Bertè". Dunque Claudio Baglioni, che chiede con volto contrito "rispetto per i cantanti in gara, che sono 24". Tutto l'Ariston per la Bertè, ma alla fine questo 69esimo Festival di Sanremo lo vince Mahmood, con il brano Soldi: trionfa il cantante con padre egiziano, vittoria accolta dai brusii insistenti della paltea. Terzi classificati i tenorini de Il Volo con Musica che Resta; seconda piazza per Ultimo, il favorito della vigilia, con Il ballo delle Incertezze. Mahmood accoglie la vittoria con voce rotta: "Incredibile, non ci sto credendo". Fischi e contestazione del pubblico anche per gli ultimi posti, con Nek al 19esimo posto e Paola Turci al sedicesimo. Fischi ancora più forti per Achille Lauro al nono posto con la contestatissima Rolls Royce: ma in questo caso la platea punta il dito contro l'artista, al centro di mille polemiche, e non contro la posizione in classifica. Da sottolineare anche i riconoscimenti ottenuti da Daniele Silvestri, che con il suo brano Argento Vivo ottiene sia il premio della critica sia il premio della sala stampa Lucio Dalla, e poi incassa anche il premio per il miglior testo "Sergio Bardotti". Il premio Sergio Endrigo per la migliore interpretazione va invece a Simone Cristicchi con Abbi Cura di Me, che incassa anche il premio Giancarlo Bigazzi per la miglior composizione musicale, assegnato dall'orchestra dell'Ariston. E ancora, Ultimo si consola con il premio Tim Music per il brano più ascoltato in streaming.
Barbara Visentin per corriere.it il 10 febbraio 2019. Primo classificato al Festival di Sanremo, ma terzo nelle preferenze espresse al televoto. La vittoria di Mahmood ha messo in luce il divario fra i voti espressi dal pubblico a casa e quelli delle due giurie «di qualità», cioè i giornalisti della sala stampa e la giuria d’onore, che hanno letteralmente ribaltato i risultati. Secondo i primi dati che emergono dalla finalissima di sabato 9 febbraio, il cantautore italo-egiziano, vincitore a sorpresa della 69esima edizione della kermesse, si è aggiudicato il gradino più alto del podio con il 38,9% dei voti complessivi, staccando per soli tre punti il secondo classificato Ultimo (35,6%) e lasciando terzi Il Volo con il 25,5% dei voti. Questi risultati sono ottenuti combinando le preferenze espresse dal pubblico a casa, che hanno un peso del 50%, insieme al voto della sala stampa che conta per il 30% e quello della giuria d’onore (20%). Andando però a vedere che cosa aveva scelto il pubblico tramite il televoto, il podio è ribaltato e vede nettamente in testa Ultimo con il 46,5% delle preferenze, seguito da Il Volo con il 39,4% e da Mahmood con soltanto il 14,1% dei televoti. La scelta delle giurie interne è stata quindi determinante nella vittoria di Mahmood, lasciando deluso il cantautore romano che ha subito twittato: «La gente è la mia vittoria. Da casa eravamo il quadruplo rispetto agli altri. Dalla parte vostra per sempre. Ci vediamo al tour e allo Stadio Olimpico».
· Simone Cristicchi e la sua “Abbi cura di me”.
Cespugliopensatore. Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 su Corriere.it da Renato Franco. Il cantautore pubblica la sua biografia: «Io che odio i tormentoni sono diventato famoso grazie a un tormentone». La stroncatura di Jacovitti.
Simone Cristicchi, 42 anni: non è un po’ presto per una biografia?
«Ero diffidente pure io, non mi piace l’attitudine al santino, oltre al fatto che per lo più la biografia è dedicata a un artista deceduto... Però mi piace l’idea di qualcosa che ti ricorda che hai vissuto, in questa società iper-tecnologica che consuma tutto in un attimo. Tutti dovrebbero avere un libro che racconta la propria vita, un tascabile con le proprie esperienze».
Cantautore, anche autore e attore di tanti monologhi, in «Abbi cura di me» (scritto con Massimo Orlandi, Edizioni San Paolo, esce il 25 ottobre) racconta che da adolescente la sua passione era il disegno e riuscì a sottoporre i suoi lavori a Jacovitti.
«Era il mio idolo, ma il primo incontro fu traumatico, mi disse che non aveva bisogno di una fotocopiatrice umana. Fu burbero e schietto, avevo 16 anni e mi ferì ma aveva ragione: i maestri devono anche essere bruschi».
Da Jacovitti tornò più avanti con uno stile finalmente personale e fu accolto. Ma nel frattempo la musica stava vincendo sul disegno. L’occasione fu un concerto a scuola: lei, chitarrista, sul palco al posto del cantante.
«Quando fai il chitarrista sei protetto, stai un passo indietro. La responsabilità è tutta sulle spalle del frontman. Fu anche un modo per vincere la mia timidezza di fronte a tutta la scuola».
Un timido che sta sul palco è come un camaleonte esibizionista, non è una contraddizione?
«Vivevo il combattimento interiore tra nascondersi ed espandersi. Ho avuto bisogno di dire a tutti che esistevo, ma sempre spinto dall’idea di condividere qualcosa con gli altri, non per narcisismo».
Da dove è arrivata la fascinazione per il racconto?
«Mio nonno Rinaldo era un grandissimo narratore, aveva una capacità unica di raccontare storie. Ma lo spartiacque arrivò con uno spettacolo di Gigi Proietti a 13 anni, uscii dal teatro completamente scombussolato: avevo assistito a qualcosa di straordinario».
Il primo requisito dell’ispirazione fu una tessera di abbonamento all’Atac?
«Non avevo la patente, l’unico modo per spostarsi a Roma erano i mezzi pubblici, ma quello che per molti è un dramma per me era una risorsa perché l’autobus è un punto di osservazione particolare per chi cerca storie; da una posizione defilata si osserva meglio e si immagina di più. Ho affinato il gusto di cercare il particolare, come un rigattiere dell’anima. Da piccolo mi chiamavano Cento Lire perché avevo sempre la testa china, come se cercassi qualcosa... guardavo i dettagli».
La sua vita da «cespuglio pensatore» è cambiata all’improvviso grazie a «Vorrei cantare come Biagio», inteso Antonacci. Era un modo per esorcizzare la sua frustrazione artistica?
«Era 10 anni che facevo tentativi con la musica, stavo vivendo il mio momento più triste e drammatico, ero in fondo alla fossa. Quella che doveva essere una gag teatrale ebbe un risvolto paradossale: diventavo famoso con un tormentone, io che sono sempre stato contro i tormentoni e i fabbricanti di canzoni. Fu una gioia e un dramma al tempo stesso, provai anche un po’ di delusione per chi non aveva capito il brano per quello che era, una canzone quasi triste, malinconica con un retrogusto alla Charlie Chaplin che parlava dell’impotenza dei giovani che non hanno visibilità... Prima suonavo nei pub davanti a 15 persone, ora mi fermavano per strada».
Con «Ti regalerò una rosa» vinse nel 2007 a Sanremo. Cosa fu per lei?
«Il Festival fu una rivincita, dimostrò che non ero solo un cantante da un’estate e via. Quando ho vinto sono svenuto per davvero, Baudo mi aspettava, Michelle Hunziker aveva un sorriso a oltranza, ci fu un buco televisivo durato il tempo per rimettermi in piedi. Mi davano 30 a 1, fu una vittoria totalmente inaspettata. E fu un bel segnale vincere grazie al televoto».
Arrivarono i concerti a ripetizione: «era diventato un impiegato della musica»?
«Il successo ti porta a essere bulimico, la musica va veloce, se non pubblichi un album ogni due anni rimani indietro. Ma per me il teatro è diventato un altro modo per esprimersi: il pubblico teatrale è più solido di quello musicale, se lo conquisti poi difficilmente ti abbandona. È il mio habitat perfetto».
SIMONE CRISTICCHI. “Abbi cura di me”: una poesia che parla di fragilità e amore (Sanremo 2019). Simone Cristicchi, vincitore del festival nel 2007, torna dopo undici anni di assenza sul palco di Sanremo 2019. Presenta il brano “Abbi cura di te” che parla della fiducia nell’altro, scrive il 05.02.2019 Paolo Vites su Il Sussidiario. Un grido di speranza quello lanciato da Simone Cristicchi dal palcoscenico della 69esima edizione del Festival di Sanremo 2019 con il brano “Abbi cura di me”. Una preghiera universale che arriva al cuore e che ha coinvolto tutto il pubblico dell’Ariston che sul finale ha urlato “bravo, bravo, bravo”. A distanza di dodici anni dalla prima vittoria con “Ti regalerò una rosa”, Cristicchi è tornato in gara con una canzone d’autore, una poesia in cui parla di “fragilità, di debolezza” ma che al tempo stesso ha una grande forza emotiva. “E’ leggera come una piuma e potente come una tempesta” – ha raccontato l’autore sul brano – “credo che sia il frutto di una serie di domande importanti che mi sono posto, ho 42 anni e ho iniziato da qualche anno a farmi delle domande sul senso di essere su questa terra ed è uscita fuori questa canzone che si interroga sulla felicità, sulla bellezza, sul senso dell’esserci e anche sul dolore sulla sofferenza”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)
SIMONE CRISTICCHI A SANREMO 2019. Simone Cristicchi, che ha trionfato al festival di Sanremo nel 2007 con il brano Ti regalerò una rosa e ci torna per la quarta volta, è artista poliedrico. Si dedica infatti anche al teatro dove ha portato in scena opere di denuncia coraggiose come quella dedicata agli italiani profughi dell’Istria, ma soprattutto sulla malattia mentale. Ha infatti lavorato da giovane diverso tempo come volontario in un centro di igiene mentale, la cui problematica conosce molto bene. Il brano con cui vinse Sanremo infatti parlava proprio di un ospedale psichiatrico, visto con gli occhi di un paziente. E’ felicemente sposato con Sara, di professione archeologa, da cui ha avuto due figli, della sua famiglia ha detto: “Le mie note preferite? Mia moglie Sara e i miei due figli Tommaso e Stella”.
CRISTICCHI E IL DRAMMA DEI PROFUGHI ISTRIANI. “Magazzino 18” è il titolo dello spettacolo messo in scena da Simone Cristicchi, ispirato al libro di un giornalista di origine polacca, Jan Bernas, “Ci chiamavano fascisti eravamo italiani”. L’opera è incentrata sul dramma delle centinaia di migliaia di italiani costretti dagli jugoslavi ad abbandonare la loro terra, l’Istria, quando alla fine della seconda guerra mondiale quella regione venne ceduta come ripagamento dei danni di guerra. Moltissimi di loro vennero anche uccisi dai partigiani comunisti italiani, gettati nelle foibe, fosse carsiche della regione, perché accusati di essere fascisti. Magazzino 18 è un deposito tutt’ora esistente nel vecchio porto di Trieste dove furono ammassate le masserizie di quella povera gente, italiani di Capodistria, di Fiume, di Pola, di Albona, di Orsera, di Parenzo, di Rovigno, di Zara, di Spalato, di Ragusa; italiani sfuggiti alle foibe e alla ferocia dei partigiani comunisti di Tito e costretti a lasciare le loro case dopo quel 10 febbraio 1947 quando tutte quelle terre furono assegnate all’allora Jugoslavia. Per questo spettacolo Cristicchi fu criticato e accusato dagli ex comunisti italiani che ancora non vogliono riconoscere le colpe dei partigiani.
“ABBI CURA DI TE”, IL TITOLO DELLA CANZONE DI SIMONE CRISTICCHI A SANREMO 2019. A sei anni di distanza dal suo ultimo disco, Simone Critichi pubblica l’8 febbraio una raccolta in cui appaiono due inediti, uno dei quali il brano presentato a Sanremo 2019, Abbi cura di me. Così lo spiega il cantautore: “Nei versi della canzone, ricorre il tema millenario dell’accettazione, della fiducia, dell’abbandonarsi all’altro da sé, che sia esso un compagno, un padre, una madre, un figlio o Dio. Nelle mie intenzioni, questo brano vuole essere una preghiera d’Amore universale, una dichiarazione di fragilità, una disarmante richiesta d’aiuto”. Il brano è stato scritto da Cristicchi insieme a Nicola Brunialti e Gabriele Ortenzi con la produzione artistica di Francesco Musacco ed esecutiva di Francesco Migliacci. L’album “Abbi cura di te”, oltre ai successi presentati negli anni al Festival di Sanremo, ripercorrerà tutta la carriera di Cristicchi partendo dai giorni nostri fino ad arrivare agli esordi nel 2005 con il tormentone “Vorrei cantare come Biagio”.
VITA, DOLORI E FOLLIE DI SIMONE CRISTICCHI. Estratto dell’articolo di Antonello Piroso per “la Verità” il 14 aprile 2019. L'uomo che non puntava a essere John Malkovich, bensì Biagio Antonacci - nella canzone che gli ha regalato popolarità voleva «cantare, pesare, firmare autografi alle fan e riempire i palasport» proprio come lui - ha centrato un obiettivo ben più appagante: è diventato sé stesso. Simone Cristicchi. Cantante, autore di testi teatrali, attore in proprio. Niente brani nel suo ultimo spettacolo, Manuale di volo per uomo (in questo momento alla Sala Umberto di Roma fino al 20 aprile), in cui l'artista romano, 42 anni, fornisce un' ulteriore prova della sua versatilità e della sua «crescita».
[…] “La vicenda della prematura morte di mio padre a 40 anni, quando io ne avevo 12, ha pesato nella mia vita. Chi non rimarrebbe segnato da una perdita così? Io mi rinchiusi in me stesso, cominciai a passare le giornate a disegnare, con la testa china sui fogli, in silenzio, fino a danneggiarmi la vista tanto da dovermi mettere gli occhiali. E visto che tutti mi assicuravano che mio padre era volato in cielo, mi misi in testa di realizzare un paio di ali per spiccare il volo, ispirandomi ai bozzetti delle macchine di Leonardo Da Vinci. Imparai perfino a scrivere come lui, nella forma bustrofedica, da destra a sinistra, come se le lettere fossero riflesse da uno specchio».
[…] È vero che andò a bottega dal grande Jacovitti?
«I suoi fumetti mi avevano suggestionato. Cercai il nome sull' elenco del telefono. C'era: Jacovitti Benito Franco. Lo chiamai e lui mi convocò. Gli portai i miei elaborati, lui li studiò e poi guardò me: "Belli, sembrano miei, ma proprio per questo: Simone in questi disegni dov'è?". Fu il primo stimolo a cercare la mia strada. Quando tornai con i nuovi bozzetti, più originali lui commentò: "Ora sì che si ragiona". Alla fine volevo fare una graphic novel da Il Bar sotto il mare di Stefano Benni, che andai a trovare mostrandogli perfino un po' di tavole che avevo realizzato. Poi però a 16 anni fui rimandato in matematica e fisica».
E che c'entra?
«Fui costretto a passare l'estate in città a studiare, e trovai una chitarra in soffitta: mi misi a strimpellare aiutato dal manuale Millenote, scoprii i cantautori italiani, anche se in quella fase mi appassionavano i Doors e la complessa figura di Jim Morrison, nonché il grunge dei Nirvana e Kurt Cobain».
Non hanno fatto una bella fine entrambi, a ben guardare. Jim Morrison è citato nel brano-tormentone Vorrei cantare come Biagio Antonacci.
«Tormentone involontario, per cui sono stato scambiato per suo fan, quando in realtà nasceva dalla frustrazione di non riuscire a emergere, nascondeva una grande amarezza, e voleva denunciare i meccanismi dell' industria discografica».
Chissà com' è stato contento Antonacci.
«Oh, ma lui ha sempre saputo tutto: fu avvertito, prestò il suo consenso, cofirmò il brano, e mi invitò a eseguirlo nei suoi concerti al Forum di Assago e al Palalottomatica di Roma».
L'hit è del 2005, quanto è durata la gavetta?
«Vinsi il festival di Lanciano, il cui premio era l'iscrizione alla Siae, del valore di un milione e mezzo, nel 1998. Vuole sapere cosa ho fatto in quei sette anni? Mi arrabattavo, vendevo i gelati e le bomboniere al cinema, Notting Hill lo conoscevo a memoria, e mi esibivo nei locali romani dove facevo anche 300-400 spettatori paganti. Per questo, anche se spesso mi dicevo: "Forse farei meglio a mollare", andavo avanti».
Le sue canzoni hanno da sempre una forte impronta spiritualistica, ma le sue relazioni con la religione sono state a tratti turbolente.
«Volevano consolarmi: "Tuo papà è in un altrove che è un mondo migliore". Abbandonai catechismo, e se l' adolescenza è l' età dell' insofferenza, io la portai all' ennesima potenza: un giorno esasperai così tanto l' insegnante di religione con le mie provocazioni che mi rifilò un ceffone davanti a tutta la classe. Ed era pure un francescano (ride)».
Per questo scrisse Prete, diventata l'inno degli anticlericali, e che le è costato anche l'ostracismo del Vaticano?
«Era un testo duro che oggi non riscriverei più così, ricorrerei piuttosto all' arma dell' ironia alla Giorgio Gaber o alla Rino Gaetano».
Accusava i preti di curiosità morbose ("quante volte ti sei masturbato il pistolino?"), la Chiesa di opulenza, in difesa della «bugia più grande della storia», e i politici di servilismo nei suoi confronti.
«Per fortuna poi ci siamo riappacificati. Oggi ci sono in piedi i contatti con papa Francesco per una sua intervista per il documentario Happy Next-Alla ricerca della felicità. Un mio amico monaco dice che sono un cristiano inconsapevole».
È credente?
«Credo nella spiritualità sperimentata, terrena, quella delle suore di clausura e dei monaci che ho avuto la fortuna di conoscere, lontani dal mondo non per fuga ma per ricerca, con una grande forza d' animo. L' incontro con le clarisse è stato molto emozionante, con una sono rimasto in contatto per via epistolare, quando le ho fatto sentire Abbi cura di me eseguita all' ultimo Festival mi ha detto: potrebbe essere una preghiera di Dio all' uomo, perché anche Dio ha le sue fragilità». […]
· Sanremo, 30 fatti poco noti della serata finale.
Sanremo, 30 fatti poco noti della serata finale, scrive il 10 febbraio 2019 La Repubblica Luca Bottura.
1. La canzone di Cristicchi è uguale alla colonna sonora di Risvegli. Pronta la risposta del cantautore: “Sì, e le foibe invece?”.
2. Nella pubblicità Nivea che precedeva il festival, c’era un truccatore che si definisce Glam Artist. Dev’essere una roba tipo Navigator, ma vestiti peggio.
3. Bisio ha interrotto la Tatangelo prima che finisse perché ha fatto una pausa troppo lunga. Praticamente quel che è successo al programma di Celentano su Canale 5.
4. Migliorano le condizioni di Jovanotti, che si era lanciato nel vuoto dopo aver visto “L’ombelico del mondo” usato per lo spot di Sanremo Giovani.
5. Il ministro Buzzetti su Anna Tatangelo: “È del sud: prima di ripresentarsi deve fare sacrifici e mettersi a lavorare”.
6. La vittoria era quasi certa per Renga, purtroppo molti si sono confusi con l’icona grafica che lo rappresentava e hanno votato Paolo Vallesi.
7. Stasera (giuro che è vero) Salvini ha postato su Twitter un video in cui cantava “Io vagabondo”. Poi, appreso che è un pezzo dei Nomadi, ha tentato di darsi fuoco da solo.
8. La nuova canzone presentata da Eros Ramazzotti è stata scritta dicendo “Alexa, scrivi un pezzo di Ramazzotti” all’assistente elettronico di Amazon.
9. Accuse di plagio anche per Loredana Bertè: sarebbe in realtà Tina Turner con la parrucca della Fata Turchina.
10. Raggi su Twitter: “Il fatto che i tram non andassero avanti più già nelle vecchie canzoni di Ramazzotti testimonia che è tutta colpa dei governi precedenti”.
11. A un certo punto durante il pezzo con Fonsi, Ramazzotti si è tolto gli auricolari perché non ne poteva più neanche lui di ascoltare un pezzo di Fonsi e Ramazzotti.
12. Conte: “È vero, il Pil è allo 0,2 per cento. Ma prima aspettiamo il voto della giuria di qualità”.
13. Accuse di plagio anche per Achille Lauro. La sua “Rolls Royce” sarebbe copiata da un vecchio pezzo di Memo Remigi: “Fiat Duna”.
14. In realtà il microfono di Mahmood non è partito perché i tecnici a Sanremo servivano #primagliitaliani.
15. I Negrita sono comunque arrivati 17esimi. “A ‘sto punto tanto valeva che l’endorsement ce lo facesse Cannavacciuolo”.
16. Buone notizie per Enrico Nigiotti: Nonno Hollywood è arrivato solo decimo ma proprio ieri sera ha raggiunto quota 100.
17. Bella idea degli Zen Circus, che hanno ingaggiato alcuni black bloc come figuranti, evitando che raggiungessero gli altri nella distruzione del centro di Torino.
18. Dopo la gaffe al Dopofestival, Renga precisa: “Non ho niente contro le donne che cantano, ho amiche donne, basta che lo facciano a casa loro”.
19. Brutto episodio per Patty Pravo prima di andare in scena: quelle robe che aveva sul vestito nero non erano decorazioni, ma i resti dello stormo di piccioni che l’aveva sorvolata nel parcheggio dell’Ariston.
20. Per l’ultima serata era previsto anche l’uso di effetto fumo sul palco, ma il presidente Rai Foa si è opposto sostenendo fossero scie chimiche.
21. Clamoroso caso di conflitto d’interessi di Elisa. Il verso “con le battute non mi sconcentrare” è stato chiaramente scritto da Luigi Di Maio.
22. Motta sarebbe in realtà Asia Argento con la permanente.
23. Dopo i successi di Morandi e Baglioni, anche l’anno prossimo la conduzione potrebbe essere affidata a un anziano cantante a suo agio con la comicità: Silvio Berlusconi.
24. Crescono i sospetti che il televoto fosse ospitato sulla piattaforma Rousseau: a un certo punto era in testa Toninelli.
25. Proteste del pubblico in sala per il quarto posto di Loredana Bertè: oggi è prevista una manifestazione dei gilet azzurri.
26. A un certo punto Matteo Orfini del Pd ha twittato (giuro che è vero) la sua classifica ideale, dando come vincitori gli Zen Circus. Voleva essere sicuro di perdere anche lì.
27. Cristicchi ha dedicato il premio “Sergio Endrigo” alle due persone che più hanno influenzato il suo pezzo: Robert De Niro e Robin Williams.
28. Salvini: “Impossibile che uno straniero abbia vinto con un pezzo che si chiama ‘Soldi’. Devono essere i 35 euro che gli regalavano i buonisti prima di noi”.
29. Un cantante di origini egiziane ha vinto il Festival: ormai fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare.
30. Alla fine di Sanremo, finalmente svelato da Tim chi sarà il primo italiano in orbita: lo spread.
· Sanremo, il Festival dalla A alla Z.
Sanremo, il Festival dalla A alla Z, scrive il 26.01.2019 Beppe Donadio su La Regione. Tutto (o quasi) quello che c'è da sapere sull’immarcescibile gara canora al via martedì 5 febbraio. Auguri...
Appignani, Mario [o Cavallo Pazzo] Irrompe a sorpresa (?) durante l’edizione 1992 per gridare “Questo Festival è truccato, lo vince Fausto Leali” (vincerà Luca Barbarossa).
Ariston, Teatro [edificio] Dal Salone delle Feste del Casinò, dove si è svolto sin dal 1951, il Festival trasloca qui nel 1977.
Armstrong, Louis [trombettista] Chiamato nel 1968 ad eseguire in italiano traballante ‘Mi va di cantare’, il grande musicista vuole dilatare l’esecuzione improvvisando alla tromba, ma viene interrotto da Pippo Baudo (vedi poco sotto).
Bano, Al [cantante e viticoltore] Detentore di 15 partecipazioni, nel 2015 si riunisce con Power Romina per la gioia dei fan sovietici e per quella di Checco Zalone, che in 'Quo vado' celebra la saudade italiana.
Baudo Pippo [imperatore] Spalmate su 40 anni, detiene il record di conduzioni.
Benigni, Roberto [Premio Oscar] Nel 1980 bacia alla francese la compagna Olimpia Carlisi per 45 secondi di diretta tv, chiama il presidente della Repubblica Cossiga “Kossigaccio” e Papa Giovanni II “Wojtilaccio”. E la Democrazia Cristiana insorge.
Berté, Loredana [rocker] Nel 1986, molto prima di Lady Gaga, canta il brano ‘Re’ indossando un vestito in latex nero con finto pancione da donna incinta. È scandalo, l’etichetta la molla.
Bloodvessel, Buster [striker] Leader della band inglese ska Bad Manners, nel 1981 si toglie i pantaloni durante Lorraine, abbassa le mutande e mostra il deretano seminudo alle prime file.
Bongiorno, Mike [padre della tv] Tra le gaffe sanremesi spicca “Sono state votate 5 canzoni ieri e 5 stasera. In tutto fanno 12”. Sanremo gli ha dedicato una statua bronzea in via Escoffier.
Cutugno, Toto [un italiano vero] Manifesto dell’emigrante, nel 1983 L’italiano si piazza soltanto al 5° posto. La canzone, che ha venduto milioni di copie nel mondo (qui con il Coro dell'Armata Rossa), fu rifiutata da Adriano Celentano. A proposito...
Celentano, Adriano [Il molleggiato] Ospite nel 2012, dichiara: “Giornali come ‘Avvenire’ e ‘Famiglia Cristiana’ andrebbero chiusi definitivamente. Parlano di politica anziché di Dio”. La politica si scalda ancor più di quando, nel 1961, diede le spalle alla telecamera cantando 24mila baci.
Dalla, Lucio [genio] Intitolata Gesù Bambino, nel 1971 la censura pretende il cambio in ‘4 marzo 1943’. “Tra i ladri e le puttane” diventa “Per la gente del porto”.
Di Sanremo, Orchestra [musicisti, lanciatori di spartiti] Nel 2010, in disaccordo con giuria e televoto che escludono Malika Ayane e premiano il trio Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici, gli orchestrali stracciano le partiture e le gettano orgogliosamente sul palco.
Dulbecco, Renato [biologo] Premio Nobel per la medicina nel 1975, presenta l’edizione 1999 con Fabio Fazio (ebbene sì, a Sanremo succede anche questo).
E le Storie Tese, Elio [Il Complessino] Nel 1996 vince Ron, ma i voti avrebbero premiato ‘La Terra dei Cachi’, seconda. In una settimana, la band cult “Come i Cult” (cit. Elio) sfoggia braccia di gomma, parrucche e travestimento da Rockets (band francese con le facce argentate). Vent’anni più tardi, vestiti da Kiss, torneranno con ‘Vincere l’odio’, canzone di soli ritornelli.
Faletti, Giorgio [fu attore e fu giallista] Signor Tenente, ispirata alle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, giunge seconda nel 1994.
Filogamo, Nunzio [presentatore] Con la frase “Cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate” inaugura nel 1951 il 1° Festival. Dopo avere condotto 3 edizioni, non può presentare la quarta: nel 1954, la sua presunta omosessualità avrebbe costretto la Rai cattolica a revocargli l’incarico.
Gabriel, Peter [innovatore] Nella 2ª serata del Sanremo 1983 esegue Shock the monkey. Volando sopra la platea aggrappato a una fune, l’ex Genesis si schianta di schiena contro il palco. Vista l’esistenza di ‘So’ e dei capolavori successivi, è chiaro che sopravvive (35 anni dopo, simbolicamente, sulla platea dell’Ariston volerà anche Mangoni vestito da Supergiovane).
Ghinazzi, Enzo [in arte Pupo] “Nel 1984 c’era il Totip e ricordo che comprammo le schedine, spendendo io 25 milioni, 25 milioni il mio impresario e altri 25 milioni la casa discografica. Questo è Sanremo”, disse Ghinazzi una mattina del 1992, prima di smentire tutto la sera stessa.
Gorbaciov, Mikhail [politico] Nel febbraio del 1999, il padre della perestrojka volò dal Cremlino sul palco dell’Ariston. E come Nostradamus: “I comunisti veri sono quelli di Rifondazione? Li compatisco, se non vedono cosa accade fuori dalla finestra sono condannati”.
Grandi, Irene [interprete toscana] ‘Bruci la città’ non è ammessa a Sanremo 2007. Uscita come singolo, sarà la canzone più ascoltata dell’anno.
Grillo, Beppe [rivoluzionario] Nel 1989 dichiara che “il Festival fa schifo” e si produce in un affondo alla categoria: “Giornalisti con tre lauree che andavano a Kabul, ora girano chiedendo Dov’è Peppino Di Capri, che sono rovinato?”.
Houston, Whitney [divina] Ospite a Sanremo nel 1986, la cantante scomparsa nel 2012 esegue due volte il brano All at once, accogliendo la richiesta di bis.
Kensit, Patsy [non epocale cantante del non epocale gruppo Eight Wonder] Nel 1987, durante l’esecuzione della non epocale I’m not scared, la spallina del vestito le si abbassa dando vita a un epocale topless immortalato dalle telecamere.
Jalisse, I [coniugi] Vincono a sorpresa nel 1997 con Fiumi di parole, che ricorda Listen to your heart dei Roxette (“ricorda” è un eufemismo). Il brano è quarto a Eurosong, ma per alcuni poteva vincere. Da cui il presunto boicottaggio per evitare che la Rai debba organizzare, l’anno successivo, un evento costosissimo.
John, Elton [rocket man] Vedi “Luzzatto Fegiz”.
La Notizia, Striscia [format] Marzo 1990: il programma rivela in anticipo i nomi dei primi 3 classificati. “Si disse che avevamo usato delle microspie. E invece chi fece la soffiata era un uomo di statura normale” scrive il creatore Antonio Ricci (la previsione si avvererà anche nel 1996).
Le Bon, Simon [sciupafemmine] Fratturatosi un piede in un locale durante la settimana, nella serata finale del Sanremo 1985 esegue con i suoi Duran Duran Wild boys con il gesso.
Luzzatto Fegiz, Mario [critico musicale] Oggi lo si chiamerebbe influencer (ma il critico musicale, oggi, non influenza più un bel niente). Nel 1995 spedisce alla sua redazione la dettagliata esibizione di Elton John prima che questi si esibisca. Sir Elton, in viaggio da Montecarlo verso Sanremo, litiga con il fidanzato e fa inversione a U. Il pezzo è già in stampa ed esce il giorno dopo sul Corriere della Sera.
Martini, Mia [unica] Nel 1982 i giornalisti fondano il Premio della Critica appositamente per premiare la sua interpretazione di ‘E non finisce mica il cielo’ di Ivano Fossati. Dal 1996, un anno dopo la sua morte, il premio porta il suo nome.
Mercury, Freddie [rockstar] I Queen a Sanremo nel 1984 cantano ‘Radio Gaga’. Da un’intervista tv: “Cerco di cantare in modo naturale. Ci sono molti cantanti che la voce la usano meglio di me. Aretha Franklin, Rod Stewart. Mi piacerebbe tanto cantare come quelli veri”.
Modugno, Domenico [Mister Volare] Nel 1958 Nel blu dipinto di blu viene bocciata perché scritta e cantata dalla stessa persona (cosa mai successa prima). Riammessa, vince. Nel 1968, complice il suicidio di Luigi Tenco l’anno prima, ‘Meraviglioso’ – storia di un aspirante suicida – è esclusa dalla competizione perché “fuori luogo”.
Molko, Brian [frontman alterato dei Placebo]. Nel 2001 si prende del “buffone” e del “cretino” dalle prime file dopo aver sfasciato chitarra e amplificatore alla fine di ‘Special K’. “Con quella faccia può andare allo Zecchino d'Oro”, commenta Piero Chiambretti.
Nazzaro, Gianni [interprete] Nel 1987 presenta alle selezioni Perdere l’amore e viene scartato. Affidata a Massimo Ranieri, la canzone vinceràl’edizione 1988.
Nek [all’anagrafe Filippo Neviani] Nel 1993, il brano anti-abortista In te (Il figlio che non vuoi), cantato in giacchetta elegante, scuote per motivi opposti femministe e mondo cattolico.
Occhiena, Marina [ex dei Ricchi e Poveri] Nel 1983 Angela la brunetta chiede che Marina la biondina sia allontanata poiché amante del compagno. Previo accordo economico, il trio può cantare a Sanremo Sarà perché ti amo.
Pagano, Giuseppe [aspirante suicida] Nel 1995 un disoccupato minaccia di lanciarsi dalla galleria dell’Ariston in piena diretta tv. Lo salva Pippo Baudo. “Cercava lavoro”, dirà il presentatore a Festival concluso. “Era tutta una messinscena”, dirà Pagano a Striscia la notizia.
Pizzi, Nilla [regina] Vincitrice del 1° Festival con Grazie dei fior. Diceva nel 1951: “Non sapevamo cosa fosse un festival. Capimmo che era importante quando ci dissero di vestirci eleganti”.
Povia [Giuseppe, cantante] Nel 2009, con ‘Luca era gay’, certifica che dall’omosessualità si può guarire. Il caso arriva sino a Strasburgo, per sospetta violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Power, Romina [cantante?] Vedi alla voce Bano.
Queen, The [miti] Vedi alla voce Mercury
Rossi, Vasco [rocker] Penultimo nel 1983 con Vita spericolata, l’anno prima aveva fatto di meglio (ultimo con Vado al massimo).
Rubino, Renzo [cantautore dichiarato] Nel 2014, in barba a Povia e a Luca, il calabrese canta ‘Amami uomo’ (“Con le mani da uomo”), esplicita dichiarazione d’amore gay.
Salerno, Sabrina e Squillo, Jo [cantanti?] Eseguita nel 1991, la canzone ‘Siamo donne’ potrebbe essere oggi l’inno del movimento #metoo, non fosse che Julia Roberts su Hollywood Boulevard in ‘Pretty Woman’, quanto a look trasgressivo, pare un’educanda.
Solo, Bobby [Elvis d’Italia] A Sanremo ’64 canta in playback Una lacrima sul viso per via di una forte laringite. Grazie a quello che oggi si chiamerebbe lip-sync, nessuno se ne accorge.
Straits, Dire [sultani dello swing] Nel 1981 gli 8 minuti della versione integrale di ‘Tunnel of love’ provocano mugugni in quanto playback.
Tatangelo, Anna [ragazza di periferia] Nel 2008 dedica il secondo posto al compagno D’Alessio. Il suo ‘Gigi ti amo’ è accolto da una selva di fischi.
Tenco, Luigi [cantautore] Si uccide nel 1967 a soli 29 anni in una stanza d'albergo, dopo l'esclusione della sua ‘Ciao amore ciao’ (qui cantata da Dalida in prova). Lo fa con un colpo di pistola che nessuno, nemmeno Lucio Dalla che stava nello stesso hotel, ha udito. Oggi, la sua morte sarebbe un Cold case irrisolto. Times, Financial [giornale britannico] La rispettabilissima rivista economica definisce Sanremo 1998 “Una sagra del kitsch”.
Tognazzi, Ugo [attore] Nel 1962 l’annunciata scenetta con Raimondo Vianello sul presidente del Consiglio, il democristiano Amintore Fanfani, viene censurata dalla Rai.
Troisi, Massimo [comico] “Mi hanno detto che posso parlare di tutto tranne che di religione, politica, terrorismo e terremoto. E allora sono indeciso tra una poesia di Giovanni Pascoli e una di Carducci”. Nel 1981 la Rai chiede il copione in anticipo e il comico napoletano rinuncia.
U2 [rock band] Nel 2000, sceso in platea per cantare The ground beneath your feet, Bono Vox risponde con un inchino all’applauso di Mario Merola. Il re della sceneggiata napoletana se ne fa un vanto personale (ma i due non si conoscono).
Vianello, Raimondo [principe del black humor] Presentatore nel 1998, per problemi al traduttore in cuffia liquida Madonna in fretta e furia (vedi anche alla voce Tognazzi Ugo).
Villa, Claudio [Reuccio]. Nel ’64 il Festival vuole aprire agli stranieri; lui s’impunta e Sanremo chiude le frontiere prima di Salvini. Nel ’72 guiderà lo sciopero dei cantanti; nell’86 protesterà contro la puzza di fritto del McDonald’s di Roma.
Zero, Renato [Non dimenticatemi!] Secondo nel ’91, si dice scippato da Riccardo Cocciante e giura di non mettere più piede su di un palco.
Zen Circus [band] Vincono il Festival 2019 (da intendersi come pronostico).
· Troppi compagnucci? Per la Rai si vive di "contiguità amicale".
Troppi compagnucci? Per la Rai si vive di "contiguità amicale". Stasera si parte. E la direttrice del primo canale elogia il conflitto d'interessi: un metodo di lavoro, scrive Laura Rio, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Dunque, per la neo direttrice di Raiuno Teresa De Santis la «contiguità» è un valore, anzi un «tesoro», anzi un buon modo per realizzare grandi eventi. Finora questa parola evocava qualcosa di oscuro, di poco chiaro, una mancanza di trasparenza. Invece, da ieri mattina, è diventata un modello di cui vantarsi. Con queste argomentazioni, tra lo stupore generale della sala stampa nella prima conferenza del Festival, la responsabile del primo canale ha voluto infatti chiarire la questione del conflitto di interessi di Baglioni. In poche parole: gran parte dei cantanti in gara e degli ospiti fanno riferimento alla stessa scuderia di promoter cui appartiene anche il presentatore, e cioè la F&P di Ferdinando Salzano e alla medesima etichetta discografica, la Sony. Una situazione identica all'anno scorso, che fotografa il monopolio dell'imprenditoria musicale italiana e su cui in questa edizione sono tornate le polemiche soprattutto per la battaglia che sta portando avanti Striscia la notizia. Bene, la De Santis invece di escludere che esista qualsiasi tipo di conflitto di interessi, ne ha fatto un elogio. «La nostra produzione musicale - ha detto fuori dai denti - vive anche di contiguità, anzi spesso ne deve fare tesoro: attraverso rapporti amicali si possono ottenere artisti che altrimenti non si sarebbero avuti. Il Live Aid non si sarebbe potuto fare, per esempio, senza le amicizie di Bob Geldof». E, poi, ovviamente specifica: «Questo non vuol dire che non ci debba essere una coscienza tale da far sì che venga favorita la qualità. E Baglioni ha una coscienza molto forte e non ha certo bisogno di sovvenzioni economiche né di giochi di potere». In sostanza la direttrice ammette che si lascia all'artista il compito di essere moralmente trasparente, di non favorire gli amici o gli amici degli amici, ma di scegliere in base al valore artistico. Il che, nel caso di Baglioni, è probabile, ma ammettere che un'azienda come la Rai si affidi completamente alla buona volontà è francamente discutibile. E, anche quando si fa notare che esiste una clausola di trasparenza, la direttrice scarica sulle altre direzioni competenti (affari legali e risorse artistiche) il compito di verifica, dicendosi comunque certa che l'azienda vigila e controlla...Comunque stasera il Festival comincia. Si avrà un primo assaggio dei 24 brani in gara. Per la parte spettacolo, oltre al debutto del trio di conduzione Baglioni-Bisio-Raffaella, farà una comparsata anche Pierfrancesco Favino, mattatore dello scorso anno e Claudio Santamaria che sarà protagonista di una gag in ricordo del Quartetto Cetra insieme ai tre conduttori principali. Ospiti musicali Andrea Bocelli, con il figlio Matteo, e Giorgia. Nessun intervento politico. Almeno stasera. Perché, dopo le affermazioni esternate da Baglioni che hanno sollevato una bufera politica, la consegna è quella di tenersi lontano da qualsiasi polemica. Anzi, la conferenza stampa è quasi militarizzata per evitare domande fuori dai temi prettamente festivalieri. Pure Baglioni si trattiene. «Non fatemi domande come quella sui migranti. Tanto mi sono imposto di non rispondere. In effetti, ho capito che devo tenere da parte la mia persona e i miei pensieri perché la cosa più importante è il Festival, che non deve essere oscurato da altri temi. Io devo fare solo il sacerdote». E, visto che Salvini gli aveva twittato: «Canta che ti passa», il presentatore «ubbidisce»: le serate verranno infatti aperte da un suo brano con coreografia annessa come aveva proposto nell'ultimo tour. Tutto questo però «a meno che non accadano cose a mia insaputa». Pure Claudio Bisio si allinea: «Non parlerò di migranti, di Venezuela, di Tav... neppure della Juve - scherza - però farò me stesso e chi mi conosce sa di quali temi tratto». Comunque il mandato è sopire le polemiche, mostrare armonia e amicizia tra il direttore artistico e i vertici Rai, dopo che via stampa sia era consumata una frattura poi ricomposta. Chissà se questa costruzione artificiosa reggerà alla prova del Festival.
· Litigi e battute, Sanremo specchio d'Italia.
Litigi e battute, Sanremo specchio d'Italia. Dopo giorni di polemiche politiche arrivano le canzoni, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 06/02/2019, su Il Giornale. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, il cast. Al di là della qualità, ce n'è per tutti i gusti, dal dodicenne che ascolta il rap al sessantenne che preferisce canzoni più tradizionali; dal brano tutto amore e bacetti a quello «impegnato» anche se è difficile stabilire se sia più banale presentare un testo coccoloso o un testo (...) (...) sull'immigrazione (Motta e soprattutto Negrita, con riferimento diretto a Matteo Salvini) e sulle questioni sociali (incesti, carcere, varie ed eventuali). Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, la folla fuori dall'Ariston e lo struscio pomeridiano per «rubare» un selfie con gli artisti, magari con il conduttore Claudio Baglioni, che però dorme nell'albergo che fa corpo con il teatro Ariston, così passa direttamente dalla camera al palco. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, l'attesa di qualcosa fuori dalle righe: un'esecuzione grandiosa, il monologo (forse giovedì) di Claudio Bisio, le imitazioni di Virginia Raffaele. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel bene, Andrea Bocelli, ieri ospite con il figlio Matteo della serata d'inaugurazione. La voce italiana più internazionale, il nostro biglietto da visita all'estero. Nel male, la mancanza di ospiti stranieri, è il Festival della canzone italiana ma sul palco del teatro Ariston si sono esibiti anche i Queen o Peter Gabriel. Le star costano e quindi si fa di necessità virtù. Sanremo, Italia. Nel bene e nel male. Nel male, cosa c'è di più italiano della polemica sul conflitto d'interessi di Baglioni, che avrebbe selezionato troppi artisti rappresentati dal suo stesso agente, Ferdinando Salzano? L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla «contiguità amicale» elogiata dalla direttrice di Raiuno, Teresa De Santis, nel goffo tentativo di sgonfiare il caso, e il giorno seguente rinfacciata dalla stessa De Santis alla cronista (solo per caso del Giornale) che pone domande. Neanche scomode: solo domande. A proposito, c'è una cosa italiana almeno quanto la «contiguità amicale». Sì, è proprio Teresa De Santis, passata dal Manifesto, quotidiano orgogliosamente comunista, alle simpatie leghiste. Ora che è al comando, a Sanremo inanella una o più gaffe al giorno. Da incorniciare la dichiarazione che questo governo è così intelligente da non sentirsi toccato da certe canzoni. L'intelligenza al potere? Be', insomma, a vedere certi ministri non si direbbe. Sanremo, Italia. Baglioni è passato dai pistolotti pro immigrazione al «per carità, noi non facciamo politica, siamo al servizio delle canzoni». Bisio conferma, ma la nuova linea lo indispettisce almeno un po' perché limita il suo raggio d'azione. In teoria, perché qualche battuta scomoda comunque gli scapperà. In ogni caso non è un buon segno che si attenda con timore e tremore politico l'esibizione di un comico, neanche fosse Kissinger. Le tifoserie sono già pronte sul web a commentare negativamente qualunque cosa Bisio dica o faccia. Parlerà di immigrazione? Sarebbe completamente fuori luogo. Non parlerà di immigrazione? Che noia, quel Bisio. Il dibattito comunque è iniziato all'annuncio del cast. Sarà un Festival sovranista, identitario, autarchico? Oppure immigrazionista, politicamente corretto, buonista? E se non fosse niente di tutto ciò? Se fosse «soltanto» un Festival della canzone, una settimana fuori dalla realtà, almeno per alcune ore, ieri troppe? Un modo di dimenticarsi la politica che ha un ruolo così invadente nella vita quotidiana? Anche l'evasione è un atteggiamento italianissimo. Nel bene o nel male? Questa volta decidete voi.
Sanremo, Rocco Papaleo: "Belen mi rivolse la parola perché nel copione". Rocco Papaleo si lascia andare ad una rivelazione davvero inedita sul Festival di Sanremo. Scatta la frecciatina per Belen, scrive Luca Romano, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Rocco Papaleo si lascia andare ad una rivelazione davvero inedita sul Festival di Sanremo. Il conduttore del dopo-Festival di fatto ha raccontato, nel corso della presentazione della kermesse che parte questa sera, un retroscena particolare e che riguarda l'edizione del 2012. In quell'anno sul palco dell'Ariston, Papaleo era affiancato da Belen Rodriguez e da Elisabetta Canalis. Ed è proprio alla showgirl argentina che ha deciso di mandare una frecciatina: "Belen mi rivolse la parola sul palco perché era da copione". Nella sala stampa, dopo queste parole, è calato il gelo. Anna Foglietta, a fatica con una risata, ha provato a celare l'imbarazzo. Poi lo stesso Papaleo ha parlato del dopoFestival: "Avere Anna Foglietta qui con me è un privilegio: lavoriamo insieme in questo cinema italiano in crisi, la sua presenza mi dà un senso di beatitudine, mi sento a casa". Poi è il turno di Anna Foglietta, anche lei al timone del dopoFestival: "Vorremmo creare un risultato quantomeno sorprendente, e cercheremo di dire delle cose, non solo di farvele ascoltare, e questo mi sta particolarmente a cuore". Infine l'attrice conclude: "Il ritmo è alto e incalzante - chiude Foglietta - siamo il luogo delle promesse mantenute".
· "Aiutini", code, bufale: tutto ciò che non vedete in tv.
"Aiutini", code, bufale: tutto ciò che non vedete in tv. In teatro il movimento è continuo tra le file, il palco, gli ingressi. Soprattutto in sala stampa..., scrive Alessandro Gnocchi, Giovedì 07/02/2019, su Il Giornale. È tutto un brulicare. Nella galleria del teatro Ariston di Sanremo il pubblico del Festival è in continuo movimento. File di bellissime ragazze (entrate col pass, subito nascosto all'ingresso in sala) sono spostate da destra a sinistra e da sopra a sotto: per esigenze di riprese televisive? In galleria c'è una specie di regista, che distribuisce i posti alle bellissime ragazze in abito da sera e trascina il pubblico negli applausi. Fatto sta che è un continuo alzarsi, scusi, permesso, dopo non passo più, sedersi. A ogni pubblicità ripartono gli spostamenti di massa anche in direzione bar. Dopo quindici canzoni, e ancora nove da ascoltare, in effetti ci vuole qualcosa di forte. Tipo l'equivalente di una scarica di corrente elettrica. Sul palco, un cerimoniere Rai è costantemente nel panico e fa il conto alla rovescia. Mancano tre minuti. Vi prego sedetevi. Mancano due minuti. Rientrare per favore. Manca un minuto. Vi prego sedetevi. Nel frattempo Bisio offre qualche battuta destinata a restare in teatro. A un certo punto fa cantare alla platea Fiori di rosa fiori di pesco e poi: «Alle falde del Kilimangiaro! Paraponziponzipò». Il cerimoniere (mancano trenta secondi) allontana Bisio. È tutto un brulicare. Lassù in galleria si scatena l'entusiasmo (a comando). Uomini col pass fanno partire gli applausi e riempiono i momenti di attesa prolungata con urla. Brava Giorgia. Brava Patty. Bravo Claudio. È un «aiutino», nel gergo del linguaggio televisivo. Niente di strano. È tutto un brulicare. Soprattutto nella sala stampa Ariston Roof. Un antro enorme in cui nascono, crescono e talvolta muoiono le notizie. Le bufale si diffondono come un virus. Passano di bocca in bocca. Si ingigantiscono. Si sgonfiano. Dopo la conferenza stampa, Claudio Baglioni infuriato ha rotto una porta. Anzi. Ha deciso di mollare. Anzi. Non c'è persona più tranquilla di Baglioni. Un fondo di verità, c'è (quasi) sempre. Al Festival dell'Armonia non è nato un piccolo, grande amore tra la direttrice di Raiuno Teresa De Santis e il direttore artistico Claudio Baglioni. Il cantante-conduttore si è sentito scaricato ancora prima di cominciare: il passerotto andrà via. Silenziato in conferenza stampa fino a ieri, Baglioni si è preso la sua rivincita strada facendo, soprattutto nella prima serata. Molte frecciatine erano chiaramente rivolte alla dirigenza Rai. Anche questa notizia ha una sua evoluzione. C'è il massimo accordo tra Rai e Baglioni. C'è qualche screzio tra Rai e Baglioni. La Rai e Baglioni sono ai ferri corti. Dopo gli ascolti di ieri la Rai e Baglioni si amano appassionatamente. I veleni si diffondono nell'aria e atterrano sulle tastiere dei giornalisti. Ma il Festival come è andato? Grande successo per la prima serata. Un successo ma peggio dell'anno scorso. Hanno perso due punti di share, si comincia male. A un certo punto, scorporando di qua e di là, i punti persi diventano addirittura quattro, è una Caporetto. Vero? Falso? La verità sta nel mezzo. Il risultato è buono ma ieri sera si tremava dietro le quinte. Tenere alto lo share è un imperativo categorico. È tutto un brulicare. Nei ristoranti, non è difficile incontrare vecchie volpi del Festival. In sala non ci vanno. Seguono alla tv dalle sale da pranzo. Forte rumore di astici spezzati. Tra i tavoli il tema è unico: il famoso, presunto conflitto d'interessi di Claudio Baglioni, che avrebbe chiamato troppi artisti legati al suo stesso agente Ferdinando Salzano. Si sentono le rosicate fin dalla strada. Qualche brulichio alla rinfusa. Pino Daniele, premio alla carriera. Avrà fatto carriera per non aver mai voluto partecipare al Festival come concorrente? Prima serata, Claudio Bisio nervoso fa un ciaone con la mano per salutare l'ospite Andrea Bocelli; Virginia Raffaele invece ringrazia seriamente la famiglia Casamonica, citata per ridere da Bisio. L'Ariston è presidiato come la Casa Bianca. All'ingresso A ti mandano al varco B, al varco B insinuano che dovresti tornare all'ingresso A, poi la security chiama il passaggio C, una volta arrivati al passaggio C, ti mandano dritti all'ingresso A. Nella prima serata Patty Pravo e Briga sono rimasti quattro minuti in silenzio sul palco perché il pianista ha avuto un bisogno impellente. Abbiamo perso un padre Ralph. Claudio Baglioni si confida: da ragazzo «volevo farmi prete». Adesso invece lavora alla «tramandazione» del Festival: neologismo che la Crusca dovrà valutare. Comunque, quanto è bella Virginia Raffaele? Tantissimo, infatti a Baglioni cade l'occhio nella spaccatura del vestito. E lei glielo fa notare.
· Sanremo 2019, settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese.
SANREMO E LO SPECCHIO DEL PAESE.
Sanremo 2019, settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese. Le analisi di Jacopo Tomatis in «Storia culturale della canzone italiana», un libro più che mai indispensabile, non solo per capire cosa succede ogni anno all’Ariston, scrive Aldo Grasso il 9 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. «Nel seguire i cambiamenti (o l’immobilismo) della società italiana in rapporto alle canzoni di Sanremo, gli studiosi hanno sovente usato come termine di paragone un’idea di «canzone italiana assoluta», stabile, essenzializzata. Ma è lo stesso Festival di Sanremo che ha «inventato» quell’idea di canzone, ne ha cristallizzato gli elementi formali e tematici e la ha associata stabilmente a una rete di significati, primo fra tutti proprio la sua italianità, l’idea che la canzone possa contenere lo spirito nazionale e che possa quindi “rispecchiare” qualcosa che succede nella società». Così Jacopo Tomatis in Storia culturale della canzone italiana (è appena uscito da il Saggiatore), un libro più che mai indispensabile di questi tempi: non solo per capire cosa succede ogni anno sul palco di Sanremo, ma soprattutto per ripercorre le vicissitudini della musica del nostro Paese negli ultimi settant’anni. Tomatis ci offre un’analisi inedita e necessaria della canzone italiana, in tutti i suoi aspetti (interpreti, manifestazioni, politiche editoriali…). Parlare di musica significa aggiungere un tassello molto importante alla storia culturale. Per esempio, dovremmo smetterla di dire che Sanremo è lo specchio del Paese: la canzone non «rispecchia» la società in cui esiste. Casomai, esiste in stretto rapporto con la cultura in cui viene creata e fruita, e contribuisce essa stessa a modificare quella cultura. «L’incapacità di immaginare il futuro — scrive Tomatis — è anche l’incapacità di superare i vecchi paradigmi. Alla fine, anche nel nostro approcciarci alla musica pop, tendiamo a leggere i fenomeni che ci paiono “nuovi” attraverso lenti già abbondantemente usurate: la non commercialità come forma di valore artistico, l’autenticità, l’autorialità, persino il panico morale e la convinzione che la nuova musica non potrà mai essere meglio della vecchia musica».
Sanremo 2019 è davvero lo specchio del nostro Paese. Gli insulti a Bisio ce lo confermano, scrive su Il Fatto Quotidiano l'8 Febbraio 2019 Giorgio Simonelli, Docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo. Tutto bello (o quasi) ieri sera a Sanremo. Bello, degno di un musical il balletto iniziale sulle note di Viva l’Inghilterra; bella l’idea di far mimare a Bisio le norme del regolamento; bello il gioco di errori e conflitti generati dal “fiore” della canzone di Endrigo. Persino il rischiosissimo duetto verbale e canoro tra Virginia e Ornella Vanoni è filato abbastanza liscio. Ma se devo scegliere il meglio, voto una piccola cosa, spersa tra le righe del festival: la lettura da parte di Bisio di alcuni messaggi che gli sono arrivati dai social. Qualcuno ingenuo e tenero, come quello del sacerdote che lo invitava ad andare a messa, altri, la maggioranza, aggressivi, violenti che lo accusano delle più grandi turpitudini come di essere interista (proprio lui, notoriamente milanista) o di non denunciare il commercio di organi. Ecco! Se, come molti hanno sempre sostenuto, Sanremo è uno specchio del Paese per i testi delle sue canzoni, per il look dei cantanti, per il clima che crea sul palco, la lettura di questi messaggi ne fa uno specchio ancor più fedele. Senza interpretazioni e mediazioni, queste parole in libertà, sgrammaticate, prive di ogni logica e di ogni relazione con il contesto, rendono lo spirito del nostro tempo meglio dei testi dei comici invitati a fare satira. Visto che la serata ha tante note positive, ci permettiamo di farle le pulci, di cercare il pelo nell’uovo. Che si trova nell’illuminazione. Tutte quelle luci sparate dall’alto sul palco, quei fari che disegnano un grande occhio e che lanciano getti luminosi potenti, invadenti finiscono per oscurare invece che illuminare la scena e non valorizzano affatto il lavoro di un bravo regista come Duccio Forzano.
Sanremo specchio del Paese? Con l’aria che tira forse c’è da allarmarsi, scrive il 4 Febbraio 2019 su Articolo 21 Carlo Muscatello. Un tempo si diceva che il Festival di Sanremo è lo specchio del Paese. Con l’aria che tira forse c’è allora da allarmarsi, alla vigilia dell’edizione di quest’anno. La sessantanovesima, dal 5 al 9 febbraio al Teatro Ariston della città dei fiori, diretta televisiva su Raiuno, debordante su tutte le altre reti, e le radio, e i giornali, e il web…È cominciata con le minacce sovraniste a Claudio Baglioni, confermato patron dopo il successo dell’anno scorso, reo di aver speso parole di umanità e buon senso sulla tragedia dei migranti. Lui, che per anni ha organizzato il festival O’Scià in quella Lampedusa che all’inizio era solo l’isola delle sue vacanze, si è visto attaccare dalla direttrice di Raiuno Teresa De Santis, nominata in quota Lega, dopo una presentazione del Festival nella quale aveva risposto alle domande dei giornalisti. Paradosso dei paradossi, la signora che l’ha redarguito e minacciato di epurazione tanti anni fa seguiva il Festival di Sanremo per il Manifesto, quotidiano comunista. Evidentemente ha cambiato idea. Capita. Altra polemica della vigilia, sempre sul divo Claudio. Considerato che oltre a presentare la rassegna, quest’anno assieme a Virginia Raffaele e Claudio Bisio, è anche il direttore artistico, cioè quello che alla fine, magari assieme al suo staff, sceglie cantanti e canzoni in gara, gli è piovuta addosso l’infamante accusa di essere portatore (sano) di conflitto d’interessi. Perché? Perché la società che cura i suoi tour, la Friends&Partners, è la stessa a cui fanno capo diversi artisti in gara: Il Volo, Nek, Achille Lauro, Renga, Nino D’Angelo. E qualora non bastasse, alla stessa società sono legati vari ospiti annunciati al Festival. “Striscia la notizia” nei giorni scorsi ha aggiunto un altro carico da novanta, intervistando Gianni Morandi, amico e collega di Baglioni, con cui ha condiviso anni fa anche un tour: l’eterno ragazzo, quand’era stato a sua volta chiamato a presentare Sanremo, aveva declinato l’offerta di essere pure direttore artistico, proprio per “evitare imbarazzi” nella scelta o nell’esclusione di questo o quel collega. Al netto delle inevitabili polemiche, senza le quali Sanremo non è mai stato Sanremo, va riconosciuto a Baglioni il merito di aver messo assieme anche quest’anno un cast rappresentativo della musica italiana contemporanea. Pescando dalla tradizione e dal rap, dalla canzone d’autore e dal rock, senza dimenticare i nuovi idoli emersi dai “talent”. E magari azzardando coraggiosi e inediti duetti fra vecchio e nuovo. I nomi ormai si sanno da qualche settimana. Alcuni non sono noti al grande pubblico. Federica Carta e Shade, Patty Pravo e Briga, Negrita, Daniele Silvestri, Ex Otago, Achille Lauro, Arisa, Francesco Renga, Boomdabash, Enrico Nigiotti, Nino D’Angelo e Livio Cori, Paola Turci, Simone Cristicchi, Zen Circus, Anna Tatangelo, Loredana Bertè, Irama, Ultimo, Nek, Motta, Il Volo, Ghemon. Completano la lista Mahmood e Einar, entrambi “nuovi italiani”, vincitori di Sanremo Giovani che per la prima volta è stato anticipato e staccato rispetto al Festival. C’è già un favorito: Ultimo, vincitore proprio del Sanremo Giovani dello scorso anno. Ma c’è sempre tempo per ribaltare i pronostici. Tutta roba che, fra l’altro, lascia sempre il tempo che trova. Meglio aspettare la prossima polemica, che di certo deflagrerà nei giorni sanremesi. Basta aspettare.
· Sanremo solo a Sinistra.
Marcella Bella vuota il sacco: "Il Festival di Sanremo? Nel 2007 mi hanno umiliato perché mi ero candidata con An", scrive il 21 Luglio 2017 Libero Quotidiano. Marcella Bella attacca Sanremo. "Al Festival del 2007, quando andai con Gianni e presentammo Forever, la giuria mi trattò malissimo… L’anno prima mi ero candidata alle Europee per An nella mia Sicilia e me la fecero pagare. Era una giuria di sinistroidi, per modo di dire, tutti comunisti con il Rolex". La cantante, tornata al successo con un singolo scritto da Mario Biondi, in un'intervista al settimanale Oggi, in edicola da domani. Alla domanda se tornerà a Sanremo dice: "Ho tenuto fuori dall’album una canzone per proporla, chissà. Certo, dipende dagli orientamenti che avrà il direttore artistico: se è uno che vuole solo giovani dai talent, sono fritta". A Oggi Marcella Bella parla anche della rivalità con la Rettore: "Lei mi punzecchiò a Sanremo nel 1986, io le risposi per le rime») e con la Berté («Le ho sempre voluto bene, lei a volte mi ama, a volte mi odia, non sa nemmeno lei il perché".
Festival Sanremo, Gorbaciov vent’anni fa la cantò alla politica, scrive il 7 Febbraio 2019 Tonino Manzi su First on line. A conferma che Sanremo non è solo canzonette, nel 1999 sul palco del teatro Ariston salì il Premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov che il giorno dopo tenne una conferenza stampa: ecco come andarono le cose nel racconto di chi condusse l’incontro. Dalla prima battuta del Premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov, appena entrato per la conferenza nel Roof Ariston, il giorno dopo la sua partecipazione alla terza serata del Festival condotto da Fabio Fazio, ci rendemmo subito conto che tutto sarebbe stato molto informale. Nella breve sosta nell’area del “photocall”, l’ex Presidente dell’Urss salutò i quasi cento fotografi con una battuta “Quando continuate con tutti questi flash sembra che stiate sparando con dei kalashnikov”. Rivolto alla platea dei giornalisti, gremita come non mai, aggiunse: “Siete così tanti e mi viene da pensare cosa vorranno chiedermi” (agli accreditati degli Spettacoli e del Costume si erano aggiunti, per l’occasione, diverse decine di inviati delle pagine Esteri dei principali quotidiani). Dopo la risposta al saluto iniziale della Rai, portato dallo storico Capo Ufficio Stampa, Bepi Nava, Gorbaciov passò a commentare la serata del festival. Sottolineò di avere molto gradito che durante la serata avesse cantato anche la gente comune e definì impressionante il brano dell’opera pop “Notre Dame de Paris”, proposto da Riccardo Cocciante (che è tornato quest’anno al Festival). A proposito della sua presenza sul palco, insieme con la moglie Raissa, Gorbaciov tenne subito a sottolineare di avere parlato, in definitiva, della sua passione, la politica, pur avendo preso parte ad un festival di canzoni. “Questa –specificò – è un’allusione per indirizzare le vostre domande”. A proposito di Sanremo, che non aveva ancora avuto modo di visitare, disse di avere trovato una città molto verde, con un mare invitante “nel quale forse è possibile fare il bagno adesso, anche se nessuno ha saputo dirmi i gradi di temperatura dell’acqua. Una persona mi ha risposto: mica siamo tedeschi, perché dovremmo fare il bagno adesso? È che voi italiani – commentò – siete viziati dal sole e dal caldo”. Si passò quindi alle domande (si era convenuto che l’incontro sarebbe dovuto durare 45-50 minuti). La prima di queste riguardò l’affondo sui politici della sera prima, “che lavorano –aveva detto sul palco- solo per farsi eleggere”. “Non ho voluto dire via i politici, ma ho messo l’accento – chiarì – su un problema più ampio. La politica, e anche i giornalisti, bada più ai congressi, alle discussioni di linea. Bisogna trovare un modo per cui la gente possa decidere del proprio destino. Creiamo occasioni di maggiore partecipazione della gente alla politica. Permettetemi un gioco di parole: c’è bisogno della democratizzazione della democrazia”. E per restare al Festival gli fu chiesto del suo rapporto con la musica. “È una passione trasmessa da mia madre, però canto meglio quando bevo un poco. Sono molto legato alla lirica sovietica, alle canzoni patriottiche della guerra per averla vissuta. Preferisco le romanze russe ed ucraine e le canzoni della Moldavia per la loro delicatezza. Non mi piace il rumore, specie quando fa perdere la musicalità e le parole. Questo non significa, però, il rifiuto della musica moderna”. Si tornò, quindi, alla politica. Gli fu chiesto se avesse rimpianti: “Le cose che avrei voluto fare e non ho fatto sono moltissime. Non ho rimpianti. Ho avuto modo di fare – aggiunse Gorbaciov- tante riforme. Come sapete, non esiste un riformatore felice. Mi resta il dispiacere di non aver potuto vedere una Urss moderna e vedere i popoli che la comprendevano vivere una perestrojka realizzata. Uno dei rimpianti più diffusi tra la gente è quello –aggiunse- di non avere trovato una persona con cui condividere la vita. Io, invece, sono fortunato con mia moglie e sono felice”. Purtroppo, Raissa Gorbaciova sarebbe morta sette mesi dopo. Erano già trascorsi trentacinque minuti di conferenza stampa e si arrivò alla sesta domanda: “Dove ha sbagliato il comunismo, dove hanno sbagliato i comunisti e dove stanno sbagliando coloro che governano, oggi, da una parte e dall’altra?”. Con il Capo Ufficio Stampa della Rai ci guardammo preoccupati per il poco tempo, ancora, a disposizione. Ma l’ex Presidente dell’Urss, dopo avere ringraziato il collega della domanda, in poco più di sette minuti (compresa la traduzione) tenne una lezione di storia contemporanea. Citando un suo libro che aveva appena pubblicato, dal titolo “A proposito del passato e del futuro”, affermò di essersi posto la stessa domanda del perché fosse stato sconfitto quel modello socialista di comunismo dell’Urss. “Paradossalmente – dichiarò Gorbaciov – la prima risposta l’aveva data addirittura Lenin, appena quattro anni dopo la rivoluzione, quando ebbe a scrivere che avevano commesso un errore, non avendo considerato il problema di come coniugare l’interesse personale dell’individuo con la costruzione socialista di una società. E arrivò alla conclusione che si dovesse trovare il modo di conciliare questi due principi. Questa – aggiunse l’ex Presidente dell’Urss – passò alla storia come la Nuova teoria economica. Lenin poi morì e la successiva lotta per il potere portò Stalin, un capo malato. E diventammo uno stato totalitario con tutto quello che ne consegue, con le vittime e il controllo delle menti umane. I regimi totalitari, però, anche quando risolvono i problemi interni, non riescono a sopravvivere. L’economia totalitaria di fronte alle sfide del progresso tecnico-scientifico non ha retto la sfida ed è stata sconfitta. Il disfacimento dell’Urss – proseguì – è stato visto come la vittoria del liberalismo dell’occidente nella guerra fredda. Si è trattato di propaganda! Il problema del momento attuale non è la vittoria di una ideologia rispetto ad un’altra. Tutti stiamo cercando risposte a domande importanti. E mi chiedo cosa ci si può aspettare da una situazione che vede il 20% del mondo sviluppato attingere all’80 % delle risorse globali? E per questo che mi sono permesso, ieri dal palco del Teatro Ariston, di affermare di essere d’accordo con Giovanni Paolo II che auspica un mondo completamente diverso”. La politica e i rapporti internazionali avevano preso, ormai, il sopravvento e l’incontro stampa, nonostante gli impegni del Premio Nobel, poteva continuare. Le domande successive riguardarono il futuro e le prospettive per la Russia di allora; le dure reazioni di Rifondazione comunista alla presenza dell’ex Segretario generale del PCUS al Festival; i rapporti con l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Massimo D’Alema; l’appello promosso dall’Unità per la liberazione del leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan; il ventilato intervento della Nato nel Kossovo. E si parlò, anche, del tentativo di golpe in Unione Sovietica, di tre anni prima, nell’agosto del 1991. Mentre Gorbaciov e la sua famiglia si trovavano in Crimea, una parte del suo governo e dei suoi più stretti collaboratori tentarono un putsch per prendere il controllo della nazione. L’ex Presidente dell’Urss, prese l’occasione per raccontare, ai giornalisti presenti al Roof Ariston, di quando, nei giorni immediatamente successivi al tentato golpe, l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti, di ritorno in Italia dalla visita in Cina, decise di invertire la rotta per incontrarlo a Mosca. “Eravamo solo noi con le rispettive consorti e non c’era nessun altro, quando la signora Andreotti – raccontò Gorbaciov- rivolta a mia moglie chiese come fosse stato possibile non vedere il traditore vicino. E Raissa rispose: mi risulta che sia lei, sia suo marito siate credenti e allora le chiedo come abbia fatto Cristo a non vedere Giuda al suo fianco?”. In una precedente domanda riguardante la sua successiva sconfitta politica, Gorbaciov aveva sottolineato di ritenerla, comunque, una vittoria “perché – affermò – non mi sono discostato dalla democrazia, non ho permesso la guerra civile e il trionfo della violenza”. Dopo dodici domande (ad altre quindici non fu possibile rispondere per mancanza di tempo) e trascorsa più di un’ora e mezza, a fronte dei quarantacinque minuti concordati, si chiudeva un incontro che nulla avrebbe avuto a che fare con una manifestazione se fosse stata fatta di “solo canzonette”. Perché Sanremo è Sanremo.
Sanremo, esclusa la canzone "sovranista" degli ex New Trolls. Claudio Baglioni è sempre più nella bufera per le sue parole sull'immigrazione e sulle scelte del governo per contrastarla. Spunta il caso degli ex New Trolls, scrive Luca Romano, Sabato 12/01/2019, su Il Giornale. Claudio Baglioni è sempre più nella bufera per le sue parole sull'immigrazione e sulle scelte del governo per contrastarla. Il direttore artistico del Festival di fatto ha posizionato questo suo secondo Sanremo sul binario buonista. A fargli da sponda anche le parole di Claudio Bisio che di fatto ha sottolineato la sua intenzione di recitare un monologo proprio sull'accoglienza. Ma c'è da fare un passo indietro rispetto a questa vicenda. Come sottolinea la Verità, qualche mese fa lo stesso Baglioni ha di fatto escluso dalla competizione della kermesse una canzone di Nico Di Palo e Gianni Belleno, gli ex New Trolls. Una canzone dal titolo "Porte aperte" che nel testo però segnala la paura degli italiani: "Noi siamo qui a ricordare / queste verità di un’unione fatta di parole e di ipocrisie le nostre porte aperte al mondo / e il terremoto che le spazza via. E la paura poi ci assale / nelle vie delle città, non ci permette più di camminare / con l’amata libertà / sono troppi gli occhi sconosciuti". Parole queste che di fatto andrebbero contro la linea buonista del direttore artistico. E così la canzone di fatto è stata esclusa dalla kermesse. Solo un caso oppure è stata ritenuta "fuori linea" rispetto alla predica dell'accoglienza che sarà protagonista sul palco dell'Ariston?
Ecco Baglioni, il nuovo leader morale della sinistra, scrive Alessandro Gnocchi l'11 gennaio su Nicola Porro. La Rai è sempre al centro di grandissime polemiche. Claudio Baglioni, conduttore del prossimo Sanremo, l’evento degli eventi, ha detto, nel corso della conferenza stampa di presentazione, le consuete parole sugli immigrati, che possiamo riassumere così: viva l’immigrazione, accoglienza a tutto spiano, Salvini cattivone. Baglioni è intelligente, difficile imbastisca un comizio anche sul palco dell’Ariston. Le canzonette avranno il massimo dello spazio. Ma qualche frecciatina al governo possiamo aspettarcela, soprattutto dal co-conduttore Claudio Bisio, che ha già annunciato di voler parlare di attualità. E qui si apre la solita, inevitabile polemica. La tv di Stato non dovrebbe produrre trasmissioni a senso unico e prive di contraddittorio. Ma lo fa, eccome. E lo farà finché sarà un carrozzone pubblico dominato dai partiti. Ogni volta la stessa storia: programma sbilanciato o volto sgradito; mancato rinnovo della trasmissione; epurazione; indignazione; polemica. E poi si riparte da capo. Avete mai visto un talk di destra? No. Solo Virus di Nicola Porro, che ci ospita gentilmente sul suo sito. Abbiamo visto la fine che ha fatto: chiuso, senza troppe spiegazioni. La sinistra considera la Rai di sua proprietà e l’ha così riempita di amici e di amici degli amici che Viale Mazzini riesce a essere di sinistra anche quando governa la destra. Vedremo cosa accadrà con i giallo-verdi, alle loro prime nomine. La privatizzazione tanto auspicata da numerosi abbonati (obbligatoriamente) non la vedremo fino a quando viale Mazzini sarà la dependance dei partiti. Quindi non la vedremo mai. Infine un’ultima osservazione. Dalla lettura dei giornali di oggi (Repubblica, Corriere, Fatto) emerge chiaramente che Baglioni, l’autore di Questo piccolo grande amore, è… il nuovo leader morale della sinistra. Proprio lui, accusato un tempo di essere fascista solo perché disimpegnato. Anche Matteo Renzi e Maria Elena Boschi hanno esaltato le parole di Baglioni. C’è da restare basiti di fronte a chi non riesce a capire che in Italia può entrare solo chi ha le carte in regola. Altrimenti si incentivano le partenze, e anche il rischio di una tragedia nel mezzo del Mediterraneo.
Non è tutto qui. «Importare» manodopera senza tutele è disastroso. Per la manodopera senza tutele, cioè per i migranti al soldo dei caporali. E anche per la manodopera che le tutele le avrebbe ma viene lasciata a casa perché non conviene più chiamarla. E voilà. A colpi di buonismo, i sostenitori dell’accoglienza indiscriminata hanno ottenuto un «grande» traguardo: reintrodurre di fatto la schiavitù. Ottimo risultato, bravi. Naturalmente è impossibile (o quasi) che questa posizione trovi spazio sul palco di Sanremo. Alessandro Gnocchi, 11 gennaio 2019
Baglioni, la sinistra un tempo si vergognava di ascoltarlo. Oggi gli farebbe un monumento, scrive sabato 12 gennaio Francesco Severini su Secolo d’Italia. Claudio Baglioni e i migranti. Claudio Baglioni capitano dei “buonisti”. Claudio Baglioni aedo degli anti-Salvini. Idolo e icona di una sinistra che si attacca ad ogni respiro, ad ogni sillaba disillusa pur di fare “ammuina” contro il governo. Baglioni è oggi una star progressista. E’, anche, il potenziale perseguitato dalla Rai gialloverde che (forse) vorrebbe cacciarlo (Teresa De Santis, direttrice di Rai1, ci avrebbe almeno pensato) . Oggi o si sta con Baglioni o si sta contro. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui la sinistra Claudio Baglioni non lo sopportava. Un anno fa, dopo lo strepitoso successo di Sanremo, il primo a conduzione del cantautore romano, fu la ex moglie, Paola Massari, a ricordarlo in un post di fuoco su Facebook al grido di “lasciate stare Baglioni”: “Eh no – scriveva – cari polverosi pennaioli, coevi ingloriosi dei gloriosi anni 70. Portabandiera dei detrattori, d’un colpo folgorati e redenti. Quelli per i quali la dignità del sentimento si riduceva a banale sentimentalismo. Quelli che, o si trombava nelle stanze fumose delle aule occupate, o si era mentecatti romantici. Quelli per cui interpretare la vita senza l’ausilio di uno slogan preso in prestito dalla eco della piazza, relegava la reputazione al marchio di una mosceria giuggiolona e disimpegnata. Non se la caveranno così quei campioni dell’impegno politico confuso con la materia inclassificabile dell’arte che vi fece ridurre Baglioni ad un cazzone inadeguato al suo tempo e alla sua stessa intelligenza. Non è con un’autoassoluzione improvvisata che si possono buttare in caciara anni di ostilità estesa a buona parte della stampa, che tradì e offese, osteggiandola, un’anima di raro spessore”.
Baglioni e gli eskimi in redazione. La signora Massari ce l’aveva con il conformismo politico degli eskimi in redazione: “Non è con questo tono pacificatore spolverato di paraculaggine – scrive ancora su Fb – che tutto si archivia in barba alla memoria. Fu puro bullismo ideologico. L’esercizio di un vizio atavico e asservito alla pochezza. Estraneo al pensiero libero. Li ricordo tutti, uno per uno, i giornalisti che infierivano impietosi, mentre nel contempo esibivano uno spudorato pregiudizio favorevole riservato agli eletti sdoganati da un battesimo politico, quando affermavano serenamente e pubblicamente cose del tipo: “Del disco di De Gregori parlerò bene pur senza averlo ascoltato”, mentre quello di Baglioni veniva stroncato a scatola chiusa”. Sempre un anno fa fu Il Dubbio, in un articolo a firma di Daniele Zaccvaria, a ricordare l’ostilità della sinistra nei confronti di Baglioni: “Gli altri parlavano di rivoluzioni, di liberazioni, di pace e di locomotive, di giustizia e di libertà, e lui cantava soave «passerotto non andare via». Non ci mise molto a finire nella lista nera: vacuo, commerciale, inconsistente come una “maglietta fina”, quasi certamente di destra, magari anche fascista, di sicuro sospetto. Comunque impresentabile nelle consorterie della canzone d’autore: erano gli anni 70 e bastava poco per diventare un nemico del popolo”.
E se fosse solo un gioco per alzare l’audience? Oggi è tutto archiviato, tutto dimenticato. Baglioni è supervezzeggiato sulle bacheche social degli antisalviniani. A meno che – il dubbio è avanzato da Marco Molendini sul Messaggero – dietro tutta questa polemica sui migranti e l’Italia incattivita non sia tutto un gioco per aumentare l’audience. “Un siparietto così ben congegnato da alimentare il sospetto di premeditazione. Adesso (Baglioni, ndr) può starne sicuro, qualsiasi starnuto potrà trasformarsi in un tuono, grazie anche all’imminenza delle elezioni europee (del resto, il Festival ha una posizione strategica in un mese, febbraio, che cade ogni volta in campagna elettorale, per di più in un Paese dove si vota con alta frequenza). Una bella polizza di assicurazione i cui benefici andranno anche a casa Rai, sotto forma di Auditel”. Intanto Matteo Salvini ha fatto sapere che a Sanremo non andrà: “A me Baglioni piace, ma a Sanremo quest’anno non ci andrò. Mio figlio -ironizza Salvini- mi dice che ascolto musica vecchia, Battisti, De André, Vasco e Baglioni. A me piace quando cantano, poi ogni cantante ha diritto di pensarla come vuole”. Tuttavia “siccome è pagato dai cittadini italiani, da una rete pubblica, per una iniziativa pubblica, se evitasse di usare il microfono e il palco di Sanremo per fare comizi, gli italiani gliene saranno grati”.
· Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra".
Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 20 dicembre 2019. «Il fatto è che le donne piccoline e un po' rifatte a me sono simpatiche, quindi le posso dare un bel 4 in pagella». Lo Zanicchi show termina così. L' aquila di Ligonchio mercoledì sera nel salotto di Piero Chiambretti (la Repubblica delle Donne, Rete4) ha scelto di passare nel tritacarne Lilli Gruber. Poco più di quattro minuti di monologo nei quali ha giocato su tutti i cliché più cari alla conduttrice, femminista ostentatamente di sinistra. Un discorsetto velenoso e divertentissimo, se l' avesse scritto un redattore di Libero sarebbe già stato flagellato sui social network, garrotato, infilzato come un pollo e poi scuoiato per essere usato come bandierina da appendere alle finestre dell' Ordine dei Giornalisti di Roma. Per fortuna, però, ci sono donne di grande spirito come Iva, quindi possiamo limitarci a raccontare. «Quando la Gruber è arrivata al TG1 ha conquistato tutti, perché fino ad allora i mezzibusti si vestivano a lutto con le facce tristissime», ha ricordato. «Invece lei è arrivata, bella, si è stesa leggermente sulla scrivania e sempre di tre quarti, con le ciglia finte (forse) e ha sconvolto con leggerezza. È diventata il sogno erotico degli italiani». Cosa vorrà dire? Che la giornalista Rai faceva leva sul suo aspetto fisico? Molto sessista, offensivo, gravissimo. Non ci permettiamo di commentare per non rischiare censure. La Zanicchi tuttavia ha insistito molto sul tema del rapporto tra maschi e femmine, che la presentatrice di La7 affronta in continuazione, rigirandolo a seconda delle proprie convenienze. «Di Salvini ha detto che è un rozzo, di Feltri ha detto che è un vecchio in andropausa. Allora io ho detto "bene, vuol dire che se è contro gli uomini, quando arrivano le donne lei le innalza". Alla prima donna che è andata e che lei ha intervistato cosa ha detto? "Lei, signora Meloni, è fascista?". Eh no dai... Questa si è incavolata e allora le ha spento il microfono». Difficile contestare. Dalle quote rosa, si passa ai trascorsi politici. E qui la Zanicchi continua a sfottere, visto che entrambe le signore sono state elette eurodeputate nella stessa legislatura (anno 2004) ovviamente in opposte fazioni: «Ha preso quasi un milione di voti, tutta la sinistra l' ha votata. È andata in Europa ma non è riuscita a fare un granché ma non perché non sia capace è proprio che non l' ho mai vista a Bruxelles, forse mi è passata sotto le gambe». Un fantasma a Bruxelles, molto meglio tornare al giornalismo. Il curriculum della Gruber non si può davvero discutere, da inviata ha lavorato in mezzo mondo. Conosce una valanga di idiomi. «Ne ha di lingue in bocca quella lì», sentenzia Iva. E infine un ultimo regalo a Lilli con dedica: «Cara, visto che è Natale, io ti vedo che naufraghi in un' isola deserta con Salvini. Perché poi tra Otto e mezzo e Nove settimane e mezzo il passo e breve». Rapporto contro natura.
Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. Ha il sogno di tornare all'Ariston, scrive Franco Grilli, Giovedì 01/02/2018, su "Il Giornale". Iva Zanicchi si sfoga ai microfoni di "Un giorno da pecora". Al centro dell'intervista su Radio Uno c'è il Festival di Sanremo. La cantante di fatto sa che non verrà chiamata come ospite e di fatto punta alla partecipazione alla kermesse del 2019. Ma nel suo intervento c'è un tono polemico proprio sul mancato invito come ospite all'Ariston: "No, ma che ospite, non ho questa presunzione. Per esser ospiti a Sanremo bisogna esser un po' di sinistra, io non lo sono e non sarò mai ospite. Vado come concorrente". La Zanicchi di fatto è sempre stata una protagonista della musica italiana e di certo ha il sogno di tornare ancora una volta a Sanremo. "Ho una canzone già pronta, bellissima. Se ci va la Vanoni...io sono nata a Sanremo, lì ho avuto dei grandi successi e sono riconoscente a questa manifestazione". Il suo ritorno potrebbe coincidere, come lei stessa ha affermato con i 50 anni di "Zingara" nel 2019. Infine sui giurati afferma: "La Maionchi mi diverte, Gigi D'Alessio è popolarissimo e poi Morgan: sicuramente ci litigherò". Poi su Morgan corregge il tiro: "Scherzo, mi piace, è un creativo, un poeta, mi piace molto".
Iva Zanicchi a Fuori dal coro canta Bandiera rossa: "Sono nata comunista ma io bado alle persone". Libero Quotidiano il 13 Novembre 2019. Iva Zanicchi, ospite di Mario Giordano a Fuori dal coro, su Rete quattro, canta "Bandiera Rossa". "Avanti o popolo, bandiera rossa. Alla riscossa, trionferà. Bandiera rossa la trionferà", intona la cantante. Poi, rispondendo a una domanda del conduttore, dice: "Io ho il coraggio di cantare Bandiera rossa, cosa me ne frega? Io sono nata comunista e lo sanno tutti", sottolinea la cantante: "Io poi sono emiliana, tutti i miei amici sono di sinistra ma io bado alle persone. Ma che cos'è 'sta roba?", conclude la Zanicchi dando in questo modo una bella lezione ai "sinistri" che al contrario sembrano disinteressarsi della gente.
Da “Un Giorno da Pecora - Radio1” il 12 novembre 2019. “Il mio compagno? Ha dieci anni meno di me, è un uomo sessualmente molto potente”. A parlare è Iva Zanicchi, che oggi è stata ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora. Lei che rapporto ha col sesso? “Io sono sana e sono 'olimpionica': ne faccio una ogni quattro anni...” E come fa suo marito? “Io lo spingo quasi a cercarle fuori, tanto non sono gelosa, visto che lui è giovane e forte. E come se io fossi una mamma, diciamo...”
Da “Un Giorno da Pecora - Radio1” il 12 novembre 2019. Alle prossime elezioni voterà per Giorgia Meloni. La pensa così Iva Zanicchi, la celebre cantante italiana, che oggi è stata ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Partiamo dalla sinistra: oggi chi apprezza di più? “Mi è molto simpatico Andrea Orlando, l'ex Ministro della Giustizia. Lo amo quel ragazzo, lo vorrei vedere premier”. E a destra chi le piace? “Giorgia Meloni mi piace, la ammiro tantissimo, più di Salvini, di Berlusconi e di tutti gli altri”. Perché le piace? “E' brava, capace preparata, è un leader importante, ecco perché è arrivata al 10%. La ammiro e la stimo”. Alle prossime elezioni voterebbe Giorgia Meloni dunque? “Si, non l'ho votata in passato ma la voterò alle prossime elezioni”. Cosa consiglierebbe di fare a Mara Carfagna, che, pare, sta meditando di passare a Forza Italia? “Non credo che passerà con Renzi. Io le consiglierei di smettere di far politica: è una donna bellissima, potrebbe fare televisione e spettacolo, ma se fossi in lei resterei con Berlusconi”, ha concluso la Zanicchi a Un Giorno da Pecora.
Da “Un Giorno da Pecora - Radio1” il 12 novembre 2019. “A Sanremo? Non ci vado, non ci posso andare, non mi vogliono”. A parlare è Iva Zanicchi, che oggi è stata ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. E' Amadeus che non la vuole? “No, macché, Amadeus è un angelo, se lo merita Sanremo, è bravissimo, conosce la musica, lavora in Rai da mille anni: merita di fare Sanremo. Non parlo assolutamente di lui”. E a chi si riferisce? “Ad una persona, la quale ha detto chiaramente che per andare a Sanremo dovrei passare sul suo cadavere. Io auguro bene a tutti - ha detto la Zanicchi a Un Giorno da Pecora - e quindi non vado a Sanremo”. E' uno che ha potere? “Certo che si, è uno che ha potere a Sanremo. Lui se è all'ascolto lo sa, e si dovrebbe vergognare...”
Antonello Piroso per La Verità il 14 Novembre 2019. Vulcanica. Irriverente. Sanguigna. Soprattutto una grande interprete musicale «dalla voce quasi tenorile» (così Wikipedia). Iva Zanicchi, 79 anni, ha scritto per Rizzoli Nata di luna buona. Avvertenza: i giudizi abrasivi qui riportati vanno letti immaginando di sentire in sottofondo le sue risate. Perché può scherzare su gli altri solo chi è capace di non prendere troppo sul serio se stesso.
Questo non è il suo debutto letterario.
«No. Sono al terzo libro, dopo Polenta di castagne del 2002 e I prati di Sara del 2005».
Il primo fu un libro di ricette?
«Macché. C' è chi all' epoca lo pensò e lo scrisse, senza evidentemente averlo neppure sfogliato. È che dove sono nata io, sulle montagne a Vaglie di Ligonchio (Reggio Emilia), per la miseria c' era solo quello da mangiare, il piatto più semplice, che ha sfamato generazioni. Era un libro autobiografico, che arrivava fino al 1974, quest' ultimo ne è la ripresa e la prosecuzione arrivando ai giorni nostri».
Dinastia contadina e umile, la sua.
«Ma dignitosa. Sempre. Mio nonno con la famiglia emigrò in America. Si fecero la quarantena a New York: li tenevano ammassati come bestie per vedere se portavano qualche malattia. Poi finirono in Montana. Peggio che a Ligonchio! Perché qui giravano i lupi, di notte. Lì anche gli orsi. Di giorno».
Ricorda che per un breve periodo fui tra i suoi autori a Iva Show, trasmesso da Rete 4 nel biennio 1996-1998?
«Sinceramente no. E perché se ne andò?».
Non mi trovavo bene nella squadra, mi sembrò giusto levare il disturbo. Era un tipo di approfondimento nazionalpopolare, ma lavorandoci si poteva farne la versione nostrana di Oprah Winfrey.
«Piroso, con lei non si capisce mai dove inizi lo sfottò. Sa come finì, vero? Un giorno accendo la tv per rivedere la puntata (registravamo sempre) e scopro che c' era un altro programma. Solo che il mio faceva il 20% di share, il rimpiazzo il 3».
Se ne saranno pentiti, allora.
«Se ne sono fatti una ragione, invece. Il mio posto era stato preso dalla moglie di Adriano Galliani, quindi intoccabile».
Daniela Rosati.
«Poi si è fatta suora. Ha sempre scelto di godere di altissime protezioni: prima Galliani, poi il Padreterno».
Bella indelicatezza, comunque.
«Manco l' unica. All' epoca di Ok! Il prezzo è giusto, per cui il contratto si rinnovava di anno in anno, stavo aspettando che mi chiamassero per la nuova stagione. Parlo con la costumista e lei: "Ma come, non sai che sei stata sostituita da Gigi Sabani?". Rimasi di stucco. Fu il mio compagno (Fausto Pinna: stanno insieme da 33 anni, nda) a telefonare alla direzione di Canale 5, che confermò: avevano pensato di cambiare senza neanche dirmi "crepa, cane".
Che mancanza di tatto e di rispetto. Ma sa il colmo quale fu?
Mi telefona il giorno dopo Carlo Momigliano, direttore del marketing: "Peccato Iva che tu voglia lasciare la trasmissione"».
È uno sport molto praticato, quello delle voci maligne fatte circolare ad arte alle spalle altrui. In tutte le aziende.
«Gli risposi che ero stata accantonata d' ufficio. Lui rimase in silenzio, poi mi invitò ad aspettare, ché si sarebbe fatto risentire. Commissionò un sondaggio presso gli inserzionisti pubblicitari, risultato? Un plebiscito per me: 90 a 10. Morale: contratto rinnovato per altri due anni, i dirigenti dovettero ingoiare il rospo, tiè».
Ok, il prezzo della vendetta è quello giusto!
«Nessuna vendetta, non sono il tipo. Ho il gusto della battuta, questo sì, ma non porto rancore».
Neppure a quel personaggio che giorni fa avrebbe giurato: «La Zanicchi di nuovo al Festival? Deve passare sul mio cadavere»? E dire che lei è la cantante che ha vinto più edizioni: tre.
«Vuol farmi fare polemica a tutti i costi, ho capito. Ma lasciamo perdere, voliamo alti».
Aspetti, all' Aquila di Ligonchio arriviamo dopo. Conferma che non si tratta di Amadeus?
«Sì. Faccio con tutto il cuore il tifo per lui, si merita il più sfavillante dei successi. Guardi, io non auguro il male neppure al mio peggior nemico, e questo "signore" che se la tira da molto potente spero davvero sia sempre in salute e che possa campare fino a 100 anni, o oltre...».
Non so perché, ma ho come l' impressione stia per arrivare un ma...
«Nessun ma. Diciamo che se però la sorte non fosse così favorevole, mi farei trovare pronta con un bel paio di scarponi chiodati».
Eccallà, commenterebbe alla romana Maurizio Costanzo. Io credo che se due sue rivali, Ornella Vanoni (classe 1934) e Patty Pravo (classe 1948) hanno gareggiato nel 2018 e nel 2019, potrebbe tornare a Sanremo tranquillamente pure lei. Anche solo come ospite.
«Patty Pravo non è mai stata una rivale, perché è arrivata dopo. Quanto alla Vanoni, nei concerti volevano sempre eseguissi una canzone di Ornella, Un' ora sola ti vorrei, convinti fosse mia. Lei un giorno mi ferma arrabbiata: "Sai che tutti pensano che la mia canzone sia tua?".
"Guarda che me la richiede il pubblico". E lei: "Ah be', del resto hanno l' impudenza di domandare Un fiume amaro a me". E io: "Astieniti. Perché tu Un fiume amaro non la sai cantare".
Quando si dice «la solidarietà femminile».
«Non fraintenda: è per la timbrica e per la voce, non perché non sia all' altezza. Quindi io le sue posso farle, lei le mie no. Del Festival che dire? Ho già dato. Ho partecipato 10 volte, l' ultima 10 anni fa, con quell' intervento offensivo di Roberto Benigni, pieno di doppi sensi sulla mia canzone Ti voglio senza amore, e gli ammiccamenti del conduttore (Paolo Bonolis, nda)».
Vabbè, Benigni è il solito Benignaccio, e poi le battute sul sesso strappano sempre facili risate.
«Se non altro, lui si è reso conto e dopo una settimana mi ha telefonato per scusarsi con me e con la mia famiglia, visto che sono una madre e una nonna. Quell' altro invece non l' ho mai sentito. Solidarietà dei politici? Nessuna, il #metoo non era ancora di moda. L' unico a scrivermi una bellissima lettera fu il presidente emerito Francesco Cossiga».
Silente anche Silvio Berlusconi?
«Sì, ma la mia stima e l' affetto per lui ci saranno sempre, anche se poi, quando sono stata eletta in Europa con Forza Italia, il partito mi ha lasciata totalmente sola. La politica è un ambiente ancora più carogna di quello dello spettacolo».
Be', nel 2011 fu invitata in un talk de La7 in cui il Cavaliere fu attaccato duramente per il bunga bunga, lui telefonò in diretta invitandola «cordialmente» ad abbandonare quell'«incredibile postribolo televisivo», ma lei non lo fece.
«Non volevo imitare Daniela Santanchè che faceva sempre 'ste sceneggiate. È vero, rimasi lì ma mi arrabbiai tantissimo, difesi con le unghie Berlusconi, sostenendo che se la sinistra pensava di abbatterlo così poteva stare fresca. Non mi pare di essermi sbagliata di tanto».
In effetti, fu una bella macumba.
«Del resto, demonizzando Matteo Salvini (come hanno fatto per decenni con Berlusconi) cosa stanno ottenendo? Che fra poco nei sondaggi la Lega arriverà al 50%».
Però in futuro lei voterà Giorgia Meloni...
«Se continua così, sì».
Mi scusi: ma è vero che ha partecipato alle primarie del Pd e ha votato per Andrea Orlando?
«Sì, perché è credibile, serio, e si presenta bene. Ormai guardo più alle persone che agli schieramenti».
Vabbè, come diceva Maurizio Ferrini a Quelli della notte: «Non capisco ma mi adeguo».
Invece da La gabbia di Gianluigi Paragone (senatore del M5s: aveva annunciato le dimissioni se fosse nato il governo con il Pd, ma nisba: è avanzato rinculando) se ne andò con un triplice "vaffa" e anche un "va' a cagare.", simpaticamente detto in emiliano.
«Mi accusavano di essere corresponsabile della crisi economica perché ero stata al governo, ma quando mai?
Esasperata, feci l' errore (perché la beneficenza si fa senza sbandierarla, me lo ripeteva sempre mia madre) di dire che avevo adottato una famiglia di quattro persone. Mi insultarono a sangue, urlandomene di ogni, perché secondo loro ero a caccia di pubblicità. Allora ce li ho mandati, e ho lasciato lo studio».
Torniamo allo zoo della canzone italiana degli anni 60 e 70: Mina, Milva e lei. Ovvero...
«La Tigre di Cremona, la Pantera di Goro (in quel di Ferrara) e poi l' Aquila di Ligonchio».
Tre pesi massimi.
«Ah, una di sicuro. Così massimo che sta spiaggiata sul divano, rintanata in casa all' estero, mentre come vede io sono ancora qui, a metterci la faccia».
Ma ci sarebbe anche l' usignolo di Cavriago, la reggioemiliana Orietta Berti.
«Orietta è bravissima e fa bene a rivendicare l' esistenza di un quartetto e non di un trio. Lo dico perché spero che per Natale mandi i suoi mitici tortellini anche a me, non solo a Mara Venier. Del resto, è vero che con Orietta abbiamo iniziato insieme, partecipando allo stesso concorso nel '61: lei però è andata a casa con una medaglietta, io con una coppa alta tre metri. Lei giura che siamo arrivate prime tutte e due. Magari ha ragione lei, chissà».
Una delle sue canzoni più celebri, con cui ha vinto un Festival, è Zingara. Finita in seguito al centro di una querelle giudiziaria di anni. Con Francesco De Gregori denunciato dagli autori per plagio.
«Ma che poeta, De Gregori.E che bel tipo di uomo. Lo dico senza far ingelosire Fausto, perché lui è un fan sfegatato del Principe (e, ma a distanza e solo dopo, di Fabrizio De Andrè). Ma sa che ci rimasi male io per prima per quella accusa? Ma come: De Gregori fa una citazione, e voi lo portate in tribunale invece di ringraziarlo?».
La Cassazione ha confermato l' assoluzione già intervenuta in appello.
«E per fortuna. Le regalo un particolare: quando espressi il mio sconcerto, De Gregori lo venne a sapere. Una sera, tornata a casa, me la ritrovai inondata di fiori. Nel biglietto di accompagnamento, oltre alla firma, c' erano solo queste parole: "Grazie, Zingara!". Un gran signore».
Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 4 febbraio 2019. «Mi può richiamare tra tre minuti, ché sto preparando le inalazioni a mio marito con 40 di febbre?». In questa richiesta sta tutta la cifra umana di Iva Zanicchi, l'anti-diva per eccellenza, che si muove con disinvoltura tra i salotti tv e la cucina di casa. Viene quasi naturale intervistarla ora, a ridosso dell'inizio del Festival di Sanremo, dato che lei è l' artista vivente che ne ha vinti di più, ben 3.
Iva Zanicchi, ci tiene a difendere questo record di vittorie?
«Fino a un certo punto. Alcune cantanti mi tallonano, tipo la Oxa e la Cinquetti, con 2 vittorie. Ma è dura che arrivi un altro successo per loro. Comunque conservo solo i ricordi, non i premi, dal momento che mi sono stati tutti rubati. Peccato, avevano un grosso valore sentimentale».
50 anni fa lei vinceva a Sanremo, insieme a Bobby Solo, con Zingara. Oggi, per via del politicamente corretto, sarebbe ancora possibile vincere il Festival con una canzone intitolata così?
«Spero di sì, ma magari la sinistra cambierebbe titolo e attacco del pezzo in un "Prendi questa mano, rom". Che poi, metricamente, suona anche male. Io preferisco non ascoltare questi buonisti, che si ritengono gli unici duri e puri. L' idea che, se non sei di sinistra, sei contro gli immigrati o le altre culture, a me dà molto fastidio. E infatti sto portando avanti uno spettacolo chiamato Una vita da zingara. D' altronde, quando incisi Zingara, visitai anche dei campi di zingari e rimasi affascinata dalla loro ospitalità. Certo, conosciamo tutti i problemi legati a quel mondo: sono nomadi, non hanno una residenza, ma se si comportassero anche bene».
I suoi ultimi Sanremo le hanno portato qualche amarezza. Nel 2003 arrivò ultima con Fossi un tango, nel 2009 Ti voglio senza amore fu eliminata. Da allora ha scelto di non partecipare più?
«Nel 2003 la canzone era bellissima, mi presentai sul palco col caschetto, le unghie laccate di rosso, ero così perfetta che la gente non mi riconobbe (ride). Il Festival di 10 anni fa è stato invece per me dolorosissimo. Prima della mia esibizione, andò sul palco Benigni che fece un monologo in cui calcò la mano contro di me dandomi di fatto della donna di strada. Quel siparietto fu architettato dall' allora direttore artistico e dal di lui impresario, e accettato anche dall' allora direttore di Rai 1. Poi Benigni mi chiamò per chiedere scusa a me e alla famiglia. Ma evidentemente pagai il fatto di essere diventata europarlamentare con Forza Italia. Fossi stata di sinistra, magari quel Festival lo avrei vinto. In ogni caso a Sanremo, dopo quell' esperienza scioccante, non mi sono più riproposta, anche se mi piacerebbe tornarci».
Potevano chiamarla quest' anno per festeggiare i 50 anni di Zingara...
«Se Baglioni mi avesse chiamato, sarebbe stata una cosa carina. Ma non ci avrà pensato e non avrà ritenuto fosse il caso».
Le frasi sui migranti le sono piaciute? Si rischia un Sanremo politicizzato...
«Guardi, il Festival è politicizzato ormai da anni, forse solo ai tempi di Baudo non lo era. Ma la cultura è da sempre in mano alla sinistra. Detto questo, ognuno è libero di esprimersi come vuole. Anche se, in una conferenza stampa in cui bisogna parlare di canzone italiana, io avrei evitato di fare riferimento alla politica».
A breve si voterà in Europa. Se glielo chiedessero, si candiderebbe ancora?
«I partiti non fanno altro che chiedermelo. Ma io ho già dato in politica (come europarlamentare dal 2008 al 2014, ndr). È stata un'esperienza molto formativa di cui rivendico un'intuizione. Nel 2009 lanciai in aula l'allarme che l'Italia fosse stata lasciata sola a gestire la questione immigrazione. Ci avevo visto lungo. Non a caso mi chiamavano l'Aquila di Ligonchio.».
Come giudica le ultime dichiarazioni filo-immigrazione di Berlusconi?
«Di Silvio ho sempre apprezzato l'umanità. È naturale provare pietà per dei bambini su una nave in alto mare. Ma allo stesso tempo do ragione a Salvini che vuole regolarizzare il fenomeno e pretende che l'Europa se ne faccia carico».
Matteo le piace come politico e come uomo?
«È un lavoratore indefesso che parla in modo semplice e schietto. Magari non è un grande affabulatore come Berlusconi, ma la gente lo capisce subito. Quanto al fascino, l'uomo legato al potere piace a prescindere. Piaceva anche Andreotti...».
Striscia la accusa di essersi rifatta...
«Mi sono rifatta solo il naso 40 anni fa, come ho detto più volte. Il resto no. In tv il miracolo lo fanno le luci: con le luci sbagliate sembri un cesso, con quelle giuste pari una 40enne».
A proposito di età, quanto è importante per lei il sesso a quasi 80 anni?
«A quest' età più che altro è importante andare a letto con la borsa dell'acqua calda (ride). A 80 anni il sesso non lo si fa quasi più, però io me ne sento 60 e quindi ho ancora delle cartucce da sparare...».
Iva Zanicchi: “Quella poesia che Ungaretti recitò nel bosco per me….” Edoardo Sylos Labini il 05/11/2019 su Il Giornale Off. Bella, affascinante, genuina e tagliente: quando pronunci il suo nome è come se dicessi “L’Italia”. Cantava nell’osteria della nonna, faceva il contralto con gli Alpini. Ha vinto tre Festival di Sanremo, ha incantato milioni di persone dall’Italia al Cile, dalla Spagna al Madison Square Garden di New York. Al Mondadori OFF un mito: Iva Zanicchi. Benvenuta iva nell’unico salotto non radical chic d’Italia.
Siamo onorati di avere nostra ospite un mito dello spettacolo italiano come te. Questo libro autobiografico, Nata di luna buona (Rizzoli), uscito da pochi giorni, sta andando alla grande. C’é tutta la tua straordinaria carriera e la tua vita “inimitabile”, per dirla alla d’Annunzio. Cosa significa essere nata di luna buona?
«E’ una frase del mio bisnonno Lorenzo: sono nata per terza e il mio papà voleva un maschio per via dell’eredità – sai che eredità! E così non mi volle vedere per tre giorni. Sono nata in in stalla, nevicava e l’ostetrica si era rifiutata di aiutare mia mamma Elsa: lei era nella stalla per mungere la vacca Nerina e io sono nata proprio lì! La mamma mi avvolse nel foulard e mi mise nella mangiatoia: era disperata perché ero femmina!, ma il bisnonno Lorenzo mi guardò e disse: “E’ nata di giovedì e di luna buona!“»
Cantavi già quando eri nella pancia di tua madre: é vero che tuo padre ti costruì una casetta di legno su un albero affinché potessi dare sfogo alle tue doti canore?
«Mio papà aveva una grande manualità e siccome non voleva sentirmi cantare, mi costruì questa casetta: io salivo e cantavo. Avevo una voce che mi sentivano a distanza nella valle. Cantavo con gli Alpini nell’osteria della nonna ed ero l’unica donna che potesse entrare. Anche la maestra diceva che cantavo bene e quando fui mandata in colonia (ero magrissima!) la direttrice mi disse: “canta per tutti i bambini!”. Ero timida e non sapevo cosa cantare: attaccai con la montanara, poi con la smortina, ma siccome a fine canzone morivano tutti, non mi fece più cantare!»
Ligonchio, questo puntino isolato sull’Appennino tosco-emiliano, quanto ha segnato la tua vita e la tua carriera?
«Piccolissimo il mio paesino: a Vaglie, dove sono nata, d’inverno non c’è nessuno e lo “chiudono”, lo riaprono in estate con i gerani sui balconi. Quando sono nata io non c’era neanche la strada, c’era solo la chiesa con un prete bellissimo, messo “in castigo” perché andava con le donne. I vagliesi si autogestivano, organizzavano i matrimoni, c’era l’ostetrica e tutte le cose utili per un paese. Erano tutti poveri, ma avevano ognuno un orticello e quando morivano lasciavano tutto al prete, perché altrimenti sarebbero finiti all’inferno. Ma mio nonno li convinse a non lasciare nulla al prete sporcaccione!»
Sei cresciuta in piena guerra, tra l’occupazione nazista e le prepotenze di alcuni partigiani: nel libro parli del partigiano “Lupo”, un farabutto uscito dalle galere di Modena…
«Io lo dico sempre: grande merito alla Resistenza, però questo Lupo era un delinquente; in Emilia sono passati settant’anni e alcune cose non si possono dire, però questo qua aveva fatto del male a tanti, l’ho scritto nel libro (anche se il mio non è un libro politico). Avevamo più paura di lui e del suo gruppo che dei nazisti, ha fatto tante atrocità e si deve sapere».
Con le tue sorelle tenevi il quaderno degli attori e cantanti preferiti: su questo quaderno c’era una foto autografata di Achille Togliani, che qualche anno dopo divenne il padrino del Concorso di Castrocaro, che lanciò la tua straordinaria carriera: come fu il tuo inizio?
«Finita la serata del concorso arriva Gigi Vesigna e mi dice: “oh bambina, ci vediamo a Sanremo! Ravera ha detto che vinci tu!“. Io perdo la voce e la sera anzichè cantare “abbaio” e arrivo quarta. Andai a Milano per fare un disco: presi il treno da sola, all’epoca era come andare sulla Luna! Mio papà mi preparò una bellissima valigia di cartone e feci tutto il viaggio con la testa fuori dal finestrino, così persi la voce un’altra volta: arrivai dal discografico senza voce!»
La tua voce “nera” colpì i discografici della nuova etichetta, con cui hai inciso la tua prima canzone di successo, Come ti vorrei.
«La casa discografica si chiamava Rifi: c’era Mina e..sì, ero gelosa! Quando arrivai, lei era una star».
La canzone con la quale vinci il tuo primo Festival di Sanremo nel 1967 in coppia con Claudio Villa è Non pensare a me . Hai partecipato a dieci festival e ne hai vinti tre: qual è il ricordo più bello di Sanremo? E quello più brutto?
«Il più bello è Zingara con Bobby Solo: ero giovane e i discografici ci avevano applaudito subito. Il ricordo più brutto è invece è proprio nel 1967, in quell’anno in cui morì Tenco. Pensavo che chiudessero il Festival, mi sembrava inconcepibile continuare il festival ero dietro le quinte e singhiozzavo, mi sembrava talmente atroce gioire per la vittoria in un momento così».
Per te hanno scritto in tanti, da Battisti e Paolo Conte a Umberto Bindi e Shel Shapiro e Cristiano Malgioglio: ma chi é l’autore al quale devi di più?
«Un giorno Battisti chiama il mio discografico: vuole fare una canzone con me. Stiamo insieme una settimana: bene, l’unica brutta canzone scritta da Mogol e Battisti è quella! Anche Paolo Conte me ne scrisse una, un blues, ma era una cagata pazzesca! Theodorakis invece ha scritto Fiume amaro, il mio più grande successo. Ho fatto un anche un disco di canzoni ebraiche nel ‘68 e per poco non mi hanno arrestata! Però mi sono divertita, ho fatto quello che ho voluto».
Il successo ha mai tolto qualcosa alla tua vita privata?
«Qualcosa ho dovuto lasciare: avevo paura a portare mia figlia in aereo e pensavo di far bene, ma poi quando gliene parlai mi disse che in realtà lei piangeva perché io non c’ero. Mia figlia è una donna meravigliosa».
Se negli anni ‘60 abbiamo visto una Iva sanguigna, negli anni ‘70 la tua carriera é caratterizzata dall’impegno e dall’incontro con grandi intellettuali come Giuseppe Ungaretti…
«Un uomo dal cuore candido, puro. E’ stato un incontro meraviglioso! Lo incontrai a Salso Maggiore, mi disse che avrebbe voluto recitare per me nel bosco una poesia. Amava Leopardi e mi diceva che io dovevo amare quel poeta e non lui, ma per me era unico».
Un ricordo della tournee teatrale con un altro gigante: Walter Chiari.
«Ho fatto sei mesi in tournè e gli devo molto. Un giorno sua mamma mi dice di non andarci a letto. Dopo un po’ di tempo lui ci prova con me e io, che sono ancora una ragazzina, gli dico di no. “Ma mica te lo avrà detto mia mamma!?”,mi fa lui…»
Nel 1978 Playboy ti dedica un servizio molto sexy che fa infuriare tua madre…
«Con Playboy ho fatto una cavolata. Erano foto un pò osè e così sequestrai tutte le copie del mio paesino! Mio papà venne a sapere del servizio per Playboy grazie a un amico: per non spaventare la mamma le disse che il servizio fotografico era per Famiglia Cristiana!»
Cosa bisogna fare per corteggiarti? E se Daniele Stefani improvvisasse un tango?…
«Il tango è la musica più sexy, l’espressione verticale di un desiderio orizzontale. E’ un po’ disdicevole alla mia età, ma mi chiedono se a questa età si fa sesso: certo! Io sono olimpionica, faccio sesso una volta ogni quattro anni!»
Ti senti una donna senza età?
«Mi sento anziana, però sono in salute e mi metto il rossetto!»
Gli anni ‘90 per te hanno coinciso con una svolta televisiva cominciata con quel Premiatissima, programma di Canale 5, presentato da Johnny Dorelli del 1984.
«Dorelli mi disse: “Intrattieni il pubblico!”. Ero uscita senza sapere che stavano registrando. Poi un giorno mi chiama Berlusconi: prima dell’appuntamento in villa a Macherio Johnny Dorelli mi consiglia di “sparare” una cifra esagerata. Una volta entrata, Berlusconi si avvicina al pianoforte e canta La vie en rose: io non so più cosa dirgli e alla fine accetto tutto quello che mi propone!»
Cosa ti ha spinto a fare politica? Sei stata tra gli europarlamentari con più presenze: 97% nella legislatura 2009-2014.
«Mi sono messa in politica per vendicare mio padre. Quando mio padre si candidò nel nostro paese prese solo un voto, il suo! Neanche mia mamma lo aveva votato! Io credo nelle persone, quando mi piaceva Berlusconi ero con lui. Anche lui mi aveva sconsigliato di entrare in politica».
Mi dicono che sei una grande cuoca...
«Io sono un’ottima cuoca, ce l’ho nel dna! Però il mio compagno è bravissimo e cucina lui, solo che mi fa sempre la cucina sarda e io non ne posso più!»
QUANDO ALBERTO SORDI SI FIONDÒ SU IVA ZANICCHI. Bruna Magi per ''Libero Quotidiano'' il 22 ottobre 2019. Iva Zanicchi è una delle icone senza tempo della nostra canzone: sta a Mina, Ornella Vanoni, Milva e Patty Pravo. Ha conservato la genuinità ruspante delle origini, ma è andata oltre la melassa rosa di Orietta Berti, mantenendo un linguaggio tosto. Durante la lunga, fortunata carriera le ha cantate a tutti, e continua, imperterrita, come ci racconta lei stessa in un' autobiografia corposa (forse meglio definirla autoritratto) Iva Zanicchi, nata di Luna buona (Mondadori editore, pag.319, euro 18, in libreria da oggi), in una full immersion che ti fa navigare fra il gossip e la storia senza peli sulla lingua (non risparmia neppure i "partigiani sbagliati" del triangolo rosso). Puntigliosa, inizia a raccontarsi proprio da principio, cioè dal parto della mamma (Elsa detta E, perché da quelle parti usa chiamarsi con le iniziali), avvenuto a Vaglie di Ligonchio, provincia di Reggio Emilia, in un "puntino isolato sull' Appennino tosco-emiliano, lontano da tutto e da tutti, il 18 gennaio del 19.Oh mio Dio, ho perso la memoria!». Eh no, cara Iva, così ci induci alla rivelazione (piacevole, dai) che saranno ottanta il 18 gennaio 2020. Nacque nella stalla. Tutti delusi perché non era un maschio, la definirono anche bruttina, ed ebbe plausi solo dal nonno, l' unico a trovarla carina, pronosticandole viaggi in America e tanta fortuna perché era nata con la «Luna Buona». Però, il nonno, che fiuto. Iva, infatti, cantava, di continuo. La mamma apprezzava, suo padre no. Purtroppo tutto sembrava dovesse restare confinato lì, sino a quando si palesò il destino attraverso la radio e nelle vesti di Silvio Gigli che conduceva il programma i I due campanili, sfida tra paesini e città su base canora. La squadra di Iva vinse, andarono in finale a Bologna, e la replica fu ascoltata a Roma, da Gianni Ravera, il patron di Castrocaro e Sanremo, mentre si faceva la barba. La fece cercare dal sindaco, era cominciata la corsa al successo. Avrebbe conosciuto il produttore Tonino Ansoldi, che sarebbe diventato suo marito (finì con un divorzio), e poi si spalancò il palcoscenico di Sanremo. Unica fra le donne, avrebbe partecipato a tre edizioni, incancellabile restò il 1967, l' anno in cui vinse in coppia con Claudio Villa, cantando Non pensare a me, mentre Luigi Tenco si era appena suicidato. Lo spettacolo andò avanti, in quella notte tragica. Scrive Iva: «La sera, sul palco, avrei voluto urlare il mio disprezzo. Ma l' unica cosa che riuscii a fare era piangere. Anche se ero appena stata proclamata vincitrice». Un aneddoto tira l'altro, tra musica, televisione e politica, in questa sostanziosa biografia, tra i più divertenti quello in cui narra di Alberto Sordi. Si ritrovarono per la prima de Il presidente del Borgorosso Football Club, lei bevve troppo, ubriaca si ritrovò in camera con lui, e racconta «Mi sbattè sul letto, le sue mani cominciarono a palparmi dappertutto. Era in difficoltà col mio vestito, talmente stretto da sembrare una seconda pelle, di lì non si passava...». Lui ansimò «Te lo strappo», e lei fuggì, letteralmente. Alberto la chiamò anni dopo, per il suo compleanno, dicendo: «Zanicchina, non sai che te sei persa! Peggio per te!». Iva afferma di sentire ancora nell' orecchio la sua fragorosa risata.
Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano il 30 ottobre 2019. Più che l'aquila di Ligonchio, Iva Zanicchi sembra l' aquila dei quattro continenti: partita dal paesino emiliano, zitta zitta, cheta cheta, ha suonato in Unione Sovietica ("la prima italiana in assoluto"), in Iran davanti allo Scià ("E siamo scappati poco prima della rivoluzione"), in Sudamerica ("In Cile pure insieme alla Lollobrigida") e al Madison Square Garden ("con la famiglia dei Gambino che alla fine mi ha regalato un rotolo di carta igienica"). Nel frattempo ha vinto tre Sanremo ("sempre con la tremarella"), venduto milioni di dischi, vissuto qualche amore ("fino a 26 anni vergine, eh"), scampato qualche assalto maschile (Alberto Sordi e Walter Chiari protagonisti), ha scoperto i grigi della politica (con Berlusconi); però nel "menu" oltre la musica, c' è una presenza costante, un richiamo atavico: il cibo ("Mi piace, è una colpa?"). Il tutto è narrato in un' autobiografia sincera, Nata di luna buona, scritta da lei, non vezzosa, non artefatta, diretta, un po' come del buon lambrusco abbinato allo gnocco fritto, da degustare con il sorriso sulle labbra e l' adeguata leggerezza nel rispetto della storia e della tradizione.
I suoi primi ricordi sono legati alla guerra.
«Di quando mio padre è tornato dal campo di prigionia: ero piccola, ma ho nitida la sensazione di terrore e delusione quando l' ho rivisto».
Come mai?
«Era alto 1.85 eppure pesava 40 chili, gli occhi infossati e vuoti, la pelle distrutta, non si reggeva in piedi e non parlava; io mi ero immaginata un genitore biondo, alto, forte e sorridente, e invece mi trovavo davanti a un essere distrutto. Per giorni rimase a letto, in posizione fetale, con mamma che lo accudiva, mentre io piangevo perché mi aveva tolto il posto nel lettone; giorni dopo venne da me e di nascosto mi allungò una cartina con dello zucchero, allora una rarità. Da quel momento è diventato il mio papà».
Pansa ha raccontato delle lotte partigiane nel triangolo emiliano.
«La lotta con i tedeschi è stata terribile: un giorno le SS hanno piazzato al muro l' intero paese, me compresa; ma a volte abbiamo temuto pure alcune bande di presunti partigiani composte da ex carcerati di Modena, persone senza scrupoli, e uno di loro, nome di battaglia "Lupo", era il peggiore».
Non è mai stata comunista.
«In paese le donne votavano Dc perché altrimenti il prete le minacciava di scomunica, mentre gli uomini se ne fregavano e preferivano il Pci».
Suo padre socialdemocratico.
«Una volta lo hanno convinto a candidarsi, lui certo di poter ottenere almeno quindici voti, e invece il giorno delle elezioni ne ha ottenuto solo uno. Il suo».
Neanche la moglie.
«Tornò a casa avvelenato, e mamma: "Non voglio mica andare all'inferno per te"».
Cantava alle feste de l'Unità?
«Credo di aver battuto tutti i record di presenza, e una sera ho convinto l' allora segretario della Cgil, Luciano Lama, a intonare con me Fiume amaro, però andavo pure alle feste dell' Amicizia e in un caso mi sono confusa».
In che senso?
«Pensavo di stare in mezzo ai democristiani, e mi sono lanciata in un sentito Bianco fiore; all' improvviso ho sentito delle urla: ero a una festa de l' Unità. Quindi ho sorriso: "Era uno scherzo, sciocchi!"».
Però è andata in Unione Sovietica.
«Prima di partire il prete del paese mi convoca: "Attenta, lì mangiano i bambini"».
Un classico.
«Appena arrivata a Mosca chiedo di visitare la Piazza Rossa, e scatto una foto ad alcuni ragazzini paffutelli; al ritorno la mostro allo stesso prete: "Lo vede padre, ci sono e pure cicciottelli". E lui: "Li ingrassano per avere più carne"».
In Urss veniva controllata?
«Sempre, perennemente e comunque: in quelle settimane avevo delle persone con me, e una di loro, in teoria la più disponibile e tranquilla, l' ho ritrovata il giorno della partenza in aeroporto che mi apriva pure le creme del viso».
Lì si è innamorata.
«Dopo un corteggiamento in stile Dottor Zivago, una sera mi decido e dico al tipo "ci vediamo in camera", peccato che entro nella hall dell' albergo e trovo mio marito».
Altro viaggio: Iran.
«Vissuto insieme a Lando Buzzanca, a quel tempo talmente famoso da non poter camminare per strada; alla fine di uno spettacolo vedo una delle nostre guide sputare sulla foto dello Scià».
Pericolosissimo.
«E infatti stupita lo racconto ai nostri referenti: "Impossibile, sarai confusa". Invece il giorno dopo assisto con altri alla medesima scena; lì ho capito che era il caso di tornare in Italia, e due mesi dopo è scoppiata la rivoluzione e Moira Orfei, ancora lì, perse il circo».
Nel libro parla spesso di cibo.
«È una questione genetica, ci sono nata: a due mesi piangevo sempre, mamma disperata non capiva il motivo, fino a quando è arrivata una zia e ha preparato un pancotto con aglio e olio: mangiato tutto. Con me le diete non funzionano».
Di fame ha sofferto.
«Quando sono andata via di casa e non volevo aiuti perché eravamo poveri: sono cresciuta con gli abiti dismessi dalle mie sorelle, il primo cappotto l' ho conquistato a 18 anni e ci nutrivamo dei "frutti" del bosco; ho mangiato talmente tanti porcini da diventare allergica».
Amiche nel mondo della musica?
«Era complicato, lavoravamo veramente tanto, e ci ritrovavamo giusto agli appuntamenti comuni, come Sanremo».
Con Mina?
«Altro livello, di lei potevi avvertire giusto la scia; nei primissimi anni Settanta la Rai aveva previsto un programma per me, lei era fuori dall' Italia; secondo Corrado Pani tornò appositamente per non lasciare spazio a un'altra cantante».
Ornella Vanoni.
«Ho sempre subito il suo fascino, ma è complicato mantenerci un rapporto: una volta ti butta le braccia al collo, quella successiva neanche ti saluta; un giorno mi disse: "Tu a Sanremo porti canzoni brutte e vinci, io bellissime ma niente"».
Simpatica.
«Durante un Sanremo, come forma di protezione, me l' hanno tenuta lontana».
Perché?
«Soffrivo la ribalta, ogni volta mi agitavo, e lei apposta veniva nei camerini e magari mi smontava: "Questo vestito non è messo bene"».
Una delizia.
«(scoppia a ridere) A una Canzonissima non si presenta alle prove, il regista incazzato decide di non dedicarle neanche un primo piano durante la diretta; finita la sua esibizione, per protesta, inizia a passare davanti alla telecamera, più e più volte e urla. Peccato che sul palco c' ero io, e dietro lo schermo venti milioni di spettatori. L' aquila si agitava Tremavo! Ero timida e ansiosa; a un Sanremo, per tranquillizzarmi, il mio maestro tentò un' ardua strada: "Pensa ai ragazzi morti in Vietnam". Scoppiai a piangere».
Soluzione?
«Un' iniezione del medico».
Di cosa?
«Mai saputo; però non ero l' unica agitata».
Chi altro?
«Una sera ho trovato Domenico Modugno mentre dava delle testate al muro, quando mi ha vista si è giustificato: "È anche per queste emozioni se siamo qui"».
Nel 1967 era presente alla morte di Tenco.
«Per me, allora, dovevano stoppare il Festival».
Impossibile.
«Appena capii cosa era accaduto, iniziai a preparare i bagagli; una volta nella hall mi spiegarono che Claudio Villa e la commissione avevano deciso di proseguire».
Lei lo vinse.
«Alla fine dell' esibizione ero sotto choc, altre lacrime, e non riuscivo a urlare quanto tutto fosse mostruoso; chi era intorno a me non capiva».
Quelli sono anni di contestazione: l' hanno mai fischiata?
«Solo una sera a Torino: volavano pomodori e uova, io per fortuna solo sfiorata, altri non sono riusciti a salire sul palco; un' altra volta a momenti menavo».
Chi?
«Dei manifestanti! Per la prima volta mia nonna arriva a Milano: la vado a prendere in auto e le davo sempre del "voi". Poco dopo finiamo in mezzo al bordello, dei ragazzi ci circondano e prendono a mazzate la macchina, per loro lussuosa».
Marca?
«Mercedes; allora scendo, mi si chiude il collo dalla rabbia, e grido di tutto; alla fine siamo passate, ma il giorno dopo ho annullato il concerto per assenza di voce (cambia tono). Una volta ho inseguito dei ladri con in mano la refurtiva di casa».
Spasimanti: Alberto Sordi.
«Lì forse ho sbagliato.
A non cedere?
«Temevo di rappresentare solo un trofeo: un amico comune ci aveva già provato, senza risultato».
Corteggiata a lungo.
«Da Alberto? Abbastanza, poi l'ultima sera capisco che è "La" sera e mi agito, bevo troppo, tanto da sentirmi male e correre nel giardino per rimettere; torno in stanza e arriva la sua telefonata: "Ci vediamo?", mi dice. "Va bene, vengo da te". E lì Neanche entro che mi salta addosso, prova a togliermi il vestito ma era una guaina: "Aspetta, vado in camera, mi spoglio e torno da te". E invece poi ci ho ripensato; mesi dopo squilla il telefono, era Alberto: "Che te sei persa", e giù una delle sue risate».
Stessa sorte per Walter Chiari.
«Genio assoluto: i sei mesi di tournée con lui sono stati magnifici, ogni sera improvvisava, non ho mai più incontrato nessuno di quel livello. E Mi diceva "dobbiamo andare a letto insieme" con la stessa enfasi di quando ordinava la cena: per lui era normale, scontato, ma non ci sono stata; un pomeriggio arriva sua madre, allarmata: "Resisti, fa sempre così, l' amicizia è più importante"».
Altro continente: il Sudamerica con la Lollobrigida.
«Diva come nessun'altra: per raggiungere il Cile ci volevano più di 32 ore; io distrutta, temevo l' aereo quindi bevevo per stordirmi, e sono arrivata a buttarmi a terra pur di dormire. Lei no. La ricordo impegnata per due ore con la manicure, e una volta atterrati scese la scaletta perfettamente truccata, parrucca in ordine, vestito e tacchi intonati; non solo: saranno stati 40 e passa gradi eppure indossava una pelliccia di visone. A differenza sua io ero ancora distrutta».
Diventate amiche?
«Solo di notte».
Che vuol dire?
«Il giorno non considerava nessuno, poi a tarda sera bussava alla mia porta, entrava e raccontava in lacrime dei problemi personali, in particolare con il figlio; il giorno successivo mi trattava con fastidio».
Quindi?
«Alla terza sera non le ho aperto, dentro di me le ho dedicato un bel "vaffanculo" e mi sono messa a dormire».
Beve ancora per volare?
«I sei anni in Europa mi hanno abituata: non lo amo, ma volo».
Eletta con Forza Italia.
«La politica è un ambiente difficile, molto peggio del mondo dello spettacolo».
Addirittura.
«Partecipai a delle missioni in Africa per conto della commissione Sviluppo: al mio ritorno spiegai ai colleghi la situazione, e loro: "Abbiamo già tanti problemi in Italia"».
Primo incontro con Berlusconi.
«Anni Ottanta mi convoca ad Arcore. Accetto. E mi presento in bicicletta, tanto abitavo e abito a 500 metri di distanza; entro nella villa, lui cordiale e affascinante, mi mostra le varie bellezze compreso il teatro con il pianoforte piazzato sul palco».
Ha cantato?
«Non io, lui! E per mezz' ora il suo repertorio francese».
Ancora viaggi: Madison Square Garden a New York.
«Ventimila spettatori; terminata l'esibizione si presentano i tre organizzatori: i signori Galate, Genovese e Gambino».
Cognomi "importanti".
«Appunto. Comunque entusiasti, e alla fine dello show un loro parente si presenta e mi consegna un pacchetto, per lui prezioso: "È per voi, lo dovete aprire in Italia con tutta la famiglia: è una cosa nuova che da voi non ci sta". Era carta igienica. "Sembra fragile, ma potete utilizzarla tranquillamente"».
Il suo ultimo Sanremo non è stato felicissimo.
«Direi pessimo: prima di salire sul palco, Paolo Bonolis e Roberto Benigni mi hanno insultata anche con allusioni sessuali; se me ne fossi accorta non avrei cantato».
Si sono scusati?
«Benigni sì, ha chiesto perdono: "Ho sentito le risate e mi è scappata la mano"; Bonolis mai pervenuto».
Alla fine, chi è lei?
«Una donna nata in tempi duri, che ha lottato e avuto la fortuna di soddisfare molte delle sue curiosità. Non tutte. Solo molte».
IVA AL CENTO PER CENTO. Massimo Castelli per “la Verità” l'1 aprile 2019. Estensione vocale: 2 ottave e 5 semitoni. Soprannome: «L'aquila di Ligonchio». Iva Zanicchi calca il palcoscenico dal 1960, e oggi che di anni ne ha 79 si può ben dire che ha vissuto mille vite: cantante tra le più popolari d' Italia, star televisiva, parlamentare europea, attrice, nonna, e Dio sa che altro. Una turbo-artista inossidabile.
Tranne che in questi giorni.
«Non ho mai preso un' influenza, però stavolta il virus me lo sono beccato bello forte. Ma io gli ho detto: "O muori tu o muoio io!". Adesso ne sto uscendo».
Per le sue fan è una «cyber girl».
(ride) «Sono una bestia forte, ce l' ho nel dna. Le donne della mia famiglia erano guerriere».
Cioè?
«Nonostante il mio soprannome io non sono di Ligonchio ma di un paese ancora più piccolo, lontano da tutto e da tutti, Vaglie di Ligonchio. Fino alla fine degli anni 50 ci si arrivava solo con una mulattiera. La mia bisnonna era detta "La pisana" perché sua mamma morì di parto dandola alla luce su un carro, di passaggio a Pisa. Per anni finì in convento, poi il padre l'andò a prendere e la portò su in montagna, in Emilia. Aveva una forza sovrumana. È vissuta in una miseria nera mangiando tante castagne, ma se n'è andata a cent'anni. Sono grata di essere nata in una famiglia così».
È ancora legata al suo paese?
«Come non potrei. Ci sono cresciuta. Lì le donne della mia famiglia, che avevano voci bellissime, cantavano la domenica a messa e scendevano da tutti i monti per ascoltarle. Lì nel 1944 i nazisti mi misero al muro con gli altri abitanti, e per fortuna non spararono. Di quel luogo conosco ogni sasso. In agosto faccio finta di andare ai Caraibi ma le vacanze le passo a Ligonchio».
Le radici delle famiglie italiane... che ci portano bruscamente al presente: cosa pensa del congresso di Verona?
«Io ho la mente molto aperta ma per me la famiglia è sacra. Sono cattolica osservante, per quanto grande peccatrice, ma per me famiglia è il papà, con la mamma e i figli. A due uomini o due donne devono avere riconosciuti i diritti per stare insieme. Ma sui figli ho una chiusura totale».
La famiglia tradizionale è sotto assedio, come qualcuno lamenta?
«Le voci contrarie sono più forti di quelle che la difendono. Chi tace magari teme di andare controcorrente. Di apparire antico. O anziano. Ma dove andremo a finire...».
L'anzianità non sembra un suo problema. Hanno appena comunicato che sarà opinionista del Grande Fratello 16 A quasi ottant' anni è fresca come una rosa.
«Diciamo come un crisantemo» (ride).
Diciamo come una prezzemolina televisiva. Selvaggia Lucarelli di lei ha scritto che si è «riciclata nel ruolo della vaiassa naïf dei salotti tv». Cosa risponde?
(Silenzio). «Posso dire in francese? È una stronzata. Peccato perché è una donna acuta. Poteva trovare di meglio. Ma poi di che salotti parla».
Non so, forse di Chiambretti.
«Aaah. Da lui mi sono divertita come una pazza. Ma forse la Lucarelli rosica perché non è stata invitata, c' erano altre giornaliste».
La vecchia guardia è attivissima. Tutti vogliono la Vanoni, Patty Pravo, Orietta Berti, Al Bano... Hanno rispolverato anche Memo Remigi. Come se lo spiega?
«Occhio eh, la Vanoni è più vecchia di me! Me lo spiego così: noi abbiamo fatto la gavetta vera. E poi per la gente siamo rassicuranti. Come un caffellatte al mattino. Oggi cantano in inglese».
Cosa pensa della proposta di legge della Lega sull' obbligatorietà delle canzoni italiane in radio?
«L'avrei fatta prima e con più severità: 7 canzoni su 10 italiane».
Ma la musica italiana riesce ancora a inventare?
«Mi chiedo cosa sia successo nel nostro Paese Eravamo i re delle melodie - i re! - e le abbiamo lasciate morire. Perdendo questo dove vai? C'è la ritmica, sì, anche qualcosa di carino vien fuori. Ma i nuovi testi "Mia mamma vaffanculo" bom bom bom. Tutto così».
Com' era invece cantare ai tempi della Dc: si sentiva il controllo della censura?
«In Rai era eccessiva, ingombrante. Ricordo quando nel 1966, alla trasmissione Un disco per l' estate, presentai una canzone bellissima: Accarezzami amore».
Ahi.
«Fu censurata, eliminata dal programma e mai più trasmessa per radio e in televisione. (Canta) "Non parlare piùùù, accarezzamiiii". Ma non diceva mica dove eh! Ha capito come eravamo».
Invece oggi.
«È l'opposto. Non c'è controllo. Qualsiasi schifezza si può dire. Ma non ci lamentiamo troppo dei nostri giovani, la colpa è anche nostra se non sanno niente. Pensi che l' altro giorno ero accanto a un ventenne molto simpatico, in tivù, e parlando gli faccio: "Sai, il grande Walter Chiari". E lui: "Chi?". E io: "Va' che ti spacco la testa!"».
Ci ricordi lei Walter Chiari.
«Ne ho una venerazione. Se a teatro so far sorridere e ridere le persone, con quel senso del ritmo, lo devo a lui. Ci ho lavorato sei mesi».
Rientrava nella categoria umana che lei definisce "provoloni"?
«Le racconto un segreto. Una sera viene da me e fa: "Iva, sai, io con tutte quelle che lavorano con me ci vado a letto. Anche per simpatia, perché poi si lavora meglio Quindi ecco, dobbiamo fare l' amore". E io: "Ma Walter, che cacchio dici?"». Sua mamma, con cui avevo anche un rapporto d' amicizia, mi aveva messa in guardia: "Senta cara, mi permetta, non ci vada a letto col mio Walter. Lui è birichino. Ma sa, l' amicizia è più importante"».
Come reagì Chiari al suo "no"?
«Rispose: "Vabbè, però non andare a dire in giro che non te l'ho chiesto eh!" (ride)».
Parlando di ricordi: un' immagine della lunga tournée in Unione sovietica, nel 1981? È stata anche la prima cantante europea a farlo.
«Ho impresso nella mente quel che vidi affacciandomi dalla finestra del mio albergo, all'alba di un mattino d' inverno: una fila interminabile di persone sotto la neve, al gelo. Aspettavano di comprare il biglietto per il mio spettacolo serale».
Era controllata?
«Di più».
Spiata?
«La ragazza che mi aiutava, Ludmilla, per me alla fine era come una figlia. Ci volevamo bene. Condividevamo risate e pasti. Beh, era una spia. Ogni cosa dicessi o facessi veniva riferito a Mosca. Tutto! Ma era l' Unione sovietica».
Oggi noi abbiamo l'Unione europea. Dal 2008 al 2014 è stata eurodeputata di Forza Italia... Non è che ci fa la sorpresa e si ricandida?
«Neanche morta! L' ho fatto col cuore ma in cambio ho sofferto molto. Dai politici ero denigrata, derisa, perché venivo dallo spettacolo. E reinserirmi, dopo, è stato davvero difficile».
Ha fatto anche la vicepresidente della commissione Sviluppo.
«Sono stata molto in giro, anche nei Paesi più poveri del mondo. Burkino Faso, Congo, Angola».
E cosa pensa del problema migratorio, del sogno africano di migrare in Europa?
«Dato che sono una veggente - in casa dicono strega - già dieci anni fa ogni volta che parlavo al Parlamento europeo ripetevo sempre la stessa cosa: "L'Italia è lasciata sola". Me ne vanto. E mi deridevano pure: "Dici sempre le stesse cose!", mi rimbrottavano».
Oggi ci danno dei razzisti.
«In Italia si parla di razzismo, ma un po' razzisti lo sono tutti. Io abitavo in una casa a 5 chilometri da Ligonchio, dove con le mie sorelle andavo a scuola. Beh, ci picchiavano ogni giorno perché non eravamo di lì. Eravamo straniere. Capisce cosa c' è nell' animo delle persone?».
Come si risolse?
«Mio papà andò dal capo branco, gli diede due sberle e gli allungò 5 lire raccomandandosi: difendi tu le mie figlie. La mattina dopo quello mi disse: "Ti picchio per l'ultima volta, poi più". Mi prese la testa e la infilò nella neve, quasi soffocai».
Morale europea?
«Troppo facile per Germania e Francia lasciare a noi il problema e puntare il dito accusandoci di razzismo. Un' azione è necessaria. L' Europa deve aiutarli là. Si può fare. Si può!».
Nel 2014 fu la prima dei non eletti con 30.454 preferenze. Oggi le stenderebbero tappeti rossi.
«E senza avere il minimo aiuto del partito, che era contro di me. Avevano proibito di farmi fare campagna elettorale. Portavano in giro altre persone, molto più degne evidentemente. Si doveva votare quelle. Licia Ronzulli prese 3.000 voti in meno di me nonostante una campagna hollywoodiana».
Nel 2014 disse che Berlusconi trattava meglio il cagnolino Dudù di lei Qual è il vostro rapporto oggi?
«Inesistente. Dico sempre che il mio Berlusconi è Piersilvio, visto che lavoro tanto a Mediaset».
Come vede il presente di Forza Italia?
«Cercano in tutti i modi di sollevare la testa ma non è facile. Berlusconi è sempre stato un uomo capace. Non so se lo sia ancora. Diamo all'età quel che l' età richiede».
E cosa pensa del governo gialloblù?
«Gli italiani sono famosi perché come va al governo chicchessia, lo massacrano. È nella nostra natura. Prima ti eleviamo e poi non ti permettiamo di fare. Adesso, non è che di errori non ne facciano, però Salvini in questo momento - c' è poco da dire - è uno che sa parlare alla gente. È uno che "arriva" davvero. Dice cose che, puoi essere d' accordo o no, ma le dice in modo chiaro. E sta mantenendo quanto promesso in campagna elettorale. L'hanno votato e continueranno a votarlo. Sta facendo bene».
Uno degli ultimi provvedimenti è la legge sulla legittima difesa. Lei che ha subito diversi furti nella sua casa in Brianza che cosa ne pensa?
«Sono stata molto bersagliata. Con il maresciallo di Arcore a forza di rapine siamo diventati amici. Ma quando gli ho confidato che volevo prendere il porto d' armi, mi ha sconsigliato: "Loro sono più veloci di lei. È pericolosissimo". Infatti in casa non ho armi. Certo che se ti entrano in casa e minacciano tua figlia o tua nipote Beh, se trovo un coltello, io ti taglio la gola! Nessuno tocchi la mia famiglia».
Guardare Sanremo mi è servito a capire la sinistra, scrive il 12 Febbraio 2018 Francescomaria Tedesco, Filosofo del diritto e della politica, su "Il Fatto Quotidiano". Essere di sinistra significa illudersi che su certi temi ci sia un consenso universale e puntualmente scoprire di essere in minoranza. Tipo Diodato/Roy Paci tu pensi che vincano e arrivano ottavi. L’amara scoperta della minoranza diventa via via però consapevolezza, e a un certo punto persino accettazione e poi compiacimento. Fino al grado zero della minoranza: uno solo. Ma lì scatta l’accusa di tafazzismo. Forse non molti ricordano che Tafazzi non è solo colui che si dà da solo le bottigliate sui testicoli ma, dentro uno schema di comicità a tempi progressivamente ridotti, rappresenta di questa il momento archetipico, basico: dallo sketch ai pochi secondi di un Totò Merumeni che si flagella i cosiddetti. Naturalmente ci sono poi i temi scolastici di Meta e Moro. Ermal Meta l’anno scorso ha presentato una canzone contro la violenza verso le donne, quest’anno una sul terrorismo, l’anno prossimo concorrerà con una cosa sulla fame nel mondo? Il lato wild della coppia è Fabrizio Moro, che aveva dimostrato simpatie grilline e antipatie napolitane (nel senso che aveva inveito contro l’allora presidente della Repubblica a una kermesse dei Cinque Stelle). La canzone è bella ma un po’ scontata, per non dire che il titolo (e il ritornello) è una tipica preterizione: “Non mi avete fatto niente” lo dici solo quando in realtà ti hanno fatto davvero male e devi fare training autogeno. Il terrorismo ha colpito fortemente l’Europa e il suo immaginario, ha contribuito a rafforzare il senso di insicurezza (la cosiddetta, a ragione vituperata insicurezza ‘percepita’), e soprattutto ha rotto definitivamente la flebilissima diga che a sinistra impediva ancora di fare apertamente certe cose, come vantarsi di aver fermato gli sbarchi dimenticandosi di dire che ciò ha fatto sì che la gente muoia non in mare ma a terra, o che sia detenuta in condizioni disumane nei lager libici. “Non ci avete fatto niente”? Insomma. Se Minniti ha potuto fare quello che ha fatto, è anche perché ha potuto giustificarlo in nome della sicurezza e della difesa dal terrorismo e, versione inedita delle ragioni per erigere i nuovi muri della fortezza Europa, perché aveva previsto che l’immigrazione avrebbe esasperato gli animi e prodotto qualche Traini. “Era già tutto previsto/fino al punto che sapevo/che oggi tu mi avresti detto/quelle cose che mi dici/che non siamo più felici/che io sono troppo buono/che per te ci vuole un uomo”, cantava Cocciante. Un uomo vero, un ministro tutto d’un pezzo, uno che va a dire a politico.eu che lui, calabrese, ha trattato coi capi libici dicendogli che dalle sue parti i patti e gli affari si siglano con il sangue. E poi gli operai durante l’esibizione dei ragazzi di Sanremo Young. Da qualche tempo la forza lavoro si può solo mettere in scena, parodiare, perché – si dice – gli sfruttati non ci sono più, stanno tutti bene, e i partiti che hanno atterrato il lavoro intitolano le kermesse officine, fabbriche. Piena post-Storia, mentre là fuori la Storia infuria tragicamente e mio fratello è figlio unico “perché è convinto che esistono ancora/gli sfruttati malpagati e frustrati”. E così Lo Stato sociale diventa il nome di un gruppo. Divertenti, scanzonati, piacciono tanto ai post-operaisti. Sinisteritas come jouissance e desiderio, liberazione dal lavoro: “Per un mondo diverso/Libertà e tempo perso”. “Perché lo fai?” Già, perché? Sarà che mi diverto? Però poi va a finire che questo post-modernismo snobistico (molotov e salotti aristocratici, come racconta Toni Negri) finisce che rievoca di nuovo, ancora, la Storia, quella con la faccia truce, la peggiore Realpolitik, Gentiloni e la Merkel. Acheronta movebo. Il prossimo singolo dello Stato sociale si intitolerà “Ci salveranno i poteri forti”?
· Sandro Giacobbe: “Sanremo non ha voluto la mia canzone per Genova”.
Sandro Giacobbe: “Sanremo non ha voluto la mia canzone per Genova”, scrive Angela Lonardo il 15/02/2019 su Il Giornale OFF. L’intenso dolore provato per la tragedia del ponte Morandi è stato per Sandro Giacobbe, da tutti ricordato per brani come Signora Mia e Gli occhi di tua madre, il motore per scrivere un singolo da dedicare alla sua Genova. “Verso fine settembre ero nella mia saletta di incisione e, quasi in modo naturale, è venuta fuori Solo un bacio” racconta il cantante.
Non ha nascosto che avrebbe voluto presentare questo brano a Sanremo: che risposta ha avuto?
«Sì, avrei voluto presentarlo a Sanremo soprattutto per promuovere il fine benefico del brano, ma Baglioni mi ha subito messo al corrente della sua decisione di dare un taglio giovane alla manifestazione. Anche alla richiesta di dedicarmi cinque minuti come ospite – sarei andato gratuitamente –, aprendo una finestra sui fatti di Genova e parlare così della raccolta fondi che sto portando avanti con l’iniziativa Noi per voi dedicata ai minori, figli delle vittime del ponte Morandi, mi è stato risposto che non c’era spazio e che gli autori avevano già previsto altre situazioni che parlavano di Genova».
Qual è il legame con la sua città: cosa ama e cosa non ama di Genova?
«A Genova ci sono nato e cresciuto e ho mosso i miei primi passi nella musica. Non c’è niente che non ami di questa città, tranne, a volte, un po’ di superficialità da parte di chi dovrebbe mettersi a disposizione quando c’è da unirsi per lo stesso unico obiettivo».
In questo brano si racconta di come il destino, a volte, possa cambiare completamente i piani. E’ accaduto anche a lei?
«E’ successo per la mia carriera. Al mio produttore discografico si ruppe la macchina e per tornare a casa, di sera, prese la metropolitana a Milano. In quell’occasione incontrò casualmente il direttore generale della Sugar, che gli chiese se per caso tra i suoi artisti ci fosse qualche giovane cantautore. Lui rispose chiaramente di sì e la settimana successiva, dopo un provino alla Sugar mi fecero un contratto di 5 anni. Un mese dopo ero in sala di incisione a preparare il mio primo lp Signora mia. Probabilmente se non gli si fosse rotta la macchina e non avesse preso la metropolitana, non sarebbe mai andato a propormi alla Sugar. Quel fatto ha cambiato totalmente la mia vita».
Ha debuttato discograficamente nel 1971. La passione e il talento per la musica quando li ha scoperti?
«Fin da bambino mi piaceva cantare, imparavo le canzoni ascoltando cantare mia mamma o i nonni, che poi mi chiedevano di cantarle in casa nelle tradizionali riunioni di famiglia. Un pochino più grande, intorno ai 15 anni circa, riuscii a vedere un concerto dei Beatles dal vivo a Genova. Lì capii che dovevo almeno provarci!»
Il grande successo come l’ha vissuto?
«L’ho vissuto come un dono dal cielo che ho sempre benedetto, fin dal primo successo di Signora mia ad oggi, perché scrivere canzoni emozionandomi e ritrovare la stessa emozione nei concerti live con i fans, è una gioia grandissima. Considerato poi che il mio successo è in buona parte del mondo, è ancora più gratificante!»
Ricorda un episodio off legato ai suoi esordi?
«Sì, nel ’72, alla mostra della Gondola d’argento a Venezia, presentai la canzone Scusa se t’amo, scritta con Alberto Salerno e arrangiata da Bill Conti, arrangiatore delle musiche di Rocky. Era, quindi, un brano con tutte le carte in regola per passare il turno, ma alla prima serata del festival ci hanno letteralmente cacciato e al mio posto passò un gruppo di ragazzini. Si chiamavano “Pane burro e marmellata”».
Della scena musicale italiana c’è qualche giovane che le piace ascoltare?
«Mah, sicuramente Mengoni è uno tra gli artisti più interessanti».
Dei talent musicali che idea ha?
«Non molto positiva! Ho conosciuto troppi giovani che nonostante siano arrivati in cima ai primi posti e abbiano conosciuto il successo, altrettanto velocemente sono ritornati nell’anonimato. E questo, secondo me, crea anche una sorta di frustrazione che poi è difficile da dimenticare. Tutto questo a beneficio di pochi che invece sono riusciti a emergere».
Nella sua vita ha sempre trovato spazio anche la passione per il calcio. Se non avesse fatto il cantante, sarebbe stata quella la sua strada?
«Non lo so, se avessi cominciato presto come ho iniziato con la musica, forse sì. Non mi sono mai mancate né l’agonismo né la forza di volontà per crescere».
C’è un sogno nel cassetto ancora da realizzare?
«In questo momento il mio unico desiderio, più che un sogno, è portare avanti quanto ho intrapreso con Solo un bacio e aiutare il più possibile i bambini».
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Gli italiani e lo sport? Ne parlano tanto... ma ne fanno poco.
Gli italiani e lo sport? Ne parlano tanto... ma ne fanno poco. Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 su Corriere.it da Paola D’Amico. Nel nostro Paese fa attività fisica una persona su quattro, nel Nord Europa fa attività il 70 per cento degli abitanti. Dello sport sanno tutto o quasi. Lo amano. Ne parlano tanto, ma ne fanno poco. Gli italiani, insomma, tengono stretta la maglia nera che spetta a uno tra i popoli più sedentari d’Europa. Le ultime rilevazioni dell’Eurobarometro ci danno in miglioramento. Negli ultimi 25 anni la percentuale di chi pratica un’attività sportiva è cresciuta del 10 per cento. Oggi, registra l’Istat, fa sport un italiano su quattro. E sono cresciute di numero le società sportive. Ma resta grande la distanza con i Paesi del Nord dove - è il caso di Finlandia, Svezia e Danimarca – il rapporto tra persone attive e sedentarie è ribaltato: fa sport il 70 per cento della popolazione. Tanta inattività, però, non è dovuta (solo) alla genetica. In parte dipende dal fatto di non avere a portata di mano impianti dove praticare sport e soprattutto a costi accessibili. Secondo l’ultimo report di OpenPolis, che ha esaminato i bilanci delle città italiane con più di 200mila abitanti, i Comuni investono poco e male. Ai due estremi della classifica troviamo Trieste, che con 49,52 euro pro capite all’anno, è al primo posto per livello di spesa, e Roma che è all’ultimo con 1, 96 euro. Una spesa infinitesimale, tenuto conto che tra l’altro - sottolinea lo studio - «nella Capitale diversi impianti sportivi sono di proprietà del Coni, che verosimilmente si occupa delle relative spese». Seconda a Trieste è Firenze che nel 2018 ha investito 35,24 euro per abitante, seguita da Padova (28,81), Torino (24,31), Verona (18,11) e Milano (16,34). Le grandi città del Sud occupano, invece, la seconda metà della classifica. Tranne Catania - che è quella messa meglio (15,51) - le grandi città del Mezzogiorno hanno tutte una spesa pro capite inferiore ai 15 euro/anno: Napoli è al penultimo posto (3,33). Può sembrare ingiusto puntare il dito contro i Comuni. Ma se lo Stato sborsa direttamente il 27 per cento (di cui il 19 è destinato al contributo Coni) e le Regioni l’11 per cento, è vero che più della metà dei soldi destinati allo sport (54 per cento) arriva proprio dai Comuni. Il report consegna qualche paradosso. Curiosa la storia di Viggiano (Pz), per esempio, il Comune lucano che nel 2014 risultò avere speso più di tutti nello sport, con 701,22 euro pro capite. La somma allora portò la «capitale del petrolio», nota per i suoi abbondanti giacimenti, in vetta alle classifiche. Ma non si può escludere possa essere stato l’effetto royalties. Fatto sta che il centro più attento allo sport in quegli anni aveva uno stadio rinnovato con campo di calcio ma non la squadra, perché il club locale era fallito. «Servono linee guida - dice Vittorio Bosio, presidente del Centro Sportivo Italiano (Csi), la prima nata tra le associazioni polisportive in Italia - e le Regioni devono avere un maggior ruolo, contribuire per esempio a evitare doppioni o impianti che rischiano alla lunga di essere ingestibili». Un impianto, chiarisce Bosio, deve essere «sostenibile, si deve auto-mantenere». E cita poi esempi virtuosi come quello di «venti piccoli Comuni, cominciando da Casnigo nella Bergamasca, che si sono consorziati, hanno costruito insieme la piscina e l’hanno poi affidata a una società sportiva da gestire e che quando fa utile lo reinveste in manutenzione». Nella Bergamasca c’è però anche l’esempio negativo: la piscina di Cologno al Serio incompiuta, a tre chilometri da quella di Ghisalba. Va oltre Vincenzo Manco, presidente nazionale Uisp, sottolineando che è necessario innanzitutto un cambio culturale: «Quante possono essere le palestre a cielo aperto? Quanti luoghi pubblici ci sono da mettere solo in sicurezza per consentire agli italiani di superare la sedentarietà? Spazi pubblici - spiega - su modello scandinavo. Penso a Copenaghen dove lungo le banchine trovi i tappetini per fare ginnastica e playground per giocare a basket, luoghi protetti ma pubblici. Questa visione semplifica il ruolo dei Comuni. Forse - aggiunge - non servono maxi impianti ma tanti mini impianti diffusi. E penso ancora a Madrid, dove nel Parco del Buen Retiro ti siedi su una panchina e pedali». Una svolta in tal senso sembra poter arrivare «dal collegato sport alla Finanziaria - conclude Manco - con cui questa estate è stato istituito un nuovo soggetto, Sport e Salute, che sostituirà il Coni Servizi, cui competerà solo l’organizzazione olimpica». Liberando risorse per lo sport di base, che non è solo strumento per l’inclusione e l’integrazione ma ha ripercussioni sulla riduzione della spesa sanitaria. Si è stimato, infatti, che a fronte di 3,8 miliardi di euro spesi, il valore salvavita dettato dagli attuali livelli di pratica sportiva nel Paese è di oltre 16 miliardi di euro all’anno. «Stiamo lavorando per la promozione dello sport - aggiunge Roberto Pella, sindaco di Valdengo (Bl) e vicepresidente Anci con delega allo sport - che coinvolga la popolazione a 360 gradi».
· Milano-Cortina, le olimpiadi ed il Movimento 5 cerchi.
"THE WINNER TAKES IT ALL" (IL VINCITORE PRENDE TUTTO). Marco Cremonesi per il “Corriere della sera” il 25 giugno 2019. «Working togetheeer...». Un paio d' ore dopo l' assegnazione a Milano e Cortina dell' Olimpiade 2026, a Losanna l' euforia non è rientrata. E Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, canta una canzone di sua invenzione, «working together», lavorare insieme. Un' interpretazione personale del motto ufficiale, «Dreaming together».
Insieme a chi? Insieme anche ai 5 stelle?
«Insieme a tutti. È il nuovo motto, si lavora tutti per l' obiettivo, alla lombarda e alla veneta».
Quale è stato il momento più complicato?
«La cosa più difficile è stata il declinare il principio secondo cui lo Stato italiano garantiva l' Olimpiade, ma senza oneri diretti. La formula è stata messa nero su bianco da uno studio costi-benefici dell' università La Sapienza. A quel punto siamo riusciti a tenere insieme le esigenze dei 5 Stelle con la nostra volontà di andare avanti».
Ma il governo...
«Alt. Fermo lì. Non risponderò a domande sul governo. Oggi è il giorno della vittoria dei Giochi. Unica cosa, spero di aver fatto contento Matteo Salvini e spero che mi abbia perdonato l' uscita sui minibot».
Resta il fatto che Torino oggi avrebbe potuto festeggiare...
«Con Torino in corsa con Milano e Cortina, la partita sarebbe stata ancora più facile.
Peccato, ma con Torino è andata così... Quella dei 5 stelle è una posizione politicamente legittima che peraltro hanno sempre sostenuto».
Ha capito chi ha votato per noi e chi per Stoccolma?
«Mah, ci sono i famosi blocchi. I sudamericani, l' Oceania e alcuni altri hanno tendenzialmente votato per noi. I nordici per la Svezia. Ma la Finlandia credo per noi: la Svezia ha mandato un video in cui la sua nazionale di hockey continuava a segnare alla Finlandia. Io l' ho prontamente fatto notare. È andata bene... L' altra sera la colonna sonora era "Dancing queen" (per la Svezia c' era la principessa Vittoria, futura regina, ndr), quella di oggi è "The winner takes it all" (il vincitore prende tutto)».
Lei ha parlato in inglese e francese. Come mai?
«Credo sia stata una buona idea. Una metà almeno dei delegati parla in francese. Io, parlando la loro lingua, mi sono rivolto a loro. Con una pronuncia discreta, dicono...» (ride).
E la Francia con cui ogni tanto l' Italia ha a che dire?
«I francesi mi sono sembrati soddisfatti. Almeno il membro Cio che conosco io, spero proprio di sì. Quando mi sono messo a parlare in francese l' ho guardato come dire: "Parlo la tua lingua..."».
Lei però domenica è arrivato in ritardo. Pare che al Cio ci guardino...
«Ero andato a Messa. Mi hanno chiesto se ero stato via per concordare tutto, ho risposto che avevo un incontro molto più importante. Diversi delegati mi hanno detto va bene così».
Il prossimo passaggio difficile?
«Dovremo mettere in piedi una governance trasparente ed efficace. Servirà un top manager riconosciuto che mandi avanti la macchina e lo faccia nel modo giusto».
Per esempio, chi?
«Qualche idea ce l' abbiamo, vedremo di concretizzare nei prossimi giorni».
Il fatto che il sindaco di Milano, Beppe Sala, abbia organizzato Expo 2015 è stato un valore aggiunto?
«Il valore aggiunto è stato il brand Milano».
Milano che non è proprio una città di montagna. Non è stato un problema?
«Macché. Per gran parte del mondo una distanza come quella tra Milano e la Valtellina è uno scherzo».
Estratto dell'articolo di Alda Vanzan per il Messaggero il 25 giugno 2019.
Dove ha sbagliato Torino?
«Si è fatto probabilmente dei pregiudizi politici che poi sono stati superati. Non ho capito perché non volesse partecipare a questa avventura».
Il M5s era contro.
«Infatti la candidatura era tecnicamente morta ed è risorta per iniziativa dei governi locali e municipali. Poi, via via, con un lavoro molto faticoso, di cui non umilmente mi prendo il merito, siamo riusciti a chiudere positivamente con le garanzie del governo».
Il Consiglio dei ministri quante volte si è espresso sull'argomento?
«Due volte. La prima per dire di no, la seconda per trovare la formula esatta con cui il Governo si impegnava per sicurezza, dogane, infrastrutture, dando la possibilità a Comuni e Regioni di andare avanti».
E' stato faticoso convincere Giuseppe Conte a venire a Losanna?
«Dieci mesi fa c'erano delle perplessità, via via ha capito che si lavorava su basi serie. Lo ringrazio perché ha trovato il tempo per venire qua e dare una mano anche lui».
Il governo cosa ha firmato?
«Le garanzie promesse in base al protocollo del Cio: dogane, sicurezza, sanità, eccetera. L'altra cosa riguarda il fondo investimenti, 70-80 milioni di euro per opere infrastrutturali, in particolare la messa a norma e il superamento delle barriere architettoniche degli impianti previsti. Su queste iniziative che sono opportune e necessarie lo Stato ci sarà. E poi ci sono i Comuni e le Regioni. Al Cio ho fatto presente che Lombardia e Veneto sono tra le Regioni più ricche d'Europa, mettendo insieme il loro Pil, altri che Svezia».
Dove ha sbagliato la Svezia?
«Non ha rispettato le scadenze previste dal Cio. E poi la sua presentazione pareva tesa a mettere in dubbio la nostra credibilità. Non mi è sembrata una cosa molto felice».
Daniele Dallera per “il Corriere della sera” il 25 giugno 2019. La ricerca del voto, una missione delicata, che ha dato i suoi bei risultati. Arriva da lontano, giorno dopo giorno si è fatta sempre più intensa. Giovanni Malagò, presidente del Coni e anche membro Cio, è stato maestro in questa azione: ogni cena, ogni incontro, negli ultimi sei mesi, sono stati dedicati alla «caccia al voto». Il membro Cio va seguito, adulato, cercato, convinto. E tutto questo mentre fronteggiava una improvvida riforma dello sport che si è rivelata un' autentica rivoluzione del governo Lega-Cinque Stelle. Non è stato facile ingoiare l' attacco politico al Coni, è riuscito a pensare solo alla candidatura di Milano-Cortina, rendendola sempre più forte e facendo squadra: e non è un caso il ringraziamento di Malagò, dal presidente Mattarella, «il nostro capitano», e a «tutto lo staff» che non ha mai guardato l' orologio consumando giorni e notti. Senza dimenticare Carraro e Pescante, grandi maestri del Cio, insieme a Di Centa. Malagò ha convocato riunioni, organizzato viaggi lampo, inviti, regalato sorrisi anche a chi non sta simpatico, in nome del voto. A Losanna la squadra di Malagò si è scatenata. La ricerca del voto Cio è diventata sempre più strategica. Gabriele Galateri di Genola, presidente delle Generali, non era lì per caso: doveva convincere un membro Cio, molto vicino a Generali, a fare il suo dovere. Impegnatissima nella missione voto Evelina Christillin, moglie di Galateri, e signora del calcio internazionale da consigliere Fifa. Il pallone con Marcello Lippi, ct della Cina, il presidente dell' Inter Steven Zhang, Paolo Scaroni presidente del Milan e un passato potentissimo all' Eni, si sono rivelati preziosissimi. Carlo Clavarino, presidente Aon, ha contrastato l' espansione reale attraendo e soffiando voti alla monarchia svedese. Peppino Abbagnale, un monumento del canottaggio, ha lavorato ai fianchi quei membri Cio riconducibili al suo mondo. Anna Riccardi, l'atletica leggera è il suo pianeta, ha conquistato dai 7 ai 9 voti. Luca di Montezemolo ci sa fare, membri Cio suoi amici, uno di loro di vecchia data, proprietario di un circuito. Funzionale la presenza di Aldo Montano, ex campione di scherma, presidente degli atleti della Federazione internazionale, sempre al telefono con la moglie, la russa Olga Plachina: no, nessun problema familiare, Olga è amica intima di Elena Isinbayeva, un mito del salto con l' asta e ora delegata Cio. Bisogna dimostrare amicizia anche davanti all' urna.
MOVIMENTO CINQUE CERCHI. (LaPresse il 25 giugno 2019) - Le "Olimpiadi invernali del 2026 si faranno in Italia. Complimenti a tutti coloro che hanno lavorato per questo risultato. Congratulazioni ai colleghi sindaci Sala e Ghedina, buon lavoro". Lo scrive in un tweet la sindaca di Roma, Virginia Raggi.
(LaPresse il 26 giugno 2019) - "Congratulazioni a tutte le persone coinvolte e, i particolare, ai colleghi sindaci Sala e Ghedina". Così la sindaca di Torino Chiara Appendino commenta su Twitter l'assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 a Milano-Cortina.
Claudio Del Frate per Corriere.it il 26 giugno 2019. Si fa presto a dire Olimpiadi. Si fa ancora più in fretta a salire sul carro del vincitore, specialità non ancora inclusa nel programma a cinque cerchi e per la quale l’Italia farebbe man bassa di medaglie. Oggi tutti esultano per l’attribizione a Milano e Cortina dei giochi invernali 2026 ma siccome la rete ha una memoria da elefante, molti neoentusiasti della vittoria in queste ore si vedono presentare il conto delle loro affermazioni del passato. Di segno diametralmente opposto. Figuraccia da podio per il Movimento Cinquestelle della Lombardia, costretto a rimuovere in tutta fretta dal suo sito e dal profilo facebook una dichiarazione di hurrà per le olimpiadi di Milano e Cortina; ma il «vizio delle memoria» colpisce anche Salvini e il Pd che in passato avevano dimostrato di essere assai meno sensibili al sacro fuoco di Olimpia.
Contrordine, grillini! «Olimpiadi invernali Milano-Cortina, vittoria del M5S, dei lombardi e degli italiani»: in molti hanno pensato di avere il computer preda di un virus quando stamane hanno letto questo slogan. E invece era tutto vero. I grillini lombardi si sono fatti contagiare dalla febbre a cinque cerchi e così hanno attaccano il peana: «La nostra montagna torna protagonista...il nostro paese è tornato protagonista in ambito internazionale grazie a un governo capace di convincere». La rete non ha tardato a sommergere i malcapitati di improperi e sfottò. Tutti memori di quando i grillini consideravano le olimpiadi una «mangiatoia» e Di Maio dichiarava solenne a proposito della candidatura lombardo-veneta: «Come governo non ci metteremo un euro, nè per i costi diretti nè indiretti , chi vuole le olimpiadi se le paga da solo». A metà mattina (dunque a buoi lontani ormai chilometri dalla stalla) il post è stato rimosso.
Il no di Salvini (ma per Roma). Ce n’è anche per Matteo Salvini, che a botta calda, dopo l’annuncio del Cio a Losanna aveva twittato: «Vince l’Italia! Vince lo sport! Viva i giochi che significano almeno 20.000 posti di lavoro e 5 miliardi di valore aggiunto per l’Italia!». Qualche archeologo del web è andato però a ripescare un cinguettìo del ministro datato 21 dicembre 2014 che così recitava: «Gente che in tutta Italia aspetta una casa e un lavoro da anni. E Renzi pensa di fare le Olimpiadi. Ricoverateloooo». Per quel che vale, il messaggio è autentico ma faceva riferimento alla possibile candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024, candidatura mai nata anche per la ferrea opposizione della giunta capitolina di Virginia Raggi. Anche il Pd ha avuto umori alterni a proposito della kermesse sportiva. Anche l’allora segretario Pierluigi Bersani non appoggiò la candidatura di Roma per il 2024 ma si era ai tempi del governo Monti, dell’austerity e del rischio default per i conti italiani.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 26 giugno 2019. Ma le avete viste le facce dei cosiddetti vincitori delle Olimpiadi nella foto di gruppo? E le fauci già spalancate dei Malagò, Montezemolo, Carraro, Pescante e Sala? Fauci già sperimentate sugli stadi di Italia 90 (spese lievitate dell' 85%, ultima rata dicembre 2015), le Olimpiadi invernali di Torino 2006 (3,1 miliardi di debito, il 225% delle entrate, cattedrali nel deserto e trampolini nella neve), i Mondiali di nuoto 2009 (700 milioni di euro per il palazzo di Calatrava con le vele a pinna a Tor Vergata, mai finito; piscine sequestrate e/o di dimensioni sballate; scheletri in cemento armato abbandonati ai tossici e alle sterpaglie), l'Expo di Milano 2015 (retate di tangentisti e 'ndranghetisti, 1,5 miliardi di buco, mega-aree abbandonate). Magari ci sbagliamo e gli stessi personaggi, che hanno sempre fallito, al seguito di Giorgetti e Zaia si trasformeranno in tanti Quintino Sella e faranno tutto per bene, per tempo e al risparmio. Ma, nell' attesa, solo un pazzo smemorato può unirsi all' esultanza di lorsignori per avere "vinto" un evento che negli ultimi 50 anni - dati dell' Università di Oxford - ha regolarmente sforato i preventivi per una media del 257% (796% Montréal, 417 per Barcellona, 321 Lake Placid, 287 Londra, 277 Lillehammer, 201 Grenoble, 173 Sarajevo, 147 Atlanta, 135 Albertville, 90 Sydney, 82 Torino, 51 Rio). Lasciando ai Paesi e alle città ospitanti un conto salatissimo da pagare, che ha portato al default Atene e Rio, al debito-record Torino e le altre all' aumento vertiginoso delle imposte locali. Anche al netto delle eventuali tangenti. Infatti le città più avvedute - Sion, Calgary, Innsbruck e Graz - si sono ritirate, terrorizzate da quella che Oxford chiama la "maledizione del vincitore" (le Olimpiadi le vince chi le perde e le perde chi le vince: l' unico che ci guadagna è il Cio). Il Giornale Unico degli Affari suona le grancasse e le trombette a reti ed edicole unificate, come se l'Italia avesse vinto la guerra mondiale e non un "evento" che dura 15 giorni. Ma è tutta propaganda per pompare Lega&Pd che si sono spartiti queste strane Olimpiadi invernali in una città senza montagne, Milano, e in un' altra che rischia di tracollare sotto il peso dei visitatori, Cortina, distante 409 km. L'alternativa era Torino che, oltre al dettaglio delle Alpi, aveva il pregio di costare poco grazie alle strutture del 2006. Ma tutti raccontano la fake news della sindaca M5S Chiara Appendino che avrebbe detto "no". Balle: si era candidata, ma era stata respinta dal duo Giorgetti-Malagò che voleva relegare Torino al rango di ruota di scorta di Milano-Cortina, con un paio di gare secondarie tutte da ridere. Non contenti, i trombettieri tirano in ballo pure Virginia Raggi per il no alle Olimpiadi 2024, che non c' entrano nulla con quelle invernali (costano il quintuplo). Senza contare che Milano, Cortina, Lombardia e Veneto sono ricchi, mentre Roma ha un buco di 13 miliardi dal 2008. Infatti nessuno lo ricorda, ma Roma ha rinunciato pure ai Giochi del 2020. E per mano di Mario Monti, non proprio un grillino nemico del Pil. Il 13 febbraio 2012 Monti revocò la candidatura lanciata dal duo B.-Alemanno perché "non sarebbe responsabile prendere un impegno finanziario che potrebbe gravare in misura imprevedibile sull' Italia per i prossimi anni". Anziché vomitargli addosso anatemi e improperi, come accadde quattro anni dopo alla Raggi, e inneggiare alle Olimpiadi che portano sviluppo, lavoro e letizia, come fanno oggi, tutti beatificarono Monti come il nuovo Cavour. Applausi scroscianti dal Pd (Rosato, Bonaccini, Melandri, Bersani, Gentiloni, Sassoli e Letta) e dai giornaloni al seguito. Oggi Repubblica titola "Miracolo a Milano (e a Cortina)". Ma il 14.2.2012 plaudiva al ritiro della candidatura olimpica addirittura in tre articoli. Francesco Bei flautava: "Le 'cricche' d' affari romane, lo spettro del default greco, la vaghezza del piano, il rischio di una guerra diplomatica al termine dalla quale, alla fine, l' Italia sarebbe finita distrutta come un vaso di coccio. Sono molte le ragioni che hanno spinto Monti a pronunciare il suo no". Gli faceva eco Tito Boeri: "La tragedia greca era iniziata proprio lì, con la candidatura ad ospitare le Olimpiadi. I sovracosti incorsi nella preparazione di Atene 2004 hanno contribuito a quella spirale di deficit pubblici crescenti, mascherati in vario modo per non pregiudicare l' ingresso nell' unione monetaria, che hanno portato alla crisi del debito". Seguiva un' impietosa analisi finanziaria di Walter Galbiati: "Non esiste una formula matematica certa che possa valutare il ritorno economico che giustifichi lo spendere 5, 10 o 15 miliardi per realizzare i Giochi. Il ritorno di immagine e gli introiti aggiuntivi, che si trasformano in Pil, sono frutto di stime difficilmente ponderabili. I costi invece sono certi". Oggi il Corriere esalta "La vittoria di Milano e Cortina", "immagine di un Paese giovane che sa sorridere" (le fauci della Banda dei Quattro). Sette anni fa tripudiava per lo scampato pericolo: "Tra il 2014 e il 2018 lo Stato avrebbe dovuto trovare una copertura di 800 milioni l' anno. Con buona pace di chi aveva parlato di Olimpiadi a costo zero". E Sergio Rizzo irrideva ai "musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive" (i soliti Malagò, Montezemolo, Carraro e Pescante): "Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un' operazione 'a costo zero' con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero? Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi". E giù botte alle solite cricche: "Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d' Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l' equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro, l' 84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai Mondiali di nuoto senza le piscine, ma con una bella dose di inchieste". Quattro anni dopo, Rizzo passò a Repubblica e massacrò la Raggi per aver ribadito il no montiano per il 2024. E ora magnifica "l' occasione per Milano per fare un altro salto nella graduatoria delle metropoli europee. E scavare ancora più in profondità l' abisso che già la separa dalla capitale". Tutto fa brodo. La Stampa è tutto un peana all' "Italia che vince", a "Mr Wolf Giorgetti missione compiuta", mentre lacrima per "Torino beffata" e l' Appendino che "non si pente". Quando invece era Monti a ritirarsi dai Giochi, elogiava "la coerenza di un no responsabile", in sintonia con "le attese dei cittadini". E persino il Sole 24 Ore, organo di Confindustria, oggi entusiasta perché "vince lo sprint dell' Italia", nel 2012 definiva "l' avventura delle Olimpiadi un rischio il cui costo avrebbe creato un effetto sui conti pubblici difficilmente calcolabile". Un po' come Salvini, che quando Renzi candidò Roma per il 2026 twittava furibondo: "Gente che in tutta Italia aspetta una casa e un lavoro da anni. E Renzi pensa di fare le Olimpiadi. Ricoverateloooo". E nel 2016 ribadiva: "Renzi propone le Olimpiadi a Roma nel 2024. Per me è una follia, sarebbe l' Olimpiade dello Spreco. Il fenomeno di Firenze pensi alle migliaia di società sportive dilettantistiche italiane, che fanno fare sport a tantissimi bambini e che rischiano di chiudere per colpa dello Stato, invece di fantasticare su improbabili Olimpiadi. Senza contare tutti i debiti e gli sprechi del passato e del presente. Tirino fuori i soldi per sistemare strade, scuole e ospedali". Oggi lapida la Raggi per aver salvato Roma dal default, seguendo saggiamente i suoi consigli. E racconta la balla dell'Appendino contraria alle Olimpiadi, all'unisono con politici e giornaloni. I quali dimenticano un dettaglio: esclusa dai Giochi, la Appendino s'è rimboccata le maniche e ha battuto 40 città concorrenti (pure Londra e Tokyo) aggiudicando a Torino un evento sportivo molto meno costoso per lo Stato (78 milioni contro il mezzo miliardo, se basta, dei Giochi invernali) e più vantaggioso: le finali Atp di tennis, che portano alla città ospitante centinaia di migliaia di turisti e centinaia di milioni di introiti. E non durano 15 giorni, ma 5 anni. Però nessuno lo dice. C' è poco da rubare.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 27 giugno 2019. Ci sono momenti in cui, sopraffatti dalla commozione, si fatica a trattenere le lacrime. A me è accaduto ieri, leggendo il nuovo inno olimpico, purtroppo ancora senza accompagnamento musicale, scritto da un paroliere d' eccezione: Francesco Merlo. Meglio delle "notti magiche inseguendo un gol" di Bennato e Nannini. Il Mogol di Repubblica ci ricorda che "le Olimpiadi, come i mondiali di calcio e gli Expo, sono opportunità di sviluppo offerte alle città che da sole non ce la fanno". Infatti, per dire, Atene e Rio non ce la facevano proprio, da sole, a fallire: poi arrivarono le Olimpiadi e fallirono all' istante. Ma ecco i versi più lirici del Cantore Pentacerchiato: ah, quei "salti di gioia" di Carraro, Pescante, Montezemolo e Malagò che "esprimono il ritorno alla vita dell' Italia che crede nella grazia e nella sapienza edificatoria combinata con l'intelligenza urbana", "l'Italia degli architetti e degli ingegneri", ma anche dei fuochisti e macchinisti, frenatori e uomini di fatica! Ah la bella "edilizia verde, antisismica, sostenibile, energetica e a volume zero" (qualunque cosa voglia dire)! E il tenero "abbraccio tra il sindaco Pd Beppe Sala, i governatori leghisti del veneto Luca Zaia e della Lombardia Attilio Fontana, e il tedoforo (sic, ndr) di un Coni tramortito e resuscitato, Giovanni Malagò"! "Ecco perché Sala, che di solito ride a labbra chiuse, si abbandona al riso liberatorio che sempre, diceva Umberto Eco, "è il punto della ripartenza". È una risata "sblocca-Italia", un abbraccio che taglia il nastro non solo alle Olimpiadi, ma all'alta velocità, ai tunnel, ai sottopassi, ai ponti, a strade e autostrade, aeroporti, gasdotti, inceneritori". Una leccornia via l'altra, da delibare a pieni polmoni e farci l'aerosol. Poi tutti in marcia con Greta per salvare l'ambiente. L'Aedo del Laterizio ricorda un altro caldo abbraccio cementifero "tra Romano Prodi e Letizia Moratti quando a Milano fu assegnato l'Expo": già, perché "nell' euforia si abbraccia anche il nemico". E - tenetevi forte - "battono insieme i cuori che vanno in direzioni diverse". Anche quelli che si avviano verso San Vittore. Ma non sarà questo il caso perché - zufola garrulo il Merlo - "il Comune di Sala non ha subìto processi, non ha la cattiva fama della Regione, non ci sono scandali giudiziari". C'è solo un processo al sindaco Sala per falso in atto pubblico sull'appalto più grande di Expo, ma che sarà mai. Infatti "Sala ha già ricordato che l'Expo ancora prima di cominciare fu sconvolto dagli scandali e dalle tangenti e che lui si trovò circondato da inquisiti, arrestati, condannati, gente con il quid di troppo del mascalzone, una imponderabile nuvola di corruzione". Ecco: Sala era circondato di mascalzoni, e fra l'altro li aveva scelti tutti lui, ma come fargliene una colpa? Per il Vate del Bitume, quelle sono "nuvole imponderabili", come quella di Fantozzi, che ti si posa sul capo quando meno te l' aspetti, per pura sfiga. Un po' come quando ti capita di retrodatare le gare d'appalto a tua insaputa. Infatti ora Sala non sente ragioni e, pur ridendo sempre a labbra chiuse, apre un pertugio per annunciare: "Per le Olimpiadi niente procedure d'urgenza". E chi adottò le procedure d'urgenza da commissario di Expo 2015, riuscendo ad assegnare centinaia di appalti senza un bando di gara? Lui. E non basta: "Per le Olimpiadi niente amici degli amici". Giusto, anche perché i suoi glieli hanno arrestati tutti. "Devono essere chiamati i più bravi, bisogna essere trasparenti nella selezione". Non è meraviglioso? Sala diffida chiunque a fare come fece Sala da capo dell' Expo e poi da sindaco di Milano. Il suo braccio destro Angelo Paris glielo arrestarono subito con tutta la cupola degli appalti Expo. Il suo subcommissario Antonio Acerbo, responsabile del Padiglione Italia e delle vie d' acqua, glielo ingabbiarono. Il facility manager di Palazzo Italia, Andrea Castellotti, glielo carcerarono. Antonio Rognoni, capo di Infrastrutture Lombarde, glielo ammanettarono. Ma solo perché erano i più bravi, selezionati nella più assoluta trasparenza. Come pure Pietro Galli, promosso da Sala a direttore generale Vendite e marketing malgrado una condanna per bancarotta. "Il talento va premiato", diceva Totò. Infatti Sala passò da destra (era il braccio destro della Moratti) a sinistra (si fa per dire: il Pd di Renzi) e divenne sindaco di Milano per le sue doti da talent scout e il suo fiuto da rabdomante: sempre per evitare gli "amici degli amici" (orrore), nominò assessore al Bilancio e Demanio il suo socio in affari, Roberto Tasca; promosse segretario generale Antonella Petrocelli, imputata per turbativa d'asta, poi in cinque giorni fu costretto a furor di stampa a revocarla. Ora, nell' ultima Tangentopoli lombarda che per Merlo riguarda la Regione ma non il Comune, per carità, sono indagati il dirigente comunale dell' Urbanistica Franco Zinna e la geometra Maria Rosaria Coccia, con l'accusa di far parte del sistema tangentizio di Daniele D'Alfonso, socio e prestanome del boss calabrese Giuseppe Molluso. Ed è finito dentro Mauro De Cillis, capo operativo di Amsa, l'azienda comunale dei rifiuti, per aver truccato le gare d'appalto per lo sgombero della neve, la raccolta dei rifiuti pericolosi, perfino per la pulizia delle aree per cani e bambini, in combutta con un imprenditore vicino alle cosche. Ora, per le "Olimpiadi a costo zero", arriva una cascata di dobloni: 1 miliardo dal Cio, 211 milioni dalla Regione Lombardia, 130 milioni dalla Regione Veneto, 400 milioni dallo Stato, e siamo soltanto ai preventivi (Giorgetti l' aveva detto: "Chi vuol fare le Olimpiadi se le paga da solo"). Basta solo aspettare. Le forze dell' ordine preparano i Trojan, le Procure lustrano le manette. Intanto il maestro Merlo Scannagatti compone le musiche.
AVETE VOLUTO I GIOCHI? ORA PREPARATEVI A PAGARE. Lorenzo Vendemiale per il “Fatto quotidiano” il 25 giugno 2019. Giovanni Malagò esulta in prima fila a braccia alzate, Beppe Sala urla sguaiatamente, Giancarlo Giorgetti applaude, Luca Zaia fa partire il coro, Matteo Salvini twitta a tempo di record da casa. L' Italia ce l' ha fatta, loro ce l' hanno fatta: Milano-Cortina avrà le Olimpiadi invernali 2026. Il grande evento che volevano e che porterà al Nord tanto caro alla Lega 400 milioni di investimenti, oltre un miliardo di euro da spendere per organizzare due settimane di gare, non tutte propriamente esaltanti. Nel conclave olimpico di Losanna, l'Italia ha battuto la Svezia con margine: 47 voti a 34. I delegati del Cio non ci hanno pensato troppo: vuoi mettere le montagne del Belpaese alle cupe giornate di Aare e Stoccolma (che nemmeno aveva firmato il contratto di città ospitante)? Senza contare che il dossier italiano era più solido (lo avevano messo nero su bianco gli stessi ispettori del Cio), presentava garanzie statali e un bel pacco di soldi pubblici, ben più convincenti dei finanziamenti privati promessi dagli scandinavi. La Svezia continua a essere il più importante Paese per tradizione invernale che non ha mai ospitato le Olimpiadi invernali: è l'ottava candidatura bocciata dal 1984 a oggi. La vera sfida però comincia adesso: far sì che le Olimpiadi invernali 2026 siano davvero un' occasione, come ripetono in coro i protagonisti, e non una sconfitta per il Paese che i Giochi dovrà organizzarli (e pagarli). Il precedente italiano non è incoraggiante. Torino 2006 viene ricordata come un' edizione di successo, ben organizzata, emozionante, ma la sua eredità è controversa: il Comune ancora oggi ne paga i debiti e svariati impianti (dal Villaggio olimpico occupato dagli immigrati alla pista da bob abbandonata) si sono rivelati vere e proprie cattedrali nel deserto. Il recupero di quelle strutture era il punto saliente della candidatura piemontese guidata da Chiara Appendino. Torino ieri invece non c'era, esclusa dalla strana creatura Milano-Cortina, stritolata dalla manovra a tenaglia del sindaco Beppe Sala con l'aiuto del leghista Zaia, affossata dai veti interni al Movimento. Proprio i 5 stelle erano i grandi assenti della festa di Losanna: il premier Conte se n'era andato prima dell' annuncio, è rimasto solo il sottosegretario Valente. Saranno altri a godersi questi Giochi: a partire da Malagò, che finalmente ha coronato il suo sogno olimpico. Era diventato quasi un'ossessione, dopo il gran rifiuto di Virginia Raggi a Roma 2024. Lui non si è arreso, ha mollato Roma e puntato su Milano, non ha smesso di crederci nemmeno quando la politica sembrava fargli un altro sgambetto (in autunno le fibrillazioni interne al governo hanno rischiato seriamente di far saltare il progetto). Ora, annuncia, si ricandiderà al Coni: "Questo è il mio mondo e non lo lascio". Soprattutto non lascia le Olimpiadi: Palazzo Chigi potrebbe concedergli la presidenza del Comitato organizzatore. Senza però toccare i fondi: spese e lavori saranno affidati a un amministratore delegato indicato dalla Lega ("abbiamo già in mente il nome di un top manager", dice Giorgetti). Qui lo spirito olimpico c'entra poco. Molti accademici promettono un mirabolante indotto da tre miliardi (tutti ovviamente al Nord), l'analisi costi-benefici assicura un saldo positivo di 185 milioni. Di sicuro secondo il dossier l'evento costerà 1,3 miliardi, di cui 390 milioni per gli impianti. Non è una cifra esorbitante, ma la storia è piena di budget sforati e spese pazze. Uno studio di due economisti dell' Università di Oxford ha ricostruito la spesa storica di 11 edizioni dal 1968 al 2012, riscontrando un aumento medio del 185% rispetto alle previsioni. Come a dire: la manifestazione costerà più del doppio di quanto dichiarato in partenza. Certo, i Giochi invernali sono in scala ridotta rispetto a quelli estivi: comportano meno spese, ma generano anche meno interesse. Non a caso tante candidate autorevoli, da Sion a Calgary, da Innsbruck a Graz, si sono tirate indietro da sole prima dell'assegnazione, quasi tutte per l' esito negativo di un referendum o spaventate dai costi. Era rimasta solo l'Italia, oltre alla povera Svezia. Milano-Cortina vincono, il Paese chissà: i Giochi varranno la candela a patto di rispettare il budget e contenere i costi. Messa su questo piano si può dire che la sfida è persa in partenza: per placare le proteste del M5S e dare il via libera alla candidatura, in autunno la Lega aveva giurato e spergiurato che l'evento sarebbe stato a costo zero per lo Stato. In primavera, al momento di firmare la lettera di garanzia governativa, il premier Conte si è impegnato a pagare gli oneri per la sicurezza. Così rispetto al costo zero iniziale siamo già a quota 400 milioni, mentre il sottosegretario Giorgetti ha aperto a finanziare "progetti specifici sul territorio". E alle Olimpiadi mancano ancora sette anni.
IL PARAGONE NON REGGE. Da Circo Massimo - Radio Capital il 25 giugno 2019. Le Olimpiadi invernali del 2026 sono state assegnate a Milano e Cortina. Dalla cordata qualche mese fa si è ritirata Torino, mentre Roma ha rinunciato alla candidatura per i giochi estivi del 2024: c'è rammarico per le due città amministrate dal Movimento 5 Stelle? "Su Roma sono assolutamente d'accordo con Virginia Raggi. Oltre al carico del turismo, dell'essere Capitale, dell'avere i ministeri, della burocrazia, temo ulteriori eventi speciali di così intenso tenore", risponde a Circo Massimo, su Radio Capital, il senatore 5 stelle Gianluigi Paragone, "Per quanto riguarda Torino, evidentemente non sentivano nelle corde di avere smaltito le tossine delle Olimpiadi invernali passate. So ad esempio che il Villaggio Olimpico di Torino è fonte di molti disagi: è un quartiere di edilizia popolare impopolare e gestito da non si sa chi". L'ex conduttore de "La Gabbia" si dice comunque "felice" per la vittoria italiana: "La cosa incredibile di questi eventi è che devi sempre aspettare che muoia un parente per accaparrarti l'eredità: dobbiamo aspettare modalità straordinarie per fare spesa pubblica ordinaria. Vale per Expo, Olimpiadi, Mondiali, qualsiasi cosa che ti possa permettere di fare infrastrutture pubbliche che portano PIL e non puoi fare nei soliti parametri", dice. Parlando di Roma, non si può non toccare il tema dell'emergenza rifiuti: "Io abito a Varese, ho degli standard più rigidi. Ma è un discorso culturale. So benissimo che qui la gestione dei rifiuti ha per forza di cose disordini e disfunzioni, ma non credo che prima della Raggi si festeggiasse". Per il vicepremier Di Maio, capo politico 5 stelle, chi vuole la crisi ci porta al governo tecnico: "È vero che oggi chi vuole la crisi porta a un governo tecnico, in cui si torna sempre sulle solite ricette che io contesto da una vita", conferma Paragone, "Ma dico anche che gli artigiani e i piccoli imprenditori non chiedono di andare al voto. Penso che il governo vada avanti, non vedo elezioni anticipate, la logica mi impone di dire questo. Ma a volte la politica è illogica...". A proposito della procedura d'infrazione, il senatore dice che "stiamo mitizzando una procedura che è un fatto meramente burocratico e tecnico, i risvolti politici rischiano di essere punitivi solo nella grammatica politica, non in quella finanziaria. Non penso che avrà effetti sui mercati. Negli ultimi venti giorni lo spread si è abbassato sempre di più. E non è stato l'effetto Draghi: abbiamo emesso i ventennali prima dell'annuncio del presidente della BCE, nella stessa ora in cui la Spagna emetteva i decennali: il mercato se li è spazzati, ha comprato tutto", ribatte, "Non abbiamo un problema di mercati. Lo spread, prima ancora dell'annuncio di Draghi, ha avuto un range tra il 220 e il 250, e tenderà sempre di più ad abbassarsi. Abbiamo un problema di tassi negativi, questo è il vero problema. Oggi i mercati paradossalmente non sono un nemico dell'Italia". La proposta di legge per riformare le nomine in Bankitalia passerà? "Penso di sì, poi vedremo la risposta che darà l'Europa, a cui questo modello non piacerà". Nel Movimento, intanto, sembra che i rapporti fra Di Maio e Di Battista si incrinino sempre di più: "Saranno fatti personali. Ma in nessun bar d'Italia si parla di Di Maio e Di Battista". E la flat tax? "Chiamala anche Pippo: io ci sto. Però ci mettiamo anche la galera per gli evasori".
I Lunatici Radio2 il 25 giugno 2019. Luca Zaia è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Il governatore del Veneto ha commentato la vittoria di Cortina e Milano nella corsa alle Olimpiadi del 2026:"Questa è una notte di festa. Lo dice uno che è partito per primo e da solo con queste olimpiadi. Con la candidatura di Cortina, mettendoci dentro delle località sportive del Trentino Alto Adige. Poi c'è stato un grande dibattito a livello nazionale, con il Torino, il Piemonte, la Lombardia. Poi Torino si è defilata e abbiamo fatto l'accordo con Milano. Oggi è una giornata strepitosa. La mia Cortina, il mio Veneto e Milano saranno sede delle Olimpiadi 2026. Abbiamo firmato il contratto e il CIO ci ha annunciato che ci bonificherà 925 milioni di dollari". Sulle rinunce di Roma e Torino: "Roma e Torino si mangiano le mani? Ci sono cinque dita per mano, ne hanno da mangiare. A me spiace. Roma ha perso una grande occasione, aveva le Olimpiadi estive, sarebbero state una cosa strepitosa. Torino non ha voluto partecipare, si è chiamata fuori, quindi oggi le Olimpiadi sono Milano-Cortina. E intanto chiariamo una cosa: i soldi li mettono il Veneto e la Lombardia. C'è una piena collaborazione col Governo. Oggi c'erano Conte, Giorgetti, 200 televisioni e il mondo intero che guardava quella sala che è l'Onu dello sport. Bisogna rivalutare i grandi eventi sportivi per l'Italia e non pensare che siano solo fonti di malaffare e cose cattive". In tanti stanno già salendo sul carro del vincitore: "Ora sono tutti per le Olimpiadi, ma potrei girarvi una rassegna stampa su tutti gli insulti che ho preso quando ho lanciato l'idea dell'Olimpiade a Cortina. E invece oggi ce la portiamo a casa. La forza di Milano era quella di avere Cortina nella candidatura. Lo sport non conosce ideologia politica, mi ha fatto piacere duettare con Sala oggi nella presentazione".
A.R. per “la Stampa” il 25 giugno 2019. Le Olimpiadi targate Lega nascono (almeno per ora) senza l' ultima arrivata tra le regioni governate da Matteo Salvini: il Piemonte. Di sicuro nascono senza Torino, l' unica città governata dal Movimento 5 Stelle che, sfidando la storica ostilità dei grillini ai grandi eventi, si era candidata per tentare il bis del 2006. Ora la situazione si è capovolta e per Chiara Appendino somiglia tanto a una beffa: lei che voleva le Olimpiadi è l' unica tagliata fuori; il Movimento, che non le ha mai volute, adesso sale sul carro del Coni ed esulta insieme con il presidente del Consiglio Conte. La sindaca di Torino si ritrova un po' isolata: fuori da un grande evento internazionale e sorpresa dalla giravolta del suo partito. Eppure tiene il punto: «Ho fatto i complimenti ai sindaci di Milano e Cortina ma non mi pento. Non ho rimpianti: non sarebbe stata una riedizione del 2006 ma qualcosa di molto più ridotto; volevano darci due discipline in un quadro di grande incertezza sulla ripartizione degli oneri finanziari». Torino è fuori da questa avventura per sua scelta (e colpa), per non aver creduto nella candidatura delle Alpi e in un progetto che - in nome di una logica molto più politica che sportiva - cercava di mettere tutti d' accordo: Milano, che doveva essere candidata da sola, la Torino del Movimento 5 Stelle, e soprattutto Veneto e Lombardia, i due colossi leghisti. Appendino non ha voluto accettare questo spezzatino che considerava una riedizione stantia del 2006: poche gare, molta incertezza sulla gestione, troppi rischi (anche economici) per una città molto indebitata. Ora è lei la grande accusata. I suoi avversari l' attaccano, il presidente della Regione Cirio anche, le categorie produttive esprimono rammarico. Matteo Salvini punge perfido: «Mi spiace che qualcuno si sia sfilato perché avrebbero potuto essere le Olimpiadi di tutto l' arco alpino». La sindaca non sembra accusare il colpo, almeno per ora. Guarda avanti: «Abbiamo impiegato tutte le nostre energie in un qualcosa di molto ambizioso e assolutamente nuovo: ospitare le Atp Finals per cinque anni, un evento che ci permette di non generare nuovo debito e, soprattutto, di riutilizzare impianti già esistenti». Gli stessi che il Piemonte ora vorrebbe mettere a disposizione di Milano e Cortina: «L' ho già detto mesi fa: sarebbe naturale valutare l' opportunità di riutilizzarli». Il Cio ha sollevato dubbi su alcuni siti di gara veneti, in particolare la pista da bob di Cortina e Baselga di Pinè, sede del pattinaggio di velocità. Il Piemonte con una spesa di 40 milioni può mettere a disposizione i suoi. Appendino non si metterà di traverso. Ma non si farà nemmeno avanti.
SUICIDIO CAPITALE. Simone Canettieri per “il Messaggero” il 26 giugno 2019. I conti non tornano. Fatto sta che dal breviario della propaganda del M5S viene riesumato anche il «no» a Roma 2024. Scelta rivendicata da Luigi Di Maio, vicepremier e capo politico dei grillini, con questa affermazione: «Nessun giornalista ha evidenziato la profonda differenza tra quello che era il progetto di Roma, a spese dei romani, e quello di Milano, che non prevede un solo euro da parte della città». I fatti però hanno la testa dura. E basta fare una semplice ricerca per ricostruire altro. Il costo dei Giochi nella Capitale venne quantificato in 4 miliardi di euro. Di questi 1,7 miliardi di dollari sarebbero stati messi sul tavolo dal Cio come contributo (in poche parole a fondo perduto). Il Governo (all'epoca era premier Matteo Renzi) avrebbe coperto la parte restante: 2,1 miliardi di euro in sette anni. Cioè dal 2017 al 2024. Ovvero: 300 milioni all'anno. Dunque l'affermazione di queste ore - «progetto a spese dei romani» - è falsa. Nemmeno un centesimo di questo stanziamento sarebbe stato a carico del Comune di Roma. Discorso diverso per i benefici: 70mila posti di lavoro, di cui 17mila definitivi. E proprio l'Università di Tor Vergata, insieme a OpenEconomics, era stata incaricata di provare a valutare non solo i costi dei Giochi di Roma 2024, ma anche i possibili benefici. Per farlo era stato utilizzato un modello messo a punto dalla Banca Mondiale, il «Vane», un acronimo che sta per valore attuale netto economico, una misura che indica la ricchezza finale prodotta dall'investimento nelle Olimpiadi. Nel caso di Roma 2024, il Vane sarebbe stato positivo per quasi 3 miliardi di euro. A fronte di un investimento di 4,2 miliardi, il totale dei benefici economici sarebbe stato di 7,1 miliardi. Per intendersi sarebbe stato come prestare dei soldi ad un tasso del 31,1%. Altra fake news rilanciata ieri sul Blog delle stelle riguarda i debiti storici che Roma ancora paga per i Giochi del 60 per via dei contenziosi degli espropri. È vero che la voce espropri nel debito pregresso è iscritta per 975 milioni di euro, ma il debito residuo che riguarda i giochi del Sessanta, secondo i dati della gestione commissariale, non arriverebbe a 100 mila euro. Una cifra fisiologica, legata ai lunghissimi contenziosi che si legano alle pratiche di esproprio. Infine, sempre per onor di verità, Raggi all'epoca incentrò il suo ragionamento citando uno studio dell'Università di Oxford nel quale sono stati calcolati gli extra-costi sostenuti dai Paesi che hanno ospitato i Giochi. In realtà oggi, con l'Agenda 2020, le cose sono ancora cambiate. Il Cio non premia più i mega progetti, ma quelle città che hanno bisogno di pochi investimenti perché hanno la possibilità di sfruttare strutture già esistenti, magari soltanto da rimettere a nuovo. Il presidente del Coni Giovanni Malagò pensando a quella ferita che ancora brucia spiega sempre: «Raggi nemmeno mi ricevette e non guardò il dossier». Infatti, quel 22 settembre del 2016 la sindaca fece attendere invano il presidente del Coni in una stanza del Campidoglio: lei non c'era si trovava a pranzo con i collaboratori in una trattoria nei pressi di Termini. E, dopo aver gustato un piatto di minestrone, andò in conferenza stampa: «Dire sì ai Giochi sarebbe da irresponsabili».
QUANDO LA RAGGI RINUNCIO' ALLE OLIMPIADI. Davide Desario per leggo.it il 25 giugno 2019. L'Italia si è aggiudicata i Giochi invernali del 2026. L'Italia tutta gioisce, quasi incredula. Perché ormai, bisogna ammetterlo, ci eravamo disabituati a vincere. Anzi, ci eravamo addirittura abituati a non partecipare. Come è accaduto con la rinuncia voluta dai Cinque Stelle alla candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Due anni fa, infatti, la sindaca Virginia Raggi e i suoi sodali dissero «No» perché temevano che poi i fondi sarebbero stati sperperati o magari avrebbero dato la stura a nuove ondate di corruzione e illegalità. Ma non solo: la sindaca disse che prima di occuparsi dello straordinario, come le Olimpiadi, era doveroso far funzionare l'ordinario. Ora, tutti coloro che vivono o transitano per la Capitale possono verificare con i loro occhi come la Giunta Raggi si sia occupata dell'ordinaria amministrazione. La raccolta dei rifiuti funziona? Bus e Metro sono efficienti? Il verde pubblico è curato? E quanti sono gli uomini di fiducia M5s finiti sotto inchiesta o in carcere pur senza appalti Olimpici? Ieri, non contenta, la Raggi ha twittato: «Complimenti a tutti coloro che hanno lavorato per questo risultato. Congratulazioni ai colleghi sindaci Sala e Ghedina, buon lavoro». L'ha scritto. Giuro che l'ha scritto. La beffa, dopo il danno. Un danno a Roma ma a tutta Italia. Perché se vince Milano siamo tutti contenti. Se perde Roma, e cresce il divario tra Nord e Sud, dobbiamo essere tutti delusi e preoccupati.
SMACCO CAPITALE. Da repubblica.it il 25 giugno 2019. La sindaca di Roma Virginia Raggi ha commentato all'agenzia Dire l'assegnazione a Milano-Cortina delle Olimpiadi e paralimpiadi invernali del 2026: "I miei complimenti a Milano e Cortina. In tema di coerenza ribadisco che le due condizioni sono assolutamente diverse e quindi Roma non poteva e non può ancora permettersi un evento del genere, avendo 13 miliardi di debiti".
Giorgia Baroncini per il Giornale il 25 giugno 2019. "Noi siamo i perdenti perché non abbiamo mai voluto le Olimpiadi a Roma per il 2024 e alla Lega sono dei vincenti perché hanno ottenuto quelle invernali del 2026 a Milano e Cortina". È quanto si legge sul Blog del MoVimento 5 Stelle all'indomani dell'assegnazione dei giochi olimpici 2026 a Milano-Cortina. I grillini non ci stanno a passare per quelli sconfitti e così tirano fuori un post pubblicato da Matteo Salvini, in cui il leader della Lega critica la proposta delle Olimpiadi 2024 a Roma. "Bene, ecco le parole di Salvini in un post del 2016 - continua lo spiegone stellato -: 'Renzi propone le OLIMPIADI A ROMA nel 2024. Per me è una FOLLIA, sarebbe l'Olimpiade dello Spreco. Sarebbe utile che il fenomeno di Firenze pensasse alle migliaia di società sportive dilettantistiche italiane, che fanno fare sport a tantissimi bambini e che rischiano di chiudere per colpa dello Stato, invece di fantasticare su improbabili Olimpiadi. Senza contare tutti i debiti e gli sprechi del passato e del presente. Tirino fuori i soldi per sistemare strade, scuole e ospedali. E poi ripensino alle Olimpiadi.... Siete d'accordo con me o con Renzi?'". "Nel progetto romano del Coni - prosegue il post - la stima dei costi da sostenere era di circa 5,3 miliardi di euro. Di questi investimenti tra CIO, sponsor e merchandising sapete quanto sarebbe stato recuperato secondo il prospetto finanziario realizzato? Solamente 3,2 miliardi. In pratica c'erano altri 2 miliardi di euro che sarebbero stati pagati dai romani! A questi, inoltre, andavano aggiunte altre spese non conteggiate che doveva sostenere sempre il Comune". "Per quale fine? - continuano i pentastellati - Parliamo di un comune, quello di Roma, che si ritrovava sulle spalle già 11 miliardi di debito lasciato in eredità dalle precedenti amministrazioni. Insomma, agli 11 miliardi ne sarebbero stati aggiunti almeno altri 2 di scoperto. Ribadiamo: soldi a carico degli italiani. Vi sembra normale? A noi no! Saremmo dovuti essere davvero dei folli ad accettare la candidatura per il 2024". "Anche la Lega si scagliò, contro l’idea dell’allora presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma oggi i giornali si dimenticano di questo piccolo particolare e attaccano solo il MoVimento", sottolineano dal blog. Mentre, come ricorda Repubblica, il Blog delle Stelle rivendicava la bontà del suo "no" alle olimpiadi di Roma, la pagina ufficiale del movimento della Lombardia inneggiava a quelle di Milano-Cortina. Il post esaltava l'assegnazione dei giochi invernali, etichettandola come una vittoria del M5S. Ma qualcosa deve essere andato storto visto che il messaggio è stato subito dopo rimosso dai social.
I tedofori. Report Rai PUNTATA DEL 25/11/2019 Claudia Di Pasquale, collaborazione di Giulia Sabella e Lorenzo Vendemiale. Lo scorso 24 giugno il sogno olimpico è diventato realtà, le Olimpiadi invernali del 2026 sono state assegnate alla coppia vincente Milano-Cortina, che ha sbaragliato la Svezia grazie al suo dossier di candidatura. Quelle di Milano-Cortina promettono infatti di essere delle Olimpiadi low cost, in grado di portare enormi benefici sul territorio. Si prevedono 400 milioni di euro di investimenti per realizzare gli impianti e i villaggi olimpici, 1 miliardo e 400 milioni di euro per l'organizzazione dell'evento sportivo, e un indotto superiore ai 2 miliardi. Ma possiamo fidarci di queste previsioni? Quali sono gli obblighi richiesti all'Italia dal Comitato Olimpico Internazionale? Se i conti alla fine non dovessero tornare chi paga?
I TEDOFORI di Claudia Di Pasquale collaborazione Giulia Sabella – Lorenzo Vendemiale. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un po’ come nelle Olimpiadi. Ecco, quella invernale del 2026 l’abbiamo vinta noi, se l’è aggiudicata il duo Milano-Cortina. E anche qui c’è chi partecipa e vince sempre a prescindere dalle medaglie. C’è stimato un investimento intorno ai 350 milioni di euro, un costo per la gestione, per l’organizzazione di oltre 1 miliardo di euro, un indotto di circa 2 miliardi di euro. Ecco, ma come funziona l’assegnazione di una olimpiade? Il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, un ente privato con sede in Svizzera a Losanna, chiede: chi è che vuole partecipare alle mie Olimpiadi? E i Paesi interessati preparano un dossier. Dentro ci infilano i luoghi, lo stato degli impianti, i costi e i benefici e, se sono convincenti, portano le Olimpiadi a casa. A quel punto si mettono in moto due enti: un’agenzia pubblica che con denaro pubblico deve occuparsi di realizzare le infrastrutture, le opere per lo svolgimento regolare delle Olimpiadi; l’altro è un ente privato, il Comitato Organizzatore Olimpico. A capo c’è il Presidente del Coni Giovanni Malagò, l’amministratore delegato designato Vincenzo Novari. Ecco, sono i manager di una fondazione privata che vive di denaro privato, quindi quello degli sponsor, della biglietteria, dei diritti televisivi. Ma se poi le cose vanno male chi paga? La nostra Claudia Di Pasquale ha incontrato i protagonisti, quelli che hanno portato la fiamma olimpica qui in Italia.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Losanna, 24 giugno 2019. Sede del Comitato Olimpico Internazionale. La coppia MilanoCortina vince le Olimpiadi invernali del 2026.
GIOVANNI MALAGÒ (CONFERENZA STAMPA) Sono veramente emozionato, questo è un risultato molto importante.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A festeggiare quel giorno a Losanna c'era anche tutta la vecchia guardia, come Evelina Christillin, amica di famiglia degli Agnelli. In passato si è occupata anche delle Olimpiadi di Torino 2006.
CLAUDIA DI PASQUALE Cosa fa di bello oggi invece?
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Faccio il Presidente del museo egizio, sono consigliere di Crédit Agricole Italia, di una banca, faccio parte del board della Ryder Cup per rimanere nello sport e del board della FIFA.
CLAUDIA DI PASQUALE Suo marito è il Presidente di Generali. Era anche lui presente a Losanna?
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Sì.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Losanna non poteva mancare Mario Pescante, membro onorario del Comitato Olimpico Internazionale, ex politico di Forza Italia e da sempre ai vertici dello sport italiano.
MARIO PESCANTE - MEMBRO ONORIARIO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Ex presidente del Coni, vicepresidente del CIO. Sono stato parlamentare per 12, 13, 14 anni, ma soprattutto ex atleta modestissimo.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche Franco Carraro, in qualità di membro del CIO, ha seguito la candidatura di Milano - Cortina.
CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha avuto un ruolo anche per le Olimpiadi di Torino 2006.
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Io ho avuto lo stesso ruolo che ho avuto questa volta e cioè dare una mano a mettere in piedi la candidatura e poi fare la lobby necessaria per cercare di favorire.
CLAUDIA DI PASQUALE Lei è da 50 anni ai vertici dello sport italiano.
FRANCO CARRARO - MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Presidente del Milan, presidente della Lega Calcio, presidente del settore tecnico, presidente della Federcalcio, poi sono stato presidente del CONI, poi ho fatto il Ministro del Turismo e dello Spettacolo, poi ho fatto il sindaco di Roma, poi ho fatto il presidente di Impregilo, poi ho fatto il presidente di Medio Credito Centrale, sono stato vice presidente dell’Alitalia.
CLAUDIA DI PASQUALE Per tutti questi suoi incarichi è stato definito “il poltronissimo”. Le dà fastidio questo soprannome?
FRANCO CARRARO - MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE È la verità e ognuno lo definisce come gli pare.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Giovanni Malagò nasce come commerciante di auto di lusso. È stato Presidente del Circolo Canottieri Aniene – ritrovo di politici, imprenditori e banchieri – e socio del figlio di Susanna Agnelli. A Roma lo ricordano per avere presieduto il comitato organizzatore dei mondiali di nuoto del 2009, simbolo di inefficienze e sprechi, come la Vela di Calatrava, rimasta incompiuta e abbandonata o il polo natatorio di Valco San Paolo, oggi ridotto così.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Scusi se glielo dico. È stato in assoluto il più grande successo sportivo da quando sono stati…
CLAUDIA DI PASQUALE …i Mondiali di nuoto?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Eh sì. A livello sportivo… Ne parli con un nuotatore, parli con un giudice, parli con un tecnico, parli con uno sponsor.
CLAUDIA DI PASQUALE Mi risulta che il Comitato dei Mondiali di nuoto ha chiuso con un passivo di 8 milioni e 6. GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Se lei vuole investire e fare qualcosa di più e di diverso rispetto a quello che lei inizialmente voleva fare, è una scelta degli azionisti che rappresentavano al 100% tutto il consiglio di amministrazione.
CLAUDIA DI PASQUALE Chi ha pagato poi quei soldi?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI La Federazione Italiana Nuoto e il Comune.
CLAUDIA DI PASQUALE Quindi i soldi poi li ha messi il Comune?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Non so se ancora li ha finiti di mettere, questo lo devo andare ancora a controllare.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi Malagò è il Presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Milano-Cortina del 2026. L'amministratore del Comitato invece è stato designato pochi giorni fa al Ministero dello Sport.
VINCENZO SPADAFORA – MINISTRO PER LO SPORT Siamo tutti unanimi, presidenti di Regione, sindaci, presidenti delle Province, Presidente Malagò, nel designare al comitato organizzatore, la fondazione che sarà costituita a breve, il nome di Vincenzo Novari come CEO delle Olimpiadi.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Vincenzo Novari è un top manager. Per sedici anni ha amministrato la Tre, la compagnia telefonica finanziata dai cinesi. Negli anni della sua gestione il gruppo ha accumulato complessivamente anno per anno perdite per 9 miliardi. Nel 2016 ha fondato una società di consulenza per i cinesi che investono in Italia.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Non le nascondo che i cinesi sicuramente sono molto interessati a investire sulle Olimpiadi in casa nostra.
CLAUDIA DI PASQUALE Va be’, allora non è casuale il ruolo di Novari, scusi. Cioè, è lui che porta i cinesi in Italia.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Mah, guardi, lei dice che non è casuale. È sicuramente uno, diciamo, dei valori aggiunti che aveva la candidatura di Novari, questo sì.
CLAUDIA DI PASQUALE Vincenzo Novari è la stessa persona – non so se lo sa – che ha fatto causa a Report.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Veramente?
CLAUDIA DI PASQUALE Per soli 137 milioni di euro, però l'ha persa.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI 137 milioni?
CLAUDIA DI PASQUALE Alla Gabanelli.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Ma sarà stato in lire.
CLAUDIA DI PASQUALE No. Per un'inchiesta del 2006 sulla Tre.
GIOVANNI MALAGO’ PRESIDENTE CONI Porca miseria.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Porca miseria. Ha detto bene perché altrimenti poveri noi. Insomma, è andata bene però anche al manager del comitato organizzatore, Vincenzo Novari. Prenderà un compenso di circa 400 mila euro. Chissà se ha avuto anche un peso quel valore aggiunto che gli viene riconosciuto anche da Malagò per il fatto che ha dei rapporti con gli investitori cinesi, quelli che vogliono investire sulle Olimpiadi Milano-Cortina. Ecco, quello che è certo è che comunque i nostri organizzatori sono stati bravi e tra gli elementi persuasivi hanno anche infilato nel dossier il fatto che si plasmeranno, si ispireranno a un modello da seguire, quello delle Olimpiadi invernali Torino 2006. Modello da seguire…
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I XX Giochi Olimpici invernali di Torino 2006 sono durati 16 giorni e in totale sono costati circa 4 miliardi di euro.
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Sono stata Presidente del Comitato di candidatura delle Olimpiadi di Torino 2006 e poi Vice Presidente vicario del Comitato organizzatore, quindi nove anni di vita olimpica.
CLAUDIA DI PASQUALE Nel dossier di candidatura per Milano-Cortina è proprio scritto nero su bianco che la governance che sarà decisa ricalcherà quella di Torino.
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Beh, mi fa piacere perché allora vuol dire che non abbiamo proprio lavorato male.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il Comitato organizzatore di Torino si chiamava Toroc ed era un ente di natura privatistica che in base alla legge olimpica non poteva ricevere fondi pubblici.
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Il Comitato organizzatore è stato finanziato completamente da denari privati, quindi da diritti televisivi, sponsorizzazioni, merchandising e biglietteria.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Due anni prima però dei giochi il Toroc, cioè il Comitato, si ritrova con un presunto buco di bilancio di 160-180 milioni di euro. È così che allora il governo nomina come commissario Mario Pescante.
CLAUDIA DI PASQUALE Come è riuscito a coprire il buco, di fatto?
MARIO PESCANTE – MEMBRO ONORARIO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Adesso mi chiede atti contabili di 13 anni fa! Io ho fatto il mio dovere da commissario, sono andato al governo. E il governo ha trovato la soluzione di far amministrare certi servizi dallo Stato.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La soluzione trovata allora dal governo Berlusconi fu quella di trasferire alcune attività del Comitato organizzatore alla società Italia Evolution, finanziata con 112 milioni di euro di soldi pubblici e controllata dalla società Sviluppo Italia, a sua volta partecipata dal Ministero dell’Economia.
TOMMASO PORTALURI – PRESIDENTE CENTRO RICERCA CEST Ci sono fondi statali che vengono dati a un ente privato, ma a partecipazione statale per via indiretta. In questo modo non c’è formalmente un passaggio dal Ministero che sarebbe stato contra legem.
CLAUDIA DI PASQUALE Io ho compreso che allora fu costituita una società da parte di Sviluppo Italia: Italia Evolution. Però fu il governo a dare i soldi a questa società.
FRANCO FRATTINI – EX MINISTRO ESTERI CON DELEGA ALLE OLIMPIADI TORINO 2006 Sicuramente, ma non ricordo, ripeto, come il meccanismo funzionò perché queste cose, ripeto, le fanno anche molto a livello tecnico.
MARIO PESCANTE – MEMBRO ONORARIO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Guardi, vorrei essere sincero. Io di questa Italia Evolution, da sottosegretario e da sovraintendente, forse esisteva, ma devo dire…
CLAUDIA DI PASQUALE Non se la ricorda.
MARIO PESCANTE – MEMBRO ONORARIO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE No, non solo, ma io mi occupavo della parte tecnica.
CLAUDIA DI PASQUALE A Torino si trova, diciamo, un escamotage per evitare che i conti del comitato organizzatore…
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Lei fa delle affermazioni che io non sono in grado di controllare se sono veritiere, pertanto non rispondo.
CLAUDIA DI PASQUALE No, aspetti, non si ricorda che il comitato organizzatore ebbe dei problemi?
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Io so che ha avuto dei problemi, ma lei mi fa delle cifre nel dettaglio che io non sono stato in grado, che non sono in grado di controllare, pertanto non rispondo.
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Il ruolo di Sviluppo Italia fu quello di garantire una parte di denari che attraverso le sponsorizzazioni non erano arrivati.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè queste esternalizzazioni sono state l’escamotage utilizzato per far sì che il comitato organizzatore non ricevesse direttamente dei soldi pubblici, visto che non li poteva ricevere. EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Sì, esatto.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Allora anche il comune di Torino fece la sua parte per garantire al comitato organizzatore di non avere nessun buco di bilancio.
SERGIO CHIAMPARINO – EX SINDACO TORINO Per fare questo la città di Torino si fece carico di una parte dei costi che teoricamente avrebbero dovuti essersi fatti, diciamo essere compresi nel bilancio Toroc di all’incirca 250 milioni per l’organizzazione dei trasporti, per l’organizzazione di una serie di attività strettamente legate allo svolgimento dei giochi.
CLAUDIA DI PASQUALE Ufficialmente il Toroc non poteva avere dei finanziamenti pubblici.
SERGIO CHIAMPARINO – EX SINDACO TORINO Esatto. Di fatto li ha ricevuti anche se, ripeto, sotto forma di attività che sono state trasferite.
CLAUDIA DI PASQUALE Quindi se il comitato organizzatore ha un deficit è il pubblico che deve pagarlo, giusto?
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE È L’Italia che lo deve pagare.
MARIO PESCANTE – MEMBRO ONORARIO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Lo trova nel contratto di Milano e di Cortina.
Il CIO chiede: chi è che paga questo? In genere quando c’è la firma dello Stato, la garanzia è lo Stato.
CLAUDIA DI PASQUALE Il comitato organizzatore è un ente di diritto privato.
GIOVANNI MALAGÒ – PRESIDENTE CONI Sì, una fondazione, sì. Di diritto privato, esattamente. CLAUDIA DI PASQUALE Può ricevere fondi pubblici?
GIOVANNI MALAGÒ – PRESIDENTE CONI No, non può, no.
CLAUDIA DI PASQUALE Nel caso in cui il comitato organizzatore dovesse avere un disavanzo, chi paga?
GIOVANNI MALAGÒ – PRESIDENTE CONI C'è la garanzia delle due regioni.
CLAUDIA DI PASQUALE Lombardia e Veneto?
GIOVANNI MALAGÒ – PRESIDENTE CONI Sì, assolutamente.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pagheranno i cittadini cioè di Veneto e Lombardia. Saranno felici di saperlo. Però che cosa è successo? Che il comitato organizzatore delle Olimpiadi Torino 2006 ad un certo punto stima un possibile buco di bilancio di 180 milioni di euro. Solo è un ente privato, non può contare sul supporto pubblico. Che cosa fanno? Trovano l’escamotage. Istituiscono una società ad hoc che si accolla alcuni servizi e la istituisce “Sviluppo Italia”, società partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che ci mette i soldi. Altri 250 milioni invece se li accolla il comune di Torino in servizi ed è per questo che la povera sindaca Appendino sta ancora facendo i conti, sta passando ancora i guai. Carraro e Pescante invece dicono “guardate che è normale che se vanno male le cose paghino i cittadini, è scritto nel contratto con il CIO, con il Comitato Olimpico Internazionale. Ecco, e per questo è importante sapere come sono andate le cose: per prevenire. Intanto dobbiamo sapere che, per quello che riguarda le Olimpiadi MilanoCortina, ci sarà un’agenzia che si occuperà di costruire le infrastrutture. Quelle di Torino 2006 come sono state realizzate? Per questo si era pensato anche di istituire un ente, “Agenzia Torino 2006”. Solo che, se le Olimpiadi durano 16 giorni, invece le rogne olimpiche sono come un diamante.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andiamo allora a vedere come stanno messi a distanza di 13 anni gli impianti di Torino 2006. Qui per esempio siamo a Sauze d'Oulx e questa è l'area dove è stata realizzata la pista di freestyle. L'impianto è costato allora 9 milioni di euro, ma oggi non c’è più nulla.
MAURO MENEGUZZI – SINDACO DI SAUZE D’OULX (TO) Il Comune si è fatto carico degli smantellamenti delle opere più grosse, perché stavano oggettivamente crollando.
CLAUDIA DI PASQUALE Questo comunque è un buon sito per fare attività sportive invernali?
MAURO MENEGUZZI – SINDACO DI SAUZE D’OULX (TO) No, assolutamente. È esposto completamente a sud-ovest, per cui la neve tende a sciogliere molto molto in fretta. Coprire questo sito di neve artificiale ha dei costi che sono insostenibili.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Bardonecchia si trova invece l'impianto olimpico di Half Pipe. Oggi viene usato solo d'estate come scivolo per bambini. Alle olimpiadi di Torino 2006 appariva così.
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) – FONDAZIONE XX MARZO 2006 Non è stato più utilizzato. Le ultime gare di Coppa del Mondo sono state fatte nel 2011 a marzo. Anche perché oggi si scia su impianti più grandi.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche l’impianto olimpico per le gare di biathlon è rimasto per anni inutilizzato. Si trova a Cesana Torinese e oggi si presenta così.
ROBERTO SERRA – EX SINDACO CESANA TORINESE (TO) Esattamente siamo al centro del poligono di tiro, che lo vede che è stato un po’ trasformato. È diventato, sono diventati campi da tennis.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanto è costato il campo di biathlon?
ROBERTO SERRA – EX SINDACO CESANA TORINESE (TO) 24 milioni di euro.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Pragelato invece l’impianto olimpico per il salto è costato 34 milioni di euro. Per realizzarlo sono stati abbattuti centinaia di larici e sbancate 70mila tonnellate di roccia. Oggi però i trampolini appaiono vandalizzati.
CLAUDIO SALVAI – ASSESSORE TURISMO E SPORT COMUNE DI PRAGELATO (TO) Per manutenere questi impianti ci vanno 250mila euro all’anno circa e quindi è stato deciso di chiuderli.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure per garantire la gestione post-olimpica dell'impianto, erano stati costruiti accanto ai due trampolini olimpici altri tre trampolini più piccoli allo scopo di creare una scuola di salto. Anche questi però oggi sono fermi.
CLAUDIA DI PASQUALE Che costo avrebbe smantellarli?
CLAUDIO SALVAI – ASSESSORE TURISMO E SPORT COMUNE DI PRAGELATO (TO) Sotto questo tappeto verde che noi vediamo ci sono tonnellate di cemento, quindi i costi secondo me potrebbero aggirarsi tra i 5 e i 7 milioni di euro.
ALBERTO CIRIO – PRESIDENTE REGIONE PIEMONTE Guardi, noi stiamo facendo una verifica dello stato dell’arte di questi impianti. Noi da quando ci siamo insediati abbiamo un assessore che ha una delega che si chiama “post olimpico”, specificatamente. CLAUDIA DI PASQUALE Ancora oggi, nel 2019?
ALBERTO CIRIO – PRESIDENTE REGIONE PIEMONTE Eh, per forza.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Non solo la Regione Piemonte ha un assessore con delega al post olimpico. Ma ancora oggi esiste la cosiddetta “Agenzia Torino 2006”, l’ente creato nel lontano 2000 con una legge dello Stato per realizzare gli impianti olimpici. A dirigerla c'è l'ingegnere Domenico Arcidiacono.
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 L’agenzia ha chiuso alla fine del 2007.
CLAUDIA DI PASQUALE Ok, noi siamo però dentro la sede dell’Agenzia oggi.
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 Sì, siamo dal liquidatore dell’agenzia.
CLAUDIA DI PASQUALE L’agenzia è ancora oggi in liquidazione.
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 È ancora oggi in liquidazione.
CLAUDIA DI PASQUALE In sostanza se uno volesse dire da quanti anni lei si occupa dell’agenzia?
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 Se le faccio vedere la fotografia si spaventa. Avevo vent’anni meno.
CLAUDIA DI PASQUALE È infinita quest’agenzia di Torino 2006.
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 Noi stiamo andando avanti per anni, anni e anni, ma non bruciamo soldi.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costa ogni anno l’agenzia ora che è in liquidazione ed è stato ridotto il personale?
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 Intorno ai 600mila euro.
CLAUDIA DI PASQUALE Posso chiederle lei quanto prende come stipendio?
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 Come liquidatore ho 100mila lordi.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Finite le Olimpiadi, l'Agenzia Torino 2006 ha seguito i contenziosi lasciati dai giochi. Prima si è occupata delle gare d'appalto per costruire le opere olimpiche e ha speso 1 miliardo e 600 milioni di euro. Il budget iniziale previsto però dal governo era la metà: 843 milioni. DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 È costato di più rispetto a cosa?
CLAUDIA DI PASQUALE Rispetto alle stime iniziali.
DOMENICO ARCIDIACONO – EX PRESIDENTE E COMMISSARIO LIQUIDATORE AGENZIA TORINO 2006 Succede dappertutto, è normale. Ma una cosa è giocare a prendere le Olimpiadi, l’altra cosa è poi realizzare le opere.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Una delle principali opere realizzate dall'Agenzia è la pista di bob a Cesana Torinese, è lunga 1400 metri ed è esposta a sud. Per realizzarla sono stati disboscati ettari. Per creare il ghiaccio, sotto al cemento scorrevano 48mila litri di ammoniaca.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanto è costato questo impianto?
ROBERTO SERRA – EX SINDACO DI CESANA TORINESE (TO) A consuntivo siamo a 107-110 Milioni di euro, da un preventivo iniziale di 60.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanto è stata usata dopo le Olimpiadi questa pista?
ROBERTO SERRA – EX SINDACO DI CESANA TORINESE (TO) Abbiamo fatto due gare di bob e mi pare una o due, un paio di slittino.
CLAUDIA DI PASQUALE L’ultima gara a quando risale?
ROBERTO SERRA – EX SINDACO DI CESANA TORINESE (TO) 2011.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questi anni la pista è stata più volte vandalizzata. Per ripristinarla oggi servirebbero 34 milioni di euro, per smantellarla invece ce ne vogliono 16. Sembrano lontani i tempi in cui qui vinceva il campione italiano di slittino Armin Zoeggeler.
ROBERTO SERRA – EX SINDACO DI CESANA TORINESE (TO) Sono spariti tutti. Comincio da dire dai politici, che sono venuti e mi hanno convinto e questo anche io ho dovuto convincere i miei concittadini sulla validità del bob. Ho avuto gente che si è incatenata alle colonne del Comune.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè lei ha dovuto convincere i suoi cittadini che la pista di bob era una cosa buona?
ROBERTO SERRA – EX SINDACO DI CESANA TORINESE (TO) Che avrebbe sviluppato ulteriormente il turismo, perché avrebbe generato posti di lavoro e quant’altro. Io questo me lo hanno detto e hanno nome e cognome questi politici.
CLAUDIA DI PASQUALE Chi sono questi politici?
ROBERTO SERRA – EX SINDACO DI CESANA TORINESE (TO) Allora. Frattini: era allora ministro incaricato per le Olimpiadi; Chiamparino, che era il sindaco di Torino che ha sottoscritto l’impegno col CIO.
SERGIO CHIAMPARINO – EX SINDACO TORINO Eravamo tutti a favore dell’impianto di bob perché siamo stati obbligati a farlo. Io mi ricordo sempre l’incontro che facemmo con l’allora ministro Frattini che era il responsabile delle Olimpiadi per il governo Berlusconi, in cui noi cercammo di sostenere l’utilizzo dell’impianto di Albertville in Francia. Ci fu detto che essendo Olimpiadi fatte in Italia non si poteva utilizzare un impianto in Francia.
FRANCO FRATTINI – EX MINISTRO DEGLI ESTERI CON DELEGA ALLE OLIMPIADI TORINO 2006 Io lì francamente dissi: “signori, un’Olimpiade italiana non può essere un’Olimpiade italo-francese”.
CLAUDIA DI PASQUALE Fu proprio lei a decidere che la pista di bob fosse realizzata a Cesana Torinese?
FRANCO FRATTINI – EX MINISTRO DEGLI ESTERI CON DELEGA ALLE OLIMPIADI TORINO 2006 Io facevo il coordinamento del Governo. Lì è il comitato organizzatore che decide in questi casi.
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Ma io non ero l’unica che decidesse, ovviamente eravamo in sei nel comitato.
CLAUDIA DI PASQUALE Fu favorevole poi alla sua realizzazione a Cesana Torinese o no?
EVELINA CHRISTILLIN – EX VICEPRESIDENTE COMITATO ORGANIZZATORE TORINO 2006 Era una scelta obbligata. Non la più felice, anche perché quel versante è completamente esposto a sud, quindi...
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quindi la neve si scioglie facilmente. Tuttavia, le federazioni sportive avevano promesso che la pista di bob di Cesana sarebbe stata trasformata nella Coverciano della neve.
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Erano impegni impossibili da realizzare. Perché? Perché i praticanti del bob, dello slittino e dello skeleton sono pochi, per cui non puoi fare la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
CLAUDIA DI PASQUALE Quindi anche prima di costruire questi impianti si sapeva già che non avrebbero funzionato.
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE Sì, brava, brava.
CLAUDIA DI PASQUALE Sì, insomma, i politici di allora hanno preso un po’ in giro le persone, mi sta dicendo.
FRANCO CARRARO – MEMBRO COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE No, diciamo, si è indorata la pillola.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Simpatico Carraro. Solo che viene da pensare che, più che la pillola, qua si è cercato di indorare una supposta, almeno per il pubblico. Oggi che il prezzo lo abbiamo pagato, i politici fanno “coming out”. Lo fanno perché su quella pista di bob si sono svolte solo quattro gare. Lo sa anche un bambino che se metti il giaccio a sud si scioglie più velocemente. Potevamo scegliere una pista in Francia, solo che sembrava un affronto perdere l’italianità. Abbiamo preferito invece perdere denaro pubblico. Ecco, “una cosa è gareggiare per vincere le Olimpiadi, un’altra cosa è realizzarle”. Questa è la perla di saggezza del capo dell’ente pubblico, dell’Agenzia Torino 2006. Aveva i pantaloni corti quando l’ha inaugurata, è in liquidazione da circa 12 anni e ci costa, solo per dirimere le questioni legali, circa 600 mila euro ogni anno. E pensare che per gestire il post Olimpiadi si era anche costituita una fondazione: “20 marzo 2006”. I partecipanti erano Comune, Regione, Provincia e Coni. Solo che ha partorito un’altra società misto pubblico-privata chiamata “Parcolimpico”. Ha preso10 impianti, chiavi in mano glieli ha consegnati per una gestione trentennale. Ecco, chi sono i privati?
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO All’indomani delle Olimpiadi è stato persino creato un ente per garantire la gestione manutenzione degli impianti, la cosiddetta “Fondazione 20 marzo 2006”, oggi presieduta dal sindaco di Bardonecchia.
CLAUDIA DI PASQUALE L’impianto di bob, lo stadio del salto di Pragelato, sono comunque un po’ delle cattedrali nel deserto, in stato di abbandono.
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) - FONDAZIONE XX MARZO Non è corretto dire che siano in stato di abbandono, perché sono custodite entrambe.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma non c’è un custode. Cioè, non c’è nessuno lì.
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) - FONDAZIONE XX MARZO No, no, no. Esistono, certo, esistono dei servizi di custodia, certo, in particolar modo sul bob lei non può non vederli se ci va. CLAUDIA DI PASQUALE Io ho visto delle capre davanti.
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) - FONDAZIONE XX MARZO Vuol dire che l’economia montana funziona.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quello che funziona veramente è il Pala Alpitour di Torino, costruito per ospitare le gare olimpiche di hockey; è costato 109 milioni di euro. Oggi ospita eventi e concerti ed è gestito dalla società Parcolimpico. Dentro ci sono la stessa “Fondazione 20 marzo 2006”, la multinazionale americana Live Nation e la torinese Set Up.
CLAUDIA DI PASQUALE Set Up, la conosce?
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) - FONDAZIONE XX MARZO Sì, certo, è una società torinese.
CLAUDIA DI PASQUALE Che però è stata raggiunta in anni diversi da più interdittive antimafia. L’ultima risale al febbraio del 2018.
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) - FONDAZIONE XX MARZO Sì, ma io ho letto qualcosa in proposito.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, di fatto sono vostri soci.
FRANCESCO AVATO – SINDACO BARDONECCHIA (TO) - FONDAZIONE XX MARZO Sono soci della Fondazione, certamente.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il fondatore della Set Up è Giulio Muttoni, amico dell'ex senatore Stefano Esposito, primo firmatario della legge che consente di usare i soldi avanzati dalle olimpiadi per riqualificare gli impianti.
CLAUDIA DI PASQUALE Giulio Muttoni è un suo fraterno e storico amico.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE Non solo fraterno: di più. È addirittura padrino di mia figlia, dell’ultima figlia, padrino di battesimo. Quindi se mi vuole far dire che Giulio Muttoni è un mafioso non me lo sentirà dire. Giulio Muttoni non risulta neanche mai essere stato indagato per mafia, però gli è stata data un’interdittiva anti mafia, non a lui.
CLAUDIA DI PASQUALE Alla società.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE Alla società.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Al centro dell'interdittiva antimafia c'è la figura dell'ex socio di Muttoni, tale Lorenzo La Rosa, ritenuto il punto di contatto con le famiglie dei boss che pretendevano biglietti dei concerti per mantenere le mogli dei detenuti. La società di La Rosa oggi si chiama Crew Service e ha la sua sede proprio al Pala Alpitour insieme alla società Parcolimpico e Set Up.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE Non la conosco la Crew Service.
CLAUDIA DI PASQUALE E Muttoni è indagato oggi però.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE Indagato per che cosa, per mafia?
CLAUDIA DI PASQUALE No, per turbativa d’asta e corruzione. Insieme a lei, però.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE No guardi, purtroppo questa è bellissima…
CLAUDIA DI PASQUALE Mi spieghi questa storia, che è apparsa sui giornali.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE Infatti, la vorrei sapere anche io perché non ho mai ricevuto niente.
CLAUDIA DI PASQUALE Si parla di uno scambio di denaro tra lei e Muttoni, in realtà.
STEFANO ESPOSITO – EX SENATORE Quando mi accuseranno di qualcosa formalmente e avrò un documento sul quale poter leggere di che cosa sono accusato, volentieri, ma prima di allora non posso farlo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le Olimpiadi di Torino sono andate così. Ora però non bisogna essere diabolici nel perseverare. Aspettiamo la legge olimpica, il ministro Spadafora l’ha annunciata più volte, ha promesso che verrà approvata entro la fine dell’anno. Ecco, quello che è certo è che però queste Olimpiadi sono state presentate come low cost ed è grazie a questo che il CIO – il Comitato Olimpico Internazionale – ha accettato un compromesso, cioè che le Olimpiadi potevano essere svolte in tre località diverse: Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, anche in luoghi distanti tra loro. Perché? Perché si potevano utilizzare impianti già esistenti come quelli di Cortina, Olimpiadi 1956. Si potranno utilizzare?
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A distanza di 70 anni le Olimpiadi del 2026 rappresentano il ritorno di un sogno.
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) Ricordo che il 92% delle infrastrutture sono già esistenti e quindi, per quanto riguarda il mio territorio, si parla solamente di strutture eventualmente provvisorie o comunque di un rinnovamento di quelle esistenti.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Cortina per esempio c'è già la pista di bob realizzata per le Olimpiadi del 1956. É stata poi rimodernata negli anni Settanta, ma dal 2008 è chiusa.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè di fatto questa pista potrebbe essere utilizzata per le Olimpiadi del 2026?
GIANFRANCO REZZADORE - PRESIDENTE BOB CLUB CORTINA Deve essere modificata o rifatta perché non funziona; è come lasciare una macchina 30 anni ferma e poi pensare di andare ad accendere il motore che riparta.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma va rifatto l’impianto o va proprio rifatta la pista?
GIANFRANCO REZZADORE - PRESIDENTE BOB CLUB CORTINA Tutte e due. È un impianto studiato per l’epoca, dove i bob erano un po’ più lenti, dove non si scendeva con lo slittino e le skeleton e perciò va adeguata sicuramente agli attuali canoni.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costerà ristrutturare la pista di bob?
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) L’intervento è un intervento certamente molto importante, sono circa 46 milioni di euro.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto il presidente della federazione italiana sport invernali Flavio Roda ha già dichiarato che per la nuova pista di bob serviranno più soldi. Certo è che a Innsbruck, in Austria, a circa 150 chilometri, c'è già un'altra pista di bob.
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) Qualcuno ha detto: “perché non utilizzate l’impianto di Innsbruck?”, “Perché non utilizzate l’impianto di Saint Moritz?”, perché anche Saint Moritz ha una pista, noi crediamo riteniamo come ho già detto che l’Olimpiade è un’Olimpiade italiana.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Purché non faccia la fine della pista di Cesana, delle olimpiadi torinesi del 2006. Comunque a Cortina ci sono già i cantieri aperti. Non per le olimpiadi, ma per le finali di Coppa del Mondo di sci del 2020 e i mondiali di sci alpino del 2021, che faranno arrivare altri 350 milioni di euro.
CLAUDIA DI PASQUALE Che interventi sono previsti per i mondiali, visto che sono propedeutici, di fatto, alle Olimpiadi?
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) La sistemazione e allargamento delle piste e alcuni interventi che riguardano l’antivalanghivo, con tutte le tutele del caso perché ovviamente al centro della nostra politica sportiva e turistica ci sta soprattutto l’ambiente.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le Dolomiti sono patrimonio dell’Umanità. Vanno tutelate. Intanto per allargare le piste da sci e realizzare gli impianti di risalita è necessario abbattere numerosi alberi e scavare in zone vincolate. CLAUDIA DI PASQUALE Ci sono già state delle polemiche sul fatto che si sventreranno le Dolomiti che sono patrimonio dell’Unesco per realizzare…
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma sei di Legambiente? Ma chi sei?
CLAUDIA DI PASQUALE No, sono già emerse queste polemiche. LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma no, ma sì, ovvio cioè…
CLAUDIA DI PASQUALE Sappiamo che le Dolomiti sono patrimonio dell’Unesco.
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO A Friedman hanno chiesto se ha più bisogno uno che ha, o uno che non ha e Friedman che è un premio Nobel dell’economia ha risposto che ha più bisogno uno che ha avuto e non ha più, per cui ogni cambiamento crea un bisogno. C’è l’ansia, ma noi non siamo un popolo di devastatori.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il comitato organizzatore dei Mondiali di sci è la fondazione Cortina 2021; il presidente è Alessandro Benetton. L'amministratore delegato è invece Valerio Giacobbi.
CLAUDIA DI PASQUALE Le opere vanno consegnate entro il 31 dicembre 2019. Ce la farete?
VALERIO GIACOBBI – AMMINISTRATORE DELEGATO FONDAZIONE CORTINA 2021 Gran parte delle opere sulle piste saranno sicuramente terminate entro quest’anno, rimangono degli interventi minori sulla viabilità. CLAUDIA DI PASQUALE E sono tutti però a zero?
VALERIO GIACOBBI – AMMINISTRATORE DELEGATO FONDAZIONE CORTINA 2021 Sono tutti, sono a zero.
CLAUDIA DI PASQUALE A parte l’area di Rumerlo e le due piste, per il resto comunque tutti gli interventi mi sembrano abbastanza indietro.
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) C’è il periodo degli amori dell’uccellagione e quindi bisogna tenere in considerazione… sembra una cosa… però si devono tenere in considerazione dei periodi molto ristretti.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per esempio, la nuova area di arrivo di Rumerlo è al 90%, mentre la strada per arrivarci sta ancora messa così. Per alcuni lavori ancora in fase di stallo la stazione appaltante è la provincia di Belluno.
CLAUDIA DI PASQUALE La finish area di drusciè è al 20%
ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO La piscina giustamente non siamo ancora pronti.
CLAUDIA DI PASQUALE Questo non è iniziato, quest’altra nuova cabinovia non sono iniziati i lavori…
ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO Mancano queste qua, ha ragione.
CLAUDIA DI PASQUALE Questi interventi che dipendono da voi di fatto sono allo zero percento.
ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO Ma per i mondiali saranno pronti.
CLAUDIA DI PASQUALE Però la legge specificava che i lavori, le opere dovevano essere consegnate entro il 31 dicembre 2019.
ROBERTO PADRIN - PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO Eh, cara mia.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure per semplificare la burocrazia, sono stati nominati ben due commissari straordinari per i Mondiali di sci. Hanno preferito non rilasciare interviste. Uno è Luigi Valerio Sant’Andrea, già capo dipartimento allo sport con ministro il renziano Luca Lotti. L’altro è Claudio Gemme, presidente dell’Anas, a lui tocca occuparsi della viabilità.
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) Sulla viabilità sono previsti interventi sulla tratta di strada da Longarone fino a Cimabanche di 230 milioni di euro.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La maggior parte di questi fondi pari a 172 milioni di euro sarà investita nella statale 51, la cosiddetta Alemagna, che collega Ponte nelle Alpi con Cortina. Una delle strade più pericolose e trafficate d'Italia, intervallata da frane e deviazioni; 60 chilometri di curve e strettoie che passano in mezzo ai paesi. Per evitarli è prevista la realizzazione di ben quattro varianti.
CLAUDIA DI PASQUALE E saranno pronte queste quattro varianti?
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) Non saranno pronte per il 2021. CLAUDIA DI PASQUALE È un dato acclarato questo. Non saranno pronte.
GIANPIETRO GHEDINA - SINDACO DI CORTINA D’AMPEZZO (BL) Siamo sicuramente fuori termine. CLAUDIA DI PASQUALE Si parla di queste famose quattro varianti che dovranno essere realizzate entro i mondiali di sci in realtà di Cortina 2021, già si sa che però non saranno realizzate nei tempi corretti. Ci sono già dei ritardi.
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma guardi, la realtà che segue questi lavori è l’Anas, non sono cantieri nostri.
CLAUDIA DI PASQUALE A me risulta che comunque la Regione Veneto voleva saltare la procedura, cioè tutta l’istruttoria per la valutazione dell’impatto ambientale e questo ha fatto poi perdere del tempo perché il Ministero ve l’ha chiesta comunque.
LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma no, guardi, la Regione Veneto rispetta le leggi, se qualche nostra struttura operativa ha chiesto procedure semplificate è perché servivano procedure semplificate.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma la regione Veneto sperava di non fare la valutazione di impatto ambientale per queste opere?
ROBERTO PADRIN – PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO Sì, quella speranza era di tutti.
CLAUDIA DI PASQUALE Se la valutazione di impatto ambientale fosse stata fatta subito non si sarebbero persi 2 anni.
ROBERTO PADRIN – PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO Questa è una domanda sinceramente a cui io non so rispondere.
CLAUDIA DI PASQUALE Credo che la regione Veneto abbia però delle responsabilità, eh.
ROBERTO PADRIN – PRESIDENTE PROVINCIA DI BELLUNO C’è una giornalista d’assalto, Tiziana… C’è una giornalista d’assalto che mi sta assaltando.
SIGFRIDO RANUCCIO IN STUDIO Lei è fatta così: assale. Comunque, ricapitolando: a Cortina ci sono già degli impianti esistenti, ma risalgono alle Olimpiadi del 1956. Le piste da sci le stanno adeguando, ma non per le Olimpiadi, ci vorranno altri soldi per i mondiali di sci, che si svolgeranno nel 2021. Per questo però sono importanti le infrastrutture. Ecco, il Governo aveva nominato due commissari ad hoc, avrebbero dovuto consegnare tutte le opere nel 2019. Non faranno in tempo, hanno prorogato al 2021. Però anche qua non basterà, perché le strade almeno non saranno consegnate in tempo. Speriamo per le Olimpiadi del 2026, anche perché da Milano a Cortina ci vogliono 4 ore e 40 minuti. Ecco, e poi ci sarà anche da costruire la casa degli atleti, il villaggio olimpico a Milano. E torniamo al modello, quello vincente, di Torino. Com’è andata.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Torino, periferia sud: questo è il villaggio olimpico costruito per le olimpiadi del 2006. Costo: 168 milioni di euro. Dal 2013 quattro palazzine sono state occupate dai migranti. Lo scorso agosto le forze dell'ordine li hanno fatti sgomberare.
CLAUDIA DI PASQUALE Le palazzine che invece sono state occupate, sono del Comune?
SERGIO CHIAMPARINO – EX SINDACO TORINO Sono di un fondo che avevamo, che era stato costituito dal Comune e, attraverso un’opportuna gara, da una società finanziaria, che avrebbe dovuto…
CLAUDIA DI PASQUALE Che si chiama?
SERGIO CHIAMPARINO – EX SINDACO TORINO Se non ricordo male, Prelios.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Che avrebbe dovuto venderle. A causa della crisi, Prelios però non è riuscita a piazzare sul mercato le palazzine dell'ex villaggio olimpico.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO ESPERTO DI RICICLAGGIO Chi parla di Prelios pensa a Pirelli Real Estate, a Tronchetti Provera, non è più così.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è lo schema delle società e dei fondi che stanno dietro Prelios.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO ESPERTO DI RICICLAGGIO Sembra un quadro di Picasso; fondi offshore, partnership offshore, offshore master, charities, come se fossero dei fondi caritatevoli.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il quadro di Picasso rimanda alla fine alla società americana Davidson Kempner Capital Management che ha sede nello stato del Delaware.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO ESPERTO DI RICICLAGGIO Nel momento in cui arriviamo nel Delaware non parliamo più di niente perché il Delaware è il paradiso dell’anonimato societario assoluto.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La sede di Prelios si trova a Milano. Qui la società ha preso in mano la gestione dello sviluppo urbanistico dell'ex scalo di Porta Vittoria, rimasto in stato di abbandono dopo il fallimento dell'immobiliarista Danilo Coppola.
DAVID GENTILI – PRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA CONSIGLIO COMUNALE MILANO Prelios è chi gestisce il fondo Niche che è in realtà il fondo che detiene i diritti edificatori. Il problema è chi sia il proprietario effettivo del fondo Niche.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO David Gentili è il presidente della Commissione antimafia del comune di Milano. Ha chiesto all'urbanistica chi sia il titolare effettivo del fondo Niche. Gli è stato risposto che dietro c'è il fondo York di tale James Dinan.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO ESPERTO DI RICICLAGGIO Allora, dire che James Dinan è il titolare effettivo di Porta Vittoria mi sembra un pochino azzardato perché James Dinan è il socio fondatore di una società di consulenza che gestisce una società offshore del Delaware la quale gestisce un’altra società offshore del Delaware, la quale possiede giuridicamente non so cos’è il fondo Niche, comunque possiede questo fondo Niche, il quale interviene nella operazione a Porta Vittoria.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè di fatto quindi i soci del fondo Niche, i soldi…
GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma nessuno potrà mai sapere niente, non solo chi sono i soci, ma tanto meno da dove arrivano i soldi.
DAVID GENTILI – PRESIDENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA CONSIGLIO COMUNALE MILANO Quando si va in banca le aziende devono dichiarare il titolare effettivo, quando invece si fa uno sviluppo urbanistico non c’è alcun obbligo da parte di chi sviluppa da un punto di vista urbanistico un’area della città di dichiarare chi è il titolare effettivo alla controparte, che è l’amministrazione comunale, con cui si stende una convenzione.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il fondo Niche gestito da Prelios è solo uno dei tanti fondi immobiliari che a partire dal 2015, cioè da Expo, hanno investito nel territorio milanese.
FRANCESCA ZIRNSTEIN – DIRETTORE GENERALE CENTRO STUDI SCENARI IMMOBILIARI A cavallo del 2026, potrebbero arrivare a Milano investimenti diretti e naturalmente indiretti, quantificabili in circa 13 miliardi.
CLAUDIA DI PASQUALE Ovviamente Milano in questo momento è oggetto di grandi investimenti immobiliari da parte di fondi immobiliari di cui però non sappiamo bene chi siano né i titolari effettivi, né da dove provengano i soldi.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO E questo è un punto. CLAUDIA DI PASQUALE E questo secondo me è un problema.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO No no, ci sono 12, 13 miliardi di investimenti immobiliari pronti su Milano, good news o bad news per noi? È una good news con molta attenzione.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Uno dei principali investimenti sarà quello per il villaggio olimpico. Sarà costruito nell'ex scalo ferroviario di Porta Romana. Costo: 90 milioni. A breve dovrebbe uscire il bando di ferrovie per selezionare uno sviluppatore privato.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Il punto è: perché un imprenditore privato deve realizzare il villaggio olimpico? Perché poi gli rimane e nel nostro accordo poi lo può utilizzare come residenze universitarie.
FRANCESCA ZIRNSTEIN – DIRETTORE GENERALE CENTRO STUDI SCENARI IMMOBILIARI Gli studentati sono davvero un buon investimento, sono circa 90mila ogni anno gli studenti fuori sede che cercano casa a Milano.
CLAUDIA DI PASQUALE E quanto può costare un posto letto in un posto simile?
FRANCESCA ZIRNSTEIN – DIRETTORE GENERALE CENTRO STUDI SCENARI IMMOBILIARI Dai 600 euro a posto letto mensile a salire.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scalo di Porta Romana rientra in un accordo di programma del 2017, che ha cambiato la destinazione urbanistica di 7 ex scali ferroviari. Estesi in totale ben un milione e 200mila metri quadri.
ROBERTO CAMAGNI – PROFESSORE ECONOMIA URBANA - POLITECNICO DI MILANO Quei terreni erano assegnati a servizi ferroviari, il valore di mercato era zero, anzi, forse negativo perché erano inquinati.
EMILIO BATTISTI – DOCENTE PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA – POLITECNICO DI MILANO Quelle aree non erano edificabili.
CLAUDIA DI PASQUALE Oggi invece, grazie all’Accordo di Programma?
EMILIO BATTISTI – DOCENTE PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA – POLITECNICO DI MILANO L’operazione complessiva degli scali vale 2 miliardi e 250 milioni. Quindi è un’operazione speculativa di enorme entità.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In base alla legge nazionale, il Comune avrebbe diritto al 50 % delle plusvalenze. Il professore Camagni ha calcolato quanto spetterebbe al comune di Milano per gli ex scali ferroviari.
ROBERTO CAMAGNI – PROFESSORE ECONOMIA URBANA - POLITECNICO DI MILANO La plusvalenza realizzabile da Ferrovie potrebbe, avrebbe potuto essere pari a 700 milioni. Quindi almeno 350 milioni avrebbero dovuto essere assegnati come extra oneri al Comune. Invece nell’accordo si dice: questi extra oneri potrebbero ammontare a 50 milioni.
CLAUDIA DI PASQUALE Secondo voi il Comune non vi ha fatto un bel regalo?
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI No, il Comune non ha fatto un bel regalo perché dobbiamo trasformare delle aree che sono al centro della città non utilizzabili in questo momento e costituiscono un problema. CLAUDIA DI PASQUALE Voi non ci pensate proprio a dare 350 milioni di euro al Comune?
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI No.
CLAUDIA DI PASQUALE Ferrovie dovrebbe comunque dare quei soldi? ROBERTO CAMAGNI – PROFESSORE DI ECONOMIA URBANA - POLITECNICO DI MILANO Li avrebbe dovuti già dare. Quindi si è infranta una legge nazionale e configura un danno erariale.
CLAUDIA DI PASQUALE L’impegno rispetto alle plusvalenze sono 50 milioni da parte di Ferrovie. GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Mmm.
CLAUDIA DI PASQUALE Un po’ poco rispetto ai potenziali 350 che avreste già dovuto incassare.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Possibile, possibile. Tema complesso che probabilmente può anche essere rianalizzato, ma non ho una risposta per dire perché, per come.
CLAUDIA DI PASQUALE C’è chi ipotizza un possibile danno erariale su questa storia.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO I danni erariali sono possibili su tantissime cose obiettivamente, è uno dei rischi del nostro mestiere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ricapitolando. Allora. Il villaggio olimpico verrà costruito sui terreni di un ex scalo ferroviario, quello di Porta Romana, è uno dei sette resi edificabili grazie a un accordo di programma del 2017. Solo che secondo la legge, lo “Sblocca Italia”, Ferrovie dovrebbe riconoscere al Comune di Milano, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche il 50% delle plusvalenze, che ammonterebbero secondo il professor Camagni del Politecnico di Milano a 350 milioni di euro, a 50 invece secondo Ferrovie. Che dici? Io adesso posso garantirvi questa cifra, 50 milioni, poi si vedrà. E Camagni ipotizza anche un danno erariale. Certo è che la cifra è risibile se si pensa che l’intero valore dell’operazione immobiliare potrebbe superare i 2 miliardi di euro. Il 30% di questa operazione immobiliare è destinata all’edilizia convenzionata, all’edilizia sociale. Chi la costruirà? Vedremo. Intanto a quell’accordo di programma hanno partecipato il Comune di Milano, la Regione, Ferrovie dello Stato. Questo per il pubblico. Poi c’era anche il privato, il fondo immobiliare Olimpia, che era legittimato a sedere a quel tavolo perché aveva comprato anni prima un immobile di pregio che era proprio su uno dei terreni degli ex scali. Poi che cosa fa il fondo Olimpia? Vende l’immobile ad un altro fondo immobiliare, Mistral, e Mistral, grazie a questo acquisto, subentra nell’accordo di programma. È gestito da Coima. Di chi è il fondo Mistral? Insomma, vediamo.
CLAUDIA DI PASQUALE Chi c’è dietro il Fondo Olimpia? Visto che ha aderito all’accordo.
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI Non lo so.
CLAUDIA DI PASQUALE Il Fondo Olimpia poi, l’anno successivo, vende ad un altro fondo: Mistral. Lei sa chi c’è dietro il Fondo Mistral? CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI No. Non so.
CLAUDIA DI PASQUALE Il Fondo Mistral, visto che ha acquistato dal Fondo Olimpia, di fatto prende il posto del Fondo Olimpia nell’accordo?
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI Di fatto sì, tutte le obbligazioni che erano a carico del Fondo Olimpia sono traferiti all’acquirente che è il Fondo Mistral.
CLAUDIA DI PASQUALE Non si può non sapere con chi si ha a che fare; questo dico, no?
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI No, non conosco la natura degli investitori del Fondo Mistral, c’è la società Coima…
CLAUDIA DI PASQUALE Ma voi ve lo siete posto come problema?
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI Non ce lo siamo posti ma…
CLAUDIA DI PASQUALE Noi sappiamo oggi chi è il titolare effettivo del Coima Mistral Fund? Cioè di questo fondo immobiliare?
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Non lo so.
CLAUDIA DI PASQUALE Anche sul fondo Olimpia: chi c’è dietro il Fondo Olimpia?
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO … CLAUDIA DI PASQUALE Bene.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In pratica, un fondo di cui si sa poco, ha venduto a un altro fondo di cui non si conoscono gli investitori, questo immobile all’interno di uno degli ex scali oggi locato all’agenzia del Demanio. Dentro ci stanno Guardia di Finanza e Agenzia delle Dogane. Anche a volerlo sapere, però la legge non aiuta a capire chi c’è dietro a un fondo come quello gestito da Coima.
MICHELE RICCARDI – SENIOR RESEARCHER TRANSCRIME - UNIVERSITÀ LA CATTOLICA La risposta formale, corretta, è che i titolari effettivi del fondo sono i titolari della società che gestisce il fondo. Ma è come dire: io ho un cavallo, ho un bel cavallo da corsa, e chiedo: chi è il proprietario? E qualcuno mi dice: non ti posso dare il nome del proprietario, ti do il nome dello stalliere che gli dà la biada e pulisce la stalla. È sufficiente sapere il nome dello stalliere?
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quello che sappiamo è che a guidare la società di gestione del risparmio Coima Sgr è Manfredi Catella, in passato in affari con Ligresti, ritenuto vicino a Matteo Renzi e noto per avere gestito lo sviluppo dell'area di Porta Nuova, la più costosa e chic di Milano, comprata dal fondo sovrano del Qatar. Oggi Coima è uno dei soggetti interessati a sviluppare l’area dell’ex scalo di Porta Romana, dove si realizzerà il villaggio olimpico.
CLAUDIA DI PASQUALE Nell’ex scalo di Porta Romana si realizzeranno anche degli interventi di housing sociale?
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI Sì, non soltanto, ma anche di edilizia convenzionata.
CLAUDIA DI PASQUALE Se io penso all’edilizia convenzionata a Milano penso a Investire SGR.
CARLO DE VITO – PRESIDENTE FS SISTEMI URBANI È il più grosso soggetto che realizza edilizia convenzionata, può essere uno dei soggetti che parteciperanno al bando.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In base all'accordo, il 30% delle volumetrie realizzabili negli ex scali deve essere destinato alla residenza sociale e convenzionata. Investire SGR ha già vinto il bando per un progetto di housing sociale in uno degli ex scali.
CLAUDIA DI PASQUALE Investire SGR lei la conosce?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI No, assolutamente no. Che c’è, un mio parente che è socio di Investire?
CLAUDIA DI PASQUALE Non sa cos’è Investire SGR?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI No, non so chi c’è dietro Investire, chi c’è?
CLAUDIA DI PASQUALE Banca Finnat.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Ah, Banca Finnat, bene.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dentro il consiglio di amministrazione di Banca Finnat c'è anche Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli e socio storico di Malagò.
CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha degli interessi in Banca Finnat con la sua GL Investimenti?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Io ho comperato delle azioni di questa banca così come ho comprato di tantissime altre società, è una cosa assolutamente pubblica da anni.
CLAUDIA DI PASQUALE Il suo socio che è Lupo Rattazzi addirittura è consigliere di Banca Finnat.
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Lupo è consigliere di Banca Finnat... è il mio socio.
CLAUDIA DI PASQUALE Perché mi dice che non sa cosa è Investire mi scusi?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Perché io le dò la mia parola che non so cosa è Investire... glielo dico con franchezza.
CLAUDIA DI PASQUALE Secondo Scenari Immobiliari, Investire potrebbe essere interessata anche al villaggio olimpico
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Sì?
CLAUDIA DI PASQUALE Però mi conferma che comunque voi avete 7 milioni e 300mila azioni di Banca Finnat?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Adesso se lei me lo dice a memoria quanto abbiamo non lo so.
CLAUDIA DI PASQUALE Ce l'ho qua
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Comunque è tutto pubblico quello che c'è scritto li è vero.
CLAUDIA DI PASQUALE In che rapporti è con la famiglia Nattino che è proprietaria della Banca Finnat?
GIOVANNI MALAGÒ - PRESIDENTE CONI Sono degli amici, persone che conosco molto bene, ma non ci ho nessun rapporto di gestione su nulla.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Proprio in questi giorni il Presidente Malagò ha dichiarato che "le Olimpiadi sono la strada che facilita la realizzazione delle opere". Ecco, un ruolo potrebbe averlo, nella costruzione dell’edilizia sociale, la società “Investire SGR”, al 50% di Banca Finnat, quella banca di cui Malagò e il suo socio possiedono alcune azioni. Ecco, se Banca Finnat avrà un ruolo nella costruzione dell’edilizia sociale, sugli ex scali ferroviari e in particolare su quello di Porta Romana, dove verrà costruito il villaggio olimpico, siamo certi, conoscendo la sensibilità del Presidente Malagò, che sgombrerà il campo da ogni equivoco. Questo perché lui è il garante, ci mette la faccia, cosa che invece non fanno i fondi immobiliari. Nei prossimi anni su Milano pioveranno investimenti, secondo scenari immobiliari per 13 miliardi di euro. “È una good news” secondo il sindaco Sala, “ma con attenzione”. Ma come fai a metterci l’attenzione se non c’è una legge che obbliga chi compra pezzi della città a rivelare la propria identità? I ricercatori del gruppo “Transcrime" dell’Università Cattolica di Milano hanno analizzato un campione delle società immobiliari della città e che cosa hanno scoperto? Che il 20% finisce in paradisi fiscali. Ecco, avrebbero voluto scoprire di più, capirne di più, ma è stato impossibile perché acquisire informazioni dal catasto di una città come Milano significa spendere centinaia di milioni di euro. Chi l’ha fatto invece sono i giornalisti investigativi del gruppo Private Eye a Londra. Che cosa hanno scoperto? Che questi immobili segnati in arancione e quelli viola finiscono in proprietà che sono nei paradisi fiscali. Ecco quello che succede se non hai il polso della situazione, se non sai a chi vendi. Anche Londra ha avuto il suo imponente sviluppo immobiliare, la sua Olimpiade, è stata la seconda più costosa della storia dopo la Russia e anche là il mantra era “riqualifichiamo le zone degradate”. Come a Milano. Chi ha riqualificato e a quale prezzo?
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le Olimpiadi di Londra del 2012 sono costate oltre 9 miliardi di sterline, il 76% in più del budget inziale. La cerimonia si è svolta all'Olympic Stadium che dopo i giochi è stato dato in concessione alla squadra di calcio del West Ham.
PENNY BERNSTOCK – DOCENTE DI SOCIOLOGIA - UNIVERSITÀ WEST LONDON Per poterlo riutilizzare è stato completamente riadattato. Questa riconversione è costata al pubblico altri 323 milioni di sterline.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Penny Bernstock è una docente di sociologia, da anni studia gli effetti della trasformazione urbanistica della zona est di Londra.
PENNY BERNSTOCK – DOCENTE DI SOCIOLOGIA - UNIVERSITÀ WEST LONDON Londra ha vinto le Olimpiadi anche grazie anche alla promessa di riqualificare il quartiere povero e degradato di Stratford, a beneficio delle persone che già vivevano nella zona. Le cose però sono andate diversamente.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questo quartiere per le olimpiadi sono stati costruiti i principali impianti sportivi, come le piscine, l’arena per la pallamano o il polo per il ciclismo. Qui è stato realizzato anche il Villaggio Olimpico costituito da ben 2818 alloggi per atleti.
PENNY BERNSTOCK – DOCENTE DI SOCIOLOGIA - UNIVERSITÀ WEST LONDON In origine il villaggio olimpico doveva essere sviluppato da una società privata, Lendlease. Poi però a causa della crisi finanziaria del 2007, la società ha avuto delle difficoltà economiche e così il villaggio olimpico è stato interamente finanziato dallo Stato, che ha dovuto sborsare oltre un miliardo di sterline.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per recuperare i soldi spesi il Governo ha venduto il villaggio olimpico a due società una è la Get Living, dentro c'è anche il fondo del Qatar. Alla fine però è rimasto un buco di circa 275 milioni di euro a carico dei contribuenti.
PENNY BERNSTOCK – DOCENTE DI SOCIOLOGIA - UNIVERSITÀ WEST LONDON L’idea era quella di destinare circa il 50% degli alloggi dell'ex villaggio olimpico all'housing sociale. Però l’affitto di una casa economica costa in media 1550 sterline al mese, davvero troppo per chi ha un reddito basso.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questi anni intorno al villaggio olimpico sono sorti nuovi grattacieli e residenze di lusso, che arrivano a costare anche 2 milioni di sterline. La stessa Lendlease ha costruito nuovi appartamenti, costo 10mila sterline al metro quadro. Basta però attraversare la strada per ritrovare la vecchia Stratford, quella povera e degradata. Ancora oggi in questa zona di Londra c'è il più alto numero di senza tetto della città.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costeranno le Olimpiadi di Milano-Cortina?
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Non costeranno molto perché stiamo parlando di circa 400 milioni. Il 60% lo mette il pubblico, il 40% privati. Quando dico privati intendo per esempio il nuovo palazzetto dello sport a Santa Giulia. CLAUDIA DI PASQUALE E chi sono i privati che lo realizzeranno? GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO I proprietari dell’area, Lendlease e gli altri che stanno urbanizzando quella parte.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO verificare Lendlease, la stessa società che doveva finanziare il villaggio olimpico di Londra, poi pagato dai contribuenti inglesi. A Milano Lendlease ha preso in mano il progetto di urbanizzazione del quartiere di Santa Giulia che prevede lo sviluppo di ben 400mila metri quadri. Grazie alle Olimpiadi potrebbe sbloccarsi la variante per realizzare il Pala Italia, dove si svolgeranno le gare olimpiche di hockey. Costo 63 milioni di euro.
CLAUDIA DI PASQUALE Lendlease doveva realizzare anche il villaggio olimpico di Londra per le Olimpiadi del 2012, poi si è ritirata e ha pagato lo Stato.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Sì, possibile. Nel nostro rapporto con Lendlease a Santa Giulia siamo soddisfatti.
CLAUDIA DI PASQUALE So che loro hanno già stretto un accordo con Live Nation.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Live Nation è la società che avrà la gestione, non so per quanti anni, ma avrà la gestione dell’impianto.
CLAUDIA DI PASQUALE Che poi Live Nation, non so se lo sa, è la stessa società che gestisce tutto il post olimpico di Torino 2006.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Non non lo so.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè loro gestiscono proprio il Pala Alpitour di Torino che sarebbe il corrispettivo del PalaItalia.
GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Quindi dobbiamo preoccuparci?
CLAUDIA DI PASQUALE Eh? GIUSEPPE SALA – SINDACO DI MILANO Dobbiamo preoccuparci, quindi?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La preoccupazione qual è? Secondo il professore Bent Flyvbjerg dell’Università di Oxford, chi organizza un’olimpiade firma un assegno in bianco. Ecco, lui ha studiato tutti i bilanci di tutte le olimpiadi nella storia dal 1960 a oggi e che cosa ha scoperto? Che si è speso il 156% in più di quanto preventivato. Visto che i tedofori sono sempre gli stessi, una volta tanto sorprendeteci, ma non per gli effetti speciali dell’inaugurazione: dopo, quando la fiamma olimpica si è spenta. Le olimpiadi sono una grande opportunità: utilizziamole per migliorare un Paese, non per renderlo più povero. Gli esempi su dove si è sbagliato li abbiamo visti, giusto per non trovarci a piangere sul latte versato.
· Coni, i conti che non tornano.
Coni, i conti che non tornano. Scarsi controlli, consulenti infedeli, ricavi commerciali in picchiata. Il Coni fa acqua da tutte le parti e Malagò è in difficoltà. Fabio Amendolara il 21 giugno 2019 su Panorama. Poca trasparenza, assenza di controlli interni, spese per la gestione degli uffici dei vertici che superano quelle per il funzionamento della giustizia sportiva, truffe in alcuni comitati regionali e persino consulenti infedeli finiti in manette stanno mettendo a dura prova la reputazione del Coni, il Comitato olimpico nazionale italiano. L’allarme rosso, però, è quello legato alla contrazione dei ricavi commerciali. Il marchio Coni non attira più e, nell’ultimo bilancio, quello depositato a dicembre 2017, il segno meno rispetto all’anno precedente pesa come un macigno sui conti: 9.399.005 di euro non sono entrati dall’attività commerciale. È pur vero che il 2016 è stato l’anno olimpico e che, quindi, c’è stata una visibilità maggiore dell’ente, ma l’incasso certificato nel bilancio non raggiunge neanche lontanamente l’ammanco. I proventi commerciali, infatti, ammontano solo a 6.102.783 euro, costituiti dalla quota proveniente dallo sfruttamento commerciale del marchio Coni e dal corrispettivo riconosciuto dal Comitato olimpico internazionale per gli accordi sul marketing estero. La previsione per il 2019, invece, è di poco più di 5 milioni di euro, con cinque contratti commerciali già sottoscritti e altri sette clienti in fase di trattativa. Sulla questione brand si sono soffermati a lungo i giudici della Sezione di controllo della Corte dei conti, che a fine aprile hanno depositato una dettagliata relazione sul bilancio 2017. Alla diminuzione dei ricavi è corrisposta anche una riduzione delle spese di funzionamento, soprattutto dell’ufficio di presidenza che, comunque, continua a mantenere costi da carrozzone della Prima Repubblica. Per far funzionare presidenza, vicepresidenza e segreteria generale servono 416.603 euro annui. Nella compagine siedono Giovanni Malagò, i vicepresidenti Franco Chimenti e Alessandra Sensini, il segretario Carlo Mornati e gli altri uomini del team del presidente. Rispetto al 2016 sono stati spesi 100 mila euro in meno, ma restano invariate, invece, le voci sul funzionamento della giunta e del consiglio nazionale: 707.046 euro, cioè solo 4 mila euro in meno rispetto all’anno precedente. Anche qui siede Malagò, assieme ai presidenti delle federazioni sportive, ai rappresentati degli organi periferici del Coni e agli altri membri. Il costo supera quello per il funzionamento degli organi di giustizia e delle altre commissioni: 629.483 euro (in crescita rispetto al 2016 di 30 mila euro). L’ambito gettone da 162 euro a seduta è stato versato 14 volte per le riunioni della giunta e sette volte per quelle del consiglio. A fronte di queste spese, la Corte dei conti non ha potuto valutare gli indicatori sulle performance, perché il Coni è rimasto del tutto sprovvisto di dipendenti, patrimonio, uffici e mezzi strumentali, in quanto, a seguito della istituzione di Coni Servizi Società per azioni con una legge del 2002, è passato tutto alla Spa. E neanche il Coni ci ha pensato: «L’ente», sottolineano i giudici contabili, «non ha predisposto un piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio». In più, continua a pianificare di tre anni in tre anni, un metodo che, secondo le toghe, «mal si concilia con la programmazione delle attività che hanno carattere quadriennale, il cosiddetto quadriennio olimpico». E, così, un anno resta fuori. Come la trasparenza. Che sembra proprio non essere di casa nell’ente sportivo. «In ordine agli obblighi di pubblicazione dei dati relativi ai controlli sull’organizzazione e sull’attività dell’amministrazione», sottolineano i giudici, «il Coni ha finora pubblicato esclusivamente le relazioni del collegio dei revisori dei conti, ma non anche quelle di questa Corte. Si raccomanda pertanto, per il futuro, di inserire nell’apposita sezione del sito web istituzionale, anche i referti di questa Corte dei conti in versione integrale». Ma è il sistema dei controlli sui contributi la vera nota dolente. Le indicazioni sono ferree: «Si raccomanda all’ente di rafforzare le misure e gli strumenti di monitoraggio e di controllo sull’utilizzo dei contributi annualmente a disposizione, in modo da assicurare un più rigoroso ed efficiente uso delle risorse (...) in particolare con riferimento alla gestione delle singole Federazioni sportive, che invero, per il 2017, hanno presentato un risultato economico nel complesso negativo». Che sui controlli qualcosa sia andato storto, e non solo sui disavanzi creati dalle federazioni, lo mette in evidenza la cronaca. È del 24 maggio scorso la sentenza della Corte dei conti siciliana con la quale sono stati condannati l’ex delegato del Coni a Ragusa Rosario Cintolo e il direttore della Scuola regionale dello sport Silvio Piazza al pagamento in favore della Regione siciliana di 592 mila euro, di 6.900 euro in favore del Coni nazionale e di 10 mila euro in favore dell’ex Provincia di Ragusa. I due avevano creato conti correnti paralleli a quello ufficiale del Coni per dirottare contributi senza alcuna rendicontazione. Sempre in Sicilia, ma ad Acireale, è andata anche peggio con una consulente del Coni, Anna Maria Sapienza, che aveva il compito di fornire un parere vincolante ai progetti che le venivano presentati dagli enti territoriali, per poi inviarli alla sede romana del comitato ai fini del finanziamento. Un anno fa è stata arrestata per turbativa d’asta legata alla riqualificazione dell’impianto sportivo e del campetto di calcio a cinque del Comune montano di Malvagna. Ora è sotto processo a Messina. Ma la professionista, ricostruì l’accusa, imperversava su tutta l’area orientale della Sicilia (una delle più finanziate dal fondo Sport e periferie voluto dal governo guidato dal rottamatore Matteo Renzi). E al telefono si esprimeva così: «Lo vuoi un incarico per un progetto esecutivo di una pista di atletica leggera? Cinquemila euro». Eloquente. Con questa tattica avrebbe incassato incarichi professionali da tanti municipi. Senza che nessuno se ne accorgesse. È stato proprio il numero uno del Coni in Sicilia, Sergio D’Antoni, ad ammettere: «Non abbiamo gli strumenti per controllare, a meno che qualcuno non venga a segnalarcelo». E di questo Malagò è informato.
Marco Mensurati per la Repubblica il 10 ottobre 2019. Dopo lo scandalo delle lettere con cui il presidente del Coni Giovanni Malagò invocava presso il Cio pesanti sanzioni contro l' Italia, dopo lo scoop del sito businessinsider.it sulle presunte irregolarità nell' elezione del presidente Gaetano Micciché alla guida della Lega di A (ieri la Figc ha aperto un fascicolo sul caso), un altro pasticcio sta agitando in queste ore lo sport italiano, acuendo l' ormai patente conflitto tra Malagò e il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora. Al centro di tutto c' è la nomina a Ceo del comitato organizzatore dell' Olimpiade invernale Milano-Cortina 2026. Il candidato del Coni è sempre stato il presidente e ad di Lamborghini, Stefano Domenicali (ex Ferrari). Il problema era convincere, oltre allo stesso Domenicali, anche gli altri stakeholders dei Giochi, il sindaco di Milano, Beppe Sala, il governatore del Veneto Luca Zaia e quello della Lombardia, Attilio Fontana, nonché il ministro Spadafora. Il punto non era tanto il nome (il manager è apprezzato da tutti) quanto la sua "candidatura" a trazione romana (Malagò), nonché la trasparenza del processo decisionale. Appena arrivato al Governo, Spadafora aveva chiesto notizie sullo stato della procedura in questione, scoprendo che il reclutamento era stato affidato all' head hunter Spencer Stuart. Ha chiesto dunque alla neonata società Sport e Salute, che dopo la riforma Giorgetti controlla il Coni, di vedere la lettera di incarico, scoprendo non senza una certa sorpresa (eufemismo) che questa non c' era, che l' incarico era stato affidato a Spencer Stuart, già fornitore del Coni dal 2013, non si sa da chi ("pare dal Coni", ma il Coni dice da Sport e Salute), non si sa come ("verbalmente"), né quando ("non si sa") e in cambio di quanto ("diecimila euro, forse"). Insomma, un disastro burocratico. Che ha fatto da preludio al suddetto pasticcio: lunedì, in una decisiva riunione a Verona, al ministro è stata sottoposta una lista di sei manager, poi ridotta a tre, nella quale non era presente il nome di Domenicali che fino a quel momento non aveva dato la sua disponibilità. Alla fine della riunione, durante i saluti finali, Malagò aveva alluso a un ultimo tentativo con Domenicali, le cui chance di successo erano state dichiarate minime dagli stessi cacciatori di teste. La riunione si era dunque chiusa così, con i tre nomi sul taccuino e con il ministro che aveva raccomandato trasparenza. Ieri mattina, la rottura: con il nome di Domenicali di colpo rientrato in lizza (anche se lui continua a dire di non aver mai dato il proprio consenso) e il ministro spiazzato. Il Coni finito sotto i riflettori, si è chiamato fuori, dicendosi "disinteressato" alla scelta del manager. Parole che hanno innescato la reazione del ministro che, sentitosi preso in giro e lamentando ormai una cronica carenza di chiarezza nei rapporti col Coni, ha deciso di emettere una nota formale in cui si è detto "sorpreso" visto che la scelta dell' head hunter «risulterebbe sia stata inizialmente indicata dal Coni ».
COSA CAMBIERÀ CON SPADAFORA MINISTRO DELLO SPORT? Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 5 settembre 2019. Sarà Vincenzo Spadafora il nuovo ministro delle politiche giovanili e dello sport. L' esponente pentastellato, uno dei «trattativisti» della prima ora sull' asse con il Pd, sarà dunque il titolare della delega fino a ieri nelle mani di Giorgetti. Si torna dunque al ministero dello sport, anche se senza portafogli. Spadafora, 44 anni, sottosegretario nel precedente governo Conte con la delega a giovani e pari opportunità, è nato ad Afragola (Napoli). È stato il primo garante per l' infanzia d' Italia e il più giovane presidente dell' Unicef. Politicamente, dopo Udeur e Verdi, è stato capo di gabinetto di Rutelli ai Beni Culturali e ha partecipato a Italia Futura con Montezemolo. Premesso che la parola sport non figura nel programma «ufficioso» di governo (dove c' è anche come ministro delle infrastrutture Paola De Micheli, presidente della lega volley femminile), che cosa significa la nomina di Spadafora? Assegnare al Pd la delega sarebbe stato dire: qui si cambia parecchio. Ma la mancata scelta di Simone Valente, papà della riforma con Giorgetti, da diversi anni plenipotenziario «sportivo» 5 Stelle, potrebbe rappresentare comunque una parziale discontinuità. La riforma, rivendicata da Conte come un successo anche nella prolusione antisalviniana al Senato, non è in discussione, si possono però immaginare correzioni nella sua messa a terra. Spadafora, che conosce da anni il presidente del Coni Giovanni Malagò, è un «tifoso» del professionismo femminile. Su facebook, ha salutato con entusiasmo la prima volta di un arbitro donna in una finale calcistica europea: «Segnale importante in uno sport da sempre maschio-centrico».
Matteo Pinci per la Repubblica il 5 settembre 2019. Dalla lite al divorzio, fino alle vendette. Lo sport è in guerra con se stesso: da una parte c' è Giovanni Malagò, presidente del Coni, dall' altra Rocco Sabelli, ad di Sporte e Salute, la nuova società voluta dall' ex sottosegreatrio Giorgetti che al Coni ha prima tolto un portafoglio da oltre 400 milioni all' anno e poi la gestione dei biglietti omaggio dell' Olimpico. Malagò ne aveva 536 a partita, in un anno fanno oltre 20 mila posti da spartire. «Clientele», per Sabelli, che ora gliene garantisce solo 20 (o 12 se gioca la Lazio). Malagò li ha rifiutati, ieri poi ha aperto una guerra del tutto personale durante la Giunta Coni, a cui ha detto di non voler avere più nulla a che fare con Sport e Salute, nonostante con loro avesse firmato un mese fa il perimetro di un contratto di servizio (che non ha presentato). Ha così annunciato il distacco a proprio favore di 110 dipendenti da Sport e Salute, a cui negherà il logo, il marketing (leggi gli sponsor, quindi soldi) ma soprattutto la "casa": «Si trovi una sede», lo sfratto di Malagò a Sabelli, che pochi giorni fa aveva chiesto al Coni un affitto da 1,479 milioni, ignorando che gli spazi di Palazzo H (e stadio dei Marmi), di proprietà del vecchio Iusm, sono in comodato al Coni fino al 2032. Come non bastasse, Malagò dopo la casa, toglierà al "nemico" Sabelli anche la macchina: le auto aziendali in uso sono frutto di un accordo Coni- Toyota, i dirigenti di Sport e Salute non le avranno più. Sabelli ci è ovviamente rimasto di sasso, ha denunciato «toni inaccettabili» e poi accusato Malagò di fare tutto ciò per un solo motivo: «La nuova policy sui biglietti sembra l' unica motivazione alla base di un così repentino cambio di atteggiamento» (ma nei posti riservati al cerimoniale di Stato, Sport e Salute ha invitato al derby il loro controllore della Corte dei conti). Una cosa è certa: un mese fa Malagò era lo sconfitto della nuova legge di riforma dello sport voluta dal governo gialloverde. Ora ha la forza per andare alla guerra. In mano, carte nuove servite dal governo giallorosso. Intanto il "nemico" Giorgetti, padre della riforma che al Coni ha tolto la gestione della cassa, è uscito dall' esecutivo. La delega allo sport è stata affidata a Vincenzo Spadafora: un M5S convinto, per l'ala oltranzista del Movimento una garanzia di continuità. Su cui però Malagò ritiene di poter fare leva, grazie al passato di forte vicinanza con Italia Futura del suo amico Montezemolo. In più al Mef, al posto di Tria (nominato in quota Lega), è subentrato Gualtieri, un dem d' acciaio. Non una scelta secondaria: proprio il Mef è azionista unico di Sport e Salute. Per questo intorno a Sabelli, lì imposto da Giorgetti, l' aria è pesante. E c' è chi immagina un suo passo indietro.
Fulvio Bianchiper repubblica.it il 5 settembre 2019. Una telefonata che spiega tutto: dopo aver tolto al Coni 540 biglietti della tribuna vip dell'Olimpico, lasciandogliene solo 12 quando gioca la Lazio e 20 quando gioca la Roma, Rocco Sabelli, n.1 di Sport e Salute, ha telefonato a Malagò. "Giovanni, pensavo che mi dicessi grazie". Malagò ci ha pensato una decina di secondi, ha risposto "ti ringrazio, ora ho capito chi sei" e ha chiuso la telefonata. Questi sono i rapporti. Una guerra totale. Frontale. Dovrà metterci mano in fretta il nuovo responsabile dello sport del governo, Spadafora, ora che Giorgetti non c'è più (ha scritto due lettere a Malagò). Rocco Sabelli, che ha parlato già con Zingaretti, è un manager: vuole avere le mani libere come in tutta la sua carriera. Se si trovasse in un clima ingestibile, potrebbe anche lasciare la carica di presidente-manager. Di sicuro Malagò e i suoi fedelissimi, dalla periferia a Roma, gli faranno la guerra, gli renderanno il lavoro complicato. Il nuovo clima politico cambia radicalmente gli scenari. La Giunta Coni ha scritto un documento, approvato da tutti, che delinea i contorni giuridici in vista di un (improbabile visto come stanno le cose) contratto di servizio. "Non c'è nessuna collaborazione tra Coni e Sport e Salute. Io credo di andare d'accordo anche con i muri, se rispetti me e l'istituzione che rappresento e dalla quale sono stato eletto. Se manchi di rispetto a me, manchi di rispetto al mondo dello sport". Le prime del presidente del Coni, Giovanni Malagò, al termine della Giunta. "Se non firmavo il contratto di servizio con Sport e Salute, il Coni andava potenzialmente sotto commissariamento". Non c'è nulla che funzioni. Malagò invita Sabelli a cercarsi un'altra destinazione, lasciando il Coni al Coni: ringrazia due volte Fabio Pigozzi, rettore dell'Università del Foro Italico ed ex membro di Giunta, per la disponibilità che ha dato in merito all'uso dei locali di Palazzo H (ci fu un lunghissimo contenzioso col Coni, risolto solo negli ultimi anni con buon senso da ambo le parti) e dello Stadio dei Marmi. Malagò invita anche Sabelli a farsi un suo logo." Chiederemo di cambiare il logo di Sport e Salute, non capisco perché devono usare un logo come il nostro. Faranno un altro logo, magari anche più bello". "Non voglio usufruire dei biglietti di Sport e Salute, solo così possiamo dimostrare che il Coni ha dignità". "Sabelli ha aperto un Audit sulla gestione dei biglietti - ha aggiunto il capo dello sport italiano al termine della Giunta - ma sarà un buco nell'acqua". Con una Pec l'ente presieduto da Rocco Sabelli ha comunicato che in dotazione al Coni andranno 20 biglietti per le gare della Roma e 12 della Lazio: "Lo stadio si chiama Olimpico - tuona Malagò - una proprietà del Coni pagato per intero dal Coni. Tutto spesato dal Coni, soprattutto con una tribuna che si chiama Coni. Il fatto è talmente grave, anche perché i biglietti Sport e Salute non li vende e non li potrà mai vendere. Questo è talmente uno sgarbo al Coni che adesso atleti e tecnici sono ospiti delle società e per questo devo ringraziare Lotito, Fienga, Baldissoni e Sky che si sono comportate in modo ineccepibile". "Ben prima delle questioni governative abbiamo iniziato a individuare all'interno del Coni un organigramma sulla base di questo budget e oggi la Giunta all'unanimità ha approvato questo documento: 110 persone che verranno distaccate per passare al Coni, né più né meno con la stessa formula del Comitato paralimpico". "Avevamo preso già prima della crisi di governo la decisione di staccarci, di fare qualcosa di piccolo o ridimensionato, sulla base dei 40 milioni di euro che il Coni avrà dal governo", ha spiegato ancora Malagò. Furibondo anche perché stanno facendo le pulci anche sulle note spese, l'uso della carta di credito: lui che si paga tutto da solo, compresa l'auto. Non prende denaro pubblico. Lo stipendio lo devolve in beneficenza. La sua conferenza è stata un crescendo di accuse. "Tutto parte dall'idea che non c'è nessuna collaborazione, non solo armoniosa, tra Coni e Sport e Salute. È un dato acclarato. Poteva funzionare solo con un'armoniosa collaborazione, ma essendo mancati da parte di Sabelli argomenti di rispetto, ognuno va per la sua strada". "E' incredibile l'ingerenza del presidente Sabelli che parla, non ho capito a che titolo, della questione dei rapporti tra Coni e Cio" ha spiegato Malagò, commentando quanto dichiarato dal presidente di Sport e Salute, Rocco Sabelli, secondo il quale "è pericoloso anche solo evocare il rischio di non partecipare all'Olimpiade" per la questione legata alla preoccupazione del Cio sulla legge di riforma del Coni. "Sarebbe bastato leggere la lettera inviata dal Comitato olimpico internazionale -ha proseguito Malagò- e firmata da James McLeod, dirigente del Cio preposto a tutte le attività e alle relazioni con i comitati olimpici nazionali. Quando parla lui, è come se parlasse Thomas Bach. Quando ci sarà la riunione proposta dal Cio con la presenza anche del governo? A Losanna sono costantemente informati sulla situazione e cercano di capire cosa succede". "Guerra totale tra Coni e Sport e salute. Nessun atto ufficiale ma un'incomunicabilità totale tra le persone che rappresentano i due enti". Lo spiega il presidente della Federazione italiana tennis, Angelo Binaghi, uscendo dalla Giunta. "Ho espresso la mia posizione di grande preoccupazione: ci sono Federazioni come la mia che svolgono importanti manifestazioni con Sport e Salute, ci sono Federazioni che hanno il presidente dipendente di Sport e Salute, ci sono comitati regionali con strutture parallele. Oggi si è decretata la fine dell'armoniosa collaborazione". "Mare molto mosso - ha aggiunto Binaghi - anche se altri colleghi si sono detti contenti perché si è finalmente definita la strada, ma lo scenario è complesso e senza precedenti nello sport italiano". "L'accordo di agosto con Sport e Salute? L'ho letto solo sui giornali non l'ho ancora visto, il 19 ce lo daranno", ha concluso. La data della prossima Giunta non è stata ancora fissata. In Giunta, Ricci Bitti, collegato in videoconferenza, è stato molto duro su Rocco Sabelli: "La sua è una provocazione ignorante". L'ex membro Cio, stimatissimo da Bach, ha ricordato che la società di servizi ha ambiti ben chiari e il Coni deve conservare le sue prerogative. Franco Carraro è stato chiarissimo: "Bisogna comunicare a chi viene che siamo in rottura totale". Anche Sergio D'Antoni è stato pesante, ricordando che il territorio è allo sbando. L'unico tema era di oggi il "rapporto fra Coni e Sport e Salute": vi è visto come è finito. "Siamo sorpresi per i toni e per il contenuto, da quando il Coni ha annunciato la firma dell'accordo con noi, ai primi di agosto, l'unica novità è la nostra policy sui biglietti della tribuna dell'Olimpico destinati allo sport sociale di base e ai dipendenti meritevoli, con conseguente fine delle clientele. Evidentemente Malagò ha perso il controllo dei nervi per questo". Sport e Salute, attraverso una sua fonte qualificata, risponde così - alle dichiarazioni "di guerra" del presidente del Coni. Sabelli ha accusato Malagò di "clientele", figuriamoci se potranno mai lavorare in sintonia. "Sorpresa per le inaspettate, ingiustificate e inaccettabili dichiarazioni rilasciate oggi dal presidente del Coni a margine della riunione della Giunta": è la replica in serata del presidente di Sport e Salute alle dichiarazioni di Malagò. "Nessuna insoddisfazione o critica erano finora emerse sulla qualità dei rapporti e sul rispetto reciproco che, difatti, avevano consentito la stipula dell'accordo del 6 agosto scorso - sottolinea in una nota Sabelli - Da allora ad oggi, causa anche la pausa estiva, non ci sono stati attività e atti ulteriori, eccezion fatta per l'adozione di una nuova policy adottata dalla Società per la gestione dei biglietti dello Stadio Olimpico. Una policy, peraltro, pienamente legittima, di buon senso, con indiscutibili vantaggi aziendali e collettivi e che, al contrario, sembra incredibilmente essere l'unica motivazione alla base di un così repentino cambio di atteggiamento". "Tuttavia - è la conclusione del presidente di Sport e Salute - gli sgradevoli toni usati oggi, cui Sport e Salute non intende dare alcun ulteriore seguito, non modificheranno né rallenteranno in alcun modo l'implementazione dell'accordo del 6 agosto scorso, che seguirà i tempi e le modalità previsti, in coerenza con il nuovo quadro normativo adottato per la riforma dell'ordinamento sportivo". La legge delega sullo sport votata a Senato, con il sì dei Cinque Stelle e il noto deciso del Pd, intanto ora è ferma. Non piace al Cio, che fine farà?
Dagospia il 6 settembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Leggo divertito su Dagospia un articolo de La Verità secondo il quale il CONI mi avrebbe regalato 15 biglietti a scrocco per partite all’Olimpico! Si da il caso che non frequento gli Stadi e che sono abituato a pagare i biglietti anche quando vado al cinema! Quindi i casi sono 3: o una svistona del giornalista, o una omonimia (quanti europarlamentari della Lega si chiamano Rinaldi?) oppure qualcuno che mi vuole tirare in ballo! Fate voi e ringrazio gli amici di Dagospia sempre disponibili ad ospitarmi. Antonio Maria Rinaldi
Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 settembre 2019. Con l'insediamento del nuovo governo giallorosso il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha ritrovato vigore e ha lanciato la sua crociata contro la nuova cassaforte dello sport italiano, la società Sport e salute. Quest' ultima è stata istituita con la legge di Bilancio del 2018, ha come azionista il ministero dell'Economia e finanza e risorse annuali per quasi 400 milioni di euro. Un tesoretto sottratto alla struttura di Malagò a cui sono adesso destinati solo 40 milioni, per la mission esclusiva di preparare gli sportivi per le Olimpiadi. Il casus belli che ha portato Malagò a denunciare una «mancanza di rispetto» è stata la decisione di sottrarre al Coni la gestione dei biglietti omaggio consegnati da Roma e Lazio come parziale contropartita in natura per l' utilizzo dello stadio Olimpico. Le due società di calcio pagano dai 3 ai 3,3 milioni di canone annui, ma ottengono uno sconto quantificabile tra i 500.000 e i 700.000 euro grazie ai tagliandi. In realtà i posti collegati ai preziosi ticket, pur non potendo essere venduti, hanno un valore commerciale molto superiore visto si trovano nella zona più ambita dello stadio. In questo momento la Sport e salute concede al Coni 20 biglietti omaggio per le partite della Roma e 12 per quelle della Lazio, oltre a 70 tessere stagionali. Prima la squadra giallorossa metteva a disposizione direttamente del Comitato olimpico (e ora di Sport e salute) 496 poltroncine: 19 palchi, 125 posti nella centralissima tribuna autorità, 172 in tribuna d' onore, 130 in Monte Mario, 50 in po' più defilati nei cosiddetti distinti. In tutto l' anno scorso ne sono stati occupati 8.856 con la Roma e 7.930 con la Lazio (che disponeva solo di una scorta di 305 biglietti a incontro) per partite di campionato e coppe: 16.786 ticket che hanno rallegrato pomeriggi e serate di centinaia di persone, spesso vip e politici. Un piccolo esercito che ha certamente risparmiato molti denari. Infatti la Roma vende la Tribuna 1927 a 380 euro, quella d' onore tra i 300 e i 220 euro e la Tribuna Tevere a «soli» 75 euro. Centoventicinque biglietti in Tribuna autorità, a questi prezzi, volendoli equiparare alla Tribuna d' onore più signorile, varrebbero 37.500 euro a incontro e una famiglia di quattro persone dovrebbe sborsare 1.200 euro per potersi gustare una partita da quella postazione privilegiata. Facendo una media al ribasso e assegnando a ogni tagliando un valore di 150 euro, potremmo dire che nell' ultimo campionato il Coni ha avuto a disposizione 2,5 milioni di euro di biglietti da donare, anche agli amici degli amici. Due giorni fa Malagò ha dichiarato: «Questo è talmente uno sgarbo al Coni che adesso atleti e tecnici sono ospiti delle società e per questo devo ringraziare Lotito, Fienga, Baldissoni (dirigenti di Roma e Lazio, ndr) e Sky che si sono comportati in modo ineccepibile». Ma dalla Sport e salute ribattono che sportivi e presidenti di federazione per le partite sono loro ospiti, mentre a perdere il posto saranno piuttosto politici, attori, giornalisti, magistrati e professionisti vari. La Sport e salute ha avviato due audit, inchieste interne, per verificare l' utilizzo che è stato fatto dei biglietti omaggio, ma anche per individuare eventuali conflitti d' interesse in capo a dipendenti della società. Il sospetto è che potremmo trovarci di fronte a una nuova Parentopoli, anche se gli accertamenti sono solo all' inizio. Ma torniamo ai biglietti. I primi risultati dell' audit hanno portato a individuare i maggiori utilizzatori di ticket gratuiti della scorsa stagione calcistica e tra questi molti non sono sportivi. Nell' elenco dei più assidui si trovano politici come Maurizio Gasparri (20 biglietti), Fabrizio Cicchitto e Fabio De Lillo (19), l' ex vicepresidente della Regione Lazio, Luciano Ciocchetti (15), Gerardo Labellarte (13), ex prefetti come Achille Serra (24), magistrati della Corte dei conti, l' organismo che dovrebbe fare le pulci anche alla gestione del Coni, come Antonella Menna, Marco Villani (entrambi 24), Roberto Benedetti, Giovanni Zotta (15), ex membri del Consiglio superiore della magistratura come Luca Palamara (15), protagonista del caso Csm, o Paola Balducci (14) o colleghi magistrati come Vincenzo Barbieri (13). Nella lista ci sono anche personaggi indicati alla voce «banche, assicurazioni» come Luigi Abete, Carlo Cancellieri e Adriano Ranucci (19), il giornalista sportivo Carlo Santi (22), l' ex sindacalista e politico Sergio D' Antoni (21), l' imprenditore Roberto Naldi (20), professionisti di grido come Francesco Cognetti (20), Guido Cecinelli (17) e Cesare San Mauro (16) o ancora boiardi di Stato come Calogero Mauceri (16). Hanno usufruito degli omaggi anche rappresentanti delle forze dell' ordine e dell' esercito. Tra i nomi emersi negli elenchi pure quelli degli attori Claudio Amendola (11) e Claudia Gerini (6). C'è poi la gara dei nuclei familiari. Il giudice Villani e i suoi parenti totalizzano in cinque la bellezza di 47 biglietti, i Ranucci 38 in due, Palamara e figli 30, i Ciocchetti 29, i familiari di Luca Cordero di Montezemolo 23, il politico Antonio Maria Rinaldi 15 tagliandi divisi tra 13 affini, Bruno, Federico e Daniele Vespa (11 solo quest' ultimo) 14, Giovanni Floris e i figli 13. L'inviperito Malagò ha invitato la Sport e salute a cambiare logo (uno scudetto tricolore) e sede (si trova come il Coni nel Palazzo H del Foro italico): «Io non posso mandare via nessuno, ma visto il clima creato suggerisco a Rocco Sabelli (presidente e ad di Sport e salute, ndr) di andare da un' altra parte». Sport e salute, invece, ribatte dei avere esattamente gli stessi diritti del Coni sull' immobile. Conclude Sabelli: «Penso non sfugga a nessuno che il vero obiettivo di questa scomposta polemica quello di alzare a tutti i costi i toni nel tentativo di forzare l' agenda della politica sullo sport e recuperare le posizioni perse».
Dagospia il 19 novembre 2019. DICHIARAZIONE GAETANO MICCICHE’: Desidero annunciare, con questa dichiarazione, le mie immediate dimissioni dalla carica di Presidente della Lega di serie A. Le indiscrezioni di oggi apparse sui giornali relative alla chiusura dell’istruttoria sulla mia nomina avvenuta 20 mesi fa e al suo possibile esito sono inaccettabili e mi impongono questa decisione. Non voglio entrare nel merito dello svolgimento dell’assemblea che mi ha eletto. Io non ero presente. Leggo solo un verbale firmato per accettazione da tutti gli azionisti presenti alla riunione alla quale hanno partecipato anche professionisti autorevoli e competenti come Gerardo Mastrandrea, Ruggero Stincardini, Ezio Simonelli, Paolo Nicoletti e il notaio Giuseppe Calafiori che, ognuno nel proprio ruolo, hanno vigilato sul corretto svolgimento dell’assemblea e nulla hanno avuto da eccepire. Sono stato chiamato in Lega con dichiarazioni unanimi di voto e le ho dedicato molto tempo ed energie. Ho trovato una Lega commissariata, completamente disorganizzata e che non aveva nemmeno la parvenza di una realtà efficiente. Tutti insieme, perché nessuno ha sollevato la benché minima obiezione in 20 mesi, e le delibere che abbiamo preso sono state prese tutte all’unanimità, abbiamo realizzato una serie numerosa di iniziative che andavano nella giusta direzione. Ci tengo ad evidenziarle:
Introduzione di nuovi criteri di rispetto di comportamenti e regole con l’obiettivo di operare nella ricerca dell’interesse generale;
Gestione della crisi relativa ai diritti 2018/2021 assegnati a MEDIAPRO, rilevatasi inadempiente contrattuale e conseguente decisione di risoluzione del contratto;
Nuovo bando di gara, in prossimità dell’inizio del campionato, con eccellenti risultati ed offerte molto superiori a quelle precedentemente ricevute ed arrivo di nuovo operatore Dazn che oggi comunque rende più competitivo il mercato;
Analisi, gestione e spesso risoluzione di numerosi contenziosi del passato;
Ripristino di una corretta governance della Lega con l’elezione dei consiglieri, dei consiglieri federali e del collegio dei revisori;
Nomina dell’Amministratore Delegato, dopo diversi mesi di stallo ed incertezze e nonostante le difficoltà derivanti da uno statuto che non consente di operare compiutamente secondo regole di normale corporate governance;
Negli ultimi 16 mesi il consiglio si è riunito 22 volte (una volta ogni due/tre settimane) per esaminare e discutere di ogni accadimento gestionale. Inoltre tutte le decisioni sono state sempre assunte all’unanimità, dimostrando una grande capacità di dialogo e di condivisione delle scelte. L’Assemblea dei soci, dopo il mio insediamento, si è riunita 21 volte ed ovviamente è sempre stata informata di tutto, anche di argomenti che non erano sottoposti a delibere assembleari;
E’ stato presentato, circostanza del tutto innovativa per la Lega, un dettagliato piano industriale, regolarmente approvato e che contiene le linee guida ed i budget per i prossimi anni;
Si è dato corso a tutta una serie di iniziative concrete nei confronti della pirateria, con importanti seppur ancora parziali successi. Mai sinora si era operato fattivamente in tale senso e ricordo che il danno per il mondo del calcio è ingente;
Siamo stati artefici di iniziative anti razzismo con azioni tuttora in corso di realizzazione;
Abbiamo tenuto una posizione chiara, definita, nei confronti di nuove iniziative internazionali relative al futuro delle coppe europee, rappresentando comunque il nostro pieno supporto alla ricerca delle migliori soluzioni che guardino al futuro del nostro calcio;
Sull’area dei ricavi si è avviata l’attività (come da piano industriale) per sviluppare le nostre presenze internazionali, con eliminazione di diversi intermediari, per ottimizzare la vendita dei diritti esteri e la ricerca di nuovi sponsor. Questa è l’area che vede la Lega Italiana con maggiore gap da colmare con le altre principali leghe internazionali;
Con due anni di anticipo si è avviata la procedura per ricercare la migliore soluzione per la vendita dei diritti nazionali e sono in corso alcune trattative per verificare le diverse opportunità operative che il mercato può offrire;
Si è dato corso (sempre come da piano industriale) all’inserimento in Lega di nuove figure professionali, stabili, che assicurano ed assicureranno la capacità di internalizzare ed anche migliorare parte delle operatività che oggi vengono svolte all’esterno, spesso con aggravio di costi ed incertezze nei tempi di realizzo;
Si è ripreso un dialogo con tutte le altre componenti e tutti gli stake holders ridando dignità e ribadendo il ruolo fondamentale ed imprescindibile della Lega A per lo sviluppo di tutto il movimento calcistico nazionale;
In poche parole, ho lavorato in questi mesi alla trasformazione del calcio, aggiungendo ai valori agonistici e sportivi, quelli di credibilità societaria, economica e prospettica. Ciò è indispensabile e propedeutico per l’arrivo di nuovi seri investitori, nuove grandi corporation in qualità di sponsor, nuova credibilità nei mercati finanziari. Una trasformazione che ha anche l’obiettivo fondamentale di avvicinare le famiglie e gli appassionati al mondo del calcio e dello sport in generale. Ringrazio tutti quelli che hanno lavorato con me e i giornalisti che mi hanno seguito con professionalità.
Emiliano Bernardini per ''Il Messaggero'' il 19 novembre 2019. L'attività istruttoria, è stata chiusa. A giorni, molto presumibilmente già domani, l'ufficio della Procura della Figc consegnerà al presidente della Federcalcio Gabriele Gravina la relazione conclusiva sulla presunta irregolarità dell'assemblea del 19 marzo 2019 con la quale venne eletto Gaetano Micciché come presidente della Lega A. Una volta che il numero uno di via Allegri avrà in mano il rapporto redatto dall'ufficio del procuratore Giuseppe Pecoraro, in cui verrà fatto un quadro giuridico di quello che è accaduto durante l'elezione e le eventuali violazioni in base a quanto stabilito dallo statuto, dovrà decidere come procedere. Al momento sono tante le strade possibili: dal dichiarare nulla l'assemblea alla nomina di un commissario ad acta. Domenica sera, a Palermo, il presidente di via Rosellini (presente per questioni familiari e ripartito ieri mattina per Milano dove oggi potrebbe incontrare Malagò) e Gravina per la Nazionale hanno parlato a lungo della questione relazionandosi su gli eventuali sviluppi. Il 25 novembre è prevista un'assemblea di Lega per la discussione dei diritti tv e al primo punto all'ordine del giorno c'è scritto: comunicazioni del presidente. L'istruttoria, una delle attività che rientra nei poteri di vigilanza delle Leghe da parte del presidente della Figc, prende il via dalle parole del numero uno del Genoa, Enrico Preziosi che aveva parlato di «non correttezza» della procedura di un'elezione per la quale, secondo statuto, ci sarebbe voluto lo scrutinio segreto e che invece avvenne per acclamazione. Il presidente dei rossoblù è stato ascoltato dalla Procura che ha acquisito anche l'audio di quella assemblea. Anziché la maggioranza qualificata a scrutinio segreto, Micciché aveva bisogno dell'unanimità per essere eletto, come prevede lo statuto per evitare il conflitto di interessi di chi ha ricoperto incarichi in istituzioni private di rilevanza nazionale in rapporto con i club o i loro gruppi di appartenenza. Lo scrutinio segreto fu accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche di voto (tutte a favore di Micciché). Nell'occasione l'allora commissario della Lega di A, Giovanni Malagò chiese al notaio Giuseppe Calafiori se la procedura fosse valida e ricevette risposta affermativa. Si votò e Micciché venne eletto per acclamazione, le schede non vennero scrutinate e sono tuttora custodite nell'urna elettorale sigillata e firmata dal presidente dell'assemblea Malagò, dal segretario Stincardini e dal giudice sportivo Mastrandrea. Questi ultimi due, peraltro, nulla hanno eccepito sulla validità della votazione.
Dagospia il 19 novembre 2019. Riceviamo da Antonello Valentini, ex direttore generale della Figc: Nel pranzo a 2 che hanno avuto oggi a Milano, con una mossa abile e disperata allo stesso tempo, Malagò è riuscito a convincere Miccichè al passo d’addio per salvare se stesso. La speranza del n.1 del CONI è che venendo meno il motivo del contendere, l’inchiesta della Figc sulle presunte irregolarità nell’elezione di Miccichè (da lui gestita come Commissario straordinario) esaurisca i suoi effetti e in sostanza si fermi senza individuare eventuali responsabilità. Com’è noto e come risulta dai verbali, le schede della votazione per il presidente della Serie A non furono mai scrutinate per decisione di Malagò che le fece sigillare in un plico custodito nella cassaforte della Lega. E proclamò Miccichè eletto per acclamazione. Per essere eletto, secondo lo Statuto modificato qualche settimana prima, a Miccichè serviva l’unanimità dei consensi, condizione indispensabile per superare l’incompatibilità con il ruolo di Consigliere di amministrazione di RCS, l’azienda editoriale (Corsera-Gazzetta dello sport) di Urbano Cairo, anche presidente del Torino. Toccherà ora al presidente del Collegio dei Revisori Simonelli indire nuove elezioni in Lega. In caso di flop, la Federcalcio sarà chiamata a nominare un Commissario straordinario per la Confindustria del pallone. Resta da vedere cosa deciderà ora il procuratore federale Pecoraro che ha già chiuso l’inchiesta e dovrà comunque esprimersi tra due sole alternative, di sua esclusiva competenza: archiviare o deferire eventuali responsabili del brutto pasticcio di Milano. Con le dimissioni, in ogni caso, Miccichè tutela anche la propria posizione di n.1 di Banca IMI e prende le distanze da una brutta storia nella quale è rimasto coinvolto suo malgrado.
Emiliano Bernardini per il Messaggero il 20 novembre 2019. Il calcio ha perso una grande occasione per diventare un' azienda capace di produrre profitti. Sicché, un anno e otto mesi dopo la Lega di serie A si ritrova punto e a capo: senza un presidente. «La chiusura dell' istruttoria sulla mia nomina avvenuta venti mesi fa e al suo possibile esito sono inaccettabili e mi impongono questa decisione». Recita così il lungo comunicato con cui Gaetano Micciché ufficializza le sue dimissioni da numero uno di Via Rosellini. Una decisione arrivata ieri subito dopo l' ora di pranzo che ha creato comunque un terremoto. Molti sono stati colti di sorpresa. Nonostante i tentativi per farlo recedere, il numero uno di Via Rosellini è rimasto fermo sulla sua decisione, troppa l' irritazione per quanto accaduto. Inutili le telefonate di alcuni presidenti e il colloquio con il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Curiosa anche la tempistica: il tutto arriva alla vigilia di una assemblea (in calendario lunedì) chiamata a votare sulla proposta di Mediapro e a pochi mesi dalla stesura del nuovo bando d' asta per i diritti tv del triennio 2021-2024. Il numero uno della Figc, Gabriele Gravina che nei giorni scorsi (anche domenica a Palermo) aveva parlato con Micciché, ha immediatamente convocato un consiglio federale. All' ordine del giorno una riflessione sulla possibilità che venga nominato un commissario ad acta per modificare lo statuto al fine di redistribuire i poteri tra presidente di Lega e Ad. A ispirare la riflessione proprio le parole di Micciché che denuncia le «difficoltà derivanti da uno statuto che non consente di operare compiutamente secondo regole di normale corporate governance». Nessuna volontà d' ingerenza ma la voglia di dare continuità ad una Lega di per sé funzionante. Il commissario avrà anche il compito di consentire che ci siano le condizioni per arrivare alle elezioni secondo dei tempi che verranno dettati dal Consiglio Federale. Il commissario, per volontà dello stesso Gravina, sarà una persona di garanzia dunque né un tecnico né un politico. Si fa il nome del professor Mario Cicala, nominato il primo ottobre scorso capo dell' Organismo di Vigilanza della Figc e membro dell' odv della Lega. Una Lega che si è subito mossa e ha convocato un' assemblea elettiva per il 2 dicembre a Milano. Senza un presidente e un vice (mai nominato) a guidare sarà l' ad Luigi De Siervo? Resta anche l' assemblea già convocata per lunedì 25 novembre in cui si parlerà di diritti tv e dell' offerta di Mediapro. Intanto oggi la Procura della Figc consegnerà al Gravina anche la relazione stilata dopo la chiusura dell' attività istruttoria. Quello che l' ufficio del procuratore Pecoraro ha sottolineato nel fascicolo è l' evidenza palese dell' irregolarità dell' assemblea. In particolar modo si dimostra la violazione dello statuto in quanto si è proceduto per votazione segreta e non scrutinio palese. In una subordinata c' è anche il fatto che il voto della Roma non sia valido. Nel verbale i poteri di voto vengono dati all' ad Gandini ma a votare è poi il dg Baldissoni. La norma dello statuto modificata dalla Lega (necessità dell' unanimità e non della maggioranza qualificata per chi ha ricoperto incarichi in istituzioni private che hanno rapporti con i club) aveva bisogno anche della ratifica della Figc. Firma che arriva però solo settimane dopo l' elezione. Nessuna conseguenza per Malagò allora commissario della Lega di A. Non ci sarà nessun procedimento. D' altronde esiste anche un parere del Collegio di Garanzia a firma di Franco Frattini (contenzioso con la Federnuoto del 2014) che sentenzia come il presidente del Coni non possa essere giudicato da un organismo endofederale. Tanto più che non era nemmeno tesserato per la Figc.
Alvaro Moretti per il Messaggero il 20 novembre 2019. Chi l' ha visto in queste ore lo descrive esattamente come lui descrive se stesso: fortemente irritato. Che è un eufemismo. Gaetano Miccichè non ha accettato di entrare nel calcio, a fare l' amministratore del condominio più imbizzarrito e meno educato d' Italia (la Lega di Serie A) per trovarsi in mezzo a vicende come queste. E, soprattutto, il banchiere Miccichè capisce molto bene i giochi triangolari: non è lui l' obiettivo della nuova instabilità di Lega, nata dall' inchiesta su un' elezione del marzo 2018; e non è casuale che tutto ciò avvenga - venti mesi dopo i fatti di cui alla relazione della Procura federale e dopo due pareri pro veritate favorevoli all' elezione per acclamazione - a meno di una settimana dall' assemblea della Lega Calcio chiamata a valutare l' offerta di Mediapro da 1,3 miliardi per entrare in possesso dei diritti della serie A dal 2021 e la nascita di un canale tematico (c' è anche la disponibilità a trattare di Dazn e Sky). Il presidente dimissionario, ieri, ha parlato con il numero 1 del Coni, Giovanni Malagò, che presiedeva quell' assemblea da commissario uscente e che lo aveva portato a Via Rosellini: «Come andò l' elezione di Gaetano Miccichè è sotto gli occhi di tutti, certificata dalle tante persone presenti. Condivido la scelta di Miccichè: questa non è una situazione normale».
LA DICHIARAZIONE. Sono arrivate anche le telefonate di chi vorrebbe farlo recedere dalla decisione assunta e annunciata con un comunicato. «Desidero annunciare, con questa dichiarazione - ha scritto ieri Miccichè - le mie immediate dimissioni dalla carica di Presidente della Lega di serie A. Le indiscrezioni apparse sui giornali relative alla chiusura dell' istruttoria sulla mia nomina avvenuta 20 mesi fa e al suo possibile esito sono inaccettabili e mi impongono questa decisione. Non voglio entrare nel merito dello svolgimento dell' assemblea che mi ha eletto. Io non ero presente. Leggo solo un verbale firmato per accettazione da tutti gli azionisti presenti alla riunione alla quale hanno partecipato anche professionisti autorevoli e competenti come Gerardo Mastrandrea, Ruggero Stincardini, Ezio Simonelli, Paolo Nicoletti e il notaio Giuseppe Calafiori che, ognuno nel proprio ruolo, hanno vigilato sul corretto svolgimento dell' assemblea e nulla hanno avuto da eccepire. Sono stato chiamato in Lega con dichiarazioni unanimi di voto e le ho dedicato molto tempo ed energie. Ho trovato una Lega commissariata, completamente disorganizzata e che non aveva nemmeno la parvenza di una realtà efficiente. Nessuno ha sollevato la benché minima obiezione in 20 mesi, e le delibere che abbiamo preso sono state prese tutte all' unanimità, abbiamo realizzato una serie numerosa di iniziative che andavano nella giusta direzione».
IL RUOLO FEDERALE. Molte responsabilità le ha il vertice Figc: secondo molti si poteva procedere diversamente, anche in presenza delle dichiarazioni di Preziosi sull' assemblea da inficiare. Si poteva dar seguito ai pareri pro veritate espressi. Ed evitare alla Lega, in una fase cruciale, di interrompere il cammino verso la normalità e la modernità intrapreso con grande impegno da Miccichè in questi mesi. Quel che più dispiace al banchiere è dover interrompere un lavoro di ricompattamento (per quanto possibile) di un gruppo di dirigenti, come sono i presidenti di serie A, che sembrano destinati all' anarchia.
Alessandro Catapano e Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 22 novembre 2019. Pressing su Miccichè. L' idea di risolvere la crisi della Lega puntando sul ripensamento del presidente uscente, diventa a sorpresa la strada su cui una solida maggioranza delle società, ma anche lo stesso Gravina e la Figc, si ritrovano a convergere. Se il telegramma ufficiale della giornata è «trovare il nuovo presidente nell' assemblea del 2 dicembre altrimenti arriva il commissario ad acta» - peraltro già designato, si tratta di Mario Cicala, ex presidente dell' Associazione Nazionale Magistrati e ora numero uno dell' organo di vigilanza della Figc - dietro le quinte ci sono lavori in corso. Per convincere Miccichè a rendersi disponibile per riprendere in mano la situazione. Gravina fa capire nella conferenza stampa che quella sarebbe la soluzione auspicabile. Dice semplicemente che spera in un ripensamento di Miccichè. Ma aggiunge che prima delle dimissioni, aveva provato con un tentativo dell' ultima ora a convincerlo con un discorso di questo genere: non sono stati ravvisati conflitti di interesse o rischi per la tua indipendenza, si può aprire l' urna e a quel punto 14 voti (e non più 20, l' unanimità) sarebbero sufficienti per garantire la legittimità della tua presidenza. Su percorso accelera Beppe Marotta, rappresentante della Lega Serie A in consiglio federale: «Siamo convinti che si debba e possa continuare il percorso di riforme avviato sotto la gestione Miccichè. Il presidente Gravina ha detto di non ravvisare conflitti di interesse né profili di incompatibilità. Cade così la pregiudiziale dell' unanimità, perciò basterà andare a vedere le preferenze con cui fu eletto per rendersi conto che fu la stragrande maggioranza. Come Gravina, pensiamo che Miccichè possa e debba ritirare le dimissioni. La Lega è compatta nel volerlo ancora presidente». Con lui molti club, dalla Juve al Toro, dalla Roma al Milan. La giornata era partita con la prevista spaccatura. Spinta di Gravina per il commissario ad acta, che avrebbe però solo - preciserà il presidente federale - «il compito di avere un rappresentante legale della Lega che al momento non c' è», e resistenza delle società. In un incontro preparatorio pre-consiglio, lo scenario cambiava colore. Con Gravina e Sibilia c' erano l' ad di Lega De Siervo, Lotito e Marotta. I toni a tratti non erano distesissimi, ma si trovava un accordo: commissario ad acta sì, con la «piena legittimità degli altri organi della Lega» sottolinea De Siervo, ma solo in caso di mancata elezione del nuovo presidente il 2 dicembre. Il commissario potrebbe affrontare, ma coinvolgendo l' assemblea, la spinosa questione dello statuto della Lega: «Uno dei motivi delle dimissioni di Miccichè era proprio il fatto che non si ispirava a un'efficace gestione aziendale - spiega Gravina - Uno statuto fatto veramente male». Il presidente federale parla anche dell' imminente discussione sui diritti tv : «Siamo azionisti di minoranza di quelle partita. Vogliamo essere coinvolti, ma non lo siamo stati finora. È una vicenda che riguarda non solo il calcio o la serie A, ma l' intero sistema sportivo». Ma il ragionamento sul futuro della Lega non significa ignorare quella che per Gravina «è stata una leggerezza, il tentativo di risolvere un problema statutario con un voto palese». Nella relazione consegnata dal procuratore federale Giuseppe Pecoraro si parla di «plurime illegittimità» dell' assemblea del 19 marzo 2018: l' utilizzo di una modifica dello statuto di Lega non ancora approvata dalla Figc e il mancato rispetto dell' obbligo del voto segreto, «una palese violazione». Questa «leggerezza», dice ancora Gravina, non è un problema di una o due persone perché in quella sala «ci furono tanti protagonisti». Non Miccichè, che molti vorrebbero di nuovo al timone.
Giuliano Balestreri it.businessinsider.com il 21 novembre 2019. Lo stato di salute del calcio italiano è tutto in questo audio. Dopo l’apertura di un’indagine da parte della Procura federale sull’elezione di Gaetano Miccichè a Presidente della Lega (18 marzo 2018) e le sue dimissioni (19 novembre 2019), la registrazione che Business Insider Italia pubblica in esclusiva mostra come la Serie A sia spaccata e incapace di darsi una qualsiasi governance. Peggio, non sembra in grado di decidere dove andare nei prossimi anni, ostaggio di 20 presidenti che non vanno d’accordo su nulla. Nella traccia audio si sente il presidente del Napoli, Aurelio de Laurentiis, invocare chiarezza, quello del Genoa, Enrico Preziosi, che protesta, dicendo di votare per Miccichè, salvo poi mandare a votare l’ad del Genoa Zarbano per tenersi le mani libere (saranno le sue dichiarazioni a Business Insider Italia a far aprire l’inchiesta della procura). Giovanni Malagò, presidente del CONI e all’epoca commissario della Lega, chiede invece in ogni modo di non votare a scrutinio segreto perché “c’è un verbale” e perché “l’ho già fatto”. Quello che emerge con chiarezza è che il 18 marzo 2018 c’era un’intesa tra alcune squadre affinché l’assemblea eleggesse Miccichè presidente, ma era evidente che mancasse l’unanimità prescritta dallo statuto. E Malagò fece di tutto per raggiungere l’obiettivo.
I momenti salienti dell’assemblea del 18 marzo scorso:
minuto 00.35: Scontro tra il presidente del Coni Malagò e quello del Napoli, Aurelio De Laurentis, il quale dice: “Io preferisco starne fuori” (min. 01.29);
min. 07.50: Malagò chiede l’elezione per acclamazione del presidente;
min. 08.55: il presidente della Sampdoria, Ferrero, protesta per il colloquio separato in corso tra de Laurentis e Malagò;
min. 09.38: Malagò spiega a Ferrero che deve convincerlo “sennò salta tutto”;
min. 15.30: Malagò si dice convinto di procedere con lo scrutinio segreto;
min. 16.03: Ferrero si preoccupa dei voti non favorevoli nell’urna, definendo la votazione per scrutinio segreto “Una buffonata”;
min. 16.27: inizia l’appello nominale;
min. 16.58: Malagò: “Chi vuole vota davanti a lui (al notaio, ndr) e poi consegna la scheda …, l’ho fatto mille volte nella mia vita”;
min. 17.14: Il segretario Stincardini ribadisce che “il voto deve essere segreto”. Malagò risponde: “C’è gente che è preoccupata”;
min. 17.52: Ferrero manifesta la paura che non ci siano i voti (i 20 necessari per raggiungere la richiesta unanimità, ndr) nell’urna: “Se fa 18 è finita”;
min. 18.43: Lotito richiama il voto segreto e Preziosi inveisce: “Che te ne frega, se tutti so’ d’accordo?”. Lotito risponde: “Allora fallo palese… è nullo!”;
min. 20.56: Il presidente Preziosi non partecipa al voto, manda al suo posto l’ad del Genoa Zarbano;
min. 28.10: Il vicepresidente della Roma, Mauro Baldissoni richiama le due precedenti assemblee informali tenutesi per concordare la candidatura di Micciché e chiede a tutti i presenti di rinunciare allo scrutinio segreto per evitare l’imbarazzo della mancanza della necessaria unanimità;
min. 29.14: Malagò chiede: “Si può fare?”. Baldissoni invita chi non ha votato Micciché a dirlo apertamente;
min. 33.15: dall’assemblea dicono di aprire le schede (votate e chiuse nell’urna, ndr) e verificare i voti (e l’esistenza dell’unanimità necessaria, ndr). Malagò dichiara che: “Le schede non si aprono più…”. Nicoletti precisa che l’elezione non è avvenuta per acclamazione, ma per spontanea dichiarazione avvenuta dopo la votazione segreta.
Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. «Guardi, io non sono offeso per il comportamento che ho subito. Casomai dispiaciuto perché ritenevo che, con me alla guida della Lega, il mondo del calcio potesse avviarsi verso un processo di normalizzazione e di sviluppo». Gaetano Micciché, presidente di Banca Imi, ex numero uno della Confindustria del pallone, dimissionario il 19 novembre scorso, è più incredulo che arrabbiato dopo aver lasciato via Rosellini in seguito all' apertura dell' inchiesta della Procura federale. Le dichiarazioni del presidente del Genoa, Enrico Preziosi, che hanno sollevato dubbi sulla regolarità della procedura di elezione di Micciché nell' assemblea del 19 marzo dello scorso anno rappresentano solo la punta dell' iceberg di un attacco volto a decapitare i vertici della Lega. Di questo è convinto l' ex presidente che, nel luminoso ufficio che si affaccia su Piazza della Scala, riflette sui venti mesi al comando del palazzo dei veleni.
«Sono nel mondo delle imprese da oltre 40 anni e posso dire che tutti i risultati raggiunti sono dovuti anche alla qualità delle persone di cui mi sono circondato. Fra le mie caratteristiche riconosco la passione e il tentativo di contribuire alla crescita, anche occupazionale, delle aziende per cui ho lavorato. Quando Malagò, che conosco da anni, persona che stimo e a cui mi unisce una grande passione sportiva, mi ha chiesto di occuparmi della Lega commissariata io neanche sapevo dove fosse ubicata la sede. Non ne percepivo completamente le potenzialità: ecco, dopo venti mesi posso dire di essere dispiaciuto. Non tanto per me, quanto per le opportunità che si perdono nella realizzazione di progetti di interesse generale».
Si spieghi.
«Il calcio di oggi è un' industria che genera all'erario un miliardo di contributi annui con cui peraltro si mantengono anche tutti gli altri sport. Il mio obiettivo e forse illusione era far diventare la Lega una realtà di successo e sana, a livello delle migliori europee. Invece sin dal primo momento mi sono imbattuto in una cultura radicata in molti, caratterizzata da mancanza di fiducia, scarsa volontà di delegare e ricerca di interessi personali anziché generali. Nonostante ciò nei venti mesi della mia presidenza tutte le delibere sono state approvate all' unanimità, e quello che proponevo era nell' interesse di tutti».
Il suo modo di fare super partes ha dato fastidio a qualcuno?
«Diciamo che i miei comportamenti, che sarebbero naturali in ogni azienda, in quel contesto erano percepiti come un fastidio da parte di chi si sentiva depauperato di un proprio beneficio».
L' ha sorpresa l' agguato a De Siervo con la diffusione dell' audio sui cori razzisti?
«Premesso che De Siervo stava facendo un discorso molto più ampio su come combattere il razzismo, ed estrapolare venti secondi è ignobile, credo che sarebbe stato doveroso inviare alla Procura della Repubblica il file audio per denunciare chi aveva registrato la discussione in Consiglio invece di farla uscire sui giornali».
È un colpo di mano per decapitare la Lega?
«Certamente adesso la Lega ha un suo consiglio di amministrazione che rischia di essere azzerato. Mi dispiace da italiano, perché ci sarebbe stato ancora molto da fare per valorizzare un settore così importante e trasversale. Di interesse di giovani, anziani, donne, uomini e persone di tutti i ceti sociali».
La Procura federale ha aperto inchieste prima su di lei e poi su De Siervo. Ha la percezione che la Figc tenti un' eccessiva ingerenza nelle questioni di via Rosellini?
«Non amo fare dietrologie. È certo però che nel mio caso si indagò sulla base di dichiarazioni anonime e di una frase di un presidente di società rilasciata a un sito online. Incredibilmente dalla stessa persona che in assemblea aveva votato a mio favore e nell' audio si raccomanda di fare in fretta a votare per acclamazione. Per De Siervo poi la Procura apre un' inchiesta per una registrazione parziale di concetti più ampi e delicati discussi in Consiglio. In entrambi i casi mi fanno riflettere i comportamenti. Lo dico da dirigente e da cittadino».
Rivedendo il film della sua presidenza, tornando indietro accetterebbe ancora l' incarico?
«Anche con maggiore entusiasmo di allora avendone appieno compreso le potenzialità e il grande lavoro da poter realizzare. In fondo il calcio è il nostro Paese, è uno dei modi con cui l' Italia nella sua bellezza e competenza si fa apprezzare internazionalmente. Così come il lavoro delle nostre tante imprese eccellenti che ho sempre seguito e guidato».
Ha pagato il fatto di essere stato critico verso Mediapro?
«Non lo sono stato verso il gruppo spagnolo ma nei confronti del contratto che era stato proposto. La correttezza del mio pensiero è dimostrata dal fatto che l' assemblea ha bocciato quella proposta, dando mandato a De Siervo di apportare modifiche».
Qualche presidente le ha chiesto di tornare?
«Sì, ma in questo momento lo ritengo impossibile».
A suo avviso la Lega arriverà a eleggere un presidente o si va verso un commissariamento pieno?
«Mi auguro che si possa ritornare a una governance regolare e spero che il ministro Spadafora, che è persona appassionata e competente, vigili su questa fase così delicata per il calcio italiano».
Cosa le ha lasciato l' esperienza in via Rosellini di positivo?
«Ho conosciuto persone in gamba, manager e tanti imprenditori del settore appassionati e competenti. In questi mesi abbiamo contribuito ad accrescere il ruolo della Lega con iniziative contro la pirateria, il razzismo e la violenza sulle donne. Ho introdotto regole di rispetto, di buon comportamento e avevo eccellenti rapporti con Infantino e Ceferin che sarebbero stati importanti in prospettiva per la crescita che immaginavo».
Come vede il 2020 per il calcio italiano?
«Intanto ci sono gli Europei e mi preme sottolineare che Mancini, voluto da Malagò d' accordo con i Commissari dell' epoca, Fabbricini e Costacurta, sta svolgendo un ottimo lavoro. E poi al termine dell' Olimpiade, nella quale sono certo l' Italia si farà onore, ripartirà la kermesse elettorale per tutte le componenti».
Paolo Ziliani per il Fatto Quotidiano il 25 novembre 2019. Facce da culo. Chiedo scusa per la crudezza dell' incipit, ma poichè anche il dizionario Treccani contempla l' espressione, ormai in uso comune, e ne descrive il significato ("avere una faccia di culo, o da culo": dicesi di persona sfacciata, sfrontata, senza ritegno), la notizia è che oggi, lunedì 25 novembre 2019, all' assemblea della Lega di serie A che dibatterà il tema della vendita dei diritti televisivi 2021-2024 (a Mediapro? A Sky?) presenzieranno 20 presidenti che hanno appena mostrato di avere, per l' appunto, la faccia come il culo. Persone senza ritegno, per dirla con la Treccani, esattamente come il personaggio (Giovanni Malagò, presidente del CONI ) che nel febbraio 2018 fu nominato commissario della Lega e che guidò i nostri prodi, nell' assemblea elettiva del 19 marzo 2018, alla nomina di Gaetano Miccichè calpestando tutte le regole calpestabili. Un' orda di vandali di leggi e regolamenti, la banda Malagò & friends, che non conosce vergogna e - incredibile a dirsi - non si pente e non si rassegna e persevera. L'inchiesta condotta dal procuratore federale Pecoraro sull' elezione-truffa del presidente di Lega parla di una nomina, quella di Miccichè, avvenuta tra "plurime illegittimità"; per dirne un paio, Malagò aveva riscritto nottetempo lo statuto inserendo una norma ad personam che rendeva Miccichè eleggibile senza nemmeno aver chiesto l' approvazione della modifica alla federazione; per non parlare della sua spudorata decisione di non scrutinare le schede nell' urna, visto che anche una sola scheda bianca avrebbe fatto crollare il castello di carta dei "topi di città", leggi Juventus, Roma, Milan, Inter, Torino, Sampdoria & company opposti ai "topi di campagna", e cioè Napoli, Lazio, Genoa e pochi altri. Ebbene: spalleggiati dai trombettieri di corte, guidati come sempre dai marines de La Gazzetta dello Sport ("L' elezione di Miccichè non ha nulla di opaco - scriveva testualmente la rosea all' indomani delle dimissioni del presidente -, lo ha semmai la manovra che lo ha spinto alle dimissioni proprio alla vigilia della discussione sui diritti tv. Agitare l' argomento della presunta irregolarità del voto a oltre un anno dalla standing ovation con cui fu salutata la nomina, è un altro discutibile capitolo della storia della Lega di serie A"), i nostri prodi, dicevamo, si sono subito buttati lancia in resta nella nuova battaglia: rimettere Miccichè sulla poltrona di presidente di Lega e chissenefrega se il nostro eroe siede nel Cda della RCS di Urbano Cairo, presidente del Torino, e se la banca IMI che presiede cura il titolo azionario della Juventus e ha come debitori svariati presidenti di serie A con le pezze al culo, per dirla con un altro francesismo. E poiché CONI , FIGC e topi di città altro non sono che le facce della stessa medaglia, tre cuori e una capanna, ecco spuntare da ogni dove entusiastici endorsement pro-Miccichè: "Spero che Miccichè ci ripensi e ritiri le dimissioni", dice Gravina, presidente FIGC ; e a dargli man forte arriva Urbano Cairo, l' uomo che ha in mano Corriere e Gazzetta, e persino Beppe Marotta, fino a ieri boss della Juventus, oggi boss dell' Inter (anzi, per meglio dire: dell' Jnter). Non ci permettono di calpestare le regole? E noi le calpestiamo lo stesso. Così vanno le cose nel carrozzone dello sport italico: una vergogna a cielo aperto.
Ecco il verbale dell’assemblea di Serie A: Malagò scavalcò lo Statuto per far eleggere Micciché. Giuliano Balestreri il 4 ottobre 2019 su it.businessinsider.com. Il 19 marzo 2018 Micciché fu eletto presidente della Serie A per acclamazione e per decisione del presidente del Coni, all’epoca commissario della Lega Calcio, Giovanni Malagò, le schede poste nell’urna non furono mai scrutinate. Tradotto: Miccichè fu eletto alla guida della Confindustria del pallone in violazione allo stesso Statuto della Serie A. Motivo per cui la fronda a lui contraria punta sulla nullità dell’elezione stessa. D’altra parte se da regolamento per impugnare un’assemblea ci sono 30 giorni di tempo, dall’altra c’è il codice civile sulla base del quale per far dichiarare la nullità del voto non c’è prescrizione. Nel mirino dei frondisti guidati dall’asse Preziosi-Lotito secondo cui “il 70% delle squadre non è contento della gestione della Lega” c’è anche il presidente del Coni, Malagò: fu lui nella veste di commissario a guidare l’assemblea incriminata. E fu lui a decidere di non scrutinare le schede, ancora conservate nella cassaforte della Lega Calcio. Dal verbale in possesso di Business Insider Italia emerge con chiarezza come Andrea Agnelli (Juventus), Mauro Baldissoni (Roma) e Malagò abbiano prima proposto poi insistito perché si votasse per acclamazione anziché a scrutinio segreto come previsto dall’articolo 9, comma 8, dello Statuto secondo cui “tutte le votazioni che riguardano persone devono tenersi a scrutinio segreto”. Il primo a prendere la parola, al termine del dibattito, è Agnelli “propone, visti gli esisti della riunione informale del 5 scorso, di procedere all’elezione del candidato per acclamazione”. Il rischio che Micciché, nel segreto dell’urna, venga impallinato da qualche franco tiratore è alto e per questo Malagò “condivide” “proponendo l’elezione per acclamazione”. A evitare la violazione immediata dello Statuto sono Simonelli, presidente dei revisori, e il giudice sportivo Mastrandrea (presidente anche dell’Ufficio legislativo del Mef, ndr): entrambi ritengono che l’unica modalità possibile sia quella dello scrutinio segreto. Malagò dispone quindi che si “proceda nella forma regolamentare”: vengono così distribuite le schede di voto e i delegati vengono chiamati a “esprimere segretamente il voto” e a “depositarlo in un’urna chiusa”. Terminate le operazioni, ma prima dell’inizio dello scrutinio, tocca a Baldissoni, amico di Malagò, prendere la parola e dichiarare “di voler comunicare ed esprimere in modo palese il proprio voto a favore del candidato” Miccichè quale presidente della Lega. Di seguito intervengono tutte le altre società esprimendo il loro voto a favore, ma facendo così cadere il principio di segretezza. A questo punto per evitare il rischio di franchi tiratori e probabilmente per non gettare scompiglio all’interno della Lega, Malagò prima proclama eletto Micciché, poi “dispone che le schede votate non siano scrutinate, ma siano inserite in un plico sigillato e conservate nella cassaforte della Lega”. Nessuno – compresi Mastrandrea e Simonelli – si oppone. Resta dunque il dubbio su quante schede a scrutinio segreto sia scritto il nome Micciché, ma c’è la certezza che la sua elezione sia avvenuta per acclamazione a voto palese: in assoluto contrasto con lo Statuto. Certo con una dichiarazione unanime l’assemblea ha di fatto rinunciato al diritto al voto segreto, ma ciò non impedisce che qualcuno rivendichi di essere stato costretto a votare in quel modo dalla “situazione ambientale”. L’elezione potrebbe quindi essere dichiarata nulla portando alla decadenza il presidente della Lega, ma a rischiare più di tutti, se ci fosse un deferimento, sarebbe Malagò: in caso di squalifica perderebbe la poltrona di presidente del Coni. Uno smacco enorme dopo aver ottenuto le Olimpiadi invernali 2026.
Giuliano Balestreri per it.businessinsider.com il 9 ottobre 2019. Un presidente non indipendente, uno statuto non approvato dalla Figc e uno scrutinio palese anziché segreto. Secondo la procura federale, l’assemblea della Serie A che il 19 marzo 2018 ha portato Gaetano Micciché alla guida della Confindustria del pallone merita di essere riesaminata e per questo – a quanto appreso da Business Insider Italia – è stata aperta un’inchiesta: verrà domandato alla Lega l’accesso agli atti e saranno sentiti i tesserati per capire davvero cosa sia successo quel giorno. Poi il procuratore Giuseppe Pecoraro deciderà se procedere ai deferimenti. Di certo sono tanti i tasselli da incastrare. A cominciare dall’attivismo del presidente del Coni, Giovanni Malagò, che fece di tutto per non arrivare allo scrutinio delle schede. Malagò probabilmente temeva che nel segreto dell’urna qualcuno avrebbe potuto tradire il patto e un solo voto sarebbe stato sufficiente a far perdere la poltrona a Miccichè. Al di là degli auspici, l’unanimità del voto era la conditio sine qua non per la sua nomina: è messo nero su bianco all’interno dello statuto approvato in fretta e furia mezz’ora prima dell’elezione. Uno statuto che avrebbe avuto l’ok dalla Figc solo una settimana dopo e per questo non ancora in vigore al momento del voto. Secondo l’articolo 14 dello statuto della Serie A, Micciché avrebbe avuto 15 giorni di tempo per lasciare Rcs, ma banchiere non ha mai manifestato l’interesse a lasciare il cda di via Solferino per via Rosellini. Anche per questo, le procura federale vuole fare chiarezza. Quando si apre l’assemblea del 19 marzo 2018, ai sensi dello statuto in vigore dal 7 novembre 2017 Micciché non sarebbe candidabile: presidente e amministratore delegato, infatti, devono essere indipendenti, ma il presidente di Imi non ha i requisiti richiesti. E’ previsto, infatti, che non abbia “alcun rapporto a qualsiasi titolo con le società associate, e/o con gli azionisti di riferimento e le controllate delle società associate, e/o con il gruppo di appartenenza delle società associate, e/o con altra lega professionistica”. Si specifica quindi che “presidente e amministratore delegato devono essere necessariamente indipendenti”. Un requisito che ai termini di regolamento Micciché non può avere perché dal 2016 siede nel consiglio di amministrazione di Rcs in quota Cairo Communications, la società di Urbano Cairo, numero uno del Torino. Peraltro, Micciché è stato confermato nel cda di Rcs la scorsa primavera ed è il banchiere che aiutò Cairo a scalare Rcs sfidando apertamente Mediobanca. Per risolvere l’impasse si lavora a una soluzione dell’ultimo minuto con l’ennesima modifica statutaria: si cambiano le maggioranze qualificate (articolo 9.6.c e 9.6.d), ma soprattutto si aggiunge una frase che sembra scritta ad hoc per Micciché: “Con riferimento alla sola figura del presidente, l’assemblea, con voto unanime, può eleggere un presidente che, in virtù di incarichi di rappresentanza e/o amministrazione ricoperti in un’istituzione privata di rilevanza nazionale abbia rapporti con le società associate, e/o con gli azionisti di riferimento e le controllate delle società associate, e/o con il gruppo di appartenenza delle società associate, e/o con altra lega professionistica”. Tradotto: con il voto unanime, il conflitto d’interesse e la causa di ineleggibilità di Micciché vengono a cadere. Tra l’altro come ricorda il presidente in apertura di assemblea il numero uno della Juventus, Andrea Agnelli, già il 5 marzo ci sarebbe stato un accordo informale, ma all’unanimità su Micciché. Infine, per validare l’elezione, lo statuto dovrebbe essere in vigore: passeranno sette giorni prima che arrivi la delibera della Figc. L’ok del commissario Roberto Fabbricini – nominato da Malagò prima che lui stesso nominasse Malagò commissario per la Serie A – potrebbe essere arrivato in via informale alla Lega, ma nel verbale non c’è alcuna traccia. Il via libera senza rilievi dovrebbe quindi sanare la situazione, ma lascia molti dubbi sulle modalità e sulla fretta con cui la Lega si sia data un presidente che – peraltro – sarebbe entrato in carica solo due mesi dopo. E sul perché le schede non siano mai state scrutinate. Per la Lega di Serie A, però, tutto si è svolto nella massima regolarità.
Paolo Ziliani per il “Fatto quotidiano” il 21 ottobre 2019. E fu così che il Commissario finì per essere commissariato. Nel baraccone del calcio italico gli imbrogli sono ormai all' ordine del giorno; e ora che la notizia dell' inchiesta aperta sull' elezione di Miccichè a presidente di Lega, avvenuta come pare nella più totale illegalità, è diventata ufficiale, lo scenario più probabile appare il seguente: Giovanni Malagò, il presidente del Coni che il giorno dell' elezione (19/05/18) vestiva i panni di Commissario della Lega, rischia il commissariamento del Coni e la perdita della poltrona su cui siede da sei anni; Gaetano Miccichè, presidente di Lega, rischia di essere dichiarato decaduto (o di recitare la parte dell' offeso giocando d' anticipo e dimettendosi); e in quanto ad Andrea Agnelli, presidente Juventus, e a Mauro Baldissoni, vice presidente Roma, sul loro capo pende la spada di Damocle di una squalifica. Il tarocco della nomina di Miccichè porta in bella evidenza anche la loro firma. Come forse non tutti sanno Miccichè, proposto ai club da Malagò, era ed è ancora presidente di quella Banca Imi che ha come debitori molti presidenti ed era ed è ancora membro del cda di RCS (leggi Urbano Cairo, presidente del Torino). Essendo il conflitto di interessi di evidenza lampante, a norma di statuto avrebbe dovuto essere eletto non a maggioranza ma all' unanimità. Cosa successe invece? Successe che Agnelli, con la benedizione di Malagò, ne propose l' elezione non a scrutinio segreto (come previsto dallo statuto) ma per acclamazione; la manovra venne sventata dai garanti Mastrandrea e Simonelli che richiamarono tutti al rispetto delle regole; venne quindi effettuato il voto segreto al termine del quale, come da verbale dell' assemblea, Baldissoni rilanciò la proposta di elezione per acclamazione; molti si dissero d' accordo e Malagò, che dell' assemblea era presidente, dichiarò eletto Miccichè e ordinò che i voti non fossero scrutinati ma sigillati in un plico e chiusi a doppia mandata nella cassaforte della Lega. Un vero e proprio scasso delle regole. Ebbene. Sia pure fuori tempo massimo, i peones della serie A che non si riconoscono nella banda che fa capo ad Agnelli-Cairo-Baldissoni (leggi la cricca Lotito-Preziosi & company) ha denunciato alla Procura Figc l' irregolarità; a farlo è stato il presidente del Genoa Preziosi che sarà il primo ad essere interrogato da Pecoraro (dopo di lui toccherà a Malagò). Domanda: secondo voi che nome aveva scritto Preziosi sul suo foglietto nel segreto dell' urna? Noi escluderemmo Miccichè. E in ogni caso, un solo biglietto senza quel nome avrebbe reso impossibile la nomina del sodale di Cairo a presidente. Pecoraro ha chiesto di ascoltare i file audio dell' assemblea-truffa e farà, alla fine, quel che Malagò si è rifiutato di fare in sede di votazione, chiederà di togliere il sigillo al plico dei voti e li andrà a leggere: per vedere se il nome di Miccichè figuri su tutti e 20 i biglietti. Non fosse così, il castello di sabbia crollerebbe miseramente. Oggi i presidenti si riuniscono in assemblea per decidere se accettare o meno la ricca offerta di Mediapro per i diritti tv del triennio 2021-2024, che poi è il vero motivo del contendere. Sarà guerra senza esclusione di colpi tra i filo-Sky (Agnelli) e i filo-Mediapro (Lotito). Col golpe-Miccichè, il coltello dalla parte del manico sembrano averlo ora i peones. Chi vivrà vedrà.
(ANSA il 22 ottobre 2019) - Di fronte all'inchiesta aperta dalla Procura della Federcalcio sulla sua elezione a presidente della Lega Serie A il 19 marzo 2018, Gaetano Miccichè si considera tutto al più "parte lesa". Lo ha detto chiaramente ai dirigenti delle venti società aprendo l'assemblea con un discorso in cui ha definito "singolare" il comportamento del presidente del Genoa, Enrico Preziosi, dalle cui dichiarazioni dei giorni scorsi è partita l'istruttoria del procuratore federale, Giuseppe Pecoraro. Nel suo discorso di dieci minuti, il presidente della Lega Serie A ha sottolineato che Preziosi a distanza di un anno e mezzo (nelle dichiarazioni da cui è partita l'istruttoria) ha espresso dubbi sulla regolarità della procedura elettiva pur avendo al tempo il Genoa votato a favore di Miccichè in sede di votazione palese e approvando successivamente il verbale dell'assemblea. Quel verbale sarà inviato domani, o comunque a breve, alla Procura Figc, assieme all'audio di quell'assemblea, in cui non furono scrutinate le schede messe nell'urna con voto segreto obbligatorio, accompagnato dalle dichiarazioni pubbliche tutte a favore di Miccichè, che aveva bisogno dell'unanimità per superare il conflitto di interessi, in quanto presidente di Banca Imi e membro del cda di Rcs. Pecoraro dovrebbe iniziare le sue audizioni da Preziosi e dal presidente del Coni, Giovanni Malagò, che in veste di commissario della Lega all'epoca indicò ai club il nome di Miccichè. Il banchiere nel suo discorso ha rivendicato i suoi 19 mesi di lavoro, sottolineando fra l'altro che consiglio e assemblea di Lega si sono riuniti più di venti volte, prendendo decisioni all'unanimità, "tra le più rilevanti l'assegnazione dei diritti tv per il 2018-21, con un sostanziale incremento e il record di ricavi per la Lega". All'orizzonte c'è l'assegnazione per il prossimo triennio. L'assemblea ha rinnovato il mandato a Miccichè e all'ad Luigi De Siervo per completare la negoziazione con Mediapro, alla luce del fatto che le obiezioni sulla solidità economico finanziaria del gruppo spagnolo sono state superate in seguito agli ultimi incontri a Barcellona. Mediapro però ha chiesto più tempo per presentare la nuova proposta da circa 1.3 miliardi di euro a stagione per realizzare il canale dal 2021-24: l'appuntamento è per novembre. Altro tema caldo è la destinazione del 3% dei costi dei trasferimenti di giocatori stranieri fra club italiani: la Serie A vuole che la Figc confermi la destinazione di questo contributo di solidarietà a un fondo della Lega. Intanto il presidente federale Gabriele Gravina, a Repubblica, non ha sciolto le riserve sulla ricandidatura nel 2021: "Ascolterò tutte le componenti, sarei un pazzo a presentare una candidatura che fosse divisiva".
Da corriere.it il 22 ottobre 2019. Il ministro Spadafora e un parere dell’Avvocatura di Stato spingono Coni e Sport e Salute verso la firma del contratto di servizio. L’incontro di lunedì tra Giovanni Malagò e Rocco Sabelli, davanti al capo di gabinetto del ministro dello Sport, Giovanni Panebianco, potrebbe aver sciolto diversi nodi in vista dell’auspicato accordo. Non tutti, ma le parti si sono decisamente avvicinate dopo la lettura congiunta del parere dell’Avvocatura dello Stato sulle modalità di utilizzo del personale.
(LaPresse il 22 ottobre 2019) "Il rapporto di lavoro lega i dipendenti esclusivamente alla società Sport e Salute, ma l'ente avvalente, il Coni, esercita, in ogni caso, sulla struttura organizzata, posta a propria disposizione, poteri di direzione e controllo, indispensabili per l'espletamento dei propri compiti istituzionali". E' quanto si legge nel parere dell'Avvocatura Generale dello Stato relativo ai rapporti fra il Comitato Olimpico e la società Sport e Salute. Nel parere viene specificato inoltre che il Coni ha "funzioni di indirizzo, coordinamento strategico, regolazione e specifica competenza in materia di governo dell'attività olimpica", allo stesso tempo la Sport e Salute "assume la veste di società strumentale dell'ente Coni nel compimento delle operazioni tecniche, esecutive e preparatori". In linea generale, si legge ancora "l'avvalimento comporta l'assunzione funzionale dell'ufficio di un ente nella organizzazione di un altro, che viene così a trovarsi in una posizione di dipendenza funzionale dall'ente avvalente, agendo come ufficio dello stesso e restando soggetto ai poteri di direzione e dell'ente avvalente (nella fattispecie il Coni)". Quindi "le funzioni attribuite dalla legge restano prerogative proprie dell'ente Coni che si avvale degli uffici della società, che assume, dunque, una veste ausiliaria e resta soggetto, con riferimento alle funzioni svolte dal Coni, ai poteri di direzione e controllo di quest'ultimo". E sarò proprio nel contratto di servizio, per il quale è stato istituito un tavolo permanente, "che dovranno determinarsi i servizi per lo svolgimento delle attività strumentali ed esecutive necessari per il funzionamento del Coni, con individuazione delle unità di personale necessarie allo svolgimento delle attività stesse".
Monica Colombo per il “Corriere della sera” il 28 ottobre 2019. Una scolaresca indisciplinata e turbolenta, abituata a ricorrere a toni coloriti e contrassegnata da posizioni diverse al suo interno. Ma alla fine fedele a rispettare la regolarità della procedura di elezione del presidente Gaetano Miccichè nell' assemblea di Lega del 19 marzo del 2018. È quanto emerge dai verbali della riunione finita sotto la lente d' ingrandimento della Procura federale che ha aperto un' inchiesta dopo le dichiarazioni di Enrico Preziosi che in un' intervista aveva parlato di «non correttezza» delle modalità di votazione, avvenuta prima a scrutinio segreto e poi con dichiarazione del voto. Dal verbale e file audio consegnati al procuratore Pecoraro emerge che già in una precedente riunione dei presidenti la convergenza sul nome di Miccichè, presidente di Banca Imi e membro del consiglio di amministrazione di Rcs, era unanime. «Gaetano mi ha riferito che per evitare condizionamenti preferisce non essere presente. Quando la sua elezione sarà completata vi raggiungerà per abbracciarvi» dichiara Malagò, commissario Lega dell' epoca, in apertura di seduta. In avvio l' approvazione del nuovo statuto, con la formula individuata dal vice-commissario Paolo Nicoletti e che rende possibile l' elezione di Miccichè, membro del consiglio di amministrazione di Rcs: «Con riferimento alla sola figura del presidente, l' assemblea con voto unanime, può eleggere un presidente che, in virtù di incarichi di rappresentanza e/o amministrazione ricoperti in un' istituzione privata di rilevanza nazionale abbia rapporti con le società associate, e/o con il gruppo di appartenenza delle società associate, e/o con altra lega professionistica». Aurelio De Laurentis e Claudio Lotito mostrano perplessità sulla fretta e preferirebbero votare prima i consiglieri. Gli animi si surriscaldano, qualche manager si rifugia in bagno. Il commissario chiede di votare per acclamazione ma il presidente del Collegio dei Revisori Ezio Simonelli fa notare che si debba procedere a scrutinio segreto. Dopo la chiamata e la votazione sulle schede, Mauro Baldissoni della Roma interviene per chiedere se qualcuno ha votato contro, situazione che creerebbe non pochi imbarazzi, e invita a procedere per acclamazione. Malagò si interroga su come procedere visto che in precedenza si era deciso di votare con le schede. L' avvocato Nicoletti, che ha delega sulle questioni giuridiche, fuga i dubbi e spiega che se ogni presidente rinuncia allo scrutinio segreto è valida la rinuncia individuale. «Diverso è il voto di rinuncia allo scrutinio segreto. Ma se ognuno di voi individualmente dice quello che ha votato e consegna la scheda ...questa però è una scelta individuale». Non hanno nulla da eccepire il presidente del Collegio dei Revisori Ezio Simonelli e il giudice sportivo Gerardo Mastrandrea. Si procede quindi alle dichiarazioni unilaterali di voto. Il consenso su Miccichè è unanime. «Le schede non si aprono più» conclude Malagò. «Ho avvisato Gaetano, il tempo di arrivare dal suo ufficio e poi sarà qui».
Antonello Piroso per “la Verità” il 25 Ottobre 2019. Il Coni non è il circolo Aniene. La società polisportiva di Roma, una sorta di istituzione cittadina fondata nel 1892, con il Comitato olimpico ha in comune solo la persona al vertice, Giovanni Malagò (presidente del Coni e presidente onorario dell' Aniene, dopo esserlo stato a tutti gli effetti dal 1997 al 2017, sostituito da Massimo Fabbricini, già capo ufficio stampa del Coni e fratello del già segretario generale dello stesso Coni, Roberto). Per il resto, sono due realtà agli antipodi: una privata, l' altra pubblica. Colpisce dunque che un uomo di mondo e di relazioni come Malagò, affabile ed educato, rispettoso del rigore formale, a cominciare dal look, stia dando l' impressione di non cogliere la differenza. Manifestando quella che appare, con riferimento evidentemente al lato pubblico, il privato si organizza come meglio crede, una certa qual disinvoltura rispetto a prassi, norme e disposizioni. A settembre avevamo qui dato conto della sua azione con cui di fatto suggeriva al Cio, il Comitato olimpico internazionale (cioè un organismo sovranazionale), di fare tabula rasa dei prossimi appuntamenti in agenda per il nostro Paese. Davanti a un riassetto che lo ridimensionava (la sottrazione della «cassa» con la creazione di Sport e salute Spa che ha spazzato via la società Coni servizi) Malagò si appellava a un' autorità esterna, «segnalando» la possibile violazione di principi contenuti nella Carta olimpica, e quindi chiedendo in sostanza la soluzione finale: l' esclusione da Tokyo 2020 e la revoca dell' assegnazione a Milano-Cortina delle Olimpiadi invernali del 2026. A seguire è esploso il caso dell' amministratore delegato proprio di Milano-Cortina 2026. Per individuarlo, l' incarico era stato affidato ai cacciatori di teste americani della Spencer Stuart. Da chi? Boh. Il Coni si è detto completamente estraneo alla scelta, mettendo in mezzo il sindaco di Milano Giuseppe Sala, che non ha gradito e ha smentito: «Con Spencer Stuart ha parlato Malagò». Non solo. Quel che è più grave è che a sentirsi spiazzato, dichiarandosi «sorpreso», è stato il ministro dello Sport in persona, il pentastellato Vincenzo Spadafora, dato che «la Spencer Stuart risulterebbe essere stata inizialmente indicata proprio dal Coni». Basta? Macché. Il Coni, ai diversi tavoli dedicati all' organizzazione della governance dei Giochi, avrebbe fatto intendere che l' impegno della società sarebbe stato «pro bono». Cioè a costo zero. È così? No. Premesso che non si ha traccia, almeno fino ad ora, della lettera d' incarico (obbligatoria nel momento in cui un' amministrazione pubblica si ritrova impegnata con un fornitore), in realtà la società un prezzo l' avrebbe fissato: il 30% dello stipendio assegnato all' amministratore, ragionevolmente 500 mila euro. Quindi 150 mila euro, con 10 mila euro dati in acconto. Il tutto senza bando, in un carosello di lettere saltate fuori ex post, quasi a ricomporre un puzzle dopo che le procedure erano state elegantemente bypassate (un groviglio per cui ora pare che Spencer Stuart si accontenterebbe del solo acconto). Arriviamo così all'elezione di Gaetano Miccichè alla presidenza della Lega calcio, finita sotto la lente della procura federale. Un' altra tegola per Malagò, che al momento della votazione era anche commissario straordinario della Lega. Malagò si sarebbe adoperato per non arrivare allo scrutinio delle schede, bensì a un' incoronazione per acclamazione. Perché? Perché, essendo richiesta l'unanimità, se nel segreto dell' urna anche un solo presidente avesse indicato un altro nome, Miccichè non sarebbe diventato presidente. Dettaglio tutt' altro che marginale: l' unanimità del voto è prevista da uno statuto approvato mezz' ora prima dell' elezione, e a cui la Federcalcio ha dato l' ok con una sua delibera solo una settimana dopo. Certo, il via libera della Figc potrebbe essere arrivato in via informale attraverso il commissario Roberto Fabbricini (sì, proprio lui: il fratello del presidente dell' Aniene), nominato da Malagò prima che lui stesso nominasse Malagò... commissario per la serie A! Peccato solo che nel verbale di tutto questo non vi sia traccia. E veniamo a un altro possibile incidente di percorso, sempre per via della disinvoltura di cui sopra. Quando Roberto Fabbricini ha lasciato il suo posto alla segreteria generale del Coni, è stato sostituito da Carlo Mornati, designato in seguito anche come rappresentante del Coni per il consiglio d' amministrazione di Sport e salute Spa. Piccolo problema: il verbale della riunione di giunta del 26 febbraio scorso recita testualmente, al punto 2.2 («Comunicazioni del Presidente-Rapporti con le Istituzioni»): «Il Presidente informa che Carlo Mornati viene proposto quale consigliere aggiunto, nominato dal Coni, nel consiglio di amministrazione di Sport e salute, considerate le competenze e le caratteristiche del suo ruolo di Segretario generale del Coni». Nominato dal Coni? E tale delibera come è stata adottata? C'è stata una votazione? Oppure è stata un' indicazione secca di Malagò, che la fa mettere a verbale? Non si capisce, e magari poco importa pure. Intanto, però, sulla nomina è stato messo il cappello: Malagò si affretta a blindare il nome di sua competenza, e a farlo sapere (il sito di Prima Comunicazione riporta per esempio il giorno stesso la notizia), ben due mesi prima rispetto alla nomina degli altri componenti del cda, anche se la notifica all' azionista di Sport e Salute, cioè al Mef, il ministero dell' economia e finanza (nella persona di Alessandro Rivera), Malagò la fa il 6 maggio. Il tema è però un altro. L' articolo 1 della legge 145 del 30 dicembre 2018, che ha appunto trasformato Coni servizi in Sport e salute Spa, statuisce che «gli organi di vertice della società sono incompatibili con gli organi di vertice del Coni». E cos' altro sarebbe il segretario generale di quest' ultimo, se non «un organo di vertice»? Successivamente il Dpcm, cioè il decreto attuativo del presidente del consiglio del 29 gennaio 2019, mette sullo stesso piano tutti i consiglieri d' amministrazione, compreso quindi Mornati (anche se proposto come consigliere aggiunto), che dunque si troverebbe nella predetta situazione di incompatibilità.
Questioni da leguleio? No. Occhio alle date: la legge è del dicembre 2018, il decreto attuativo del gennaio di quest' anno, ma, nonostante il quadro legislativo, e i relativi paletti, a febbraio il Coni tira dritto per la sua strada e procede comunque a designare Mornati. «Cosa fatta, capo ha» si usa dire. Ma se la cosa è fatta a... capocchia? Per Malagò, per tacere del resto, sarebbe un' imperdonabile caduta di stile.
LA GUERRA DELLO SPORT. Antonello Piroso per la Verità il 15 settembre 2019. Mettiamola così. Per rimediare ai presunti danni fatto allo sport italiano dalla legge di riforma voluta dal precedente governo, con l' impegno in prima persona del sottosegretario a Palazzo Chigi, il leghista Giancarlo Giorgetti, il Coni chiede al Cio, il Comitato olimpico internazionale (cioè un organismo sovranazionale), di fare tabula rasa dei prossimi appuntamenti in agenda, causando così uno sfregio d' immagine al nostro Paese di certo superiore al vulnus invocato. Davanti a un riassetto che lo ridimensiona, il presidente del Coni Giovanni Malagò si appella infatti a un' autorità esterna. «Segnalando» la violazione di principi contenuti nella Carta olimpica, e quindi chiedendo in sostanza - non esplicitamente, e ci mancherebbe pure, ma indicando - la soluzione finale di punizioni esemplari per l' Italia: l'esclusione da Tokyo 2020 e la revoca dell' assegnazione a Milano-Cortina delle olimpiadi invernali del 2026. Se non è un «muoia Sansone con tutti i filistei», gli assomiglia molto. L' ultima spiaggia, dopo che il Coni si è visto sottrarre la gestione della cassa finanziaria con la creazione di Sport e salute che ha spazzato via la società Coni servizi. E che di ritorsione si possa tranquillamente parlare è confermato dalla circostanza segnalata ieri da Repubblica: la lettera del 6 agosto scorso con cui il Cio, bocciando la suddetta riforma e minacciando di fatto contraccolpi pesanti per l' Italia, sarebbe stata voluta, richiesta e «dettata» dal Coni. Cioè dal medesimo Malagò. Il quale, mentre da un lato nell' audizione al Senato del 29 luglio metteva in guardia rispetto alle possibili conseguenze in sede internazionale con il Cio, dall' altro quella stessa reazione sollecitava e provocava. «Sconvolgente, lo avevo già capito. Ma vederlo scritto nero su bianco fa tutto un altro effetto», è stato il commento del presidente della Federtennis Angelo Binaghi, di certo non un supporter di Malagò. Che dal canto suo ha minimizzato: «Le mie lettere? Un atto dovuto: se non avessi evidenziato tali situazioni normative, come membro del Cio sarei stato sanzionato in modo grave». Indicando l' exit strategy: «Ora nell' ambito dei decreti attuativi della legge delega, dobbiamo sistemare quegli aspetti in palese contraddizione con la Carta olimpica». Palese secondo chi? Ma naturalmente sempre secondo lui, Malagò. Che così condensa nella sua persona tutti i ruoli in commedia: l' accusa, la difesa, la giuria. Torniamo a inizio agosto. Le decisioni del governo italiano (quello Lega-M5s) sullo sport scatenano la contrarietà di Malagò ma anche l' opposizione del Pd. Due i punti su cui il Cio -opportunamente «imbeccato», come si è detto - può trovare qualcosa da ridire: le organizzazioni sportive aderenti al movimento olimpico hanno il diritto e l' obbligo di autonomia, «comprese la libera determinazione e il controllo delle regole dello sport», nonché «la definizione della struttura e della governance delle loro organizzazioni». Il secondo punto concerne la cosiddetta mission: le suddette organizzazioni devono «incoraggiare lo sviluppo di sport di alta prestazione così come pure dello sport per tutti». Solo che con la riforma, almeno così sostengono gli oppositori della nuova legge, al Coni rimane solo l' alta prestazione, è vero, mentre sul territorio avrebbe compiti di mera rappresentanza. Così il Cio reagisce con un intervento a gamba tesa: «Il Coni non dovrebbe essere riorganizzato mediante unilaterali decisioni governative, ma governance e attività devono essere stabilite nell' ambito del proprio statuto, in ottemperanza della Carta olimpica». Piccolo particolare: il Coni non è il soggetto che governa lo sport nazionale, bensì l' attività olimpica e può assumere sì iniziative per lo sport di base, ma solo a livello di «incoraggiamento», dato che la materia rimane di pertinenza di Stato e Regioni. Arriviamo all' oggi. Malagò, così vogliono i boatos che si rincorrono nella sempiterna palude romana, dove non esistono destra o sinistra né conflitti d' interessi, ma solo la loro convergenza, sperava che allo Sport andasse un ministro indicato dal Pd, magari un renziano in quota Luca Lotti, con cui il presidente del Coni ha sempre avuto una foscoliana corrispondenza di amorosi sensi. Peccato che a capo del dicastero sia stato paracadutato Vincenzo Spadafora dei 5 stelle, con ascendenze trasversali tra Prima e Seconda Repubblica (un nome per tutti: Francesco Rutelli, di cui è stato capo di gabinetto ai Beni culturali). Malagò si è precipitato a spiegare: «Lo conosco molto bene e il rapporto con lui è molto buono», anche perché Spadafora è transitato per l' associazione Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo, che di Malagò è amico e sodale da una vita. Ma a Spadafora è arrivato il warning di Alessandro Di Battista, il punto di riferimento dell' ala movimentista dei grillini che giovedì sera in tv ha ricordato, tra i nemici del cambiamento, proprio Malagò: «Ho sentito un'intervista ad Andrea Orlando del Pd in cui dice che, in questo Paese, i poteri forti non esistono. Invece si chiamano De Benedetti, Benetton, Caltagirone e Malagò, sono questi i miei avversari. E per me il Partito democratico resta il partito garante di questo sistema». Rocco Sabelli, numero uno di Sport e salute, accusa Malagò di tenere alta la temperatura della polemica per «riposizionarsi» rispetto al nuovo governo. Ma forse, alla luce di questa esternazione (e in attesa di altri documenti che sicuramente vedranno la luce), sarebbe forse meglio dire: per cercare di cadere in piedi.
Dagospia il 14 settembre 2019. A “Stasera Italia” il Presidente del Coni Giovanni Malagò ha risposto alle dichiarazioni di Di Battista che in una intervista a “Diritto e Rovescio” l’aveva catalogato tra “i poteri forti” in Italia: "Sono stupito. Ho cercato di interpretare le parole dell’onorevole Di Battista. Sinceramente non lo capisco, perché le persone che lui ha citato prima di me, sono: grandi industriali, grandi imprenditori, proprietari di gruppi coinvolti in vari settori dell’economia. Mentre io non ho nulla a che fare con questo contesto: sono una persone che è stata eletta, per esattezza, da 12 milioni di italiani. Tutte persone tesserate e affiliate a livello fisico e a livello di associazioni sportive del nostro Paese. Per cui io devo rispondere a chi mi ha eletto. La cosa curiosa è che io rappresenterei un “Potere forte”: in realtà io rappresento questo mondo e soprattutto è un mondo che, l’onorevole Di Battista, ha sempre detto che va rispettato sotto il profilo della democrazia. Non riesco a capire perché sono finito in questo gruppo. Prendo atto di questa sua generosità di attenzioni e mi fermo qui”.
DAGONEWS il 13 settembre 2019. Fino all'ultimo Malagò sembrava avercela fatta: al ministero dello Sport (o quantomeno come sottosegretario) doveva andare un nome del Pd lottiano (nel senso di Luca Lotti), per fare sponda e smontare la riforma Giorgetti che ha spogliato il presidente di 460 milioni di budget, biglietti e potere. Con la Lega finalmente fuori dai giochi, Giovannino fa piovere molti attacchi, quelli che avete letto sui giornali in queste settimane, sul governo appena caduto e sui cambiamenti che aveva introdotto. Senonché, nella notte in cui si è fatto il governo, Spadafora rifiuta il posto da sottosegretario di Palazzo Chigi, chiede lo Sport e il ribaltone è compiuto. Il ministero passa in quota 5 Stelle, notoriamente ostili al presidente del Coni. Che a quel punto deve scommettere su un sottosegretario che bilanci i due partiti della maggioranza, e di questo si parla molto negli ultimi giorni. Stamattina, l'ennesima doccia fredda: nessun sottosegretario. Ti credo: se metti 5 tra vice e sottosegretari agli Esteri, all'Economia e allo Sviluppo Economico, e il numero massimo di membri del governo è fissato a 65, finisce che qualche casella non riesci a occuparla. Giovannino si è appellato anche al Cio per ribaltare la riforma Giorgetti. Non si hanno notizie di interventi di Gianni Letta, che per anni ha sostenuto l'amico Megalò, né pare che Spadafora abbia incontrato o sentito il Presidente del Coni. Basterà l'interessamento del Comitato Olimpico?
Da ansa.it il 13 settembre 2019. "Non è vero che Malagò ha chiesto di punire l'Italia". Un portavoce del Cio nega all'ANSA che il presidente del Coni abbia sollecitato, in una delle due lettere inviate sui rapporti con il governo, una punizione per il proprio Paese come denuncia in prima pagina il quotidiano 'La Repubblica". Alla domanda su cosa pensi il Cio della controversia tra il passato governo e il Coni in Italia, il portavoce ha replicato "la nostra posizione è molto chiara ed è stata spiegata in una lettera che è già stata resa pubblica".
Elisabetta Esposito per gazzetta.it il 15 settembre 2019. Il presidente del Coni Giovanni Malagò mostra serenità sul caso delle lettere inviate al Cio a proposito della legge delega approvata al Senato ad agosto che andrebbe contro i principi della Carta olimpica sull’autonomia dello sport: “È un atto dovuto. Se non avessi evidenziato situazioni normative che sono sotto gli occhi di tutti, da membro Cio, che non è un rappresentante dell’Italia, sarei stato sanzionato — ha detto a margine della presentazione della Roma Canoe Marathon e Tevere Day al Coni —. Ma tutto questo non è mai stato un segreto e ad essere sinceri, non capisco la motivazione e il clamore di tutto questo, è un atto scontato”. Il clamore di cui parla è dovuto alla pubblicazione delle lettere oggi su La Repubblica, che stanno sollevando un bel polverone e che il presidente della Fit Binaghi, con cui Malagò è in dichiarato conflitto, ha definito “sconvolgenti”. Il numero uno del Coni ribadisce: “Nell’ambito dei decreti attuativi della legge delega dobbiamo sistemare alcuni aspetti che sono in palese contraddizione con la Carta olimpica. Quello che è chiaro è che qui ci sono un aggressore e un aggredito. E quando si vieni aggrediti è normale difendersi. Avete sentito l’appello della Pellegrini che ha chiesto protezione a Mattarella, anche gli atleti sono preoccupati perché è stata fatta confusione e loro si sentono nel limbo, mentre vogliono solo tranquillità”. Quindi il discorso si sposta su Binaghi e si aggiunge un nuovo tassello alla polemica: “Mi auguro che la Sport e Salute che sta parlando ora con Angelo Binaghi per le fideiussioni alla Fit per gli Atp Finals di Torino non sia la stessa che adesso si sta occupando dei contributi pubblici alle federazioni. Altrimenti sarebbe il primo grave conflitto di interesse”. E ancora: “La legge prevede che, per il finanziamento alle Federazioni, la Sport e Salute sia obbligata a sentire il Coni, ma Carlo Mornati (segretario generale del comitato olimpico, ndr.) non è mai stato convocato, mentre avrebbero dovuto chiamarlo per primo. Questo non è corretto e non rispetta le norme, una cosa che verrà segnalata al nuovo Governo”.
Marco Mensurati per la Repubblica il 17 settembre 2019. A giorni, il presidente del Coni Giovanni Malagò incontrerà il nuovo ministro dello Sport Vincenzo Spadafora. Sarà un appuntamento fondamentale per capire che cosa sarà del Coni, e quale potrà essere l' esito della battaglia in corso tra il Comitato olimpico nazionale e Sport e Salute spa, la società creata dalla riforma dello Sport allo scopo di svuotare finanziariamente il Coni. A questo incontro, Malagò ci arriva ferito, quanto meno nell' orgoglio, dalla storia della "lettera al Cio", pubblicata da Repubblica venerdì scorso. Una vicenda per la quale qualcuno, soprattutto tra i 5 stelle, ha chiesto le sue dimissioni. Parliamo della lettera riservata che Malagò inviò a James MacLeod (responsabile delle relazioni con i comitati olimpici nazionali) il 31 luglio scorso nella quale il n.1 del Coni dettava - parola per parola, errori compresi - la parte cruciale della missiva che il Cio manderà effettivamente il 6 agosto, e nella quale sono contenute anche le minacce del ritiro del riconoscimento olimpico all' Italia (donde, la mancata partecipazione ai giochi di Tokio 2020 e l' annullamento di Milano- Cortina 2026). «Avevo il preciso obbligo istituzionale di farlo», è sempre stata la spiegazione di Malagò. Il quale però aveva già ottemperato a quell' obbligo neppure 24 ore prima, mandando una mail (ma senza fare alcun riferimento alle sanzioni) all' attenzione del n.1 del Cio Thomas Bach.
Presidente, partiamo da qui.
Perché quella seconda comunicazione?
«Le mail di cui siete venuti in possesso fanno parte di un' operazione strumentale. Posso raccontarvi come è andata la vicenda? ».
Provi a convincerci.
«Io sono obbligato a segnalare al Cio ogni possibile violazione della carta olimpica. E così il 30 luglio scrivo a Bach, spiegandogli che la riforma in discussione in Italia poneva una serie di problemi. Bach, e questo è il pezzo che vi manca, mi risponde via mail chiedendomi di inviare a MacLeod una copia della legge tradotta e una serie di spiegazioni. Cosa che faccio sei ore dopo. Tutto qui».
Sì ma perché si prende la briga, nella seconda mail, di indicare - e in grassetto - tutte le sanzioni possibili per l' Italia? Che poi sono quelle che sono state assunte in passato per situazioni oggettivamente distanti dalla nostra, per dire il Kuwait o il Sudafrica dell' apartheid?
«Io nella lettera dico le stesse identiche cose che ho detto in Senato qualche giorno prima. Ripeto. Me lo aveva chiesto il Cio».
Come mai al Cio ha parlato di decreto legge invece che di legge delega. Non è un dettaglio, lei ha rappresentato uno scenario peggiore di quello che era...
«Perché in quel momento ancora non era stata votata. E perché il Cio si aspettava un decreto legge sul tema - per alcuni aspetti perfettamente sovrapponibile - della legge olimpica, quella che dobbiamo fare entro novembre per Milano- Cortina. Io scrivo a Bach e McLeod perché sono preoccupato. Genuinamente preoccupato. Io mi sono caricato un lavoro enorme sulle spalle per un anno e mezzo, massacrandomi la vita e gli affetti per portare in Italia le Olimpiadi».
Beh, le è stato riconosciuto...
«Mi creda: un vero capolavoro dopo la figura che abbiamo fatto con Roma 2024. Poi - come sono tenuto a fare - segnalo al Cio che ci sono dei rischi concreti che l' Italia non rispetti la carta olimpica. E i giornali invece di concentrarsi su questi rischi, si concentrano sulla mia segnalazione. Non capendo che noi siamo vittime assolute e che se va avanti così rischiamo di trovarci nelle condizioni di non poter rispettare gli impegni che ci siamo presi vincendo la sfida per Milano- Cortina».
A proposito di Milano-Cortina ha pensato che possa esserci un conflitto di interessi tra il ruolo di presidente del Coni (il cui obiettivo è vincere medaglie) e presidente del comitato organizzatore, che deve garantire pari possibilità a tutti partecipanti?
«Questa è nuova! Credo che se l' Italia ospiterà le Olimpiadi, tra i vari motivi, c' è anche il fatto che io ero il designato presidente. Sa chi l' ha detto? Giorgetti».
Tra i veleni intorno alla polemica sulla riforma dello sport, c'è anche quello dei biglietti omaggio all' Olimpico: la tribuna Aniene, i biglietti a politici e magistrati.
«È una completa mistificazione dei fatti. Quando sono arrivato ho eliminato 900 tessere Coni ai parlamentari. Nei criteri per l' assegnazione dei biglietti che spettano al Coni per le partite di Roma e Lazio (sono accordi antichi che non ho fatto io) ho imposto che vengano attribuiti per primo agli atleti, poi ai tecnici, ai dirigenti e alle associazioni sportive. E anche alle istituzioni. Se l' ufficio per le relazioni istituzionali - cui spetta l' ultima parola - decide di darli anche a un sottosegretario, o a un membro del Csm, che sono autorità di Stato, non vedo quale sia il problema. Se questo è l' elemento con cui pensano di mettere in difficoltà il Coni sono messi male».
Come si esce da questa situazione? Secondo la sua visione, qual è il miglior modello per riformare lo sport italiano?
«Io sono rispettoso delle istituzioni. Non sono un guerrigliero. Non posso anticipare le considerazioni che farò con il ministro. Posso solo dirle che quella che è stata fatta non è una riforma. È una legge. Ma è una legge zoppa».
Si può pensare a una convivenza tra Coni e Sport e salute?
«Io vado d' accordo anche con i sassi. Ma se non veniamo rispettati e ci vogliono togliere la dignità allora dico che non si può fare. Ci hanno voluto ridimensionare politicamente, lo abbiamo capito. Ma non possono toccare la nostra dignità, la nostra autonomia. M' hai voluto ammazzare? Mi hai voluto chiudere in un ettaro invece che in cento? Ok, ma almeno lasciami libero in quell' ettaro. Tu puoi anche non darmi più i soldi, non sei costretto. Lo accetto. Ma non puoi dirmi che cosa devo fare».
Secondo lei cosa è cambiato nel rapporto tra politica e sport?
«La politica è voluta entrare in questo mondo in un modo diverso. Ne prendiamo atto. Però prendiamo anche atto che, come tutti riconoscono, la legge non è fatta bene, non è chiara, non è completa».
Molti suoi critici le contestano un' eccessiva personalizzazione di questa battaglia.
«Che è buffo. Perché io sto letteralmente prestando servizio a un movimento che mi chiede di essere difeso. Personalmente non ho molto da guadagnare. Come presidente del Coni posso fare al massimo un altro mandato. Ma sono membro Cio a livello individuale per i prossimi dieci anni e, per contratto, sono presidente di Milano- Cortina. Non ci guadagno un euro. Fortunatamente non ne ho bisogno».
· Il Podista Fantozzi.
Corsa, la guida per chi vuole correre per dimagrire: cosa devi fare per non rovinarti la salute. Viviana Persiani, Libero Quotidiano 1 Maggio 2019. Che la Primavera sia esplosa lo si capisce non solo dal clima che ti obbliga a vestirti, ogni mattina, a "cipolla", pronta cioè a toglierti strati di vestiti con il trascorrere delle ore giornaliere ma, e soprattutto, per il ritorno domenicale, nelle strade, dei podisti improvvisati. Sono quei strani soggetti che, come gli animali dopo il letargo, aspettano i primi raggi di sole insistenti per uscire dalla tana e "andare a fare una corsetta", il più delle volte con lo scopo principale "di buttare giù un po' di panza", in vista della fatidica prova costume. Rispetto ai runner seri, ovvero quelli che lo fanno con giudizio e costanza, i neofiti si riconoscono, anche all' occhio inesperto, per alcune loro precise caratteristiche.
Prima di tutto, l' abbigliamento. Se chi pratica la corsa con abitudine, si veste di tutto punto, utilizzando materiale tecnico e scarpe adatte al suo tipo di appoggio, peso e postura, il runner "fai da te", no. Di solito, sul marciapiede, li incroci, bardati come se stessero per andare a scalare il K2, salvo, dopo pochi metri, vederli rantolare afflosciati a una pianta. Si mettono la tuta da passeggio pagata 9,90 euro al Super, il k-way anche senza pioggia e vento perché "così sudo di più e dimagrisco rapidamente" (sciocchezza colossale), il pantaloncino svolazzante di cotone (il più delle volte, quello della squadra di calcio preferita, utilizzato per il calcetto), le calzette di spugna bianche (stile cestisti anni Settanta), le scarpe da ginnastica vecchie di sette anni e ricurve in punta. Dulcis in fundo, la fascia del sudore, in testa, come taluni tennisti, neanche dovessero attraversare il deserto a Ferragosto. Fossero solo questi, i problemi. Partono a freddo, senza un minimo di riscaldamento, correndo come se non ci fosse un domani. Il che, dopo cinque minuti, ad andar bene, vuol dire aver già terminato la sgambata, con in più il rischio serio di farsi male.
L' andatura? "Ad mentula canis", ovvero come viene, viene, senza una logica di efficienza biomeccanica. Il che comporta un inutile spreco di energie e, soprattutto, il pericolo di infortuni. Insomma, non pensiate che correre sia una cosa che sanno fare tutti. Ci vuole testa e giudizio. Detto dell' abbigliamento che non deve essere improvvisato (basta andare in un qualunque negozio di running per avere i giusti consigli), se decidete di andare a correre, dopo molto tempo di fermo, fatelo con intelligenza. Prima di tutto, non abbiate fretta di fare troppi chilometri. Occorre che il vostro corpo, abituato, come massimo dello sforzo, a cambiare, con il telecomando, il canale televisivo, si adatti a questo "choc".
Partite tranquilli, facendo, magari, due-tre minuti di corsa leggera (che vi permetta di parlare con l' amica, senza affanno) e poi camminate a ritmo sostenuto per un minuto. Fatelo quattro-cinque volte e poi, come primo giorno, smettete. Vi sembra poco? Non abbiate fretta. Lasciate passare almeno 24 ore e poi ritornate a fare una seconda sgambata, senza guardare il cronometro o l' app sul cellulare che vi indica la distanza percorsa. Le prime uscite devono essere libere, senza condizionamenti. Quando avrete acquisito una certa autonomia, aumentate le distanze, ma con giudizio. Di solito, non più del 10% rispetto alla settimana precedente. Se capite che il vostro corpo si sta affaticando eccessivamente, dategli il tempo di recuperare (il riposo è altrettanto allenante). Non sottovalutate i dolorini o gli eventuali infortuni, perché non ce n' è come doversi fermare per parecchio tempo. In tanti, amano correre appena svegli, senza colazione. Se siete in grado di sopportarlo, fatelo anche voi. L' importante è non decidere di infilarsi le scarpette da running dopo aver divorato, un' ora prima, cassoeula con polenta. Pochi accorgimenti, che vi eviteranno di trasformarvi in un Fantozzi del podismo, facendovi arrivare pronti alla prova costume. Viviana Persiani
· Great e quel record nazionale negato perché non ha cittadinanza.
Great e quel record nazionale negato perché non ha cittadinanza: "Ma io mi sento e sono italiana". Figlia di immigrati nigeriani, la ragazza è nata e cresciuta a Torino ed è già tra le migliori del mondo nella sua categoria. Ma non può chiedere la nazionalità finché non diventerà maggiorenne. Il presidente della sua società: "Lo sport aiuta l'integrazione, ma dobbiamo guardare a cosa fanno all'estero" Fabrizio Turco il 2 maggio 2019 su La Repubblica. "Io mi sento italiana, io sono italiana". Scandisce le parole con il sorriso sulle labbra Great Nnachi; eppure le sue sono parole forti, proprio come i concetti che esprime. Great ha nei muscoli un talento purissimo, quello di fare atletica e di volare ad alta quota; ma oltre al salto con l'asta, Great ha nel cuore la voglia fortissima di urlare al mondo la cosa più banale eppure nel suo caso più complicata, quella di essere italiana. Il caso della 14enne Nnachi non è che l'ultimo esempio di giovane atleta che indossa idealmente la maglia azzurra, che vince ma che - formalmente - non può fregiarsi della nazionalità italiana. Una battaglia fondata sul filo della ragione, portata allo scoperto dai nuovi italiani millennials che si mettono in luce nello sport e che lottano anche per tutti i loro coetanei che non hanno la possibilità di raccontare al mondo la propria storia. Il Cus Torino è la società sportiva per cui Great è tesserata. "Io credo che a volte saper copiare non sia sbagliato: a proposito di integrazione, di ius soli per gli atleti, guardiamo cosa fanno all'estero, dalla Francia all'Inghilterra - indica la strada il presidente del Cus Torino Riccardo D'Elicio -. E in questo senso lo sport rappresenta una grande opportunità per l'integrazione, partendo dal concetto che questi ragazzi che hanno avuto esperienze complicate sono spesso un passo avanti rispetto ai nostri figli che talvolta educhiamo sotto una campana di vetro". Nei giorni scorsi Nnachi ha scavalcato i 3,70 realizzando uno splendido record italiano che la proietta a livello mondiale. Sulla scia della classe 2000 Roberta Gherca che oggi da maggiorenne è diventata italiana ma che, quando aveva 15 anni, superò quota 3,91 da cittadina romena. Adesso, però, davanti a Great l'asticella sale ancora: da superare c'è "la legge", che le impedisce di urlare la mondo la sua appartenenza al nostro Paese. E a tutti noi di andar fieri di una connazionale che è più italiana di noi. Ma l'indicazione la fornisce proprio Great: "Il mio allenatore Luciano Gemello mi ha insegnato a non mollare mai - dice Nnachi - e sono i miei compagni di allenamento che mi danno la forza per dare il massimo e per andare sempre più su. Questo vale per la pedana del salto con l'asta, ma vale anche per la vita". Quella vita che certamente per Great non è stata in discesa: "Mio padre lavorava in Fiat ma è mancato quando io avevo appena cinque anni - racconta commossa la ragazza -. Sono stati momenti difficili, mia madre era molto triste e io ho cercato di aiutarla facendo anche un po' la mamma per il mio fratellino Mega che adesso gioca nella Juve". "Il mio sogno? Come tutti gli atleti anch'io vorrei partecipare alle Olimpiadi. E poi mi piace vincere e soprattutto non mollare mai: tutti i miei amici mi spingono a dare il massimo e a provare ad andare sempre più su". Che Great sia italiana, italianissima, lo dicono i fatti, a partire dal suo parlare perfettamente la nostra lingua. Great è figlia di genitori nigeriani ma è nata nel cuore di Torino, all'ospedale Regina Margherita; non parla la lingua dei genitori anche perché ha seguito tutto il percorso scolastico italiano. A scuola, poi, va benissimo, come dimostra quella media del 10 con cui è uscita dalle Secondarie; un rendimento eccellente che non è cambiato neppure adesso che l'asticella si è alzata, frequentando la prima superiore all'istituto Primo Levi, Liceo Scientifico di scienze applicate con curvatura sportiva. "Great studia con grande facilità, la stessa con cui valica misure rilevanti con l'asta" spiega il suo allenatore Gemello. Lui, il numero uno fra i personal trainer italiani, è tornato al primo amore dell'atletica per creare nel Cus Torino una grande scuola di salto con l'asta. E per proiettare l'italianissima Great Nnachi nell'elite mondiale del salto con l'asta.
· Osvaldo ballerino, seconda vita: nel calcio ero solo un numero.
Osvaldo ballerino, seconda vita: nel calcio ero solo un numero. Pubblicato mercoledì, 1 maggio 2019 da Corriere.it. Ci vuole coraggio a scendere da un treno che corre verso la sua destinazione. Eppure, secondo Daniel Osvaldo, ce ne vuole ancora di più a stare a bordo quando realizzi di voler andare da un’altra parte. Ecco perché, se meno di tre anni fa era nei campi di Serie A — ha giocato, tra le altre, con le maglie di Roma, Juventus e Inter —, oggi si ritrova al centro della pista di «Ballando con le stelle», lui che alla musica ha deciso di dedicare la vita. Messe da parte le scarpe col tacchetto a 30 anni, nel pieno della carriera di calciatore, ha poi formato una band, i Barrio Viejo, con cui ha inciso un disco e fa concerti (in Argentina e ora anche in Italia, prossime date Pisa e Bergamo). «Mi sembra di aver già vissuto tante vite... ma spero di viverne altrettante in futuro. Sempre legate alla musica però: voglio morire sul palco, voglio fare questo per sempre, e magari imparare altro». Tipo ballare. «Quando mi hanno proposto di partecipare a “Ballando” non ero convinto, poi mi sono detto che era una nuova sfida». Parola per lui irresistibile: «Sono competitivo e ce la metto tutta. Ma vincere non è il primo obiettivo qui. Lo è più superare la paura di fare figuracce. Le difficoltà più grandi sono sempre nella mia testa». Si definisce «libero, anche nel compiere scelte che diventano più facili quando fai quello che ti dice il cuore... solo così non si hanno rimpianti». Per anni il calcio sembrava la strada, «ma poi ho capito che avevo altri interessi, senza considerare quanto mi dava fastidio quell’ambiente... Così mi sono detto: mi butto nella musica, un mio sogno da sempre. Alla fine è semplice». Anche perché «sarebbe stato più difficile continuare con qualcosa che non volevo fare più. Non ho avuto mai rimpianti». Non si è mai detto: che ho fatto? «Se le cose vanno in un modo c’è sempre un motivo. E un errore lo puoi sistemare, un rammarico no». Non ne ha, lui che da calciatore si sentiva «solo un numero. È un mondo un po’ frivolo e freddo, dove se giochi bene sei un dio e se giochi male uno zero». Non che l’ambiente dello spettacolo goda di ottima fama, «ma è diverso, perché se ti piace la mia musica vieni al mio concerto, se no stai a casa, non vieni a insultarmi. I tifosi spesso non capiscono che in campo stai lavorando. Il mondo della musica, come lo vivo io, mi pare più sano». E come lo vive lui è nei locali, nei club, nel contatto dal vivo. «Abbiamo voluto iniziare da zero, le cose che devono succedere succedono, nessuno le forza». E se con la vetrina dello show di Rai1 dovesse farsi avanti una major? «Eh speriamo. Ma se non capita stiamo bene così. Nei concerti in Argentina ho visto gente cantare cose che magari avevo scritto in camera mia alle 4 di notte. E quelle parole le sentivano loro. Quella è magia pura». Meglio di fare gol? «Sono due sensazioni bellissime e hanno qualcosa di simile: quando fai un gol hai creato qualcosa di speciale, solo che dura quel che dura, invece la musica è eterna». Del passato non gli manca nemmeno il denaro: «Non ho bisogno di niente, il segreto è questo. Con meno soldi, vivi più tranquillo e rilassato. Ci sono due situazioni dove hai grossi problemi: quando non ne hai proprio o quando nei hai troppi, perché la testa si perde. Meglio una via di mezzo». Cosa le manca di più dell’essere calciatore? «Lo spogliatoio, la vita con i compagni, i viaggi, i ritiri. Anche se somiglia un po’ a quello che faccio con la band». Nessuno dei suoi musicisti le dice che è stato pazzo? «Tutti, non ci piove. Pure mio padre, un ex musicista, ogni tanto se ne esce con la frase: “Però a me manca vederti in campo”. Mi spezza il cuore. Per fortuna c’è mia mamma che mi ripete: “Basta che tu sia felice”».
Veera Kinnunen e Dani Osvaldo in vacanza insieme: è scoppiato l'amore. L'insegnante di ballo svedese e l'ex calciatore hanno condiviso foto e video sui social di una vacanza insieme nel nord Europa: una barca, fiori e vino in cabina e uno scatto guancia a guancia fanno sognare, poi la foto del bacio a confermare la love story. Novella Toloni, Martedì 23/07/2019, su Il Giornale. La coppia di "Ballando con le Stelle" aveva fatto sognare i telespettatori non solo per il feeling nato sul palco ma anche per quello creatosi fuori dalle telecamere. A distanza di mesi dalla fine del programa che li ha fatti conoscere Veera Kinnunen e Dani Osvaldo si frequentano. Gli indizi vanno infatti in questa direzione. Nelle ultime ore sia l'ex calciatore argentino sia la bella ballerina svedese hanno pubblicato sui social network foto e video che li ritraggono insieme su una barca destinazione Helsinki. Dani Osvaldo ha condiviso con i suoi follower le foto della splendida cabina dell'imbarcazione salpata da Stoccolma: fiori ovunque, vasca idromassaggio doppia e sauna privata, insomma tutti gli ingredienti farebbero pensare a un viaggio d'amore. Scatti simili a quelli pubblicati da Veera Kinnunen, che sui social mostra Stoccolma vista dalla barca, la stessa veduta condivisa da Osvaldo. Ma è la foto di loro due guancia a guancia a scacciare via ogni dubbio. Un viaggio nelle fredde terre del Nord che la ballerina e insegnante conosce bene e che forse ha voluto far scoprire al caliente argentino. I due hanno deciso di fare il viaggio che avrebbero dovuto compiere durante il programma e che invece, per la gelosia di Stefano Oradei, oggi ex fidanzato della bionda ballerina a quanto pare, fu annullato. L'ultima foto postata poche ore fa non lascia dubbi: il bacio sulle labbra tra Osvaldo e la Kinnunen conferma la storia d'amore tra i due e anche il viaggio per incontrare la famiglia di lei che lui già sente sua. Intanto, proprio di Oradei non si sa più nulla. Dopo la fine del programma del sabato sera, le scuse in diretta per la lite con la compagna, il ballerino non ha più dato notizie sui social creando ulteriori dubbi e alimentando le voci su una possibile storia tra Dani e Veera.
“OSVALDO MI HA ABBANDONATO QUANDO ERO INCINTA. ANDAI IN DEPRESSIONE”. Emiliana Costa per il Messaggero il 30 maggio 2019. Dani Osvaldo, la star di questa edizione di Ballando con le Stelle, torna al centro del gossip. Dopo il caso gelosia con Veera Kinnunen e Stefano Oradei, questa volta a parlare è l'ex compagna Elena Braccini, che ha rivelato: «Lui mi lasciò con una bimba di tre anni e un’altra nel pancione, andai in depressione». La storia tormentata tra Dani Osvaldo ed Elena comincia nel 2007 sulle tribune dello stadio Franchi, quando lei lavorava come hostess e studiava architettura. Poi lui l'avrebbe lasciata all'improvviso, mentre era incinta della seconda figlia. Lo racconta Elena in un'intervista al settimanale Oggi: «Stetti malissimo, andai in depressione: lui mi lasciò con una bimba di tre anni e un’altra nel pancione. In più, era all’apice della carriera e sui giornali uscivano le sue foto con tutte queste donnine. Un supplizio». Elena si sarebbe risollevata grazie alla prima figlia Victoria. «Quando era in Argentina - continua l'ex compagna di Dani Osvaldo - non rispondeva al telefono, era impossibile parlare con lui. Le mie figlie non vedevano né sentivano il loro babbo da due anni ed ecco che Milly Carlucci me lo porta a Roma, a un’ora e mezza di treno». Ora, grazie anche alla partecipazione di Dani Osvaldo a Ballando con le Stelle, i rapporti si sarebbero rasserenati. «Chiama spesso le figlie - conclude Elena - viene quasi tutte le domeniche a trovarle. È più sereno, maturo. Speriamo duri»
· Berruti: «I miei inaspettati 80 anni. Sono bi-bastone, non più bi-turbo».
Berruti: «I miei inaspettati 80 anni Sono bi-bastone, non più bi-turbo». Pubblicato giovedì, 16 maggio 2019 da Gaia Piccardi su Corriere.it. Livio Berruti indimenticabile oro nei 200 a Roma ‘60, come descriverebbe i suoi primi 80 anni?
«Del tutto inaspettati, come la vittoria nella finale olimpica. Sono arrivati senza che me ne rendessi conto. Ormai ho perso il valore dei numeri».
Come sta?
«Spiritualmente benissimo: ho ancora curiosità, voglia di conoscere e fare. Ho una gamba che, per l’artrosi, non funziona più molto bene: cammino con due bastoni. Non sono più bi-turbo, sono bi-bastone».
Come festeggerà domenica?
«Con una festa con 400 invitati, organizzata dall’Isef di Torino. Ottolina, Ottoz, Ormezzano... Tutti dinosauri dei miei tempi».
80 anni. Come li riassumerebbe in 20”5, il tempo che le valse l’oro?
«Una gara di slanci continui e appagamento di curiosità, una successione di momenti felici e infelici che non hanno inciso sul mio ottimismo di fondo. Diciamo che sono sempre rimasto un volteriano».
80 anni di interviste. La migliore?
«Quella di Mario Soldati in un programma della Rai del ‘61, non le so dire quale. Eravamo io e Mina, donna di fascino discreto, tranquillo».
Come Wilma Rudolph, la pantera americana dello sprint con cui ebbe un flirt a Roma ‘60.
«Sex appeal simile, ha ragione. Per me le fanciulle non devono essere troppo prorompenti: la bellezza va scoperta per gradi».
Quella passeggiata mano nella mano per il villaggio olimpico, con Muhammad Ali che cerca Wilma, è rimasta leggendaria.
«Pura estasi. Ero abbagliato dalla gioia che sprizzavano i suoi occhi e dal piacere di stare insieme. Non ci rendemmo conto, allora, che un ragazzo bianco e una ragazza di colore per mano erano anche un potente messaggio politico».
Ma sua moglie Silvia, dopo quasi sessant’anni di aneddoti su lei e Wilma, non è gelosa?
«Noooo... Sa che il finale è stato molto platonico».
Oltre ai ricordi, ha conservato qualche oggetto dell’Olimpiade ‘60?
«Solo la maglia della Nazionale. La tuta mi fu rubata un mese dopo, a Milano. Gli occhiali da sole indossati nei 200 li ho donati a Telethon e sono stati comprati da Alberto Bolaffi. La sciarpa è nel comune di Stroppiana, il paese dei miei genitori».
E la medaglia d’oro?
«Ah quella è in banca a Torino, nella cassetta di sicurezza. A furia di maneggiarla la patina d’oro si è scolorita e il collare di foglie di lauro bronzee ha perso i pezzi. Ma è sempre bellissima».
Come spese il milione e 200 mila lire del premio?
«Comprai una Giulietta Sprint, l’auto sportiva per eccellenza ai miei tempi. Costava molto: alla fine ci ho rimesso io!».
Oggi un oro olimpico vale di più: farebbe cambio, Livio?
«Guai. Oggi lo sport ha perso naturalezza, semplicità, libertà: i nostri valori. Eravamo meno assediati: il giornalismo era un mondo amico, oggi avverto la curiosità morbosa di sapere tutto. Vedo atleti costretti a recitare. Per fortuna qualcuno mantiene ancora l’autenticità».
Allude al suo amico Filippo Tortu, recordman italiano sui 100 (9”99) battendo Mennea?
«Filippo fa 21 anni a giugno, come me quando vinsi l’oro: potrebbe essere uno sprinter dei miei tempi e ha una famiglia splendida che non lo esibisce come un trofeo».
Ricordiamo sempre Roma ‘60 ma ha partecipato anche a Tokyo ‘64 e Città del Messico ‘68.
«In Giappone fui quinto nei 200, gli ultimi corsi sulla terra battuta prima dell’avvento del tartan. Ottolina, con cui ci facevamo scherzi terribili, mi provocò: Livio, ormai sei finito! In finale non vinsi ma mi presi la soddisfazione di batterlo. In Messico arrivai da campione italiano: 20”7 a Trieste, sulla terra. Pensavo, sul tartan olimpico, di valere almeno 20”. Invece ebbi una crisi di altura in ritardo: il senso di spossatezza e l’incapacità di concentrazione mi fregarono. Fuori nei quarti di finale».
La memoria più cara in assoluto.
«Bruxelles, 1961. Oro al Mondiale militare nello stadio dell’Heysel, che diventerà tristemente noto. Mi viene incontro un anziano, che mi bacia le mani e mi ringrazia. È un vecchio emigrato che con il mio successo si era sentito riscattato dalle angherie che subiva come italiano all’estero. Nel raccontarglielo mi commuovo ancora».
La rivalità con Pietro Mennea. Non è mai stato tenero con l’erede, Berruti.
«Tra noi c’erano differenze abissali. Gli riconosco la capacità di perseverare nella sofferenza, ma secondo me un ego spropositato gli ha impedito di vivere lo sport con il sorriso. La verità è che il successo non ci appartiene: è merito dei geni di mamma e papà».
Geni buoni. Felici prossimi 80 anni, caro Livio.
«Grazie. Ho cercato di essere me stesso e di rappresentare il mio mondo in modo sano e con i piedi per terra. La mia natura sabauda mi ha sempre impedito di essere troppo aulico».
Marco Pastonesi per Il Foglio il 22 maggio 2019. Temperatura 24,5 gradi, umidità 69,9 per cento, pressione 762,7. Corsia numero 5. Dorsale numero 596. Maglia azzurra. Davanti, 200 metri. Dietro, i suoi 21 anni e un centinaio di giorni. Accanto, cinque colleghi, avversari, rivali, sfidanti, campioni. Intorno, a occhio, 80 mila spettatori e, in tv, il pianeta. Roma, Stadio Olimpico, finale dei 200 metri. Pronti-via: 57 passi per uscire dalla curva, altri 35 per arrivare al filo di lana, totale 20”5, record del mondo uguagliato.
Primo. Campione olimpico. E da quel 3 settembre 1960, ore 18, non c’è stato giorno in cui Livio Berruti non sia stato, e forse non si sia sentito, un uomo alato. L’uomo alato compie, domani, 80 anni. Da vecchio velocista, può finalmente ricordare con la dovuta lentezza. I primi sprint dietro i gatti: “Li spingevo in un vicolo cieco e cercavo di prenderli. Senza riuscirci”. E poi gli sprint sul greto dei torrenti (“A Stroppiana, nel Vercellese, zampettando fra un sasso e l’altro”) o all’oratorio (“Una discesa, velocissima, poi mi fermavo, scoppiato”). Gli sprint che faceva giocando a calcio e a tennis, pattinando sulle rotelle o sul ghiaccio, pedalando, perfino camminando in montagna (“Magro come un chiodo, miope fino a quattro diottrie e mezzo, pochi soldi in tasca e neanche l’idea di poter guadagnare con lo sport”). Tant’è che cominciò per caso: “A scuola, nel 1955. “Con quel fisico lì, devi fare salto in alto e in lungo”, mi dissero al liceo Cavour, a Torino. Un giorno, siccome mancava l’insegnante, ci unirono a un’altra classe, c’era il più veloce della scuola, allestirono una sfida nel cortile, vinsi con disinvoltura”. Disinvoltura ed eleganza lo accompagnarono sempre. Lo sosteneva Gianni Brera: “L’apparizione di Berruti fu angelica e folgorante insieme. Un ragazzino costretto da qualche iddio a compiere gesti di superiore coordinazione, dunque di naturale eleganza”. Lo ammette lui stesso: “Avevo paura di perdere e fare brutte figure, anche verso di me. Mi piaceva rispettare i canoni agonistici ed estetici, far vedere qualcosa di bello. Quando ci riuscivo, mi sentivo a posto con la coscienza. Forse ero egoista”. Era istintivo, naturale, puro. “Mi allenavo due volte la settimana se domenica c’era la gara. Altrimenti tre volte. Un po’ per pigrizia, mia, un po’ per paura, dell’allenatore. Erano allenamenti tragicomici: 10-20 minuti intorno alla pista, piano, poi sei-sette allunghi di 80 metri, due volte i 150, doccia e via. L’importante era non stancarsi. Resistenza, zero. Pesi, neanche a parlarne. Il giorno della gara non facevo riscaldamento, arrivavo in pista 20 minuti dopo gli altri, poi li battevo”. Altri tempi, altre categorie. Il suo “alter ego” era Sergio Ottolina, lombardo dall’insostenibile leggerezza dell’essere: “Un giorno, a Formia, nel mio letto, notai un rigonfiamento. C’erano due teschi e ossa incrociate. Ottolina li aveva presi in un cimitero, lavati accuratamente e sistemati sotto le lenzuola. Feci finta di niente e non gli detti alcuna soddisfazione”. La sua passione erano le macchine: “Premio olimpico fu una Fiat 500, nemmeno ritirata, pagai la differenza e presi una 1100, che girai a mio padre. Poi con le 800 mila lire della vittoria e le 400 mila del record del mondo, più altre 600 mila di tasca mia, comprai la Giulietta sprint. Costava 2 milioni, ma l’Alfa mi fece lo sconto del 10 per cento. Che affare, pensai. Un mese dopo l’Alfa ridusse i prezzi, immaginarsi, del 10 per cento”. La sua attività, fino a poco fa, era andare nelle scuole e descrivere, raccontare, spiegare: “Un bambino di 11 anni mi domandò: ‘Scusi, ma a che età ci si dopa?’. Quel giorno rimasi senza parole”.
· Mi ritiro…e poi?
Stendardo, l’ex Lazio che ora fa l’avvocato: «Il 60% dei calciatori a rischio povertà dopo il ritiro». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. Lo stereotipo del calciatore di successo è sempre lo stesso: auto e case da sogno, fidanzate dalla bellezza stratosferica, lusso e reverenza, viaggi e ricchezza infinita. Neppure un cenno, invece, all’istruzione scolastica e soprattutto neppure una parola su quale sarà poi stato il destino del giocatore di pallone quando, sulla soglia dei quarant’anni (ma spesso molto prima), diventerà un ex. A raccontarlo ci ha pensato Guglielmo Stendardo, ex difensore di Juve, Napoli, Lazio e Atalanta ma anche ex ottimo studente con tanto di laurea in Giurisprudenza. Oggi Stendardo, oltre ad essere avvocato, insegna alla Luiss e ha iniziato a studiare da docente il destino dei suoi ex colleghi. Con risultati tristissimi. In Italia il 60% dei calciatori è rischio povertà dopo i primi cinque anni dal ritiro dai campi di gioco. Un po’ meglio le cose vanno in Europa anche se la percentuale dei giocatori poveri supera il 40%. I motivi? Intanto perché dei tremila giocatori professionisti appena il 10% ha uno stipendio alto che può garantire loro un futuro roseo. Gli altri dopo il ritiro dai campi di calcio devono lavorare. E qui nascono i problemi. «I giovani calciatori italiani spesso trascurarono l’istruzione e non si preoccupano di avere basi d’istruzione solide per affrontare il futuro — spiega Stendardo nella sua ricerca, presentata su Leggo —. Chi ha dai 20 ai 35 anni, pensa solo al calcio e, guadagnando molto, segue un tenore di vita alto. Ma quando poi arriva il ritiro dall’attività agonistica iniziano i problemi». In più, secondo Stendardo, i risparmi accumulati spesso vengono sprecati perché sono trascurate le più elementari regole degli investimenti e a volte gli ex calciatori finiscono nelle reti di agenti finanziari senza scrupoli. I dati del livello d’istruzione dei calciatori italiani sono disarmanti: il 70% ha appena la terza media e solo l’1% una laurea. E purtroppo sono tanti i genitori (e purtroppo anche i nonni) abbagliati dalle prodezze giovanili di figli e nipoti che li esortano ad allenarsi dalla mattina alla sera e a disinteressarsi agli studi. Dunque, secondo Stendardo, è arrivato il momento di intervenire sia spingendo i giovani a studiare, sia creando un fondo che garantisca a questi ragazzi un futuro più sereno. Come alcuni campioni hanno fatto. Un nome per tutti? Il difensore della Juve e della nazionale Giorgio Chiellini, che giocando si è pure addottorato (laurea magistrale) in Economia.
· L'addio al campo. Paolo Silvio Mazzoleni.
L'addio al campo. Paolo Silvio Mazzoleni. Pietro Serina per “l’Eco di Bergamo” il 7 giugno 2019. «Ibrahimovic il più forte che ho visto, l'unico che sul campo ti dava la sensazione di poter vincere le partite da solo. Messi il simbolo del talento, Cristiano Ronaldo la macchina perfetta. Zanetti e De Rossi i più carismatici, Hamsik quello meno sopportabile». Dopo 28 anni di calcio Paolo Silvio Mazzoleni, classe 1974, ha chiuso la carriera arbitrale per limite d'età. Da inizio stagione è l' arbitro lombardo con più presenze in A nella storia del calcio italiano, l'unico sopra le 200 partite. «Mi chiama Casarin: "Bravo, bel traguardo. E mi hai tolto l'impiccio di 'sto record..."».
Lei esce dai quadri, si ipotizza che andrà nel gruppo unico dei Var.
«Mi hanno chiesto di dare una mano, so che quella è una via preziosa per aiutare i giovani sul campo. Dato che mi vedo ancora in questo ambiente, perché no».
Anche perché ormai l'arbitro al Var conta più dell' arbitro di campo.
«No, l'arbitro di campo dirige la partita, quello al Var lo aiuta a sbagliare il meno possibile».
Quando non sbaglia pure lui come nella finale di Coppa Italia.
«Non parlo di casi specifici. Ma il Var è un vantaggio per tutti, a qualsiasi arbitro lei lo chieda si sentirà rispondere: adesso farne a meno sarebbe un gran problema. Però si tende a pensare al Var come a un meccanismo infallibile, ma la realtà è un' altra: la tecnologia è uno strumento, l'arbitro che la utilizza è un uomo, quindi capita che sbagli».
Insomma, non si torna indietro.
«Impossibile, e per fortuna. E dove il Var non c'è, tutti ne sollecitano l'introduzione. Il nostro futuro sarà anche questo: aiutare gli arbitri all'estero, formandoli all'utilizzo della tecnologia».
Ma lei l' avrebbe voluta prima?
«Guardi, uno degli errori che più mi tormentano è un rigore in Juventus-Genoa: lo fischio, chiedo aiuto ai leader in campo, Del Piero che ha subìto il fallo giura che era in area, i genoani sostengono il contrario. Io l'ho visto in area: rigore. La sera vedo le immagini: fuori area di un metro. Bene: oggi, con il Var, a quell' errore si rimedia in pochi secondi. Perché gli arbitri ambiscono alla trasparenza, non esistono trame per far vincere questo o quello. L'arbitro è un uomo, in quanto tale capita che sbagli. Io prima di una gara non ero mai teso, dopo trovavo pace guardandomi allo specchio e guardando dentro me stesso, prima di coricarmi. Li ho sempre trovato la serenità».
Neppure dopo quella Juve-Napoli 4-2 in Supercoppa a Pechino? O dopo il rosso a Koulibaly in Inter-Napoli?
«Nessuna decisione sbagliata, quel rosso a Pandev è figlio della segnalazione di un assistente, Stefani, che poi ha fatto anche la finale dei Mondiali in Brasile con Rizzoli. Il rosso a Koulibaly è una decisione che nessuno può contestare: è il regolamento. I buu razzisti sono di competenza delle autorità, non dell'arbitro».
Ma perché oggi un ragazzo si dovrebbe mettere a fare l'arbitro?
«Ognuno ha le sue di motivazioni. Io venivo dal basket, due anni a Cantù prima di tornare a casa e a 17 anni mettermi a lavorare con mio padre. Mio fratello era arbitro, io mi volevo mettere alla prova sul piano individuale, ho trovato un ambiente serio e ho scoperto un' attività che poi mi ha aiutato nella crescita personale».
Basta questa motivazione?
«Poi arrivi ad alti livelli e ti senti parte di uno spettacolo da vivere con la massima professionalità. Infine, quando capisci che lo vivi meglio usando la spensieratezza del giovane e che dietro ogni arbitro ci sono uomini con altre priorità nella vita, allora ci sei».
Ci racconti la sua carriera.
«A 17 anni la prima partita, Mariano-Sabbio Giovanissimi, un derby a Dalmine. Due anni dopo Pontida-Barzana per l'esordio in Terza categoria, e in questo mondo di arrivismo - un ragazzo comincia ad arbitrare e dopo sei mesi dopo vorrebbe essere a San Siro - metterei l'obbligo di un anno intero in Terza categoria, per crescere. Tu sei un ragazzo e per la prima volta dirigi 20 persone su 22 più vecchie di te, arbitri nel profumo di salamelle e vin brulè, sei circondato da marpioni spesso scesi più in basso di dove potrebbero giocare, se capita per soldi. Niente ti forma di più».
Ma salendo cambiano le pressioni.
«Di sicuro. Una domenica Cortefranca-Romanese, e arbitri tra gli schiamazzi dei ragazzi nell'acquapark lì a fianco, la settimana dopo Pozzuoli-Turris davanti a cinquemila persone. Da paura, ma ne esci rafforzato. Nel '98 Perugia-Fiorentina primavera, ci vado in treno, mi fa sentire un arbitro vero. Nel 2000 arrivo in C, trovo come designatore Mattei che punta su di me, sono al terzo anno e mio fratello Mario sale in A e B, tutti mi suonano il de profundis. Hai già il fratello sopra, e Bergamo ha pure Messina e Nucini. Non salirai mai».
Lo pensavano proprio tutti.
«Invece faccio un quarto anno strepitoso, nel 2004 mi ritrovo promosso, quarto arbitro di Bergamo alla Can. Parto da un Verona-Empoli 0-1 in B, l'anno dopo esordio in A con Lazio-Treviso 3-1, mi inganna una simulazione di Rocchi a contatto con Handanovic, il rigore non è determinante per il risultato ma a fine partita c' è Mattei nello spogliatoio che mi abbraccia: "Hai diretto benissimo, ma Rocchi ti ha abbindolato. Benvenuto in A"».
E lei?
«Ho cercato di imparare, ero felice per essere arrivato in quello stadio che costeggiavo quando a vent' anni, ero a Roma tra i corazzieri, andavo a prendere servizio prima di rientrare la domenica a Bergamo per quell'anno in Terza Categoria. E lì 15 anni dopo con Roma-Parma 2-1 ho chiuso la carriera, con l'onore di assistere al saluto a De Rossi, uno dei più carismatici. Mi ha colpito il suo abbraccio, sapeva che uscivo dai quadri, mi ha regalato una dimostrazione di stima che mi porterò per sempre nel cuore».
Ma lei si sta emozionando.
«Quello e i saluti dei miei colleghi a Coverciano, nell'ultimo raduno, non li scordo più. Sono la dimostrazione che dietro l'arbitro c'è un uomo e se l'uomo ha dei valori questi fanno la differenza. Quest' anno a fine gara sto lasciando S. Siro dopo aver diretto l'Inter, passo davanti al loro spogliatoio e sulla porta, era aperta, campeggia una mia foto con scritto "è tosto, è spigoloso"».
La foto dell' arbitro sulla porta dello spogliatoio? Questa è bella.
«Incrocio Pane, è nello staff di Spalletti, gli chiedo spiegazioni e lui mi dice: "Il mister lo fa sempre, per spiegare ai giocatori chi è l'arbitro. L' ho sentita una medaglia al merito: tosto e spigoloso. E per bene. Infatti i rapporti migliori li ho avuti con i carismatici: De Rossi, Bonucci, Zanetti, Diamanti, Gattuso, Stankovic».
Le sue esperienze internazionali?
«In tutto circa 90 partite. La più bella Chelsea-Bate Borisov 3-1 in Europa League, a ottobre. E la più emozionante Francia-Germania 0-1, amichevole nel 2014: c' erano 80 mila persone».
Diceva di aver fatto il corazziere. Ma quanto è servito il fisico, in carriera?
«Di sicuro è servito, ho sempre guardato i giocatori dall' alto verso il basso, giusto Ibra mi guardava dritto negli occhi. E prima che mi chieda della mia mania per la condizione fisica le aggiungo che correre lungo le mura di Città Alta è sempre stata una mia grande passione. Lo faccio guardando verso l' aeroporto È la libertà».
Le sue passioni: basket e antiquariato. I profumi e l'Atalanta.
«Ho cominciato col basket, i profumi sono una passione, l' antiquariato il legame con mio padre Luigi, detto Lucio, restauratore del legno. Ha rimesso a nuovo tante chiese, a 17 anni ho lasciato il basket per tornare a Bergamo a fare la scuola d'arte, al Fantoni. Ho sempre sognato di lavorare con mio padre, l' ho fatto per anni. Lui mi accompagnava ad arbitrare, non mi ha mai fatto un solo complimento ma è sempre stato con me. Un bergamasco vero».
Altre persone da ricordare?
«Pierluigi Magni, l' arbitro che mi ha cresciuto con gli stessi metodi di mio padre e al quale ho portato i saluti da tutto il mondo. Un grand'uomo. Matte i di cui ho già detto, l' altro designatore Braschi, adesso Rizzoli. Mia moglie Daiana, ora ho la gioia di aiutare a crescere Riccardo, 4 anni. Sì, me lo lasci ripetere: dietro l' arbitro c' è sempre un uomo e se l' uomo ha dei valori, la vita ti ripaga».
Da Huffingtonpost il 13 giugno 2019. Si disputava la partita di Coppa Italia Milan-Juventus, era l′8 febbraio 2012 e (l’ormai ex) arbitro Paolo Mazzoleni cadeva a terra, colpito da un malore. “Mia moglie Daiana mi prese per mano e mi convinse a continuare”, racconta oggi Mazzoleni, che sta girando l’Italia per presentare l’autobiografia “La mia regola 18” in cui il 45enne racconta la sua lotta contro il cancro. “Arbitrai Fiorentina-Udinese la domenica prima, il lunedì entrai all’Istituto dei Tumori di Milano per l’operazione e per il mercoledì rifiutai il cambio di designazione offertomi dal designatore Stefano Braschi. È stata una scelta di vita, allietata tre anni dopo dalla nascita di mio figlio Riccardo”, dice Mazzoleni. Nel corso della presentazione del suo libro a Colognola, quartiere della città di Bergamo di cui l’ex arbitro è originario, spazio anche per le domande riguardanti il futuro, dopo l’addio al campo da gioco. “Non so se farò il pensionato o la mia sezione Aia mi darà incarichi. Di sicuro non mi vedrete a commentare i rigori in tv, la categoria arbitri nel piccolo schermo è in overbooking”, ha affermato Mazzoleni. E alla fine una promessa: “Ho 45 tatuaggi, ma mi voglio tatuare anche le 210 partite in Serie A”.
Mazzoleni, il tumore e gli arbitri umani. Roberto Perrone, Venerdì 14/06/2019, su Il Giornale. Naturalmente la notizia più forte e mediatica è che l'arbitro bergamasco Paolo Silvio Mazzoleni, 45 anni, che ha appena concluso la sua carriera in maglietta verdolina (una volta avremmo detto giacchetta nera), ha confessato di aver sconfitto un cancro nel 2012, arbitrando fino al giorno prima di entrare all'Istituto dei Tumori. Lo spinse a non fermarsi sua moglie Daiana e la scelta di vita è stata allietata dalla nascita di Riccardo. E' la notizia più forte e vogliamo sentire questo, per lui e anche per noi, per la speranza di battere il male più terribile, sempre annidato nell'ombra. Personalmente, però, il particolare della sua autobiografia, La mia regola 18 scritta con Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini (Absolutely Free), che mi ha colpito di più, è che Mazzoleni ha 45 tatuaggi e che si vuole tatuare le 210 partite di serie A dirette. Il secondo aspetto è che il libro lo ha presentato all'oratorio di Colognola, sul campetto dove gli è nata la passione per l'arbitraggio. Ogni volta che parla un arbitro, è che non risulta come ce lo immaginiamo, come lo descriviamo, cioè una divinità distante, crudele e irraggiungibile. Più di un dio dell'Olimpo, perché non ne conosciamo neanche il mito, non sappiamo quasi niente di lui. Si tratta di una specie di monaco, con moglie e figli ma chiuso in una specie di abbazia che racchiude più segreti di quella del Nome della Rosa. Per noi, dirigenti, allenatori, calciatori, tifosi, giornalisti, l'arbitro è un nemico e ci stupiamo, restiamo colpiti quando scopriamo che dietro il fischietto c'è un uomo. Un uomo da cui noi pretendiamo non che arbitri il giusto, ma che lo faccia a nostro favore. L'arbitro è l'unico degli attori di questo spettacolo a cui partecipano non solo quelli sul palco-prato, ma anche tutti gli altri, da cui pretendiamo non solo che non sbagli, ma che se sbaglia sia a nostro favore. Mazzoleni, intervistato da Massimiliano Nebuloni su Sky, ha pronunciato una frase che dovrebbe essere scritta sul risvolto delle magliette pisello e mandata a memoria da tutti: «Forse non verrò ricordato come un grande arbitro, ma come una persona onesta sì». Un arbitro non è un dio distante e tiranno, è un uomo. Dobbiamo chiedergli l'onestà, non la perfezione. Come non dovremmo chiederla a nessuno.
· Antonio Cassano.
Da repubblica.it il 30 settembre 2019. Antonio Cassano era all'evento Milano Calcio City per un confronto insieme al suo ex ct Fabio Capello. "Facevo dei disastri, se avessi ascoltato Capello, uno dei più grandi allenatori di sempre, avrei fatto cose più importanti”, ha detto il barese durante l'incontro alla Triennale. "Cominciò molto bene - ha osservato il mister - ma come tutti quelli che vanno a Roma si perse. Si è fatto coinvolgere da qualche festa di troppo".
Andrea Della Sala per fcinter1908 il 30 settembre 2019. Si sono incontrati per la prima volta nel 2001, poi di nuovo a Madrid qualche anno dopo. Oggi ancora, in Triennale, per ricordare gli anni passati insieme. Fabio Capello e Antonio Cassano hanno preso parte alla serie di eventi organizzati a Milano in questi giorni. Queste le loro parole:
Cassano: “Incontrai il mister nel 2001: mi voleva a tutti i costi alla Roma, non andai alla Juve per essere allenato da lui. Ho fatto la scelta migliore perché si poteva fare molto bene, almeno per quanto mi riguarda: ma io ho fatto dei disastri e il mister me ne ha dette talmente tante di cose buone, che non l’ho ascoltato e ho fatto un disastro”.
Capello: “Quando me lo sono trovato a Madrid ho detto: “Ancora?”. Lì ha perso un’altra grande occasione. Ma io lo scelsi per la Roma, lui la preferì alla Juve: però lui si perse, come tutti quelli che vanno a Roma. Non hanno l’umiltà, la voglia di vincere e ricominciare: facemmo festa per sei mesi per lo scudetto. Lui come talento è stato, dopo Baggio, il più grande del calcio italiano. La sua genialità è unica: negli ultimi 20 metri riusciva a passare e dribblare. Non tutti capiscono questa genialità, molti confondono i fuoriclasse con i geni, ma è diverso. Lui purtroppo è il più grande dispiacere che ho avuto, ha sprecato la sua genialità: avrebbe potuto dare molto al calcio italiano, ma ha dato poco in tutto, si è perso in capricci e bambinate”.
Fabio Capello promuove la corsa a tre. L’ex allenatore del Jiangsu Suning, intervistato da Pierluigi Pardo, ha tracciato un primo bilancio di questo inizio stagione, che ha visto Inter, Juventus e Napoli candidarsi prepotentemente per la vittoria finale. Fcinter1908 ha raccolto le sue parole: “C’è un piccolo ritardo da parte del Napoli. Tutto confermato come si prevedeva, c’è un piccolo ritardo della Juve di adattamento a certe cose. L’Inter è forte in difesa come si sapeva, non ha giocato bene fino ad ora ma ultimamente è molto migliorata. L’unica squadra che pensavo avrebbe fatto la differenza in difesa era il Napoli che invece ha avuto grossi problemi di adattamento”.
Sfida a tre. “Sì, il Napoli può recuperare. E poi c’è l’Atalanta. Finalmente se ne sono accorti, io è un anno che dico che giocano ad uomo. Conte? Ha fatto piazza pulita grazie alla società, che ha esaudito tutti i suoi desideri. Avere uno spogliatoio in cui si capisce che chi comanda è l’allenatore ti favorisce molto. E infatti certi giocatori, anche nuovi, non stanno giocando. Bisogna capire che per vincere ci vuole umiltà e continuare su questa strada”.
Luigi Pastore per “la Repubblica” il 20 novembre 2019. Il secondo tempo di Antonio Cassano è un impasto di saggezza e impeto: «Il carattere che hai resta sempre quello, ma da quando sono diventato papà, certi aspetti li ho smussati». Ma quello che pensa, anche a 37 anni, lo deve dire sempre e comunque. Per questo ha accettato la chiamata del suo amico Pierluigi Pardo al programma tv Tiki Taka : «Un' esperienza bellissima e divertente, devo ringraziare perché mi lasciano dire sempre quello che voglio. Ma d' altra parte chi mi prende, lo sa: deve prendere tutto il pacchetto di Antonio». Era così anche da giocatore, un delitto che il suo straordinario talento sia uscito di scena dai campi troppo presto.
E ora?
«Faccio il commentatore e ho appena finito il corso a Coverciano da direttore sportivo. Il migliore che ho ascoltato è Walter Sabatini, il più competente. Se ci fosse uno con la sua competenza e con la calma di Ausilio, sarebbe il direttore sportivo ideale».
Non ha mai pensato di fare l' allenatore?
«Scherza? Significa non vivere più. Ti alzi al mattino e per 24 ore devi pensare a tutto, agli allenamenti, alle partite, e poi devi anche dire delle bugie e a me non piace».
Le bugie a chi? Ai giornalisti o ai tifosi?
«No, ai giocatori, perché tutti a inizio anno dicono che in rosa i giocatori sono importanti allo stesso modo ma è una balla. Ogni allenatore ha sette-otto elementi su cui punta e gli altri ruotano. È sempre stato così e lo è ancora, ma in Italia con una differenza fondamentale rispetto al passato».
Quale?
«La qualità tecnica si è abbassata. Quando giocavo io come numeri dieci c' erano Cassano, Totti, Zola, Del Piero e Pirlo. Adesso trovatemene uno su quel livello, fatemi un nome».
Magari in futuro Tonali...
«Tonali è un incontrista, non è un numero dieci. Oggi spesso si confonde il regista con l' incontrista».
Quindi, Mancini fa i miracoli con la Nazionale?
«Ha vinto undici partite di seguito, è una bellissima Nazionale, ma bisogna vedere cosa succederà quando affronteremo squadre come Germania e Spagna. Se riusciremo a tenergli testa, allora con Mancini avremo svoltato definitivamente. In ogni caso sta facendo benissimo. Il nostro calcio a livello individuale in questo momento non è lo stesso che in passato, bisogna sempre ricordarlo».
Ma perché?
«È una questione generazionale. Ci sono periodi in cui nascono meno talenti. Poi certo, in Germania hanno fatto un grande lavoro sui settori giovanili e non hanno paura di lanciare subito i giovani. Di Mancini apprezzo soprattutto che fa un calcio propositivo, noi i nostri quattro Mondiali li abbiamo vinti tutti con la tattica e il contropiede. L' ultima grande Italia è stata quella degli Europei 2012 con Prandelli e io c' ero. Lui era un grande tattico ma mi lasciava libertà».
Chi vince lo scudetto?
«L' Inter».
Perché non la Juve?
«L' Inter mi ricorda la Juve del primo anno di Conte. Io ero al Milan e noi perdemmo lo scudetto. Certo, la Juve attuale ha due squadre e resta la più forte e completa, ma si vede lontano un miglio che è programmata per puntare a vincere la Champions. Se perde qualche punto per strada e l' Inter resta attaccata, Conte fa il colpo».
Meglio Allegri o Sarri?
«Allegri. Un allenatore che ti dà due o tre linee di gioco, ma poi dalla trequarti in avanti ti lascia libero e non ti ingabbia. Però, Sarri ha guadagnato mille punti con la storia di Ronaldo. Ha avuto il coraggio e la personalità di toglierlo e ha avuto ragione lui perché ha vinto. Ma ora niente punizioni per Ronaldo perché continuerà a essere la stella».
Ranieri salverà la Samp?
«Credo proprio di sì. È la persona ideale con la sua esperienza, ha già ridato tranquillità e equilibrio».
Ferrero?
«Non capisco perché i tifosi di colpo dopo sei anni abbiano preso a contestarlo. È vero che quest'anno la squadra stenta, ma i risultati sono sempre stati ottimi. Lui ha chiesto 95-100 milioni per vendere la Samp, sono gli altri che volevano comprare che non si sono mai avvicinati a quella cifra».
Cosa pensa del razzismo che continua a avvelenare gli stadi?
«Bisogna usare il modello Thatcher, Daspo a vita e carcere. Non ci sono più mezze misure, impariamo dagli inglesi. Certe cose sono inaccettabili e inconcepibili, i giocatori sono indifesi, non possono fare nulla. In Italia su tante cose non si ha il coraggio di decidere, qui bisogna farlo».
È vero che suo figlio di 9 anni è bravo come lei?
«È ancora piccolo, è nei Pulcini dell'Entella. Però, tira di più e meglio di me, io dribblavo di più, per me contava più l'assist che il gol. Il secondo, che ha sei anni, è fanatico di Marc Marquez, ma come padre a me le moto fanno paura».
Sua moglie è una grande pallanuotista, è vero che sogna le Olimpiadi di Tokyo?
«Mia moglie è una grande donna, una grande moglie e una grande madre. Per sette anni ha smesso quando sono nati i figli, poi si è fatta un mazzo così ed è tornata in vasca. Le Olimpiadi sono il suo grande sogno, spero lo coroni».
Chi sono i due presidenti migliori che ha avuto?
«In assoluto Riccardo Garrone. Poi, non l'ho praticamente avuto come presidente, ma lo conosco bene, Tonino Gozzi. Ha fatto dell'Entella un modello di società. Due persone serie, perbene, sincere e leali, che non hanno nulla a che vedere con tante brutte cose che ci sono nel calcio di oggi. So che il sogno di Gozzi è portare l' Entella in Serie A, glielo auguro di cuore, sarebbe bellissimo per lui e per il calcio».
Antonio Cassano: «Vado in tv e al parco faccio il papà, mi manca Totti». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Antonio Cassano, nato a Bari, 37 anni, insieme alla moglie Carolina Marcialis, 28 anni, genovese. Si sono sposati nel 2010 e hanno due figli, Christopher di 8 anni e Lionel che ha 6 anni (foto Massimo Sestini) Nighiri, uramaki, salmone appena scottato. E come dolce, mango. Un menù giapponese per Antonio Cassano, ex attaccante della Nazionale. L’appuntamento per l’intervista era negli studi di Mediaset dove Fantantonio è l’ospite-rivelazione della trasmissione TikiTaka, condotta da Pierluigi Pardo. Ma la fame ha avuto il sopravvento. «Abbiamo trascorso l’intero pomeriggio in piscina con i bambini», si giustifica sfoderando un sorriso dolcissimo Carolina Marcialis, campionessa di pallanuoto, e moglie del campione barese. I due sono inseparabili. «Lei ha saputo tirare fuori il meglio di me e mi ha regalato i miei figli», spiegherà Cassano a più riprese nel corso della chiacchierata. E sono proprio Christopher (8 anni) e Lionel (6) a far intenerire il papà quando sul cellulare arriva l’audio con due vocine che danno la buona notte e promettono: «Vi guardiamo alla tv». Le guance arrossiscono, gli occhi brillano più del solito: «Sono il mio tutto». È un papà tenero quello che sta uscendo dal ristorante giapponese, molto diverso dal bad boy che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila ha animato le pagine dei giornali sportivi con le sue “Cassanate”. Partiamo da una data, 18 dicembre 1999. Un ragazzino con la maglia numero 18 del Bari segna il gol vincente contro l’Inter. Così Antonio Cassano si è imposto agli occhi di esperti e appassionati, cosa ricorda di quella sera?
«La mia vita è cambiata, dal niente al tutto. Sono passati vent’anni e la cosa più bella è che chiunque incontro mi chiede di quel gol».
Da lì è decollata un’intensa carriera: Roma, Real Madrid, Sampdoria, Milan, Inter, Parma. Cosa ne pensa del calcio di oggi?
«Non mi ci riconosco. Il mio calcio era fatto di grandissima qualità, di gente che sapeva giocare davvero. Oggi in Serie A ci saranno cinque giocatori che all’epoca mia sarebbero potuti entrare in campo. Certo, ero abituato bene. Al mio fianco o contro avevo Ronaldo, Zidane, Totti, Del Piero, Pirlo, Iniesta, Xavi: difficile trovare un concentrato di campioni così».
Cosa manca oggi al calcio?
«Ho l’impressione che l’Italia stia inseguendo un calcio di quantità e tattica. Ci vorrebbero più giocatori di qualità come Franck Ribéry. Abbiamo Ronaldo, Higuain, Dzeko, Pianic, Insigne: e poi? Ai miei tempi la settima in classifica era la Fiorentina di Batistuta Edmundo Rui Costa, quando andavi a Bari, Lecce o Cagliari facevi fatica».
A quale squadra tra quelle in cui ha giocato è rimasto più legato?
«Alla Sampdoria per tanti motivi. Ero a Madrid, nel club più forte del mondo, il Real, e ho fatto tre passi indietro. Ma non ho rimpianti, anzi. Lì ho incontrato mia moglie».
Che città è Genova?
«Bellissima, meravigliosa. E, soprattutto, la gente non ti rompe i... (ride). Mi lasciano tranquillo: vado a correre sulla passeggiata, gioco a tennis, a paddle. Certo, mi fermano mi salutano, ma con grande educazione e non sono insistenti».
Com’è cambiata la città dopo il crollo del ponte Morandi?
«Per Genova e per me che ci vivo da 12 anni, e mi sento un genovese, è un dramma. Il turismo e l’economia ne hanno risentito. Passo spesso lì vicino, prima avevi un ponte meraviglioso ora c’è il vuoto».
Da città di mare a città di mare, che ricordi ha di Bari?
«È il luogo dove sono diventato uomo. I vicoli, le persone mi hanno fatto crescere in fretta».
Ogni tanto torna?
«Sono 12 anni che non vado nella città vecchia. Ormai ho tutti a Genova: la famiglia, mia mamma, mio cugino. Certo un po’ mi manca. Devo ringraziare la mia città se sono diventato Antonio Cassano. Non ricordo un grande calciatore che è venuto fuori dalla scuola calcio. I brasiliani crescono sulla sabbia, gli argentini nei vicoli, gli italiani in strada. Alla scuola calcio ti insegnano la tecnica, ma ti tolgono quella fantasia che per un bambino è fondamentale».
A proposito di bambini, i suoi figli che sport praticano?
«Christopher adora il calcio. È incredibile, si muove proprio come il papà», interviene Carolina. «In realtà lui calcia meglio di me, ma io dribblavo di più», aggiunge Antonio. «Questa stagione giocherà nell’Entella. Senza nulla togliere alle giovanili di Samp e Genoa, vorrei crescesse senza pressione, senza essere solo “il figlio di Cassano”».
E il piccolo Lionel?
«La sua grande passione è Marc Marquez».
Lei è pronto a comprare la moto?
«Non lo sarò mai. Già quando vanno in bici è un continuo “stai attento, vai piano”».
Un po’ apprensivo. Il mister che l’ha aiutata a crescere?
«Eugenio Fascetti. A 16 anni mi fece allenare con la prima squadra».
E il calciatore a cui è più legato?
«Il Pupo ( Francesco Totti, ndr). Ci conosciamo da più di 15 anni, è un fratello. Ho scelto la Roma per lui, mi ha ospitato a casa sua per tre mesi: immaginate avere me a 18 anni in casa. Poi ci sono Marco Materazzi, Lorenzo Insigne e Bobo ( Vieri, ndr) con cui condivido questa esperienza in tv. Anche in questo caso ho scelto con il cuore: sono molto affezionato a Pierluigi Pardo, poi è uno showman sportivo».
Ma veramente ha appeso le scarpe al chiodo?
«Non proprio. Gioco a calcetto con i papà dei compagni dei miei figli, sono delle scamorze». (Ride)
E come pallanuotista com’è?
(Carolina sorride). «È uno sport davvero faticoso. Qualche settimana fa dopo 20 secondi che facevo avanti e indietro mi sono messo sulla scaletta, non ce la facevo più».
Com’è oggi la sua giornata tipo?
«Meravigliosa. Mi sveglio alle sette, accompagno i bambini a scuola. Poi quando c’è la giornata del paddle — praticamente ogni giorno — vado a giocare. Alle quattro riprendo i bimbi e stiamo al parco fino alle sei. Quindi a casa».
Prepara anche la cena?
«Non so fare nemmeno un uovo al tegamino. Tra i fornelli il genio è mia moglie»
Carolina, dopo sette anni di stop, è tornata a grandi livelli entrando anche nel Setterosa. Ora è il suo momento.
«Sono a sua disposizione. Nel 2020 ci sono le Olimpiadi a Tokyo, spero avrà l’occasione di togliersi le soddisfazioni che merita».
Donne e sport: ha seguito la Nazionale femminile di calcio?
«Certo. Ci sono tre giocatrici davvero forti: Sara Gama, Laura Giuliani e Barbara Bonansea».
E della scelta di affidare la direzione della finale di Supercoppa alla francese Stephanie Frappart cosa ne pensa?
«Dobbiamo cambiare, premiare il merito: le femmine sono brave, lasciamole arbitrare. Meglio che avere alcuni maschi scarsi».
Carolina Marcialis in acqua durante un incontro di pallanuoto
Torniamo al calcio giocato: chi vince il campionato?
«L’Inter».
E la squadra che ci sorprenderà?
«La Fiorentina del mio amico Montella: è uno dei pochi che sa far giocare e divertire».
Mario Balotelli riconquisterà la Nazionale?
«Gli basterà fare una buona stagione e qualche gol. È un buon giocatore, come gli altri Azzurri. La verità è che dalla metà campo in su, di forti ci sono solo Chiesa e Insigne».
Quante partite guarda?
«Decine ogni settimana».
La squadra che più le piace?
«Il Manchester City di Pep Guardiola».
E del Liverpool cosa ne pensa?
«È una squadra quadrata che va a mille all’ora, ma appena abbassa la corsa rischia. Non ha grandi giocatori di qualità».
Come andranno le italiane in Europa?
«L’Inter passerà il turno perché è più forte del Borussia Dortmund; Napoli e Juve non avranno problemi. E anche l’Atalanta, City a parte, ha buone speranze».
Chi conquisterà la Champions?
«Spero tanto il Barcellona. Ho una passione per Messi, il mio secondo figlio non si chiama Lionel a caso. È il giocatore più grande della storia. È come Federer nel tennis: c’è Roger e poi tutti gli altri».
La vita — Nato nel quartiere di Bari Vecchia il 12 luglio 1982, Antonio Cassano è cresciuto solo con la madre. A 19 anni lascia la città pugliese per andare a giocare nella Roma. Dal 2010 è sposato con la pallanuotista Carolina Marcialis, vivono a Genova.
La carriera — Dopo l’esordio nel Bari (1999-2001), ha proseguito la carriera nel ruolo di attaccante vestendo le maglie di Roma (2001-2006), Real Madrid (2006-2007), Sampdoria (2007-2011); Milan (2011-2012), Inter (2012-2013), Parma (2013-2015) e ancora Sampdoria (2015-2017).
La nazionale — Dal 2003 al 2014 ha giocato con la Nazionale conquistando l’argento agli Europei in Polonia e Ucraina del 2012. Non era stato convocato per i Mondiali del 2006, vinti dagli Azzurri.
Filippo Di Chiara per SportWeek – la Gazzetta dello Sport l'11 agosto 2019. Un post di 257 parole datato 13 ottobre, utilizzando il profilo twitter di un amico (il giornalista Pierluigi Pardo),per chiudere una porta e iniziare un nuovo viaggio. Quello che via social Antonio Cassano aveva definito il «secondo tempo» della sua vita. «Perché il calcio è stato e sarà sempre tutto per me, ma si possono fare cose belle anche senza un pallone». In realtà la risoluzione dell’ultimo contratto, quello col Verona, risale al 27 luglio. Cassano, dopo un anno senza calcio, da zero a cento quanto sei felice? «Cento, anzi di più. Mille».
E che cos’è la felicità?
«Godermi la famiglia, il sorriso dei mie i figli. Vederli crescere, cambiare, raggiungere giorno dopo giorno nuovi traguardi».
Quando hai compreso che era giunto davvero il momento di dire basta col calcio?
«Dopo il Verona, soprattutto per orgoglio, volevo riprovarci. E avevo una sorta di debito morale col presidente Gozzi dell’Entella: avevo una nuova opportunità in casa ed era giusto tentare ancora, però dopo tre giorni mi sono accorto che mentalmente non riuscivo a reggere la routine, il rispetto degli orari, gli allenamenti, cioè tutto quello che avevo fatto per venti anni. Ho realizzato in maniera definitiva che non c’era più il Cassano di una volta: a 37 anni bisogna volersi bene, guardare dentro se stessi e avere il coraggio di dire basta. Comunque alla fine ho portato fortuna, sono felicissimo per l’Entella e Gozzi: meritavano la promozione».
Da ottobre a oggi hai mai avvertito una sensazione di vuoto nella tua vita, come se ti mancasse qualcosa?
«No. Perché con i miei bimbi non c’è mai tempo di annoiarsi. E poi faccio tanto sport, ho un’agenda fittissima».
Cioè?
«La mia nuova grande passione è il padel: ci gioco cinque volte a settimana. Sono fortissimo. Al Forte Village, Di Biagio ha avuto la cattiva idea di sfidarmi: due set e a casa. Mi diverto col tennis. E poi…».
Fa una pausa, allarga le braccia quasi come se stesse iniziando a parlare di qualcosa di inevitabile. E poi…?
«La doppia partita a calcetto del venerdì. Prima con i genitori dei compagni di scuola dei miei figli: gli do assist da sogno, devono solo metterla in porta. E in queste partite faccio il bravo, sono molto paziente. Poi arriva la partita vera col mio amico Beppe Borrone presidente-allenatore,Mario Bortolazzi e Gennaro Ruotolo. E lì esce il vero Cassano (ride)».
Le scarpette al chiodo che cosa ti hanno restituito?
«Il sabato sera in famiglia, la possibilità di andare a cena fuori, lo stare a casa coni bimbi, le mattinate in libertà e il tiramisù senza limiti».
E l’affetto dei tifosi? La riconoscibilità?
«È tutto come prima, sotto questo aspetto non è cambiato niente. La gente mi chiama, i bambini mi fermano per strada per gli autografi. Avverto il calore della gente nei miei confronti, significa che ho lasciato un buon ricordo. Soprattutto gli stranieri mi collegano ancora al Real Madrid».
Ma sei intenzionato a restare nel mondo del calcio in qualche modo?
«A settembre mi iscriverò al corso da direttore sportivo. E lo frequenterò con grande serietà. Vorrei fare una esperienza come direttore tecnico: vorrei andare in giro per il mondo a scovare talenti, a prendere giocatori di qualità, e al tempo stesso avere un ruolo di raccordo tra squadra e proprietà. Perché dopo tanti anni da calciatore se c’è qualcosa che non va in uno spogliatoio, se esistono dei problemi, ho abbastanza esperienza per accorgermene subito».
Hai un modello in particolare per il ruolo di diesse?
«Sì, Piero Ausilio dell’Inter e Marco Branca. Sono due grandi professionisti».
Da quando hai smesso in maniera definitiva con il calcio giocato con chi hai mantenuto rapporti costanti?
«Tanti, ma in particolare con Totti, Materazzi, Zanetti, Insigne, Ausilio e Tibaudi (preparatore atletico, attualmente al Sassuolo, ndr)».
A proposito di Totti, la sua prima esperienza come dirigente non è stata particolarmente fortunata.
«Già un anno fa, ad aprile, quando ero andato all’Olimpico a vedere Roma-Barcellona di Champions League, mi ero accorto che non era felice: non voleva fare la comparsa in società, chiedeva di incidere di più sulle decisioni. Non ha potuto farlo, lì fa tutto Baldini, ed è andato via. Condivido in pieno la sua scelta».
E la scelta di De Rossi?
«Non mi aspettavo andasse al Boca. Pensavo dicesse sì alla Fiorentina: sarebbe rimasto a due passi da casa e a Firenze erano pronti a fargli ponti d’oro. Ha fatto questa scelta per rispetto della città, per i tifosi della Roma».
Allo stadio ti fai vedere poco. Come mai?
«Io sono ancora ipnotizzato dal calcio: vedo almeno una partita al giorno in tv, minimo. Però in Italia c’è poca qualità, io sono assolutamente dalla parte dei giochisti e non dei risultatisti.
L’ultimo allenatore che in Italia è riuscito a conciliare i due aspetti è stato Ancelotti col Milan: ha vinto e divertito. E allora preferisco guardare il City, il Barcellona piuttosto che andare allo stadio per vedere la Serie A. Anche Mourinho, Klopp e Simeone non mi attirano particolarmente, non mi tengono incollato al video. L’ultima partita cui ho assistito dal vivo è stata proprioRoma-Barcellona. Comunque in Italia c’è poca qualità».
Perché sostieni questo?
«Quando io giocavo nel Milan l’attacco era formato da Ibrahimovic, Cassano, Inzaghi, Pato e Robinho: devo aggiungere altro?».
Hai dato più tu al calcio o viceversa?
«Il calcio mi ha dato tanto, popolarità, ricchezza. Io invece gli ho dato poco: gol, emozioni, ma in realtà solo il 40- 50% di quello che avrei potuto fare».
Cassano e la Var: sareste andati d’accordo?
«Assolutamente no. Perché è totalmente inutile: le lunghe attese, quei minuti su minuti per verificare un’azione hanno finito per togliere emozione a chi gioca e a chi è seduto in tribuna».
Chi vince il prossimo campionato?
«Stavolta tocca all’Inter, davanti alla Juventus e al Napoli. Con l’arrivo di Conte il gap è stato annullato».
Come vedi Sarri alla Juventus?
«Lo immagino alle prese con tante difficoltà. Ha uno spogliatoio di gente con grandissima personalità da gestire, a iniziare da Ronaldo. Vedremo se ne sarà capace. Piuttosto… fossi al posto della Juve mi terrei stretto Higuain: è come Benzema, è l’ideale per il gioco di Ronaldo».
De Ligt è costato alla Juve 75 milioni.
«Una vera follia».
È l’estate dei difensori.
«Ma anche i 90 milioni per Maguire sono spropositati. E allora Maldini e Roberto Carlos quanto valevano?».
Cosa pensi del calcio femminile?
«Apprezzo gli sforzi delle ragazze, davvero, ho seguito con simpatia l’Italia ai Mondiali. Ma è chiaro che c’è una enorme differenza con i maschi».
Con tua moglie Carolina Marcialis vi siete dati una ideale staffetta sportiva. Quando tu hai smesso di giocare, lei è tornata ad alti livelli e quest’anno ha ritrovato la Nazionale. È solo una casualità?
«La pallanuoto è uno sport faticosissimo, e se stai fermo 7 anni è difficile tornare competitivi. Io mi diverto ogni tanto a stare in acqua, ma sono scarso: riesco solo a giocare da fermo a bordo vasca. Carolina è stata aiutata dall’avere un enorme talento naturale e ora tocca a lei sognare. Ormai ci siamo scambiati i ruoli: da metà maggio a inizio luglio lei era a Ostia al collegiale azzurro e io dalle 7 del mattino gestivo i bimbi: la colazione, poi la scuola, poi passavo a prenderli all’uscita, li portavo a giocare ai giardinetti e la sera li mettevo a nanna. E vederli crescere dà una gioia infinita».
Quanto conta Carolina nella tua vita?
«Donna e mamma speciale. Mi ha cambiato come uomo. Di meglio non c’è».
Chi comanda in casa?
«Lei. Sono riuscito a sventare una vacanza in camper in Grecia ma comanda lei, non c’è dubbio».
Avete mai pensato di avere altri bambini?
«Nei progetti ci sono almeno altri due figli.
Io sono pronto, ma in questo momento è giusto che Carolina si giochi con serenità le sue chance sportive».
Che futuro ti auguri per i tuoi figli?
«Dovessero fare i calciatori non sarebbe facile per loro portare sulla maglia il nome Cassano. Mene rendo conto. Comunque il primo, Christopher, ha 8 anni e si muove bene, promette, ha tocchi alla…Cassano (ride). L’altro, Lionel, invece in questo momento è affascinato soprattutto da Marquez e solo l’idea di vederlo su una moto mi fa venire i brividi. Comunque il calcio lo devono vivere con gioia, spensieratezza, devono giocare per strada, sbucciandosi le ginocchia. Il talento non va ingabbiato dagli schemi, dai maestri delle scuole calcio: i più grandi calciatori arrivano dal calcio della strada».
Domanda e risposta, senza troppi giri di parole. Che cosa ti fa arrabbiare?
«La falsità».
Un pregio e un difetto.
«Sono sempre diretto e chiaro».
Il difetto?
«L’essere troppo buono».
Testa o cuore: cosa comanda dentro di te?
«Prevalentemente agisco d’istinto e quindi col cuore, ma col tempo ho imparato che almomento opportuno occorre dare spazio alla ragione».
Cassano e la fede.
«Non sono credente, non vado in chiesa. Penso ci sia un destino già prefigurato per tutti, però tocca a noi indirizzarlo in un certo modo».
Cassano e la politica.
«Non capisco nulla ma vedo un’Italia che sta andando a rotoli».
Cassano e la musica.
«Gigi D’Alessio è il top, presto andrò a sentirlo in concerto».
Cassano e i libri.
«L’ultima stagione di Phil Jackson. Fantastico».
Cassano e i social.
«Zero. Quando devo comunicare qualcosa utilizzo quelli degli altri».
Mare o montagna.
«Mare, non c’è partita».
Federer o Nadal?
«Federer. Per la sconfitta con Djokovic a Wimbledon non ho dormito per due giorni. È il più grande di tutti, però su quei due match point gli è venuto il braccino».
Una maglia che conservi gelosamente a casa tua.
«Sono due: quelle di Totti e Messi».
Hai un jolly: puoi fare chiarezza su qualche “cassanata”, giocatelo.
«Non ho mai fatto l’imitazione di Capello nel 2006. Mai. Quel giorno a Madrid, a Ronaldo e Diarra stavo solo dicendo: “Anche stasera farò una grande serata” perché sapevo che il giorno dopo non avrei giocato. E poi… non ho mai “zuccherato” in maniera “speciale” il caffè a Batistuta, è una cosa totalmente inventata. Invece, questa non l’ho mai detta prima, ho tagliato un pantalone a Galbiati, il vice di Capello: Italo infilò una gamba e andò tutto bene, con l’altra trovò poca stoffa…».
Il giorno più bello della tua carriera?
«Tra poco saranno venti anni: 18 dicembre 1999, il gol all’Inter con la maglia del Bari. Indimenticabile».
A proposito di Bari: è ancora una ferita aperta?
«No, assolutamente. È la città in cui ho vissuto la mia infanzia in un certo contesto ambientale e credo che anche questo, assieme al talento, mi abbia dato la forza per diventare un campione. Mia madre vive con me a Genova, sono andato via 20annifa e non sono più tornato a Bari ma auguro a squadra e tifosi di tornare presto in Serie A: lo meritano e ne sarei felice».
Il giorno da calciatore che vorresti cancellare.
«L’eliminazione all’Europeo del 2004 per il 2-2 tra Danimarca e Svezia».
Nel calcio c’è un nuovo Cassano?
«No. Insigne è l’unico che si avvicina a me come idea di gioco».
La chiacchierata è finita. Siamo nel bardello stabilimento balneare genovese “7Nasi”, una signora si avvicina a Cassano e gli dice: «Io ero una sua grande tifosa, una volta ho fatto anche una intervista in tv per difenderla». Antonio sorride: «La ringrazio tanto signora». Perché alla fine ha ragione lui,in fondo non è cambiato nulla e Cassano è sempre Cassano.
· Balotelli e le balotellate.
La storia si ripete: Balotelli in castigo. Grosso non convoca l'attaccante per la trasferta di Roma. A gennaio addio al Brescia? Marcello Di Dio, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. L'incrocio mai banale tra la Roma e Mario Balotelli - fatto di insulti e calcioni subiti oltre che di vittorie importanti ma non in campionato - questa volta non ci sarà. L'attaccante, dopo essere stato allontanato dal tecnico Grosso dall'allenamento di giovedì per scarso impegno e il confronto con il presidente Cellino il giorno seguente, non è nella lista dei convocati del Brescia per la trasferta dell'Olimpico. La storia si ripete, scene già viste in altre sedi e con altri tecnici. Balotelli resta in castigo e ancora una volta per colpa sua. L'esclusione era nell'aria già dopo la conferenza stampa della vigilia di Fabio Grosso. «Io pretendo grande ritmo e intensità, quando non succede preferisco cambiare. Lui non lo ha fatto ed è stato fatto da parte», la spiegazione del tecnico di quanto accaduto a Torbole qualche giorno fa. Dichiarazioni che richiamano quelle già espresse da Conte, Mancini, Prandelli, Mourinho e dagli altri allenatori che SuperMario ha incrociato in carriera. «Non mi va né di minimizzare, né di gonfiare quello che è successo. Per me sarà determinante utilizzare tutti, poi io posso arrivare ad un certo punto, mi piacerebbe tanto riuscire ad aiutarlo, ma la maggior parte del lavoro spetta a lui», l'altro messaggio lanciato da Grosso all'attaccante. Che pure ieri si era allenato regolarmente, ma lo strappo era stato troppo grave per passarci sopra. Ecco il provvedimento punitivo, perchè «le scelte vanno fatte nell'unica direzione della squadra», ha detto ancora il tecnico del Brescia. Già, Brescia. Nemmeno nella sua città Balotelli trova pace. Tanto che nelle ultime ore - anche se non ci sono trattative in corso - si sta facendo largo l'ipotesi di un clamoroso divorzio già a gennaio: le destinazioni possibili la Cina, il Brasile o il Galatasaray, vecchio pallino di SuperMario. Arrivato a casa sua per aiutare il club, attualmente ultimo in classifica, a salvarsi e per convincere Mancini a ridargli una nuova (l'ultima) chance in azzurro. Situazioni che stentano a decollare con evidenti ripercussioni sugli atteggiamenti di Balotelli in campo e fuori. «Mario ha perso il sorriso dopo Verona», la frase del patron del Brescia Cellino in riferimento agli insulti che lo stavano portando a lasciare il campo. Un campo che rischia di rivedere poco almeno in Italia se continuerà a 29 anni a gettar via la sua carriera.
Balotelli, Cellino shock: «Mario è nero, sta lavorando per schiarirsi». Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 da Monica Colombo su Corriere.it. Sembra non avere pace Mario Balotelli che anche a Brescia, squadra della sua città, non pare aver trovato concentrazione e serenità. La scorsa settimana l’allontanamento da parte dell’allenatore Grosso dopo che era stato schierato con la formazione delle riserve. Poi la mancata convocazione da parte del tecnico nella partita con la Roma. Lunedì all’arrivo in Lega, il presidente Massimo Cellino ha dichiarato: «Cosa succede con Mario? È nero, sta lavorando per schiarirsi ma ha molte difficoltà». Sarà pure una battuta, ma non il metodo più efficace per stemperare la tensione, dopo i buu razzisti di cui l’attaccante già è rimasto vittima a Verona. «È successo che nel calcio ci sono squadre che combattono e vincono. Se noi pensiamo che un solo giocatore possa risolvere le partite, offendiamo la squadra e il gioco del calcio». Ora resta da capire cosa succederà nella prossima finestra di mercato di gennaio. «Il mio allenatore ha fatto l’errore la settimana scorsa, parlando di Mario e non della squadra. Balotelli l’ho preso a fine mercato non per fare abbonamenti e vendere pubblicità. L’ho comprato perché poteva essere un valore aggiunto. Ma lo abbiamo fatto diventare un punto di debolezza per sovraesposizione. Se continuiamo a parlare di Mario facciamo male a lui e a noi stessi». Meno social per Balotelli che in una storia su Instagram aveva detto di voler lasciare parlare gli altri. «No, non leggo i social — ha replicato Cellino —. Ma Mario dà più peso ai social che ai suoi valori da sportivo. Non l’ho preso per i social ma perché può ancora dire qualcosa nel mondo del calcio, quando sarà in condizione di farlo, se lo sarà, risponderà in campo. In quel momento tornerà ad essere un calciatore. Adesso mi sembra un po’ lontano dall’esserlo». Poi ancora: «L’ho preso sognando che fosse un valore aggiunto, ma non speravo assolutamente che fosse quello che doveva salvare la squadra. L’ho detto anche a lui. È troppo facile scaricare le colpe solo su Balotelli e usarlo come capro espiatorio. È il motivo per cui ho cambiato allenatore. Andava più aiutato lui che noi, forse all’inizio eravamo in grado di farlo ma ma adesso ci siamo indeboliti come squadra ed è più difficile. Per questo dobbiamo parlarne il meno possibile e spegnere questi social. Sono la bestia del 2000», ha concluso senza mezzi termini Cellino.
Cellino-Balotelli: SuperMario e l’addio al Brescia. Ma la mamma non vuole. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it da Carlos Passerini, inviato a Brescia. La società e l’attaccante sul punto di rottura, corteggiato dal Galatasaray. «Essere qui è un sogno». «Anche per me». Era solo tre mesi fa, era il Balotelli day, il giorno della presentazione: la sala conferenze piena, fuori un caldo del diavolo e centinaia di tifosi a inneggiare al ritorno a casa del figliol prodigo. Mario e il suo nuovo presidente seduti uno accanto all’altro. Cellino in un’inedita versione paterna: «Altro che ultima occasione, Mario risponderà sul campo» tuonava il padre-patròn. Nessuno dei due immaginava che a novembre sarebbero stati a questo punto. Il Brescia ha fatto un punto in 8 partite, ha già cambiato allenatore ma è sempre più ultimo. Balo ha segnato la miseria di due gol, da un pezzo è triste e non ride più. La verità è che il rapporto fra l’attaccante e la squadra della sua città («per la quale tifava il mio papà che non c’è più, chissà come sarebbe contento a sapermi qui» disse quel giorno) sembra ormai compromessa. La bella favola è finita, il sogno s’è trasformato in incubo. Anche la piazza s’è raffreddata. Mario potrebbe finire in panchina o addirittura in tribuna anche sabato nel derby con l’Atalanta. Prove di addio. L’ipotesi più probabile è una separazione a gennaio. Ci stanno pensando tutti. Cellino, Raiola, lo stesso Mario. Il presidente in realtà ha perso la pazienza: «Se potessi tornare indietro lo riprenderei? Diciamo che glielo chiederei in un altro modo: te la senti? Sei sicuro? Perché Mario sente un peso superiore a quello che credeva. Forse ha sottovalutato questa sfida». L’agente teme che di questo passo il suo assistito non riuscirà mai a raggiungere gli obiettivi personali (gol, presenze) che fanno scattare il bonus da 3 milioni lordi (ne guadagna uno fisso). E ora flirta con il Galatasaray e il Flamengo. A poco più di un mese dalla riapertura del mercato, il finale sembra scritto. A tifare per il colpo di scena c’è però mamma Silvia. Dopo anni in giro per il mondo, ogni giorno il suo bambino è a pranzo da lei. Ha pianto di gioia, quando le hanno detto che Mario sarebbe tornato a casa. Sembra una vita, invece erano solo tre mesi fa.
Le stupidaggini non finiscono mai. Scivolone shock di Cellino su Balotelli. HuffPost 25/11/2019. "È nero, sta lavorando per schiarirsi, ma è difficile" dice il presidente del Brescia sorridendo. Se anche era una battuta, era quantomeno infelice. Cosa succede con Balotelli? “Che è nero, cosa devo dire, che sta lavorando per schiarirsi però c’ha molte difficoltà”. È iniziata con questa frase, pronunciata sorridendo, una lunga analisi di Massimo Cellino, sulla situazione dell’attaccante. Forse una battuta, quantomeno infelice in questo clima di razzismo crescente fuori e dentro gli stadi italiani, sicuramente uno scivolone del presidente del Brescia che non aiuta per niente. Al suo arrivo nella sede della Lega Serie A, Cellino ha poi aggiunto: ”È successo che nel calcio ci sono squadre che combattono e vincono, se noi pensiamo che un giocatore da solo possa vincere la partita, offendiamo la squadra e il gioco del calcio”. Il presidente del Brescia ha continuato: ”È giusto comunicare con la gente però forse Balotelli dà più peso ai social che ai suoi valori da sportivo. L’ho preso perché è un metro e 90, è un animale, ha ancora un’età per dire qualcosa nel calcio. Poteva essere un valore aggiunto, per sovraesposizione lo abbiamo fatto diventare un punto di debolezza”. A chi gli domandava di un possibile addio al Brescia dell’attaccante a gennaio, Cellino ha replicato: “Il mio allenatore ha fatto un errore settimana scorsa, in conferenza stampa ha parlato di Balotelli e non della squadra. Ho preso Balotelli a fine mercato, non per fare abbonamenti né per vendere pubblicità. L’ho comprato perché poteva essere un valore aggiunto. Per sovraesposizione lo abbiamo fatto diventare un punto di debolezza. Se continuiamo a parlare di Balotelli facciamo male a lui e a noi stessi”. Il presidente del Brescia ha spiegato però di non sentirsi tradito da Balotelli, che dopo l’esclusione dalla sfida con la Roma per la scarsa intensità in allenamento, aveva liquidato le polemiche con un messaggio su Instagram. “L’ho preso sognando che potesse dare un valore aggiunto ma non speravo assolutamente che fosse quello che doveva salvare la squadra. L’ho detto anche a lui - ha spiegato Cellino -. È troppo facile scaricare le colpe su Balotelli e usarlo come capro espiatorio. E’ un motivo per cui ho cambiato allenatore. Andava più aiutato lui di quanto lui potesse aiutare noi. Forse all’inizio eravamo in grado di farlo, ora ci siamo indeboliti noi come squadra ed è più difficile aiutarlo. Perciò dobbiamo cercare di parlare meno possibile e di spegnere ’sti ca... di social, sono la bestia del Duemila”. Brescia Calcio: “Frase di Cellino su Balotelli una battuta fraintesa”. “In merito alle dichiarazioni rilasciate questo pomeriggio dal Presidente Massimo Cellino, riferite al nostro giocatore Mario Balotelli, Brescia Calcio precisa trattasi evidentemente di una battuta a titolo di paradosso, palesemente fraintesa, rilasciata nel tentativo di sdrammatizzare un’esposizione mediatica eccessiva e con l’intento di proteggere il giocatore stesso”. Così il Brescia Calcio in una nota sulle dichiarazioni rilasciate dal patron Cellino arrivando nella sede della Lega Serie A.
Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 23 novembre 2019. Entrare nella testa di Balotelli è come andare a mani nude a caccia di uno strano animale che, per via di un misterioso innesto, è allo stesso tempo un tenero cerbiatto e una belva furiosa. Bambi e Godzilla nella stessa persona e, spesso, nello stesso istante. L’ultimo episodio sconforta anche i suoi fan mai arresi all’evidenza. Cosa spinge un tipo mite come Fabio Grosso, qualcuno dice troppo mite per fare un mestiere così carogna, ad allontanare dal campo il figliol prodigo, tornato a Brescia, la sua terra, nel segno dell’orgoglio e della redenzione? E cosa soprattutto spinge questo ragazzone, tutte le sante volte che trascina su in alto il macigno del suo pessimo carattere, e tutti lì che applaudono il miracolo, a rotolare ogni volta a valle, con effetti sempre più rovinosi? A domanda sul tema, Roberto Mancini, l’ultimo mohicano al suo fianco, risponde: “Mancano sei mesi per le convocazioni, c’è tanto tempo per decidere”. In realtà, il tempo è finito. Balotelli lo ha sprecato con scientifico puntiglio, da manuale dell’autolesionismo. A 29 anni si ha ancora il diritto di sbagliare, se tu non hai troppe volte mostrato che “sbagliare” è una voluttà incontrollabile oltre che malsana. A Brescia la delusione si tocca con mano. Si dice che Cellino sia sull’orlo e forse anche oltre del dichiararsi pentito. Di sicuro, s’interroga. Ma come? Torni dopo tre anni in Italia, nella città in cui sei cresciuto, dove tutti ti amano, accolto come una divinità, ti faccio tre anni di contratto a tre milioni netti l’anno, mi aspetto da te che ti prendi da leader i ragazzi sulle spalle, molti di loro al debutto nel calcio che conta, e l’unica cosa che mi mostri è il tuo patologico mal di pancia? La tua offensiva svogliatezza? Il tuo ribadire che nessuna tribù al mondo è degna di leccare le tue ataviche ferite? Non so se Mario Balotelli sia una battaglia persa. Non so se sia un’anima dannata. So, però, qual è la sua dannazione. L’essere incastrato nella sua storia. Che, come tutte le storie, è la storia di come uno se la racconta. E lui se la racconta maledettamente male. Ci si è messo anche il mondo di fuori. Chiamarlo “Super Mario” è stata una crudeltà. Mario è un ragazzo fragile che di super ha solo la sua ossessione del Nemico. Come tutte le persone fragili copre le falle della sua esistenza dichiarandosi vittima. Di nemici ogni volta diversi. Allenatori ostili, compagni infedeli, giornalisti fetenti, tifosi bastardi e razzisti. Il punto è che i nemici, come gli amici, sono solo immaginari. L’unico nemico vero è quello che ti vuole trafiggere le carni con la baionetta e l’unico amico vero è quello che si mette tra te e la baionetta. Il resto è farina della mente. Ma il guaio peggiore di Balo è un altro. Nel momento in cui la vita non si allinea ai tuoi sogni, ad esempio quello di strappare il Pallone d’Oro a Messi e a Ronaldo, scatta micidiale il cupio dissolvi. La smania di accumulare sconfitte, passaggi a vuoto, delusioni, per confermare a te stesso la feroce persecuzione del mondo. Il “nemico” da ossessione diventa citazione. L’alibi pronto per l’uso. La voluttà, se così’ si può chiamare e così si chiama, è deludere soprattutto chi ha la sfrontatezza di credere ancora in te. Il massimo della goduria non sapendo di godere. Volete che io vi mostri i miei successi? E invece io vi mostro le mie sconfitte. Cominciano in tanti a pensarlo: portarlo a Brescia è stato un granchio colossale. Mario ha trovato un po’ di pace ed è stato all’altezza del suo discreto talento solo quando le attese del mondo erano minime. Quando non doveva dimostrare niente a nessuno. A Nizza e nella prima parte di Marsiglia. Quando il mondo si dimentica di lui, lui dà il meglio di sé. Nella normalità si ritrova. Ma solo per poco. Perché poi, presto, non regge, smania che il mondo torni a occuparsi di lui. Non gli basta essere un padre felice, un buon calciatore, benvoluto da allenatore, compagni e tifosi. Vuole, fortissimamente vuole, tornare là dove il fuoco gli brucia le ali, nel cuore del suo trauma. Il serpente che si morde la coda? Esattamente. È il serpente della coazione a ripetere. Andare nell’unico vero campo dove la sua esistenza si gioca. Quasi sempre a perdere. E dunque? Dunque prendere a pallonate quattro miserabili che neanche possono mettere il loro inutile culo almeno su una Porsche, dunque mostrarsi svogliato, distratto, lontano da tutti e troppo preso da sé. L’unico vero nemico di Balotelli è Balotelli. Gli unici “buu” che possono fargli davvero male sono quelli che fa a se stesso. Come uscirne? Una donna grandiosa al suo fianco o una settimana con Ruud Gullit. Che una volta disse, quando lo interrogarono sul razzismo: “Dio mi chiese, prima di mettermi al mondo: vuoi nascere bianco con un piccolo coso o negro con un grandissimo coso? Io non ho avuto dubbi. E tutti quelli che hanno vissuto lo spogliatoio con me sanno che ho fatto la scelta giusta”.
Dalla lite col Mancio al motorino in acqua: le 10 peggiori "balotellate". Balotelli che viene cacciato dall'allenamento è solo l'ultima di una lunga serie di "balotellate" cominciate quando Supermario era appena maggiorenne. Dalla lite con Mancini al motorino lanciato in acqua, ecco le sue 10 peggiori "prodezze". Roberto Bordi, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Mario Balotelli ci è cascato un'altra volta. La notizia del suo allontanamento dal campo di allenamento del Brescia, deciso dal tecnico Fabio Grosso a causa della svogliatezza del centravanti, sorprende fino a un certo punto. Perché Balo, in carriera, ne ha combinate di cotte e di crude. Facendo mangiare le mani a quei tifosi che ancora nel suo talento, rovinato da molte uscite a vuoto. Che qualcuno chiama "balotellate", termine che fa pensare alle "cassanate" di un'altra croce e delizia del nostro calcio, Antonio Cassano. Dalla lite con Mancini ai tempi del Manchester City alla maglietta dell'Inter buttata a terra, passando per le multe per eccesso di velocità, ecco le 10 peggiori "prodezze" di Balotelli. Con la speranza di non dovere più aggiornare l'elenco.
10) Il rosso di Kazan. 29 settembre 2009. L'Inter di Josè Mourinho gioca in Champions League contro il Rubin Kazan. È l'anno del Triplete, ma i nerazzurri ancora non lo sanno. Quel giorno, Balotelli si fa espellere per doppia ammonizione. Lo "Special One", non la prende bene, ma qualche anno dopo parla dell'episodio con il sorriso. "In quella partita - racconta Josè - avevo tutti gli attaccanti infortunati. C'era solo Mario. Che, al 42' del primo tempo, si fa ammonire. Intervallo. Passo 14 minuti su 15 con lui: 'Non toccare nessuno, se qualcuno ti provoca non reagire', gli dico. Minuto 46: cartellino rosso!". La partita, per fortuna di Mario, terminò 1-1.
9) La maglia del Milan. 2010. Balotelli è ancora un giocatore dell'Inter. Non durerà. Già ad agosto il suo passaggio al Manchester City, dove si toglierà la soddisfazione di segnare il gol decisivo per lo scudetto dei Citizens, all'ultimo minuto dell'ultima giornata. Veste ancora di nerazzurro quando un bel giorno si fa intervistare da Striscia la Notizia. Per la precisione da Valerio Staffelli, bravo a metterlo a suo agio chiamandolo "Sor Mario". Balo ci casca, sta al gioco e scherza con l'inviato di Striscia. Che, a un certo punto, tira fuori una maglia del Milan con tanto di nome e numero 45. Supermario, vecchio cuore rossonero, ride. Non i tifosi dell'Inter.
8) "Non capisci niente di calcio". 25 aprile 2014, allo stadio Olimpico la Roma sbriga la pratica Milan: 2-0, reti di Pjanic e Gervinho. Balotelli, a quei tempi centravanti del Diavolo, al pari dei suoi compagni non gioca una buona partita. Glielo fa notare, in maniera severa ma educata, l'opinionista di Sky - ed ex calciatore della Juve - Giancarlo Marocchi. "Io la critica che ti rivolgo è che ti muovi veramente poco in campo. Non so il motivo, forse pensi che sia meglio giocare così, ma se riguardi le partite vieni anticipato e perdi palloni perché ti muovi poco". Risposta di Mario: "Secondo me non capisci di calcio". Boban lo riprende: "Non è bello". Ma Balo tira dritto.
7) L'eccesso di velocità. 12 novembre 2019. Tre giorni dopo la sconfitta del suo Brescia contro il Torino, Mario finisce nella bufera per una notizia che arriva dalla Svizzera. Infatti, attraverso il Foglio ufficiale della polizia del Ticino, la Sezione della circolazione fa sapere che nei confronti di Balotelli pende un divieto di condurre veicoli a motore per la durata di tre mesi. In soldoni, gli viene ritirata la patente. Una mazzata per chi, come lui, adora le auto sportive. Unica nota positiva: il divieto vale soltanto in territorio elvetico. Meno male.
6) La pallonata ai tifosi del Verona. 3 novembre 2019. Durante Verona-Brescia, Supermario viene "pizzicato" da alcune decine di tifosi gialloblù con insulti e "buu" razzisti. A un certo punto sbotta, ferma il gioco, prende il pallone con le mani e lo scaraventa contro il settore Poltrone Est dello stadio Bentegodi. Esplode l'ennesimo caso di razzismo nel calcio italiano. Questa volta, salvo qualche rara eccezione, sono tutti con lui. La solidarietà dei colleghi, anche al di fuori dell'Italia, è totale. E il giudice sportivo squalifica per un turno il settore incriminato. Tutto bene, quindi? No. Perché, notizia del 21 novembre, la squalifica è stata sospesa. Un brutto colpo per Mario.
5) Lo scooter in acqua. 7 luglio 2019. Mario è ancora svincolato, a breve firmerà un contratto con la squadra della sua città, il Brescia. Nel frattempo si gode le vacanze. Sta facendo quattro chiacchiere con un amico in un bar di Napoli, zona Margellina, quando gli viene un'idea: "Ti do 2mila euro se ti lanci in mare con il motorino". Affare fatto. Mario riprende la bravata con il cellulare e la pubblica sui social tra le risate del web. Ma non tiene conto di una cosa: è un reato, e infatti viene denunciato per istigazione a delinquere e gioco d'azzardo. Chi ci ha guadagnato dalla vicenda è il proprietario dello scooter, che valeva 600 euro. E i detrattori di Balotelli.
4) La maglia dell'Inter. 20 aprile 2010. È un giorno di giubilo per i tifosi dell'Inter, che festeggiano il 3-1 di San Siro al Barcellona nella semifinale di andata di Champions League. Tutto perfetto, compresa l'incornata del "Principe" Milito che dà due gol di vantaggio alla banda di Mourinho in vista del ritorno al Camp Nou. Tutto perfetto fino a quando Balotelli, fischiato da una parte del pubblico nerazzurro per essere entrato in campo con l'atteggiamento sbagliato, pensa bene di togliersi la maglia e scaraventarla a terra. È il caos. Prima di lasciare lo stadio, alcuni tifosi cercano di aggredirlo. E il capitano Zanetti lo scarica: "Mario ha rovinato la festa".
3) La lite col Mancio. 3 gennaio 2013. Il Manchester City è la squadra campione in carica della Premier League. Merito del gol scudetto siglato da Balotelli al 94', una rete che lo fa entrare nel cuore dei tifosi della squadra di Noel Gallagher, storico componente degli Oasis. Ma come gli succede spesso, Mario non riesce a mantenere la testa sulle spalle. Diventa nervoso, intrattabile. Un giorno, durante l'allenamento, un fotografo del Daily Mail realizza uno scoop che fa il giro del mondo. Le immagini sono inequivocabili: Balotelli risponde male al tecnico dei Citizens, Roberto Mancini. E gli tira uno spintone. Alla fine il Mancio, uomo di mondo, lo perdonerà.
2) Il lancio di freccette. 27 marzo 2011. Balotelli è alla sua prima stagione con il City. L'ambientamento procede bene, fino a quando l'attaccante compie una sciocchezza. La rivista People racconta che Mario è stato sorpreso mentre, da una finestra del primo piano del centro di allenamento del City a Carrington, tirava freccette contro verso alcuni ragazzi delle giovanili. "Perché lo hai fatto?", gli chiedono i dirigenti del club. La sua risposta è spiazzante: "Mi annoiavo". Scoppia la bufera, mentre una vecchia gloria del calcio inglese come Harry Redknapp lo definisce "arrogante. Non ho mai visto nessuno comportarsi così, sembra che odi quello che fa".
1) Il calcione all'ultima uscita con l'OM. 24 maggio 2019. Allo stadio Velodrome di Marsiglia, Balotelli si avvia a concludere la sua avventura con l'OM. È l'ultima partita del campionato. Mario, in teoria, può ancora giocarsi il rinnovo di contratto dopo avere disputato un ottimo girone di ritorno. È un derby, il più sentito in Costa Azzurra dopo quello con il Nizza. I nervi sono tesi, l'atmosfera è bollente. Il clima ideale per Supermario, che infatti si fa fregare dalla tensione. Mancano tre minuti alla fine del match - il Marsiglia sta vincendo 1-0 - quando si rende protagonista di un'entrataccia da dietro sul difensore avversario Daniel Congré. Rosso diretto. E tanti saluti alla Francia.
· Roma. Edin Dzeko, Capitan passato e Capitan futuro.
Paolo Brusorio per “la Stampa” 14 novembre 2019. Da piccolo lo chiamavano kloc, il lampione. Con quel fisico era impossibile non farsi notare, ma sapeva di presa in giro. «Da bambino tutto ti dà fastidio, mi dicevano che con il tempo avrei capito. Così ora mi scivola tutto addosso». Edin Dzeko è tornato in Bosnia e venerdì sfiderà l' Italia a Zenica, 70 km da Sarajevo. La sua Sarajevo. Della Nazionale è il capitano e agli spareggi di Nations League cercherà di portarla agli Europei dopo averla rappresentata ai Mondiali.
Repubblica Ceca, poi Germania, Inghilterra e infine Italia: da calciatore errante che cosa significa giocare nel suo Paese?
«I miei genitori, mia sorella, i miei amici: tutti vivono a Sarajevo. Anche per questo la nazionale mi dà un' emozione unica. Spesso mi chiedono perché non smetto, ma io gioco con il cuore e lascerò quando mi chiederanno di farlo».
Quando torna, trova il tuo Paese cambiato?
«È casa mia, non ci vado spesso e quando capita voglio fare tutto in pochi giorni. Come se dovessi recuperare il tempo. Io parlo spesso con mia moglie su che cosa fare a fine carriera, ecco, voglio tornare a casa. La mia vita è là».
Come convincerà i figli?
«Ogni tanto devo pensare anche a me stesso. Verranno con me e quando saranno grandi decideranno».
Ha mai raccontato loro della guerra? Dei bombardamenti sulla città quando aveva cinque anni, degli amici morti sotto le macerie?
«Io non amo parlare della guerra e loro sono troppo piccoli. Magari un giorno lo farò, sperando che nessuno di loro debba mai passare quello che ho vissuto io».
Che cosa le è rimasto di quegli anni?
«Mi ricordo quasi ogni cosa, ma fu peggio per i miei genitori. Ero un bambino e forse è stato meglio non capire tutto, la gente ancora adesso non ha compreso che quella guerra non serviva a niente».
In quale nazione si è sentito più straniero?
«Nella Repubblica Ceca. Era la prima volta che andavo via da casa, mi sentivo solo, non parlavo la lingua. Avevo 20 anni e i social non esistevano ancora. Fu molto triste».
In Italia si sente straniero?
«Non sono italiano, ma ci sto bene».
Dzeko è italiano in che cosa?
«Ormai gesticolo come voi quando parlo. Il primo passo è imparare la lingua: se vai in un paese straniero e non sai esprimerti, allora è meglio stare a casa».
Mancini l'ha allenata al Manchester City per due stagioni: l'ha ritrovato ct, sorpreso?
«Sapevo che era la sua volontà e ci è riuscito. Lui mi ha voluto in Inghilterra, nel nostro rapporto c'è stato un po' di tutto».
Tipo?
«Sono uno che vuole sempre giocare, lui non sempre mi sceglieva. Qualche volta ho sbagliato io, altre lui. Ogni tanto mi incazzavo, ma non la prendeva mai sul personale. Il rapporto è stato buono, quando lo vedo ci abbracciamo».
La Bosnia è stata la squadra che più ha messo in difficoltà l' Italia. Ora siete praticamente fuori, che cosa è successo?
«Saremmo dovuti esserci noi dietro all' Italia. Non la Finlandia. In alcune partite siamo stati molli, forse ci è mancata la mentalità. Ora abbiamo poche speranze, pensiamo alla Nations League: la partita di venerdì forse non servirà per il girone, ma a prepararci sì».
Con Mancini c' è una nuova Italia, è d' accordo?
«Sì, anche contro di noi hanno giocato in modo un po' diverso. Ma solo agli Europei vedremo se l' Italia è davvero tornata».
Gioca con Zaniolo: pregi e difetti?
«Il primo giorno in allenamento andava a mille. E così ha continuato. Il talento ce l' ha, ma deve migliorare. È un bravo ragazzo e deve essere grato alla Roma, ora non deve pensare al futuro. Magari un giorno andrà altrove, gli ho detto di guardare avanti e non accontentarsi mai».
Che cos' è il talento per Dzeko?
«Una dote innata, ma inutile senza il lavoro. Da ragazzo allenavo solo il sinistro, convinto che il destro fosse già a posto. E ora calcio meglio di sinistro. Mai smettere di migliorarsi».
Il più talentuoso con cui ha giocato?
«Forse David Silva. O Yaya Touré: un animale, in cinque anni ha perso un pallone».
Senza Florenzi è il capitano della Roma: sensazioni?
«Quella fascia l' hanno indossata Totti e De Rossi, pesa. Ma sono pronto».
Che cosa è cambiato da quando loro hanno lasciato?
«Con loro avevi più personalità in campo e fuori, si è perso qualcosa. Con me, Kolarov, Fazio, Mirante e Florenzi ci sono tanti giovani, ora sta a noi indirizzarli».
Dzeko all' Inter sembrava fatta, poi che è successo?
«Il mercato è troppo lungo, nel mio caso ha pesato. Con la testa ero ovunque, così nel primo giorno di ritiro ho parlato con Fonseca e gli ho detto che mi sentivo un giocatore della Roma».
Si considera un nuovo acquisto?
«Sono più motivato e più contento. Quando sei così rendi di più».
Che qualità deve avere un allenatore per entrare nella testa di Dzeko?
«Deve avere personalità ed essere onesto. Fonseca lo è: ti parla con schiettezza anche quando non giochi, sa dare importanza a tutti. Ci ha fatto capire che qui c' è un progetto, non siamo di passaggio».
Nell' ultimo Roma-Napoli è andato sotto la curva per zittire i cori razzisti, che cosa ha provato?
«La cosa migliore è che dopo il mio intervento hanno smesso con quei cori».
Ha cercato di mettersi nella testa di certi tifosi?
«Non li comprendo proprio. Ho giocato con ragazzi di ogni paese, siamo tutti fratelli. Non capisco che cosa abbiano in testa, certa gente deve stare a casa. Allo stadio non ci serve».
La Juve resta imbattibile?
«Sono sempre i favoriti, ma l' Inter può impensierirli. Conte trasmette fiducia».
E la Roma?
«Dopo una partenza negativa, ci siamo ripresi. Perdere a Parma non ci voleva, ma questa società deve stare in alto».
Il difensore più ostico?
«Chiellini. In campo mi dà davvero fastidio, la Juve ha vinto tanto anche grazie a lui».
È ambasciatore Unicef: se le dessero la bacchetta magica come la userebbe?
«Non vorrei vedere più nessuna guerra nel mondo».
Filippo Biafora per il Tempo il 23 novembre 2019. Francesco Totti tifa per Dan Friedkin. In pubblico e in privato. L’ex dirigente e storica bandiera romanista ha dato il pieno appoggio all’eventuale ingresso nella Roma dell’imprenditore americano e, vuole il caso, venerdì, in compagnia della moglie Ilary, è stato avvistato all’Hotel De Russie, lo stesso albergo in cui ha alloggiato Friedkin dal 13 novembre. Chissà se è stato un evento fortuito o pianificato: c’è chi assicura però che i due abbiano pranzato insieme. Totti è pronto ad iniziare la carriera da procuratore e per il momento nella sua testa non ci sono altre strade, tra cui quella di un ritorno a Trigoria: “Io ho un carattere abbastanza forte, sono abbastanza permaloso, tenace e rosicone. Quando prendo un percorso lo porto a termine. Se in questo momento mi venissero a chiedere di ritornare alla Roma da una parte mi metterebbero in difficoltà, dall’altra direi di no perché rispetto la mia decisione. Spero - ha detto il campione del Mondo in un'intervista a Radio Radio a proposito dell’interesse di Friedkin - che quest’altro americano possa venire, ma io non dico che dubito, però quando ci metti le mani dentro capisci la realtà e cosa c’è dentro la Roma. Io ne so qualcosa. Spero che un giorno i tifosi della Roma, me compreso, possano tornare ad alti livelli, con un presidente che possa mettere tanti di quei soldi che possa vincere Champions e tutto il resto. Nulla da togliere a Pallotta, ognuno ha i suoi movimenti e i suoi pensieri”. Di certo il presidente del gruppo con base a Houston è volato da un paio di giorni a Londra, stessa città in cui è segnalato il Ceo giallorosso Fienga per una serie di riunioni. Friedkin ha serie intenzioni e ha visitato Trigoria, gli uffici della Roma all’Eur e ha tenuto diversi incontri accompagnato dalla sua numerosa delegazione allo Studio Tonucci. Proseguono poi i summit tra le parti e va avanti la due diligence della Friedkin Companies Inc su tutte le dodici società che orbitano intorno al mondo romanista e alla AS Roma Spv LLC. Totti ha poi affrontato anche il tema relativo a Zaniolo, astro nascente del calcio italiano: “Eviterei per il suo bene di fare paragoni con me, cerchiamo di farlo crescere che è ancora giovane. Spero possa rimanere a Roma il più a lungo possibile anche se credo che non sarà così. Faccio una battuta. In quella casa dove sono stato per 15 anni ci ho messo Alisson che è diventato il più forte del mondo e poi Zaniolo. Ora sarà una casualità, però….”. Proprio il numero 22 giallorosso ha fatto l’ennesima dichiarazione d’amore e di fedeltà alla Roma: “Ho baciato la maglia e voglio continuare a farlo ogni volta che segnerò. Vorrei che i tifosi sapessero quanto li amo. Totti è un’icona, il paragone con lui è uno sprone in più per dare il massimo ogni giorno”.
E ORA TOTTI CHE FA? Alessandro Angeloni per “il Messaggero” il 16 maggio 2019. Le parole di De Rossi lo invitano all' esame di coscienza e, magari, a prendere decisioni forti. Ci ha pensato, certo che ci ha pensato, Francesco. Perché il suo fratello sportivo, Daniele De Rossi, lo ha avvisato, tipo grillo parlante, con delicatezza, con classe. Il messaggio di Daniele a Checco è stato chiaro: «Fai il dirigente senza potere, io questa fine non la voglio fare, per questo me ne vado». La verità, quando viene sparata col fucile, fa male, eccome. Boom, colpito. Non affondato. E Totti che fa? Mica vorrà lasciare il tutto così. Ed ecco, appunto, ci ha pensato, eccome, anche in queste ore in cui si trova in Kuwait (per partecipare al Al-Round Tournament, un torneo di futsal). Sarebbe un eroe se si dimettesse subito, questo pensano tanti tifosi della Roma. Che ora non vogliono che si mischi la passione (De Rossi e Totti) con l' azienda, quindi via i romani da Trigoria ma per scelta propria, non per volontà altrui. Chi sta con loro è complice, questo è in sintesi il messaggio di tanta gente. Francesco ha scritto a De Rossi: «Un giorno torneremo grandi insieme». Vuol dire che ora il Capitano (ex), grande, non si sente. Non ci si sente in questo contesto, perché poco utilizzato, poco ascoltato. Il suo essere determinante da calciatore è inversamente proporzionale a quanto lo sia oggi con giacca e cravatta. Totti sa perfettamente di avere dei nemici all' interno del club, non è mistero che uno di questi sia Franco Baldini, presenza ufficializzata da De Rossi nell' ultima conferenza stampa. Il paradosso nella Roma è che chi c'è davvero, Totti, non viene considerato, mentre chi non c' è, Baldini, è il primo consigliere del presidente, con poteri decisionali. Dici, Totti si dimetta. Comprensibile. Poi pensi: ma perché dovrebbe darla vinta a chi non vede l'ora di liberarsi di lui? Ciò che dispiace a Totti - tra le altre - è il non aver potuto fare nulla per il suo amico De Rossi, defenestrato perché «non c'erano le condizioni tecniche». Ma è anche vero che lì, adesso, Totti, ha poco senso e dovrà decidere cosa fare da grande. Accettare o scappare, piegarsi per amore della Roma o l' abbandono, ma sempre per amore della Roma, oltre che di se stesso, del suo amor proprio, del rispetto per quel che è stato e per quel che significa per tanta gente. Totti non può essere usato come uomo sulla poltrona, come quello da esibire per qualche selfie, per qualche autografo o come testimonial di un torneo o di una qualsiasi manifestazione, o per denunciare i problemi con gli arbitri (con l' Inter, ad esempio) o per paventare l' arrivo di un grande allenatore (Conte), quando poi «le condizioni» non c' erano e, stando a quanto racconta De Rossi stesso, ce ne sono meno di quanto si pensasse. Due anni fa si diceva che Totti avesse bisogno della Roma, e che la Roma avesse bisogno di Totti. A distanza di tempo, rigiriamo la questione: ma siamo sicuri che questa Roma sia compatibile con Totti, o viceversa? Il dubbio c' è.
L’addio di Totti alla Roma: «Lascio non per colpa mia, per me oggi è come morire». Pubblicato lunedì, 17 giugno 2019 da Luca Valdiserri su Corriere.it. «Ringrazio il presidente Giovanni Malagò per avermi dato questo posto importante e bellissimo. La comunicazione però è meno bella del posto: alle 12.41 del 17 giugno ho mandato una mail al Ceo della Roma (Guido Fienga, ndr) in cui ho scritto frasi che per me erano inimmaginabili: ho dato le mie dimissioni alla As Roma», con queste parole Francesco Totti inizia la conferenza stampa in un salone d’onore del Coni strapieno. Si è dimesso da dirigente e ha rinunciato, tra l’altro, a quattro anni di contratto da 600mila euro netti a stagione. «Speravo che questo giorno non arrivasse mai e invece eccolo qui. Ma è stato doveroso e giusto, viste le condizioni. Non ho avuto mai la possibilità di essere operativo e di lavorare sull’area tecnica». Oltre 300 i giornalisti, diretta tv su Rai, Sky e Mediaset. Tra i giocatori presenti Vincent Candela, Sebino Nela e Alberto Aquilani. «Ho preso questa decisione difficile dopo averci pensato per mesi. Ma è la più coerente e giusta per la Roma. E questa è la cosa più importante. Non ci devono essere fazioni pro-Totti, pro-Pallotta e pro-Baldini. I presidenti passano, gli allenatori passano, i giocatori passano. Le bandiere no. Non è stata colpa mia prendere questa decisione. Non so più che cosa dirvi». E allora di è stata colpa? «Non mia, perché non sono mai stato coinvolto in progetto tecnico. Il primo anno ci può stare. Il secondo avevo capito cosa potevo fare ma non ci siamo mai aiutati uno con l’altro. Sapevano cosa potevo dare, ma mi hanno tenuto fuori da tutto». Un pensiero Totti lo rivolge alla sua città e ai suoi tifosi. «Cosa posso dire alla gente? Al popolo di Roma devo dire solo grazie per come mi hanno sempre trattato, c’è sempre stato grande rispetto reciproco. Dico di continuare a tifare questa squadra perché per me è la cosa più importante del mondo. Mi rattrista e mi dà fastidio vederla così in difficoltà perché Roma è Roma. I suoi tifosi sono diversi, hanno un amore enorme che non può finire». La speranza che il suo sia un arrivederci e non un addio. «Da Francesco posso dire che è impossibile tenere Totti fuori dalla Roma. Prenderò altre strade, ma quando una proprietà punterà forte su di me tornerò. In questo momento valuto. Ci sono tante cose che posso fare. Ci penserò in questo mese e poi prenderò quella che mi sta più a cuore. Non indico un colpevole o un altro. C’era un percorso che non è stato rispettato». «Tutti sappiamo che hanno voluto che smettessi di giocare. Da dirigente avevo un contratto di sei anni. Sono entrato in punta di piedi, perché sapevo che era diverso. Le promesse sono state tante, ma non sono state mantenute - continua Totti -. Sapevano cosa volevo, con il passare del tempo ho riflettuto. Ho il mio carattere. Facevo quello che mi dicevano per il bene della Roma». Una Roma che è stata detottizata e deromanizzata. «È stato un pensiero fisso di alcune persone che alla fine hanno ottenuto quello che volevano. Da otto anni gli americani hanno cercato in tutti i modi di metterci da parte. Ci sono riusciti». ma non si sono resi conto che stanno togliendo il cuore alla Roma. «Non vivono la quotidianità. Non sanno niente di Roma. Stare sul posto è tutto diverso. Gli arriva l’1% di quello che succede davvero. Sarà una Roma diversa, per qualcuno potrà essere anche migliore. Ormai, per me, non c’è più tempo. Io parlo a malincuore. Racconto i miei problemi con alcuni dirigenti della Roma che mi hanno portato a questa decisione brusca. In futuro, con un’altra proprietà, potrei fare il dirigente a 360 gradi. Io non mi sarei mai dimesso». «Il rapporto non c’è mai stato e mai ci sarà. Se ho preso questa decisione è normale che ci siano problemi interni alla società. Uno dei due doveva uscire e l’ho fatto io, troppe persone mettono bocca su cose che producono solo danni e casini. Quando canti da Trigoria non ti sente nessuno, conta solo quello che pensano altrove. Era tempo perso». «Tutti conosciamo quali sono i problemi, devono vendere giocatori entro il 30 giugno. È più facile prendere soldi con questi giocatori. Bisogna essere trasparenti con i tifosi, io l’ho sempre detto: dite la verità alla gente, anche se è brutta. Quando ho detto che la Roma arrivava dietro e la Juve vinceva a febbraio, mi hanno criticato. Non prendo in giro la gente, sono trasparente, dico la verità e per questo non posso stare qua dentro». La lontananza fisica del presidente Pallotta ha giocato un ruolo importante. «Il giocatore trova un alibi se c’è l’assenza del presidente o di altre figure importanti. Questo crea un danno alla squadra. Ho detto e ripetuto che il presidente deve essere sul posto. Tutti fanno di più se c’è il capo. Altrimenti fanno come gli pare. Se c’è il mister fai l’allenamento a 300 all’ora, se c’è il suo secondo fai meno». «Se ho preso questa decisione vuole dire che non ho potuto fare niente soprattutto nell’area tecnica dove so qualcosa in più di altri che stanno a Trigoria. Io quello volevo fare, non volevo fare il fenomeno in cose che non so.Ho sempre messo la faccia e sempre la metterò anche quando le cose vanno male». Ma qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso? «Il vaso si era riempito da tempo. Tante cose mi hanno fatto riflettere. Mi chiamavano solo quando erano in difficoltà. In due anni ho fatto dieci riunioni e mi chiamavano sempre all’ultimo. Non c’era rispetto verso la persona, perché io mi mettevo sempre a disposizione». «Potrei tornare con un’altra proprietà se questa proprietà crede in me e nelle mie idee. Non ho mai fatto del male alla Roma e non lo farò mai. È molto peggio oggi di quando ho smesso di giocare. Oggi potevo anche morire. Mi stacco io perché voglio bene alla Roma. Qui c’è sempre stato chi diceva, invece, che ero troppo ingombrante». E ci tiene a sottolineare che non è un problema economico: «Non ho mai parlato di soldi, non ho mai chiesto niente. Non volevo comandare tutto, volevo mettere la faccia e decidere nelle cose che capisco. Se fanno allenatore e ds senza consultarmi che ci vado a fare a Londra? Mi hanno inviato due giorni prima a cose fatte. L’unico allenatore che ho sentito è Antonio Conte. Tutti gli altri non li ho mai contattati. Il resto è stata fantascienza. Per stupido non ci passo. Tornare se va via Baldini? No, dovevano pensarci prima. Il vaso è rotto. Non ho niente contro di loro, ma la scelta è chiara». Eppure qualche giorno fa Pallotta aveva detto che Totti aveva fatto tanto: «Fienga è l’unico che mi ha detto: io ti farei direttore tecnico. Senza di lui io sarei rimasto sempre nel posto che mi avevano preparato. Con Fienga ho portato Ranieri, che è un uomo vero e sarebbe venuto anche gratis. Mi ha detto: domani sono a Trigoria. Prima di parlare di qualsiasi altra cosa. Non mi serve dire bugie in questo momento. A che pro?». Totti è un fiume in piena, risponde a tutte le domande che i giornalisti fanno: «Fienga mi ha detto tre mesi fa che mi avrebbe fatto fare il direttore tecnico. Ma se ti mettono sempre il bastone tra le ruote e creano problemi... Se non avessi voluto Fonseca avrebbero preso in considerazione il mio parere? No. Se fosse arrivato Conte, sarei rimasto. Se mi avessero interpellato sulla scelta del tecnico, sarei rimasto. Io è Fienga abbiamo chiamato Conte prima ancora di dirlo a Pallotta. Abbiamo visto e sentito Conte più volte, poi sono nati i problemi». E su Sarri, oggi allenatore della Juventus: «Non l’ho mai contattato. Era il pallino di qualcun altro, bisognerebbe chiedere a lui (cioè a Baldini, ndr) perché è andato alla Juve e non qui. Però parliamo del nulla. Speriamo che Fonseca trovi una strada libera per poter lavorare bene. Ha studiato e spero faccia bene con la Roma. Perché Conte ha detto no? Non voleva rivoluzioni ma continuità. Qui invece c’è la rivoluzione e si deve vendere». Sull’altra bandiera romanista, che ha appena lasciato la squadra giallorossa, Daniele De Rossi, dice: «Da settembre ho detto ai dirigenti: non ditelo a De Rossi all’ultimo momento, come avete fatto con me. Mi rispondevano: “Valutiamo”... Poi ci sono stati gli infortuni, i risultati non venivano, Di Francesco è stato esonerato, Monchi se ne è andato. A Trigoria non si fanno mai le cose per tempo. Non c’è uno che decide. Da amico volevo che Daniele aprisse gli occhi. Non riesco a capire se queste cose sono volute o casuali. Però adesso penso che sia quello che volevano: togliere i romani dalla Roma». Ma non perde il senso dell’umorismo e una battuta se la concede: «Prendo Daniele e insieme andiamo a vedere qualche partita in curva Sud. Sono romanista, allo stadio ci andrò ancora». «Non potevo cambiare la Roma, ma dare un contributo sì. Anche anni fa arrivavamo secondi, ma combattevamo per il primo posto. Ci sono problemi economici che vanno coperti con la vendita di giocatori importanti ma così ti indebolisci. Però non sono io che devo parlare dell’economia della Roma. Se fossi il presidente della Roma darei tutto in mano a Totti e De Rossi per quello che hanno dato, per la romanità, per quello che hanno dato. Pallotta, invece, si è circondato di persone sbagliate e ascolta solo loro. Ma se hai sbagliato per otto anni, non ti viene il dubbio?». La pugnalata vera gli è arrivata da dentro Trigoria. «Non faccio i nomi, ma dentro Trigoria c’è chi fa il male della Roma e non il bene. Io che conosco Trigoria come le mie tasche so per filo e per segno come andrebbe gestita. Ci sono cresciuto dentro, so chi mette zizzania. Come si può essere coesi in questo modo. Di tutte le cose che riportano a Boston ci sarà il 10% di verità. Mauro Baldissoni? È stato un dirigente della Roma, ha cercato di direzionarmi non so dove ma di direzionarmi. Il vicepresidente è una carica importantissima...». Alle accuse di essere assere assente e di dedicarsi al altro come padel, calcetto, vacanze...: «Mannaggia, guarda se mi tocca rispondere su queste cose - dice tra il serio e lo scherzoso -. Quando faccio partite di beneficienza la società ne è al corrente e mi dà il via libera perché serve al bene della Roma. E poi anche altri dirigenti fanno la settimana bianca, ma non li conosce nessuno e non fanno notizia». Sulla presunta mail di De Rossi che tramava contro di lui: «Mi fido al 100% di Daniele De Rossi e so che non ha mai fatto niente contro di me». «Non ho detto tutto, qualcosa l’ho levato. Ma c’è altro, nel caso... Il rapporto con Pallotta? Nelle ultime settimane ha cercato di trattenermi, sempre per vie traverse. In due anni non ho mai sentito né Pallotta né Baldini. Cosa dovevo pensare? Che ero benvoluto? Avrei voluto che mi chiamassero anche per criticarmi, semmai, ma non è successo. Sono otto anni che dicono che vinceremo, speriamo che non ne passino altri dieci. Malagò? Tutti dicono che è mio amico, se diventa presidente mi chiamerà e magari mi darà un po’ di potere. Non mi serve tutto, me ne basta poco». Fa più male essere stato considerato un peso oppure non aver potuto lavorare? «Per me sono stato un peso per questa società. Mi hanno detto in tutti i modi che sono troppo ingombrante. Ma quando ti stacchi da una mamma è dura!». Il progetto dello stadio conta per Pallotta più della Roma? «È una domanda da fare a Pallotta. Non posso rispondere. Fatela a lui quando verrà». Farà il direttore sportivo altrove? «Non resterò disoccupato. Valuterò offerte, sono libero. Prendo in considerazione tutto. Juve? Non esageriamo. Poi Fifa, Federazione... Vedrò». «Posso dire grazie a Pallotta perché mi ha dato la possibilità di conoscere un’altra realtà - continua Totti -. Mai avrei pensato certe cose. Per questo lo ringrazio. Non sputo mai nel piatto dove ho mangiato. Adesso Pallotta deve essere bravo a riconquistare la fiducia della gente e spero che chi è vicino a lui gli dia i consigli giusti. Non so perché Pallotta non viene qui. Gli ho parlato a quattro occhi una sola volta. Non so se faranno autocritica ma devono capire quali sono i problemi dentro Trigoria, io non ho mai avuto la possibilità di spiegarglielo. Diciotto anni fa vincevo lo scudetto ma non ho scelto questa data per dire Ciao Roma! Non lo avrei mai pensato».
Roma, l'As Roma replica all'addio di Totti: "Percezione fatti fantasiosa, inopportuni i riferimenti alla nuova proprietà". La nota della società: "Non c'è volontà di vendere né ora, né in futuro". La Repubblica il 17 giugno 2019. In una nota sul proprio sito, l'As Roma si dice "estremamente amareggiata nell'apprendere che Francesco Totti ha annunciato di lasciare la società e di non assumere la posizione di direttore tecnico". "Gli avevamo proposto questo ruolo dopo la partenza di Monchi - continua la nota - ed eravamo ancora in attesa di una risposta. Riteniamo che il ruolo offerto a Francesco sia uno dei più alti nei nostri quadri dirigenziali: una posizione che ovviamente richiede dedizione e impegno totali, come ci si aspetta da tutti i dirigenti all'interno del club". La società precisa che "eravamo pronti a essere pazienti con Francesco e ad aiutarlo a mettere in pratica questa trasformazione da grande calciatore a grande dirigente. Il ruolo di direttore tecnico è la carica in cui credevamo potesse crescere e in cui ci siamo proposti di supportarlo durante la fase di adattamento. Nonostante comprendiamo quanto sia stato difficile per lui decidere di lasciare l'As Roma dopo trent'anni, non possiamo che rilevare come la sua percezione dei fatti e delle scelte adottate dal club sia fantasiosa e lontana dalla realtà". E ancora: "Riguardo ai ripetuti riferimenti al suo possibile ritorno con l'insediamento di una nuova proprietà, in aggiunta alle informazioni raccolte da lui stesso in tutto il mondo circa soggetti interessati al club, ci auguriamo che questa non sia un'anticipazione inopportuna di un tentativo di acquisizione: scenario che potrebbe essere molto delicato in considerazione del fatto che l'As Roma è una società quotata in borsa. La proprietà non ha alcuna intenzione di mettere la Roma in vendita adesso o in futuro. Auguriamo a Francesco buona fortuna per quello che deciderà di fare".
Ugo Trani per il Messaggero il 18 giugno 2019. Rasa al suolo e quindi da ricostruire: la Roma esce disintegrata dallo tsunami partito dal Salone d'Onore del Coni. Adesso è come se dovesse ricominciare da zero per affacciarsi sul futuro che oggi non c'è. Scoperto il bluff. Ma la replica al Capitano è immediata: «La sua percezione dei fatti e delle scelte adottate dal Club è fantasiosa e lontana dalla realtà». Pallotta urla la sua rabbia e studia se sarà possibile adire le vie legali (turbativa d'asta e non aggiotaggio): l'immagine della società a stelle&strisce esce dilaniata e svalutata. In Italia e soprattutto all'estero. Chi lavora nella Capitale è spiazzato e mortificato dalla verità dell'ex capitano e, da venerdì, anche ex dirigente. Perché Totti, più sincero di quanto avessero messo in preventivo i suoi cari nemici vicini e lontani, strappa improvvisamente il velo d'omertà usato per coprire, da 8 anni, quanto di peggio si è consumato dentro il club giallorosso. Accantonato l'hashtag famostostadio, ecco pronto il nuovo: bonificamotrigoria. Guido Fienga, il nuovo ceo, ha la responsabilità più grande. Anche l'ex numero 10 ne ha rafforzato il ruolo, descrivendolo come l'unico ancora credibile. Bisogna vedere se da solo (non avrà al fianco il dt, carica scelta su misura per Francesco), per ora, gli riuscirà il repulisti, allontanando spie, antiromanisti, incompetenti e addirittura «accoltellatori». Totti, raccontando il colloquio avuto con Conte, ha spiegato che la Roma va verso l'ennesima rivoluzione. Cioè non sarà migliorata, ma rifondata. Sbarcherà il nuovo allenatore Fonseca e il 1° luglio sarà comunque ufficiale anche il ds Petrachi. Ecco le prime pietre da posare. Ma poi c'è la squadra, cioè la rosa. Che perderà alcuni titolari: De Rossi è già uscito di scena, presto lo faranno pure Manolas, Dzeko e Kolarov. L'obiettivo di Fienga (e Petrachi) è piazzare il colpo di mercato che possa riportare un po' di entusiasmo tra i tifosi. Subito il top player. Da individuare, però. Icardi sarebbe l'ideale, anche per l'età. Ok Higuain, con la valutazione attenta comunque del profilo. Ma questi centravanti si portano sulla bilancia pure il peso insopportabile, almeno per il club giallorosso, del loro stipendio: 6 milioni Mauro, 7 più bonus Gonzalo. Significherebbe andare contromano: Pallotta, con la mancata partecipazione alla Champions, pretende la drastica riduzione del monte ingaggi. Meglio spendere per il cartellino del giocatore che per il suo salario. L'input del presidente, insomma, è la cura dimagrante a Trigoria, abbassando la spesa annuale per la gestione tecnica e al tempo stesso l'età del gruppo. La Roma, costando meno e soprattutto più giovane, diventerebbe più facile da proporre in un'eventuale negoziazione: su piazza e anche oltre confine. Più che l'appeal, sarebbe la convenienza. Gli stessi emiri, ultimamente accostati alla Roma (con le smentite ripetute, però, di Pallotta) non regalano dollari per il pianeta. I ricchi scemi non esistono più. La cessione è l'unica exit strategy della proprietà Usa, anche se il presidente bostoniano ha assicurato che andrà avanti ancora a lungo. Pure nel comunicato di ieri sera in cui ha ribadito che non ha alcuna intenzione «di mettere la società in vendita adesso o in futuro». Può darsi che sia vero. Almeno fino a quando non avrà i permessi per costruire lo stadio di proprietà. E la mossa degli ultimi giorni, con il piano B di Fiumicino che è l'alternativa credibile all'impianto di Tordivalle, non fa altro che rafforzare l'ipotesi della cessione del club giallorosso. Totti, sull'argomento, è andato cauto. Sa che il brand interessa, ma non ha mai incontrato interlocutori pronti a mettere nero su bianco. O quantomeno a trattare con il fondo Raptor. La nota da Boston sa di avvertimento: «Riguardo ai ripetuti riferimenti al suo possibile ritorno con l'insediamento di una nuova proprietà, in aggiunta alle informazioni raccolte da lui in tutto il mondo circa soggetti interessati al Club, ci auguriamo che questa non sia un'anticipazione inopportuna di un tentativo di acquisizione: scenario che potrebbe essere molto delicato in considerazione del fatto che la Roma è quotata in borsa». I bookmaker hanno però colto al volo il desiderio di Francesco di tornare in caso di cambio di proprietà: la sigla Sisal Matchpoint quota a 6,00 l'addio degli americani entro il 30 giugno 2020. Puntata lunga un anno per riportare a casa il Capitano. Anche la Borsa scommette forse su qualcosa che verrà: prima scende, poi risale e chiude a + 1,59.
Mario Sconcerti per il Corriere della Sera. il 18 giugno 2019. Tra le tante cose dette da Totti ne ho trovate molte giuste, alcune corrette, altre meno, ma nessuna capace di spezzare un rapporto come il suo con la Roma. Conosco Baldini, non è un uomo nero. Non può essere lui il nemico, fra l' altro troppa la differenza di peso. Totti si dovrebbe chiedere semmai perché Pallotta preferisca i consigli di Baldini ai suoi. L' impressione è che Totti continui a vedere la vita da un campo di calcio, dove tutti gli passavano la palla e lui era il migliore, il più ascoltato. Da giovane dirigente devi ricominciare, non c' è un continuum, è un altro mestiere. Non sei il Capitano, sei un dirigente fra altri che hanno perfino il diritto di esserti rivali. Funziona così in qualunque posto di lavoro. E questo ho sentito da Totti, un elenco di disagi comuni esasperati dal suo essere stato. Una cosa è assolutamente giusta, quando dice che un presidente deve essere presente. Ma la sua giovinezza di dirigente non gli permette di chiudere il concetto: non esistono più imprenditori italiani che possano prendere una grande società. Costa troppo. Il caso Totti non è il primo. I giocatori hanno una vita rovesciata, si è vecchi a 35 anni e giovani a 50. Questo li porta a una sindrome, la paura di non farcela, di perdere soldi e privilegi. Hanno fretta di essere produttivi ma non sono abituati. Così si rifugiano nel mestiere del mestiere, fare gli ex della grande squadra. Usano i resti della vecchia gloria. Pubblicità, televisione, opinionismo, qualcosa che sia sempre un po' di parte. Difficile trovarli dentro una responsabilità. Del Piero, Baggio, Totti, De Rossi, decine di altri, sarebbero tutti ottimi candidati alla presidenza federale o a un' altissima manovalanza nel calcio, per esempio cercare giovani, guardare avversari, usare l' esperienza per migliorare il mestiere. Ma dovrebbero esporsi, uscire dal loro essere una bandiera per professione. E questo letteralmente li spaventa. Vogliono correre paralleli alla vita o guardarla sdegnati dalla nuova solitudine. Anche in Totti avverto questo spavento. Troppe parole per esprimere un disincanto naturale, troppe accuse gridate, nessuna autocritica. Tutti sintomi della paura di vivere.
Guido D'Ubaldo per il Corriere dello Sport il 17 giugno 2019. Adesso diranno che Francesco se ne andava in vacanza nei momenti delicati per la società, che spesso era distratto dalle pubblicità, dalle serate mondane e dalle attività sul campo nelle sfide tra ex, dove ancora mette in mostra il suo talento. Nel nuovo contratto da direttore tecnico che gli è stato proposto solo dopo che tutte le scelte erano state fatte non erano state inserite clausole. La rottura di Totti con la Roma parte da lontano, da quando Francesco, appena smesso di giocare, all’inizio di luglio 2017 andò a Londra accompagnato da Ilary ad incontrare prima Baldini e poi Pallotta con Baldini. La proprietà americana aveva deciso di spalmare il contratto da dirigente (allungandolo di un anno) che gli avevano fatto firmare i Sensi nel 2010, con efficacia immediata alla conclusione della sua carriera di calciatore. Quegli incontri, favoriti da Stefano Antonelli, procuratore, con un’amicizia con Totti alimentata sui campi di paddle, servirono per definire il ruolo da dirigente dell’ex numero dieci giallorosso. Subito dopo quegli incontri i rapporti con Baldini tornarono normali, Francesco mise da parte le bordate nei primi tempi della proprietà americana: «Totti pigro», «Detottizziamo la Roma», «Sterilizzare la Roma dai romani».
Quel no di Capello. Totti ha vissuto i primi tempi da dirigente cercando di studiare il ruolo, poi a marzo si sono create le condizioni per fare il grande salto. Quando è stato esonerato Di Francesco, Massara ha parlato con Capello offrendogli il ruolo di direttore tecnico. I due avevano lavorato insieme in Cina. L’allenatore lo avrebbe fatto Pecchia. Operazione ispirata da Baldini, che Capello rifiutò. Baldini aveva contattato Paulo Sousa già da settembre, quando spinse per l’esonero di Di Francesco. Il portoghese voleva almeno due anni di contratto e nei giorni dell’esonero di Di Francesco si accordò con il Bordeaux, addirittura per tre anni. Allora è stato Fienga a coinvolgere Totti, al quale aveva già promesso al momento del suo insediamento la qualifica di direttore tecnico. Totti chiamò Ranieri, convincendolo ad accettare un contratto di soli tre mesi. Mentre c’era Ranieri la Roma ha provato a contattare Conte e il primo ad andare in avanscoperta è stato Totti. I due hanno parlato di tutto. Avrebbero condotto la squadra in tre: Totti, Conte e il direttore sportivo, l’ex c.t. non avrebbe voluto nessun altro. All’incontro successivo è andato Fienga, in un blitz segreto nella sede di una banca a Siena. Quando Conte ha chiesto se gli avrebbero garantito la squadra per vincere lo scudetto la risposta è stata imbarazzata e l’allenatore ha sciolto il dubbio ed è andato da Marotta. Dopo quello di Conte la Roma ha incassato anche il no di Gasperini. A quel punto Francesco ha detto che Mihajlovic è un buon allenatore ma non va bene per l’ambiente, poi ha mandato un sms a Gattuso. Alla fine di maggio le candidature rimaste erano tre: Giampaolo, Fonseca e De Zerbi. Da Londra è partito l’input per il portoghese, senza tenere presente il parere di Totti, che non ha nulla di personale con il portoghese e neppure contro Petrachi, ma quello che contesta sono le modalità.
Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 17 giugno 2019. A Jim Pallotta ovunque egli sia.
Presidente, ieri mi hanno inviato una app - “DaQuandoLaRomaHaVintoQualcosa - la cui funzione è tanto elementare quanto antipatica: ci ricorda che la Roma non vince neppure una coppetta da “11 anni, 0 mesi e 22 giorni”. Naturalmente non posso indicare con precisione ore, minuti e secondi poiché l’aggiornamento è in progress. I primi quattro anni non le possono essere addebitati, gli ultimi sette sono suoi. In questo infausto giorno avrei numerose domande da porle, se solo accettasse di incontrarmi - la scelta del luogo è a sua discrezione: Boston, Londra, Città del Capo, Miami, Vodaphone, Telecom, whatsapp, sms, Chattanooga Tennessee. Roma no, Roma è out, visto che la snobba da oltre tredici mesi: il contatto fisico col dissenso popolare non è piacevole per un egotico trumpiano della prima ora. In settimana lei ha ripetuto al nostro Maida, incrociato a Londra, di non amarci “poiché da anni il Corriere getta merda sulla Roma”. Mi creda, è una fandonia, il frutto dei tanti racconti a pene di segugio che un paio di suoi dirigenti divisivi, all’inseguimento del consenso presidenziale, le hanno propinato (in inglese lo tradurrei con poured): le collezioni del giornale sono a sua disposizione. Nella lunga lettera che ha inviato agli apostoli, sintesi di quasi un’ora di conversazione con Paul Rogers, lei ha confessato di aver commesso molti errori l’estate scorsa dando totalmente ragione a chi - come noi e pochi altri - li aveva evidenziati uno dopo l’altro (la disastrosa campagna acquisti e la sconfi nata presunzione di Monchi, l’esonero di Di Francesco che, pur se in forte ritardo, lei ha assolto, la folle articolazione societaria Boston-Londra-Città del Capo-Trigoria-Eur). Presidente, a vecchi errori lei ha però aggiunto nuovi sbagli madornali, se è vero - com’è vero - che prima e dopo la lettera ha rotto con De Rossi e Totti. Ovvero con i portatori dell’identità romanista. Totti e De Rossi che sono stati peraltro i capitani anche della sua Roma e furono presenze fondamentali nelle stagioni dei secondi e terzi posti. Loro i leader di squadre rese competitive da Walter Sabatini, che sapeva vendere ma anche comprare nel complicato rispetto delle imposizioni dell’Uefa. Sabatini che - do u remember? - se ne andò non sopportando più le ingerenze di Baldini. Da oggi, lunedì 17, la Roma vera non c’è più (“l’hanno uccisa” cfr. Claudio Amendola), da oggi esiste solo la Roma bostoniano-londinese che allinea - oltre a lei - Franco Baldini, che continua a smarcarsi dalle responsabilità, Zecca, Fienga e Baldissoni, dirottato su uno stadio che purtroppo non si farà mai. Le novità si chiamano Paulo Fonseca, quinto della lista dopo Sarri, Conte, Gasperini e Mihajlovic, e Gianluca Petrachi, il ds sotto contratto col Toro, sul quale lei ha ripiegato dopo il no di Campos, che voleva operare da Montecarlo. Ci mancava giusto un’altra sede distaccata. I risultati sportivi della sua gestione non possono essere considerati fallimentari, ma la distanza tra la Roma e la sua gente è da primato storico: soltanto due volte l’Olimpico si è riempito, e l’ha fatto per salutare Francesco e Daniele. Qualche anno fa un dirigente della sua Roma se ne uscì con questa frase che - ora lo sappiamo - era tutto un programma: “Totti e De Rossi sono il cancro della Roma”. Da qualche giorno un altro personaggio gira per i circoli canottieri raccontando che De Rossi è zoppo e non ce la fa più e per questo non gli avete rinnovato il contratto. Maldicenze, fazioni, politica, contrapposizioni continue, report to Boston alterati. Morti prima Viola e poi Sensi, Trigoria è diventato il porto delle nebbie, dove interessi personali, gelosie e confusioni diffuse la fanno da padroni. La saluto con queste parole: “Ho sempre avuto scambi costruttivi con Daniele riguardo lo spogliatoio, i giocatori, le cose da migliorare; e lo stesso vale per Francesco Totti... Sono stati in disaccordo? Mio Dio, spero di sì. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è essere circondati da yes man. Ieri, a proposito, sono stato testimone di quanto stia proseguendo la maturazione di Francesco come dirigente. La sua maturità, le sue intuizioni e la sua competenza, nel confronto con me e con Guido riguardo un potenziale candidato alla panchina, sono state più utili dei consigli di chiunque altro”. Sono parole sue, presidente. Di due settimane fa.
Francesco Persili per Dagospia il 17 giugno 2019. Totti e Baldini. A unirli e a dividerli, per sempre, un giorno. Magnifico, maledetto, 17 giugno. Nel 2001 in campo il Capitano guida la Roma verso il terzo scudetto della storia, in tribuna a godersi la scena il consulente di mercato di Franco Sensi, l’uomo che ha costruito un asse di ferro con Capello e portato a Trigoria Samuel, Emerson, Batistuta, fondamentali per la conquista del titolo. Salone d’Onore del Coni. Totti lascia la Roma. L’uomo a cui viene imputato l’addio è Franco Baldini, diventato nel frattempo il "Rasputin" di Pallotta. "Uno dei due doveva uscire e mi sono fatto da parte io", scandisce il Capitano". Che cosa è successo in questi anni all’ex braccio destro di Sensi? E’ cambiato lui o sono rimasti uguali gli altri? Come è possibile che il Don Chisciotte di Reggello sia diventato un consigliori ingrigito dal fumo di Londra, un dirigente fantasma che si ritrova al centro di trame venefiche e sospetti di congiure?
C’era una volta a Trigoria. Franco Baldini scudiero di Franco Sensi nell’assalto a Moggi, Galliani e Carraro, il Ciceruacchio con la c aspirata della “Repubblica Romana” in lotta con “la monarchia sabauda” e il potere del Nord, quello che (s)parlava di “arbitri, doping, politica federale, giustizia sportiva e diritti tv, come di tessere dello stesso mosaico, dove chi detiene il potere lo mette in atto per rimanere più forte”. Utopie e bubbole. Basta un caffè in Campidoglio tra Rosella Sensi e Giraudo, chez Veltroni, per mettere in fuorigioco Baldini che prende congedo in una conferenza allo Sheraton perché non può condividere l’appeasement di Rosella Sensi con i presunti “poteri forti”. Il duro e puro che piace alla gente che piace. Capello argento, voce flautata, manda in deliquio i radical chic de’ noantri quando si siede sul divano rosso di “Parla con me” davanti alla sua amica Serena Dandini e spara un paio di siluri contro il Milan e Juventus “che amministrano tutto nel calcio” e contro la GEA di Alessandro Moggi. Ai tempi di Calciopoli recita la parte del cavaliere senza macchia ma viene colto in castagna da Luciano Moggi che dà notizia dagli studi di un’intercettazione che risale al 4 aprile 2005. In essa il dirigente romanista chiede all’ex vicepresidente Figc Innocenzo Mazzini di intercedere con il dg bianconero perché il suo amico Renzo Castagnini sia assunto dall’Arezzo Calcio e come ricompensa gli propone: “Forse se ti comporti bene, quando farò il ribaltone e tanto lo farò perché io vivo per quello… fare il ribaltone e buttare tutti di sotto dalla poltrona, io ti salverò. Forse”. Tornando su quelle parole, tempo dopo, dirà: “Quello era cazzeggio... Il ribaltone lo speravo”.
Ribaltone? Buttare tutti di sotto dalla poltrona? La maschera dell’intellettuale che cita Nabokov, ama Shakespeare, va ai concerti di Fiorella Mannoia, frequenta Pizzi Cannella e conversa da “Pommidoro” con Francesco De Gregori va in frantumi e rivela le piccole ambizioni strapaesane e le smanie dell’epurato che brama vendette. Don Chisciotte peregrina tra tribunali e processi, reticenze e confusioni di date, scrive su “Linea Bianca”, trimestrale di scienza e cultura calcistica, una dotta analisi su come si riconosce un giocatore (“Se c’è qualcuno capace di volare, che si tenti di indirizzarne il volo, ma per carità: che non si cerchino ali da tagliare”), vende caffè in Sudafrica e colleziona esperienze in Inghilterra e in Spagna, al Real Madrid. Qui nota che Raul non ha un ufficio nel centro d’allenamento dei Blancos. Appena torna alla Roma con gli americani da direttore generale lo fa notare subito a Totti. Segue un’accusa di pigrizia che il Capitano fatica a mandar giù. Il ribaltone che non è riuscito a fare nel calcio italiano prova a metterlo in pratica a Trigoria. Parola d’ordine è “de-romanizzare“. Affida la squadra a Luis Enrique, alla prima vera esperienza in un campionato, rimanda sine die l’appuntamento con la vittoria (“Lo scudetto? La Roma è abituata ad aspettare tanto. L’orizzonte della società è a lungo termine, non certo a breve”, ciao core), sposa la logica del “mai schiavi del risultato” che nello sport d’alta prestazione, e a Roma in particolare, può diventare la via maestra per trovare alibi e comode giustificazioni. La sua battaglia si conclude tra i fischi dell’Olimpico, si dimette da direttore generale ma resta consulente di Pallotta e continua la guerra a Totti fino al delitto perfetto. “Sono stato io a farti ritirare - ha raccontato il Capitano nella sua autobiografia - Ho voluto Spalletti perché la pensava come me. Anni fa volevo venderti, ma ogni allenatore chiedeva la tua presenza. Spalletti non me l’ha chiesta, anzi. Del resto sappiamo tutti che in queste ultime stagioni la tua presenza è stata un peso per la Roma…" ("E i milioni guadagnati con le mie magliette? E il cachet delle amichevoli, che cambiava a seconda se io ci fossi o no?”, fa notare Totti). "Vedrai che la prossima stagione la Roma, liberata da una presenza così ingombrante aprirà un nuovo capitolo della sua storia". Poi il no alla vice presidenza chiesta da Francesco. Motivo: "Non ne hai bisogno. Noi siamo dei noiosi passacarte, tu sei Totti". "In due anni non ho sentito nessuno, nè Pallotta, nè Baldini - graffia Totti nella conferenza d'addio - non mi hanno mai coinvolto, mi tenevano fuori da tutto. L'ultima parola era sempre a Londra, inutile provare a cambiare le cose. Io da stupido non ci passo..." In questi anni Baldini ha continuato a sussurrare nell’orecchio del patron giallorosso il nome di allenatori, giocatori, dirigenti, restando a tutti gli effetti il "dominus" della Roma. L’ex ds Walter Sabatini non sopportando le continue invasioni al momenti dei saluti ha parlato di un club che ha diversi "centri di potere" tra cui quello di Londra, dove ora vive Franco Baldini. Si immaginava Don Chisciotte, è diventato un noioso passacarte, un grigio Rasputin che cerca ali da tagliare e bandiere romane e romaniste da ammainare. “Come si cambia…”, canterebbe la sua amica Fiorella Mannoia. Cosa è rimasto di quella Roma che vinse lo scudetto 18 anni fa? Non Totti, solo lui. Il dirigente fantasma che spodesta il Capitano e si prende la ribalta. “La luce che taglia il suo viso/ oltre al buio che c'è e al silenzio che lentamente si fa…” Eccolo qui il Grande Narciso che ha lasciato – parafrasando De Gregori – solo per un momento la sua vita di là. Visto che l’uomo ama il teatro, i colpi di scena e i finali ad effetto, forse in questo torrido e maledetto 17 giugno l’unico ribaltone in cui può sperare è quello di riuscire a separare finalmente e definitivamente il suo destino da quello della Roma.
Enrico Vanzina per il Messaggero il 18 giugno 2019. Trattenendo il fiato e ascoltando la sofferta conferenza stampa di Francesco Totti, ho capito. Ho capito improvvisamente che Francesco stava facendo un salto di qualità. Da grande giocatore, da fenomeno del calcio, più parlava più e più si stava trasformando, involontariamente, in un’altra figura mitica di cittadino romano: Marco Tullio Cicerone. Non esagero. La conferenza stampa di Francesco Totti, come una delle famose arringhe di Cicerone, si è colorata con i colori della Storia. Quella dei momenti decisivi della Repubblica romana, poi dell’Impero. Quando le parole di un uomo affrontano i grandi temi della sopravvivenza di un’ideale. E’ vero, si è parlato di Pallotta, di De Rossi, di Baldini, delle beghe, delle pugnalate, delle porcate. Lo sapevamo già. O lo sospettavamo. Quello che non avevamo ancora intuito fino in fondo è che Francesco Totti è stato scelto dal destino per difendere non solo la Roma Calcio, quella dei tifosi, quella della fede giallorossa, ma per farci riflettere su Roma, come entità, come valore, e su come difenderla dai suoi nemici. Perché Roma ha tanti nemici, tanti detrattori. Piccole persone che la invidiano e che non l’hanno mai accettata. Nelle parole di Totti si sentiva Cicerone che parla al popolo romano, ma anche Shakespeare, quello del “Giulio Cesare”, quello della straordinaria orazione funebre di Marco Antonio che inchioda i cospiratori alle loro responsabilità. Grande Totti, grande e lucida visione di un mondo romano che vacilla ma che lui difende, contro tutto e contro tutti. Le sue parole valgono per il misero mondo del pallone venduto ai soldi, ma valgono anche per la misera politica che umilia Roma. Nani che schiaffeggiano un gigante. Che deridono la sua storia. Che hanno portato i nostri cittadini alla rassegnazione. Non avevano fatto i conti con un ragazzo di Porta Metronia il quale con parole semplici, trasparenti, ha rimesso a posto le cose. Usando, forse senza rendersene conto, la metafora del calcio ha smascherato le ipocrisie del potere. Quello con la P maiuscola. Francesco ha detto: per governare Roma, per rilanciare Roma, per difendere l’onore e il passato di Roma, servono persone che amano Roma. Non dei mercenari. Roma non è una azienda dove l’Amministratore delegato deve essere soprattutto capace. Roma non è un valore commerciale, è un sogno, un ideale, una visione del mondo. Chi non ne conosce i fondamentali deve farsi da parte. Diceva Goethe che solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma. Non da Boston. Ma nemmeno dalle poltrone della politica (da destra a sinistra) che cerca consensi con le bugie. Francesco ha detto: per parlare con i romani bisogna sempre dire la verità. Perché i romani capiscono, perdonano, aiutano, dimenticano, ma a una condizione: non vogliono essere presi in giro. Non vogliono falsità. Essere romano consiste nell’essere cosciente dei picchi della storia e dei suoi declini. I romani hanno attraversato tutte le stagioni. Ma hanno sempre rialzato la testa. Francesco Totti ci ha detto: spazzate via chi non vi ama, perché vi sta sicuramente tradendo. Una superba, semplice, talvolta ingenua, ma autentica e potentissima arringa sul valore della romanità. Grande Capitano. Anche di vita.
Gianluca Lengua per il Messaggero il 18 giugno 2019. A Francesco Totti arriva una prima risposta da Baldissoni, vicepresidente della Roma: «Dispiaciuto per le sue parole, ma nessuno può decidere da solo in una società. Comunque su Ranieri è stato ascoltato. Attorno a febbraio gli è stato proposto di assumere il ruolo di direttore tecnico e siamo rimasti molto dispiaciuti che lui non abbia risposto». E ancora: «Sia a lui sia a De Rossi sono stati offerti contratti di lunga durata che sono stati poi rispettati. E deve essere chiaro che la Roma non è in vendita».
Da gianlucadimarzio.com il 18 giugno 2019. Le parole di Totti stanno facendo ancora discutere. E sono destinate a farlo ancora per molto tempo. La conferenza stampa fiume e senza peli sulla lingua dell'ormai ex dirigente della Roma ha lasciato il segno. Impossibile non replicare da parte della società, che ha cercato di rispondere spiegando le proprie ragioni in esclusiva a Sky Sport. A parlare è stato il vicepresidente giallorosso Mauro Baldissoni, che ha confermato quanto detto nel comunicato di ieri: "Siamo molto dispiaciuti per ciò che ha detto - ha esordito - nessuno in una società può decidere da solo. Io speravo che potesse integrarsi e continuare a crescere in quello che è un lavoro di squadra. Su Ranieri, tanto per fare un esempio, lo abbiamo ascoltato. Anche il tentativo di convincere Conte è stato avallato dalla società. Poi, intorno a febbraio, gli è stato proposto l'incarico di direttore tecnico, ma non ha risposto". Altro tema scottante da chiarire riguarda il trattamento riservato ai romani, da Totti a De Rossi e non solo: "Ad entrambi sono stati offerti contratti lunghi e che sono stati rispettati fino in fondo - ha precisato Baldissoni - nessuno ha mai voluto allontanarli da Roma, nessuno ha mai voluto sottrarre la Roma ai romani. Basti guardare anche le operazioni di investimento per far tornare giocatori cresciuti nel vivaio come Florenzi o Lorenzo Pellegrini o iniziative come la Hall of Fame. Sarebbe sciocco e autolesionista rinunciare al patrimonio di giocatori come Totti e De Rossi, è un patrimonio inestimabile dal punto di vista mediatico ed emozionale. Come facciamo a essere così stupidi a rinunciare una cosa così? Io spiegai agli americani come Totti fosse più conosciuto della Roma soprattutto da una fascia di persona. Nulla è più lontano dal vero del fatto che volevamo allontanare Totti". Poi il discorso torna su Totti e sulla mancata fiducia denunciata dall'ex capitano: "La società non ha mai avuto fretta d'imporre a Totti qualcosa. Nel suo primo anno da dirigente - perché diventarlo quando si smette è difficile per ogni calciatore ed è un percorso che va accompagnato - lo abbiamo aspettato con pazienza, Già al secondo gli abbiamo offerto un ruolo da direttore tecnico e lui doveva dare una risposta che non è mai arrivata. Siamo dispiaciuti per questa sua percezione di non poter incidere. In questi ultimi otto anni Totti ha avuto un contratto da calciatore e uno da dirigente. Non è vero che lo abbiamo costretto ad andare via. Stesso discorso per De Rossi, al quale abbiamo fatto due contratti da giocatore e una proposta per un futuro da dirigente". Chiosa finale sullo stato d'animo e sul futuro di Pallotta: "Se lascerà qualora non dovesse essere fatto lo stadio? Beh, in questo caso sarebbe tutto molto più complesso. Senza determinati ricavi sarebbe impossibile competere con la Juventus e con le altre grandi squadre. Pallotta comunque non lascerà nulla di intentato. Totti dice che il club piace a tanti investitori? Sia chiaro che la Roma non è in vendita". Poi su chi lo accusa di essere troppo assente: "Rispondo che Chelsea e Liverpool hanno vinto due coppe europee senza che i rispettivi proprietari vivano la sede della loro società. Pallotta ha invitato Totti a Boston per due mesi, per fargli conoscere il progetto legato alla Roma. Poi capisco la differenza di lingua e cultura, forse potevamo impegnarci a favorire una sintonia comunicativa. Sul rapporto fra Baldissoni e Totti: "Per me lui resta un idolo di infanzia - ha detto - ricordo che una volta scrissi una lettera al Corriere della Sera per difenderlo. Abbiamo avuto un rapporto cortese e corretto, gli ho sempre detti che la mia stanza per lui era sempre aperta" Infine su cosa lascia questa conferenza stampa: "Tanto dispiacere, tantra amrezza. Non riuscire a trattenere un patrimonio così è una sconfitta di tutti. Detto questo, andremo avanti senza cambiare le strategie di mercato. I fatti dicono che questa proprietà ha ereditato difficoltà economiche e finanziarie, ma nonostante questo ha prima risanato e poi investito. La Roma è una delle dieci società ad aver speso di più sul mercato. Ovviamente anche cedendo dei calciatori viste le norme Uefa. Cercheremo di rendere sempre più competitiva questa squadra. Sbagliare è frequente nel calcio, un anno negativo ci sta".
Marco Antonellis per Dagospia il 18 giugno 2019. Dopo il divorzio di Francesco Totti dalla As Roma, con tanto di conferenza stampa in casa Coni dall’amico di sempre Giovanni Malagò, si aprirà a breve un nuovo futuro per l’ex numero 10 giallorosso.“Radio Figc” parla di un possibile suo utilizzo come brand ambassador di Uefa Euro2020, prima edizione degli Europei itinerante (con match inaugurale, guarda caso, proprio nella città eterna allo Stadio Olimpico). Un nuovo ruolo in attesa di capire come potrà ricollocarsi nel mondo del calcio. Insomma, i soliti bene informati giurano che potrebbe essere questa la prima grande novità nella carriera professionale dell'eterno 10 giallorosso, in attesa poi di capire se matureranno le condizioni per un suo ritorno nella As Roma del futuro che molti vogliono targata Malagò (ma la trattativa per un eventuale passaggio di proprietà non sarà certo ne rapida ne facile visti gli strascichi lasciati dalla conferenza stampa di ieri tanto più che la società ha formalmente dichiarato di non essere intenzionata a vendere ). Comunque, chi conosce l'attuale numero uno del Coni sa benissimo che il sogno di una vita è quello di fare il Presidente della Roma. Resta solo da capire chi ci metterà i soldi (a proposito: i fratelli Toti, che pure in passato si erano sempre molto interessati alle vicende giallorosse, si sono già chiamati fuori). Ma per Malagò, uomo di grandi relazioni e con uno stadio di proprietà ancora da costruire (che tradotto significa business assicurato) forse non sarà un problema trovare qualche costruttore disposto a sborsare quattrini (e qualche fondo arabo tramite l'amico Montezemolo). Con uno stadio nuovo di zecca da costruire magari a Fiumicino saranno in molti a volerci mettere lo zampino. Dai primi rumors si parla di un'area di quasi 350 ettari, vicino al centro commerciale Da Vinci e a ridosso delle autostrade Roma-Fiumicino e Roma-Civitavecchia. Tra l'altro, ci sarebbero già stati degli incontri interlocutori in merito tra la As Roma e il Comune di Fiumicino. Insomma, l'ipotesi sarebbe tutt'altro che peregrina.
Marco Mensurati per “la Repubblica” il 18 giugno 2019. Se l' obiettivo di Totti era davvero quello di "fare il bene della Roma", allora si può dire che la sua conferenza stampa d' addio è stata un evidente fallimento. Basti pensare che da oggi ogni operazione di calciomercato in entrata sarà ancora più difficile di prima (chi vorrebbe andare a lavorare in una polveriera?). E che nelle due ore successive al suo sfogo, mentre social, radio, siti internet si gonfiavano di odio nei confronti della società, il titolo del club ha perso in Borsa il 3,78% (poi ha chiuso a +1,59%). Se invece, come in molti a Trigoria (e non solo) pensano e ormai dicono esplicitamente, il vero scopo dell' ex dirigente giallorosso era quello di inviare un preavviso di sfratto "agli americani", la lettura dello show di Totti è allora molto diversa. Nell' inchiesta pubblicata da Repubblica lo scorso 29 maggio sui veri motivi del turbolento divorzio tra la Roma e l' altro capitano, Daniele De Rossi, questo giornale aveva riferito di come il club e il relativo progetto per costruire un nuovo stadio avessero scatenato in città enormi appetiti. Ieri, durante i 90 minuti di conferenza, l' impressione che questi appetiti abbiano finalmente trovato una loro espressione è stata a tratti molto forte. Così forte che la Roma, in una nota ufficiale, si è lamentata dei "ripetuti riferimenti" di Francesco a "una nuova proprietà" e delle "informazioni raccolte da Totti stesso in tutto il mondo circa soggetti interessati al club". Attività - si specifica - "svolta senza alcun mandato", perché Pallotta "non ha alcuna intenzione di mettere in vendita il club adesso o in futuro". L' irritazione, tanto a Boston quanto a Trigoria, è ormai così palese che si sta pensando di segnalare le parole di Totti direttamente alla Consob, chiedendo all' ente di vigilanza di valutare eventuali profili di aggiotaggio. A sostanziare i sospetti del club, oltre alle parole esplicite di Totti, anche il profilo non proprio basso tenuto in tutta questa vicenda da Giovanni Malagò. Storico amico del Capitano, grande tifoso romanista, il presidente (in uscita) del Coni sta da tempo lavorando per riposizionarsi. Venerdì scorso in una intervista a Tuttosport aveva fatto scivolare lì una frasetta di quelle che balzano all' occhio: «Non conosco un tifoso di calcio che non sogni di diventare il presidente della sua squadra». Da allora Malagò ha ripetuto ad amici e giornalisti che quella era solo una battuta e che non ha alcuna mira sul club. Anzi, ancora ieri, diceva che lui aveva addirittura sconsigliato "l' amico Francesco" di fare una conferenza stampa con quei contenuti. E però, se così stanno le cose, non si capisce allora come mai Malagò abbia deciso di contraddire nei fatti il suo stesso pensiero, ospitando nel suo studio il debriefing della conferenza stampa, per la quale aveva deciso di "prestare" all' ex Capitano nientemeno che il Salone d' onore del Coni. Una scelta, quest' ultima, ostinatamente difesa da Malagò anche di fronte ai numerosi segnali di contrarietà arrivati nelle ultime ore dai vertici di Sport e Salute, l' ex Coni servizi Spa, già proprietaria della "Sala" nonché legata all' As Roma da un contratto di locazione dello Stadio Olimpico (valore 3,5 milioni di euro annui).
Da Affari Italiani il 18 giugno 2019. Totti via dalla Roma? Durerà pochissimo la sua distanza dalla società di calcio e dai colori giallorossi, perché secondo i bene informati, il capitano avrebbe già un pre-contratto da dirigente con la nuova cordata in procinto di acquistare la società da James Pallotta. La voce insistente gira da questa mattina nel quartier generale della Roma dell'Eur, dove sono certi che l'accordo con la cordata di imprenditori guidata da Giovanni Malagò, sia questione di ore. E la fine dell'avventura del Pupone sia una sorta di sceneggiata concordata a tavolino per accelerare l'addio dell'uomo di Boston da Roma e soprattutto dallo stadio della Roma, divenuto ormai l'unico motivo per tenere l'asset rappresentato dalla squadra. Il resto – sempre secondo i bene informati – sarebbe “fuffa” per confondere le acque. Dunque, Malagò alla guida dell'As Roma? Forse, con il problema del possibile conflitto con la presidenza del Coni che qualcuno paventa Malagò possa lasciare solo nel caso in cui la “nuova” As Roma possa riprendere il dialogo col Comune di Roma e portare a termine la procedura per lo stadio. O addirittura aprirne una nuova con un nuovo progetto, un nuovo voto in Consiglio Comunale e una nuova conferenza dei servizi con la Regione Lazio. Dove? Non a Tor di Valle, questo è certo, ormai terreno bruciato. Per saper se la cordata Malagò è una realtà bisognerà aspettare un giorno, massimo 48 ore.
Giampiero Mughini per Dagospia il 18 giugno 2019. Caro Dago, che Francesco “Pupone” Totti sia stato una eccellenza sportiva (calcistica) dell’Italia degli ultimi vent’anni non c’è il minimo dubbio. Difficile trovare tra gli atleti che battono la palla coi piedi uno che fosse alla sua altezza nell’azzeccare il punto di impatto con la palla, nell’imprimerle traiettoria e potenza, nell’indirizzarla ovunque lui volesse, nel rendere impossibile al portiere avversario la parata. Non era velocissimo di gambe ma lo era di pensiero, e poi in quella zona del campo dove sostava lo faceva al modo di un imperatore. Solo che questa eccellenza non tutti gli italiani la gustavano e ne approfittavano allo stesso modo. Per i romanisti era un romanzo pressoché quotidiano dedicato alla Bellezza Infinita. Per tutti gli altri italiani era una rappresentazione da gustare poche volte in un anno e a meno che uno non facesse di mestiere il giornalista sportivo. Io che guardo il calcio per piacere e non per dovere, Totti lo vedevo giocare quattro o cinque volte in un anno, non di più. Quelle poche volte gustavo le sue mirabilie, non di più. E’ ben diverso che non per un mio caro amico come Francesco De Gregori, romanista quanto di più fervido, uno che cambia espressione del viso e tono della voce quando parla di Totti. Ai suoi occhi la conferenza stampa di ieri - quella in cui Totti ha annunciato di dimettersi dall’Associazione Sportiva Roma e che le future partite della Roma andrà a vederle in curva assieme al suo amico Daniele De Rossi -, aveva qualcosa di “shakesperiano”. E io gli do ragione, anche perché Totti ha di per sé una maschera degna del grande teatro. Lo adoperassero come si deve in un film di qualità, farebbe concorrenza a tipini come Robert De Niro. Detto questo nessun italiano che non sia romanista può intendere a fondo la “Totteide” che sta sconvolgendo gli animi di cittadini romani a milioni. Loro Totti lo hanno avuto innanzi agli occhi, o meglio installato nella loro anima, giorno dopo giorno, anno dopo anno, partita dopo partita, meraviglia balistica dopo meraviglia balistica. Non era così per noi tutti, anche perché fuori dal campo della Roma e dei suoi matches Totti non è che rifulgesse così tanto. Ahimé. In nazionale è stato raramente un protagonista, a parte il famoso e decisivo rigore calciato al Mundial del 2006. Mai, dico mai, Totti è entrato nelle top ten relative al Pallone d’Oro europeo. Una volta in tv e tanto per fare una battutaccia (a me Totti piace moltissimo umanamente), gli dissi che lui era un campione che rifulgeva agli occhi degli abitanti del Testaccio, molto meno fuori da lì. Lui se ne adontò, e se è per questo ancora gli chiedo scusa della battutaccia. “Le bandiere non passano”, ha detto Totti nella sua conferenza stampa. E mi immagino il tumulto nelle anime dei romanisti a sentire queste parole. E qui non ci siamo davvero. Ogni campione, ogni atleta sa che c’è un momento in cui la faccenda finisce. Un pomeriggio di un giorno qualsiasi dei suoi 33 anni, alla fine della partita domenicale, Giampiero Boniperti si avviò verso quello che governava lo spogliatoio della Juventus e gli diede le sue scarpe da football: “Tieni, a me non servono più”. C’è stato un giorno in cui Bolt ha finito di correre i cento i metri, in cui il cestista americano Michael Jordan (“il più grande atleta nordamericano del XX secolo”) ha smesso di balzare lassù in cielo dalle partite del canestro, in cui Michel Platini ha smesso di indossare i pantaloncini da corti da giocatore di calcio. I tifosi romanisti non ne vogliono sapere. Non se ne danno pace. Per loro Totti avrebbe dovuto scendere in campo ancora all’infinito, e anche se nelle ultime partite da lui giocate la zona di campo in cui lui si muoveva non era più ampia della vostra sala da pranzo. Quanto alla sua caratura da dirigente (un ruolo per cui comunque gli “americani” gli hanno versato in un anno 600mila euro), non era detto che ne avesse una. Sei stato un grande colpitore di pallone con i piedi, non è detto che tu sia un grande dirigente. Luciano Moggi e Fabio Paratici con i piedi non sapevano far nulla. Altra cosa è dire ad alta voce che l’attuale dirigenza “americana” della Roma è stata maldestra e talvolta persino volgare nel gestire il fine carriera di due campioni come Totti e De Rossi. Sicuro che lo è stata. D’altra parte anche questo è uno specchio dell’Italia del terzo millennio. Non è un caso che a Roma non ci sia più una famiglia come i Sensi, una famiglia che si dissanguò per fare grande l’Associazione Sportiva Roma. In tutto e per tutto c’è un proprietario italoamericano che ci spera proprio di costruire lo stadio in quel di Roma. Le bandiere purtroppo passano, così come i sogni. Eccome se passano. Ciao, Totti. Ciao, grande campione.
Guido D'Ubaldo per Corriere dello Sport il 19 giugno 2019. Rosella Sensi è stata presidente della Roma, in seguito alla malattia del padre, l’ultimo trofeo la squadra giallorossa lo ha conquistato sotto la sua gestione. E’ grande amica di Francesco Totti, lunedì è andata al Foro Italico per esprimergli la sua solidarietà.
Come ha vissuto l’addio di Totti?
«Credo che sia stata ancora più amara questa giornata rispetto a quando ha lasciato il campo, andare via dalla Roma quando sei appassionato è dolorosissimo. Io ne ero consapevole, sapevo che dovevo farlo. Lui non è riuscito a fare quello che avrebbe voluto, glielo hanno impedito».
Cosa consiglia a Francesco?
«In questo momento gli consiglio di riflettere con grande calma, lui può fare qualsiasi cosa».
Dicono che Francesco non parla l’inglese e questo è un limite.
«Il problema della lingua è stata una considerazione inelegante. Il calcio è internazionale e si parla con il pallone. Hanno preso un allenatore che non è italiano, che non conosce la lingua, non vuol dire che sia incapace».
Totti ha ricordato che la qualifica di direttore tecnico era già prevista nel contratto firmato con voi.
«Era nelle nostre ipotesi, ma gli avevo anche detto che se nel tempo si fosse riconosciuto in un altro ruolo andava bene lo stesso. Francesco non può lasciare la Roma, il ruolo di direttore tecnico si adattava benissimo a Totti, ma tenendolo in considerazione, coinvolgendolo. Il carattere calmo di Francesco è molto determinato. Quando rinnovavamo il contratto avere personaggi molto competenti, ma l’ultima parola doveva essere la sua. Il grande equivoco è che non hanno capito Francesco e hanno tirato la corda».
Il problema è stato Baldini.
«Francesco non è stato tenuto in considerazione e questa cosa è stata sottovalutata e Pallotta ha fatto una scelta, penso che sia consapevole di tutto e ha preferito seguire i consigli di una persona e non di un’altra». (...)
(italpress il 19 giugno 2019) "Io non ricordo un particolare rapporto fra Totti e Baldini, il quale non ha mai nemmeno ringraziato mio padre per averlo fatto lavorare nella Roma - ha continuato Rosella Sensi -. Non comprendo perché il signor Baldini abbia osteggiato Totti. La romanità? Per me è vedere insieme Totti, De Rossi e Conti dopo l'ultima gara in giallorosso di Daniele. In un mese veder soffrire così e vedere andar via dalla Roma due 'fratelli più piccoli', come Francesco Totti e Daniele De Rossi, è motivo di gran dispiacere per me e per tutti i tifosi della squadra". E ai microfoni di Sky Sport ha infine aggiunto: “A Pallotta chiedo di essere più presente e di non fidarsi solo di chi gli riporta le cose. Totti non può stare lontano dalla Roma”.
(La Presse il 19 giugno 2019) Rosella Sensi , che ha ricoperto la carica di presidente della Roma per tre anni dal 2008 al 2011 raccogliendo l'eredità del padre Franco, commenta con inevitabile commozione la decisione di Totti di lasciare la Roma dopo un'esperienza ininterrotta di 30 anni: " Per me è una grande tristezza, anche per il lavoro che aveva fatto mio padre che da oggi non c'è più. C'è grande sofferenza perché Totti rappresenta qualcosa di più di un normale giocatore. Presto ci vedremo, conoscendolo so che non è sereno. Non si può dire che il business non può andare insieme ai valori, si possono fare coincidere. Al momento non si capiscono quali sono i progetti futuri della Roma. Si è tirata troppo la corda con Francesco: è un simbolo del calcio. Dietro quel suo sorriso ironico da romano c'è tanta sofferenza".
Il messaggio al presidente Pallotta: " Al presidente Pallotta chiedo di essere più presente e di non fidarsi solo di chi gli riporta le cose. Era una mia decisione il futuro di Totti come dirigente, per me non può stare lontano dalla Roma. Purtroppo è stato distrutto tutto quel che aveva fatto mio padre, che aveva portato la Roma a un livello altissimo in Italia e nel mondo".
Il duro giudizio su Franco Baldini: " È diventato direttore sportivo grazie a mio padre, ma non l'ha mai ringraziato. Il suo è un problema di personalità, quando si soffre Totti è perché non si ha personalità".
Guido D'Ubaldo per Corriere dello Sport il 19 giugno 2019. Zdenek Zeman ha allenato Totti da giovane di belle speranze e da campione affermato, ha convissuto con lui momenti importanti, sono diventati amici. Un rapporto che dura nel tempo, tra i silenzi del boemo e la riconoscenza di Francesco. Zeman è stato allenatore della Roma anche con questa proprietà, lo hanno esonerato quando aveva conquistato la finale di Coppa Italia, l’ultima volta che la squadra giallorossa è arrivata vicino alla conquista di un trofeo. Zeman ha tante cose da rivelare e può parlare con cognizione di causa. A cominciare da Totti.
Come ha visto l’addio di Francesco?
«L’ho visto male perchè per me Totti doveva stare per sempre nella Roma, purtroppo ci sono state situazioni che non gli hanno permesso di restare».
E’ possibile che Totti non avesse le competenze per fare il direttore tecnico?
«Lo hanno fatto in tanti senza avere le sue competenze. Penso che lui non avesse voluto farlo da subito, ma solo essere partecipe nella vita della società».
Francesco ha svelato l’obiettivo del club di deromanizzare la Roma.
«Io penso che volessero detottizzare la Roma, più che deromanizzarla. I romani non sono un problema».
Hanno cominciato a dire che era pigro quando era ancora calciatore.
«Io ne ho avuti tanti di giocatori pigri, ma lui non lo era. Io posso solo dire che Totti in campo faceva il professionista e lavorava».
Il problema è stato l’incompatibilità con Baldini?
«Non lo so, devo credere a lui che dice che non potevano restare insieme. Ma penso che il problema sia nato per come è stato trattato anche quando era giocatore».
E’ una Roma diversa senza Totti?
«Io dico di sì, all’estero conoscono la Roma di Totti, non la Roma calcio. Per recuperare il rapporto con i tifosi bisogna fare i fatti, dimostrare che era Totti che sbagliava e non loro. Purtroppo in questi anni non lo hanno mai dimostrato».
“DE ROSSI E TRE SENATORI VOLEVANO FAR FUORI TOTTI”. Francesco Balzani per Leggo il 30 maggio 2019. A Roma è scoppiato il caos. Di nuovo, e stavolta rischia di far crollare tutto. Tutto nasce da un'inchiesta di Carlo Bonini e Marco Mensurati su La Repubblica che rivela i contenuti di una mail interna alla società che possono aiutare a capire bene il contesto e i retroscena del turbolento addio tra Daniele De Rossi e l’As Roma.
I PROTAGONISTI - Nel documento, datato 16 dicembre 2018, un uomo di fiducia di James Pallotta racconta al suo presidente di come lo spogliatoio o almeno parte di esso chieda alla proprietà di far cadere tre teste: quella dell’allenatore Eusebio Di Francesco, quella del direttore sportivo Monchi, e quella dell’ottavo Re di Roma, Francesco Totti. Si citano, come fonti, i senatori Edin Dzeko, Kostas Manolas, Alexander Kolarov e Daniele De Rossi. Dall’inchiesta, Repubblica ha avuto accesso a fonti dirette e carteggi interni alla società, emerge uno spaccato inquietante che getta una nuova luce sui rapporti tra i due capitani e, soprattutto, documenta un grumo di ricatti e trame di spogliatoio che dice molto non solo della Roma e di Roma, ma anche del doppiofondo del calcio professionistico. E’ una storia che comincia a metà agosto del 2018. L’estate è gonfia di attese. I conti della società sono a posto. Il fatturato ha toccato i 250 milioni di euro, patrimonio dei calciatori a libro supera i 200 milioni che di fatto raddoppiavano a valore di mercato. Sono stati rispeati i paletti del fair play finanziario.
LA FURIA DE ROSSI - Sono state fatte cessioni dolorose: Alisson, Nainggolan, ma l’ultimo acquisto fatto, il campione del mondo Nzonzi viene accolto come un grande colpo. Non la pensa così De Rossi che ritiene quell’acquisto un avviso di sfratto e, come raccontano tre diverse fonti, chiede, anche attraverso il suo agente, la rescissione del contratto. Daniele in un momento di collera, avvisa la dirigenza: “Se non risolviamo la cosa vi faccio arrivare decimi”. Lo strappo viene ricucito. Ma quello scricchiolio è il prologo di quanto accadrà nell’arco di soli quattro mesi.
Da gazzetta.it il 7 giugno 2019. "Mi rimarrà per sempre l'abbraccio del pubblico, l'orgoglio di aver guidato la squadra del mio cuore e questo non si cambia con nulla". In un'intervista a Sky, Claudio Ranieri si conferma uomo vero e analizza la fine dell'avventura con la Roma partendo dai sentimenti. Momento non facile, per il mondo giallorosso, a partire dalle perplessità della piazza sulle possibilità e la gestione della proprietà americana: "Credo che molto dipenda proprio dallo stadio e dalla possibilità di farlo - ha spiegato il tecnico -. E' logico che una società voglia fare le cose perbene, avendo uno stadio di proprietà ci possono essere introiti maggiori. Stanno lavorando bene ma il pubblico vuole i risultati del campo. L'importante adesso è trovare allenatore e direttore sportivo e che tutti remino dalla stessa parte". L'augurio del tecnico è che "la Roma possa lottare per il quarto posto. Il calcio è bello perché nulla è scritto, penso che col Leicester sia stato dimostrato e io auguro il meglio. A Totti faccio i miei migliori auguri, scegliendo me ha inciso molto: c'era chi voleva Paulo Sousa e lui invece ha detto che voleva me. Consigli a De Rossi? Non ne ho, vuole giocare e gli auguro di giocare una squadra della sua dimensione". Così invece sul recente articolo di `Repubblica´ su presunte fronde interne: "Mi è sembrato ad hoc per creare un po' di caos, sappiamo tutti da dove parte e lo sanno anche i tifosi. Il mio futuro? Aspetto un buon progetto, l'importante che ci siano basi solide. Il mio futuro è sicuramente in panchina, sono un uomo di campo". E di cuore.
AUDIO! DE ROSSI E LA ROMA: LE DUE VERSIONI DI UN ADDIO. Andrea Pugliese per gazzetta.it il 17 maggio 2019. Prima Ranieri che di fatto si schiera dalla parte del suo capitano, poi due audio di De Rossi che nello spazio di una mattinata fanno il giro dei telefonini di Roma (e non solo), e che certificano le ricostruzioni contrastanti del capitano e della Roma. Con tanto di Tapiro finale per Daniele e la manifestazione di protesta annunciata per oggi pomeriggio (ore 15) degli ultrà sotto la nuova sede dell' Eur. Insomma, la giornata giallorossa di ieri è stata di quelle surreali. Tanti momenti con un unico comun denominatore, l' addio (tormentato) tra la Roma e De Rossi. Dopo le 48 ore precedenti (già caldissime di per sé), ieri il via è stato dato dalla conferenza di Ranieri. Dove, di fatto, di Sassuolo-Roma non si è parlato. Il campo principale, come è ovvio, è stato la situazione di De Rossi. «Come i giocatori scelgono altri club, le società scelgono altri giocatori. È la legge del calcio - dice Ranieri -. Ma con Daniele, visto quanto vale per la Roma e i tifosi, andava detto in altro modo. Se fossi rimasto anche il prossimo anno avrei detto: "Io lo voglio ancora". So che giocatore, uomo e capitano è. Nel calcio esistono tanti modi di essere leader, lui è quello ideale.
Ragiona sempre di squadra e mai per ego personale». Concluse le parole di Ranieri, ecco che iniziano a girare i due audio di De Rossi, diventati presto pubblici anche su social e siti. «Ho detto: voi dite che sto male? Allora datemi centomila euro a presenza. Se faccio dieci gare è un milione, con 30 tre milioni, con zero gioco gratis. Che problema c' è? Al che Fienga mi dice: è quello che ti volevo offrire io, più un bonus fisso. Ma è un discorso nato e morto così, mentre mi diceva che non mi avrebbero tenuto. Dopo 40 minuti sono a casa, mi richiama: "Ho parlato con il presidente, se è così va bene". Ma come va bene? È un anno che non ci parliamo, nessuno mi offre niente e ora mi dite: "Se vuoi farti il contratto fattelo..."». Per De Rossi, quindi, l' idea del contratto a gettone nata come una battuta avrebbe poi trovato il sì di Pallotta. Ma nell' audio non spiega perchè a quel punto non lo avrebbe accettato. Dignità e orgoglio personale? E qui nascono le versioni contrastanti, perché da Trigoria trapela che tra la Roma e il giocatore c' erano stati precedenti incontri per informarlo delle strategie del club. Colloqui in cui lo stesso De Rossi, infortunato, mostrava dubbi sulle sue scelte future. È vero, che nella conferenza di martedì Fienga si era scusato «per un discorso che è avvenuto solo ieri e non prima» ma il Ceo si riferiva alla comunicazione della decisione. In più, per la Roma non ci sarebbe mai stato alcun ripensamento. Anzi, Pallotta - saputa l' idea del contratto a gettone - avrebbe chiesto ai suoi di ringraziare Daniele, declinando. E offrendogli invece aiuto rispetto alla sua idea di giocare nella Mls visto che alcuni soci sono azionisti di club americani. In questo clima, non poteva mancare la consegna del Tapiro d' oro a Daniele. Avvenuta ieri sera. «Vediamo, tra poco saprò dove giocherò e se potrò dare molto o poco - commenta De Rossi -. Un po' ci sono rimasto male. Ma il nostro lavoro è così. C' è chi gioca e chi prende decisioni. Come dirigente mi avrebbero tenuto, ma io vorrei provare a giocare ancora...». Oggi sarà un' altra a giornata calda.
Stefano Boldrini per la Gazzetta dello Sport il 17 maggio 2019. Nell' amarezza e nel fastidio di queste ore, Franco Baldini non ha perso il gusto toscano per la battuta: quando gli è stato riferito che in un ponte di Londra era stato esposto l' altra notte uno striscione contro di lui, ha commentato: «Sarà successo sicuramente al Blackfriars». Sotto al bridge dei Frati Neri, fu trovato impiccato il 18 giugno 1982 il banchiere Roberto Calvi, figura chiave del crac del Banco Ambrosiano. Immagine lugubre, ma lo striscione ha invece come sottofondo le luci del Tower Bridge. In una stagione piena di negatività, con l' esonero di Eusebio Di Francesco, le possibilità di qualificazione in Champions ridotte al lumicino - a proposito di luci -, il derby di ritorno perso 3-0, le dimissioni dell' ex direttore sportivo Monchi e l' addio di Daniele De Rossi, la Roma ha centrato il record di essere la prima squadra ad essere contestata all' estero: lo striscione contro Baldini apre una nuova frontiera. Non c' è una firma, ma un nome: Roma. A Londra esiste un club, i Lupi di Londra, che si è limitato a riprodurre sulla pagina Facebook lo striscione contro il dirigente toscano sotto la scritta «Mai un' azienda». Baldini non vuole parlare. Da tempo ha scelto la strada del silenzio, anzi dell' oblio: dal lontano 5 giugno 2013, quando si dimise dal ruolo di amministratore delegato della Roma. In questi sei anni, zero interviste. Il dirigente toscano ha lavorato al Tottenham fino alla primavera del 2016 ed è poi rientrato nell' orbita della Roma nell' estate 2016, come consulente del presidente Pallotta. Neppure lo striscione londinese spinge Baldini ad aprire bocca. E' convinto che sia questa la scelta migliore per il bene della causa. Ci sarebbero da spiegare diverse cose sulla vicenda De Rossi, ma il rifiuto, nonostante le sollecitazioni, è totale. Chi ha deciso di non confermare il capitano della Roma? Perché dopo 18 anni di maglia giallorossa il presidente Pallotta o lo stesso Baldini non si sono assunti la responsabilità di comunicare in prima persona le decisioni dell' azienda Roma, al calciatore? Baldini è convinto che la linea seguita sia stata corretta e che rientri nelle prerogative di un club fare scelte scomode, anche con i «totem». Lo sostiene in privato, ma non vuole dirlo in pubblico.
AUDIO! DE ROSSI VIA WHATSAPP ATTACCA PALLOTTA: ''MA COME, NON CI PARLIAMO DA UN ANNO, MI ANNUNCI CHE MI CACCI E POI DOPO 40 MINUTI…'' Francesco Balzani per Leggo.it il 17 maggio 2019. Il caso De Rossi sembra non avere mai fine. In mattinata, infatti, nella capitale è circolato un un audio Whats App con la voce presumibilmente di De Rossi che ad un amico confessa un retroscena che avrebbe dell’incredibile. Dopo aver difeso il personale e l’ufficio stampa che lavora a Trigoria perché incolpevole di quanto stesse succedendo, Daniele avrebbe illustrato l’offerta fatta dalla Roma dopo le contestazioni. De Rossi sarebbe stato disponibile a un contratto a gettone buttato li quasi come una battuta. Visto che la società nutriva dubbi sulle sue condizioni fisiche il numero 16 avrebbe proposto di dargli 100mila euro a presenza, a gettone. Facendo 10 partite avrebbe guadagnato un milione. Se ne avesse fatte 30 sarebbero stati 3 milioni. C’era anche la possibilità di non farlo mai giocare. In quel caso De Rossi sarebbe stato disponibile pure a passare un anno senza stipendio. Una cosa nata e morta nel colloquio con il Ceo Fienga che qualche minuto dopo avrebbe richiamato lo stesso De Rossi dicendo che Pallotta aveva dato l’ok alla proposta. A quel punto De Rossi sarebbe sbottato. Dopo un anno che non si parlavano e dopo essere stato cacciato il centrocampista si è stupito dell’improvviso interesse di Pallotta e avrebbe rifiutato la proposta, come ha detto ieri ai tifosi “per dignità personale”.
La Roma un caos capitale. E spunta pure una fronda di De Rossi contro Totti. Senatori contro l'ex numero10, allenatore e ds Lo rivela una mail. Pallotta: «Tutte sciocchezze...» Marcello Di Dio, Venerdì 31/05/2019, su Il Giornale. Un progetto ancora da scrivere anche se con linee guida che almeno all'apparenza ci sarebbero (tanti giovani in campo, scelta low cost in panchina dopo aver corteggiato Conte, Sarri e Gasperini, un nuovo ds che sarà Petrachi). Una piazza in ebollizione con poche certezze sul piatto e un malumore sempre più crescente. La questione stadio «congelata» e difficilmente sbloccabile, come avrebbe voluto James Pallotta, entro il 2019. In tutto questo il caos trascinatosi per tutta la stagione, chiusa in deficit rispetto a quella culminata con la semifinale Champions. La nuova rivoluzione americana dovrebbe avere in panchina un tecnico probabilmente italiano (De Zerbi, Giampaolo o Gattuso, in ordine di preferenza, l'ex tecnico del Milan è il preferito di Totti), spunta il nome di Mihajlovic contattato in questi giorni dal club (non a caso il serbo ha chiesto dieci giorni di tempo al Bologna per decidere se restare in rossoblù), più defilati gli stranieri Fonseca (Shakhtar) e Bordalas (Getafe). In attesa delle scelte tecniche, il caos di cui si parlava prima si è materializzato di colpo con l'inchiesta di Repubblica che ha svelato un «carteggio interno» che il preparatore atletico Ed Lippie avrebbe scritto al presidente circa una presunta fronda interna dei «senatori» del gruppo, tra cui capitan De Rossi appena congedato da Trigoria, contro i sistemi di gioco del tecnico Di Francesco e la gestione del ds Monchi (via da Trigoria ai primi di marzo insieme al medico Del Vescovo e al fisioterapista Stefanini, accusati di essere i colpevoli dei numerosi infortuni, oltre che i nomi citati da Lippie come fonti «interne») e con un Francesco Totti mal sopportato nel suo ruolo dirigenziale. In realtà da due stagioni, da quando cioè l'ex numero 10 è passato dal campo alla scrivania, è acclarato che Totti sia apparso senza poteri (cosa di cui si è lamentato), tanto da non partecipare neppure ai vertici dirigenziali di Londra e Boston. Nell'articolo di Repubblica si attribuisce a De Rossi anche una dichiarazione fatta alla dirigenza a Trigoria al momento dell'acquisto di Nzonzi, destinato teoricamente a fargli ombra: «Se non risolviamo la cosa, vi faccio arrivare decimi». Una prova più diretta alle tante voci circolate nelle ultime settimane intorno al divorzio con tra il DDR e la Roma. Anche se poi non si spiega il fatto che la stessa dirigenza - dopo l'enorme ferita di un'annata pesante anche dal punto di di vista economico - due settimane fa abbia offerto proprio a De Rossi il ruolo di vice Ceo, cioè numero due del club sul fronte tecnico, o un'auspicata collaborazione futura del capitano con Totti nuovo dt. De Rossi, in vacanza in Giappone, è pronto a querelare. In città non si è parla d'altro e da una parte c'è chi è sbigottito perchè dovrà rivedere le valutazioni sui protagonisti della stagione, dall'altra chi è convinto che si tratti di una montatura per nascondere il fallimento. «Quadro distorto e totalmente distante dalla realtà», così il club in una nota. «Tutte cazz..., qualcuno sta provando a danneggiare la Roma con continue bugie», ha sottolineato Pallotta. Che ora promette di chiarire tutto. Intanto dovrà farlo nel progetto sportivo della Roma che verrà, per fermare il caos scoppiato in casa giallorossa.
“DE ROSSI VOLEVA TOTTI VIA DALLA ROMA? TUTTE CAZZATE”. Gianluca Lengua per il Messaggero il 30 maggio 2019. De Rossi voleva Totti via dalla Roma, Pallotta: «Qualcuno prova a danneggiare il club». «Sono tutte cazz..., qualcuno sta provando a danneggiare la Roma con continue bugie», sono queste le parole del presidente della Roma, James Pallotta, pronunciate al Messaggero. L’imprenditore di Boston ha commentato l’articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica in cui è stata riportata una mail scritta Ed Lippe (fidato uomo James Pallotta) lo scorso 16 dicembre. Il preparatore atletico racconta al presidente una trama di spogliatoio nata da Daniele De Rossi che avrebbe ritenuto l’acquisto del centrocampista Steven Nzonzi come un avviso di sfratto considerandolo un suo doppione. «Se non risolviamo la cosa, vi faccio arrivare decimi», è il virgolettato attribuito all’ex capitano romanista che si sarebbe rivolto così alla dirigenza in un momento di collera. Parole che hanno suscitato l’immediata reazione del centrocampista che ha dato mandato ad avvocato e procuratore di intentare querela. La ricostruzione continua e oltre a De Rossi vengono coinvolti anche altri tre senatori: Kolarov, Dzeko e Manolas che ritengono il gioco del tecnico Di Francesco misero sul piano della tattica. I calciatori lamentano anche le troppe cessioni estive fatte da Monchi che hanno indebolito la rosa, accusando l’allenatore di aver accettato un mercato inadatto al suo 4-3-3. L’ex direttore sportivo - secondo quanto racconterebbe Ed Lippie - verrebbe visto dallo spogliatoio come un narcisista spagnolo con doppiezza nei rapporti e capacità manipolatorie nelle informazioni in uscita da Trigoria e autore di un mercato che non è passato attraverso una corretta due diligence. Nella mail verrebbe citato anche Francesco Totti: lo spogliatoio chiederebbe di allontanare l’ex numero 10 e sostituito perché difensore Di Francesco a cui è legatissimo. Le fonti di Ed Lippie? Sarebbero il medico Riccardo Del Vescovo e il fisioterapista Damiano Stefanini, entrambi licenziati da Pallotta lo scorso 8 marzo dopo il ko in Champions League.
Da Il Messaggero il 30 maggio 2019. «Non ne so nulla, non conosco Bonini», così Monchi a ReteSport ha commentato le notizie apparse su La Repubblica di una fronda anti Totti ad opera di De Rossi e altri tre "senatori" giallorossi. A Te la do io Tokyo, su Centro Suono Sport, Monchi ha detto: «Non voglio guardare indietro. Io adesso lavoro a Siviglia e anche qui ho tante cose da fare e mi sembra non rispettoso parlare d’altre cose che non sono del Siviglia. Ma voglio che una cosa sia chiara: io non conosco i giornalisti che hanno scritto quell’articolo. Non so chi sono e non ho mai parlato con loro». Anche all'ANSA l'ex ds romanista ha detto: «Non voglio fare commenti, adesso lavoro al Siviglia e ho già tanti casini. Però non capisco la genesi di questa storia, perché io questi giornalisti non so chi siano e non li ho mai incontrati». Così Monchi da Siviglia, città da cui firmano l'inchiesta i due inviati di La Repubblica. «Non so proprio - dice ancora Monchi - e non posso parlare: sarebbe una mancanza di rispetto verso la Roma, e anche il Siviglia».
Da La Roma 24 il 30 maggio 2019. TELE RADIO STEREO - Carlo Bonini, giornalista de "La Repubblica" e uno degli autori dell'inchiesta dal titolo "La rivolta di De Rossi e tre senatori contro Totti", è intervenuto ai microfoni dell'emittente radiofonica. Questo il suo intervento
Lo chiediamo con il massimo pudore: si è reso conto di cosa ‘ha combinato’?
“Lo so, sono nato a Roma e sono romanista da quando sono bambino, immaginavo perfettamente quale sarebbe stato l’effetto che questa storia avrebbe avuto. E lo so bene, ha avuto effetti in primo luogo su di me, il primo laboratorio emotivo l’ho misurato su me stesso. Posso assicurarvi, se questo può servire, che se normalmente metto attenzione in ciò che scrivo, in questo caso l’attenzione è stata tripla. Scrivevo di qualcosa che amo e soprattutto perché quando si scrive di calcio, in particolare a Roma, è evidente che le considerazioni fattuali vengano inghiottite da considerazione di altro genere, di tipo emotivo. Lo immaginavo, al punto tale che ho messo ancor più cura del solito. Credo di essere riuscito a stare il più possibile in una situazione di pura oggettività, non amo fare processi alle intenzioni e ho cercato di non farlo mettendo a punto questa inchiesta”.
Cosa si aspetta dai suoi lettori?
“I giornalisti sono i loro lettori, il problema dei miei lettori me lo pongo. Ognuno è libero di reagire come crede. Su una cosa mi piacerebbe che almeno tutti fossimo d’accordo: quello che stamattina è scritto è qualcosa che è accaduto. A partire da questo, ogni considerazione va bene, naturalmente nei limiti della civiltà e del rispetto. Poi il processo alle intenzioni, i “cui prodest” le domande sul perché è stato scritto tutto ora, sul disegno che c’è dietro… Faccio questo mestiere da qualche anno on tutto il rispetto per la Roma, mi sono occupato di questioni ben più delicate, che riguardavano la sicurezza nazionale, conosco i meccanismi che governano le reazioni ad una notizia che di per sé mette di fronte ad una realtà impensabile. Lo dico con una battuta, spero che non sia infelice: la verità è sempre rivoluzionaria, consente sempre di misurarsi con dei fatti da cui farsi un’opinione. In una città abituata ad alimentarsi di voci e confidenze, spero che questo pezzettino di verità inviti questa tifoseria straordinaria a riflettere non solo su quanto accaduto nelle ultime settimane nell’ultimo anno. E sul modo e sulle difficoltà evidenti nel fare calcio a Roma. Si parla di ambiente romano, si abusa di questo termine, ma che significa?”
Alla luce di tutto questo, la Roma è consapevole di questa vicenda. Come mai la società propone a De Rossi un ruolo dirigenziale?
"Quello che ho capito è che le società di calcio, come succede non solo a Roma ma basti pensare all'Inter, cercano finché possibile di tenere tutti i pezzi assieme anche se questi sono diventati cocci. Ho avuto la sensazione che la società in quel momento abbia fatto questo ragionamento, abbia cercato di ricomporre un quadro che si era fortemente incrinato intorno alla vicenda di questa mail. Non a caso la indichiamo, non sono nella testa di Ed Lippie e non ho le registrazioni dei colloqui che scrive di aver avuto con Tizio o Caio, questo sia chiaro. Detto questo, la Roma ha provato a percorrere questa strada, che non ha funzionato. Non è qualcosa peculiare alla Roma, di solito le vicende di spogliatoio si dice che debbano rimanere nello spogliatoio. Il problema è che, nel caso specifico, a Roma le vicende di spogliatoio non restano nello spogliatoio, spesso diventano qualcos'altro e poi finiscono per diventare acido corrosivo, che rischiano di compromettere una stagione, scelte di mercato e ciò che le governano. Una volta ricostruita questa storia, mi sono sembrati più chiari, sia da giornalista che da tifoso, alcuni passaggi avvenuti durante la stagione".
Intesi come passaggi di rendimento?
"Incroci di partite, passaggi di rendimento, se vogliamo anche l'allontanamento di Stefanini. Ricordo che quando accadde la cosa mi colpì, nel momento in cui lasciavano allenatore e ds se ne andavano anche medico e fisioterapia. C'erano cose che non tornavano. Così come mi colpì molto l'episodio della rissa nello spogliatoio tra Dzeko ed El Shaarawy a Ferrara, mi ha colpito il fatto che Dzeko venisse dato già d'accordo con l'Inter, le intemperanze e il nervosismo di Kolarov e Manolas... Tutte cose che riviste a valle ora mi danno un'altra impressione".
Ci sarà la replica di qualche protagonista?
"Francamente non lo so perché non sono nella testa della società. Per quello che posso dire sono tranquillo, rispetto ai fatti che ho raccontato sono in grado di rispondere a qualunque replica che abbia a che fare con i fatti di cui ho dato conto. Se qualcuno mi chiede "perché l'hai scritto oggi?", è un'osservazione che si basa un'opinione. Non temo che qualcuno mi dica "l'email non esiste'".
Perché scrivete da Siviglia?
"Abbiamo viaggiato parecchio per mettere insieme tutti questi pezzi e alla fine abbiamo deciso di mettere quella città, ne avremmo potuto metterne 5-6, ma anche qui non c'è un motivo particolare. Le città in cui siamo stati sono state più d'una, ecco".
Alcuni ascoltatori ci chiedono dell'email di Lippie, se è vero che ce l'avete, ma conoscendo come lavorate...
"Ha già dato la risposta. Cerco di darmi delle regole facendo questo mestiere, ho un direttore che fa del rigore la sua religione. Non ci saremmo mai avventurati in una storia del genere senza avere più che contezza del documento chiave".
Il passaggio con quel virgolettato di De Rossi sul "vi faccio arrivare decimi".
"Non è presente nell'email, come si evince anche dall'articolo. Questa frase ci viene riferita da più di una persona a cui De Rossi fece questo sfogo, sono fonti diverse e ognuna sganciata dall'altra, che riportano lo stesso contenuto e certificano il fatto che in quel momento Daniele De Rossi era molto scontento, molto arrabbiato dell'acquisto di Nzonzi e non fece mistero della sua insoddisfazione al punto, ed è una circostanza che abbiamo verificato, da chiedere la rescissione del contratto".
Qual è l'informazione o il passaggio che ti ha colpito di più?
"L'informazione che francamente mi ha colpito di più, e mi ha sorpreso, è la lacerazione anche simbolica che a un certo punto avviene dentro lo spogliatoio. Non conosco il contenuto dei colloqui avuti da Lippie con i suoi interlocutori, ma mi ha colpito la lacerazione simbolica tra lo spogliatoio e Totti, tra De Rossi e Totti. E' una cosa che mi ha sorpreso, da una parte. E' come se in qualche modo due anime diverse di Roma, della tifoseria, si riflettessero in questi due grandi calciatori. Uno una leggenda come Totti, l'altra un grande calciatore come De Rossi. E' qualcosa che non avrei mai immaginato. L'altra cosa che mi ha sorpreso è che, come in tutta questa vicenda, si ha la sensazione che la componente sportiva, i calciatori, abbiano a un certo punto messo da parte quello che dovrebbe essere il bene supremo, il bene della squadra. La sensazione è che la Roma (intendo il club, i tifosi e la loro passione) sia stata un po' sfruttata. Come se ognuno avesse deciso di pensare innanzitutto a se stesso e credo che questa città, tutto sommato, non lo meriti".
“HANNO GIOCATO SPORCO, IO NON TI HO TRADITO, E’ TUTTO FALSO”. Ugo Trani per il Messaggero il 31 maggio 2019. Il frastuono dell’esplosione è paragonabile a quello della scossa di terremoto. Si sente fortissimo all’Eur, nella sede di via Tolstoj, e subito si estende alla città. Ma dalla Capitale arriva ovviamente fino a Boston. La Roma è saltata in aria all’alba, con la miccia accesa proprio dentro Trigoria. L’inchiesta del quotidiano La Repubblica mette in piazza la lotta intestina che, dall’inizio della stagione, avrebbe disintegrato lo spogliatoio. E soprattutto il duello fratricida tra De Rossi e Totti, con il capitano messo alla porta senza preavviso lo scorso 13 maggio. Nessuna sorpresa, però, per Pallotta, presidente informato sui fatti fin da metà dicembre. A relazionarlo dettagliatamente il suo fisioterapista personale Ed Lippie, l’ex preparatore giallorosso che si era poi accontentato del ruolo di consulente esterno, con blitz sporadici nel centro sportivo (dopo l’addio di Di Francesco e del suo staff è di nuovo tornato ad essere il responsabile). «Hanno fatto un gioco sporco». Totti, al telefono, si sfoga con l’amico De Rossi, in vacanza in Giappone (e contattato, pensate un po’, pure dai dirigenti giallorossi). Spesso hanno discusso, pure da compagni di squadra. Ma sono sempre stati leali tra loro. La fronda, raccontata dal preparatore statunitense, non è insomma in campo. Nè chiama in causa Francesco e Daniele. Bisogna, dunque, spostarsi in società. Dove la guerra di potere nasce sottotraccia e viene a galla nella forma peggiore. Le ultime nomine, dopo le dimissioni di Gandini, hanno creato malumori, risentimenti e invidie. Rivoluzionato il vertice del club: Fienga diventa il nuovo Ceo, con la delega da amministratore delegato; Baldissoni, promosso vicepresidente esecutivo, è operativo esclusivamente sulla questione stadio. E Baldini, da esterno, divide et impera. Il management della Roma, nessuno escluso e Monchi compreso, ha avuto la copia dell’email, a quanto pare, direttamente da Pallotta. Pure diversi giocatori furono messi al corrente, a cominciare dal capitano. Che, battezzato nella ricostruzione come il capo della rivolta, ha passato la giornata a rispondere a ogni amico con la stessa frase: «È tutto falso». Ed Lippie spinge il tasto invio subito dopo il ko di Plzen e prima della gara interna con il Genoa del 16 dicembre. La sintesi è questa: «I quattro senatori De Rossi, Kolarov, Dzeko e Manolas ritengono il gioco di Di Francesco dissennato, dispendioso sul piano della corsa e misero su quello della tattica. Lamentano l’indebolimento della rosa. Il tecnico è in preda alla nevrosi dovuta al rammarico di aver accettato da Monchi un mercato inadatto al suo 4-3-3. Circondato da uno staff non all’altezza, vittima della sua stessa presunzione di riuscire ad adattare calciatori non compatibili col suo gioco». Monchi non lo sopporta nessuno: «È il narcisista che ha riempito la squadra di giocatori per i quali vincere o perdere è la stessa cosa. Gli rimproverano doppiezza nei rapporti, insofferenza nei confronti dei giocatori di seconda fascia, capacità manipolatorie nelle informazioni in uscita da Trigoria e un mercato che non è passato attraverso una corretta due diligence». Sgradito anche Totti: «La squadra soffre la sua presenza nel suo nuovo ruolo di dirigente. Le percezioni negative che trasmette al gruppo. È mal tollerato da coloro a cui ha consegnato il testimone. La richiesta dei giocatori: allontanarlo subito e con lui Di Francesco al quale è legatissimo». A Pallotta vengono svelate le fonti: il medico Del Vescovo (il più esposto) e il fisioterapista Stefanini (non citato nell’email). Non mancano le incongruenze, almeno per chi ha vissuto la stagione travagliata della Roma: se De Rossi, pur scontento per l’acquisto di Nzonzi, guida la congiura contro Di Francesco e rallenta i giallorossi in classifica, come mai va in panchina da infortunato contro il Genoa per supportare il tecnico (che lo ringrazia a fine gara), rinuncia alle ferie di inizio 2019 e resta ad allenarsi a Trigoria, calcia il rigore decisivo a Oporto, tiene la squadra in corsa per la Champions con la rete di Marassi contro la Sampdoria e riceve la proposta del club di diventare vice Ceo? E se Totti, ancora in attesa della carica (responsabile area tecnica), non ha alcun potere (escluso da summit di Londra e Boston), perchè può poi decidere di far cacciare Del Vescovo e Stefanini? Data da non dimenticare: giovedì 7 marzo. Dopo l’eliminazione dalla Champions, Di Francesco è stato esonerato solo a fine pomeriggio perché in una conference call con Pallotta, De Rossi ha provato, parlando in inglese anche per conto dei compagni, a far cambiare idea al presidente. Senza, però, riuscirci. Poi all’allenatore chiese: «Potrò venirti a trovare per studiare il tuo metodo?». Kolarov, invece, giocò il derby (e segnò) con il dito del piede fratturato. Dzeko, quando andò vià Eusebio, si limitò all’sms. Il più bello ricevuto dal tecnico. Che, ai curiosi, ricorda: «I quattro sono gli stessi che mi portarono in semifinale di Champions». I contrasti ci sono stati, come le lamentele. Sui carichi di lavoro e sui sistemi di gioco. Accade ovunque e non solo qui.
Massimo Cecchini per la Gazzetta dello Sport il 31 maggio 2019. Dov' eravamo rimasti? A quell' abbraccio a centrocampo e ad una Roma che ronza sempre nei loro pensieri. Tra le prime telefonate che sono giunte ieri in Giappone a Daniele De Rossi c' è stata la sua, quella di Francesco Totti. Poche parole, che hanno sintetizzato lo sconcerto di un tandem che in 18 anni di convivenza nello spogliatoio ha avuto inevitabili frizioni, che però non hanno intaccato il loro affetto di fondo. «Hanno giocato sporco», ha detto Francesco a Daniele - che nega tutto -, sapendo che alcune «verità» si colorano a seconda del contesto in cui vengono raccontate. E così entrambi concordano su due dati di fondo che non sono sfuggiti a nessuno di coloro che seguono la Roma.
1) È noto che Totti da due anni chieda di avere un vero potere decisionale, ma finora è rimasto soprattutto a guardare. Un esempio su tutti: in questa stagione ci sono state due riunioni plenarie ai massimi livelli: a Londra ad ottobre e a Boston a marzo. Ebbene, in nessuna delle due l' ex capitano è stato presente. Impressioni? Poco logico affidare a Totti il ruolo decisivo nella scelta di mandare via il coordinatore medico Del Vescovo e il capo dei fisioterapisti Stefanini.
Postilla: ieri quest' ultimo ha affermato due concetti chiave: «De Rossi è un professionista esemplare e non ha deciso Totti il mio allontanamento».
2) Alla luce della ricostruzione di «Repubblica» De Rossi apparirebbe come un personaggio che ha condizionato in negativo la stagione della Roma, che alla fine ha perso circa sessanta milioni per il mancato accesso alla Champions. E come si tiene questa considerazione - sulla carta evidente alla proprietà - col fatto che solo un paio di settimane fa, oltre ad offrirgli un nuovo contratto a gettone - gli hanno proposto di diventare vice ceo del club?
Inspiegabile dare un ruolo a uno così «pericoloso». Ecco, di questo e altro hanno parlato ieri i due capitani. E se Daniele - tentato dalla querela e contattato anche dai dirigenti - deve ancora decidere del suo futuro, Totti aspetta solo che la proprietà dia fede alle promesse e lo nomini direttore tecnico, magari contestualmente alla investitura di Petrachi come d.s. A quel punto toccherà a Francesco incidere, sperando di non farsi zavorrare dagli strascichi che questa storia potrebbe avere anche su di lui. Ma nella vita, a volte, si diventa grandi anche passando attraverso le bufere.
Da romanews.eu il 31 maggio 2019. Il capitano della Roma, secondo quanto riporta il Corriere dello Sport, si sarebbe sfogato con un amico: “Non c’è niente da fare, se non inorridire. Io dovrei rispondere, fare nomi e cognomi. Ma non serve non sono il tipo. Ma di cosa stiamo parlando? Io penso che il dubbio venga solo agli sprovveduti. Basti pensare che – aggiunge De Rossi – se io sono un pezzo di merda, uno che ce l’ha con Francesco, uno che ce l’ha con Baldini o Di Francesco, uno da allontanare, non mi offri il ruolo di vice-amministratore delegato. Non voglio aprire la querelle tra me e la Roma, stiamo parlando di fantascienza una cosa gravissima e io non c’entro un cazzo, la mail l’ho letta non c’è riferimento a me, a me contro Francesco o Di Francesco o Monchi, si parla solo di senatori che non gradiscono certi metodi di allenamento”. Un duro attacco, con il centrocampista pronto ad agire per vie legali.
ROMA SCAPOCCIA. Ferdinando Mezzelani per Dagospia il 30 maggio 2019. L’inchiesta di “Repubblica” ruota attorno alla mail del preparatore Ed Lippie, uomo di fiducia di Pallotta a Trigoria. Una storia torbida di corvi e veleni in cui De Rossi viene descritto come un Rasputin che briga per mandare via l’allenatore Di Francesco, il ds Monchi e “il fratello” Totti insieme a tre senatori della squadra (Kolarov, Dzeko e Manolas, guarda caso tutti in uscita). Qualcosa non torna e sorge spontanea una domanda: perché a DDR, capo dei congiurati, l’As Roma offre poi la carica di vice amministratore delegato? Nella ricostruzione si parla anche dell’allontanamento del medico sociale che – va ricordato – è stato allontanato non per un fantomatico diktat di Totti ma perché la Roma ha avuto 49 infortuni in una stagione. E dunque chi aveva interesse a colpire Totti e De Rossi, gli ultimi due simboli del romanismo? Elementare, Watson. Anche se il soggetto in questione ad Arthur Conan Doyle preferisce Shakespeare. Tutte le strade portano a Franco Baldini e al “centro di potere londinese” del club che avrebbe messo in piedi l’operazione con l’avallo di Boston per contrastare il fatto che De Rossi è stato mandato via senza una logica. Il “consigliori” di Pallotta è stato anche il primo a mettere i bastoni tra le ruote a Totti quando ancora giocava. Far passare i due capitani come due congiurati che si odiano tra loro appartiene al più classico “divide et impera” come le voci su Ferrero e sul generone romano che vuole comprarsi la Roma. La classica polpetta avvelenata messa in giro ad arte per spaventare tutti: vedete come finisce? Se Pallotta e gli "amerikani" mollano, torna la “Rometta” di un tempo (come se adesso fosse una grande Roma). Quindi, teneteveli stretti. Ma c'è un’altra lettura. Chi ha fatto scoppiare la bomba aveva perfettamente coscienza degli effetti che avrebbe provocato tra i tifosi e nella società. Al punto da portare Pallotta a vendere. E siccome ormai la Roma ha perso appeal, non saranno i fondi del Qatar ma una cordata "romana" che a quel punto farà lo stadio…Ma non a Tor di Valle.
Lettera di Pallotta il 31 maggio 2019. Ai tifosi della Roma, ovunque siano. Sono rimasto in silenzio nelle ultime settimane, ma ci sono alcune cose che sento di dover affrontare. Che mi crediate o meno, e so che alcuni di voi sono pronti a non prendere in considerazione nulla di ciò che dirò, non penso ci sia stato nessuno, in Società, più deluso, più depresso e più arrabbiato di me per come sono andate le cose alla Roma negli ultimi diciotto mesi. Mi dispiace per gli errori che abbiamo commesso, uno di questi si è rivelato molto grave a livello sportivo. È stato probabilmente uno dei più grandi errori che abbia mai commesso nella mia intera carriera e alla fine sono io che me ne devo assumere la responsabilità. È qualcosa che stiamo risolvendo e, per alcuni aspetti, ci vorrà del tempo. Sono sicuro che molti di voi staranno pensando: “Bene, questa storia l’ho già sentita...”. Ma stiamo lavorando duramente per riorganizzare alcune aree del Club, che probabilmente avrebbero dovuto essere prese in esame prima, e per risolvere alcuni problemi, che solo di recente sono giunti alla mia attenzione. Stiamo lavorando attentamente per ingaggiare persone di talento, che ci aiuteranno a riportare la Roma dove deve stare: ovvero a giocare sui più grandi palcoscenici, a competere per i trofei e a rendere orgogliosi i nostri tifosi. A coloro che dicono “bla bla bla, abbiamo già sentito questi discorsi in precedenza”, rispondo di essere fermamente convinto che prima di questa stagione, almeno negli ultimi quattro o cinque anni, abbiamo allestito squadre molto competitive e desiderose di vincere. Ci siamo qualificati con regolarità in Champions League. Abbiamo battuto alcuni record ma non è stato sufficiente per vincere un trofeo. Questo è un mio grande rimpianto, perché alla fine il motivo per cui sono qui è vincere trofei, allestire una squadra e creare un’atmosfera che rendano ovunque orgogliosi i tifosi della Roma. L’ultima stagione secondo me è stata un completo disastro, ma allo stesso tempo mi risulta difficile accettare l’argomentazione secondo la quale non avremmo provato ad andare oltre i nostri limiti con le risorse che avevamo a disposizione. Abbiamo investito nella squadra e - indipendentemente da ciò che qualcuno può pensare - i numeri e i fatti parlano da soli. Con i miei investitori, ho versato centinaia di milioni di euro e ho già speso probabilmente quasi novanta milioni di euro in un progetto per lo stadio che avrebbe dovuto essere approvato anni fa: uno stadio che assicurerebbe benefici alla Roma, alla città e al calcio italiano. L’ho già detto un milione di volte: se vogliamo competere con i maggiori club europei, abbiamo bisogno dello stadio. Se qualcuno pensa che io sia interessato solo a fare soldi con la Roma, non potrebbe commettere errore peggiore. Non ho mai preso uno stipendio. Non ho mai tirato fuori un soldo dalla squadra. Non ricavo nulla dalle cessioni dei giocatori. Non guadagno niente dalle vendite delle maglie da gioco. Non prendo un centesimo. E se la squadra varrà molto di più in futuro, la mia vita non cambierà neanche in minima parte. Sono stato un uomo fortunato e guidato dalla provvidenza. La mia vita non cambierà accumulando più denaro. Se molti di voi non sono felici per via delle cose che sono accadute, in particolare di recente, lo comprendo. Anche io non sono felice: non sono felice a causa dei risultati sportivi e non sono felice perché non abbiamo ancora uno stadio nonostante l’impianto e le sue infrastrutture saranno finanziati con fondi privati. Per quanto riguarda l’articolo pubblicato giovedì su Repubblica, ho letto alcuni passaggi quando mi sono svegliato alle 5 di ieri mattina e li ho definiti “cazzate”. Dopo aver letto tutto il servizio, e dopo aver sostenuto una lunga e assai dettagliata conversazione con uno degli estensori del pezzo, ritengo che alcune parti siano vere e altre parti chiaramente non corrette. Mea culpa. Alcuni aspetti di questo articolo hanno messo in cattiva luce Daniele De Rossi: non è giusto, perché Daniele per diciotto anni è stato un guerriero per la Roma. Lui merita rispetto e io l’ho sempre rispettato. Potremmo aver avuto qualche divergenza di opinione su come si è chiusa la sua carriera da giocatore della Roma, ma non intendo affrontare questo aspetto pubblicamente. Questo resta tra me e Daniele. Daniele era turbato, ma le sue emozioni derivano da quanto tiene e da quanto ha sempre avuto a cuore la Roma. Gioca con il cuore e lo abbiamo visto sul campo con la Roma per diciotto anni e, a livello mondiale, con l’Italia. Esprime i suoi sentimenti nello spogliatoio e questo è quello che lo ha reso un grande Capitano. Io credo fermamente che qualunque cosa Daniele abbia fatto, sia stata sempre per il miglioramento del Club. Era turbato per il fatto che qualcuno fosse stato acquistato per giocare nella sua posizione come riferito dall’articolo? Sì, lo era, ma ciò è dipeso dal fatto che il giorno precedente gli era stato detto da Monchi che non avremmo preso nessuno che potenzialmente avrebbe giocato davanti a lui nello stesso ruolo. Pertanto gli è stata detta una bugia e il giorno seguente la sua reazione emotiva è stata quella che è stata. Il giorno dopo ancora è tornato sui suoi passi e ha detto: "Mi dispiace per il mio sfogo". Anche il passaggio secondo il quale Daniele avrebbe preso posizione perché Eusebio Di Francesco fosse esonerato, sulla base di tutte le conversazioni che ho intrattenuto con lui, è falso al 100%. Infatti a dodici partite dalla fine del campionato ho avuto una conversazione telefonica con Daniele, che mi ha personalmente chiesto di continuare con lo stesso allenatore fino al termine della stagione. Quindi, se qualcuno sta insinuando che lui chiedesse l’esonero di Di Francesco, questo non potrebbe essere più lontano dalla verità. Il mio errore è stato questo: a dicembre avrei voluto operare dei cambiamenti su tutta la linea nell’area sportiva e nella sfera della preparazione atletica ma sono stato convinto a non farlo. Avrei dovuto fare i cambiamenti quando pensavo che fosse giusto farli e quell'indecisione, forse, ci è costata un posto in Champions League. Se non è stato De Rossi, sono stati quindi Dzeko, Manolas o Kolarov a chiedere che l'allenatore venisse esonerato? No. Non ho mai sentito chiederci da questi giocatori di esonerare Di Francesco. Non sono mai venuti da me, né direttamente né indirettamente. In passato ho avuto conversazioni dirette con giocatori come Edin, che è stato molto onesto su alcune cose che stavano accadendo e che da professionista non gli piacevano. Faceva quelle valutazioni perché voleva una squadra migliore e io l'ho apprezzato. I giocatori sanno che con me trovano sempre la porta aperta. Sanno che se ci sono problemi io voglio ascoltarli e non ho mai sentito nessuno di loro dire cose cattive su Di Francesco. Penso che non ci sia dubbio sul fatto che alcune persone esternamente amino le polemiche e vogliano causare problemi a questa squadra. Vogliono che alla Roma vada tutto a puttane. Si preoccupano dei loro obiettivi personali, piuttosto che della squadra o dei veri tifosi. Ed è per questo che continuano a fornire notizie negative ai giornalisti, nel tentativo di sensazionalizzare screzi o problemi ordinari che possono accadere nella quotidianità del Club o dello spogliatoio. Sono stato coinvolto nel mondo dello sport per molto tempo e questo genere di cose accade in qualsiasi spogliatoio: negli Stati Uniti si verificano senza dubbio in ogni disciplina. Conosco innumerevoli atleti, calciatori e proprietari in tutto il mondo e so che con un gruppo di venticinque ragazzi ci saranno sempre liti, discussioni e persino degli scontri. Sono cose ordinarie nello sport, dal parco giochi alle squadre professionistiche. E sapete una cosa? Questi litigi, discussioni e attriti, nella stragrande maggioranza dei casi, accadono perché le persone hanno fame di ottenere il meglio per il proprio Club. Nel nostro caso, sembra che la gente stia cercando di mettere dirigenti e calciatori gli uni contro gli altri. Ho sempre avuto scambi costruttivi con Daniele riguardo lo spogliatoio, i giocatori, le cose da migliorare; e lo stesso vale per Francesco Totti. Dire che due ragazzi, con alle spalle una relazione speciale per venti anni, siano in guerra non ha senso. Sono stati in disaccordo? Mio Dio, spero di sì. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è essere circondati da yes man. Ieri, a proposito, sono stato testimone di quanto stia proseguendo la maturazione di Francesco come dirigente. La sua maturità, le sue intuizioni e la sua competenza, nel confronto con me e con Guido riguardo un potenziale candidato alla panchina, sono state più utili dei consigli di chiunque altro. Leggo continuamente cose negative su di me e su quello che stiamo cercando di fare a Roma e, a essere onesto, sono deluso se molti tifosi non si rendono conto di quanto io tenga, con passione e coinvolgimento emotivo, a questo Club. Come ho detto prima, penso che negli ultimi cinque anni circa, prima dell’ultima stagione, abbiamo fatto un buon lavoro, date le restrizioni e le risorse che abbiamo avuto. Non ci piace ma il Financial Fair Play è una realtà per noi e ha condizionato molte delle nostre azioni. Le persone non vogliono sentirselo dire ma, per un lungo periodo di tempo, ci sono state tante cose da sistemare. So che alcuni Club non hanno preso sul serio il Financial Fair Play come abbiamo fatto noi, ma è una loro scelta. L'ho segnalato con il Milan un paio di anni fa, quando ho notato cosa stavano facendo e non me ne facevo una ragione. La gente mi ha detto che avevo torto, ma ora sono sotto la lente di ingrandimento per quello che hanno fatto. Non sono, peraltro, l’unico club attualmente sotto inchiesta e che probabilmente sarà punito. Noi non possiamo permetterci di essere in quella posizione o di prenderci simili rischi. Volevo vendere Salah? No, è lui che ha chiesto di partire con ancora due anni di contratto, per dimostrare di potersi affermare in Premier League. Volevo liberarmi di Alisson? No, ma dovevamo fare i conti con il Financial Fair Play e anche lui voleva andare in una squadra che poteva offrirgli molto di più rispetto a quello che le nostre risorse ci avrebbero permesso. A volte vendiamo giocatori perché dobbiamo fare i conti con il Financial Fair Play, altre volte lo facciamo perché crediamo di migliorare la squadra. Forse l’effetto non si sarà percepito nell’immediato ma, pensando al futuro del gruppo, abbiamo sempre creduto che fossero tutte cessioni che in quel momento avessero senso. A volte sbagliamo? Certo, ogni club lo fa. Abbiamo sbagliato tanto la scorsa estate? Senza dubbio. Il grosso problema nell'ultimo anno non sono state le cessioni, ma gli acquisti. Non c'è dubbio sul fatto che abbiamo preso dei giocatori di altissima qualità. Il problema più grande non riguarda di certo questo o quel calciatore di per sé, ma la scelta degli uomini giusti, in grado di adattarsi al sistema di gioco più congeniale a Di Francesco. A maggio di un anno fa ho evidenziato a Monchi i problemi e le necessità della Roma. Monchi mi ha chiesto il 100% del controllo e della fiducia in quanto nostro direttore sportivo. Ripenso ogni giorno alla sessione di mercato della scorsa estate e forse non avrei dovuto lasciargli tutta questa autonomia. Semplicemente la squadra non si adattava bene al gioco di Di Francesco. Alla fine della sessione di mercato, ho osservato i nostri movimenti e mi sono reso conto che non avrebbero funzionato. Mi è dispiaciuto moltissimo per la posizione in cui Di Francesco era stato messo. Quando le cose stavano andando davvero male, lui ci ha comunicato che forse aveva perso il controllo dello spogliatoio e che, se avessimo pensato che per lui fosse ora di andare, se ne sarebbe andato senza fare resistenza. Di Francesco è sempre stata una persona di classe con me. È un gentiluomo. È stato messo in quella che penso sia una posizione difficile lo scorso anno e ha subito un danno collaterale. È qualcosa di cui siamo tutti dispiaciuti. Cosa penso quando vedo persone che protestano contro di me? Lasciatemelo dire: tutte queste batoste posso prendermele. Quando i risultati non vanno come vorremmo o quando altre squadre vincono o quando prendiamo decisioni calcistiche che alcune persone non condividono, vengo preso di mira come un pungiball quasi ogni giorno e, anche se è stancante, lo accetto. Quello che non posso accettare, però, e ritengo sia vergognoso e disgustoso, oltre che poco rappresentativo della Roma e dei nostri tifosi, sono le centinaia di persone che hanno insultato le mie sorelle definendole troie, puttane e maiali. Un altro preso di mira e costantemente attaccato è Franco Baldini: Franco è chiaramente un mio consigliere e confidente da molto tempo e non ha mai fatto nulla a scapito di questo Club. Se pensate che Franco sia coinvolto in tutte le decisioni, allora vi sbagliate di grosso. È evidente che qualcuno stia cercando di creare molti problemi a una persona che, con discrezione, mi ha sempre dato grandi consigli e ci ha aiutato con alcuni dei migliori giocatori che abbiamo nella nostra squadra e con alcune delle più vantaggiose cessioni di questi anni. Guardando le proteste, sembra che la gente sia convinta del suo coinvolgimento nella decisione sul contratto di Daniele ma non è vero. Franco non ha dato alcun input su Daniele. Questa è una discussione che non ho nemmeno affrontato con lui, perché negli ultimi due anni l’ho portata avanti, sul fronte dei rinnovi dei contratti, con il management. Tutti dobbiamo assicurarci, al di là che alla gente piaccia o no, di prendere delle decisioni volte a rinforzare la squadra. E non mi riferisco solo a chi gioca sul campo ma anche alle centinaia di dipendenti che abbiamo e agli obiettivi che cerchiamo di raggiungere insieme. Fare una grande squadra, creare una cultura e una tradizione vincente non potrà mai dipendere da una sola persona. Detto questo, è nostro dovere trattare gli individui con il rispetto che meritano. È andato tutto nel verso giusto rispetto alle modalità con le quali ci siamo rapportati con Daniele? No, non penso. La nostra visione era che questa probabilmente sarebbe stata la sua ultima stagione. Lasciatemi fare un esempio che dimostra quanto questa sia stata una decisione difficile. Diciamo che in squadra abbiamo Daniele e un altro centrocampista difensivo. Abbiamo ventiquattro giocatori in rosa e due centrocampisti difensivi. Cosa succede se, Dio non voglia, alla terza partita della stagione l’altro centrocampista difensivo si rompe una gamba? Che accadrebbe alla squadra? Daniele ha detto che gli sarebbe piaciuto giocare dieci o quindici partite la prossima stagione. Quindi cosa accadrebbe alla squadra senza la possibilità di acquistare un altro giocatore fino alla riapertura del mercato a gennaio? È quasi impossibile far salire in prima squadra un ragazzo di diciassette o diciotto anni in uno dei ruoli più delicati in un campionato come la Serie A. Quindi che facciamo? Se partecipi alla Champions o all’Europa League le partite a settimana sono tre. Emergerebbe un limite a livello fisico come Daniele stesso ha ammesso. Mi piacerebbe avere Daniele in squadra, ma avendo due giocatori per ruolo, se l’altro si fa male la Roma è fregata. È un ragionamento semplice. Non puoi arretrare un centrocampista con caratteristiche più offensive: quello è un ruolo troppo specifico. Non puoi farlo. Questa è la nostra logica: è solo realismo. È una decisione di calcio e per la squadra. Non è una questione legata al singolo, nonostante quanto sia grande Daniele. Un grande calciatore e una persona spettacolare. Daniele è stato molto fedele alla Roma e la Roma è stata molto fedele a Daniele. La gente non può mettere in discussione la nostra fedeltà, perché abbiamo detto: "Daniele, ci piacerebbe che tu facessi parte della Roma per il resto della tua vita". Questo per me è piuttosto leale. Non abbiamo mai detto “Addio, ci si vede, buona vita”. Vogliamo che Daniele faccia parte di questo Club per sempre e speriamo che questo succeda. Non essere presente all’ultima partita di Daniele è stata una scelta incredibilmente difficile da prendere. Ma l’ho fatto perché era la sua serata e volevo che nulla distraesse da questo. Se volete contestarmi va bene ma non volevo sottrarre l’attenzione a quella che avrebbe dovuto essere la celebrazione della fantastica carriera in giallorosso di Daniele. E così è stato. Parlerò con Daniele in privato. Ci siamo scambiati dei messaggi ieri mattina e l’ho invitato a incontrarmi al termine delle sue vacanze per passare un po’ di tempo con me. Se pensate che ci sia del risentimento tra noi e che non ci parleremo vi state sbagliando. Lo stesso vale per Francesco. Ho invitato Francesco e la sua famiglia a venire da me e spero che lo faranno. So che molte persone pensano ci sia scompiglio nel Club. Ma questo è un pensiero stupido. Ora il top management è ben allineato. Forse qualcuno può essere infastidito dal fatto che noi - Guido, Mauro, io e gli altri - abbiamo preso delle decisioni forti negli ultimi sei mesi per correggere dei problemi. Sono accadute delle cose che non corrispondono al modo con il quale vorrei che questo Club fosse guidato. È inevitabile che ci saranno dei rancori. Ci saranno persone che parleranno o che diffonderanno voci come se loro fossero a conoscenza di come vanno le cose. La verità è che noi siamo tutti allineati e che abbiamo intenzione di migliorare. Come sapete, non sono venuto a Roma nell’ultimo anno. Ero così arrabbiato, già da agosto, per come le cose stavano andando che temevo che la mia presenza non sarebbe stata d’aiuto. Questo è stato un grave errore, la prossima stagione ci sarò. Avrei dovuto essere di più a Roma. A me sembra chiaro che ci siano alcune persone che sono insoddisfatte perché non potranno mai manipolarmi, minacciarmi o attaccarmi al punto da farmi vendere il Club. Conosco la storia di quasi tremila anni di Roma e so come funziona. Se qualcuno pensa di farmi scappare, questo non succederà. Vogliamo costruire qualcosa di grande qui e lo stesso desiderano tutte le persone che operano nel Club ogni giorno. Credo che la maggior parte dei tifosi voglia la medesima cosa. Abbiamo un gruppo che lavora con straordinaria dedizione e che soffre quando le cose vanno male o quando legge che tutto sarebbe in disordine. È vergognoso che ci sia gente fuori che cerca di manipolare i tifosi contro la Roma e contro di me. Sfortunatamente per loro non andrò da nessuna parte. A noi interessa solo costruire una Roma grande e vincente: niente e nessuno mi impedirà di perseguire questo obiettivo. Forza Roma
Roma, lettera di Pallotta ai tifosi: ''Ho sbagliato, nessuna guerra tra le nostre bandiere". E De Rossi querela Repubblica. Il presidente giallorosso conferma alcuni temi presenti nell'inchiesta pubblicata da Repubblica, attacca Monchi ("ha commesso errori"), ha parole d'elogio per Francesco Totti e Daniele De Rossi. E avvisa: ''Lo stadio è fondamentale. Inutile minacciarmi, non venderò il club". Francesco Morrone il 31 maggio 2019 su La Repubblica. Dopo la rivelazioni sulla Roma pubblicate ieri da Repubblica, oggi arriva la replica del presidente del club James Pallotta. Il patron statunitense, in una lunga lettera ai tifosi giallorossi scritta sul sito ufficiale del club, ha confermato alcuni temi presenti nell'inchiesta pubblicata da Repubblica, chiarendo soprattutto la vicenda relativa all'addio di Daniele De Rossi. "Che mi crediate o meno - ha scritto Pallotta rivolgendosi ai tifosi - non penso ci sia stato nessuno, in società, più deluso, più depresso e più arrabbiato di me per come sono andate le cose alla Roma negli ultimi diciotto mesi". Nell'ammettere che sono stati commessi degli errori, "uno di questi si è rivelato molto grave a livello sportivo", l'imprenditore americano ha spiegato che la società sta "lavorando duramente per riorganizzare alcune aree del Club, che probabilmente avrebbero dovuto essere prese in esame prima, e per risolvere alcuni problemi, che solo di recente sono giunti alla mia attenzione". L'obiettivo è di "ingaggiare persone di talento", in grado di riportare in alto la Roma, il rammarico invece è quello di non aver vinto alcun trofeo perché, ha sottolineato Pallotta, "il motivo per cui sono qui è vincere trofei, allestire una squadra e creare un'atmosfera che rendano ovunque orgogliosi i tifosi della Roma". Dopo un'annata piena di delusioni, il presidente non esita ad affermare che quest'ultima stagione "è stata un completo disastro, ma allo stesso tempo mi risulta difficile accettare l'argomentazione secondo la quale non avremmo provato ad andare oltre i nostri limiti con le risorse che avevamo a disposizione".
Il caso De Rossi e l'inchiesta di Repubblica. Nella sua lettera, il presidente della Roma dedica ampio spazio all'inchiesta a cura di Carlo Bonini e Marco Mensurati pubblicata ieri su Repubblica, rispondendo punto su punto all'articolo e ammettendo che contiene numerose verità. "Ho letto alcuni passaggi quando mi sono svegliato alle 5 di ieri mattina e li ho definiti "cazzate" - ha esordito Pallotta - ma dopo aver letto tutto il servizio, e dopo aver sostenuto una lunga e assai dettagliata conversazione con uno degli estensori del pezzo, ritengo che alcune parti siano vere e altre parti chiaramente non corrette. Mea culpa". Secondo Pallotta, però, "alcuni aspetti di questo articolo hanno messo in cattiva luce Daniele De Rossi: non è giusto, perché Daniele per diciotto anni è stato un guerriero per la Roma. Lui merita rispetto e io l'ho sempre rispettato". Il patron giallorosso ammette che De Rossi era turbato per il fatto che qualcuno (Nzonzi, ndr) fosse stato acquistato per giocare nella sua posizione. "Questo, però, - ha spiegato Pallotta - è dipeso dal fatto che il giorno precedente gli era stato detto da Monchi che non avremmo preso nessuno che potenzialmente avrebbe giocato davanti a lui nello stesso ruolo. Pertanto gli è stata detta una bugia e il giorno seguente la sua reazione emotiva è stata quella che è stata. Il giorno dopo ancora è tornato sui suoi passi e ha detto: Mi dispiace per il mio sfogo". Pallotta torna anche sul passaggio secondo il quale De Rossi avrebbe preso posizione perché Eusebio Di Francesco fosse esonerato: "Sulla base di tutte le conversazioni che ho intrattenuto con lui - ha tagliato corto - è falso al 100%. Infatti a dodici partite dalla fine del campionato ho avuto una conversazione telefonica con Daniele, che mi ha personalmente chiesto di continuare con lo stesso allenatore fino al termine della stagione. Quindi, se qualcuno sta insinuando che lui chiedesse l'esonero di Di Francesco, questo non potrebbe essere più lontano dalla verità".
Pallotta: ''Nessuna guerra tra Totti e De Rossi". Pallotta ammette di aver commesso degli errori, spiegando nel dettaglio quali. "Il mio errore è stato questo: a dicembre avrei voluto operare dei cambiamenti su tutta la linea nell'area sportiva e nella sfera della preparazione atletica ma sono stato convinto a non farlo. Avrei dovuto fare i cambiamenti quando pensavo che fosse giusto farli e quell'indecisione, forse, ci è costata un posto in Champions League". Si torna poi sull'argomento più caldo, quello del rapporto tra Totti e De Rossi: "Nel nostro caso, sembra che la gente stia cercando di mettere dirigenti e calciatori gli uni contro gli altri. Ho sempre avuto scambi costruttivi con Daniele riguardo lo spogliatoio, i giocatori, le cose da migliorare; e lo stesso vale per Francesco Totti. Dire che due ragazzi, con alle spalle una relazione speciale per venti anni, siano in guerra non ha senso. Sono stati in disaccordo? Mio Dio, spero di sì. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è essere circondati da yes man. Ieri, a proposito, sono stato testimone di quanto stia proseguendo la maturazione di Francesco come dirigente. La sua maturità, le sue intuizioni e la sua competenza, nel confronto con me e con Guido riguardo un potenziale candidato alla panchina, sono state più utili dei consigli di chiunque altro".
Pallotta: "Monchi ha sbagliato". Pallotta rivela come a maggio di un anno fa abbia evidenziato a Monchi i problemi e le necessità della Roma. "Monchi - ha spiegato il presidente - mi ha chiesto il 100% del controllo e della fiducia in quanto nostro direttore sportivo. Ripenso ogni giorno alla sessione di mercato della scorsa estate e forse non avrei dovuto lasciargli tutta questa autonomia. Semplicemente la squadra non si adattava bene al gioco di Di Francesco, mi spiace moltissimo per la posizione in cui il tecnico era stato messo. Quando le cose stavano andando davvero male, lui ci ha comunicato che forse aveva perso il controllo dello spogliatoio e che, se avessimo pensato che per lui fosse ora di andare, se ne sarebbe andato senza fare resistenza. Di Francesco è sempre stata una persona di classe con me. È un gentiluomo".
Pallotta: "Insulti vergognosi, Baldini non c'entra nulla". Dopo settimane di dure contestazioni, con tanto di striscioni contro di lui comparsi in mezzo mondo, Pallotta torna sugli insulti e le minacce di cui è stato vittima. "Quello che non posso accettare - ha detto - e ritengo sia vergognoso e disgustoso, oltre che poco rappresentativo della Roma e dei nostri tifosi, sono le centinaia di persone che hanno insultato le mie sorelle definendole troie, puttane e maiali". L'altro grande bersaglio della contestazione dei tifosi romanisti è ovviamente Franco Baldini, preso di mira in questi giorni sia sui social che sulle radio romane. "Franco è chiaramente un mio consigliere e confidente da molto tempo e non ha mai fatto nulla a scapito di questo club - ha precisato Pallotta -. Se pensate che sia coinvolto in tutte le decisioni, allora vi sbagliate di grosso. È evidente che qualcuno stia cercando di creare molti problemi a una persona che, con discrezione, mi ha sempre dato grandi consigli permettendo alla società di incassare molti soldi". Insomma, a chi ritiene Baldini il principale mandante della separazione con De Rossi, il presidente giallorosso spiega: "Franco non ha dato alcun input su Daniele. Questa è una discussione che non ho nemmeno affrontato con lui, perché negli ultimi due anni l'ho portata avanti, sul fronte dei rinnovi dei contratti, con il management". Pallotta aggiunge poi che, secondo il club, questa sarebbe stata l'ultima stagione di De Rossi, spiegando che i limiti fisici del giocatore avrebbero rischiato di essere un peso per la squadra. "Parlerò con Daniele in privato - assicura il patron - ci siamo scambiati dei messaggi ieri mattina e l'ho invitato a incontrarmi al termine delle sue vacanze per passare un po' di tempo con me. Se pensate che ci sia del risentimento tra noi e che non ci parleremo vi state sbagliando". Lo stesso, quindi, vale anche per Totti: "Ho invitato Francesco e la sua famiglia a venire da me e spero che lo faranno".
De Rossi querela Repubblica. "Nell'articolo apparso ieri su La Repubblica a firma Bonini e Mensurati mi vengono attribuiti comportamenti mai avuti e frasi mai dette. Ritengo quanto scritto gravemente diffamatorio, darò mandato ai miei legali di chiedere un risarcimento da devolvere in beneficenza". Questi alcuni passaggi di una dichiarazione all'ANSA con cui Daniele De Rossi interviene per la prima volta sulla questione dei veleni di Trigoria. "Non è la prima volta che si gettano ombre sull'amicizia tra me e Totti. Impegnatevi di più...".
Massimo Cecchini per gazzetta.it il 18 ottobre 2019. Monchi "cacciato"? L'ex d.s. giallorosso torna a parlare della Roma, e lo fa in una lunga intervista al "El Confidencial" in cui parla essenzialmente della sua carriera e del modo di scoprire i calciatori, ma non manca un riferimento all'universo romanista, da cui si era allontanato nel marzo scorso con la risoluzione consensuale del contratto. Ma è andata proprio così? L'ex d.s. – pur parlando poi dei costi degli infortuni – adombra una nuova "verità". "Quando sono tornato in Spagna dalla Roma - o meglio, quando mi hanno cacciato, così raccontiamo un'altra cosa - ho iniziato a sentire che la stagione era stata molto complicata e con molti infortunati, quindi ho fatto uno studio. Non usare i tuoi giocatori per il 15% della stagione ha un costo sportivo ma anche economico, facendo un conto rapido si arriva intorno ai 20 milioni". Possibile. Di sicuro il club giallorosso nella scorsa stagione ha avuto oltre cinquanta infortuni muscolari, più quelli traumatici. Una enormità, che probabilmente ha frenato le ambizioni della Roma. Di sicuro, il divorzio da Monchi è stato duro, tant'è che negli interventi dei mesi scorsi il presidente Pallotta è stato sempre molto duro nei confronti del suo ex dipendente. Che adesso, a distanza di sette mesi, parla per la prima volta di "essere stato cacciato". Si attendono chiarimenti. Anche perché la mancata qualificazione in Champions, al club, è costata assai più di 20 milioni. Almeno una sessantina.
Roma, De Rossi: «Ricostruzioni false, basta ombre sull’amicizia con Totti». Pubblicato venerdì, 31 maggio 2019 su Corriere.it. «Nell’articolo apparso ieri su La Repubblica a firma Bonini e Mensurati mi vengono attribuiti comportamenti mai avuti e frasi mai dette. Ritengo quanto scritto gravemente diffamatorio, darò mandato ai miei legali di chiedere un risarcimento da devolvere in beneficenza». Questi alcuni passaggi di una lunga dichiarazione all’agenzia Ansa con cui Daniele De Rossi interviene per la prima volta sulla questione dei veleni di Trigoria. «Non è la prima volta che si gettano ombre sull’amicizia tra me e Totti. Impegnatevi di più...». Già il presidente giallorosso James Pallotta aveva liquidato il servizio come «cazzate» in una lettera ai tifosi. Tornando sul servizio, il centrocampista ormai ex Roma prosegue: «Intendo esprimere tutta la mia indignazione per la distorta, se non addirittura falsa, ricostruzione di alcuni fatti ed episodi, che mi riguardano. Per questo sarò costretto a difendermi perché citato espressamente, in alcuni passaggi specifici di detto articolo, dove vengono distorti episodi accaduti, e mi vengono attribuiti comportamenti mai avuti e frasi mai dette. Scrivere che il sottoscritto, insieme ad altri straordinari e leali professionisti che hanno dato il cuore per la maglia della Roma, abbia posto in essere quei “comportamenti” è semplicemente ridicolo, oltre che spudoratamente falso - scrive ancora De Rossi - Questo articolo che “ricostruisce” così i motivi del mio allontanamento risulta ancor più grottesco se si pensa che la As Roma - pochi giorni fa - mi ha offerto un ruolo dirigenziale delicato e rilevante vicino all’amministratore delegato, onorandomi con una offerta che ho declinato per i motivi a tutti noti. In ogni caso, poiché ritengo quanto scritto gravemente diffamatorio e lesivo della mia reputazione e della mia immagine, darò immediatamente mandato ai miei legali di fiducia di richiedere un legittimo risarcimento danni in Tribunale, che devolverò integralmente in beneficenza ad un noto ospedale pediatrico di Roma.
“LA ROMA HA FATTO BENE A RINUNCIARE A DE ROSSI”. Pietro Mecarozzi per L'Inkiesta il 16 maggio 2019. Non ci sono bandiere, tantomeno colori quando si parla di denaro. Nel calcio-azienda, allenato da politici e giocato da icone del lifiting, è doloroso ammetterlo, ma la Roma ha fatto la scelta giusta non rinnovando il contratto a Daniele De Rossi. Sia chiaro: con l’addio dell’ex Capitan Futuro si spenge l’ultimo barlume di romanticismo e i principi di una fede vengono meno come semplici voci di troppo in un bilancio in rosso. Anche per un non tifoso della Roma ma amante dello sport, dispiace. Dispiace come è dispiaciuto per Del Piero e poi per Totti. Ora più di prima, il calcio deve esporre modelli da seguire; ma ora più di prima, una società calcistica italiana deve cercare di sopravvivere e mantenere i conti (più o meno) in ordine. Passata la sbronza isterica del tifoso deluso, infatti, ad un’analisi più complessa, la mossa dell’As Roma assume toni diversi. I conti della “Magica”, nonostante la splendida cavalcata dello scorso anno in Champions League, sono rimasti in rosso: la perdita netta nel 2018 si aggirava intorno ai 25,5 milioni di euro, contro i 42,3 milioni della stagione precedente. Un calo che tuttavia non si è riflesso sui debiti finanziari netti della società, che sono saliti da 192,5 a 218,8 milioni. Debiti che hanno quasi la stessa entità del fatturato (nonostante l’aumento di quest’ultimo sia nell'ordine dei 75 milioni). Insomma, la Roma americana è all’interno di un processo (al momento poco fruttuoso) che mira a trasformarla in una società economicamente sostenibile e di successo, dentro e fuori il campo. A partire proprio dalla stadio: non è un caso se la dirigenza giallorossa ha deciso di accelerare (senza tuttavia una risposta concreta da parte del Comune) per la costruzione del nuovo impianto. Tra i club con la maggiore crescita a livello europeo in termini di incassi allo stadio, nella stagione 2017/2018, troviamo la Roma al terzo posto con un +41,6%, ovvero da 25 a 35,4 milioni di euro. Con un nuovo stadio, pertanto, i prezzi dei biglietti saranno più alti e di conseguenza maggiori le entrate nelle casse del club. Il patrimonio netto consolidato della società è passato da -88,9 milioni del giugno 2017 a -105,4 milioni a giugno 2018. Il gruppo della “Magica” è in deficit, sommando le perdite delle ultime tre stagioni, di circa 80 milioni. Il presidente Pallotta sta pensando anche a un “business park” limitrofo con il quale trasformare lo stadio in una vera esperienza e proiettare la società nell’alveo delle grandi d’Europa. Lo Stadio a Tor di Valle è stato al centro di forti scossoni giudiziari e finanziari, ma non è un segreto che la società As Roma, nonostante tutti i buoni proposito, abbia fatto male i conti, anche in questo caso. L’investimento miliardario è stato frenato dal caso Parnasi e la risoluzione dell’accordo adesso sembra molto lontana: i lavori, a circa 5 anni dai primi embrioni di progetto, non hanno mai visto la luce e lo stadio di proprietà sembra sempre più un miraggio. Non dimentichiamoci poi che il 2018 è stato l’anno delle scelte sbagliate, anche, in termini di scelta della prima linea di dirigenti. Prima l’ad Gandini e successivamente Ramon Monchi hanno concluso i loro contratti in anticipo con la società, non proprio a tasso zero. Dopo aver sobillato per l’esonero di Eusebio Di Francesco, Monchi è tornato al Siviglia con in tasca circa 2 milioni di euro della prima stagione (nonostante l’assunzione il 26 aprile 2017 lo stipendio è stato pagato per tutto l’anno), un milione per la seconda e un bonus da 1,5 milioni per gli obiettivi raggiunti in Champions con la semifinale e in campionato con il terzo posto. Per non parlare delle mosse di mercato fatte per sua iniziativa. Certo, i risultati delle stagioni passate, per un certo verso, hanno dimostrato che la Roma è una squadra passionale e aliena alle logiche classiche di squadra che più spende più vince. Ma con i risultati che si stanno delineando in questa stagione e l’effetto Davide contro i molti Golia alle battute finali, i primi bilanci della campagna acquisti Monchi non fanno esultare. Schick, Pastore, Karsdorp, sono solo alcuni dei nomi per i quali la Roma ha speso in totale 264,7 milioni. È vero anche che Pallotta ha abituato a cessioni astronomiche, non a caso, anch'esse senza molti fronzoli sentimentali. Alisson e Salah al Liverpool, Nainggolan all’Inter, Pjanic e Rudiger, per un totale di 220 milioni nelle ultime due stagioni. Tutto questo, però, non basta. Il patrimonio netto consolidato della società è passato da -88,9 milioni del giugno 2017 a -105,4 milioni a giugno scorso. Il gruppo della “Magica” è in deficit, sommando le perdite delle ultime tre stagioni, di circa 80 milioni, non contando il resoconto del 2019 che, a differenza degli anni passati, al 99% dovrà fare ameno della quota Champions, fattore che in passato aveva generato circa 98,4 milioni di extra ricavi. L’ormai ex capitano giallorosso ha incassato dal club, non considerando i bonus, 56 milioni di euro netti, con uno stipendio medio, tra il 2004 e il 2019, pari a 3,74 milioni di euro. A confronto con il cachet di altri giocatori, si direbbero briciole, ma non per la Roma. A sorridere sono invece i ricavi dei diritti televisivi, aumentati a 128,56 milioni, in parte dovuti anche alla presenza dell’attuale Ceo Guido Fienga, tra i partecipanti alla Commissione diritti TV per la cessione dei diritti domestici ed internazionali della Lega Calcio Serie A. Sulla stessa linea negativa dei precedenti conti, invece, sono i costi relativi al personale, che passano da 145 a 158,8 milioni, e le spese per i servizi, salite da 42,46 a 47,38 milioni. Dati alla mano, pertanto, il denaro “pulito” entrato nelle casse del club nell'esercizio del 2018 è di soli 9,5 milioni. Aprendo un qualsiasi manuale di economia, viene da chiedersi come faccia l’As Roma a iscriversi ancora alla Serie A. A rispondere è la Figc, la quale considera solo il bilancio di esercizio della società a capo del gruppo, e in questo la Roma, anni addietro, si è fatta trovare preparata, scorporando il marchio e le aziende annesse. Pertanto nel bilancio finale le plusvalenze infragruppo scompaiono, mentre i proventi vengono invece contabilizzati, per un patrimonio netto che, allo stesso modo di quello di Inter e Milan, passa in positivo di circa 35 milioni. In definitiva, il denaro mancante non rientrerà certo dalla singola cessazione del contratto di De Rossi, ma a fronte delle molte spese, il carico è sicuramente alleggerito. L’ormai ex capitano giallorosso ha incassato dal club, non considerando i bonus, 56 milioni di euro netti, con uno stipendio medio, tra il 2004 e il 2019, pari a 3,74 milioni di euro. A confronto con il cachet di altri giocatori, si direbbero briciole, ma non per la Roma. Ciò nonostante, tutto questo non giustifica la pessima gestione dell’addio, a dir poco sconcertante, ma pone una lente di ingrandimento sul modello di impresa scelto dal team di Pallotta. Il nuovo Ceo Guido Fienga, arrivato alla Roma nel 2013, sin dagli albori si è fatto distinguere per stile e idee: da una sua iniziativa, infatti, nasce il progetto media del club giallorosso. Fienga è uno che guarda alla sostanza, analizza costi e benefici, in pieno stile aziendale, come dimostrano le start up di successo, tra cui Wasserman Media Group e Wind, realizzate prima dell'esperienza romana. In altri parole: De Rossi ha 36 anni, un monte ingaggi da 3 milioni a stagione e, visti i soli 1500 minuti giocati quest’anno e il fattore infortuni (tamponabili ma non curabili del tutto), un’autonomia massima di 10/12 partite in tutto il campionato. Non contando le limitazione imposte dalla Serie A, in merito alla rose, che spingono la Roma a delle scelte tecniche e atletiche: solo 25 giocatori over 22 possono essere tesserati, e i giallorossi sono già oggi in regola. Insomma, ci lasciamo travolgere da istanze nostalgiche e riti ormai consolidati, senza mai, però, voler affrontare la verità. Dobbiamo abituarci all’idea di un calcio fatto da gruppi societari quotati in borsa, alla stregua di capitali e debiti, e non solo a quello giocato da bandiere e campioni infiniti. Quindi addio, Capitan Futuro. È stato bello, ma sei già il passato.
Luca Valdiserri per il “Corriere della sera” il 16 maggio 2019. «Ho avuto l'impressione che ci mancasse un passo per diventare una squadra fortissima, ma spesso si è fatto un passo indietro». È stato questo uno dei passaggi della lunga conferenza di Daniele De Rossi che ha più addolorato i tifosi. Perché la Roma americana non ha vinto nulla, ma le aspettative erano alte e la qualità di molti giocatori indubitabile. È un gioco, in un momento in cui c'è poca voglia di scherzare, ma rende l'idea. Prendendo le valutazione di Transfermarkt, la Bibbia del calciomercato, la Roma ha venduto questa squadra (4-2-3-1): Alisson (62,5 milioni, Liverpool); Rudiger (35, Chelsea), Marquinhos (31,4, Psg), Romagnoli (25, Milan), Emerson Palmieri (20, Chelsea); Strootman (25, Olympique Marsiglia), Pjanic (32, Juve); Gervinho (18, Hebei), Nainggolan (38, Inter), Lamela (30, Tottenham); Salah (42, Liverpool). Belle plusvalenze, anche se adesso Salah ne vale 150. E, soprattutto, garanzie di vittoria se fossero rimasti alla Roma. Almeno un po' e almeno per qualche anno in più. La situazione, ora, è preoccupante. Senza gli introiti della prossima Champions si dovrà vendere, abbassare il monte ingaggi e fare una squadra di giovani. L'addio a De Rossi nasce in quest' ottica e non sarà l'unico senatore ad andarsene. Dzeko e Manolas sono i primi. La scelta dell'allenatore - Gasperini favorito, ma la Roma non molla la pista Sarri, che potrebbe essere licenziato dal Chelsea - nasce in questo senso: una squadra da corsa. Una delle cose che più ha fatto infuriare Pallotta è stato il numero degli infortuni (un record: 50!) e De Rossi ha pagato anche questo. Una decisione che non è andata giù alla tifoseria. Nasce da qui la dura - ma civile - contestazione di un centinaio di ultrà a Trigoria. Pallotta e Baldini i bersagli di quelli che si considerano «tifosi e non clienti». Hanno ottenuto di poter parlare con De Rossi, Ranieri e Massara. Il d.s. (in partenza) ha avuto il compito ingrato di rappresentare la dirigenza ed è stato «aiutato» dal calciatore e dall' allenatore che, per placare gli animi, hanno ripetuto il concetto che le decisioni vengono prese altrove. De Rossi ha provato a convincere i più accesi a non continuare nelle contestazioni: la situazione è ormai irreversibile, DDR non tornerà indietro nemmeno se Pallotta ci ripenserà. La dignità non ha prezzo. La Roma è spaccata tra i suoi «centri di potere», come li chiamava Sabatini. Boston e Londra dominano su Roma e la situazione diventa ogni giorno più pesante. Promettere a De Rossi un posto da dirigente, con Totti che da mesi chiede di avere più potere, è stato visto come l' ennesimo segnale incomprensibile.
DE ROSSI, IN BOCA AL LUPO! Da Il Romanista il 25 luglio 2019. Daniele De Rossi è arrivato a Buenos Aires accolto da una folla festante di tifosi. Il volo che ieri sera è partito dall'Italia è atterrato intorno alle 6.15 argentine, all'uscita è stato travolto dall'affetto degli argentini e dalle telecamere che hanno cercato di carpire qualche parola ma il centrocampista non ha rilasciato dichiarazioni. La vettura con a bordo De Rossi, la moglie Sarah e gli emissari del Boca ha faticato non poco a lasciare l'aeroporto a causa dei tifosi che si sono accalcati intorno all'automobile continuando a cantare il coro dedicato a Daniele. Daniele De Rossi è arrivato a Buenos Aires: il volo che ieri sera è partito dall'Italia è atterrato con leggero anticipo. Ad aspettarlo c'erano giornalisti e decine di tifosi che sono impazziti di gioia al suo arrivo. L'auto con a bordo il centrocampista, la moglie Sarah e gli accompagnatori del Boca ha faticato non poco per lasciare l'aeroporto. Già qualche ora fa era apparso uno striscione di benvenuto per il centrocampista italiano: "Facciamo la storia insieme", recita il messaggio affisso tra le strade di Buenos Aires. Dopo il suo arrivo si dirigerà alla clinica del Boca per effettuare le visite mediche di rito.
Da gazzetta.it il 25 luglio 2019. Il benvenuto di una leggenda è sempre una cosa eccezionale. E quando questa leggenda è Diego Armando Maradona e la squadra in questione è il Boca Juniors vale ancora di più. Il fuoriclasse argentino ha dato la sua approvazione all’arrivo di Daniele De Rossi al Boca, e dall’Argentina rimbalza l’indiscrezione che attraverso l’intermediario Martin Arevalo ha voluto inviare a DDR una nota vocale attraverso la quale rivolge il suo benvenuto all’ormai ex centrocampista della Roma. “Daniele, non ti conosco benissimo, però sappi che qui (in Argentina, ndr) potrai starai benissimo, starai tranquillissimo per la parte del Boca e per la mia parte. Ci vediamo presto”, è un passaggio del messaggio di Diego che poi ha concluso: “Sappi che quando indossi la maglia di Boca è come quando si liquefa il sangue di San Gennaro. Ti mando un bacio”. In questi giorni De Rossi si sta già allenando a Roma, a Sabaudia, insieme a Francesco Totti, per farsi trovare immediatamente pronto all’inizio della sua nuova avventura in Argentina.
Francesco Morrone per repubblica.it il 5 settembre 2019. A volte capita di incontrare Daniele De Rossi mentre passeggia a tarda sera per le vie luminose di Palermo, il quartiere più trendy di Buenos Aires, dove si è trasferito per iniziare la sua seconda vita da calciatore. Anche se è già trascorso più di un mese da quando ha messo piede in Argentina per giocare con il Boca Juniors, la curiosità e il fermento dei porteños verso il centrocampista italiano che ha scelto di terminare la carriera nella patria del Futbol rimane gigantesca. Era arrivato nella Capital Federal all' alba del 24 luglio scorso, giorno del suo compleanno, ad accoglierlo all' aeroporto internazionale di Ezeiza aveva trovato un centinaio di tifosi che avevano già inventato un nuovo coro tutto per lui. « El Tano » , come in Argentina vengono chiamati gli italiani, è il nuovo idolo della galassia Boca, il club degli Xeneizes - i genovesi - fondato dagli emigranti liguri nel 1905. «A dire il vero mi chiedono l' autografo anche i tifosi di altre squadre, mi fermano per strada e mi ringraziano per aver scelto di giocare nel loro Paese», ha confessato in un perfetto spagnolo l' ex capitano della Roma in una delle prime interviste rilasciate dopo il suo arrivo. Se è vero che il Boca è la squadra della mitad más uno del país (la metà più uno), l' impressione è che la De Rossi- mania abbia contagiato molte più persone. È come se l' Argentina, alle prese con la peggiore crisi finanziaria degli ultimi vent' anni, avesse trovato nell' arrivo del 36enne italiano un motivo per tirarsi un po' su di morale. Qui dove il calcio è una religione, c' è chi si è tatuato il volto del centrocampista di Ostia sulla schiena, chi ha proposto di candidarlo alle elezioni presidenziali di ottobre. E c' è perfino chi gli ha dedicato una pizza: la Marghe- Rossi. Nei negozi sportivi del Paese, la sua maglietta con il numero 16 è la più venduta, e per le strade di Baires non è raro trovare bambini che giocano a pallone vestendo la sua camiseta gialloblu. Proprio ai bambini, al fischio finale di ogni partita giocata alla Bombonera, il mitologico stadio del Boca Juniors, el Tano regala la sua maglietta sudata e suoi pantaloncini uscendo dal campo in mutande. Sui social c' è un video che mostra bene il modus operandi. Dopo essersi prestato ai selfie richiesti dalla truppa di giovani raccattapalle, prima di rientrare negli spogliatoi De Rossi si avvicina alla vetrata che separa il campo da gioco dagli spalti, indica uno dei tanti bambini assiepati come sardine e gli tira la maglia assicurandosi che finisca nelle mani del fortunato prescelto. Per i tifosi adulti, nessun problema: basta presentarsi fuori dalla Casa Amarilla, il centro sportivo d' allenamento del Boca. Qui, dopo ogni allenamento, il romano si ferma con la sua macchina, una Fiat 500X, e regala pazientemente autografi e selfie senza scontentare nessuno. «Adesso che si è sparsa la voce che tutti possono farsi una foto con lui o ricevere un autografo, a ogni allenamento della squadra arriva il doppio della gente che arrivava prima» , racconta Oscar, il guardiano che presidia il centro tecnico Pedro Pompilio dove si allena la squadra gialloblu. Per arrivare qui, De Rossi impiega una trentina di minuti in macchina dal suo lussuoso appartamento di Palermo, uno dei quartieri più affascinanti di Buenos Aires dove i porteños giovani e modaioli dopo la mezzanotte si ritrovano nei bar e poi, scoccate le due del mattino, affollano le discoteche. Non lontano da qui abita Diego Armando Maradona, leggenda vivente del Futbol mondiale che proprio nel Boca Juniors si è consacrato prima di fare fortuna nel calcio europeo. Dopo aver realizzato il sogno di segnare un gol nella sua partita d' esordio, dopo aver giocato un derby contro il River Plate, De Rossi ne ha realizzato un altro: ha incontrato el Pibe de Oro. Hanno trascorso un intero pomeriggio a chiacchierare come due vecchi amici, si sono abbracciati e hanno mangiato il classico asado argentino scambiandosi complimenti. «Daniele poteva andare a guadagnare vagonate di soldi in Cina o negli Emirati e invece ha scelto il Boca Juniors, ha scelto la Bombonera - ha detto Maradona - ecco perché, di fronte a lui, dovremmo farci il segno della croce » . Amen.
Da sportmediaset.mediaset.it il 5 settembre 2019. Dopo essere stato osannato e acclamato al suo arrivo, Daniele De Rossi comincia a subire le prime critiche dai tifosi del Boca Juniors delusi dalle sue prestazioni. "El Tano", come lo chiamano in Argentina, ha giocato per 70 minuti il clasico contro il River (0-0 il risultato finale), ma senza incidere come ci si aspettava. E su Twitter sono cominciate le accuse: "E' un turista di lusso", scrive qualcuno, mentre altri rilanciano con "è stato un fantasma" o "ha meno voglia di giocare lui, che io di cominciare la settimana". In tanti sottolineano i suoi 36 anni: "Non ha giocato bene. Si è evidenziata la sua mancanza di ritmo e l'età. Non nego che sia stato un fenomeno, ma per ora al Boca è passato abbastanza inosservato". In molti hanno criticato la scelta di farlo partire titolare, anche se c'è chi punta il dito sulla decisione del tecnico di schierarlo con Marcone: "Non possono giocare insieme, sono due mediani lenti". E ancora: "Alfaro pensa solo a difendersi. Non abbiamo perso solo per caso. I giocatori non sapevano cosa fare e De Rossi ha subito questa confusione". Il Boca, comunque, al momento è secondo in classifica a 2 punti dal San Lorenzo ed è qualificato per la semifinale di Coppa Libertadores contro il River Plate: il 2 ottobre l'andata in trasferta, il 23 ottobre il ritorno alla Bombonera. Due appuntamenti ideali per fare cambiare idea ai critici.
Dario Del Porto per “la Repubblica” il 12 agosto 2019. L'erede del boss "Borotalco" e il "capitan futuro" della Roma. Nelle carte dell' inchiesta su una delle più potenti organizzazioni camorristiche della periferia occidentale di Napoli c' è anche l' incontro fra Vincenzo Cutolo, considerato il reggente del clan del Rione Traiano fondato dal padre Salvatore, e Daniele De Rossi, per anni bandiera della squadra giallorossa, oggi in Argentina nelle fila del Boca Juniors. Un colloquio avvenuto sei anni fa, alla vigilia di una partita di campionato fra Napoli e Roma, reso possibile, si desume dalle intercettazioni, grazie all' intervento di un altro calciatore, Antonio Floro Flores, cresciuto nel Napoli e poi protagonista una lunga carriera in serie A con Genoa, Udinese, Chievo. Cutolo e Floro Flores si conoscono da sempre, sono cresciuti nello stesso quartiere e una sorella dell' atleta ha sposato un cugino del presunto capoclan. Il figlio di "Borotalco", tifosissimo della Roma, sognava di conoscere De Rossi. E la sera del 5 gennaio 2013, chiama Floro Flores alle 21.42: «Tutto a posto, sto con Daniele, anche nella stanza. Ora te lo passo», dice Cutolo. I due calciatori scherzano sugli acciacchi. Floro Flores prende in giro il romanista: «Da quando ti sta allenando Zeman sei morto...». E De Rossi gli chiede: «Ma tu lo hai mai avuto?». L' attaccante annuisce: «Sì, quando ho fatto la prima partita in serie A». Poi aggiunge: «È massacrante, lo so». Quindi De Rossi restituisce il telefono a Cutolo: «Enzuccio, tutto a posto allora, dai», dice Floro Flores. L' inchiesta è condotta dai carabinieri, coordinati dal pm Francesco De Falco. Cutolo, difeso dall' avvocato Antonella Regine, è in carcere da maggio. De Rossi e Floro Flores sono estranei all' indagine. Dai dialoghi con i due calciatori non sono emersi illeciti, gli investigatori li citano allo scopo di delineare «la figura autoritaria di cui Cutolo sembra godere in ogni ambiente ». Il giorno successivo, Cutolo parla con un uomo non identificato, che gli dice: «Enzù, De Rossi non gioca, perché si è bloccato con il collo, non ce la fa a muoverlo... Me lo ha detto ora quando gli ho portato le pastiere». E il boss chiede: «Ma chi hai trovato? Proprio Daniele?». L' altro conferma: «Eccome, quello è sceso proprio lui giù, se le è venute a prendere. Mi ha ringraziato, ha detto "ringrazia anche Enzo, ma perché avete fatto questo? Vi ringrazio pienamente..."». Gli inquirenti non hanno dubbi: quelle di cui si parla erano effettivamente «pastiere» e niente altro. E, contrariamente a quanto sostenuto dall' interlocutore di Cutolo, De Rossi giocherà regolarmente quel Napoli- Roma.
Gli amici calciatori del boss della droga: "Incontrò De Rossi". Daniele De Rossi già stella della Roma da cui si è separato pochi mesi fa per andare a giocare nel campionato argentino col Boca Juniors Ha giocato anche in Nazionale. Agli atti dell’inchiesta sulla camorra di Rione Traiano le intercettazioni in cui il capoclan Cutolo conversa con l’ex capitano della Roma e con Floro Flores, ex attaccante di Napoli e Genoa, imparentato con lui. Dario Del Porto per “la Repubblica” il 12 agosto 2019. Ci sono anche i « contatti confidenziali con noti calciatori » , fra gli elementi emersi dalle intercettazioni dell’inchiesta su Vincenzo Cutolo, 35 anni, considerato il reggente del clan attivo nella zona del Rione Traiano capeggiato dal padre, Salvatore detto "borotalco". Spunti che, va chiarito, non hanno fatto emergere rapporti né condotte di natura illecita, ma che gli investigatori citano allo scopo di delineare «la figura autoritaria di cui Cutolo sembra godere in ogni ambiente». Negli atti dell’indagine, condotta dai carabinieri coordinati dal pm Francesco De Falco, c’è anche una conversazione con un big del pallone: Daniele De Rossi, campione del mondo con la Nazionale nel 2006, ex capitano della Roma, da pochi giorni in Argentina nelle file del Boca Juniors. La telefonata risale al 5 gennaio di sei anni fa, alla vigilia della partita Napoli- Roma. Vincenzo Cutolo, tifosissimo dei giallorossi, incontra De Rossi grazie ad Antonio Floro Flores, calciatore di ottimo livello, cresciuto nel Napoli e poi protagonista una lunga carriera in serie A con Genoa, Udinese, Chievo. Cutolo e Floro Flores si conoscono da sempre, sono cresciuti nello stesso quartiere e una sorella dell’atleta ha sposato un cugino del presunto capoclan. Alle 21.42, Cutolo chiama Floro Flores: «Tutto a posto, sto con Daniele, anche nella stanza. Ora te lo passo » , dice Cutolo. Daniele è proprio De Rossi. I due calciatori scherzano sugli acciacchi e sugli allenamenti dell’allenatore Zeman. Floro Flores prende in giro il romanista: «Da quando ti sta allenando lui sei morto...». E De Rossi gli chiede: «Ma tu lo hai mai avuto? » . L’attaccante annuisce: « Sì, quando ho fatto la prima partita in serie A » . Poi aggiunge: « È massacrante, lo so». Quindi De Rossi ripassa il telefono a Cutolo: « Enzuccio, tutto a posto allora, dai», dice Floro Flores. E l’altro lo ringrazia. Il giorno successivo, Cutolo parla con un interlocutore non identificato, che gli dice: « Enzù, De Rossi non gioca, perché si è bloccato con il collo, non ce la fa a muoverlo...Me lo ha detto ora quando gli ho portato le pastiere». E il boss chiede: «Ma chi hai trovato? Proprio Daniele? » . Il suo interlocutore conferma: « Eccome, quello è sceso proprio lui giù, se le è venute a prendere. Mi ha ringraziato, ha detto " ringrazia anche Enzo, ma perché avete fatto questo vi ringrazio pienamente..."». Nessun dubbio, da parte degli inquirenti, che quelle di cui si parla nella conversazione fossero effettivamente « pastiere » e niente altro. Per la cronaca, va aggiunto, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutore di Cutolo, De Rossi giocherà regolarmente quel Napoli- Roma. Nella conversazione si parla anche di un non meglio identificato Alessandro che, sostiene l’interlocutore di Cutolo, avrebbe dato la propria disponibilità per far visitare il centro sportivo della Roma: «Ha detto che quando vogliamo andare a Trigoria, basta chiamarlo ». Le intercettazioni sono state depositate agli atti dell’inchiesta che vede Cutolo in carcere con le accuse di associazione camorristica e droga. L’avvocato Antonella Regine, legale di Cutolo, afferma: « Non c’è alcun illecito in queste conversazioni, né sono state mai contestate ipotesi di calcioscommesse ».
· Miralem Pjanic.
Juventus, Pjanic: «Se sono diventato un grande giocatore lo devo ad Allegri. Totti e De Rossi? Un mistero». Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 su Corriere.it. Miralem Pjanic si è raccontato al settimanale Vanity Fair. Un’intervista a cuore aperto nella quale il centrocampista della Juventus ha raccontato del suo rapporto speciale con Massimiliano Allegri e di come non abbia compreso il trattamento riservato dalla Roma a due bandiere come Francesco Totti e Daniele De Rossi. «Allegri è uno che ti dice le cose in faccia, ci sentiamo spesso. Ora vuole solo riflettere un po’, ma non avrà problemi a trovare una grande squadra - spiega il mediano bianconero -. Mi prendeva in giro, sosteneva che appena arrivato dalla Roma non fossi in grado di fare passaggi più lunghi di cinque metri. Ma se sono diventato un grande calciatore lo devo solo ad Allegri». «Non mi capacito ancora di come Totti e De Rossi siano stati trattati dal club. Ne ho anche parlato con loro, sono dispiaciuti e non riescono a darsi una spiegazione. Totti si è tirato fuori da una situazione che non gli stava bene, non condivideva le modalità di gestione del club e il suo ruolo - rivela Pjanic al settimanale -. Era convinto di poter dare di più e so che ci sta male. Quello che hanno fatto a De Rossi è un mistero. Quando vedi partire i più bravi anno dopo anno poi ti fai delle domande, e alla fine ti stufi. Mi dispiace anche per Nainggolan, so che ragazzo e che calciatore è. Ma spesso commette sbagli evitabili, è troppo diretto e aperto, dovrebbe essere invece più discreto. Ma ha vissuto tutta la sua carriera in questo modo, forse da il meglio di sé in queste situazioni: comunque spero ne esca». «Con l’Islam ho un rapporto normale, bellissimo, come si deve avere con ogni religione, senza estremismi, anni luce da quei pazzi che uccidono sotto la bandiera di Maometto. Prego quando ne sento la necessità, ma non certo cinque volte al giorno. In moschea a Torino non sono mai andato», spiega Miralem Pjanic che poi si sofferma sulle sue origini e il rapporto con la famiglia. «La mia è una famiglia umile, senza idee strambe in testa: semplicemente, hanno rispettato le mie scelte. Compresa quella di andare a giocare al Metz, a tredici anni, nonostante ci fossero squadre più blasonate a volermi. I miei idoli erano i campioni bosniaci come Salihamidzic e volevo diventare come loro, far felice la mia gente. Quando ci siamo qualificati ai Mondiali, ho pianto per la felicità e l’orgoglio».
· Messi è meglio di Cristiano Ronaldo.
Messi e Cristiano Ronaldo, il clamoroso verdetto della scienza: chi è il più forte. Libero Quotidiano il 22 Agosto 2019. È più forte Messi o Ronaldo? Alla domanda più ricorrente tra gli appassionati di calcio ha cercato di dare una risposta uno studio universitario. I ricercatori della KU Leuven University (Belgio) e la società olandese specializzata in dati e statistiche SciSports hanno sviluppato un nuovo algoritmo per valutare l' impatto di un giocatore all' interno di una partita. «I calciatori sono spesso giudicati esclusivamente in base ai loro gol e assist - afferma Jesse Davis, professore del Dipartimento di Informatica presso la KU Leuven University - ma il numero di gol non è il parametro migliore se si considera che in media ci sono 1.600 azioni in ogni partita. Ecco perchè il nostro modello di computer tiene conto di tutte le tipologie d' azione: tiri, passaggi, dribbling, contrasti». Il modello genera una valutazione chiamata Vaep (Valicing Actions by Estimating Probabilities), che indica in che modo le azioni di un giocatore contribuiscano al risultato. E, analizzando le stagioni dal 2013 al 2017, i risultati dicono che Messi è più forte: l' argentino ha totalizzato un punteggio VAEP di 1,21 a partita, mentre Ronaldo si è fermato a 0,61.
· Cristiano Ronaldo: il comunista.
Da repubblica.it il 19 dicembre 2019. Con un'espressione colorita, l'allenatore della Juventus Maurizio Sarri commenta in conferenza stampa il bellissimo colpo di testa di Cristiano Ronaldo che ha permesso ai bianconeri di vincere 2-1 in casa della Sampdoria: "Al gol di Ronaldo ho pensato la stessa cosa che ho pensato al gol di Dybala: c..o! 'Cavolo' non rende l'idea! Hanno fatto due gol straordinari e sono due giocatori straordinari, questo ti fa capire perché le mie percentuali di vittoria aumentano".
Da liberoquotidiano.it il 20 dicembre 2019. Il prossimo febbraio compirà 35 anni, ma per Cristiano Ronaldo l’età è solo un numero che non gli impedisce di essere un fenomeno fisico e atletico. Contro la Sampdoria il portoghese ha segnato il gol decisivo con uno stacco imperiale che ha lasciato di stucco il povero Nicola Murru, che aveva provato inutilmente a contrastarlo. CR7 si è alzato da terra di 71 centimetri e ha colpito il pallone ad un’altezza di 2,56 metri. Numeri pazzeschi ma non da record, perché nel 2013 segnò un gol decisivo in Champions League - tra l’altro da ex contro il Manchester United - raggiungendo un’altezza di 2,93 metri. Anni fa l’Università di Chichester ha effettuato alcuni test biomeccanici su Ronaldo, scoprendo che è il giocatore con la massima elevazione in campo e che sprigiona un’energia cinque volte superiore a quella di un ghepardo nella massima fase di slancio. In pratica il portoghese è in grado di raggiungere fino ai 44 centimetri quando salta da fermo e 78 con rincorsa, 7 in più delle medie registrate tra i giocatori di pallacanestro della Nba. Considerando che questo studio è stato fatto oltre 6 anni fa, è pazzesco che alla soglia dei 35 anni Ronaldo sia ancora in grado di saltare 71 centimetri. O forse non lo è, se si considera che CR7 trascorre ancora tanto tempo in palestra: i muscoli delle cosce e della parte superiore del busto sono molto potenti, così come aiuta l’assenza quasi totale di grassi.
Da sport.sky.it il 19 dicembre 2019. Il gol di Ronaldo alla Samp, in versione uomo volante, ha riportato in auge il "Cristiano Ronaldo header challeng": si tratta di una sfida proposta a Londra in estate. Pallone da colpire di testa all'altezza di 2.65 metri con premio di mille sterline per chi riuscisse nell'impresa!
Carlos Passerini per il ''Corriere della Sera'' il 19 dicembre 2019. Un salto in cielo, un salto nel tempo. «Mai vista una roba del genere, ve lo dico io che il colpo di testa di Pelè della famosa finale del Mondiale del '70 l' ho visto dal vivo» assicura Roberto Boninsegna, uno che di capocciate un po' se ne intende, uno che sa quello che dice, uno che i complimenti non li spreca, perché non l' ha mai fatto. «Quello di O Rey a Città del Messico fu strepitoso, ma questo di Cristiano è stato meglio, è stato qualcosa di sovrannaturale. Un gol che arriva dal futuro, l' ho pensato subito. Io un salto così non l' avevo mai visto in vita mia». Il salto, ma anche anzi soprattutto la tecnica, lo stacco, il tempo di sospensione, la lettura spaziotemporale, l' impatto con la palla. Insomma: un capolavoro assoluto, totale. Dentro il quale c' è tutto Cristiano Ronaldo, tutta la sua classe, tutta la sua differenza. «CR7 Air Jordan» s' è autocelebrato lui su Instagram, con tanto di emoticon, l' immaginetta, di un aeroplanino che decolla verso il cielo. Mai brillato per modestia il portoghese, ma che gli vuoi dire dopo una prodezza del genere? Ha ragione lui, applausi, punto. Perché se a ore e ore di distanza siamo ancora qui a parlarne significa che davvero ha compiuto una magia, davvero abbiamo assistito a qualcosa che resterà. Come l' ormai leggendaria rovesciata contro la Juventus del 3 aprile 2018, quando ancora giocava nel Real. Due capolavori. Così diversi, eppure così simili. Questione di centimetri, ma non solo, non soltanto. Perché per capire davvero di cosa è stato capace Cristiano in quel 2-1 alla Sampdoria che è gia un pezzo di storia del calcio occorre andare oltre la misura, occorre leggere al di là dei numeri, delle cifre. Innanzi tutto perché l' elevazione di 71 centimetri che lo ha portato a colpire la palla a quota 256 è qualcosa di impressionante, ma non rappresenta un record. Lui stesso ha fatto meglio più volte: volò a 265 in un Portogallo-Galles dell'Europeo 2016 ma soprattutto a 293 in un Real-Manchester United di Champions 2012-13. A rendere il numero di Marassi un' eccezione, un capolavoro, è la dinamica: la sospensione in movimento lunga quasi un secondo, 0,92 centesimi, ma soprattutto la formidabile coordinazione spaziotemporale che gli ha permesso di trovarsi nell' istante esatta all' altezza esatta sulla palla che Alex Sandro gli ha servito da trenta metri. È restato sospeso in aria per un momento infinito, quasi volasse, prendendo il tempo al difensore doriano Murru senza commettere fallo. E facendo sembrare il tutto quasi semplice, quotidiano. L' ha detto bene Marco Tardelli: «Per lui è la normalità». Impressionato ma come sempre sportivo e signorile Claudio Ranieri, che quella magia l' ha pagata a carissimo prezzo, con una sconfitta che inguaia di nuovo la sua Samp: «Ha fatto una cosa da Nba, è stato su un' ora e mezza, complimenti e basta». Corretto il riferimento al basket: è stata una via di mezzo fra un terzo tempo e un tiro in sospensione. Anche l' ex interista Marco Materazzi ci ha scherzato su: «Bravo Air CR7... quasi come me. Complimenti!!! #fenomeno». L' ex stopper ha postato una foto che mette a confronto la rete del portoghese con quella che segnò lui con la maglia azzurra ai Mondiali 2006 contro la Repubblica Ceca, arrivando a 270 centimetri. In carriera, con quello di mercoledì, CR7 ha segnato 712 gol fra club e nazionali, 128 dei quali di testa. Ma il dettaglio in più, in questa storia di calcio e bellezza, forse anzi il più significativo, è però un altro. E cioè che all' inizio Cristiano non era uno specialista del colpo di testa. Lo è diventato. Col passare degli anni, con l' esercizio, col sudore, l' analisi, la ripetizione ossessiva del gesto, la cura maniacale, quasi artigianale. Una volta ha detto: «Il mio segreto? Sono tre: mi alleno, mi alleno, mi alleno».
Il salto di Cristiano Ronaldo e il precedente di Iacovone durante Taranto-Bari, 40 anni fa. L'altro "volo" durante il derby nel campionato di serie B 1977-78. Lorenzo D'Alò il 20 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il fascino della foto in bianco e nero. E la potenza devastante del fermo-immagine. Attimi catturati, malgrado la disparità dei mezzi tecnologici. Iacovone contro Ronaldo. Non è solo un gioco di assonanze visive, di accostamenti della memoria, di similitudini da archivio. È il tempo perso e il tempo ritrovato. Tempo, evidentemente, sospeso. Non trascorso. Quella foto, nella sua fissità, e quel fermo-immagine, nella sua sofisticata riproducibilità, sono la prova che il calcio non ha un prima e non avrà mai un dopo. È già stato tutto visto (la tecnica) e tutto inventato (la tattica). Come se il passato non passasse mai completamente, negando al presente - le partite di ieri, le partite di oggi, le partite di domani - la possibilità di essere l’anticamera del futuro. Insomma, Iacovone è Ronaldo. In volo raggiungono lo stesso cielo. Erasmo è nello stadio che lo vide fiorire come in una serra a cielo aperto, prima che un tragico schianto lo consegnasse alla dimensione del mito. La partita è Taranto-Bari, campionato di serie B, stagione 1977-78. È il 20 novembre. Da dove provenga il cross, non è fondamentale stabilirlo. Certo è che il pallone piomba in area, dove ad attenderlo non c’è un centravanti. Ma un prodigio di muscolarità e coordinazione. Dire che Iacovone si sollevi da terra non è esatto. Perché Erasmo fa di più: levita. Decolla senza prendere la rincorsa. Si arrampica in aria e colpisce di testa. Allo stacco imperioso e all’impatto frontale col pallone, non seguì il gol. Niente boato, ma lo sguardo ammirato dei 22.141 spettatori paganti diede corpo a una specie di vibrazione prolungata. Iacovone, quel derby, lo decise al 74’, mettendo a sedere il portiere barese con un pallonetto malandrino. Cristiano è a «Marassi», dentro una notte genovese. Notte di gloria, dunque già vissuta. Perché Ronaldo un gol così lo ha già segnato. Sembra ne possegga il copyright. Siamo allo scadere del primo tempo. La Juve sta pareggiando con la Sampdoria. Alex Sandro lavora in fascia e fa ciò che gli riesce meglio: il cross a spaccare il campo. Ronaldo si muove per «sposarsi» col pallone, segnalato in arrivo da chissà quale radar. Vola Ronaldo, rimbalzando come avesse due molle sotto i piedi. Prima di impattare la sfera, dandole la destinazione desiderata, sembra sedersi sulla spalla del povero Murru. Gesto atletico pazzesco, come conferma la considerevole altezza raggiunta: 2 metri e 56 centimetri. Meno di quel giorno con la maglia del Real contro il Manchester United (2 e 93) o di quella volta con la maglia del Portogallo contro il Galles (2 e 65). Ma, a ben guardare, ciò che rende identiche, quasi sovrapponibili, le due istantanee, a distanza di 42 anni, non si vede. S’intuisce, soltanto. È lo stupore dei difensori. È l’incredulità dei terzini e degli stopper di Bari e Sampdoria davanti all’enormità del gesto. Al cospetto dell’evento che quasi trascende l’ordine naturale delle cose.
GIULIA ZONCA per la Stampa il 20 dicembre 2019. Da ragazzino Ronaldo pensava di dedicarsi al ping pong. Si allenava a Madeira, alla vecchia accademia dello Sporting, il centro dove si preparava il futuro asso Joao Monteiro, allora aspirante campione di tennistavolo e primo modello del giovane Ronaldo. Lui sapeva già che il calcio lo avrebbe allontanato dalla sua prima passione, però le ore passate con Monteiro e quelle spese a guardarlo in seguito, gli hanno insegnato tecniche di concentrazione, il potere della coordinazione, l' equilibrio tra forza e velocità e gli hanno svelato un segreto capito subito e diventato punto di ineguagliabile forza: rubare agli altri sport avrebbe fatto di lui un calciatore migliore. E avrebbe nutrito la sua inesauribile competitività. Ha giocato per davvero o per finta a pallavolo, tennis, basket, ha ballato per pubblicità, nuota per recuperare le energie, mescola yoga e pilates, tecniche diffuse, ma è difficile trovare qualcun altro che abbia tirato calci al campione della Mma Conor McGregor sopra un ring di kickboxing, sfidato Nadal in un tennis-calcio da esibizione, ricevuto un invito da Ivan Zaytsev ad affrontarsi sul tiro più veloce, uno a pallavolo, l' altro a pallone, saltato quanto Michael Jordan e incrociato i guantoni, anche se solo per una foto, con Gennady Golovkin, campione dei pesi medi. Le finte di Mayweather Ronaldo impara da quel che guarda, da quel che pratica, dalle discipline che entrano nella sua routine e da quelle che assaggia solo, ma che cerca comunque di spiare e capire quanto può. Spesso con l' aiuto di altri talenti. A Mayweather, proprio in Arabia Saudita, dopo il successo in Supercoppa dell' anno scorso, ha chiesto come perfezionare le finte. A inizio stagione si è messo sui blocchi di partenza per migliorare lo scatto, vicino a lui c' era Francis Obikwelu, ex sprinter portoghese, tutt' ora record europeo dei 100 metri (9"86 in coabitazione con il francese Vicaut). Un paio di allunghi in favore di camera, le regole per accelerare all' improvviso e qualche cronometro a uso instagram però pure domande vere e dritte sincere. Il velocista si è stupito dei tempi di reazione di Ronaldo, «per come l' ho visto in pista direi che può continuare a questi livelli fino a 40 anni». CR7 si è affiancato a un maestro di nuoto per il recupero da un infortunio e ora spesso usa la piscina per riattivare i muscoli: 20 minuti di bracciate, in silenzio, con cura delle fasi di apnea, per scaricare le tensioni. Al Real Madrid ha provato un allenamento a basket, cesto non esattamente ad altezza Nba, ma uno contro uno reattivi e una gran voglia di provare a schiacciare. Anche fuori dal suo campo. Quando ha mollato il ping pong, ha scelto la sua strada, ma si è voltato indietro di continuo, a ogni incrocio con un' altra disciplina. Al Manchester United ha perso contro Rio Ferdinand una partitella e per due settimane ha pensato solo a pallina e racchetta. Per la rivincita e per i ricordi che si portavano dietro le ore passate dietro quel tavolo. Lo stesso su cui passava il tempo da bambino, quando ancora non era Ronaldo però aveva già capito come diventarlo.
Cristiano Ronaldo, il gol alla Samp e la biomeccanica di un capolavoro: una questione di «sapere senza pensare». Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Sandro Modeo su Corriere.it. Quello alla Sampdoria non è solo uno dei tanti gol-monstre di CR7, ma uno di quelli che fungono meglio da prova didattica delle sue qualità specifiche: atletiche, biomeccaniche e soprattutto neuro-cognitive. Dando per acquisita l’eccellenza tecnica di tutta l’azione (il cross di sinistro di Alex Sandro — a eludere la linea difensiva doriana — e la precisione «molecolare» dell’impatto sulla palla per indirizzarla a fil di traversa), colpiscono vari aspetti, alcuni immediati (ma ingannevoli), altri più nascosti. Il primo — ovvio — è l’elevazione, uno stacco di 71 cm. che porta il giocatore-atleta a colpire a 256 cm. Buona, ma non certo eccezionale, come non eccezionale è l’altezza dell’impatto stesso: 71 cm. equivalgono a 28 pollici, più o meno quanto — è stato giustamente ricordato su Sky — l’elevazione di un giocatore di basket nei test precampionato, mentre i dati assoluti si spingono a oltre il doppio, se l’elevazione del leggendario Kadour Ziani («slam dunk») arriva a 60 pollici; senza dimenticare che lo stesso CR7, in altri gol-monstre di testa, ha saltato molto di più, vedi l’impatto testa-palla a 293 cm. in un Real Madrid-Manchester United del 2013. Il punto è che nel gol alla Sampdoria l’elevazione è funzionale alla dinamica di gioco, cioè alla coordinazione necessaria per assecondare la traiettoria di Alex Sandro. Saltare troppo alto o troppo basso avrebbe vanificato tutto (lo vediamo spesso in tanti giocatori meno dotati), così come saltare troppo presto o troppo tardi (fuori tempo). E qui si innesta il secondo tratto della giocata: la «sospensione», quella sì eccezionale (0,92 centesimi di secondo), tanto da aver innescato paragoni con molti altri stacchi di testa storici (su tutti, quelli del milanista Hateley su Collovati nel mitico derby dell’ottobre ’84 o di Pelè su Burgnich nella finale mondiale Italia-Brasile del ’70 all’Azteca) e, di nuovo, con la tecnica cestistica (il tiro in sospensione o il terzo tempo). Tutto legittimo ma sfocato, perché in questo caso la sospensione è dinamica, in movimento, distribuita lungo un salto che avviene sia in elevazione che in estensione, sempre secondo necessità rispetto alla palla di Alex Sandro e alla modalità programmata per colpirla. Siamo così al terzo aspetto, quello decisivo e riassuntivo: la capacità di CR 7 — condivisa con altri fuoriclasse, Messi in primis — di reperire informazioni dall’ambiente circostante con maggior velocità rispetto alla media dei giocatori, per poi elaborarle in decisioni-esecuzioni appropriate. Tutto era già emerso in un test-esperimento condotto nel 2011 da Andy Ansah, di Soccer A.M., che aveva confrontato le prestazioni di CR7 con quelle di altri giocatori dilettanti di un certo livello (in particolare un suo coetaneo, chiamato nel trial «Ronald», quasi un giocatore-ombra). In quel trial, infatti — grazie a leggeri caschi con specchietti e infrarosso indossati dagli atleti — si era potuto notare come da un lato i movimenti oculari di CR7 per scremare informazioni (sulla palla, il difensore, le distanze) fossero «brevi, mirati, precisi» (a differenza di quelli «a flipper» dei dilettanti); dall’altro, come tutto questo si convertisse in tempi non ordinari nel vagliare una palla in arrivo: 200 millisecondi (un quinto di secondo) per la percezione visiva d’insieme, e solo 500ms (mezzo secondo) per valutare — nel rapporto occhio/cervello — velocità e traiettoria della palla stessa e pianificare il gesto tecnico adeguato. Dati da Predator-Terminator. È il famoso «sapere senza pensare» studiato dallo psicologo cognitivo tedesco Gerd Gigerenzer in un testo già classico («Decisioni intuitive») a proposito di giocatori/atleti di tanti sport, dal golf al baseball, come nel caso esemplare dell’interbase che sintetizza inconsciamente nel suo gesto — una corsa regolata dall’ «angolo dello sguardo» sulla palla — tutti i complessi dati fisico-matematici necessari: distanza; velocità iniziale e «angolo di lancio» della palla; velocità e direzione del vento in ogni punto della traiettoria; punto di ricaduta al suolo. Tornando al gol-monstre alla Sampdoria, non diversa è stata la «decisione intuitiva» di CR 7 sulla traiettoria del cross di Alex Sandro: una valutazione anticipata della dinamica d’insieme che gli ha permesso di graduare l’accelerazione (il rapporto ampiezza /frequenza dei passetti di entrata), lo stacco, la battuta. In questo, i tratti già esaminati (salto in elevazione/estensione e sospensione) si integrano in una sequenza più complessa e cognitivamente più ricca, in cui entra anche l’abilità atletico/tecnica del giocatore nel tenere rigido il collegamento testa-tronco, modalità decisiva (come ricordano Nicola Ludwig e Gianbruno Guerrerio nel loro «La scienza del pallone», Zanichelli) per trasmettere alla palla la massa «dell’intero corpo del calciatore» e aumentare l’intensità della stoccata. Giocate simili — per i modi e soprattutto per i tempi — costringono tutti gli altri attori dell’evento a diventare osservatori, travolti da quella «sospensione dell’incredulità» che scatta davanti al gesto di un Supereroe. Così è stato per i difensori del Doria, la cui risposta tardiva — in una sacca spaziotemporale successiva al gesto di CR7 — si è limitata a un saltellìo balbettante-impotente; per Ranieri, che si è abbandonato a un sorriso di resa, vagamente prenatalizio; e per tutti noi, che abbiamo ricevuto in pochi secondi una lezione di scienza (dalla fisica alla neuropsicologia) tra le più coinvolgenti che si possano desiderare.
Da corrieredellosport.it l'11 novembre 2019. Minuto 55, si alza la lavagna luminosa. Da una parte il numero 7, dall'altra il 10. Fuori Cristiano Ronaldo e dentro Dybala. Da quel momento si è parlato pochissimo della vittoria della Juventus sul Milan, mentre l'attenzione si è focalizzata sul cambio effettuato da Sarri e sulla reazione di CR7. Il fenomeno portoghese ha imboccato il tunnel degli spogliatoi, si è fatto la doccia e ha lasciato l'Allianz Stadium ancor prima che il match terminasse. Un comportamente che potrebbe costargli una squalifica. Il monito arriva da Antonio Cassano, ospite della trasmissione Tiki Taka. L'ex attaccante della Roma ha spiegato: "Cristiano Ronaldo è andato via tre minuti prima della partita? Non puoi farlo, perché a fine gara c'è l'antidoping. Occhio. Se è così come si dice diventa una cosa complicata. A me era successo 12 anni fa in Roma-Lazio: Capello mi ha sostituito, io ho sbroccato e me ne sono andato a casa. Sono dovuto tornare indietro perché se quel giorno venivo sorteggiato all'antidoping prendevo due anni di squalifica". Non resta che aspettare un altro capitolo della vicenda.
Da Un Giorno da Pecora l'11 Novembre 2019. Cosa avrà detto Cristiano Ronaldo a Maurizio Sarri uscendo dal campo ieri durante Juventus Milan? Per scoprirlo Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1, ha contattato Renata Bueno, brasiliana, ex deputata del Gruppo Misto. Secondo l'ex onorevole, CR7 avrebbe detto “'porra caralho', parole abbastanza pesanti anche da tradurre”. Cosa vorrebbe dire questa espressione? “Indicherebbero qualcosa tipo pene e liquido seminale”. Ed è una espressione che in portoghese si usa frequentemente? “Si, quando uno si arrabbia o quando si vuol dire qualcosa a qualcuno”. Cioè, sarebbero un vaffa, in pratica. “No, non è proprio così, è meno pesante. E più che un insulto è un'imprecazione”. Quindi Cristiano poteva non avercela con Sarri. “Si, quelle parole potrebbero essere solo uno sfogo di rabbia e nulla di più”, ha concluso la Bueno a Un Giorno da Pecora.
Da corrieredellosport.it il 12 Novembre 2019. Cristiano Ronaldo ha preso parte alla prima sessione di allenamento della nazionale portoghese in vista delle due partite di qualificazione a Euro 2020 contro Lituania e Lussemburgo. L’attaccante della Juventus, uscito durante Juve-Milan per scelta del tecnico bianconero Maurizio Sarri, era in campo nella porzione di seduta che il ct Fernando Santos ha lasciato aperto alla stampa. L’attaccante Gonçalo Paciência, compagno di Ronaldo in nazionale, ha detto la sua sulle condizioni di CR7: “Se è pronto? Non ho una laurea in medicina, ma l'ho visto bene – le sue parole riportate da A Bola - la cosa più importante è che sia qui, perché è il migliore al mondo”. Secondo quanto riferito dai media portoghesi Ronaldo ha lavorato senza limitazioni, con i compagni e mostrandosi di buon umore. Sarri, dopo Juve-Milan, aveva rivelato come l’asso portoghese abbia un problema persistente a un ginocchio per una botta rimediata in allenamento.
Giovanni Guardalà per sport.sky.it il 12 Novembre 2019. Il portoghese della Juve, che aveva lasciato lo stadio in anticipo durante la sfida contro il Milan dopo la seconda sostituzione consecutiva, non riceverà sanzioni da parte della società. Ma è atteso un confronto con i compagni di squadra dopo la sosta per le nazionali. Benedetta la sosta. Probabilmente lo avrà pensato Sarri. Perché il polverone mediatico sollevato dalla rabbia di Cristiano Ronaldo sarebbe stato difficile da gestire se tutto questo fosse accaduto tra una partita e l'altra, magari ravvicinate. La benedetta sosta farà in modo che Ronaldo sbollirà e Sarri non dovrà rispondere a molte domande ancora sulla reazione, sulle conseguenze eventuali di quanto accaduto, sulla percezione del gruppo e quant'altro. Quello visto domenica non è un caso raro nel calcio. Molte volte abbiamo visto reazioni più o meno spropositate da parte di chi veniva sostituito. L'ultimo precedente illustre in casa Juve riguarda Andrea Pirlo, sostituito da Conte nel finale di un Juventus-Verona. Certo Ronaldo non può essere paragonato ad altri calciatori. Non è un semplice giocatore, è una vera e propria azienda e per la Juventus è un bene prezioso che va al di là del rendimento in campo di certo insufficiente in questo periodo. Ronaldo crea un indotto straordinario per le casse della società e va gestito in maniera diversa rispetto a tutti gli altri, Certo alla ripresa un confronto ci sarà. La società non multerà il giocatore ma Paratici dovrà lavorare per ricucire lo strappo e caldeggerà un confronto con la squadra perché è soprattutto ai compagni che deve chiedere scusa. Andare via senza sapere quale fosse l'esito della partita è stato un segnale di totale disinteresse per la squadra. e pur essendo un calciatore diverso, fa pur sempre parte di un gruppo in cui alla fine deve contare sempre il 'Noi' e mai l'Io. Anche in questo senso la sosta arriva al momento giusto per la Juventus.
Ronaldo fuori: tutte le partite saltate con la Juventus. Il portoghese out contro l'Atalanta. Allegri (prima) e Sarri (poi) hanno rinunciato a CR7 11 volte su 67. Ecco quando...Giovanni Capuano il 22 novembre 2019 su Panorama. Ronaldo non convocato contro l'Atalanta fa notizia ma non rappresenta una novità assoluta per il mondo Juventus. Prima Allegri e poi Sarri hanno imparato a fare di tanto in tanto a meno del fuoriclasse portoghese, se non per infortunio per scelta tecnica spesso condivisa con il giocatore. Il forfait nella trasferta di Bergamo fa discutere perché arriva dopo la ribellione di CR7 alla sostituzione contro il Milan, le polemiche e la settimana con la nazionale portoghese nella quale Ronaldo ha fatto di tutto per mostrarsi in ottime condizioni, salvo poi confermare alla fine il problema al ginocchio che lo sta condizionando.
Tutte le partite saltate da Ronaldo. L'Atalanta sarà la terza partita saltata da Ronaldo in questa stagione dopo le trasferte di Brescia (24 settembre, problema agli adduttori) e Lecce (26 ottobre, riposo). Fin qui ha accumulato 14 presenze su 16 con 1.217 minuti in campo e uno stop al mese che ha interrotto l'utilizzo massiccio che comprende anche le partite del Portogallo cui l'attaccante, a differenza della passata annata, non ha rinunciato. Allegri aveva fatto a meno del suo cannoniere 8 volte su 51 complessive: una per squalifica (Juventus-Young Boys successiva all'espulsione di Valencia), una tenendolo in panchina senza farlo alzare (contro l'Udinese a inizio marzo) e poi 5 tra infortunio e riposo precauzionale tra il 17 marzo e il 13 aprile, il momento decisivo della stagione chiusa dal portoghese con una settimana d'anticipo, saltando l'ultima di campionato a Marassi contro la Sampdoria. Facendolo un calcolo rapido, Ronaldo ha saltato fin qui 16 partite su 67 totali con un'incidenza del 16,4%. Sarri ha anticipato, complici i problemi fisici, le rotazioni rispetto ad Allegri che non doveva dividerlo con la nazionale portoghese, ma come percentuale siamo in linea con il dato del 2018-2019. In attesa che anche le prestazioni di CR7 tornino allo stesso livello.
Giampiero Mughini per Dagospia l11 novembre 2019. Caro mister Sarri, non ho alcun altro titolo per rivolgermi a lei se non quello di essere uno dei tantissimi italiani che stanno per la Juve, la squadra di cui lei è divenuto recentemente l’allenatore. Le scrivo per ringraziarla del coraggio e del rigore professionale che lei ha dimostrato ieri, a pochi minuti dall’inizio del secondo tempo, nel decidere di mettere fuori Cristiano Ronaldo, sino a quel momento di gran lunga il peggiore in campo, e sostituirlo con Paulo Dybala. Ho detto coraggio, perché ce ne voleva molto a ledere l’aura di un giocatore e di un atleta grandissimo che noi tutti ammiriamo senza limiti. Che lui ieri stesse giocando molto male, non cambia di un ette la valutazione che noi diamo di questo grandissimo uomo di calcio. Solo che ieri era ieri, e ieri Ronaldo non meritava di restare in campo, tanto è vero che il Dybala che lo ha sostituito ha poi deciso la partita a nostro favore con una giocata lunare. Noi tutti abbiamo visto la faccia di Ronaldo mentre usciva dal campo, le sue labbra che bisbigliavano qualcosa. E’ umano che andasse così, umanissimo. Mi immagino che nello spogliatoio vi siate detti qualcosa. Mi immagino un Ronaldo troppo intelligente per non capire che la sua decisione, mister Sarri, era sacrosanta. Spero che sia andata così. Grazie, mister. Grazie del suo rigore professionale. Grazie del suo amore per il calcio. Grazie della sua dirittura umana e professionale. Per tutto il resto, crepi il lupo e viva la nostra magnifica Juve.
Ronaldo, le sue sorelle e la Signora maltrattata. Adesso sono tutti felici. La tripletta alla Lituania scatena le parenti («Dio non fallisce e sta bene») ma tranquillizza la Juve. Roberto Perrone, Sabato 16/11/2019, su Il Giornale. Ronaldo non lascia, raddoppia. Anzi, triplica. Anche se la Lituania è stata più compiacente di una squadra di serie A italiana, di ogni livello, i tre gol di Ronaldo sono stati importanti e due pure di ottima fattura, alla CR7, appunto, tiro in corsa con effetto e rasoiata a bruciare il prato quando pareva che avesse perso il tempo. In questo modo hanno aumentato il dibattito attorno alla sostituzione, con addio alle armi bianconere, di Juventus-Milan. Il più distaccato è apparso proprio lui, Ronaldo, con un commento ecumenico: «Bella vittoria di squadra, siamo a un passo dalla qualificazione». Il tecnico della Nazionale Fernando Santos, schakesperiano, ha sentenziato: «Tanto rumore per nulla, l'avevo detto che stava bene». Meno accomodanti le sorelle del portoghese. Forse più irritate con la velenosa di Fabio Capello («Ronaldo non salta un avversario da tre anni» dixit il mascellone) che con la sostituzione di Maurizio Sarri («ha un ginocchio in disordine»). Katia: «Non si scherza con lui, orgoglio di sorella». Elma forse esagera nell'attribuzione dei poteri, però rende l'idea della devozione che avvolge il campione: «Dio non fallisce. Sta bene, e adesso?». E l'amico Miguel Paixão si esibisce in un social ironico, evidentemente dedicato a don Fabio, rivolgendosi al sodale: «Penso che avresti dovuto anche dribblare la difesa prima di segnare». Insomma il Portogallo fa salire il ponte levatoio, mentre la Juventus neanche l'ha abbassato. Infatti a Torino, dopo la risposta di Sarri a caldo sulle condizioni ronaldesche, nessuno ha aperto bocca, se non il capitano Bonucci, annunciando, nelle segrete stanze dello spogliatoio, un chiarimento. In fondo ruota tutto attorno alla mancata sosta in panchina, concessa invece al Portogallo, perché Ronaldo, a parte tirare dritto e mormorare qualche parola incomprensibile, forse a Sarri, forse alla situazione, forse a se stesso, non ha commesso altri peccati. Forse non voleva uscire neanche giovedì sera a Faro, anche dopo tre gol, aver mancato il quarto e confezionato assist deliziosi per i compagni. Però là ha osservato il protocollo alla perfezione. Chi vuole costruire un caso Ronaldo-Juventus può farlo, ma a essere sollevati dalla tripletta bianconera sono proprio Agnelli, Nedved, Paratici e Sarri. Un Ronaldo che torna rinfrancato, combattivo e assetato di rivincite è meglio di un Ronaldo mogio senza gol e senza la qualificazione all'Europeo 2020. Irritazione di sorelle e di amici a parte, per la Juventus la faccenda è chiusa e comunque non sarà mai discussa in pubblico. Il club bianconero ha scaricato quintali di sarcasmo sull'Inter per la gestione dell'affaire Icardi. Non cadrà nello stesso errore, cioè fa uscire il lavaggio dei panni sporchi fuori dall'ambito familiare. Ci sono un investimento da tutelare e una Coppa da vincere.
Ma CR7 ricordi che a Torino i fenomeni vanno la Juventus resta. Tony Damascelli, Sabato 16/11/2019 su Il Giornale. Qualcuno dovrebbe spiegare a Cristiano Ronaldo che la Juventus esisteva prima di lui. E continuerà ad esistere anche dopo di lui. Per dire, dunque, che i capricci da primadonna possono portare a epiloghi non previsti. Non sarà lui a decidere, come gli è capitato a Madrid, di salutare la compagnia ma potrebbe essere il club a decidere la separazione, la conclusione, anche anticipata, del contratto. Perché questa è la filosofia del mondo al quale appartiene la società bianconera, un mondo che se vuole tagliare le teste non guarda le facce, se deve liquidare Montezemolo o De Benedetti, Cantarella o Fresco, Romiti o Roberto Baggio o Allegri, tanto per mettere tutti sulla stessa catena di montaggio, non viene frenato dalla mozione degli affetti, non cade nella trappola dei sentimenti come accade altrove, ma fa due conti, se il personaggio e la persona rientrano nel progetto della casa allora si provvede, altrimenti si apre la porta e lo si accompagna all'uscita. Ronaldo fa i capricci come qualsiasi vedette, del football, dello spettacolo, del cosiddetto star system. Non accetta critiche, non tollera di essere messo in discussione, cioè in panchina a meno che non si tratti di sfilata da standing ovation. «Possiamo vendere il nostro tempo ma non possiamo ricomprarlo» la frase di Fernando Pessoa, scrittore portoghese, sembra tagliata su misura per Cristiano di oggi, assetato di notorietà come dal primo giorno di carriera e, forse di vita, ma costretto a riferirsi all'anagrafe, alle intemperie del football, alle scelte degli allenatori. Ronaldo non è finito, così come non era finito Pirlo quando lasciò il Milan, come non era finito Dino Zoff, dopo il mondiale del Settantotto in Argentina, quando subì gol da un tot di metri dagli olandesi Brandts e Haan. Le ultime esibizioni di CR7 hanno creato il dibattito ma lo stesso calciatore ha provocato e provoca ancora la polemica. Non sapendo, forse, che a Torino, prima di lui sono transitati altri fenomeni. Transitati loro, appunto, è rimasta la Juventus.
Marco Iaria per la Gazzetta dello Sport il 12 Novembre 2019. Ronaldo non è solo un calciatore, è un' azienda. E quando la Juve, nell' estate 2018, ha deciso di compiere il colpo di mercato più oneroso della sua storia (100 milioni per il cartellino più 12 di commissioni, 58 milioni di stipendio lordo annuo), lo ha fatto non solo per assicurarsi le prestazioni sportive di uno dei giocatori più forti al mondo ma anche per aprirsi nuovi mercati. In ballo ci sono grandi interessi economici e commerciali, in ballo c' è la tenuta stessa del piano di sviluppo varato da Andrea Agnelli con l' obiettivo di restare agganciati al treno dei top club mondiali. Proprio valutando l' affare CR7 a 360 gradi, non si poteva immaginare un esito diverso del caso scoppiato domenica. La ragion di Stato imponeva una ricomposizione del dissidio. E non a caso è arrivato l' intervento sui social di Ronaldo ieri mattina. D' altronde, il portoghese rappresenta un traino irrinunciabile per l' intero progetto societario. I primi risultati si sono registrati nel bilancio 2018-19: 58 milioni di ricavi extra attivati tra stadio e commerciale con un milione di magliette vendute, seguito digitale a +68 per cento, tifosi nel mondo cresciuti di 38 milioni, a fronte di un costo annuo di 87 milioni tra stipendio e ammortamento. Con CR7 la Juve ha già aumentato il suo potere contrattuale. Questa stagione è entrato in vigore il nuovo contratto di Adidas, passato da un fisso di 23 a 51 milioni, mentre Jeep ha garantito 25 milioni in più (da 17 a 42 di base) in attesa di definire il nuovo accordo. Ma non è finita qui. Ronaldo è il perno di un piano con vista sul 2024 e deve ancora dispiegare tutta la sua forza. I manager bianconeri hanno sempre ragionato su una sua permanenza a Torino per almeno 3 anni. E' vero che con l' aumento di capitale da 300 milioni la Juventus darà la caccia a un Ronaldo giovane, in grado di attrarre la generazione Z e di perpetuare lo sviluppo del brand (un profilo alla Mbappé per intenderci). Ma è altrettanto vero che il "vecchio" Ronaldo serve eccome. Ancora per un bel po'.
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 12 Novembre 2019.
Fabio Capello, lei un giorno tolse Totti: e poi?
«E poi si parla, tra persone intelligenti si chiarisce tutto. Francesco quella volta capì che lo avevo levato nell' interesse della squadra, l' unico che conti».
Ma i fuoriclasse sono egocentrici. Ronaldo, più di chiunque.
«Anche a lui passerà, anche lui capirà».
Torniamo un momento a Totti: toglierlo dalla Roma, peggio che bestemmiare in chiesa.
«Stavamo perdendo 0-2 in casa della Juve, finì 2-2 e vincemmo lo scudetto. Totti, mi creda, capì».
Non fu la fine del mondo.
«Non proprio la fine del mondo: quasi».
Lei ha detto in tv che Ronaldo non salta l' uomo da tre anni: un po' pesante come giudizio, no?
«Ma erano tre anni in senso metaforico, non serve Guglielmo Marconi per capirlo».
Contro il Milan non sembrava lui.
«Non è in buone condizioni atletiche, questo l' ha detto Sarri, non io. Un campione dev' essere il primo a capirlo, quando succede. Fino al momento della sostituzione con Dybala, il portoghese era stato oggettivamente tra i peggiori».
Dunque, Ronaldo non salta l' uomo da un po' meno di tre anni: perché?
«C' entra l' agilità, c' entra il tempo che passa, con gli anni qualcosa si perde, è fatale. Ma altro si acquista: in area, Ronaldo è molto ma molto più forte di prima, un centravanti pazzesco. Il numero uno al mondo».
E all' ala?
«All' ala, adesso no. Per saltare l' uomo servivano Douglas Costa e Dybala.
Infatti Sarri ha fatto questa scelta due volte in cinque giorni, e due volte ha vinto: ha avuto coraggio e ha avuto ragione».
Visto che faccia, Ronaldo, quando è uscito? Se n' è andato subito dallo stadio, come un bambino capriccioso.
«Quando un giocatore reagisce male a una sostituzione, per prima cosa manca di rispetto ai compagni in panchina, mica all' allenatore: anche loro hanno il diritto di giocare. E il muso bisogna farselo passare».
Qual è la morale della favola?
«Che il gruppo viene prima dei singoli, non importa chi siano i singoli».
Esistono gli intoccabili? O, almeno, qualcuno che sarebbe meglio non toccare?
«Nella storia del calcio, da quando per regolamento esistono le sostituzioni sono stati sostituiti tutti».
Anche Del Piero alla Juventus, tanto per fare dei nomi.
«Appunto».
Rivedremo quel Ronaldo là? Il Ronaldo di prima?
«Guardi, io lo ricordavo debordante, e oggi debordante non è più. Ma sarà ancora molto utile alla Juventus. Soltanto, sarà un Ronaldo diverso, in fase evolutiva. Aveva già cominciato al Real Madrid, spostandosi più dentro l' area».
Non per nulla, Sarri fin dal primo incontro gli ha proposto di giocare centravanti, ma Ronaldo ha detto che preferisce partire dall' esterno.
«Dove si sente più libero, si diverte di più e ha la sensazione di arrivare più facilmente al tiro. Diciamola tutta: in area ha sempre il marcatore incollato al sedere, insomma è più dura. Anche se nessuno al mondo, lo ripeto, dentro quell' area è migliore di Cristiano».
La Juventus saprà gestire questa grana?
«La grandissima fortuna di Sarri è la rosa incredibile: con un tipo come Douglas Costa in panchina, oppure Dybala, ogni sostituzione può diventare la soluzione».
Lei ha mai conosciuto allenatori masochisti?
«Mai, neppure uno. Contro i russi e contro il Milan, Sarri voleva vincere e ha vinto cambiando».
Dicono che Ronaldo in fondo sia un uomo fragile, l'anno scorso pianse dopo quell' espulsione ingiusta, l' altra sera non ha saputo mascherare la rabbia nemmeno un po'.
«Non lo so, davvero. Io faccio l' allenatore, non lo psicologo».
Massimo Falcioni per tvblog.it il 12 novembre 2019. Una polemica calcistica come ce ne sono tante durante un’intera stagione, ma forse anche l’esplosione di un piccolo caso televisivo. Daniele Adani attacca Fabio Capello a Deejay Chiama Italia, prendendo spunto dalla critica che l’allenatore – oggi opinionista di Sky Sport – ha rivolto a Cristiano Ronaldo nel corso di Sky Calcio Club. “La verità è che Cristiano Ronaldo non dribbla un avversario da tre anni”, aveva affermato l’ex tecnico di Milan e Juventus commentando la sostituzione di CR7. Frase che è subito rimbalzata sui social e che Linus e Savino hanno sottoposto al giudizio dello stesso Adani. “E’ una cavolata assoluta. Anzi, vi dirò una cosa. Se Dybala non avesse fatto il gol della vittoria tutti loro avrebbero criticato Sarri, vi faccio questa confidenza. L’Italia è questa, meno competenza e tanta polemica”. Non una semplice manifestazione di dissenso, bensì un affondo diretto nei confronti di Capello e del cast della trasmissione composto, oltre al mister, da Fabio Caressa, Beppe Bergomi, Stefano De Grandis e Luca Marchegiani. Adani - da anni colonna della tv satellitare - in questo modo non ha semplicemente smontato la tesi di Capello (azione legittima all’interno di un dibattito sportivo), ma ha affondato la lama del burro parlando chiaramente di “poca competenza” e di una sorta di ipocrisia legata al risultato che condizionerebbe le analisi delle singole gare.
Da gazzetta.it l'1 ottobre 2019. La parola ritiro accostata oggi a Cristiano Ronaldo stride e spaventa. Eppure, a margine della presentazione del suo profumo Play it Cool a Torino, il campione della Juventus ha parlato di sé andando oltre la retorica. E oltre il calcio. Spiegando cosa conti davvero nella vita. "Amo ancora il pallone, mi piace far divertire i tifosi e chiunque sia legato a me. Non è una questione di età, dipende tutto dalla mentalità — ha dichiarato a SportBible —. Negli ultimi cinque anni ho iniziato a percorrere una strada che mi vede lontano dal calcio, quindi chi può sapere che cosa accadrà tra uno o due anni?". Ronaldo si riferisce ai suoi tanti investimenti che lo vedono ormai manager di lusso (dai profumi all'intimo, dai ristoranti agli hotel) e che finora ha sempre gestito accanto al pallone. Ma sentirgli dire "uno o due anni" fa comunque effetto. Cristiano poi ragiona sulle differenze tra fare il calciatore e l'uomo d'affari: "Bisogna sempre credere in se stessi. Nel calcio ho maggior controllo, so cosa posso fare. Nel business è più difficile, dipendi dagli altri, ma io ho un gran team e sarà una bella sfida". Quindi vuole un diventare numero uno anche fuori dal campo? "Sono serviti molti anni di duro lavoro, sacrifici e passione per raggiungere quello che ho oggi nel calcio. Fuori non sono ancora a quei livelli, ma sono un tipo competitivo e non mi piace essere il numero 2 o il numero 3. Io voglio essere il numero uno. E ce la farò, al centro per cento".
“CRISTIANO RONALDO È IL PIÙ GRANDE COMUNISTA D’ITALIA”. Da Tuttojuve il 14 maggio 2019. Lo scrittore di fede bianconera, Giampiero Mughini, ospite a Quarta Repubblica, su Rete 4, ha parlato di Cristiano Ronaldo nel bel mezzo del dibattito in studio sul munifico stipendio di Fabio Fazio. Tuttojuve.com ha sintetizzato il suo intervento: "Vorrei ricordare che Ronaldo è il più grande comunista d'Italia, perché nel mentre che la Juve dà 30 milioni a lui, dà 30 milioni allo Stato italiano per pagare pensioni sociali, eccetera. Il più grande comunista".
Cristiano Ronaldo, ecco le 10 cose più costose che possiede. Dagli orologi alle auto, fino al jet privato, grazie al suo ingente patrimonio, CR7 può concedersi lussi proibiti ai comuni mortali. Simona Marchetti il 2 settembre 2019 su Il Corriere della Sera.
Gli orologi. Con un palmares che spazia dalla Champions League alla Liga, dalla Premier League alla serie A, non stupisce che gli sponsor se lo contendano a suon di milioni e se a questo si aggiungono poi i soldi che guadagna già di suo con i contratti calcistici, ecco spiegato da dove nasca l'immenso patrimonio di Cristiano Ronaldo. Ed è proprio grazie a esso se il campione portoghese della Juventus può permettersi acquisti altrimenti proibiti ai comuni mortali. Una delle sue indiscusse passioni sono senz'altro gli orologi, di cui possiede una vasta collezione e il pezzo da novanta è l'incredibile Jacob and Co. sfoggiato in occasione del suo trasferimento dal Real Madrid alla Juventus: realizzato apposta per CR7 con 424 diamanti bianchi, l'orologio costa ben 1,8 milioni di dollari (1,64 milioni di euro).
La statua di cera. Più che per il costo in sé (25.000 dollari, pari a 22.800 euro circa, che sono comunque un botto per la stragrande maggioranza delle persone), a colpire di questo acquisto è la sua stravaganza, perché avere la propria statua di cera fatta a immagine e somiglianza (con tanto di capelli veri, provenienti dall'India) non è certo da tutti.
La moda. Fra i capi della sua stessa linea di moda e quelli che acquista di suo, tutti ovviamente griffati, si può ragionevolmente sostenere che il guardaroba di Ronaldo farebbe invidia a qualunque fashion addicted, uomo o donna che sia.
Gli addetti alle pulizie. Come rileva il sito The Richest, questo non è un bene che il calciatore possiede fisicamente, ma è comunque qualcosa che paga regolarmente, perché con tutte le proprietà che ha sparse in giro per il mondo, assicurarsi che siano sempre pulite e splendenti ha sicuramente un costo., senza contare poi che gli addetti alle pulizie hanno pure il compito di tirare a lucido tutti i trofei vinti in carriera.
Le scarpe da ginnastica. Anche se si è assicurato un contratto a vita con la Nike per la fornitura di scarpini da calcio, le sneakers CR7 se le compra da solo, meglio se con dettagli esclusivi e in edizione limitata, come le Swarovski Nike Air Max 97 LX “Metallic Gold” da 13.000 dollari (11.850 euro).
Il vino pregiato. Non avendo problemi per arrivare alla fine del mese, Ronaldo può concedersi di tutto, compreso cenare nel famoso ristorante Scott's di Mayfair, a Londra, e spendere 27.000 dollari (24.600 euro) in un quarto d'ora per due bottiglie di vino rosso.
Le auto. Da grande appassionato di auto, Ronaldo ha un garage che sembra la succursale di un concessionario di lusso e fra Lamborghini Aventador Bentley, Porsche, Mercedes, Bugatti e Rolls Royce, ha davvero l'imbarazzo della scelta sulla vettura da usare per andare ogni giorno per andare all'allenamento.
L'auto più cara del mondo. Ma il pezzo più pregiato della sua collezione di vetture si dice sia la super esclusiva (ne esiste infatti un solo modello) Bugatti La Voiture Noire, che coi suoi 18 milioni di dollari (16,4 milioni di euro) è l'auto più costosa del mondo. In Spagna ne sono sicuri: il bolide da 420 km/h che uscirà nel 2021 è stato acquistato da Ronaldo.
Le case. Non è certo una sorpresa che un atleta multi milionario possieda delle case un po' ovunque nel mondo, a maggior ragione uno come Ronaldo che si è spostato più volte in carriera. E una delle proprietà più spettacolari del suo portfolio immobiliare è senz'altro la villa da 7 milioni di dollari (6,4 milioni di euro) che possiede nell'esclusiva enclave de La Finca di Madrid, ma degno di nota è pure l'appartamento all'interno delle Trump Towers di Manhattan (valore 18,5 milioni di dollari, quasi 17 milioni di euro), come pure quello lungo la centralissima Avenida da Liberdade a Lisbona.
Il jet privato. L'oggetto più costoso che CR7 possiede è però l'aereo privato Gulfstream da 32 milioni di dollari (29 milioni di euro) che usa sia per andare in vacanza con la fidanzata Georgina Rodriguez e i quattro figli sia per spostarsi per affari o per andare a ritirare qualche premio. Si dice che i soldi non facciano la felicità e forse è anche vero, ma di certo aiutano a viaggiare più comodi.
Ronaldo: «Voglio restare giovane mentre invecchio: “anziani” come me ce ne sono in squadre come la Juve?» Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. «Il mio obiettivo è di rimanere giovane man mano che invecchio e quindi competitivo. C’è giocatore che gioca tanto quanto me alla stessa età, in una squadra come la Juventus?». Cristiano Ronaldo si confessa a France Football, in un’intervista esclusiva che uscirà interamente martedì sul magazine francese. «Devi essere intelligente per durare - aggiunge il fenomeno portoghese, ormai prossimo ai 35 anni -. A 19-20 anni ho capito che il calcio era una questione di numeri: titoli, record e gol. Per prima cosa serve il talento: senza quello, non puoi fare molto. Dopo, il lavoro, perché il talento senza lavoro è inutile. Nulla cade dal cielo. Non sarei mai arrivato dove sono senza la mia voglia di lavorare. Se dipendesse da me, non giocherei che partite importanti, quelle della Nazionale e della Champions. Sono quel tipo di gare che mi motivano, perché c’è interesse, un ambiente difficile, pressione. Poi è chiaro che bisogna essere professionisti ogni giorno per rispetto della tua famiglia e del club che rappresenti e che ti paga per questo, quindi dai sempre il meglio». Per ora è ancora tempo di dare la caccia a gol, vittorie e trofei, come il sesto Pallone d’Oro. «Settecento gol è un numero impressionante e mi rende ancora più orgoglioso il fatto che pochi giocatori abbiano raggiunto quella cifra - rileva -. Il mio preferito? La rovesciata alla Juve in Champions League perché era un gol che cercavo di segnare da anni». Ma è anche l’ora di continuare l’eterno duello con Messi: «Essere uno di fronte all’altro in Spagna ci ha permesso di essere migliori, più performanti. Al Real, ho sentito la sua presenza più che a Manchester, quindi avevo un po’ più di pressione. Ma da un certo punto di vista, è stata una sana rivalità». CR7 quindi assicura: «Alla fine della carriera mi staccherò da tutto».
Cristiano Ronaldo re di Instagram: "Nel 2018 ha guadagnato oltre 40 milioni di euro". Sarebbero cifre da capogiro quelle guadagnate da Cristiano Ronaldo tramite Instagram stando a quanto emerge da uno studio effettuato da un sito inglese, che avrebbe stimato in circa 43 milioni gli introiti derivanti dai social per CR7. Francesca Galici, Domenica 20/10/2019, su Il giornale. Cristiano Ronaldo è un campione sul rettangolo di gioco ma anche di incassi e i numeri diffusi sui suoi presunti guadagni social sembrano confermarlo. È stato il portale britannico Buzz Bingo a fare i conti in tasca al più grande giocatore portoghese di tutti i tempi, che pare abbia guadagnato circa 43 milioni di euro solo con i suoi post. Se i numeri diffusi in questi giorni fossero confermati, Cristiano Ronaldo sarebbe lo sportivo che guadagna di più sui social network e cifre alla mano si potrebbe affermare che per lui il calcio è diventato quasi un hobby (esagerando), ben remunerato, ma niente di più. Sì, perché pare che il guadagno di Cristiano Ronaldo derivante dai social, soprattutto da Instagram, sia addirittura superiore a quello che il calciatore percepirebbe dalla Juventus. I conti, anche se sommari, in questo caso sono presto fatti. L'ingaggio dichiarato con la Juventus ammonta a circa 31 milioni di euro netti all'anno, circa 52,2 milioni di euro lordi. La compagine bianconera è impegnata nel campionato italiano e nelle competizioni internazionali, quindi si stima che con la Vecchia Signora il campione giochi almeno 46 gare. Ciò significa che il suo guadagno, considerando il solo stipendio della Juventus, è di circa 670 mila euro per ogni volta che entra nel rettangolo di gioco. Questo fa di Cristiano Ronaldo il giocatore con il guadagno da club più elevato di tutta la massima serie. Inoltre, a essere ottimisti per il cammino della Juventus nelle competizioni nelle quali è impegnata, il guadagno per singola prestazione scenderebbe a circa 540 mila euro a gara se giocasse il numero massimo di partite previste, ossia 57. Secondo il sito britannico, ammonterebbero a circa 43 milioni di euro i ricavi del campione derivanti dai post sponsorizzati di Instagram. I dati sono relativi al 2018 e, scorrendo il suo profilo, gli analisti hanno contato appena 49 post sponsorizzati nell'arco di 12 mesi solari. Questo significherebbe che per ogni post che ha pubblicato come sponsorizzato, Cristiano Ronaldo avrebbe guadagnato una cifra che si aggira sui 875 mila euro. Fantascienza per i comuni mortali.
Instagram, Cristiano Ronaldo guadagna 43 milioni, il doppio di Messi. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it. Cristiano Ronaldo ha guadagnato più di tutti su Instagram durante lo scorso anno, doppiando il suo eterno rivale Leo Messi (finito al secondo posto) e staccando nettamente anche celebrità del calibro delle sorelle Kendall e Kylie Jenner (rispettivamente, al terzo e ottavo posto) e di Selena Gomez (quinta). A certificare il successo social della stella portoghese della Juventus per quanto concerne i prodotti pubblicizzati sulla propria pagina Instagram è stato uno studio di Buzz Bingo che ha preso in esame il numero totale di post promossi dai personaggi famosi negli ultimi dodici mesi e ha diviso poi tale importo per le entrate dichiarate in quello stesso periodo. Risultato: grazie ai 49 post sponsorizzati da 975.000 dollari l'uno (882.000 euro), CR7 ha incassato qualcosa come 47,8 milioni di dollari (pari a 43,2 milioni di euro), mentre Messi si è dovuto accontentare (si fa per dire) di 23,3 milioni di dollari (21,1 milioni di euro), a fronte di 36 post promozionali da 648.000 dollari (586.000 euro) ciascuno. E ancora più distante si è piazzata la maggiore delle sorelle Jenner, con 15,9 milioni di dollari (14,4 milioni di euro), che ha comunque guadagnato più delle sorelle Kylie (3,8 milioni di dollari - 3,4 milioni di euro) e Khloe Kardashian (1,2 milioni di dollari - 1 milione di euro). Guardando però la top-10, il dato che balza all'occhio è la nutrita presenza di calciatori, visto che ce ne sono addirittura sei: oltre a Ronaldo e Messi, figurano infatti anche David Beckham (quarto, con 10,7 milioni di dollari - 9,7 milioni di euro); Neymar (sesto, con 7,2 milioni di dollari - 6,5 milioni di euro); Zlatan Ibrahimovic (settimo, con 4 milioni di dollari - 3,6 milioni di euro) e Ronaldinho (nono, con 2,6 milioni di dollari - 2,3 milioni di euro). Della serie, le influencer della moda saranno anche brave a vendere i prodotti, ma se vogliono andare sul sicuro, i boss della pubblicità preferiscono puntare sulle stelle dello sport, in grado di raggiungere un pubblico più vasto e, di certo, più eterogeneo.
Ettore Livini per “la Repubblica” il 16 ottobre 2019. I gol, i record («sono loro che mi inseguono » minimizza lui), i palloni d' oro e le Champions League passano. L' ombra che accompagna i successi di Cristiano Ronaldo no. Anzi, è proprio nei giorni di festa - oggi per la 700esima rete in carriera - che la ferita si riapre. La prova? Le lacrime e le parole di CR7 durante l' intervista all' inglese Itv del mese scorso. «Sono il numero uno. Mamma, fratelli e amici mi hanno visto vincere tutto - ha detto commosso guardando un video inedito del padre José Dinis Aveiro, scomparso nel 2005 - Lui no». Un piede magico e un conto in banca a tanti zeri non bastano ad avere tutto. E il numero sette della Juventus, malgrado siano passati 14 anni, fatica a farsene una ragione. «Cristiano non è né un robot né un supereroe. E il vuoto lasciato da Dinis è il suo tallone d' Achille», spiega Paulo Sousa Costa, amico di famiglia e autore della biografia ufficiale ("Madre Coraggio" ) di mamma Dolores. Di lei - la colonna che ha tenuto in piedi la famiglia nei tempi durissimi dell' infanzia di CR7 - si sa tutto. Del marito, morto per le conseguenze di una cirrosi epatica dopo una lunga storia di dipendenza dall' alcol, no. «Nemmeno io lo conosco al 100%, non ho mai avuto una conversazione da padre a figlio con lui», ha ammesso il giocatore. «Ma se Ronaldo è diventato il papà che è - assicura Sousa Costa - è grazie a quello che ha imparato dal tormentato rapporto con lui». Che malgrado una vita con tanti bassi e pochi alti «si è conquistato un posto speciale nel cuore dei figli», conferma Guillem Balague, autore di "CR7 - La biografia" edito da Piemme. Ci fosse bisogno di una prova concreta, basta guardare la foto ufficiale di famiglia pubblicata nella biografia di Dolores. Un ritratto lungo tre generazioni, scattato dopo la morte del "capostipite". Ma dove tutti assieme - racconta Sousa Costa - «hanno deciso di inserire photoshoppandola la foto di Dinis», seduto tra figli e nipoti. Il rapporto tormentato tra Cristiano e il padre ha una ragione semplice: quando il campione portoghese è nato, la vita di pai - come lo chiama lui - era già stata segnata dalla guerra. A 21 anni «il ragazzo che mi ha conquistato perché sapeva farmi ridere» - scrive la moglie nella biografia - è stato spedito con il Battaglione 4910 a combattere in Angola. Quando un anno dopo la nave Niassa lo ha riportato a casa, non era più lui. «Non era ferito nel corpo, ma nell' anima» è la tesi di Balague. Lavoro per i veterani, a Madeira, non ce n' era. E molti di loro, Dinis incluso, si sono persi nell' alcol. «Dolores ha capito subito che avrebbe dovuto arrangiarsi da sola - spiega Sousa Costa - Ma al marito, con cui da allora le cose non sono state più come prima, ha chiesto una cosa: continuare ad amare i figli». Lei non gli ha mai tolto questo ruolo. E lui - malgrado tutto - ne è sempre stato all' altezza.
«Quella di Cristiano è stata una famiglia dove la madre ha fatto anche da padre», dice Sousa Costa. Orfana di una presenza paterna costante, con il filo invisibile della passione per il calcio a unire pai e figlio: Dinis ha fatto esordire Ronaldo nell' Andorinha, la squadra dove ha trovato lavoro da magazziniere. È lui che gli ha scelto come padrino al battesimo Fernando Barros Sousa, capitano del Nacional Madeira e suo idolo personale. I due sono arrivati in ritardo alla cerimonia («Fernando stava giocando », si è giustificato babbo Aveiro con il parroco). Ma sarà proprio Barros Sousa a regalare al figlioccio il primo pallone con cui lui lascerà subito a bocca aperta tutto il barrio di Quinta Falcao, il suo quartiere. «Ci diceva che suo figlio sarebbe diventato il miglior giocatore del mondo e tutti gli davamo del pazzo » ha ricordato a Espn l' ex-commilitone in Angola Alberto Martins. Invece vedeva più lontano di tutti. E malgrado un' esistenza sull' ottovolante - si dice abbia tentato di vendere la maglietta indossata dal figlio all' esordio con il Manchester per comprarsi da bere - è stato sempre presente quando Dolores e Cristiano hanno avuto bisogno di lui. «È stato lui a gestire il primo trasferimento importante di Ronaldo, quello allo Sporting di cui era supertifoso », dice Sousa Costa. A lui il club di Lisbona ha versato il primo stipendio di 10 mila scudi - 50 euro circa - del giovane fenomeno. Dinis non l' ha mai seguito all' estero come la mamma: «Troppo caos, mi innervosisce vedere le sue partite», ha spiegato nel video di Itv. Quando si è ammalato ha rifiutato le offerte insistenti del figlio, pronto a farlo curare nei migliori ospedali del mondo. Dicendo "sì" solo quando le condizioni si sono aggravate e CR7 l' ha portato - ormai era tardi - a Londra. Babbo Aveiro è morto il 6 settembre 2005. Cristiano quel giorno era in trasferta in Russia con la nazionale. E a dargli la notizia - con parole delicatissime - prima del match è stato l' allenatore Felipe Scolari, che da quel giorno - misteri della psiche - lui chiama papà. Ronaldo ha deciso di giocare lo stesso «la partita più difficile della vita». Come se correre dietro a un pallone fosse il modo migliore per salutare il padre. E poi ha provato a riempire il vuoto riempiendo di ritratti ad olio di Dinis le sue case. «Una fonte riservata mi ha detto che Cristiano, da sempre facilissimo alle lacrime, ha smesso di piangere quel 6 settembre», racconta Balague. Le lacrime, se mai sono sparite, sono rispuntate il mese scorso davanti a quei due minuti di riprese in cui papà - appoggiato all' ingresso della casa di Sao Gonçalo regalo del figlio - parla di lui: «Sono orgoglioso, tutti dicono che è un fenomeno ». «Mi ha trattato come un diamante - ha commentato commosso Ronaldo - Tutto quello di bello che ho avuto è perché lui mi aiuta dall' alto». Lunedì sera, dopo la rete all' Ucraina, ha alzato gli occhi verso il cielo. Quei 700 gol, in fondo, li hanno segnati in due.
Cristiano Ronaldo, la storia del padre morto di alcolismo nel 2005«Non ha visto chi sono diventato». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Della famiglia e degli affetti personali di Cristiano Ronaldo si sa ormai tutto. Dal profondo legame con la madre Maria Dolores Aveiro, con lui ad ogni tappa della sua stellare carriera, al rapporto speciale con il fratello Hugo e le sorelle, Liliana ed Elma. Senza dimenticare, ovviamente, i quattro figli e le numerose fidanzate e amanti avute. Poco si conosce, però, del padre José Dinis Aveiro, morto a soli 52 anni per un’insufficienza epatica legata a suoi problemi di alcolismo. Di lui il fuoriclasse della Juventus è tornato a parlare a distanza di molto tempo in occasione di un’intervista concessa a Piers Morgan per il programma «Good Morning Britain», colloquio che andrà in onda nelle prossime ore. E lo ha fatto tra le lacrime. Durante la chiacchierata con Morgan, a Ronaldo è stato infatti mostrato un video, rimasto segreto fino ad oggi, del padre. In un’intervista, rilasciata prima degli Europei del 2004, Aveiro rivelava quanto orgoglioso fosse dei grandi successi raggiunti dal figlio nella prima parte della carriera. «Non ho mai visto quel video, è stato incredibile», confessa CR7 all’intervistatore. «La cosa che mi dispiace di più è che mio padre non ha mai visto quello che sono diventato», aggiunge poi. Nel 2005, anno della scomparsa di Aveiro, Ronaldo era ancora in rampa di lancio nel Manchester United di Alex Ferguson. Solo due anni dopo sarebbe arrivata la prima delle cinque Champions League in bacheca. Fino agli 11 anni, età a cui ha lasciato l’isola di Madeira per trasferirsi nelle giovanili dello Sporting Lisbona, Cristiano fu profondamente legato al papà, giardiniere comunale a Funchal, dove la famiglia viveva molto umilmente. A rivelare come i due fossero quasi inseparabili è stata la stessa madre del fuoriclasse ai tempi dei Red Devils in un’intervista al Sunday Mirror. Fu Aveiro, grande fan di Ronald Reagan, attore e poi presidente degli Stati Uniti, a scegliere il nome Ronaldo per il figlio che seguì anche nelle giovanili dell’Andorinha, primo club di CR7, dove si occupava delle pulizie per arrotondare lo stipendio. Il vizio dell’alcol, tuttavia, lo stava consumando già in quegli anni. Nemmeno quando Cristiano si propose di pagare una clinica di riabilitazione con i primi guadagni arrivati dal calcio riuscì a trovare la forza di combattere la dipendenza. La notizia della morte sconvolse Ronaldo poco prima di un match di qualificazione ai Mondiali che il Portogallo doveva disputare contro la Russia a Mosca. «La morte di mio padre ovviamente ha influenzato tutto - disse Ronaldo pochi mesi dopo -. Sapevo che il dolore sarebbe passato e che la cosa più importante di tutte per me era quella di continuare con il mio lavoro». Pur riconoscendo di non averlo mai conosciuto fino in fondo a causa della sua dipendenza, oggi Ronaldo non ha alcun rancore nei confronti del padre. Lo dimostra una foto pubblicata un paio di anni fa su Instagram per festeggiare il compleanno del genitore. «Sarai sempre con noi. Tanti auguri papà», scrisse sotto una foto che ritraeva lui e i figli accanto a un ritratto di Aveiro. Nella famiglia di Ronaldo, il padre non è stato l’unico con problemi di dipendenze. Il fratello Hugo in passato ha avuto problemi di droga. Dopo una prima ricaduta, fu proprio Ronaldo ad aiutarlo mandandolo in rehab. «Cristiano ha visto molto da vicino i danni causati dall’alcol e dalla droga - disse la madre nella stessa intervista al Sunday Mirror -, questa è la ragione per cui è l’uomo che è oggi. Non ha vizi, non beve e non fuma. La sua unica “droga” si chiama calcio».
Le lacrime di Ronaldo: «Papà non ha visto chi sono diventato». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 su Corriere.it da Gaia Piccardi. CR7 e il ricordo di José, morto di cirrosi prima dei trionfi: «Era sempre ubriaco, mai avuta una conversazione». Sentire tuo padre che ti racconta con tanto orgoglio deve significare molto per te, Cristiano, dice Piers Morgan, vecchio lupo di mare della televisione inglese, conduttore di «Good Morning Britain». Con CR7, nella bella e bianchissima casa sulle colline di Torino, sta filmando un’intervista (in onda stasera su Itv) che farà il giro del mondo. Perché il migliore, davanti alle immagini di José Dinis Aveiro registrate a Lisbona nel 2004 prima della finale dell’Europeo tra Portogallo e Grecia (morirà di cirrosi epatica 14 mesi dopo a 52 anni), getta la maschera di fuoriclasse perfetto e piange. Singhiozzi con il naso che cola, da bambino non abbastanza amato. «Non ho mai conosciuto mio padre al 100% — spiega —, era un alcolizzato. Non ho mai avuto con lui una vera conversazione. Oggi sono il numero uno del calcio ma lui non ha potuto vedermi. I premi, quello che sono diventato: non ha visto niente...». Il 5 febbraio 1985, quando Cristiano è venuto al mondo a Funchal (isola di Madeira) quarto e indesiderato figlio di Maria Dolores e José Dinis, sopravvissuto al tentativo di aborto per diventare una stella interplanetaria dello sport, il padre era già sprofondato nella depressione più cupa. Quel garzone di pescheria che a 18 anni faceva ridere Dolores, si era trasformato in un quinto figlio da accudire. La chiamata alle armi per la guerriglia in Angola, Guinea Bissau e Mozambico — a metà degli Anni 70 colonie portoghesi che lottavano per l’indipendenza — aveva restituito alla vita civile un relitto invecchiato di dieci anni in dieci mesi. Mentre Dolores accompagnava Cristiano 12enne all’aeroporto, diretto sulla terraferma, a Lisbona, per il provino con lo Sporting, José era al bar. E da lì non sarebbe più uscito. Adesso che è diventato la miglior versione di suo padre, CR7 ama circondarsi di fotografie e immagini che lo ritraggono (la casa di Manchester ne era tappezzata, in quella di Torino c’è anche un ritratto a olio) e si ricorda sempre di dedicargli un pensiero (spesso, via social). «Dove hai preso questo video? Non l’avevo mai visto... — ha chiesto il portoghese a Morgan —. Devi darmelo: voglio farlo vedere alla mia famiglia». La compagna Georgina, mamma di Alana Martina, ultima dei quattro figli del campione: «L’amore della mia vita. Un giorno ci sposeremo, certo: piace molto anche a mia madre». E Dolores con le sorelle Elma e Katia (c’è anche un fratello, Hugo), architrave del delicato equilibrio psicofisico del centravanti della Juve. Che affronta anche l’argomento più indigesto: l’archiviazione dell’inchiesta per presunto stupro dell’americana Kathryn Mayorga. «La televisione diceva un sacco di cose cattive su di me, Cristiano junior stava entrando in salotto. Ho cambiato canale. Mi sono vergognato».
“LE ACCUSE DI STUPRO? ERO IN IMBARAZZO CON I MIEI FIGLI”. Da corriere.it il 18 settembre 2019. Cristiano Ronaldo ha parlato per la prima volta pubblicamente del caso Mayorga. In una lunga intervista rilasciata a Itv, il portoghese dopo aver pianto per il padre, alcolizzato e scomparso prima che lui divenisse campione, ha affrontato l’argomento delle accuse di stupro mosse dall’ex modella del Nevada Kathryn Mayorga per una presunta violenza avvenuta dieci anni fa in un hotel di Las Vegas. «Hai una ragazza, hai una famiglia, hai dei figli. Quando giocano con la tua onestà è difficile», ha raccontato Ronaldo, che non ha nascosto tutto il proprio dispiacere per la vicenda, conclusasi a luglio con il ritiro di tutte le accuse. Il portoghese ha raccontato un episodio che lo ha profondamente segnato: «Ricordo che ero solo in salotto con la mia ragazza a guardare la televisione per sentire le notizie e parlavano di Cristiano Ronaldo: ha fatto questo, ha fatto quello... A un certo punto ho sentito i miei figli che scendevano le scale e ho cambiato canale. Ero in imbarazzo. Non volevo che sentissero come parlavano del padre. Mi faceva sentire davvero male». Il caso Mayorga era riesploso nei mesi scorsi, quando il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva tirato fuori alcuni documenti, ottenuti attraverso il sito Football Leaks, tra cui un accordo riservato stipulato nel 2009 da Ronaldo con l’ex modella per non rivelare l’accaduto dietro un pagamento di 375 mila dollari. Secondo la ricostruzione di Kathryn Mayorga, all’epoca 25enne, sarebbe stata violentata dal calciatore in una stanza d’albergo a Las Vegas, dove il portoghese era in vacanza prima del suo passaggio dal Manchester United al Real Madrid. Ronaldo si è sempre proclamato innocente: «Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. Mi rifiuto di alimentare lo spettacolo mediatico creato da persone che cercano pubblicità a mie spese». E gli inquirenti gli hanno dato ragione. Tutte le accuse nei suoi confronti sono cadute: due mesi fa la procura di Las Vegas, in un comunicato, ha parlato di «mancanza di prove certe sulla base delle informazioni fin qui ricevute per documentare uno stupro oltre ogni ragionevole dubbio».
Da corrieredellosport.it il 20 settembre 2019. "Avevo 12 anni e non avevamo soldi. Vivevo insieme ad altri piccoli calciatori provenienti da altre parti del Portogallo. E' stato un momento difficile, lontano dalla mia famiglia. C'era un Mc Donalds nelle vicinanze. Abbiamo chiesto gli hamburger che erano rimasti e una signora che si chiamava Edna, insieme ad altre due ragazze, ci hanno dato ciò che era rimasto. Spero che questa intervista mi aiuti a trovarle" sono le parole di Cristiano Ronaldo in un'intervista di qualche giorno fa a Good Morning Britain. Il calciatore portoghese della Juventus ha ricordato la sua infanzia in Portogallo, aggiungendo anche: "Vorrei invitarle a cena con me a Torino o a Lisbona . Non ho mai dimenticato quel momento e vorrei restituire ciò che mi hanno dato". Oggi, è arrivata la conferma di una delle commesse del McDonalds, Paula Leca, che ha dichiarato a Radio Renascenca: "Aspettavano vicino alla cassa, come se non volessero nulla. E quando c'erano troppi hamburger, il nostro manager dava loro il permesso di darglieli. Uno di loro era Cristiano Ronaldo, il più timido". Poi, sull'invito a cena: "Nessuno credeva a questa storia, adesso la gente è consapevole che non mi sono inventata nulla. Se mi invitasse realmente a cena sicuramente ci andrò, e lo ringrazierò".
Ronaldo jr e la vecchia casa di Lisbona del papà: "Vivevi qua, possibile?". L'attaccante della Juve si racconta a un'emittente portoghese: "Il 2018 l'anno più difficile della mia vita. Quando smetterò? Magari a 41 anni". La Repubblica il 20 agosto 2019. "Papà, ma tu vivevi qui?". Cristiano jr, il figlio di Ronaldo, ha fatto questa domanda quando il padre, qualche tempo fa, lo ha portato a vedere la modesta pensione di Lisbona dove alloggiava quando, ancora ragazzino, aveva deciso di cercare la fortuna nel mondo del calcio e giocava nelle giovanili dello Sporting. A raccontare l'episodio è lo stesso CR7 in un'intervista all'emittente portoghese TVI registrata nella lussuosa residenza del campione bianconero a Torino. "Non ci poteva credere - ha detto il portoghese riferendosi al figlio - Mi faceva piacere fargli vedere dove sono cresciuto per qualche tempo. Cristianinho lo avevo già portato a Madeira e quindi gli ho fatto vedere la vecchia pensione di Lisbona. C'erano le stesse persone che vi lavoravano allora e anche io sono rimasto colpito". Ronaldo ha poi ricordato che "il 2018 è stato l'anno più difficile della mia vita a livello personale". Il riferimento è a quanto è capitato al campione fuori dal campo, prima con le questioni col fisco spagnolo e poi con le accuse di stupro nell'ambito del caso Mayorga. "Fa male quando mettono in discussione il tuo onore - afferma l'attaccante della Juventus - Ma grazie a Dio è stato dimostrato ancora una volta che ero innocente. Gli amici, la famiglia, chi mi vuole bene lo sapeva ma è stata dura ugualmente". "Non ho bisogno del calcio per vivere bene, sono tranquillo a livello finanziario. Quello di cui ho bisogno sono progetti allettanti e quello della Juve lo è. Mi è sempre piaciuta questa squadra, è la migliore in Italia e fra le migliori al mondo. E dopo aver vinto in Inghilterra e Spagna, ho vinto anche in Italia", ha detto Ronaldo con riferimento alla scelta fatta un anno fa, quando ha deciso di lasciare il Real per dire sì alla Juventus. Che con lui sogna di tornare sul tetto d'Europa. "Tutti vogliono vincere la Champions, anche noi, ma non dobbiamo viverla come un'ossessione, lasciamo che le cose facciano il loro corso e andiamo passo per passo. E poi bisogna ricordare che i soldi non fanno grandi squadre. Guardate da quanti anni Barcellona, Bayern o Psg non vincono la Champions". Ronaldo, nonostante i suoi 34 anni, si sente ancora nel pieno delle sue forze e non pensa al ritiro. "Potrei chiudere la carriera il prossimo anno ma potrei giocare anche fino a 40, 41 anni - continua - Non so, quello che dico sempre è che bisogna godersi il momento. Il presente è eccellente e devo godermelo. Credo che nessun giocatore detenga più record di me", rivendica ancora l'attaccante portoghese, per il quale lasciare la scorsa estate il Real Madrid per approdare in bianconero "non è stato facile". "Ho vissuto lì per nove anni, il 60% della mia carriera. Ma volevo una sfida diversa e sono molto felice di essere qui". Lasciare Madrid è stato ancora più complicato per il figlio Cristianinho "perché lì aveva i suoi amici ma lo preparavo da mesi. Capiva che c'era la possibilità che il padre lasciasse il Real, non ci credeva ma sapeva che poteva succedere. Sono una persona a cui non piace rimanere in una comfort-zone e Madrid lo era abbastanza. Volevo una nuova sfida". CR7 racconta anche dell'addio allo Sporting e smentisce la leggenda secondo la quale il Manchester United lo avrebbe preso dopo un'amichevole giocata coi Leoes all'Alvalade. "In realtà c'erano stati contatti con tante altre squadre, il Valencia per esempio. Ho incontrato Wenger e stavo per andare all'Arsenal. Ho parlato col Barcellona, col Real, con l'Inter. Ma dopo quella partita lo United, che era già interessato, lo era ancora di più e hanno voluto dare un'accelerata alla trattativa". Tanti i premi individuali raccolti durante la sua carriera "e molte volte in cui non ho vinto, ho sentito che era giusto". Dall'altro lato "chi vince, però, ha sempre ragione e io sono uno dei migliori nel mio lavoro, sono ormai nella storia del calcio". "Non è un caso se io e Messi siamo gli unici ad aver vinto cinque Palloni d'Oro. E ho ancora le motivazioni per cercare di vincere ancora, a livello di squadra e individuale, altrimenti avrei già smesso. Sarebbe facile, perché non mi manca nulla, ma quello che mi muove è la passione per il calcio e la mia voglia di vincere".
HA RAGIONE CRISTIANO RONALDO: “OGGI VALGONO 100 MILIONI DEI GIOCATORI CHE NON HANNO ANCORA DIMOSTRATO NULLA”. Salvatore Reggio per Il Corriere della Sera il il 21 agosto 2019. Sono passati 22 anni dal suo arrivo a Lisbona per giocare nelle giovanili dello Sporting. Da quel giorno Cristiano Ronaldo di strada ne ha fatta tantissima, vincendo in ogni angolo del mondo con le maglie di Manchester United, Real Madrid e Juventus moltiplicando sempre di più il suo ingaggio. Tempo fa, ha raccontato il bianconero all’emittente portoghese TVI, ha portato il figlio Cristiano Jr a visitare la casa dove abitava da piccolo, raccontando la sua reazione: «Papà, ma tu vivevi qui? Non ci poteva credere. Mi faceva piacere fargli vedere dove sono cresciuto per qualche tempo. Cristianinho lo avevo già portato a Madeira e quindi gli ho fatto vedere la vecchia pensione di Lisbona». Poi: «Ora non ho bisogno del calcio per vivere bene, sono tranquillo a livello finanziario. Quello di cui ho bisogno sono progetti allettanti e quello della Juve lo è. Mi è sempre piaciuta questa squadra, è la migliore in Italia e fra le migliori al mondo, ha sempre combattuto per imporsi in Europa. Tutti vogliono conquistare la Champions, anche noi, ma non dobbiamo viverla come un’ossessione». Nell’intervista Cristiano Ronaldo ha analizzato il calcio di oggi, fatto di spese folli e valutazioni pazze: «Oggi è difficile dire quanto valgo io, qualunque giocatore costa 100 milioni e non ha ancora dimostrato nulla. Joao Felix è un caso a parte. Ma se guardi ci sono portieri e difensori valutati anche 80 milioni di euro, non sono d’accordo ma è il mercato di adesso, è il momento che viviamo». Basti pensare che Dembelé viene valutato dal Barcellona ben 100 milioni di euro o Harry Maguire, difensore, pagato 88 milioni dallo United al Leicester. Sulla carriera: «Qualche anno fa, quando perdevo stavo peggio. A volte non cenavo, entravo in stanza e ne uscivo il giorno dopo. Con la maturità, ho imparato che la cosa più importante nella vita non è il calcio. Quando mi ritiro? Potrei chiudere la carriera il prossimo anno ma potrei giocare anche fino a 40, 41 anni». Infine, un pensiero anche sul caso Mayorga, la donna che lo accusava di violenza sessuale: «Penso sia stato forse l’anno più difficile per me, ma non professionalmente parlando. Quando le persone mettono in dubbio il tuo onore, fa male. Soprattutto perché ho una grande famiglia, una compagna, quattro figli, uno di 9 anni che è intelligente e capisce già. In casa entrava di tutto per colpa di un giornale, è stato davvero difficile, questa vicenda ha provato tutta la mia famiglia. È un caso del quale non mi sento a mio agio a parlare, ma grazie al cielo si è dimostrato che sono innocente».
"CR7? A 17 ANNI PENSAVA SOLO AL FISICO. LE DONNE? MA VA…". Jacopo Gerna per Gazzetta.it il 30 aprile 2019. Tra il primo e il seicentesimo gol con un club c’è tutta la straordinaria evoluzione del Cristiano Ronaldo calciatore. Quel 7 ottobre 2002, CR7 in maglia Sporting spaccò la difesa della Moreirense con una percussione centrale incontenibile. Sabato scorso ha punito Samir Handanovic con un sinistro secco e preciso, un tocco e via, senza fronzoli. Quasi 17 anni fa, il suo partner d’attacco era il bielorusso Vitali Kutuzov, arrivato a Lisbona dal Milan e che poi avrebbe girato mezza serie A dal 2004 con la Samp al 2011 con il Bari.
Che cosa ricorda di quella sera?
«Fu proprio una bella giornata: io segnai il primo gol alla mezz’ora con un diagonale di destro, poi doppietta di Cristiano e 3-0 finale. Ma più dei gol ricordo le sue emozioni: era pazzo di felicità e nell’esprimerla si vedevano tutti i suoi 17 anni».
Avrebbe mai pensato che quel ragazzino avrebbe scritto la storia del calcio?
«Ma no, come avrei potuto? Era troppo giovane. Sicuramente percepivi subito che aveva una velocità e una tecnica speciali, ma già quando andò da Ferguson allo United e lo vedevo giocare dicevo “mamma mia, quanto è diventato forte”. E da allora è migliorato ancora tanto».
Quando dividevate la camera, in che lingua parlavate?
«Portoghese, io mi ero messo subito sotto. Cristiano sapeva che arrivavo dal Milan e mi faceva mille domande: a quei tempi vestire la maglia rossonera era il top assoluto. Mi chiedeva di Maldini, Costacurta, Inzaghi e Sheva. E del centro sportivo di Milanello, all’epoca all’avanguardia nel mondo come qualità del lavoro sui calciatori. Voleva sapere come si allenavano i campioni di quella squadra e come progredivano fisicamente. Io non ero così, pensavo più al pallone che al fisico».
Come si poneva verso gli altri compagni?
«Da persona molto tranquilla e motivata a fare bene il proprio lavoro. Dal punto di vista umano non era facilissimo per lui, perché eravamo una squadra composta da giocatori “vecchi” e non aveva molti argomenti per parlare con noi vista la differenza di età. Infatti appena poteva stava con la sua famiglia, che è sempre stata molto presente nella sua vita anche e soprattutto dopo la morte del padre».
Non le ha mai chiesto delle bellezze bielorusse?
«Ma va, zero. A quei tempi parlavamo solo di calcio, le donne erano fuori dai nostri discorsi».
Nel lavoro quotidiano era già così maniacale?
«Si allenava tanto e bene, ma non da fissato o più di noi compagni. Di sicuro aveva una cura del corpo molto al di sopra della media, non ho più visto nessuno così preso da questo aspetto. In spogliatoio si toglieva la maglietta e stava lì davanti allo specchio per molto tempo. Analizzava ogni centimetro del suo corpo: spalle, addome, gambe... E passava molto tempo in palestra, chiedendo a tutti come irrobustirsi. Ma non lo faceva per andare in copertina sulle riviste, voleva solo diventare un calciatore migliore».
Il CR7 dello Sporting era un’ala veloce che puntava l’uomo, quello della Juventus è uno stoccatore micidiale.
«A me personalmente piaceva di più la prima versione, ma cosa vuoi dire a una macchina da gol del genere. Puoi solo battergli le mani».
Quanto avrà accusato l’eliminazione con l’Ajax?
«Per me non molto. Lui ha già vinto tante Champions e soprattutto sa che una partita storta può capitare. L’anno prossimo ci riproverà con ancora più cattiveria».
"CRISTIANO RONALDO? SEMPLICIOTTO, IRRITANTE E PUERILE". LO SCRITTORE JAVIER MARÌAS, TIFOSISSIMO DEL REAL MADRID, MASSACRA CR7: "GLI MANCA L’INTELLIGENZA DI DI STEFANO. ARRABBIARSI CON LUI SAREBBE COME PRENDERSELA CON UN BAMBINO DI 5 ANNI. DOPO OGNI GOL L’ABBIAMO VISTO ATTEGGIARSI IN MODO RIDICOLO E VANITOSO. SI SAREBBE DOVUTO DEDICARE A UNO SPORT INDIVIDUALE". Javier Marìas per Vanity Fair 18 luglio 2018. Nel corso della vita ho visto ritirarsi o andarsene dalla mia squadra, il Real Madrid, numerosi giocatori-simbolo, e quasi sempre ho provato rammarico o rabbia. La rabbia mi ha colto quando, ancora bambino, ho visto il Real decidere ingiustamente di fare a meno di Di Stéfano. Al punto che, dopo che l’astro firmò per l’Espanyol, un club minore di Barcellona, io e i miei compagni di scuola per un attimo siamo stati sul punto di diventare tifosi di quella squadra che ci era indifferente e che giocava a 600 chilometri di distanza. Già adulto, mi hanno oltremodo intristito i ritiri di Míchel e Butragueño, il «licenziamento» di Raúl, Guti e Casillas. Da adolescente ho vissuto come un dramma l’addio di Gento, l’unico calciatore ad aver vinto sei volte la Champions League... e l’ultima nel 1966. In periodi più recenti, mi è dispiaciuto veder andar via Laudrup e Zidane, più che altro perché non li avrei più potuti ammirare sul prato dello Chamartín. Invece, stranamente, l’annuncio che il più grande cannoniere della storia del club – 450 gol in 438 partite, se non sbaglio – ha firmato con la «rivale» Juventus mi ha lasciato piuttosto indifferente. È una perdita, senza dubbio: non c’è nessuno al mondo che, a trentatré anni compiuti, garantisca una cinquantina di gol per stagione (a parte Messi, ovviamente). Eppure, dal punto di vista sentimentale – e continuo a credere che nel successo planetario del calcio ci sia una forte componente di sentimentalismo –, nemmeno un secondo di disappunto, di nostalgia, nemmeno un solo pensiero cupo sulla fugacità di ogni cosa, perfino di quelle che si sono viste nascere. E si può senz’altro dire che la grande grandezza di Cristiano Ronaldo sia nata al Real Madrid. Il suo è un caso davvero paradossale. Si sarebbe dovuto dedicare a uno sport individuale (tennis, boxe, atletica, Formula 1: ha l’atteggiamento di un Cassius Clay), e tuttavia gli è toccato distinguersi in un gioco collettivo, un impiccio per lui. Ha ambizioni immense, ma solo a titolo individuale. Ovviamente, è felice che la sua squadra vinca, ma solo perché questo gli garantisce un riconoscimento in più sulla maglietta, un titolo in più sul curriculum, un record in più nella sua collezione privata. Sul campo l’abbiamo visto quasi infastidito, quasi triste, tutte le volte che il Real metteva a segno un gol importante, perfino decisivo, e non aveva segnato lui ma un compagno. Quando invece l’autore della prodezza era lui, l’abbiamo visto atteggiarsi in modo eccessivamente ridicolo e vanitoso, togliendosi la maglietta ed esibendo i muscoli in tensione, ululando come una scimmia, curandosi di schivare il più possibile i compagni di squadra per godersi da solo gli applausi e l’esagerata celebrazione. Non ricordo di averlo mai sentito ringraziare o complimentarsi con un suo compagno, nemmeno con chi gli aveva servito un gol su un piatto d’argento con un passaggio inverosimile e astuto. Cristiano è rimasto al Real per nove stagioni, ma non l’abbiamo mai sentito come un giocatore del Real Madrid, piuttosto del Real Ronaldo. Come se nella sua immaginazione fosse un eccellente tennista o boxeur, che ha però bisogno di altre persone in divisa intorno a sé. La Juventus non si deve certo aspettare che Ronaldo lotti per i suoi colori. Be’, a meno che non sia convinto che la maglia a righe bianconere gli stia particolarmente bene. Dal punto di vista umano è un sempliciotto, gli manca l’intelligenza di Di Stéfano o Cruyff o Zidane. È così privo di modestia che dovrebbe suscitare antipatia (tutti ricordano le dichiarazioni in cui assicurava di essere invidiato perché è bello, ricco e il migliore di tutti). La cosa curiosa è che non arriva nemmeno a fare antipatia, per quanto risulta puerile. La sua presunzione manca di spavalderia e risentimento, a differenza per esempio di Maradona. Arrabbiarsi con lui sarebbe come arrabbiarsi con un bambino di cinque anni che sta muovendo i primi passi nel mondo forgiandosi una personalità. E apparentemente non è questione di immaturità: gli anni passano, lui invecchia eppure è sempre lo stesso. In Spagna, poi, ha sofferto in modo indicibile il costante paragone con Messi. O, meglio detto, la netta evidenza (accettata anche dai tifosi meno fanatici del Real Madrid) che Messi è superiore. In pratica, l’unico a non averlo mai ammesso (almeno apertamente) è proprio lui, tali sono la sua forza di volontà e di autoconvincimento. Se Ronaldo ha qualcosa di straordinario è proprio questo: la sua volontà e la sua ambizione. Il che non è necessariamente negativo per una squadra. In certi casi può essere un elemento positivo, allo stesso modo in cui l’egoismo risulta a volte utile per la società: è facile che chi cerca con audacia il meglio per sé stesso finisca per contagiare gli altri e questo generi alla fine un miglioramento generale. A una squadra fanno bene uno o due giocatori che non sopportano di perdere, che si ribellano di fronte a una sconfitta, che non la incassano perché per loro si tratta di una questione personale, di un danno al loro prestigio, alla loro influenza, al loro valore, alle loro capacità. Conviene avere dei calciatori così perché trascinano gli altri, sebbene si preoccupino solo del loro palmarès individuale e di fare bella figura. Si diceva che Di Stéfano detestava perdere perfino a carte. Cristiano non è né potrebbe mai essere Di Stéfano (lui era più modesto e al tempo stesso più autorevole), ma, oltre alle sue indubitabili qualità calcistiche, ha senz’altro una virtù: desidera distinguersi al punto che se per riuscirci deve dare una mano, indottrinare e stimolare i suoi compagni più indolenti, pigri o docili, lo farà in modo instancabile. La sua sete di notorietà spesso lo rende anche irritante: il suo costante impegno a tirare tutte le punizioni vicine all’area, la sua arroganza e il modo in cui si precipita a tirare, i suoi tentativi di dribblare (ormai l’età glielo permette ben poco) finendo per perdere la palla. Misteriosamente, questi difetti gli vengono perdonati in un battibaleno. Non solo perché i suoi pregi sono molti di più, ma perché viene sempre visto come un bambino, forse ora un bambino di dieci anni. Noi tifosi lo apprezziamo e ci mancherà (per quanto temo che lui sentirà ben di più la mancanza del Real). Tuttavia, sappiamo di averlo sfruttato al meglio, di averlo spremuto fino all’ultima goccia. Con lui abbiamo vinto altre quattro Champions League, anche se non esclusivamente grazie a lui, come Cristiano avrebbe sognato. In quelle finali Ramos, Modric e Bale gli hanno sottratto parte del protagonismo. È fuor di dubbio che abbia segnato un’epoca, ed è quasi sicuro che domani si parlerà del «Real Madrid di Cristiano», quasi quanto del «Real Madrid di Zidane», che non è rimasto nemmeno tre anni interi come allenatore. Eppure, quanto dispiacere, quanta nostalgia, quanta tristezza in più ci infonde l’addio del sereno, educato, ironico e sorridente Zidane, che incarnava alla perfezione l’idea che molti di noi tifosi vogliamo avere del Real. Cristiano Ronaldo si ammira spassionatamente e si finisce per concedergli tutto, ma non si arriva mai a volergli bene. È il prezzo che paga chi non concepisce il sentimentalismo.
Malcom Pagani per Vanity Fair 18 luglio 2018. Celesti vette. Pelé ringraziava l’altissimo: «Mi ha dato il calcio e solo lui me lo può togliere», Maradona litigava con il Papa: «Sono stato in Vaticano e l’ho sentito dire che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto amigo, fai qualcosa» e Ronaldo, che ha gli anni di Cristo, ha scoperto nel tempo il segreto per non essere messo in croce. La biografia del nuovo dio del pallone non somiglia a un mistero di Fátima. Dentro, tra le andate e i ritorni, il prima e il dopo, brilla soprattutto la religione della determinazione. Voleva essere il calciatore migliore del mondo: ascesi compiuta evadendo dallo stereotipo del vizio e lasciando alle buone intenzioni che lastricano notoriamente la strada dell’inferno soltanto il tempo di realizzarsi. Arrivò a Manchester via Lisbona e si preoccupò di dissipare i dubbi. Utilizzò i doni di madre natura alla maniera di Rubinstein: «Non dirmi quanto talento possiedi, dimmi quanto lavori sodo» e divenne direttore d’orchestra sul campo arrivando in palestra un’ora e mezza prima degli altri compagni e restando fino a quando, all’imbrunire, l’ultimo rombo dell’ultima auto aveva abbandonato il parcheggio dell’Aon Training Complex. In mezzo, il sudore. L’ambizione. La volontà. La materia con cui si impastano i sogni quando l’orizzonte degli eventi è una tavola da dipingere e l’unico pennello utile a disegnare il futuro è tra i tuoi piedi. Tra un silenzio, un doppio passo e un’accelerazione, Cristiano Ronaldo ha lasciato indietro tutti: esegeti e avversari. I primi non l’hanno mai capito fino in fondo inseguendo invano tra le pieghe di una biografia non aliena al dolore e al rischio il motore della motivazione che lo ha portato in vetta. I secondi lo hanno detestato e invidiato riconoscendogli il solo valore del campione-macchina, del prodotto da laboratorio sprovvisto di fantasia, del progetto, del calcolo, della modernità a base di crioterapia, pilates, sacrifici, diete e addominali. Ronaldo ha ignorato entrambe le fazioni e alla fine, tra un Pallone d’Oro, una Champions e un record da abbattere, ha annichilito colleghi e curiosi giocando sulla sottrazione delle emozioni, sul silenzio e sull’equilibrio di chi appare al centro del mondo, ma sa stare in disparte. Ronaldo parla con i gesti e con i social. Con i videogiochi e con le mutande firmate. Con le banche e con gli alberghi. Parla con decine di milioni di persone pronunciando le sillabe necessarie a prolungare l’estensione del mito nel nome di una contemporaneità che con l’epica del pedatore maudit, con la malinconia delle scarpe appese cantate da De Gregori e con i dissesti esistenziali dei tanti Garrincha precipitati con la bottiglia nel sottoscala delle illusioni che solo la caduta sa restituire, non ha nulla a che fare. Ronaldo non è nostalgia, maglie in lanetta, ricordo fumoso, Soriano, Pessoa o Galeano. È futuro, nave in fiamme al largo dei bastioni di Orione, figli in provetta. Ronaldo è figlio di un terremoto e di uno sbadiglio, ma sopra ogni altra cosa, è l’erede ideale di un’epoca, la sua, di cui annusa lo spirito come nessuno. Tra un’esultanza e una simbologia, propugna un’impressione di invincibile solidità. Sempre a testa alta, mentre al recente Mondiale, il rivale coevo, Leo Messi, cercando tracce del genio smarrito tra i fili d’erba sembrava il manifesto della detronizzazione e della gloria effimera. Ora Cristiano è in Italia per correre con la squadra della quale il suo secondo padre, Alex Ferguson, durante la campagna d’Inghilterra, gli faceva vedere i vhs per suggerirgli cosa significasse voglia di vincere. Cristiano l’ha imparato e ha mandato giù la lezione a memoria. A ricordarsi di lui e di quest’estate senza limiti che a colpi di contratti milionari ridisegna i confini e riporta la Serie A su un palcoscenico non più marginale, saranno comunque gli altri. Quelli che sembrano aver fatto il passo più lungo della gamba (Marotta e Agnelli) e in realtà sono già ripagati di un investimento che comunque vada a finire produrrà almeno il doppio. I tifosi che assediano gli store inseguendo una maglietta con il nome del nuovo Messia. Jorge Mendes, il machiavellico procuratore che nel 2017 l’ha fatto ascendere all’Olimpo di sportivo più pagato del mondo e che con piglio da Talleyrand ha gestito un’operazione lunare. Gli appassionati, non solo della Juventus, che dopo aver fatto ridere Pier Silvio Berlusconi e Mediaset guardando in massa ogni singolo minuto del Mondiale, potranno smettere di rimpiangere le arance con cui palleggiava Platini o le freddure dell’Avvocato. Si volta pagina e da domani si discuterà ancora di numeri. Sette è il numero che porterà sulla maglia. Sette sono i pianeti del sistema solare mentre il microcosmo italiano si avvia a diventare Ronaldocentrico. Sette sono i peccati capitali ed esclusi gola, ira, lussuria, invidia, accidia e avarizia – Ronaldo aiuta i bambini di Gaza, Ronaldo è un messo di beneficenza – Cristiano peccherà domani dell’unico che si possa davvero permettere: la superbia. Con diritto. Senza torto. Si è issato in cima e in lui credevano in pochi. I decenni si sono occupati di smentire gli scettici. Il ragazzo aveva una strana luce dentro agli occhi. Qualcuno, appoggiandosi a un difensore preso per il collo o a un arbitro spintonato, la chiamò cattiveria. Erano solo peccati di gioventù. L’uomo si è fatto adulto. Il panorama limpido. I fischi si sono trasformati in applausi. Ronaldo preferisce i primi. Lo fanno sentire vivo. E altro, per domare una sfera, non serve. Il calcio, scrivevano, ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce.
“MI ODIANO PERCHE’ SONO BELLO E RICCO”. Intervista di Xavier Sancho per “Icon” ripubblicata da “la Repubblica” il 13 maggio 2019. È l' uomo con più follower su Instagram al mondo. Ha collezionato 29 trofei tra campionati, Champions, Coppe europee, Supercoppe, con 5 Palloni d' oro. Per i suoi tifosi è il giocatore più forte del pianeta. Per chi lo odia, è il secondo. Con un carattere e una disciplina per cui a volte dà l' impressione di concepire il calcio come uno sport individuale, Cristiano Ronaldo è uno dei personaggi più imitati e allo stesso tempo polarizzanti della Terra. Stiamo per incontrarlo nella sede della Clinica Insparya a Madrid, la nuova avventura imprenditoriale del portoghese, che stavolta ruota intorno all' universo degli impianti di capelli. Qualche giorno prima lo avevamo visto rifilare una tripletta all' Atletico Madrid, per rimontare il turno degli ottavi di finale della Champions League. Le telecamere, a fine partita, erano puntate sulle lacrime di commozione della sua compagna, Georgina, che sarà l' amministratrice della clinica. Di pochi calciatori capita che durante le partite inquadrino l' entourage tanto spesso.
Cristiano è il leader delle squadre in cui gioca e il leader di un clan.
«Mi odiano perché sono bello e ricco», ha detto una volta dopo essere uscito da un campo avversario sotto i fischi. Per gli stessi motivi per cui alcuni lo detestano, molti lo amano. Non c' è personaggio che rispecchi i nostri tempi meglio di Cristiano Ronaldo. Tutto in lui e intorno a lui è gigantesco. Oggi è felice.
Che cosa è più complicato: scegliere una squadra o un' azienda?
«Penso sia più facile scegliere un' azienda, perché in un club giochi con molte cose, devi pensare molto, moltissimo. Un' azienda finisce per essere una cosa che non controlli al cento per cento».
Di chi si fida quando deve decidere dove investire il denaro?
«Essenzialmente, per scegliere un business mi fido delle stesse persone che mi aiutano a scegliere una squadra: la mia famiglia e i miei amici più intimi. I miei figli non possono ancora dare il loro parere, anche se Cris qualche volta lo fa, ma è ancora piccolo. Alla fine è la squadra che ti formi negli anni, non soltanto per il calcio ma anche per il mondo imprenditoriale».
Perché un' azienda come questa?
«Il problema dei capelli è un problema vero. Lo hanno persone a me molto vicine. Serve per aiutare ad accrescere l' autostima delle persone, una signora prima mi ha detto: "Ma a te non cadono i capelli". Per il momento no, ma un giorno o l' altro potrebbe succedere. Sono cose che capitano. Geneticamente, nella mia famiglia nessuno ha problemi di questo tipo, ma chissà. Lo stress, un' alimentazione sbagliata... Da un momento all' altro le cose possono cambiare, è come con i denti, per esempio. Nell' estetica, se ti piace, devi essere sempre un passo avanti».
Non è stanco di dover sempre dimostrare qualcosa a tutti?
«Non nego che a volte mi dia fastidio e mi stanchi perché sembra che ogni anno debba dimostrare di essere fortissimo. È difficile. Hai quello che hai anche per tenere in conto la pressione aggiuntiva di dover dimostrare qualcosa alla gente, non solo a te stesso. E alle persone che ti stanno intorno. Alla tua famiglia, a tua madre, a tuo figlio... "Cris, domani devi vincere". Questo ti rende più attivo. Devi allenarti in continuazione, però arriva un momento in cui dici: senti, lasciami stare...».
Si diverte ancora con il calcio?
«Vedo il calcio come una missione: scendere in campo, vincere, migliorare. Quei momenti in cui giocavo pensando "farò un dribbling!" non li vivo più. C' è una pressione aggiuntiva. La gente ti giudica costantemente: "Ormai è finito. Ha 33, 34, 35 anni, dovrebbe smettere". E tu vuoi lasciarli di stucco: sono ancora io».
Crede che qualcuno pensi che lei sia diventato un robot?
«Non penso che credano sia un robot, però mi vedono come uno che non può mai avere un problema, non può mai essere triste, mai avere preoccupazioni. La gente identifica il successo, la spensieratezza, con i soldi: "Come può essere triste o avere una crisi Cristiano se è milionario?". Devi comprendere che la gente non pensa come te, non ha vissuto certe situazioni. Ma lo capisco. So che la gente sta con il fucile spianato in attesa che Cris sbagli un rigore o che fallisca in una partita decisiva. Ma fa parte della vita e devo essere preparato. E io sono preparato già da molti anni».
Ricorda in che momento si è abituato a tutto questo?
«Non so in quale momento mi sia abituato, è vero però che ho sentito la pressione fin da giovanissimo. Quando sono andato a Madrid, ero il giocatore più caro della storia; a Manchester, dopo aver vinto il mio primo Pallone d' oro a 23 anni, la gente pensava: "Questo ha raggiunto il massimo". Negli ultimi 10-12 anni ho sempre avuto questa pressione aggiuntiva che non solo ti metti, ma che tutti ti mettono».
Qual è la prima cosa che fa quando arriva in una nuova squadra?
«Essere me stesso, nient' altro. La mia etica lavorativa è sempre uguale. Se il proprietario di una ditta arriva e inizia a fare il gallo, la gente non lo vedrà come un leader. Dirà: "Questo è il mio capo, ma non mi tratta bene". Devi essere umile, imparare che non sai tutto. Se sei intelligente, capti delle cose che ti fanno migliorare come atleta. Nella Juve mi sono adattato perfettamente. Hanno visto che non sono un venditore di fumo. È Cristiano, ed è quello che è perché si cura. Una cosa è parlare, un' altra è fare. Perché ho vinto cinque Palloni d' oro e cinque Champions?»
Insparya è un' azienda di successo in Portogallo. Cristiano ne ha acquisito il 50%. Lo spazio che hanno aperto a Madrid sembra un buon hotel più che una clinica. Il piano è seguire l' espansione internazionale dell' azienda, che si aggiunge al già considerevole portafoglio dell' ex Real Madrid, che gestisce anche palestre e alberghi. Presto ne aprirà uno a Madrid. Dopo essersene andato dal Real, non ha avuto la tentazione di aprire una filiale da un' altra parte?
«La mia famiglia è di qua, i miei figli sono nati qua, sono stato nove anni in questa città. Molti momenti che ho vissuto qui non si possono cancellare. Sono andato alla Juve e, volendo, avrei potuto dire: "Apriamo la clinica da un' altra parte, in qualsiasi altro posto". Ma non l' ho fatto. Madrid mi ha dato tanto, come potrei dimenticarlo?».
Nonostante tutto?
«Certo. Gli spagnoli mi hanno trattato bene. Non lo dimentico. Volevo dare lavoro agli spagnoli, indipendentemente dai problemi che ho avuto con il Fisco, questo non posso né dimenticarlo né nasconderlo, perché la mia vita è un libro aperto. I sentimenti, la gente della strada, questo non si dimentica. Cammino a testa alta perché so che la gente mi ama, sa che ho dato molto per questa maglia e a mia volta ho ricevuto molto. Per strada mi dicono: "Cris, torna a casa, questa resta sempre casa tua...". Mi piace sentirlo».
Chi toccano di più le polemiche sulla sua vita privata? Lei o chi le sta intorno?
«Mi piacerebbe fare da scudo e risolvere io tutti i miei problemi personali. Quando posso, lo faccio. Essendo una delle persone a più alta esposizione mediatica del mondo non è facile nascondere delle cose. Ci sono persone a cui piace Cristiano e persone a cui non piace. Più sei in alto più vogliono tirarti giù. È normale. Come dico sempre, nella vita professionale non importa che mi critichino, è il mio lavoro. Ma la mia vita personale è più intima, ho una fidanzata, dei figli, una madre, fratelli, amici...Gente che mi conosce davvero e quando le situazioni possono danneggiare la tua immagine, ti fanno un po' male. Quando succede qualcosa, non posso andare a casa e piangere. Se sorge un problema, cerchiamo di trovare una soluzione. L' unica cosa per cui non c' è soluzione è la morte».
Crede di essere stato forse troppo sincero in alcune occasioni?
«Ammetto che qualche volta sono stato un po' troppo sincero. Ma alla fine ti dici: "Se ho tutto quello che ho, se guadagno quello che guadagno, qualcosa di buono lo starò facendo". Sono la persona con più follower del mondo».
Perché?
«Magari la gente s' identifica con me, o faccio più scintille».
Magari ne ha di più perché lo sfrutta di più.
«Mi viene naturale. Non è questione di sfruttarlo».
Se mettessimo dei microfoni negli spogliatoi, finirebbe il calcio così come lo conosciamo?
«No. Negli spogliatoi, in quello della Juve, in quello del Real Madrid, si parla di cose normali di calcio».
Ci si fanno degli amici nel mondo del pallone?
«Potrei dire di sì... Cioè, non è che non se ne facciano, io ne ho, ma non posso negare che sia un mondo difficile. È come se chiedessi a una modella se ha molte amiche modelle. Politicamente potrebbe dire di sì, ma in realtà saranno molto rare le volte che la troverai a cenare a casa sua insieme ad altre modelle».
Perché non si sente mai l'ipotesi che dopo il ritiro farà l' allenatore?
«Non lo escludo, ma per il momento non ci penso».
Ha mai pensato di andare a vivere a Barcellona dopo il ritiro? C' è la spiaggia e il clima è molto mite.
«( ride) Barcellona non fa per me, no... Ci sono stato un paio di volte e mi sono accorto che non amano molto Cristiano, ma è normale, è per via della rivalità, non importa» .
«Così Cristiano Ronaldo mi ha violentata»: parla la ragazza che accusa Cr7. La vicenda risale al 2009 e si chiuse con una transazione tra le parti. Oggi la presunta vittima Kathryn Mayorga denuncia l'accordo e racconta nei dettagli quella notte. Tocca al tribunale del Nevada decidere se riaprire il caso, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 28 settembre 2018 su "L'Espresso". È un fantasma del passato. Una storia che insegue Cristiano Ronaldo da quasi dieci anni, da quel 12 giugno del 2009 in cui conobbe Kathryn Mayorga, una ragazza americana che all’epoca aveva 25 anni. I due si incontrarono in un night club di Las Vegas, dove la superstar del pallone, appena ceduto dal Manchester United al Real Madrid, era in vacanza con suo cugino e il cognato. Kathryn Mayonga sostiene di essere stata violentata quella stessa sera da Ronaldo, nella stanza d’albergo del calciatore. Le accuse non sono nuove. Pochi mesi dopo la presunta violenza carnale, le due parti raggiunsero un accordo. Ronaldo ha pagato 375 mila dollari in cambio dell’impegno di Kathryn Mayonga a non divulgare quanto accaduto. Ebbene, nelle settimane scorse, la stessa Mayonga ha deciso di parlare con i reporter di Der Spiegel, che dedica un lungo articolo alla vicenda nel numero in vendita da domani e sul sito internet del magazine tedesco. Leslie Mark Stovall, l’avvocato che difende la giovane americana, sostiene che la precedente intesa sarebbe nulla perché la controparte ha approfitto delle condizioni di particolare fragilità psicologica della sua assistita. Stovall ha quindi fatto ricorso al tribunale del Nevada per ottenere che la transazione del 2009 venga dichiarata invalida. Il racconto dello stupro raccolto dai cronisti di Der Spiegel è crudo e dettagliato. Kathryn Mayonga descrive l’assalto di Ronaldo prima in bagno e poi in camera da letto, dove dice di essere stata trascinata e quindi violentata. Nei mesi scorsi i giornalisti del settimanale tedesco hanno cercato di contattare Ronaldo per avere la sua versione dei fatti. Il calciatore, attraverso i suoi legali, ha però respinto tutte le richieste. La posizione ufficiale del calciatore ora in forze alla Juventus è che la vicenda si è chiusa con l’accordo del 2009. Tra i documenti depositati nella precedente vertenza legale ce n’è però almeno uno che secondo l’avvocato americano potrebbe di molto indebolire la posizione di Ronaldo. In una e-mail inviata al suo legale portoghese, il calciatore dichiara che la ragazza non urlò per chiedere aiuto, ma disse «No» più volte quando venne attaccata sessualmente, quindi avrebbe negato senza ombra di dubbio il suo consenso al rapporto sessuale. Nell’America più che mai in preda all’onda lunga del movimento #metoo, in cui proprio in questi giorni anche un aspirante giudice della Corta Suprema è sotto accusa per stupro, adesso tocca al tribunale del Nevada decidere se riaprire il caso. Intanto, nelle settimane scorse, Kathryn Mayonga è stata più volte sentita dalla polizia.
Cristiano Ronaldo ha pagato 375mila dollari una donna che lo accusava di averla stuprata. Una giovane americana dice di essere stata violentata nel 2009 in un hotel di Las Vegas dal campione del Real Madrid. Il quale, tramite i suoi avvocati, l'ha convinta a tacere in cambio di soldi. Una storia finora segreta. Che adesso, grazie a Football Leaks, può essere raccontata, scrivono Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 14 aprile 2017 su "L'Espresso". Cristiano Ronaldo ha pagato 375 mila dollari a una donna americana che lo ha accusato di averla stuprata. Nell'accordo tra i due, la donna ha acconsentito a mantenere il silenzio totale sulla vicenda. La violenza sessuale sarebbe avvenuta la mattina del 13 giugno 2009 negli Usa, all'interno della suite di un lussuoso hotel di Las Vegas dove il quattro volte Pallone d'oro era ospite in quei giorni. La notizia emerge da alcuni documenti che la piattaforma di whistleblowers “Football Leaks” ha messo a disposizione di Der Spiegel. Il settimanale tedesco fa parte - insieme a L'Espresso, unico membro italiano - del network giornalistico European Investigative Collaborations (EIC), che nei mesi scorsi ha pubblicato una serie di articoli d'inchiesta sul mondo del calcio. L'identità della donna che ha ricevuto i 375 mila dollari da Ronaldo è nota a Der Spiegel, il quale ha scelto però di non rivelarla pubblicamente. Secondo i documenti in possesso del giornale tedesco, il campione del Real Madrid e la sua accusatrice hanno raggiunto un accordo extragiudiziale - tecnicamente chiamato “Settlement Memorialization” - il 12 gennaio 2010 davanti a un mediatore dello Stato del Nevada. L'accordo porta la firma di Carlos Osório de Castro, l'avvocato portoghese che per molti anni ha rappresentato il capitano della nazionale lusitana. Nel documento Ronaldo è identificato con l'abbreviazione di “Mr. D”, mentre la presunta vittima di stupro con la sigla “Ms. C”. La donna, che aveva circa 25 anni all'epoca dei fatti contestati, davanti all'avvocato del calciatore ha acconsentito a ritirare tutte le accuse di reato nei suoi confronti e a rivelargli i nomi di tutte le persone a cui aveva raccontato l'accaduto. In più, si è impegnata a certificare la «cancellazione e distruzione di tutto il materiale, elettronico o cartaceo, generato o ricevuto in relazione all'evento». Un altro elemento che emerge dall'accordo tra le parti letto da Der Spiegel è una lettera scritta dalla donna e indirizzata alla stella del calcio mondiale. Nella missiva, lunga sei pagine, la donna descrive nel dettaglio la presunta violenza sessuale e le lesioni che dice di aver subito. Lo stesso 13 giugno del 2009 la giovane americana dice di aver sporto denuncia alla polizia. Questo emerge anche dalle registrazioni delle telefonate al Dipartimento della Polizia Metropolitana di Las Vegas. In quella conversazione telefonica, tuttavia, non viene nominato il presunto stupratore: l'accusatrice si riferisce a lui definendolo “una figura pubblica”, “un atleta”. Poco dopo una volante della polizia arriva a casa della giovane. Secondo uno dei poliziotti presenti, la presunta vittima ha espresso la volontà di sottoporsi al “Rape kit”, un esame speciale per le vittime di stupri. Le lesioni riportate sono state registrate e fotografate. Der Spiegel ha chiesto un commento sulla vicenda a Ronaldo. Il bomber portoghese ha dato mandato di rispondere al suo avvocato tedesco, Johannes Kreile, il quale ha fatto sapere: «Le accuse sottintese dalle vostre domande devono essere respinte con la massima forza in quanto sbagliate», spiegando poi che il suo cliente avrebbe «agito contro una ricostruzione falsa dei fatti e ogni violazione dei suoi diritti personali». Il legale ha inoltre intimato a Der Spiegel di «astenersi dal riportare la vicenda complessiva». L'avvocato portoghese Carlos Osório de Castro, che ha firmato l'accordo con la donna per conto di Ronaldo, ha risposto invece alle domande del settimanale tedesco spiegando che la prassi del suo studio è quella di non commentare pubblicamente vicende che riguardano i propri clienti, invitando al contempo a non trarre conclusioni dalla scelta di non voler commentare la vicenda.
Cristiano Ronaldo rompe il silenzio sull’accusa di stupro: “Lei vuole solo farsi pubblicità, diventare famosa grazie a me”. Cr7 ha parlato delle accuse di Kathryn Mayorga subito dopo il match disputato ieri sera contro il Napoli, scrive Giuseppe Candela il 30 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Cristiano Ronaldo rompe il silenzio e risponde alle accuse di stupro di Kathryn Mayorga: “Quello che hanno detto oggi sono falsità. Fake news”, ha commentato nel corso di una diretta Instagram dopo la gara Juventus-Napoli. La ragazza americana era uscita allo scoperto, dopo che il caso era già esploso lo scorso anno, con un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel dove confermava la violenta aggressione avvenuta, stando ai suoi racconti, a Las Vegas a giugno 2009: “Improvvisamente mi è stato addosso. Dopo si mise in ginocchio e disse: al 99 per cento sono un bravo ragazzo, non so cosa succede al restante uno per cento.” “Lei vuole solo farsi pubblicità sfruttando il mio nome, vuole diventare famosa grazie a me. È una normale conseguenza del mio lavoro”, ha aggiunto CR7 rassicurando ulteriormente i tifosi bianconeri: “Sono un uomo felice e va tutto bene”. Il settimanale tedesco aveva parlato di un accordo tra le parti di 375 mila euro per evitare la denuncia e la diffusione della notizia ma l’avvocato della Mayorga ora ha presentato una nuova denuncia in Nevada per contestare quell’accordo perché “la controparte ha approfittato delle condizioni di particolare fragilità psicologica”. L’avvocato del fuoriclasse portoghese, Christian Schertz, attraverso un comunicato aveva attaccato il Der Spiegel per un “reportage palesemente illegale” denunciando “l’inammissibile intrusione nella privacy di Cristiano” con la vicenda che avrà nuovi strascichi ovviamente in tribunale. La ragazza americana che accusa Ronaldo tramite il suo avvocato aveva fatto sapere di aver presentato ai giudici un documento che conterrebbe l’ammissione del calciatore con la donna che avrebbe detto “più volte no e di fermarsi”. Ronaldo si mostra sereno fuori dal campo ma anche sul terreno di gioco, proprio ieri contro il Napoli ha disputato una delle sue migliori partite in Serie A.
Ronaldo accusato di stupro nel 2009: ecco cosa sappiamo. Le tappe della vicenda che coinvolge il fuoriclasse della Juventus. Inchiesta riaperta a Las Vegas, la difesa di CR7 e i documenti pubblicati, scrive su Panorama Giovanni Capuano il 10 ottobre 2018. Cristiano Ronaldo è accusato di stupro da una donna americana, oggi 34enne, che nell'estate del 2009 - secondo la sua accusa - sarebbe stata violentata dal calciatore in una stanza di un hotel di Las Vegas dove il portoghese si trovava in vacanza. La vicenda è emersa per il lavoro del settimanale tedesco Der Spiegel che ha analizzato per un anno alcuni documenti ottenuti attraverso il sito Football Leaks compreso un accordo riservato stipulato nel 2009 con la donna per non rivelare l'accaduto dietro pagamento di 375.000 dollari. Ad accusare Ronaldo è Kathryn Malorga, all'epoca modella di 25 anni che ha accettato di raccontare la vicenda allo Spiegel confermando quando ricostruito dai giornalisti tedeschi sulla base dei documenti. L'attaccante portoghese ha respinto tutte le accuse con un comunicato: "Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. Mi rifiuto di alimentare lo spettacolo mediatico creato da persone che cercano pubblicità a mie spese. Aspetterò con serenità l'esito di qualsiasi tipo di indagine perché la mia coscienza è pulita". La polizia di Las Vegas ha confermato di aver riaperto un'indagine per presunto stupro relativo ad accadimenti del 2008, epoca in cui furono condotti degli esami medici su una donna. Nello stato del Nevada, dove si trova Las Vegas, non esiste prescrizione per il reato di stupro.
La ricostruzione (presunta) dei fatti. Secondo quanto raccontato da Kathryn Malorga, che all'epoca lavorava come modella ed era ingaggiata da locali di Las vegas per fingersi cliente e attirare altri clienti all'interno dei locali, lo stupro sarebbe avvenuto il 12 giugno 2009 nella suite del Palms Casino Resort di Las Vegas in cui Ronaldo si trovava in vacanza. Il calciatore, allora in procinto di trasferirsi al Real Madrid e già star del calcio mondiale con la maglia del Manchester United - con la quale aveva già conquistato una Champions League, un Mondiale per club, tre Premier League e il Pallone d'Oro 2008 -, avrebbe conosciuto la ragazza all'interno del Rain, locale per Vip e l'avrebbe poi invitata a proseguire la serata con una festa privata nella sua suite. Qui, sempre secondo l'accusatrice, avrebbe assalito la sua vittima costringendola a un rapporto anale della durata di qualche minuto malgrado la donna gli chiedesse ripetutamente di fermarsi. Kathryn non denunciò subito Ronaldo, ma dopo qualche ora parlò alla polizia dello stupro avvenuto e fu sottoposta in ospedale a un test per verificare il suo racconto. Quel giorno, secondo la ricostruzione dei fatti fornita da Der Spiegel, la donna si limitò a indicare in un "personaggio pubblico" e "atleta" l'autore della violenza. Un video pubblicato dal quotidiano inglese The Sun e che ha fatto il giro del mondo in poche ore ritrae Ronaldo e la ragazza insieme nel locale quella sera. I due ballano, si abbracciano e chiacchierano in mezzo ad altre decine di persone.
L'accordo extra giudiziale. La versione fornita dalla modella è respinta con forza da Ronaldo e dai suoi avvocati. Nel 2017, però, lo Spiegel ha ottenuto attraverso Football Leaks documenti attestanti un accordo privato risalente ai mesi successivi al presunto stupro nel quale Kathryn Mayorga si impegnava a non parlare mai di quanto accaduto ricevendo in cambio un pagamento di 375.000 dollari. La stampa portoghese ha scritto che a fare pressioni su Ronaldo perché giungesse a un accordo sarebbe stato il Real Madrid, nuovo club dell'attaccante, preoccupato che la vicenda potesse screditare la società e mettere in difficoltà CR7 nel suo sbarco a Madrid. Secondo la ricostruzione fatta leggendo le carte, la trattativa per arrivare all'accordo durò mesi e produsse un documento con undici clausole di riservatezza (12 gennaio 2010) nelle quali Kathryn si impegnava a non parlare dell'episodio con nessuno, nemmeno in famiglia o nel corso di un'eventuale terapia psicologica, e a non denunciare penalmente Ronaldo che, da parte sua, aveva fornito i risultati di un test HIV negativo perché il rapporto sarebbe stato non protetto. In caso di rottura dell'accordo, secondo le carte, ci sarebbero state conseguenze finanziarie per la donna che lo aveva sottoscritto. Nel database hackerato di Football Leaks, i giornalisti tedeschi hanno anche rinvenuto un carteggio tra il calciatore e i suoi legali nel quale Ronaldo, rispondendo a precisa domanda, ammetterebbe che la ragazza avrebbe detto "No" diverse volte e di essere stato brusco ("Non gentile") fino a scusarsi alla fine. Una versione mutata nel tempo. CR7, infatti, sostiene in seguito che il rapporto sessuale fu consenziente. Kathryn Malorga ha spiegato di aver deciso di denunciare oggi Ronaldo perché allora temeva il caos che sarebbe seguito a una sua denuncia e perchè sotto choc: un trauma superato solo con l'ausilio di supporti psicologici. Secondo Der Spiegel all'epoca non era in condizioni fisiche e mentali per firmare quell'accordo che ora viene impugnato e che fu sottoscritto su suggerimento di un avvocato non esperto di questioni legate alla violenza sessuale. La donna sarebbe stata convinta a parlare anche dalla minor paura determinata dallo sviluppo del movimento #metoo. Ronaldo si è affidato a David Chesnoff, considerato l'avvocato delle celebrità a Las Vegas, il numero uno in situazioni di questo genere. In passato si sono rivolti a lui anche Paris Hilton, Leonardo Di Caprio, David Copperfield, Mike Tyson, Shaquille O'Neal, Andre Agassi e la famiglia di Michael Jackson.
Il giallo delle prove e l'indagine. Ad aggiungere mistero al mistero, la denuncia fatta sempre a Der Spiegel da parte di Leslie Mark Stovall, avvocato della donna. La testimonianza del 2009 della sua assistita e il materiale portato a prova della violenza (biancheria intima e vestiti indossati quella notte dalla modella) sarebbero stati smarriti dalla polizia di Las Vegas e non sarebbero più a disposizione per una nuova valutazione. La polizia di Las Vegas ha smentito questa circostanza con un intervento del suo portavoce lo scorso 9 ottobre e ha confermato che Ronaldo potrebbe essere sentito "come persona informata dei fatti non essendo al momento indagato". Un atto che potrebbe accadere anche in video conferenza oppure con domande e risposte via mail. Difficile al momento immaginare un viaggio negli Stati Uniti per il confronto. Nelle carte pubblicate dal settimanale tedesco anche l'attività compiuta dai legali di Ronaldo all'epoca dei fatti per schedare tutti i comportamenti di Kathryn Malorga: dal voto per il partito Democratico alle contravvenzioni per divieto di sosta fino al numero di bicchieri di vino bevuti. Un'autentica schedatura commissionata a detective privati.
Ci sono altre donne che denunciano? Il Daily Mail ha raccontato di una seconda donna, dall'identità ancora sconosciuta, che avrebbe contattato l'avvocato Stovall - difensore di Kathryn Mayorga - per raccontare di essere stata vittima di un episodio simile da parte di Cristiano Ronaldo. Il legale ha spiegato di aver girato la segnalazione alla polizia di Las Vegas per gli opportuni approfondimenti. Non è escluso al momento che possa trattarsi della persona che nel 2005 a Londra denunciò il calciatore (all'epoca al Manchester United) in una vicenda che non ebbe alcun seguito dopo che Cristiano si presentò spontaneamente a Scotland Yard per rilasciare alcune dichiarazioni giudicate sufficienti dalla polizia inglese per giustificare l'accaduto. L'inchiesta non proseguì. Il tabloid The Sun ha, invece, fatto il nome di Karima El Marhoug, più nota come Ruby Rubacuori, salita agli onori delle cronache per la vicenda del bunga bunga di Berlusconi. Ronaldo avrebbe pagato 4.000 dollari per fare sesso con lei, all'epoca diciassettenne. Non è chiaro se accusi il giocatore di stupro o la sua vicenda sia stata semplicemente tirata fuori in un momento in cui l'attenzione è molto alta. Coinvolgimento smentito dalla stessa ragazza in un messaggio al suo avvocato e che in ogni caso farebbe riferimento a una vicenda sui cui gli investigatori, già nel 2010, non trovarono alcun riscontro per un racconto pieno di contraddizioni.
Le ricadute commerciali della denuncia. La riapertura dell'indagine da parte della polizia di Las Vegas e l'eco delle notizie in giro per il mondo hanno allarmato alcuni dei marchi multinazionali che hanno legato il proprio brand all'immagine di Cristiano Ronaldo. Lo scorso 4 ottobre due colossi come Nike ed EA Sports si sono detti "profondamente preoccupati" della situazione. Nike, che ha scelto CR7 come testimonial a vita al pari di Michael Jordan e LeBron James, ha inviato ad Associated Press una dichiarazione: "Siamo profondamente preoccupati per le accuse inquietanti e continueremo a monitorare da vicino la situazione". EA Sports, che produce Fifa 19 che ha in copertina proprio Ronaldo, ha espresso una posizione simile. Secondo Associated Press anche Save The Children sta valutando la situazione per verificare l'opportunità di proseguire nel rapporto con il calciatore portoghese perché le accuse, qualora dimostrate, renderebbero incompatibile la sua immagine con la missione dell'associazione. La Juventus si è schierata in difesa del suo campione con un messaggio su Twitter del 4 ottobre.
Cristiano Ronaldo accusato di stupro da Kathryn Mayorga. L'avvocato: "Documenti manipolati!". Cristiano Ronaldo accusato di stupro da Kathryn Mayorga. Estradizione in Usa per l'attaccante della Juventus? "Non è imputato", rivela la Polizia di Las Vegas, scrive il 10 ottobre 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussidiario". L'avvocato statunitense Peter S. Christiansen, che difenderà Cristiano Ronaldo dalle accese di violenza sessuale avanzate da Kathryn Mayorga, ha emesso un duro comunicato tramite la società del procuratore di CR7, la Gestifute. Christiansen respinge tutte le accuse e parla di una grave montatura, con inquinamento delle prove, nei confronti del suo assistito. Questol il testo del comunicato: "I documenti riguardanti il presunto stupro di Cristiano Ronaldo? Pure invenzioni. Cristiano Ronaldo respinge con forza tutte le accuse in questa azione civile, in coerenza con ciò che ha fatto negli ultimi 9 anni. I documenti che contengono le presunte dichiarazioni di Ronaldo e che sono stati riprodotti dai media sono pure invenzioni. Nel 2015 dozzine di entità (compresi gli studi legali) in diverse parti d’Europa sono state attaccate e i loro dati elettronici rubati da un criminale informatico. Questo hacker ha provato a vendere tali informazioni, e i mezzi di comunicazione hanno finito per pubblicare in modo irresponsabile alcuni dei documenti rubati, parti significative dei quali sono state alterate e/o completamente inventate. Cristiano Ronaldo non nega che accettò di firmare un accordo, però le ragioni che lo hanno portato a farlo, come minimo, sono state distorte. Questo accordo non rappresenta in nessun modo un'ammissione di colpa. Ancora una volta, a scanso di equivoci, la posizione di Cristiano Ronaldo è sempre stata, e continua ad esserlo, che ciò che è successo nel 2009 a Las Vegas è stato del tutto consensuale. Ronaldo si limitò a seguire il consiglio dei suoi consulenti per porre fine alle accuse nei suoi confronti e per questo ha proceduto alla firma di un accordo che ora l'altra parte, la modella Kathryn Mayorga, non ha rispettato. Cristiano Ronaldo ha chiesto ai suoi avvocati negli Stati Uniti e in Europa che si occupino di tutti gli aspetti legali e confida che la verità prevalga." (agg. di Fabio Belli)
IL REAL SPINSE CR7 A PAGARE KATHRYN? Arrivano interessanti aggiornamenti dal Portogallo sul Sexygate che coinvolge l’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo, accusato di stupro da Kathryn Mayorga e da altre tre donne. Secondo quanto riporta il quotidiano lusitano Correio de Manha, ci sarebbe il Real Madrid dietro il patto di riservatezza stipulato nove anni fa da CR7 e dall’americana, con il portoghese che versò 375 mla dollari nelle casse dell’hostess. Secondo il giornale locale, l’attaccante sarebbe stato contrario a corrispondere i 375 mila dollari, con i Blancos che avrebbero spinto il calciatore a pagare l’indennizzo per il timore che la società venisse screditata. E emergono particolari anche sulla strategia difensiva del fuoriclasse di Funchal: lui e la modella tornarono in discoteca dopo il rapporto sessuale, rimanendovi per molte ore. Viene così smontata l’accusa di violenza sessuale, secondo i legali del centravanti bianconero. (Aggiornamento di Massimo Balsamo)
CRISTIANO RONALDO ACCUSATO DI STUPRO. Cristiano Ronaldo accusato di stupro: "Non è imputato”, questo il commento della polizia di Las Vegas riportato da Tuttosport. L’attaccante della Juventus è al centro della bufera dopo le pesanti accuse della modella americana Kathryn Mayorga, che ha affermato di essere stata violentata nel 2007 a Las Vegas dal portoghese. Nelle ultime ore altre tre donne hanno puntato il dito contro CR7 e emergono indiscrezioni contrastanti: Il Mattino riporta il possibile rischio estradizione negli Usa per l’ex Real Madrid, volato in Portogallo per incontrare i suoi legali. Il quotidiano evidenzia che la modella vorrebbe un milione di euro, con Cristiano Ronaldo che ha deciso di affidare la sua difesa all’avvocato Chesnoff, che difende anche il produttore americano Harvey Weinstein.
"LE PROVE NON SONO SPARITE". Come vi abbiamo raccontato, il portavoce della polizia di Las Vegas Jacinto Rivera ha confermato ai microfoni del Correio de Mana che “le prove non sono scomparse, sono le stesse raccolte nel 2009 e sono ancora in nostro possesso. Smentite le voci circolate nella giornata di ieri, con Cristiano Ronaldo che sarà sentito dalle forze dell’ordine americane: “Non è stata ancora definita la data, quando si verifica un crimine dobbiamo prima ascoltare la versione della storia dell’accusato e successivamente cercare di ricostruire ciò che è realmente accaduto”. Dopo la Juventus, il mister Massimiliano Allegri, il premier del Portogallo e il ct Fernando Santos, anche i tifosi della Vecchia Signora si sono schierati al fianco del numero 7 più famoso al mondo: Ronaldo è sereno ed è convinto della sua innocenza, ma l’inchiesta sul presunto stupro dopo le accuse di Kathryn Mayorga sta avendo pesanti ripercussioni anche dal punto di vista economico…
Cristiano Ronaldo: ''Il Real Madrid lo convinse a pagare la Mayorga''. Importanti indiscrezioni arrivano dal Portogallo, sarebbe stato il Real Madrid, preoccupato di tutelare la propria immagine a caldeggiare l'accordo tra Cristiano Ronaldo e Katryn Mayorga, scrive Antonio Prisco, Mercoledì 10/10/2018, su "Il Giornale". Ci sarebbe il Real Madrid, dietro l'accordo tra Cristiano Ronaldo e Katryn Mayorga e il pagamento dell'indennizzo di 375 mila dollari. Arrivano nuovi particolari di grande interesse sul caso Ronaldo dalle pagine del quotidiano portoghese Correio de Manha. Sarebbe stato infatti il Real Madrid a convincere il calciatore a stipulare l'accordo con l'ex modella americana Katryn Mayorga. Il giornale ricostruisce la strategia degli avvocati del calciatore, che sarebbero appunto intenzionati a chiamare in causa il club madrileno, reo di aver messo pressione al calciatore per trovare un accordo con la donna e pagarle un indennizzo. All'epoca dei fatti la società spagnola aveva effettuato un grande investimento con l'acquisto del campione portoghese ed era fortemente preoccupata di ripercussioni a livello di immagine, che la vita privata di Ronaldo, già sotto i riflettori in quel periodo per la storia con Paris Hilton, avrebbe potuto provocare. Tutto questo aveva portato gli avvocati del club e quelli di Ronaldo a concordare una strategia comune, che portò alla firma dell'accordo nel 2010 con la Mayorga, contro la volontà di Ronaldo che si era sempre professato innocente. Emergono delle divergenze anche tra la tesi difensiva del portoghese e quanto rivelato dai legali della Mayorga. Questi ultimi sostengono che la loro assistita lasciò la suite dell’Hotel Palms Palace dove ebbero luogo i fatti poco dopo il presunto stupro, mentre secondo quelli di Ronaldo, dopo aver consumato il rapporto sessuale lui e la modella tornarono alla discoteca Rain e passarono insieme altre ore della notte. Altra novità importante Cristiano Ronaldo avrebbe scelto di non affidarsi più all'avvocato delle star, David Chesnoff, ma si sarebbe rivolto a Peter Christiansen, un altro penalista di Las Vegas. Il fuoriclasse portoghese intende quindi tutelarsi al massimo in attesa di altre novità su questo caso sempre più intricato e scottante.
Cristiano Ronaldo e le accuse di stupro, il caso esploso per un clamoroso "no" della Juventus? Scrive il 10 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". È la domanda che si pongono tutti da quando Cristiano Ronaldo è stato accusato di stupro: perché Kathryn Mayorga ha aspettato nove anni per denunciare il fatto pubblicamente? A dare una risposta al quesito è il quotidiano portoghese Correio da Manha, ripreso da Dagospia. Secondo quanto scoperto, dietro all'accordo di riservatezza firmato dall'attaccante bianconero e la Mayorga ci sarebbe la società calcistica del Real Madrid. La squadra spagnola, per evitare le ripercussioni negative che avrebbe provocato l'uscita dello scandalo sull'immagine del club, avrebbe deciso di pagare i 375mila dollari per il silenzio della modella. Dopo nove anni, con la cessione del campione dal Real Madrid alla Juventus, sarebbe venuto meno un contraente del patto, il Real, appunto. Così i legali della donna avrebbero bussato alla porta del club di Torino, in cerca di un nuovo accordo e di nuovi soldi. Ma la Juve avrebbe rifiutato di versare altro denaro, così gli avvocati della Mayorga avrebbero rivelato la vicenda. Sempre su Dago si legge che la differenza di vedute sulla questione sarebbe all'origine della fine del rapporto tra Beppe Marotta e il club.
Cristiano Ronaldo: perché rischia il processo 9 anni dopo i fatti. Dalla raccolta delle prove alla prescrizione, le differenze del procedimento giudiziario tra Stati Uniti e Italia, scrive Giusi Fasano il 10 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Cristiano Ronaldo e il presunto stupro: le differenze giudiziarie fra Italia e Usa.
1 Come avviene la ricerca e la valutazione delle prove? Tecnicamente le prove vengono raccolte allo stesso modo (nel caso di Cr7 dovrebbe essere il vestito di Kathryn Mayorga). Ma c’è una differenza fondamentale. Per loro esiste la teoria dei «frutti dell’albero avvelenato». Significa che se c’è una irregolarità nella ricerca di una prova, a cascata tutte le attività investigative legate a quella prova diventano inutilizzabili, anche se l’irregolarità è di poco rilievo. Esempio: se sequestro 10 chili di cocaina ma nel farlo commetto una irregolarità, negli Usa quella prova — la cocaina — diventa il frutto avvelenato dell’albero e avvelena anche tutti gli altri (testimoni, filmati, intercettazioni...). Da noi invece conta la sostanza, cioè: ai fini del procedimento penale non è buono l’albero (cioè la perquisizione «avvelenata» dall’irregolarità), ma lo è il primo frutto (la droga) e gli altri a seguire (testimonianze, filmati, intercettazioni).
2 A chi tocca il giudizio se si arriva a un processo per stupro? Negli Stati Uniti i verdetti li decidono i giudici popolari, cioè dei semplici cittadini. Il giudice ha il compito di regolare il dibattimento, ma il peso della decisione grava sulla giuria popolare. Da noi il giudizio per una violenza sessuale tocca a un tribunale composto da soli tecnici, cioè dai giudici.
3 Davanti a una incriminazione per stupro scatterebbe l’estradizione? In Italia sono permessi anche i processi in contumacia, negli Stati Uniti si deve garantire la presenza dell’imputato al processo. Tutto ciò che avviene prima di finire davanti alla giuria popolare, viene invece valutato in una udienza filtro (evidence) per la quale potrebbe non essere necessaria la presenza dell’imputato.
4 A quasi dieci anni dai fatti non c’è il rischio della prescrizione? In Nevada, cioè lo Stato del presunto stupro, la possibile azione penale per una violenza può avvenire fino a vent’anni dai fatti. In Italia la violenza sessuale è perseguibile a querela, entro sei mesi dai fatti. Negli Usa, inoltre, le giurie non devono scrivere nessuna motivazione delle loro sentenze e non esistono i nostri tre gradi di giudizio: solo un verdetto e una possibile valutazione della procedura simile alla nostra Cassazione.
5 Se la presunta vittima firma un accordo privato per un risarcimento, poi non può più firmare una querela? In Italia se firmi un accordo privato manifesti quella che il codice definisce «volontà contraria» alla querela. Ma entro sei mesi potresti ripensarci e avviare lo stesso un’azione penale nel corso della quale sarebbe valutato l’accordo già firmato. Nel caso di Ronaldo gli avvocati di Mayorga vorrebbero dimostrare che la ragazza all’epoca fu manipolata e per questo accettò condizioni sfavorevoli. Al di là dell’accordo, il processo penale sarebbe possibile se si riuscisse a dimostrare che si è trattato di stupro. (Ci ha aiutato nelle risposte l’avvocato Davide Steccanella, penalista esperto di diritto internazionale)
Luca Fazzo per il Giornale il 10 ottobre 2018. Prigioniero in patria, senza poter varcare le frontiere né per una partita né per una vacanza: per Cristiano Ronaldo, finito nella bufera per le accuse di stupro lanciate contro di lui per una notte di sesso del 2009, ormai c' è chi evoca questo scenario. Se dalla magistratura del Nevada, che ha riaperto le indagini su quanto accaduto al Palms Resort di Las Vegas tra CR7 e la splendida Kathryn Mayorga, dovesse spiccare un ordine di cattura contro di lui, l'unico posto dove l'asso della Juventus potrebbe sentirsi al sicuro è il Portogallo, che quasi sicuramente rifiuterebbe l'estradizione. Certo, anche altri paesi europei hanno su questi episodi la mano meno pesante della giustizia Usa: basti pensare al regista Roman Polanski, esule in Francia per sfuggire alla condanna per stupro. A evocare lo scenario è il tabloid britannico Mirror, che quantifica in dieci anni di carcere la condanna cui l'asso bianconero potrebbe andare incontro in Nevada. Un buon motivo per ipotizzare che Cristiano Ronaldo, nel caso venisse convocato per un interrogatorio, scelga di farsi sentire per videoconferenza, senza rimettere piede sul suolo americano divenuto improvvisamente scottante. Un portavoce della polizia locale, peraltro, ieri ha smentito che le prove acquisite durante le prime indagini siano sparite. Tra queste, si dice ci siano le mutande di Kathryn, che recherebbero tracce inequivocabili delle lesioni rettali seguite al rapporto. CR7 ormai ammette il rapporto completo con la ragazza, ma nei verbali nega di essere responsabile delle lesioni, che sarebbero state causate successivamente da una terza persona. Nella stanza dell'albergo di Las Vegas si sarebbe insomma consumata una specie di orgia, con la ragazza passata di mano in mano. Consensualmente, dice il calciatore. Contro la mia volontà, dice Kahtlyn. «Un ragazzo normale, tranquillo, semplice, con me è stato un vero gentiluomo», dice intanto Raffaella Fico, ex di Mario Balotelli, che ieri - giusto per dare un'idea del clima pirotecnico che si respira intorno alla vicenda - si auto-indica come fidanzata per undici mesi dell'indagato. E rispunta persino il verbale di Kharima el Mahroug, alias Ruby: una notte di sesso, poi quattromila euro lasciati sul comodino col biglietto: «Spero di non trovarti quando ritorno». C'era folla, sul materasso del campione. L'unica notizia positiva per il neoacquisto bianconero, che oggi sarà regolarmente a Torino per la ripresa degli allenamenti, è che l'impatto dello scandalo sul fronte economico sempre attenuarsi: EA Sports, il colosso dei videogame che aveva frettolosamente rimosso la sua foto dall' homepage ieri è tornato a pubblicarla; e il gruppo alberghiero Pestana, socio in investimenti in tutto il mondo, ha ribadito la sua fiducia in CR7. Ma fino a quando?
"Ronaldo? Accuse inventate. E i documenti sono stati manipolati". L’avvocato del portoghese, Peter Christiansen, contrattacca: “È in atto una campagna diffamatoria, sono state manipolate le prove”, scrive il il 10 ottobre 2018 Gazzetta.it. Caso Ronaldo, parte il contrattacco del portoghese. L’avvocato di CR7, Peter Christiansen, ha emesso un comunicato comparso sulla Gestifute MEDIA (società del procuratore di CR7 Jorge Mendes) con cui risponde con decisione alle accuse di stupro piovute nelle scorse settimane sul neo juventino: "Campagna diffamatoria intenzionale basata su documenti digitali che sono stati rubati e senza dubbio manipolati". L’avvocato si riferisce in particolare alla presunta testimonianza dello stesso Ronaldo che ammetterebbe come Kathryn Mayorga lo avesse più volte invitato a fermarsi durante il rapporto avuto in un hotel di Las Vegas nel 2009: “Dal 2015 ad oggi dozzine di studi legali in varie parti d’Europa sono stati attaccati e i loro documenti elettronici sono stati rubati da un hacker - fa sapere Christiansen nella nota -. Questo hacker ha provato a vendere tali informazioni e c’è chi, in maniera irresponsabile, ha finito col pubblicare alcuni di questi documenti rubati di cui alcune parte significative sono state alterate o completamente inventate. A scanso di equivoci, la posizione di Cristiano Ronaldo continua a essere quella di sempre, quello che è accaduto nel 2009 a Las Vegas era un rapporto consensuale”. Christiansen ha voluto precisare come mai nel 2010 si sia arrivati ad un accordo economico con Kathryn Mayorga: “Lontano da qualsiasi ammissione di colpa o di qualsiasi secondo fine, il signor Ronaldo è stato consigliato di risolvere privatamente le accuse contro di lui al fine di evitare le inevitabili tentativi che sono ora in corso per distruggere una reputazione che è stato costruito su un duro lavoro, atletismo e onore. Quell’accordo, quindi, non è una confessione di colpevolezza ma semplicemente ha seguito il consiglio dei suoi legali per mettere fine alle oltraggiose accuse fatte contro di lui”. Ha poi aggiunto che solitamente i personaggi pubblici vengono presi di mira per poter estorcere denaro, evitando il clamore mediatico: “Ora si ritrova coinvolto nel tipo di contenzioso che è fin troppo comune in America. Mentre Ronaldo è abituato a essere oggetto di attenzione da parte della stampa che va di pari passo con l’essere famoso, è assolutamente deplorevole che qualsiasi media sostenga o faccia avanzare una campagna di diffamazione così elaborata e deliberata basata su documenti digitali rubati e facilmente manipolabili”.
Juventus, avv. Ronaldo rivela: “Rapporto consensuale. Ecco perchè Cristiano ha firmato l’accordo…”. L’avvocato di Cristiano Ronaldo, Peter Christiansen, per la prima volta, si esprime sul caso che ha coinvolto il suo assistito, scrive il 10 ottobre 2018 Mediagol. Peter Christiansen, per la prima volta, si esprime sul caso riguardante Cristiano Ronaldo. Il legale del centravanti portoghese, incaricato di difendere il suo assistito dalle accuse di stupro rivoltegli dall’ex modella americana Kathryn Mayorga, ha spiegato attraverso un comunicato su quali basi si fonda la questione giudiziaria: “Sono stato assunto per rappresentare Cristiano Ronaldo dopo una recente azione civile basata su eventi presumibilmente accaduti nel 2009, e che è culminata con la firma di un accordo, in base al quale le parti hanno rinunciato a qualsiasi altro diritto. In caso di violazione di questo accordo dall’altra parte, come nel caso delle accuse incendiarie che si verificano nei giorni successivi, Cristiano Ronaldo è stato costretto a rompere il silenzio, dal momento che l’accordo autorizza una reazione proporzionale in caso di violazione della controparte”. L’avvocato difensore, inoltre, si è espresso a proposito della pubblicazione su alcuni tabloid di alcuni stralci della documentazione attestante l’accordo tra le due parti, attraverso cui la vicenda è stata insabbiata nove anni fa, e ha ribadito la posizione di Cristiano Ronaldo: “Dal 2015 decine di entità (tra cui studi legali) di diverse parti d’Europa sono state attaccate da un hacker e i loro dati sono stati rubati da un criminale informatico. Costui ha poi cercato di vendere tali informazioni e qualche media irresponsabile ha finito per pubblicare dei documenti rubati di cui parti significative erano state alterate o completamente create. Ancora una volta, a scanso di equivoci, ripeto: la posizione di Cristiano Ronaldo è sempre state e continua ad essere che quello che è successo nel 2009 a Las Vegas è stato totalmente consensuale. Cristiano non nega poi di aver accettato di stipulare un accordo, ma le ragioni che l’hanno spinto a farlo vanno chiarite: quell’accordo non fu un’ammissione di colpevolezza. Accadde semplicemente che Cristiano Ronaldo seguì il consiglio dei suoi avvocati per mettere fine alle accuse oltraggiose contro di lui. L’altra parte, la modella Kathryn Mayorga, però non ha rispettato l’accordo e Cristiano Ronaldo ha chiesto ai suoi avvocati negli Stati Uniti e in Europa di occuparsi di tutti gli aspetti legali e confida che la verità prevarrà”.
Cristiano Ronaldo accusato di stupro, Giampiero Mughini: "Non è violenza", la tesi che scatena l'inferno, scrive il 10 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano Tv". Quello di Cristiano Ronaldo "non è uno stupro ma un rapporto sessuale non consenziente". Ha scatenato l'inferno questo commento di Giampiero Mughini durante la trasmissione Tiki taka, su Italia Uno. Tanto che il giornalista ha scritto al sito Dagospia per spiegare meglio quello che intendeva dire. Intanto i fatti riportati sul Der Spiegel: "Un ragazzo (famosissimo) e una ragazza attraente che un po' si lusingano a vicenda", "lei gli dà il suo numero di telefono. Lui telefona poco dopo a invitarla nella sua stanza d'albergo i due non sono affatto soli". "Non so esattamente se la ragazza accetti di spogliarsi e di entrare in una vasca da idromassaggio, mi pare di sì", racconta Mughini. "Succede, è lo stesso Ronaldo ad ammetterlo, che a lui venga una voglia fuori controllo di un rapporto anale che la ragazza rifiuta. E’ mia profonda opinione che giunti a questo punto il no della ragazza sia sacro". Ma Ronaldo, come ammetterà lui stesso, dice "che s'è trattato di un rapporto brusco, sbrigativo, e di cui lui chiede scusa. E' esattamente uno stupro? Forse sì, ma se questo è uno stupro, allora come definite i casi di ragazze che vengono acciuffate per strada mentre tornano a casa di notte, scaraventate in un portone, trattate con violenza in ogni e minimo gesto di quel rito sessuale, e minacciate e picchiate e lasciate lì come di un oggetto che è servito a quello scopo e a null'altro?". Insomma, conclude Mughini, "c'è stata una colpa maschile. Tanto è vero che quella colpa, riconosciuta da Ronaldo, è stata pagata con un bel mucchietto di dollari".
Da Dagoreport il 10 Ottobre 2018. Perché il sexy scandalo di CR7 è scoppiato dopo ben 9 anni? Secondo quanto rivelato dal quotidiano portoghese ‘’Correio da Manha’’, c’era il Real Madrid dietro il “l’accordo di riservatezza” siglato nel 2009 da Cristiano Ronaldo con Kathryn Mayorga, la modella americana che accusa il portoghese di stupro. Fu la società di Florentino Perez, temendo le ripercussioni negative sull’immagine della squadra e sul suo fuoriclasse, a versare i 375mila dollari previsti dal patto, in barba a CR7 che proclamava la sua innocenza. Nove anni dopo, con la cessione alla Juve è cambiato l’interlocutore: venuto meno “il contraente” Real i legali della donna hanno bussato alla porta del club bianconero. Al rifiuto, si presume, della Juve e del calciatore di versare altri denari, gli avvocati della Mayorga hanno ricicciato la storia della violenza anale (ammessa con tanto di scuse dal giocatore nella transazione). La divergenza sull’ “uso” di Cristiano Ronaldo sarebbe anche all’origine della fine del rapporto tra Marotta e la Juventus. Il piano di Andrea Agnelli di lanciare con CR7 un’operazione di marketing globale sul marchio Juve avrebbe incontrato più di una perplessità da parte dell’Ad bianconero. Secondo Marotta sarebbe stato un investimento troppo oneroso sulle spalle di un 33enne.
Da corrieredellosport.it il 10 Ottobre 2018. Ci sarebbe il Real Madrid dietro il patto di riservatezza siglato nove anni fa da Cristiano Ronaldo con Kathryn Mayorga, la modella americana che lo accusa di stupro. Lo sostiene il quotidiano portoghese Correio da Manha, che riporta un ampio resoconto sull'incontro a Lisbona tra il giocatore e i suoi legali. Per il giornale lusitano l'attaccante - affermando la sua innocenza - sarebbe stato contrario a corrispondere alla modella i 375mila dollari previsti dal patto di riservatezza. Il club spagnolo, sempre secondo il quotidiano, avrebbe invece spinto per pagare l'indennizzo per il timore che la società potesse essere screditata. Correio da Manha ritorna anche sulla presunta violenza sostenendo che dopo il rapporto sessuale, Ronaldo e la modella tornarono in discoteca e vi rimasero ancora per alcune ore. Questi particolari farebbero parte della strategia dei legali per smontare le accuse nei confronti del giocatore.
Da Oggi il 10 Ottobre 2018. Il destino di Cristiano Ronaldo è nelle mani di due donne. Una è, ovviamente, Kathryn Mayorga, l'ex insegnante e modella che lo accusa di averla violentata nel 2009 a Las Vegas. L'altra è il giudice che si pronuncerà sul caso. Lo rivela il settimanale OGGI in edicola da giovedì 11 ottobre. Il giudice si chiama Adriana Escobar, è stata rieletta nel 2015 con il 70 per cento dei voti (negli Stati Uniti quella di giudice è una carica elettiva) e appartiene alla 14esima sezione della Clark County Disctrict Court, a Las Vegas. Per CR7, non è una buona notizia: la statistica e l’esperienza insegnano che, specie in America, quando una donna giudica una causa in cui il convenuto è una celebrità maschile e la (presunta) vittima una ragazza della middle class locale, tende a essere piuttosto severa. OGGI racconta poi tutti i retroscena della vicenda, compreso il coinvolgimento di Ruby Rubacuori.
Da La Zanzara – Radio 24 il 10 Ottobre 2018. “Perché Ronaldo gioca ancora nella Juventus mentre Asia Argento è fuori da X Factor? Brizzi è stato criminalizzato e poi assolto. Sono contro l’ipocrisia”. Lo dice Red Ronnie a La Zanzara su Radio 24. “Ronaldo per me deve continuare a giocare – dice - come Asia Argento avrebbe dovuto continuare a fare X Factor. Asia improvvisamente da salvatrice della patria diventa il mostro. X Factor ha già le puntate registrate e le manda in onda. Quindi quando lei è un mostro, X Factor manda in onda le puntate. Quindi va bene mandare in onda un mostro che hanno già registrato, ma non dopo. Che poi tutti ci rendiamo conto che lei non c’entra niente, oppure se c’entra è stata una roba veramente ridicola”. “Ormai siamo alla follia – dice Red Ronnie – se pensate che il mio amico Simon le Bon è stato accusato da una ragazza adesso che 20 anni fa in un negozio di dischi dove firmava degli autografi le ha toccato il sedere e dopo 20 anni lei ha ancora il trauma. Su Cristiano dico che una ragazza che va in albergo con lui non è che crede di andare a bersi una tisana. Questa è la prima cosa. La seconda cosa è che poi dopo ci ripensa però salta fuori adesso, dieci anni dopo un accordo. Adesso è di moda, tutte vogliono avere un po’ di notorietà”. “I carnivori – dice ancora Red Ronnie - sono più aggressivi dei vegani, non più violenti, è diverso. Potrebbe esistere un vegano stupratore? Ma certo, per esempio c’è un nazivegano che è stato accusato di stalking e di aver picchiato la sua ragazza. Ed era orgoglioso di essere un nazivegano. Ma di solito i vegani sono più tranquilli. Io l’ho visto sulla mia pelle. Smettere di mangiare carne ti fa vedere più lontano. Vedi più chiaro, sei molto più rilassato. Le deviazioni che uno ha sono indipendenti da ciò che uno mangia. I vegani comunque sono meno aggressivi, io sono meno aggressivo. Ero molto più aggressivo quando mangiavo carne”. Sui vaccini questo governo ti ha deluso?: “No, perché un conto sono le intenzioni un conto quando arrivi nella sala dei comandi e ci sono accordi scritti che devi rispettare. Burioni? Lui è diventato una star, io ho dovuto pagare 20mila euro di avvocati, che non ho. Mi dovrebbe ringraziare”. Ma non puoi metterti sullo stesso piano di uno scienziato: “Lui si mise a ridere in faccia a un genitore che era collegato con un figlio autistico, diventato per colpa anche dei vaccini. E mi scese giù la catena. Io mi occupo di vaccini e ne so molto di più di quello che potete immaginare. Sono amico della scienziata cubana Concepcion Campa che ha inventato il vaccino contro la meningite dei bambini”. Poi torna su Ronaldo: “Agli juventini che mi stanno insultando dico che uno scudetto degli anni novanta lo devono a me perché feci un tour con la squadra che creò a formare lo spogliatoio. Lo disse Vialli e Lippi mi voleva sempre alle presentazioni e altre iniziative della società. L’ex della Juve Romi Gay mi voleva sempre e persero una finale di Champions perché non andai. Avevo un lavoro già programmato, fecero di tutto per farmi arrivare alla partita”.
Da corrieredellosport.it il 10 Ottobre 2018. "Sono stata fidanzata 11 mesi con Cristiano Ronaldo, ai tempi giocava con il Manchester United. Sono stati 11 mesi d'amore". Così Raffaella Fico, ex compagna del portoghese che oggi è stata ospite di "Un Giorno da Pecora" Rai Radio1. "Quando succede una cosa del genere (si riferisce al caso dei presunti abusi) la si apprende sempre con stupore - ha detto - Ronaldo è un ragazzo normale, tranquillo, semplice, con me è stato un vero gentiluomo. A casa come si comportava? Si allenava anche a casa, faceva gli addominali. Li faceva dopo cena. Guardava un film, si rilassava e faceva gli addominali, ne avrà fatti 4 o 5 serie da 20".
Da dagospia.com del 22/02/2011.
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22/02/2011 Adesso che Sanremo è finito, si scopre che un paio di settimane fa, alla vigilia dei preparativi per il Festival presentato insieme a Belén Rodriguez con Gianni Morandi, la showgirl e attrice Elisabetta Canalis è stata interrogata a Milano come testimone dal pm Ilda Boccassini nell\'ambito dell\'inchiesta sui rapporti tra Silvio Berlusconi e la (allora) 17enne marocchina Karima «Ruby» el Mahroug. La deposizione, che fonti concordi collocano non in tribunale ma in Questura intorno alle 8 di sera, è stata molto breve e ha riguardato il compagno della Canalis, l\'attore americano George Clooney. Come era emerso nell'ottobre scorso, Ruby nei suoi primi interrogatori aveva indicato anche Clooney e Canalis tra i presenti nel 2010 a una delle feste di Arcore. Già all'epoca questa era apparsa una delle tante claudicanti circostanze nelle affermazioni dell\'allora minorenne, posto che Clooney era noto avesse incontrato il premier ma in epoca precedente e per chiedere aiuti per la causa umanitaria del Darfur di cui era testimonial. In effetti, anche nella sua deposizione al pm Boccassini Elisabetta Canalis ha radicalmente escluso di aver mai cenato insieme al compagno in alcuna delle molte case di Berlusconi, e tantomeno ad Arcore nel 2010.
Francesco Perugini per "Libero" il 22/02/2011. Ruby Rubacuori racconta balle: abbiamo le prove. Non lo ha detto finora il lungo lavoro investigativo dei procuratori aggiunti Ilda Boccassini e Pietro Forno, che insieme con il pm Antonio Sangermano hanno invece basato tutto il procedimento contro Silvio Berlusconi proprio sulle parole della 18enne marocchina. Vogliamo dimostrarvelo noi di "Libero", partendo dalle ultime clamorose rivelazioni pubblicate dai segugi di "Repubblica". Giuseppe D'Avanzo, Pietro Colaprico ed Emilio Randacio sabato scorso hanno svelato il contenuto dei verbali delle dichiarazioni rese da Kharima el Marhoug nelle varie audizioni con i magistrati di Milano. Tra le pagine della storia personale della marocchina, c'era anche il racconto di una fugace relazione con Cristiano Ronaldo. Un amore nato e consumato, nonostante il portoghese fosse a conoscenza della minore età della ragazza. «È un racconto non verificabile», è stato il commento filtrato ieri dal Palazzo di Giustizia milanese, dopo le polemiche da parte di alcuni giornali per la mancata incriminazione del giocatore. Tutto il contrario rispetto alla "prova evidente" dei rapporti sessuali tra Berlusconi e Ruby (sempre negati dalla ragazza), grazie alla quale i pm milanesi hanno ottenuto il rito immediato per le accuse di prostituzione minorile e concussione a carico del premier. Dato che la Procura non si è premurata di verificare il flirt tra Ruby e Ronaldo, vogliamo darvi noi di "Libero" le prove delle bugie della 18enne escort. Partiamo dal primo incontro tra i due spiriti bollenti: «Era il 29 dicembre 2009. Ero all\'Hollywood e sono stata fermata da Ronaldo. Mi ha fatto dei complimenti e ci siamo scambiati il numero di cellulare», racconta la ragazza. Un incontro da favola, così bello che la ragazza ne ricorda la data esatta a mesi di distanza. Quei giorni, però, sono importanti anche per Ronaldo. Arrivato a Madrid per 94 milioni di euro e subito bloccato da un infortunio alla caviglia, CR deve riscattarsi.
Cristiano Ronaldo Da L'Espresso il 22/02/2011.
Il 28 dicembre Ronaldo fa un servizio fotografico per Marca e nel pomeriggio riprende gli allenamenti a Valdebebas dopo le vacanze di Natale. Il 29 mattina l\'attaccante è ancora in campo così come il 30, il giorno successivo al presunto incontro con Ruby. Cristiano appare ubriaco? È stanco per la scappatella notturna in Italia? No, anzi. Si presenta alle 10.30 puntuale e così pieno d\'energia da scavalcare con un balzo da cestista il compagno Marcelo. Niente a che vedere con l'Adriano delle notti milanesi. «Ci siamo rivisti varie volte al ristorante. Circa tre settimane dopo, abbiamo deciso di fare l'amore e ci siamo incontrati in un hotel lussuoso. Al mattino non l'ho ritrovato più. Sul comodino c'era un biglietto e 4.000 euro», ricorda ancora la marocchina. In quel periodo non c'è traccia di Ronaldo a Milano, ma andiamo avanti. «L'ho rivisto due settimane dopo al "The Club". Era in un privè. Ho preso un bicchiere di champagne e gliel'ho tirato in faccia. Poi, gli ho buttato addosso le banconote da 500», rivendica la ragazza. Una scena avvenuta davanti a tutti i clienti della serata, ma rimasta segreta finora. Inverosimile. Tanto più che dal locale milanese - come dall'Hollywood - fanno sapere di non aver mai ospitato Cristiano Ronaldo. Ce n'è abbastanza per smentire il racconto di Ruby, la super testimone del processo contro Berlusconi. E va bene che i magistrati sono occupati nelle indagini su Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora (la chiusura è prevista entro questa settimana), ma almeno i "pm a mezzo stampa" potevano fare una piccola verifica.
Flavio Pompetti per il Messaggero il 10 Ottobre 2018. «Quello che accade a Las Vegas resta a Las Vegas», recita un vecchio adagio coniato per pubblicizzare la mecca degli eccessi. L'inchiesta riaperta dalla polizia cittadina contro Cristiano Ronaldo ha già infranto fragorosamente questa promessa, e la notizia sta rimbalzando sulla stampa di tutto il mondo. Dappertutto, tranne che all'interno dell'ovattato mondo del calcio professionistico. Il semplice odore di questa accusa ha distrutto la carriera di decine di star dello spettacolo, dal potente produttore Harvey Wenstein in poi, di dirigenti dei media e dell'entertainment negli Usa e altrove, ma non sembra riuscire a penetrare la coltre di omertà che si è stretta intorno a CR7 e al regno miliardario di affari che lo circonda. Lo scandalo che lo riguarda è scoppiato lo scorso aprile sulle pagine dello Speigel e da allora sappiamo che, anche se Ronaldo rigetta l'accusa di aver stuprato la giovane Kathryn Mayorga a Las Vegas in una notte di festeggiamenti presso il Palms Hotel, c'è la sua firma su un contratto da 375mila dollari che avrebbe dovuto chiudere la bocca della donna per sempre. Eppure da quella data il giocatore ha concluso un contratto miliardario per passare dal Real Madrid alla Juventus, e il suo nome è stato proposto a più voci per l'ennesimo pallone d'oro che dovrebbe premiare oltre all'atleta, i valori etici ai quali si ispira la Fifa. Se il mondo del calcio tace, la polizia statunitense è però all'opera. Gli inquirenti hanno riaperto il fascicolo depositato otto anni fa dalla donna. Lo hanno fatto su istigazione dei legali della stessa presunta vittima, a dispetto dell'accordo extragiudiziale che lei stessa aveva firmato dietro un pagamento di 375.000 dollari. Questi ultimi hanno promosso un'azione civile nella quale impugnano il contratto per coercizione e frode, abuso di una persona debole, estorsione e cospirazione. La loro tesi è che Mayorga è stata isolata dalla sua famiglia durante il negoziato, e che ha dovuto affrontare un intero team di esperti legali mentre era ancora in condizioni di shock per quanto le era accaduto. La denuncia riguarda l'applicazione o meno delle severe penalità che il contratto prevedeva contro la donna in caso di divulgazione in pubblico. La seconda denuncia, quella penale, è la più pesante. Si basa sulla denuncia che Katrhyn Mayorga aveva fatto il giorno dopo il presunto accaduto, accompagnata da un test medico che documenta la sodomia violenta subita. Se il fascicolo finirà in tribunale e Ronaldo sarà ritenuto colpevole, rischia una condanna che può estendersi fino all'ergastolo, con la scarcerazione prevista non prima di 15 anni di detenzione. Il clima generale, non c'è bisogno di ricordarlo, non è favorevole a chi ha commesso il reato, e la notorietà dell'accusato giocherebbe sicuramente a suo sfavore. Ma anche prima che abbiano inizio gli eventuali processi, resta l'alto rischio di un danno economico per il giocatore e per la sua squadra, come si è visto dal trattamento che la Borsa ha riservato al titolo della Juventus negli ultimi giorni. Intanto a Las Vegas Leslie Stoval, l'avvocato che ha avviato un'azione civile contro CR7, ha affermato: «Altre tre donne, oltre a Kathryn Mayorga, accusano Ronaldo». E secondo il Sun spunta perfino Karima El Mahroug, cioè Ruby: Ronaldo avrebbe pagato 4mila euro per stare con lei quando aveva 17 anni. Ma non è chiaro se anche Ruby sia tra le donne di cui parla Stoval. «Siamo profondamente preoccupati» ha detto la Nike, che è legata a Ronaldo da un contratto da un miliardo di dollari. L'azienda dell'Oregon in passato ha tagliato i contatti con atleti del calibro del pugile Manny Paquiao e del ciclista Lance Armstrong in seguito agli scandali (violenza sessuale e droga rispettivamente) che li avevano coinvolti. Il secondo partner commerciale di Ronaldo, la EA Sports, ha scritto: «Monitoriamo la situazione, e ci aspettiamo che gli atleti a noi legati si comportino in conformità con i valori della nostra società».
Da gazzetta.it il 10 Ottobre 2018. Nelle indiscrezioni pubblicate dalla stampa inglese sulle presunte nuove accuse a Cristiano Ronaldo è finito anche il nome di Karima El Mahrough, la "Ruby" che entrò nell'inchiesta che coinvolse l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (totalmente assolto dall'accusa di avere avuto rapporti sessuali con la ragazza quando non era ancora maggiorenne). Oggi il Corriere della Sera riporta la testimonianza fornita dalla stessa ragazza, allora diciassettenne, il 22 luglio del 2010 davanti al procuratore aggiunto di Milano, Pietro Forno, e a un'ispettrice di polizia. Quel giorno, Ruby mescola fatti veri e riscontrati dagli investigatori ad altri di cui non è stata trovata prova e che gli inquirenti hanno ritenuto pure invenzioni. Racconti giudicati non attendibili come l'incontro con Cristiano Ronaldo in una discoteca di Milano, l'Hollywood. "Non mi sono mai prostituita né ho mai accettato rapporti sessuali a pagamento; ho avuto rapporti sessuali con ragazzi che mi piacevano. L’unica volta che sono stata pagata per un rapporto sessuale è nella circostanza in cui ho avuto un rapporto con il calciatore Cristiano Ronaldo che ho conosciuto il 29 gennaio del 2009", dice Karima secondo la ricostruzione del Corriere. In un racconto che va avanti tra varie contraddizioni, Ruby sostiene di essere andata nel locale per conoscere il calciatore, di essere stata agganciata da lui, ma di non avergli rivelato la sua età (17 anni). Dopo essersi scambiati i numeri di telefono, i due si sarebbero rivisti a distanza di qualche giorno per una cena. Poi sarebbero finiti nella camera del portoghese in un famoso hotel della città. Il mattino seguente, racconta la ragazza, il giocatore sarebbe andato via senza svegliarla lasciandole quattromila euro in contanti un biglietto sul comodino in cui scriveva: "Spero di non trovarti quando torno". Ruby sostiene di avere incontrato di nuovo Ronaldo in un'altra discoteca, di avergli rovesciato un bicchiere di champagne in testa, poi lanciato in faccia le banconote da 500 euro. Ronaldo infine si sarebbe scusato. Nessuna delle circostanze descritte dalla ragazza ha trovato riscontri, per questo gli investigatori hanno ritenuto il racconto pura fantasia. Convinzioni rafforzate da un'intercettazione nella quale lei stessa sostiene di essersi inventata tutto. La vicenda poi è stata smentita dalla stessa Karima in tribunale a Milano nel 2013, sentita in aula come testimone in un altro processo. "Sono sconvolta. Ancora una volta vedo il mio nome strumentalizzato per altri fini". Sono le parole scritte da Karima in un sms inviato questa mattina al suo legale Paola Boccardi. Ruby smentisce quanto riportato sul suo conto dai media nell'ambito delle accuse mosse dagli Usa al campione della Juventus e si riferisce all'articolo del tabloid inglese The Sun nel quale viene fatto anche il nome della El Mahrough, che in dichiarazioni di anni fa ai pm italiani aveva detto di aver conosciuto e aver avuto rapporti a pagamento col giocatore portoghese. Una vicenda poi smentita dalla stessa Karima. Per l'avvocato, "si tratta di fake news. Certamente Karima negli ultimi anni non ha fatto alcuna dichiarazione che riguarda Ronaldo. L'unica cosa che vien da pensare leggendo le notizie dei media è che facciano riferimento alle dichiarazioni da lei fatte da diciassettenne in merito alle quali ha già reso smentita nel corso della sua testimonianza dibattimentale tre anni fa".
Gaia Piccardi per il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2018. Kathryn Mayorga, ma (forse) non solo. «Sono stato contattato da una donna che sostiene di aver ricevuto lo stesso trattamento da Cristiano Ronaldo» dice nei microfoni dei media americani Leslie Stoval e il vocione dell'avvocato della donna che sostiene di essere stata stuprata da CR7 nella suite 57306 del Palms Place Hotel di Las Vegas la notte del 13 giugno 2009 rimbomba in tutto il mondo. «Ma non è tutto - aggiunge -. Voglio parlare con le ex fidanzate del calciatore, le ragazze che lo conoscono intimamente: sarebbero preziose per capire la sua condotta. Andrò in Inghilterra, se serve». La lista di compagne note non è breve. Kim Kardashian, Paris Hilton, Gemma Atkinson, Irina Shayk per rimanere alle più celebri. Ma al di là di un proposito che potrebbe restare una boutade, l'uscita di Stoval dà un'idea della potenziale portata di un'altra ondata #metoo, se le accuse fossero confermate. Sarebbe la prima nel calcio. La seconda donna, per ora, non ha nome né cognome: le sue generalità sono state comunicate da Stoval alla polizia di Las Vegas, che ha riaperto un cold case del 2009 che si pensava seppellito per sempre dall' accordo extragiudiziale da 375 mila dollari tra Ronaldo e la Mayorga, riemerso nelle pieghe del Football Leaks e pubblicato ieri dallo Spiegel mentre il bomber più famoso del mondo incassava l' appoggio di Antonio Costa, primo ministro del Portogallo: «Non è sufficiente essere accusati per diventare colpevoli. Se c' è qualcosa di cui abbiamo prova, è che Ronaldo è un grande professionista». Della scrittura privata siglata il 12 gennaio 2010 dall' avvocato Osorio de Castro in nome di Ronaldo (il team di legali gli aveva dato il nome in codice «Topher» perché non apparisse), colpisce la brevità: due paginette per transare una vicenda delicata e complessa, della quale le parti, Cristiano (Mr. D) e la Mayorga (Ms. P) , forniscono una ricostruzione dei fatti diametralmente opposta. 11 punti, per non parlarne mai più. La donna infatti si impegna a far cadere qualsiasi azione penale e civile nei confronti del portoghese, promettendo di mantenere il silenzio e di farlo mantenere a tutti coloro che fossero a conoscenza dei fatti (ad esempio i genitori, le prime persone a cui la Mayorga si rivolse nella notte del presunto stupro), fornendone alla controparte una lista. CR7 in cambio produce il suo test negativo dell'Hiv: il «brusco e sbrigativo» rapporto al Palms Place Hotel non era stato protetto. L' accordo all' epoca venne giudicato favorevolissimo dai legali del giocatore, che nel 2010 era già una stella planetaria del calcio mondiale, attaccante con la camiseta blanca numero 9 del Real Madrid e con la maglia rossa numero 7 del Portogallo. «Dato il tipo di accusa della querelante - scrive l' avvocato Stoval nella denuncia civile presentata il 24 settembre scorso al tribunale distrettuale di Clark County, Nevada, l' atto che ha riaperto un caso già chiuso -, Topher (Cristiano Ronaldo, ndr) ha ottenuto un accordo incredibilmente favorevole: rischiava il processo e la prigione, con il catastrofico effetto collaterale di non poter più entrare negli Stati Uniti e il devastante impatto sulla sua reputazione, vita privata, immagine pubblica, contratti e opportunità professionali». In questi giorni incandescenti di scandalo, Cristiano Ronaldo, che non è stato convocato dal c.t. del Portogallo Santos per le partite della Nations League, è in vacanza: tre giorni di riposo, concessi a lui e a tutta la Juventus dall' allenatore Allegri per la sosta del campionato. Salterà anche Italia-Portogallo, il 17 novembre a San Siro. Nessuna dietrologia. Era stato già deciso.
Da sport.tiscali.it l'8 Ottobre 2018. Non si placa la bufera mediatica su Cristiano Ronaldo. Il gol splendido contro l'Udinese nell'anticipo di sabato non ha fatto calare l'attenzione dei sulle accuse di presunta violenza sessuale subita da Kathryn Mayorga nel 2009. Secondo quanto riportato dal Daily Mail, l'avvocato della donna sarebbe stato contattato da un'altra donna che sostiene di essere stata vittima di CR7. Stovall avrebbe girato queste informazioni alla polizia di Las Vegas che ha riaperto il caso dopo la denuncia civile presentata il 27 settembre 2018 Mayorga.
Nuove accuse contro CR7, ma ci sono dei dubbi. Ma chi è la nuova accusatrice di Cristiano Ronaldo? Si tratta di una ragazza inglese che avrebbe avuto un rapporto sessuale non consensuale nell'ottobre del 2005. Il fantasista portoghese allora giocava nel Manchester United. Ma ci sono dubbi sulla ricostruzione della seconda presunta vittima. Secondo quanto riporta The Sun, un tassista scagionerebbe il fantasista della Juve. E' l'uomo che riportò a casa la ragazza dopo la serata che lei aveva trascorso in compagnia di Cristiano Ronaldo in un hotel a Marylebone, nel centro di Londra. "Era felicissima dopo aver lasciato la stanza d’albergo. Disse che Ronaldo era stato fantastico ed era così eccitata che mi rivelò di voler chiamare suo figlio proprio Ronaldo", ha riferito il tassista. "Quando qualche giorno dopo ho sentito che la ragazza voleva denunciarlo sono rimasto scioccato - ha aggiunto l'autista -. La ragazza continuava a ripetere che Ronaldo era ‘fantastico e in forma'".
Sparite alcune prove. Ma l'avvocato di Mayorga ha fatto anche altre rivelazioni. Le prove sul presunto stupro sarebbero andate perse. Secondo quanto dichiarato a Der Spiegel da Leslie Mark Stovall, la polizia non avrebbe più il vestito e la biancheria intima che la donna indossava la sera del presunto stupro.
Un team per "controllare" Mayorga. Sempre Der Spiegel rivela anche che Mayorga fu controllata dagli uomini di CR7. Dopo le accuse della ragazza, l'avvocato Carlos Osorio de Castro mise insieme un team per evitare danni all'immagine del campione portoghese. Un gruppo formato da un detective privato, due avvocati portoghesi, due studi legali (lo Schilling di Londra e il Lavely & Singer in California), il noto avvocato di Las Vegas, Richard Wright, e un medico legale. Questo gruppo avrebbe dovuto raccogliere informazioni su Mayorga.
La difesa del primo ministro del Portogallo. Intanto, in difesa dell'idolo nazionale, è sceso in campo il primo ministro del Portogallo, Antonio Costa. Le accuse contro CR7 al momento sono prive di riscontri sufficienti, è il pensiero di Costa. In un'intervista televisiva rilasciata dall'isola di Lanzarote, il primo ministro ha rivendicato "la presunzione d'innocenza", per l'attaccante della Juve. "Non è sufficiente essere accusati per diventare colpevoli", afferma Costa aggiungendo che "se c'è qualcosa di cui abbiamo la prova è che (Ronaldo) è uno straordinario professionista, uno straordinario calciatore e qualcuno che ha dato prestigio al Portogallo". "Di certo - conclude il premier - tutti ci auguriamo che nulla possa macchiare questo curriculum". Un curriculum che invece l'avvocato della presunta vittima considera già macchiato: evocando dagli Usa - come scrive ancora il Sun - anche l'esistenza di una possibile seconda accusatrice per ora anonima disposta, pare, a venire alla luce.
Marco Letizia per corriere.it l'8 Ottobre 2018. Cristiano Ronaldo sarà processato? Dopo la riapertura delle indagini da parte della polizia di Las Vegas sul presunto stupro commesso dal fuoriclasse portoghese la notte del 13 giugno del 2009 in una stanza del Palms Hotel ai danni dell’allora 25enne Kathryn Mayorga, c’è una possibilità che si arrivi ad un dibattimento. Una possibilità data dal fatto che il recente inasprimento della normativa relativa allo stupro (la pena prevista attualmente oscilla dalla condanna all’ergastolo con la possibilità di liberazione sulla parola dopo 15 anni alla condanna all’ergastolo senza condizionale) ha portato la prescrizione da 4 a 20 anni. Per questa ragione è stato possibile riaprire le indagini. «Ci vorrà del tempo prima di concludere le indagini, poi trasmetteremo il fascicolo al procuratore e toccherà a lui stabilire se ci sono prove sufficienti per un’incriminazione ad andare a processo» spiega un portavoce della polizia di Las Vegas alla Gazzetta dello Sport. Secondo quanto rivela il quotidiano sportivo ci potrebbero volere mesi prima della chiusura delle indagini. Sicuramente Cristiano Ronaldo sarà sentito, ma probabilmente per videoconferenza o con risposte via mail alle domande. Intanto la Gazzetta rivela che allegato all’accordo siglato tra Cr7 e la Mayorga, pubblicato dallo Spiegel e poi anche dal Corriere della Sera, ci sarebbe stata anche una lettera di 6 pagine che la ragazza avrebbe scritto a Ronaldo nel 2010 in cui si dichiarava pentita di aver preso i famosi 375.000 dollari in cambio della promessa del silenzio sul fatto. «Mi piacerebbe raccontare al mondo chi sei davvero» avrebbe detto la Mayorga. Una domanda che a questo punto si fanno in molti.
Chirico: "Sexygate di Ronaldo? Parliamo di cose serie...", scrive Marcello Chirico, per Calciomercato.com su ilbianconero.com il 09/10/18. "A proposito di sexygate, Ronaldo turbato e Juventus preoccupata. Ottava vittoria consecutiva della squadra di Allegri, e primato in classifica confermato a +6. Score personale del portoghese a Udine: ha tirato complessivamente 7 volte, 3 nello specchio, in una di queste ha fatto pure gol (e un superlativo Scuffet gli ha miracolosamente negato la doppietta); ha giocato 55 palloni e nell'87% dei casi ha azzeccato il passaggio (ne ha persi solo 11). Niente male per uno sceso in campo tormentato dalle notizie provenienti dagli States, e rilanciate alla grande dai media italiani, non vi pare? Notizie che, altrettanto, avrebbero dovuto disturbare la settimana bianconera, incidendo sulla prestazione della squadra, invece... Alla Dacia Arena è andato tutto al contrario di come in tanti si sarebbero immaginato (e avrebbero sperato). Parliamoci chiaro, su certi temi non si scherza: gli stupri, così come ogni altro tipo di violenza sessuale commesso sulle donne, sono atti abominevoli. Purché siano episodi seri, non storielle buone solo per giornaletti scandalistici. Gli stupri veri sono quelli patiti in Iraq da Nadia Murad, o quelli subiti dalle donne congolesi curate poi dal dottor Mukuwege. Roba seria, infatti entrambi sono stati insigniti del premio Nobel. Quello raccontato dalla modella americana Kathryn Mayorga, è altra cosa, anche se adesso in Italia molti finti bacchettoni e pasionarie dell'ultim'ora si sono già schierati dalla sua parte, "indipendentemente dalla squadra che si tifa". Si, venitecelo a raccontare. L'episodio - una sodomizzazione imposta con la forza, nella versione della Mayorga - risale al 2009.Circola in rete pure un video di quella notte brava trascorsa da Ronaldo in un locale di Las Vegas e, dalle immagini, la signorina in questione non sembrerebbe proprio disdegnare la compagnia del macho portoghese. Ciò che accadde dopo, nella suite di un Hotel, lo sanno però solo i 2 interessati. Per evitare un casino mediatico, Ronaldo preferi' chiudere la questione accordandosi con la Mayorga, firmandole un assegno di 370 mila dollari. Una donna che subisce una violenza sessuale pretende giustizia, vuole vedere il suo violentatore in galera, non chiede dei soldi. La Mayorga ha dichiarato recentemente di essersi pentita per aver incassato quella paccata di soldi...9 anni dopo...mah! Di questa avventura piccante non ne parlò nessuno fino ad aprile dello scorso anno, quando Der Spiegel - venuto in possesso, grazie a Wikileaks, delle carte riguardanti questo caso - lo risparò fuori, ma con scarso successo. In America scoppia poi il caso del giudice Kavanaugh, accusato di aver stuprato in adolescenza una ragazzina di 15 anni, che oggi ne ha 50 ed ha deposto contro di lui. Da lì è partito il movimento femminile #metoo in appoggio a Christine Ford, e i legali della Mayorga - a mio parere - hanno sfruttato la scia per risollevare il polverone e, magari, tirare su un altro po' di dollari. Der Spiegel gli sta facendo da grancassa, sostenendo che le prove sul caso sono sparite. Per la Polizia di Las Vegas, invece, le prove non ci sono e basta. Domanda: perchè la Ford se n'è uscita fuori dopo quasi 40 anni con sta storia di stupro? Perchè la Mayorga ha ritirato fuori la vicenda della sodomizzazione dopo 9 anni? Risposta: per danneggiare l'avversario. Politico o sportivo che sia. Nel primo caso, cercare di stoppare la nomina del repubblicano Kavanaugh alla presidenza della Corte Suprema, con l'appoggio del partito democratico. Nel secondo caso, rovinare l'immagine di Ronaldo e fargli perdere contratti pubblicitari. Discorso che coinvolge anche la Juventus, la quale ha acquistato CR7 non solo per rinforzare la squadra ma anche sfruttarlo col marketing ed aumentare il fatturato. Cosa che, magari, a qualcuno in Europa potrebbe dare fastidio. In Italia non ne parliamo nemmeno. Quando è riscoppiato il caso, la EASport (l'azienda che produce il videogioco Fifa) ha tolto dal proprio sito l'immagine di Ronaldo. Due giorni dopo l'ha rimessa, ma pochi lo sanno. Le borse europee da giorni chiudono tutte in negativo, compresa Piazza Affari a Milano. Perdono i titoli di Stato, perdono i titoli bancari, perde ovviamente pure quello della Juventus, eppure ci continuano a dire per colpa del sexygate di Ronaldo. Parliamo di cose serie, dai".
Der Spiegel, nuove accuse a Ronaldo: "Caso Mayorga, ecco tutte le prove", scrive il 30 novembre 2018 Calcio Mercato. Il Der Spiegel, che di recente aveva accusato Cristiano Ronaldo nella vicenda del presunto stupro alla modella Kathryn Mayorga, pubblica oggi una nuova documentazione sulla vicenda, che risale all'anno 2009 a Las Vegas. Di seguito riportiamo una sintesi delle nuove accuse della testata tedesca, così come tradotta da ilbianconero.com. "DER SPIEGEL è in possesso di questo documento e di centinaia di documenti aggiuntivi, la maggior parte dei quali proviene dalle informazioni sulla Football Leaks. Questi dimostrano come una squadra di avvocati è riuscita a mettere a tacere Kathryn Mayorga nove anni fa. Alla fine di settembre, l'ex modella di Las Vegas ha reso pubbliche le proprie accuse. Nelle conversazioni con DER SPIEGEL, ha riferito la sua versione di ciò che è accaduto nel 2009 e di quanto gravemente l'incidente l'abbia traumatizzata. Ha detto di non essere mai stata in grado di andare oltre l'evento e trovare la pace. Inoltre, Mayorga ha intentato un'azione civile contro l'attaccante della Juventus. Il suo nuovo avvocato crede che l'accordo di non divulgazione da lei firmato tanti anni fa non sia giuridicamente vincolante e afferma che Mayorga non era stata legalmente competente al momento in cui è stato firmato. Il team legale di Ronaldo ha costantemente cercato di impedire qualsiasi copertura mediatica relativa al caso. Più di recente, uno dei suoi avvocati dei media ha chiesto un'ingiunzione preliminare contro DER SPIEGEL - ma senza successo. Ora sono emersi nuovi dettagli. Mostrano quale degli avvocati di Ronaldo in quel momento ha creato o rivisto quale documento, quando sono state apportate tali modifiche e a chi è stato inviato il documento. Questi documenti potrebbero essere decisivi per l'indagine della polizia in corso perché indicano come Ronaldo apparentemente visto quella notte a Las Vegas. Il documento chiave sembra essere un questionario di 27 pagine che è stato sviluppato dagli avvocati di Ronaldo per avere un'idea di ciò che è avvenuto nelle prime ore del mattino del 13 giugno 2009, nell'Hotel Palms Place di Las Vegas. Circa un mese dopo quella notte, l'avvocato londinese di Ronaldo Simon Smith ricevette un messaggio che una donna negli Stati Uniti aveva accusato Ronaldo di stupro. Quasi immediatamente, un team legale altamente professionale è stato riunito attorno alla superstar, che si era appena trasferito dal Manchester United al Real Madrid per una somma record di 94 milioni di euro. [...] Oltre a Smith a Londra, il team legale comprendeva anche lo studio legale Lavely & Singer a Los Angeles, l'avvocato difensore Richard Wright a Las Vegas e l'avvocato Carlos Osório de Castro a Porto. Quest'ultimo è uno dei consulenti più vicini a Ronaldo ed è incaricato di negoziare i contratti del giocatore. Il 3 agosto 2009, l'avvocato della California Jay Lavely ha preparato un PDF di 41 pagine con il titolo: "Domande per il cliente". [...] Alle 10:21 del giorno successivo, il 4 agosto 2009, Osório de Castro scrisse a un confidente di Ronaldo: "Quando arriva il CR negli Stati Uniti? Com'è organizzato per domani? Ho bisogno di 2 (!) ore con lui a fornire risposte alle dozzine di domande degli avvocati americani sulla giovane donna. Ulteriori messaggi chiariscono che il cognato di Ronaldo e suo cugino, entrambi con Ronaldo a Las Vegas, dovevano essere interrogati da un collega dello studio legale di Osório de Castro. [...] Lo scambio è solo una delle molte indicazioni che il questionario allegato non può essere stato un documento falsificato. Cortez ha citato formulazioni che fanno parte delle risposte di Ronaldo. Tradotto liberamente, "bola de cuspo" significa saliva, mentre "toca-me ao bicho" significa: "Ha toccato il mio uccello". Trascorsero tre mesi, durante i quali gli avvocati di Ronaldo cercarono di raggiungere un accordo extragiudiziale con Kathryn Mayorga. Il tempo era essenziale, perché solo poche ore dopo l'incidente, la giovane donna era andata alla polizia e le sue ferite erano state documentate, ma non era ancora uscita con il nome del presunto colpevole. Aveva paura di farlo, dice lei. Alle 1:55 pm il 24 dicembre 2009, Osório de Castro ha inviato un documento con il titolo "TQuestionsv2 ITA.doc". I destinatari erano Jay Lavely, una collega di Lavely e i due avvocati Rendeiro e Cortez. A prima vista, l'allegato sembra essere il questionario di settembre. Ronaldo è identificato come "X", mentre Mayorga viene indicato come "Ms. C." Anche le domande sono le stesse. Ma le risposte di Ronaldo non sono nemmeno vicine allo stesso, come dimostra un confronto diretto tra le due versioni. Domanda: "Che cosa è stato detto da te e cosa è stato detto dalla signora C? (Questo è particolarmente importante se si dice qualcosa sul sesso o qualcosa del genere)" Nella versione di settembre, X dice: "Ha detto che non era corretto fare sesso, dal momento che si sono appena incontrati ('Meglio no, è la prima volta.') Ma anche così, ha afferrato il mio uccello". Nella versione di dicembre, tuttavia, la risposta di X era semplicemente: "M'ha afferrato il mio pene". Domanda: "Descrivi in dettaglio cosa è successo a partire dal primo contatto fisico che hai avuto con la signora C nell'altra stanza e descrivi la sequenza di eventi riguardo a qualsiasi contatto fisico e coinvolgendo qualsiasi abbraccio, carezza, bacio o andare da una posizione posizionarsi su un letto, o sul pavimento o ovunque si sia verificato". Nella versione di settembre, X risponde: "L'ho scopata da un lato, lei si è resa disponibile, era sdraiata su un fianco, a letto, e io l'ho presa da dietro, è stata dura, non abbiamo cambiato posizione per 7 minuti. Ha detto che non voleva, ma si è resa disponibile. Tutto il tempo è stato duro, l'ho girata su un fianco, ed è stato veloce. Forse ha avuto dei lividi quando l'ho afferrata. ...) Non voleva "darmelo", mi ha buttato fuori. Non so più esattamente cosa ha detto. Ma lei continuava a dire di no. 'Non farlo' - 'Io non sono come gli altri'. Mi sono scusato in seguito". Una parte del seguente passaggio è scritta in terza persona, che è forse una compito dell'avvocato di Ronaldo, che ha scritto le risposte per lui: "Non hanno usato il preservativo, non hanno parlato di preservativi, non è venuto dentro di lei, ha tirato fuori il suo cazzo prima, sono venuto su lei e sulla coperta, non c'era lubrificante, ho usato la saliva. Non sa se ha avuto un orgasmo. "Nella versione di dicembre, X dice: "Era sdraiata sul letto, io sono andato da dietro, non abbiamo cambiato posizione, sono stati 5/7 minuti, è stato duro, non si lamentava, non gridava, non ha chiesto aiuto o qualcosa del genere. Non abbiamo usato i preservativi. Non sono venuto dentro. Vengo "su di lei" (non "in lei") e nelle coperte. Non c'era lubrificazione artificiale, ho usato della saliva, non so se ha avuto o meno un orgasmo ". Domanda: "La signora C ha mai alzato la voce, goduto o urlato?" Settembre: "Ha detto di no e si ferma diverse volte." Dicembre: "No." [...] Domanda: "La signora C ha detto qualcosa dopo aver avuto rapporti sessuali?" Settembre: "Dopo, lei disse: 'Stronzo, mi hai costretto, idiota, non sono come gli altri'. Ho detto, 'Mi dispiace.' " Dicembre: "No." Secondo la precedente bozza del questionario, Ronaldo conferma gli elementi chiave della versione degli eventi di Mayorga: "Ha detto di no diverse volte. E si è scusato dopo". Ci sono, tuttavia, anche discrepanze tra questa versione e la storia di Mayorga, come ad esempio sulla domanda se lei lo ha fatto con la sua mano. Lui dice di sì. Lei dice di no. Parla anche di preliminari in bagno. Perché Ronaldo avrebbe ammesso ai suoi avvocati che Kathryn Mayorga aveva detto "no" e "fermarsi" più volte? Una possibile spiegazione: per essere in grado di sviluppare la migliore strategia di difesa possibile per un cliente, un avvocato deve avere la visione più chiara possibile di ciò che è accaduto. [...] In risposta a una richiesta di commento inviata da DER SPIEGEL alla ricerca di una spiegazione delle differenze significative tra i due documenti, gli avvocati portoghesi di Ronaldo hanno anche risposto sostenendo che "parti significative" erano "alterate e / o completamente inventate". Sembra che gli avvocati portoghesi non abbiano inoltrato la versione di settembre del questionario ai loro colleghi negli Stati Uniti, il che non significa necessariamente che il team legale degli Stati Uniti non fosse a conoscenza di cosa ci fosse dentro. C'erano, dopo tutto, frequenti teleconferenze e incontri faccia a faccia. In una e-mail successiva a Osório de Castro, Lavely si riferì a una discussione che aveva avuto con l'avvocato difensore di Las Vegas, Richard Wright. Secondo quell'e-mail, Wright aveva detto "che potrebbe essere fino a 50/50 possibilità" se Ronaldo fosse perseguito. E: "Sembrava certamente che Rick fosse preoccupato anche in base a ciò che il cliente stesso aveva descritto riguardo a ciò che accadeva tra lui e la signora P in camera da letto." [...] Il team legale di Ronaldo ha avuto infine un successo. Dopo difficili negoziati, hanno raggiunto un accordo con Kathryn Mayorga con un accordo extragiudiziale nel gennaio 2010. ShHa ricevuto $ 375.000 per tacere e ha smesso di collaborare con la polizia. L'inchiesta è stata chiusa. Ma poi è successo qualcosa di inaspettato: quasi nove anni dopo, Ronaldo ei suoi avvocati si sono nuovamente confrontati con il caso. E non solo per l'azione civile intentata da Mayorga, che può essere esaminata presso il Tribunale di Clark nel Nevada. Da allora è stata più volte intervistata dalla polizia, che ha riaperto le indagini. Il caso non rientra nella prescrizione. Gli abiti di Mayorga, in deposito dal 2009, sono stati esaminati da allora. La polizia ha anche intervistato testimoni. I pubblici ministeri possono prendere una decisione su come procedere nelle prossime settimane. E Ronaldo? All'inizio, non sembrava essere terribilmente infastidito da tutta la faccenda. Il 28 settembre ha pubblicato un video live su Instagram che lo mostrava sdraiato in una maglietta bianca: "Fake, false news", dice nel video. "Sono un uomo felice e tutto bene." I commenti da allora, tuttavia, sono sembrati un po' più riflessivi. In un'intervista alla rivista francese France Football, Ronaldo ha dichiarato: "Naturalmente questa storia ha un effetto sulla mia vita: ho un compagno, quattro figli, una madre anziana, sorelle, un fratello, una famiglia che sono molto vicino Per non parlare della mia reputazione, che è esemplare: per i miei compagni di squadra, la mia famiglia, i fan che mi sostengono, questa storia non è irrilevante ". Gli avvocati di Ronaldo hanno ripetutamente minacciato azioni legali contro DER SPIEGEL. Eppure, prima di ogni storia, DER SPIEGEL ha dato a Cristiano Ronaldo ampia opportunità di commentare, chiarire le cose, smentire le accuse o esporle come false. Ronaldo non ha mai approfittato di questa opportunità. Invece, DER SPIEGEL ha ricevuto solo messaggi dal suo team legale. Come quello dell'avvocato di Berlino Christian Schertz, che vorrebbe anche vietare a DER SPIEGEL di citare dalle sue e-mail.
Ronaldo, un impero da 100 milioni di euro: ecco i suoi sponsor. Il fuoriclasse portoghese è una multinazionale dell'immagine. Contratti a vita e partnership in tutto il mondo: è il terzo atleta per guadagni, scrive Giovanni Capuano il 5 ottobre 2018 su "Panorama". Cristiano Ronaldo è terzo nella classifica degli atleti più pagati al mondo stilata da Forbes nel giugno 2018. Davanti a lui solo il pugile statunitense Floyd Mayweather e Leo Messi, l'altro gigante del calcio attuale. Una stagione di CR7, secondo le stime, vale oltre 91 milioni di euro di cui una buona metà derivante non dal suo ingaggio (monstre) con il club d'appartenenza ma dai proventi che ricava da accordi commerciali e partnership legati alla sua immagine. Quando scende in campo, insomma, gioca una multinazionale della comunicazione e dell'entertaiment prima ancora che un meraviglioso calciatore, capace di conquistare per cinque volte il Pallone d'Oro e di alzare altrettante volte al cielo la Champions League. Ronaldo è molto più di uno degli attaccanti più forti e prolifici di sempre: è il testimonial perfetto per brand internazionali che sfruttano il suo indice di penetrazione nella massa e l'alto gradimento trasversale che tocca punte altissime anche tra chi non è appassionato di calcio. Per dare un parametro, basti pensare che nel 2014 Repucom ha indicato il suo Celebrity DBI (misurazione di come vengono percepiti i personaggi famosi in giro per il mondo) assegnandogli un 83,9% come indice di conoscenza presso la popolazione mondiale. Lo conoscono tutti e tutti gli riconoscono il ruolo di trend-setter, ovvero di personaggio in grado di dettare comportamenti, abitudini e acquisti presso mercati da miliardi di potenziali consumatori.
Il legame a vita con Nike. La sua immagine è talmente dominante che Nike ha scelto di legarsi a vita al marchio CR7 garantendo al portoghese un vitalizio da 24 milioni di euro all'anno. Un trattamento fin qui riservato solo a due monumenti del basket Nba come Michael Jordan e LeBron James con il primo che ancora oggi, a quindici anni dall'ultima partita, continua a rappresentare una delle colonne del business della multinazionale dell'abbigliamento sportivo. Nike ha compiuto il suo passo nel 2016, impegnandosi in un'operazione che facilmente potrà superare il miliardo di euro immaginando per Ronaldo una serena vecchiaia anche dopo il ritiro dai campi di gioco. Un miliardo di euro di vitalizio: non essendo folli gli esperti di marketing Nike bisogna immaginare che abbiano valutato come vantaggioso per l'azienda legarsi per sempre a un atleta che per definizione ha una vita agonistica a scadenza.
La galassia di sponsor di Ronaldo. Non c'è solo Nike, ovviamente. Ronaldo presta la sua (costosissima) immagine a una variegata galassia di marchi non necessariamente legati al mondo dello sport. La rivista Forbes indica come principali gli accordi con Herbalife (alimentazione sportiva) ed EA Sports (l'azienda che produce il videogioco Fifa che nell'edizione 2019 ha proprio CR7 come uomo immagine). Il suo sbarco in Italia è coinciso con la collaborazione da brand ambassador con la piattaforma di streaming DAZN che ha acquisito parte dei diritti tv della Serie A e che è attiva in Germania, Austria, Giappone e Canada. Ancor più recente (autunno 2018) l'accordo tra la CR7 Underwear e Yamamay che ha riempito le città di cartelloni del portoghese in... mutande. E poi la lunga serie di marchi che si sono alternati (e si alternano) in questi anni, dalla farmaceutica ai prodotti per la cura del corpo (Shampoo Clear, Soccerade), istituti di credito o servizi finanziari (Banca Espirito Santo e Xtrade), elettronica (Samsuing), trasporti (Emirates), telecomunicazioni (Alice), betting online (PokerStars e Smaash Entertaiment) e così via.
Ronaldo sui social. Tutto si fonda sulla rete che ha reso Ronaldo un personaggio seguito da quasi 340 milioni di persone sulle piattaforme social. Una fan base sterminata, perfettamente suddivisa tra Instagram (142 milioni), Facebook (122 milioni) e Twitter (72 milioni) che gli consente di essere il veicolo perfetto per un prodotto o una campagna. Nei mesi del passaggio dal Real Madrid alla Juventus la società britannica Hopper HQ ha stimato che ogni post pubblicato da CR7 su Instagram gli faccia guadagnare 750mila dollari. Solo Kylie Jenner e Selena Gomez hanno performance superiori. Una montagna di denaro che lo arricchisce e rende felici anche le aziende che investono su di lui. Che i suoi messaggi abbiano risonanza maggiore rispetto a quello degli stessi marchi che pubblicizza è la regola. Anche la Juventus ha imparato ad apprezzarlo in poche settimane.
Quanto guadagna Ronaldo? L’invidia di non essere CR7, critiche assurde sulla vita del portoghese: orologi, auto di lusso, moda, vino e gatto da 3000 euro, scrive Stefano Vitetta il 22.11.18 su calcioweb.eu. Quanto guadagna Ronaldo, nelle ultime ore sono arrivare critiche folli nei confronti del calciatore della Juventus per spese considerate eccessive. Quanto guadagna Ronaldo? L’invidia di non essere Cristiano Ronaldo. Negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la notizia riguardante il calciatore della Juventus che avrebbe speso 31 mila euro di vino a Londra in 15 minuti: 20mila per il Richebourg Grand Cru, il più costoso al mondo, e altri 11mila per il Pomerol Petrus del 1982. Sono arrivate critiche sui social, “spese folli” si legge sul web e “mancanza di rispetto per le persone povere”, commenti inutili da parte di persone invidiose e che avrebbe voluto essere al posto del fuoriclasse portoghese. Cristiano Ronaldo dopo il gol contro il Milan ha voluto festeggiare in grande stile il compleanno della figlia Alana Martina, due giorni a Londra tra lusso e relax, vacanza che solo uno come Cristiano Ronaldo può permettersi.
Quanto guadagna Ronaldo? Il patrimonio del fuoriclasse portoghese. L’ingaggio annuo (con un contratto di 4 anni) per Cr7 alla Juve è di 31 milioni di euro l’anno. Quindi Cristiano Ronaldo guadagnerà:
31.000.000 di euro l’anno
2.583.333 euro al mese
86.111 euro al giorno
3.587 euro l’ora
60 euro al minuto
1 euro al secondo
Più volte soprannominato il Paperone del calcio, Cristiano Ronaldo vanta un patrimonio da capogiro. Cifre mostruose, ma è bene ricordare che la Juventus è un’azienda privata quotata in borsa, e che evidentemente Cristiano Ronaldo vale ancora di più di queste cifre. La Juventus, ha già incassato grazie a Cr7 molti più soldi rispetto a quelli del suo stipendio. E la classifica la potremo fare tra un anno, quando in base a risultati sportivi, merchandising e sponsorizzazioni la Juve potrebbe scoprire di aver incassato il triplo, forse il quadruplo, dei soldi che ha versato al fenomeno portoghese. Un campo in cui è indiscusso testimonial e in cui si cimenta spesso è la moda. Un bel mondo in cui investire secondo il portoghese che ha da tempo creato una linea di intimo a suo nome: ‘CR7 Underwear‘. Più recentemente il ricco calciatore ha anche lanciato una collezione di scarpe disegnate da lui stesso. Il suo stile rispecchia poi il suo amore sconfinato per la moda. I suoi look cool fanno il giro del mondo proprio come la sua nota ossessione per gli orologi di cui ne possiede 50 esemplari. Un lusso sconfinato quello nel quale vive il calciatore, che si nota anche dalle case in cui ha vissuto. L’esempio più lampante è stato la sua grande villa valutata 10 milioni di euro a “La Finca”, ossia l’esclusivo quartiere residenziale progettato da Joaquin Torres, l’architetto delle stars. Un’abitazione a due piani da 5000 metri quadrati con elicottero privato a Terras de Bouro e un appartamento nel pieno centro di Lisbona a Avenida de la Libertad valutato 2 milioni di euro, sono poi le altre proprietà immobiliari possedute dal campione. Più recentemente gli investimenti di Cristiano Ronaldo si sono espansi con l’apertura di una stupenda discoteca nell’Algarve, posto frequentato da famosi dj. Il lato più nascosto e nobile, infine, degli affari di Cristiano Ronaldo riguarda poi la beneficenza.
Cristiano Ronaldo e le polemiche sull’orologio, la giusta osservazione di Maurizio Costanzo. Il fuoriclasse portoghese Cristiano Ronaldo si è presentato in conferenza stampa con un orologio di diamanti dal valore di 2 milioni di euro, l’attaccante è stato al centro di chiacchiere che possiamo considerare da bar. È giusto che CR7 sfoggi così la sua ricchezza? È giusto che un calciatore della sua levatura dia quest’esempio? Certo che sì ed a rispondere a questi quesiti è intervenuto anche Maurizio Costanzo. Il presentatore Mediaset ha replicato alle accuse contro il portoghese della Juventus sul settimanale ‘Nuovo Tv’. “Non si può pretendere che Cristiano Ronaldo si senti in colpa perché è ricco: lui quei soldi se li è guadagnati. Quindi perché non dovrebbe spenderli come meglio crede? – ha dichiarato giustamente Maurizio Costanzo – Se questo giocatore pensa che un orologio ricoperto di diamanti sia un valore, se lo compra e fa bene. Non vedo nessuno scandalo in questo. Anche perché non spetta certo a Ronaldo occuparsi della dignità dei lavoratori o di chi non ha sufficienti capacità economiche”.
Quanto guadagna Ronaldo? Tutte le auto del portoghese. Il portoghese pazzo anche delle auto di lusso ecco la pazzesca collezione. Nel parco auto di Ronaldo troviamo numerose Audi, a partire dall’imponente SUV Q7, passando per le ben più sportive RS7 Sportback e R8 Spider. Cristiano è anche un grande fan delle Ferrari, il suo garage ospita infatti una rara 612 GTO e una F12 tdf, il pallone d’oro possiede anche una Maserati GranCabrio, una Lamborghini Aventador e una Maserati MC12 prodotta solo in 20 esemplari. Tra le auto più costose acquistate dal calciatore troviamo invece una opulenta Rolls-Royce Phantom c/c da 475mila euro, una Bugatti Veyron e una Bugatti Chiron.
Cristiano Ronaldo, tutte le donne del portoghese. Tanti sono i flirt a Ronaldo attribuiti, ma poche sono invece le relazioni ufficiali. Una su tutte quella con Irina Shayk iniziata bene e finita malissimo, tra tradimenti e bugie. Tra le italiane le sue presunte fiamme portano invece il nome di Raffaella Fico e Cristina Buccino. Tante sono anche gli amori stranieri di Cristiano, quasi tutti con modelle ed attrici finite tra le braccia del calciatore. L’unica sportiva rimasta affascinata dal sex appeal del calciatore pare essere stata la tennista Maria Sharapova. Tra le tante donne ai piedi di Ronaldo, si sono diffuse anche tante voci sulla sua presunta omosessualità, che non è mai stata confermata dal calciatore, ma che è stata tante volte insinuata da stampa e gossip. Adesso è fidanzato con Georgina Rodriguez e continuano a circolare voci su un imminente matrimonio.
Cristiano Ronaldo ed il costosissimo anello per Georgina Rodriguez. Si avvicinano sempre di più le nozze per Cristiano Ronaldo e la compagna, la modella spagnola Georgina Rodriguez. Secondo quanto riportato dal quotidiano portoghese “Correio da Manha”, l’attaccante della Juventus ha già programmato il ‘sì’. In questi giorni proprio durante la vacanza a Londra sono stati fotografati due anelli all’anulare dei futuri sposini i quali si sarebbero scambiati la promessa di nozze. Sul suo profilo Instagram la compagna di CR7 ha mostrato con orgoglio in una foto l’anello tempestato di pietre preziose. Un altro regalo costosissimo da parte del fuoriclasse portoghese che non sembra badare a spese.
Cristiano Ronaldo ed il gatto da 3000 euro. Cristiano Ronaldo e Georgina Rodriguez hanno accolto un paio di giorni fa in casa un nuovo componente: CR7 è arrivato infatti uno strano gatto, la compagna di CR7 ha presentato infatti sui social il nuovo gatto adottato dalla famiglia Ronaldo. Il nuovo animale domestico del portoghese ha colpito i follower della compagna del calciatore perchè esteticamente particolare, è infatti un gatto Sphynx, razza caratterizzata per la mancanza di pelo e per il costo esorbitante. Il gatto di CR7 infatti, secondo i meglio informati, potrebbe essere costato al calciatore dai 1.500€ ai 3.000€. Oltre agli immancabili sfarzi della vita del portoghese, anche gli animali domestici dell’attaccante risultano essere di… lusso.
Nella sua carriera ha vestito le maglie di Sporting Lisbona, Manchester United, Real Madrid e Juventus, vincendo una Supercoppa portoghese (2002), tre campionati inglesi (2007, 2008 e 2009), una Coppa d’Inghilterra (2004), due Coppe di Lega inglesi (2006 e 2009), due Supercoppe inglesi (2007 e 2008), due campionati spagnoli (2012 e 2017), due Coppe del Re (2011 e 2014), due Supercoppe spagnole (2012 e 2017), cinque UEFA Champions League (2008, 2014, 2016, 2017 e 2018), due Supercoppe UEFA (2014 e 2017) e quattro Mondiali per club (2008, 2014, 2016 e 2017). Con la nazionale portoghese ha partecipato a quattro Mondiali (2006, 2010, 2014 e 2018), a quattro Europei (2004, 2008, 2012 e 2016) – vincendo quello del 2016, primo titolo ottenuto dal Portogallo – e a una Confederations Cup (2017). È comparso ininterrottamente nella classifica del Pallone d’oro dal 2004, vincendolo per cinque volte (nel 2008, 2013, 2014, 2016 e 2017), record condiviso con Lionel Messi. È stato insignito anche dei premi FIFA World Player of the Year nel 2008, UEFA Men’s Player of the Year nel 2014, 2016 e 2017 e Best FIFA Men’s Player nel 2016 e 2017.
L’esultanza di Ronaldo è diventata ormai famosissima, classico salto verso il cielo per poi atterrare a gambe divaricate, braccia larghe mentre urla “sìììììììì”, gesto ormai imitato da grandi e piccini anche allo stadio si alza un urlo impressionante che ha sorpreso lo stesso calciatore, un pò come successo dopo la standing ovation dopo la prodezza allo Stadium in rovesciata con la maglia del Real Madrid. Ma non solo, Cr7 esulta anche mostrando gli addominali. “La mia fidanzata (Georgina Rodriguez) – rivelò nel corso della trasmissione di El Chiringuito Tv – mi dice che sono un figo. E allora lo faccio”.
Cristiano Ronaldo, i trionfi in Nazionale. Nel 2016 diventa Campione d’Europa con la maglia del Portogallo, segna una doppietta nella partita contro l’Ungheria (3-3), contribuisce al raggiungimento della finale propiziando il gol decisivo di Ricardo Quaresma agli ottavi contro la Croazia (vinti 0-1 dopo i supplementari), segnando il primo tiro di rigore della serie contro la Polonia ai quarti (dopo che la partita si era conclusa 1-1) e aprendo le marcature nella semifinale contro il Galles (2-0). Convocato per la Confederations Cup 2017 decide con un gol la seconda sfida, contro la Russia (1-0), e apre le marcature nella terza sfida del girone, contro la Nuova Zelanda. Convocato per il campionato del mondo 2018 in Russia – durante le cui qualificazioni ha messo a segno 15 reti, una in meno del capocannoniere Robert Lewandowski –, realizza una tripletta nella partita d’esordio con la Spagna (3-3), diventando il quarto giocatore a segnare in quattro edizioni diverse della Coppa del Mondo e il più anziano a segnare tre gol in una partita della manifestazione. Il Portogallo si qualifica per gli ottavi di finale, dove viene eliminato dall’Uruguay con il risultato di 2-1. Decide di prendersi una pausa dalla nazionale.
Stupro Ronaldo, l’accusa al calciatore. Nei giorni mesi, hanno suscitato scalpore le accuse di stupro indirizzate a Cristiano Ronaldo dall’americana Kathryn Mayorga, donna conosciuta dal fuoriclasse nel 2009 a Las Vegas. Il calciatore bianconero si è difeso via Twitter in merito alla questione: “Respingo fermamente le accuse che mi sono state mosse. Lo stupro è un crimine abominevole che va contro tutto quello che sono e in cui credo. Voglio che il mio nome sia cancellato da questa storia, mi rifiuto di alimentare ulteriormente questo spettacolo mediatico iniziato da chi vuole farsi pubblicità a mie spese. La mia coscienza è cristallina, aspetterò in totale serenità i risultati delle indagini”.
Altre rivelazioni a France Football. L’età che avanza non spaventa CR7: “Dicono che ho il fisico di un giocatore di 23 anni? Stanno un po’ esagerando. Se mi sento così? Sì, nella testa sì. Ed è la testa che comanda tutto! L’età è nella testa. Quello sono io e posso essere sempre al top, avere lo steso piacere di fare quello che faccio ed essere felice. So che un giorno finirà, tra quattro, cinque, sei anni… Lo stato mentale fa e farà la differenza. Io sono motivato e mi gusto il presente. Io non sono così! Sono solo un atleta diverso, ma un giorno mi fermerò. Mi piacerebbe stare vicino ai miei bambini. Cristiano jr può diventare il nuovo Cristiano? Non voglio anticipare il futuro. Se sento che il mio corpo non risponde più come prima? Da un certo punto di vista, sì. Poi però quando guardiamo le statistiche, mi rendo conto che continuo a giocare in modo incredibile. Le cifre non mentono mai e sono buone. Continuo a divertirmi. Quindi non mi faccio nessuna domanda”. “I rivali? Gli stessi di sempre, anche se non so se Messi sarà sul podio questa volta. Diciamo, quindi, Salah, Modric, Griezmann, Varane, Mbappé, e i francesi in generale perché che sono campioni del mondo. Ma voglio vedere tra 10 anni se tutti questi giocatori saranno ancora al top come me e Messi. Sempre sul podio, per dieci anni… Fine di un regno? Qualcuno vorrebbe fosse la fine di un’epoca, ma non è così. Io sono e sarà sempre lì e me lo merito, parlano per me le mie partite. In campo non penso mai al Pallone d’Oro, solo dopo che vinci la Champions League puoi dire a te stesso che hai possibilità, ma sono cose che avvengono naturalmente. La mia unica ossessione nel calcio è l’autenticità. Penso di meritare il Pallone d’Oro e lavoro duramente per far sì che accada. So cosa sto facendo e lo sapete tutti. Ma so anche cosa fanno gli altri, i meriti che hanno, e ho molto rispetto per loro”.
Cristiano Ronaldo e le sue rivelazioni sulla vita privata: “il caso Mayorga, l’età che avanza e tanto altro, vi dico tutto”, scrive il 30/10/18 Francesco Gregorace su sportfair.it. Cristiano Ronaldo si è aperto in una lunga intervista nella quale ha analizzato il momento della sua carriera e della vita privata col caso di stupro che lo tormenta. Cristiano Ronaldo è stato protagonista di una lunga intervista a France Football, nella quale non ha esitato a rispondere anche a qualche domanda un po’ scomoda come quella sul caso di stupro del quale si sta facendo un gran parlare. Il fenomeno portoghese, in merito alla questione Mayorga, ha rivelato: “Se le accuse per stupro influiranno? Non ho intenzione di schivare la domanda, né di mentire. Questa storia interferisce ovviamente nella mia vita: ho una compagna, quattro bambini, una madre, sorelle, un fratello e una famiglia cui sono molto vicino. Senza parlare poi della mia reputazione, che è quella di qualcuno da cui prendere esempio. Per i miei compagni di squadra, per i miei fan, per la mia famiglia, questa cosa non è irrilevante. Io nella mia testa sono sereno, so che uomo e professionista sono. Immaginate però cosa possa rappresentare sentirsi dire che sei uno stupratore. So chi sono e cosa ho fatto, la verità verrà fuori. E le persone che oggi criticano, espongono la mia vita sotto i riflettori e la rendono un circo, vedremo se quel giorno metteranno il mio nome sulla prima pagina dei loro giornali per dire che sono innocente. La mia famiglia e i miei amici sanno chi sono io, ma è comunque imbarazzante. Ho dato spiegazioni alla mia compagna, mentre mio figlio, Cristiano jr, è troppo piccolo per comprendere. Il colpo maggiore è per mia madre e per le mie sorelle. Sono sbalordite e allo stesso tempo molto arrabbiate, questa è la prima volta che le vedo in questo stato. Sono io che devo calmarle, quando logicamente dovrebbe essere il contrario. Soprattutto mia madre, lei è inconsolabile. Le ho parlato a lungo e le ho detto: “Mamma, lo sai che persona hai in casa? Sai come mi hai cresciuto, l’educazione e l’amore che mi hai dato”. È per lei che subisco peggio l’opinione pubblica. Ci sono persone che mi amano e altre che mi odiano, questo non mi importa, ma quando tutto questo sarà finito voglio vedere cosa diranno queste persone. Accenderò la TV, so di essere uno dei più famosi su questo pianeta, so anche che vendo e tutto ciò che si dice male su di me è più ripreso e messo in luce rispetto al bene. Molte persone, specialmente in TV, me l’hanno spiegato. Allora incasso e resto calmo, ma dentro di me resta tutto”. Tutta l’attenzione che c’è attorno a CR7, potrebbe essere considerata scomoda da una persona qualunque, non da Cristiano: “Se preferirei essere un anonimo Cristiano Aveiro? No, per niente. Non solo l’anonimato non mi manca, ma non sarebbe possibile, quindi non ci penso. E poi non voglio essere una persona normale, sono orgoglioso della mia vita, di quello che sono e di cosa ho fatto. La mia vita non è difficile rispetto a quella di coloro che lavorano come matti e non hanno soldi per pagare le bollette e mantenere bambini che soffrono. Sono sicuramente un uomo privilegiato e felice, ma non voglio essere danneggiato ingiustamente”. L’ossessione per il Pallone d’Oro, a detta di Ronaldo, non c’è affatto: “L’ho detto mille volte, vincere il sesto Pallone d’Oro non è un’ossessione. Non mi faccio la domanda, so già nel profondo del mio cuore, di essere uno dei migliori della storia. Poi cerco che vorrei vincerlo! Sarebbe una bugia dire il contrario. Lavoro per questo, per fare gol e vincere le partite, ma senza ossessioni. Penso di meritare il Pallone d’Oro e lavoro duramente per far sì che accada. So cosa sto facendo e lo sapete tutti. Ma so anche cosa fanno gli altri, i meriti che hanno, e ho molto rispetto per loro. Se non vinco il Pallone d’Oro dormo lo stesso perché so quanto valgo. I rivali? Gli stessi di sempre, anche se non so se Messi sarà sul podio questa volta. Diciamo, quindi, Salah, Modric, Griezmann, Varane, Mbappé, e i francesi in generale perché che sono campioni del mondo. Ma voglio vedere tra 10 anni se tutti questi giocatori saranno ancora al top come me e Messi. Sempre sul podio, per dieci anni… Fine di un regno? Qualcuno vorrebbe fosse la fine di un’epoca, ma non è così. Io sono e sarà sempre lì e me lo merito, parlano per me le mie partite. In campo non penso mai al Pallone d’Oro, solo dopo che vinci la Champions League puoi dire a te stesso che hai possibilità, ma sono cose che avvengono naturalmente. La mia unica ossessione nel calcio è l’autenticità”. L’età che avanza non spaventa CR7: “Dicono che ho il fisico di un giocatore di 23 anni? Stanno un po’ esagerando. Se mi sento così? Sì, nella testa sì. Ed è la testa che comanda tutto! L’età è nella testa. Quello sono io e posso essere sempre al top, avere lo steso piacere di fare quello che faccio ed essere felice. So che un giorno finirà, tra quattro, cinque, sei anni… Lo stato mentale fa e farà la differenza. Io sono motivato e mi gusto il presente. Io non sono così! Sono solo un atleta diverso, ma un giorno mi fermerò. Mi piacerebbe stare vicino ai miei bambini. Cristiano jr può diventare il nuovo Cristiano? Non voglio anticipare il futuro. Se sento che il mio corpo non risponde più come prima? Da un certo punto di vista, sì. Poi però quando guardiamo le statistiche, mi rendo conto che continuo a giocare in modo incredibile. Le cifre non mentono mai e sono buone. Continuo a divertirmi. Quindi non mi faccio nessuna domanda”.
Cristiano Ronaldo sposa Georgina Rodriguez, scrive dr. apocalypse venerdì 16 novembre 2018 su gossipblog.it. Nozze in arrivo per Cristiano Ronaldo e Georgina Rodriguez? Cristiano Ronaldo sarebbe pronto a giurare amore eterno a Georgina Rodriguez. Accusato di stupro dall'ex modella Kathryn Mayorga, l'asso portoghese della Juventus avrebbe chiesto la mano all'amata compagna, come riportato dalla solitamente informata stampa di casa. «Cristiano ha già chiesto a Gio di sposarlo e il matrimonio si farà. Soltanto poche persone conoscono i dettagli». «Tutto quello che si sa al momento è che Gio ha già provato alcuni abiti da sposa». Questo è quel che ha spifferato una fonte al tabloid Correio da Manha, con i due piccioncini scappati dall'Italia causa pausa nazionali per staccare e volare a Londra. Qui, dicono i bene informati, Georgina e Cristiano avrebbero provato anelli Cartier da mille e una notte. Proprio la Rodriguez, su Instagram, ne avrebbe ostentato uno, durante una 'storia'. Insieme da quasi 3 anni, i due hanno avuto una figlia Alana Martina, la 4° di Ronaldo dopo i primi tre avuti tramite gestazione per altri. Da parte della coppia, per ora, non sono arrivate conferme nè smentite.
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 21 novembre 2019. Tra un matrimonio che continua dopo un lieve calo di passione (lui e la Juve) e un altro matrimonio misterioso (lui e Georgina, anche se per ora la lieta novella si limita a Novella 2000), Cristiano Ronaldo è alle prese con almeno tre signore: ancora la Juve, ancora Georgina e infine mamma Dolores, che ovviamente le altre due signore se le mangia in insalata come ogni vera mamma che si rispetti. Stanno succedendo cose, nella vita di questo ragazzo infinito. Cominciando dalla signora con la esse maiuscola, cioè la Juve, va data per ricomposta ogni frizione interna: ieri l' orgoglioso campione ha incontrato al centro d' allenamento tutti i compagni, mancava solo Cuadrado, ha detto "mi dispiace" sforzandosi come Fonzie però l'ha detto. Si è sentito rispondere che è tutto a posto e insomma la vita continua a Bergamo, dopodomani, dove Cristiano sarà titolare a dispetto della quota piuttosto interessante, 15 volte la posta, che verrà pagata dai bookmaker se il portoghese partirà in panchina contro l'Atalanta. Per gli scommettitori che invece puntassero sulla sostituzione di Ronaldo, come accaduto nelle ultime due occasioni bianconere, la vincita sarebbe di tre volte e mezzo. La cosiddetta cena del perdono è in programma stasera e offrirà lui, lauta mancia compresa. Venendo poi alla seconda signora di Cristiano, ovvero Georgina Rodriguez, ieri è stato un giorno di notevole fibrillazione nel flipper del web, dove un' indiscrezione di Novella 2000 ha parlato di matrimonio misterioso in Marocco. Secondo il vivace settimanale, Cristiano e Georgina avrebbero regolarizzato la loro unione qualche settimana fa in gran segreto. Non ci sono foto, niente paparazzate, unico indizio un "mio marito" che Georgina si sarebbe fatta scappare indicando lui, il padre di Alana Martina che ha appena compiuto due anni ed è la quarta figlia del fuoriclasse. La terza signora Ronaldo si chiama Dolores Aveiro e di mestiere fa la mamma. La coda del gossip di cui sopra vorrebbe che Cristiano l' abbia un po' spostata di lato nell' asse ereditario, levandole - notai e avvocati alla mano - il totale controllo del patrimonio. Dalla fine di agosto, prima dunque dell' ipotizzato matrimonio, Ronaldo avrebbe fatto una capatina a Madeira per modificare il testamento e tutelare anche la madre di sua figlia. Dolores non l' avrebbe presa benissimo. Di tutto questo, alla Juventus e ai suoi tifosi interessa relativamente poco: l' unica eredità che aspettano da Ronaldo è la Champions, fatto salvo il vitalizio dello scudetto. A questo proposito, la trasferta di sabato a Bergamo è uno snodo non banale anche in memoria della scorsa stagione, quando l' Atalanta eliminò senza pietà la Juve dalla Coppa Italia ai quarti di finale rischiando di batterla anche in campionato: il 2-2 venne preso per la coda proprio da Ronaldo, che Allegri aveva lasciato inizialmente in panchina. Fu una partita bislacca, non disastrosa come quella di Coppa Italia ma quasi. Oggi l' Atalanta sembra persino più forte di un anno fa, nonostante il recente rallentamento. Ha segnato addirittura dieci gol più dei bianconeri, ma dieci sono anche i punti in meno in classifica. La Juventus la affronterà con Ronaldo titolare probabilmente accanto ad Higuain, con Pjanic di nuovo nel cuore delle geometrie ma senza Alex Sandro, bloccato da un problema muscolare con la nazionale brasiliana. Al suo posto, sulla fascia sinistra giocherà De Sciglio. Ed è ovvio che sarà ancora Cristiano Ronaldo la stella fissa al centro del planetario juventino, dopo i quattro gol con il Portogallo e dopo l' ammissione che ha giustificato le scelte di Sarri (non ce n' era bisogno): «Non sono al massimo, non stavo bene ma presto tornerà la forma migliore: quando c' è da sacrificarsi, io lo faccio». Vale per il matrimonio vero e per quello probabilmente finto.
Georgina Rodriguez: età, altezza e peso. La fidanzata di Cristiano Ronaldo, scrive sabato 1 dicembre 2018 Antonella Cariello su Termometro Politico. Georgina Rodriguez: età, altezza e peso. Chi è la danzata di Ronaldo Scopriamo chi è la danzata, madre dei bambini (e forse futura moglie!) dell’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo. Lei è Georgina Rodriguez, modella originaria della città di Jaca, nella comunità di Aragona, ha un prolo Instagram seguito da almeno 7 milioni di follower e si è meritata anche una copertina su Women’s Health di tutto rispetto. Sarà davvero così breve il passo all’altare con Ronaldo? Georgina Rodriguez: quando è nata, peso, altezza e carriera Georgina è nata a gennaio del 1994. Ha 24 anni, 9 in meno del suo ragazzo (e molto probabilmente futuro consorte) Cristiano Ronaldo. È alta 1 metro e 68 e pesa poco meno di 60 chili. Pur essendo un personaggio pubblico, il suo prolo Instagram appare a prima vista tutt’altro che “artefatto” e innaturale ma anzi, scorrere la sua galleria è quasi quella di una ragazza comune, corredata da qualche scatto in collaborazione con brand di cui è testimonial e foto che la immortalano come tifosa allo stadi, sugli spalti. Georgina ha studiato danza in Inghilterra, paese dove ha vissuto n da ragazza, acquisendo grande padronanza della lingua inglese. A Bristol, la città che l’ha ospitata, è stata contemporaneamente cameriera e modella. L’incontro con il capitano della nazionale portoghese è avvenuto grazie al suo lavoro, che le ha assicurato l’invito ad un evento Dolce e Gabbana a Madrid, nel 2018. Dopo il party, i due piccioncini sono stati paparazzati insieme a Disneyland Paris e da lì la relazione è stata resa ormai uciale. A novembre 2017 Georgina Rodriguez e Cristiano Ronaldo sono diventati genitori, lei per la prima volta: è nata infatti la piccola Alana Martina. Ma il calciatore aveva già altri tre gli, nati da una madre surrogata: si tratta di due gemelli, Eva Maria e Mateo, pressappoco coetanei di Alana Martina, nati però nel mese di giugno, e il primogenito che porta il nome del papà, Cristiano Ronaldo Junior, che è nato nel 2010. Georgina è diventata quindi madre a tempo pieno, prendendosi cura di tutti loro.
Georgina e Cristiano Rondaldo: matrimonio in arrivo? Di recente, la coppia è volata a Londra a festeggiare il primo compleanno di Alana Martina. In questa occasione, secondo il quotidiano Correio da Manha, l’ex super campione del Real Madrid avrebbe proposto alla sua lei di sposarlo: riesce confermato dalle foto di Instagram che avrebbe ricevuto in risposta un bel “sì”, come dimostra l’anello che avvolge il dito della modella portoghese. Inoltre, ulteriori conferme delle nozze in programma ci giungono dalla rivista “Gente”, che mostra la coppia paparazzata all’uscita dalla chiesa torinese Gran Madre di Dio il 17 novembre. Sarà questo il santuario designato dalla coppia per la celebrazione?
Filippo Conticello per la Gazzetta dello Sport il 26 agosto 2019. Da quel primo sguardo galeotto tra le vetrine di Gucci alle fatiche da mamma sprint nella «piccola» dimora sui morbidi colli torinesi. Georgina Rodriguez è la seconda donna più importante della vita di Cristiano: inarrivabile mamma Dolores, matrona e consigliera, poi ecco lei, l' ex commessa spagnola di 10 anni più giovane che ha rapito il cuore del 34enne portoghese. Discreta e di rare parole, la signora CR7 per una volta non ha parlato solo con pose sinuose via Instagram. In una intervista agli inglesi del Sun on Sunday ha aperto una fessura sul suo mondo dorato: «Avere un compagno tanto famoso non è facile, ma non lo cambierei per nulla al mondo, quello che provo è più forte di qualunque altra cosa e di qualunque tipo di pressione. Insieme siamo più forti e c'è ammirazione reciproca». Chi sente odor di fiori d' arancio può aver ragione: Ronaldo non ha mai escluso l' eventualità. Intanto, per mamma Geo c' è un bel da fare in casa: quattro pargoli impegnano parecchio. Il grande, Cristianinho, ha nove anni e cresce a immagine e somiglianza del papà. L'ultima arrivata, Alana, ha suggellato l'amore, un anno e mezzo dopo il colpo di fulmine nel 2016 a Madrid. In mezzo i gemellini Eva e Mateo, nati da mamma surrogata. Una famigliola felice a sentire la Rodriguez: «Cerco di trascorrere più tempo in casa che fuori e con i miei figli ne passo più della maggior parte delle madri. Ci sono lavori che rendono più semplice lo stare a casa e l' aspetto positivo del mio è che le campagne pubblicitarie durano al massimo due giorni e che posso organizzare la mia agenda per stare in famiglia. Loro vengono prima di tutto». Da bimba tra i Pirenei aragonesi, Geo stava spesso sulle punte. Sognava il balletto, le passerelle, una vita dorata. Mai l' avrebbe immaginato, però, così tanto oro: «I soldi sono sì importanti, perché ti permettono di comprare le cose, ma non sono tutto e non ti danno la felicità. La morte di mio padre mi ha insegnato che la ricchezza più grande è la salute: senza, non siamo niente. Ciò che mi dà più felicità è sapere di avere una famiglia sana e felice, questo è il mio vero lusso». Il resto, invece, è nelle segrete stanze del castello nella precollina torinese: «Sedurre e sognare è importante. Dormo sempre in lingerie e preferisco quella sexy. È comoda e rende felice anche il tuo uomo...», ha ammiccato. Intimo a parte, quel mammone di Cristiano pare davvero felice: da tre anni ha trovato pace anche in amore.
Cristiano Ronaldo avrebbe tradito Georgina? Cristiano Ronaldo avrebbe tradito Georgina Rodriguez? Questo è il gossip che circola a Milano e che è stato riportato dal settimanale Oggi ma CR7 e la sua compagna appaiono sereni e sicuri del loro rapporto. Francesca Galici, Sabato 02/11/2019 su Il Giornale. Molte persone hanno notato le facce tese di Cristiano Ronaldo e della sua compagna Georgina Rodriguez pochi giorni fa allo stadio. I due sembravano distanti, sicuramente poco sorridenti al contrario di quanto avvenuto in altre occasioni. Secondo il settimanale Oggi ci sarebbe un motivo dietro questo incupimento della coppia e sarebbe un presunto tradimento del calciatore ai danni della bella Rodriguez. L'autorevole magazine diretto da Umberto Brindani avrebbe saputo di un incontro galante che sarebbe avvenuto in una casa alla periferia di Milano tra Cristiano Ronaldo e una bellissima modella. Qui i due avrebbero trascorso qualche ora insieme e il tempo in reciproca compagnia pare sia stato talmente piacevole, che il calciatore avrebbe anche voluto regalare alla statuaria modella un orologio di grande valore. Pare che però la ragazza abbia rifiutato lo slancio di generosità di Cristiano Ronaldo, perché già felicemente impegnata con un altro uomo. Il settimanale Oggi non ha rivelato altri dettagli di questa vicenda, né tanto meno ha svelato l'identità della modella per la quale CR7 avrebbe preso una sbandata. Nessuno dei protagonisti ha replicato a questo gossip pruriginoso ma Georgina Rodriguez ha risposto con i fatti all'insinuazione fatta dal settimanale. La bella influencer ha condiviso sul suo profilo alcune immagini della loro bellissima famiglia riunita, con tanto di sorrisi smaglianti. Il campione della Juventus non sembra preoccuparsi troppo di queste voci, dimostrando in campo di essere al pieno della sua forma, fisica e mentale. Le sue prestazioni in campo sono sempre ad altissimo livello, sintomo di un perfetto equilibrio. Se Cristiano fosse distratto da qualcosa, probabilmente le sue perfomance sono sarebbero a così alto livello. Non resta che attendere se verranno diramati altri, eventuali, sviluppi o se la vicenda è destinata a essere solamente un gossip mormorato negli ambienti della movida milanese.
Cristiano Ronaldo, baci e abbracci all’ex fiamma davanti a Georgina (che non la prende bene). Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Corriere.it. Imbattersi in una delle ex del tuo fidanzato (che, oltretutto, si dice sia in ottimi rapporti con la mamma di lui, con la quale invece non si ha magari lo stesso feeling) non è mai un’esperienza piacevole. A maggior ragione se, come nel caso di Georgina Rodriguez, sei alla serata degli MTV Europe Music Awards e tutti gli occhi sono quindi puntati su di te e sulla tua dolce metà, che nel caso specifico si chiama Cristiano Ronaldo. Per la verità, stando almeno a quanto scrive il magazine spagnolo online Look, ripreso dal Daily Star, lo stesso campione della Juventus è rimasto sorpreso dalle effusioni che gli ha riservato la connazionale Rita Pereira quando lo ha visto alla cerimonia di Siviglia ma, da gentiluomo qual è, non poteva di certo tirare dritto e ignorare la 37enne modella portoghese con cui pare abbia avuto un flirt fra il 2008 e il 2010 (peraltro mai confermato dai diretti interessati). Così, dopo i baci e abbracci di rito, CR7 si è fermato qualche minuto a chiacchierare con la donna, mentre la fidanzata Georgina rimaneva in disparte ad assistere alla scena, con la sua faccia che era tutto un programma. «È stata una scena davvero spiacevole, anche per lui, che non si aspettava una tale dimostrazione di affetto dalla sua amica — ha raccontato infatti un testimone alla rivista — e quando Ronaldo ha poi realizzato che la sua fidanzata era rimasta esclusa dal quadretto, l’ha chiamata per presentarla alla Pereira che, però, si è limitata a guardarla, salutandola con un timido "ciao", per poi continuare a parlare con Cristiano senza fermarsi e il viso di Georgina diceva tutto, era furiosa». Vista la mal parata, Ronaldo ha quindi accelerato il congedo da Rita con la scusa di dover fare un’intervista a un giornale portoghese, ma al momento dei saluti, Pereira avrebbe volutamente ignorato Rodriguez che, una volta lontana dall’esuberante modella, avrebbe rimproverato aspramente CR7 per l’accaduto. «È stato un momento molto imbarazzante per tutti quelli che erano lì — ha concluso l’anonima fonte — perché si percepiva la rabbia di Georgina. Rita è una brava ragazza, solo molto espansiva, ma non aveva cattive intenzioni, anche se è comprensibile che Georgina non fosse felice di averla incontrata». In effetti, a giudicare dal volto tirato della Rodriguez in molte delle foto scattate sul red carpet, qualche nube in paradiso sembra esserci stata, anche se su Instagram la fidanzata di Ronaldo ha poi definito la serata «una notte fantastica da ricordare». In fondo, accanto al campione della Juventus c’è lei, non la Pereira.
Ronaldo col baffo rosso per violenza donne scatena ironia social. “Ma siamo su scherzi a parte o è vero”? Scrive sport.virgilio.it il 25-11-2018. C’era da aspettarselo. Nella giornata in cui il calcio è sceso in campo contro la violenza sulle donne era prevedibile che sarebbe stato preso di mira Cristiano Ronaldo. Anche il portoghese aveva un baffo rosso sulla guancia come segno di protesta e per invitare alla solidarietà e alla sensibilità nei confronti delle donne in occasione della gara contro la Spal. Quel segno sulla sua guancia, in verità, ha resistito solo un tempo. Quarantacinque minuti di solidarietà alle donne vittime di violenza, poi il portoghese lo ha lavato via nell’intervallo, magari – come scrive il Giornale - perchè non previsto nella cura maniacale del suo corpo che non prevede tatuaggi. Certo faceva effetto quel baffo rosso sul volto di chi è chiamato in qualche modo a rispondere per una accusa di stupro inoltrata dalla signora Kathryn Mayorga. Lui si è già difeso ritenendo lo stupro un crimine abominevole, ma intanto il retro pensiero insinua il dubbio che la vicenda gli stia facendo perdere premi in serie, l’ultimo secondo indiscrezioni il pallone d’oro dei record. Lui si consola facendo la cosa che gli riesce meglio: segnare.
LE CRITICHE – Ma parecchi utenti hanno stigmatizzato l’episodio sui social. C’è chi scrive: “ammiro il professionista #Ronaldo ma il baffo rosso sullo zigomo con un’accusa di stupro sulle spalle, magari, lo poteva evitare”. O ancora: “Ma sul serio #Ronaldo è andato in campo col segno rosso in volto?”. La mette sul ridere qualcun altro: “Ma #Ronaldo con il segno rosso in faccia che era, una puntata di Scherzi a Parte?” ma c’è anche chi va giù duro nel commentare: “ha un segno rosso sul volto per aderire alla giornata contro la violenza sulle donne. È come vedere Hitler alla marcia della pace… #patetico#ipocrita#JuveSpal”.
La mamma di Ronaldo: «La mafia del calcio gli ha tolto altri Palloni d’Oro». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 da Corriere.it. Nel calcio nessuna mamma è famosa come la signora Dolores, madre di Cristiano Ronaldo. Non uno qualunque. I due sono inseparabili e più volte la mamma ha preso le parti del figlio, anche con dichiarazioni coraggiose su argomenti più delicati. Adesso farà rumore il suo intervento sul Pallone d’oro, premio che il figlio ha vinto ben cinque volte, esattamente come Lionel Messi. «Esiste una mafia», le sue dichiarazioni senza giri di parole. «Sì, è il termine giusto per definirla. Esiste una mafia del calcio. Se vedo tutto quello che è successo, mi rendo conto che è accaduto per colpa della mafia». Tutto questo per dire che Cristiano Ronaldo ha vinto «solo» cinque Palloni d’oro e che ne avrebbe meritati molti di più. «Se fosse stato spagnolo o inglese, non avrebbero fatto quello che gli hanno fatto. Ma essendo portoghese e di Madeira, questo è quello che succede». Frasi che arrivano a un mese dall’assegnazione del premio 2019 con il figlio favorito assieme van Dijk, difensore del Liverpool. «Non so se lo vincerà, ma ho fiducia in lui. E credo che se lo meriti, se analizziamo quello che ha fatto quest’anno». Da non dimenticare la presa di posizione della sorella Elma, su Instagram, dopo il premio vinto l’anno scorso da Modric, tra l’altro ex compagno di squadra di Cristiano Ronaldo al Real Madrid: «Questo mondo è marcio. Tutto è regolato dalla mafia e dal denaro», in estrema sintesi il suo pensiero affidato ai social. Insomma, il Pallone d’oro sta diventando proprio una questione di famiglia.
· Ronaldo (il Fenomeno).
Berlusconi, la vasectomia, il grasso: Ronaldo (il Fenomeno) come non lo avete mai sentito. Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 da Gianluca Mercuri su Corriere.it. L’intervista, si dice in tono semiserio tra giornalisti, è il pezzo più facile: lo fa l’intervistato e lo firma l’intervistatore. Naturalmente non è proprio così: conta molto cosa vuole dire l’intervistato, cosa l’intervistatore riesce a strappargli tra le cose che non vorrebbe dire e come l’intervistatore mette giù il tutto. I giornali tendono ad abusarne ma quelle vere — per esempio Gino Paoli che sul nuovo «7» racconta a Walter Veltroni come e perché si sparò — si fanno largo da sole. Un altro esempio di questi giorni è il lunch di Ronaldo — quello brasiliano, il Fenomeno del calcio tra gli anni ‘90 e 2000 — con Murad Ahmed del Financial Times. La location è Mesón Txistu, ristorante basco di Madrid. «Ci viene anche il re di Spagna», ammicca l’ex fuoriclasse. Che ora fa l’imprenditore. Con un po’ dei suoi risparmi — Forbes calcola che abbia guadagnato tra i 200 e i 250 milioni di dollari — si è comprato il 51% del Valladolid, club di ultima fascia della Liga spagnola ma sempre un bel business. Rispetto ai classici padroni del calcio, Ronaldo ritiene di avere «una cosa che non hanno, perché ho giocato e so cosa pensano i giocatori. Cosa vogliono. Di cosa hanno bisogno». Per questo si è dato la regola di non entrare nello spogliatoio prima e dopo le partite. «Sarebbe un’incursione egoistica nel santuario della squadra, violato da quelli come Silvio Berlusconi», nota Ahmed. Abituati ad anni di giornalismo compiacente sulla «competenza calcistica» dell’ex proprietario del Milan, ecco uno che tira fuori la verve dissacratoria di un grande giocatore: «In un irridente accento italiano, Ronaldo ricorda i consigli tattici di Berlusconi quando giocava nel Milan. “Perché non segnate mai da calcio d’angolo? È così facile. State tutti fuori dall’area, e quando arriva il cross entrate!”. Ride. “Quando parlava Silvio, tutti dicevamo ‘ok, faremo così’. Ma poi facevamo a modo nostro”». Adesso Ronaldo, da presidente, dà consigli un po’ più autorevoli ai suoi attaccanti su cosa fare quando sono davanti al portiere: «Aspettalo e fai decidere a lui come tirare». La risposta che riceve è: «Per te è facile». (L’altro presidente italiano che ebbe la fortuna di avere Ronaldo, Massimo Moratti, non è mai nominato). Il pezzo è strapieno di aneddoti gustosi, ma l’abbiamo già fatta troppo lunga. Non si può non menzionare il rapporto di Ronaldo con il cibo, però. Mangia tutto ma si ferma al dessert. È in forma. «Il dessert è un problema». Ricorda quando sir Alex Ferguson, in contrapposizione all’altro Ronaldo (Cristiano), lo chiamava «quello grasso». Ronaldo sorride: «Ci sono attivisti per molte cose. Se sei nero, se sei gay. Non ricordo nessuno che mi abbia difeso quando mi chiamavano grasso». L’epiteto fa soffrire chiunque, a maggior ragione un atleta che tendeva a rotondeggiare per gravi problemi alla tiroide. Racconta le sue due finali mondiali. Su quella del ‘98 persa con la Francia è reticente: il malore che precedette la partita e le convulsioni che lo accompagnarono dopo, fino alla scaletta dell’aereo, resteranno un mistero. Più struggente il racconto della finale di quattro anni dopo. Nelle ore precedenti tutti dormivano, lui non ci riusciva e costrinse Dida a fargli compagnia: «Avevo paura di stare male di nuovo». Stette bene, segnò e vinse. Poi c’è la politica. Tutti i politici che stavano con lui nell’organizzazione del Mondiale brasiliano del 2014 e tutti quelli che ha appoggiato sono finiti in galera per tangenti. «Ma ora finalmente il popolo si è svegliato, sente che qualcuno lo ascolta». Ha tutta l’aria di un endorsement a Jair Bolsonaro, l’orrido presidente brasiliano. Il giornalista glielo chiede ma lui si ritrae: «Parlo in generale, niente nomi. Ho promesso a me stesso di non farmi coinvolgere mai più nella politica». E infine, la spettacolare rivelazione riproduttiva. Ronaldo mostra orgoglioso le foto dei suoi tre figli. «Ne vuoi altri?». Risponde facendo il segno delle forbici con le dita. «Ha fatto la vasectomia. Ma se la sua attuale fidanzata volesse un bambino, lo prenderebbe in considerazione». E come si riverte l’irreversibile? Semplice: Ronaldo ha congelato il suo sperma: «Ne ho un po’ in ghiaccio. Abbastanza da fare una squadra di calcio». Capito come si fa un’intervista?
· Maradona nella casa del sonno.
Diego Maradona, fenomenologia del campione delle contraddizioni. Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Tommaso Pellizzari su Corriere.it. Diego Armando Maradona, 59 anni, allenatore del Gimnasia La Plata (da cui si è dimesso), il 29 ottobre scorso allo stadio Marcelo Bielsa a Rosario, in Argentina, dove i tifosi gli hanno regalato un vero trono da cui ha seguito la partita In fondo, è semplice: a Maradona oggi perdoniamo tutto. Mentre, all’epoca, non gli perdonavamo niente. Perché come osava, quel nanerottolo, venire a vincere quassù al Nord? Come osava battere le punizioni meglio di Platini, segnando la più incredibile della storia del calcio proprio alla Juventus e proprio in faccia a Le Roi, piazzato in barriera? Come osava ostinarsi a voler piegare l’acciaio dell’Inter dei tedeschi Brehme e Matthäus? Chi si credeva di essere, per provare a fermare il futuro incarnato nei superpoteri di Gullit e nell’eleganza di Van Basten? Con che coraggio, per di più, faceva tutto questo giocando in una squadra del Sud, che finora aveva avuto il buon gusto di non aver mai vinto uno scudetto? Nell’Italia degli Anni 80 Diego Maradona fu uno scandalo non solo calcistico, ma anche culturale. Tanto che molti tifosi delle tre grandi squadre del Nord finirono per preferire che fosse una rivale storica a vincere, piuttosto che certi parvenu. Oggi però non andiamo più così fieri della spaventosa manifestazione di provincialismo di cui demmo prova l’8 giugno 1990, quando tutto lo stadio di San Siro tifò smodatamente contro l’Argentina e gioì smisuratamente per la sconfitta contro il Camerun, all’esordio nel Mondiale. Quanto caro lo pagammo, quel provincialismo, lo avrebbe scoperto poi la nazionale italiana in campo proprio contro l’Argentina di Maradona a Napoli, in un surreale ambiente di tifo diviso quantomeno a metà. E con Diego che in mondovisione gridava “hijos de puta” a tutti quelli che stavano fischiando l’inno del suo Paese. Perché Maradona era (ed è) anche questo: non si limitava a ledere la maestà del Grande Nord. Lui lo mandava direttamente affanculo. Cosa che fece peraltro anche al Mondiale di 4 anni dopo. Con la non lieve differenza che il Grande Nord destinatario del suo urlo dopo il gol alla Grecia non era la Padania e dintorni: era quello che un tempo si chiamava Primo mondo. Maradona firma la poltrona-trono regalatagli a Rosario, dove era stato accolto in maniera speciale dai tifosi del Newell’s Old Boys: una panchina speciale per l’ex numero 10, dalla quale ha guidato i suoi giocatori del Gimnasia La Plata. Nel debutto dell’Argentina a Usa 94 Diego segnò il gol del 3-0. Poi la corsa verso una telecamera, con l’espressione stravolta dalla rabbia, perché tra il secondo scudetto vinto a Napoli nel 1990 e quella partita nel frattempo c’era stato di tutto: la squalifica per cocaina nel 1991, lo stop di un anno e mezzo, la fuga dall’Italia, il tentativo di rinascita a Siviglia, il ritorno in patria al Newell’s Old Boys di Rosario, esperienza conclusa con le fucilate ad aria compressa contro i giornalisti appostati fuori casa. Nella squadra in cui sarebbe iniziata l’avventura di un bambino di nome Leo Messi, Diego giocò solo 5 partite così così. Eppure lo scorso 29 ottobre — quando si è ripresentato da quelle parti come allenatore del Gimnasia La Plata — è stato accolto con un trono, seduto sul quale ha guidato i suoi alla vittoria per 4-0 (ma due partite dopo si è dimesso, lasciando il Gimnasia nella stessa zona retrocessione in cui l’aveva presa). Resta che dopo quelle 5 partite Diego si fermò. Era il febbraio del 1994: troppo fuori forma, troppi fantasmi nella testa. E al Mondiale in cui bisognava vendicarsi di quello perso in finale nel 1990 contro la Germania per un rigore inesistente, mancavano solo 4 mesi. Sono giustamente celebri le cinque parole con cui Eduardo Galeano (nel suo libro Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer) riassunse quella Coppa del mondo di Maradona: «Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto». Perché dopo il trionfo sulla Grecia, arrivò il controllo antidoping successivo al 2-0 sulla Nigeria: nelle urine di Diego c’era efedrina, sostanza stimolante e anche dimagrante. Fu facile fare due più due, visto che aveva perso 20 chili in tre mesi. Ma lui parlò di un complotto della Fifa e del suo allora segretario generale Sepp Blatter: «Una trappola, mi hanno voluto negli Usa e poi mi hanno abbandonato». Il primo testimone a discarico del Pibe è il suo ex compagno di Nazionale Jorge Valdano. Nel suo libro Il sogno di Futbolandia (Mondadori) il calciatore-dirigente-scrittore ricorda la conversazione tra il dottor Oliva, medico personale di Maradona, e il preparatore fisico Fernando Signorini: «Dottore, come devo allenare Maradona?». «Tu hai mai visto allenarsi un gatto?». Il secondo testimone è ancora Galeano, che ricorda il cannoneggiamento cui il Pibe aveva sottoposto la Fifa da parecchio tempo prima: «Nel 1986 e nel 1994, in Messico e negli Stati Uniti, denunciò l’onnipotente dittatura della televisione che obbligava i giocatori a spaccarsi la schiena a mezzogiorno, abbrustolendosi al sole. E in mille altre occasioni, in tutto l’arco della sua accidentata carriera, Maradona ha detto cose che hanno sollevato un vespaio». Oggi sappiamo che forse non aveva tutti i torti. E comunque se certe cose non le diceva, le faceva. In che altro modo interpretare quei 5 minuti di Argentina-Inghilterra, quarto di finale del Mondiale messicano 1986? Nella prima sfida dopo la guerra delle Falkland del 1982 (quando il Paese sudamericano era stato sconfitto dall’esercito di Sua Maestà spedito da Margaret Thatcher per riprendersi le isole colonizzate nell’800) Diego usò per vincere tutte le armi a sua disposizione. Legali o meno. Come la mano con cui al 51’ segnò il gol del vantaggio. Ma per essere sicuro che nessuno dicesse che lui vinceva imbrogliando, 4 minuti dopo prese palla nella sua metà campo, saltò 5 avversari e segnò quello che poi sarebbe stato votato come gol del secolo. La guerra era stata persa. Ma quella battaglia no e, contrariamente a quanto dice il proverbio, il 22 giugno 1986 nacque il mito del Maradona capopopolo di tutti i Sud del mondo. Esattamente il contrario di Pelé che, scrisse Mario Sconcerti, ha scelto di essere «il vecchio ragazzo buono del grande calcio». Solo pochi giorni fa, invece, Diego ha dato il suo sostegno all’ex presidente della Bolivia Evo Morales: «Mi rammarico per il colpo di Stato, in particolare per il popolo boliviano e per una brava persona che ha sempre lavorato per i più poveri». Diego Armando Maradona, con la maglia della Nazionale argentina, segna il primo gol nella semifinale della Coppa del Mondo contro il Belgio, allo Stadio Azteca il 25 giugno 1986, Città del Messico. Quattro giorni dopo, l’Argentina battè in finale la Germania, laureandosi campione del mondo per la seconda volta. Con parole simili aveva difeso già il suo grande amico Fidel Castro («Ci sono 14 milioni di africani che non hanno un pezzo di pane. Ma c’è ancora chi dà del figlio di puttana a Fidel perché i cubani mangiano un piatto di riso con patate. Ma mangiano tutti, e questo è l’esempio da emulare») o il leader venezuelano Nicolas Maduro («Appena me lo ordinerà, vestirò la mia uniforme da soldato e lotterò per la libertà del Venezuela e contro l’imperialismo e coloro i quali si vogliono impossessare delle nostre bandiere, ciò che abbiamo di più prezioso. Viva Chavez! Viva Maduro! Viva la rivoluzione!»). Tutte dimostrazioni di quanto Diego ama ripetere di sé stesso: «Io sono bianco o nero, nella mia vita non sarò mai grigio». Vero, ma allo stesso tempo (ennesima magia del «Diez») totalmente falso. Se già la sua amicizia col presidente ultraliberista argentino Carlos Menem poneva problemi di coerenza politica, figuriamoci il labirinto di distinguo in cui bisognerebbe infilarsi per giustificare il sostegno a leader politici trasformatisi in dittatori o che ignorano la Costituzione per provare a farsi rieleggere. Ma la coerenza non è tutto, nella vita di Maradona. La famiglia è per lui un concetto sacro, però un po’ in astratto: al momento, con il riconoscimento dei tre figli nati nel periodo del suo soggiorno cubano tra il 2000 e il 2005, in totale dovremmo essere a 8. Notevole fu la battuta di Giannina, nata con Dalma dal primo matrimonio del Pibe/Pube: «Ne mancano 3 per una squadra di calcio. Ce la puoi fare!». Ma era prima che i due litigassero su Instagram, con Diego che conclude: «Non le lascerò nulla. Darò tutto in beneficenza». Soprattutto, però, la vita di Maradona è strapiena di zone grigie. E non su quisquilie. Le amicizie coi camorristi negli anni di Napoli sono quasi niente rispetto a quando (fine 1991) Diego accettò di andare a giocare un’amichevole organizzata da Pablo Escobar, col boss colombiano pure lui in campo, a indossare l’altro numero 10 («non sembrava malaccio»). Ben più recente, e non meno discutibile, l’esperienza di allenatore dei Dorados di Sinaloa, una delle roccaforti dei narcos messicani attorno a cui ruota buona parte dei tre splendidi e terribili romanzi-verità di Don Winslow sulla tragedia del Paese centramericano. Eppure, a Maradona abbiamo perdonato anche questo. Se succede e se — com’è probabile — continuerà a succedere, non sarà solo per l’estrema, conclamata fallibilità di qualcuno che nella vita ha combinato e detto una tale quantità di fesserie da renderlo infinitamente umano. È altamente probabile che a Maradona sia ormai riservata quella strana sorta di immunità di cui godono, nonostante i loro errori imperdonabili, certi geni che non stiamo a nominare per evitare accostamenti che possano apparire blasfemi. Ma stiamo comunque parlando di qualcuno che, quando Leo Messi gli chiese consigli su come calciare una punizione, gli rispose: «Non muovere il piede troppo velocemente: perché altrimenti la palla non sa cosa vuoi da lei. Devi farle capire la traiettoria che vuoi darle». Vai in pace, Diego. Se ce la fai. Diego Maradona quand’era 20enneLa vita — Diego Armando Maradona è nato a Lanus, 11 chilometri a sud di Buenos Aires. Ha cinque sorelle e due fratelli. Viene scoperto ancora bambino da un osservatore dell’Argentinos Juniors. A 11 anni. Diego è il più basso fra tutti i ragazzi della squadra, ma è già il loro leader.
I suoi Mondiali — Con la Nazionale argentina ha partecipato a quattro Mondiali: 1982, 1986, 1990 e 1994, vincendo da protagonista quello del 1986 in Messico: contro l’Inghilterra ai quarti di finale segnò un rete considerata il gol del secolo.
Cosa fa oggi — Dopo il ritiro nel 1997, a causa degli eccessi di alcol, cibo e cocaina fu costretto a ricoveri e interventi chirurgici. Da poco ha lasciato il ruolo di mister del Gimnasia La Plata, massima serie del campionato argentino.
Giannina Maradona: «Lo stanno uccidendo». Diego: «Si preoccupa solo dell'eredità, non le lascio nulla». Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. «Non sto morendo per niente, dormo tranquillo perché sto lavorando. Mi è dispiaciuto moltissimo perdere contro l’Estudiantes. Non so ciò che ha voluto dire Giannina e come verrà interpretato. Ma so che ora, quando uno si fa più vecchio, gli altri si preoccupano più di quello che lascerà piuttosto di quello che sta facendo. E allora dico a tutti che non le lascerò nulla. Che darò tutto in beneficenza. Tutto quello che ho guadagnato in vita mia lo donerò». Queste le frasi di Diego Armando Maradona in un video postato su Instagram con cui risponde alla figlia Giannina (avuta 30 anni fa con Claudia Villafañe), con cui da tempo i rapporti non sono buoni. La donna, ex compagna del «Kun» Aguero e madre del piccolo Benjamin, sullo stesso social - in alcuni video pubblicati nelle storie - aveva sostenuto, parlando del padre, che «lo stanno uccidendo da dentro, senza che se ne accorga. Vi ricordate che papà aveva uno zoo, in cui potersi fare le foto con il leone? Lo teneva sedato, altrimenti è impossibile domarlo. E ogni paragone con la realtà è pura coincidenza...». Non è certo la prima volta che Maradona, attualmente allenatore del Gimnasia di La Plata, e la seconda figlia (di otto ufficiali, la stessa ragazza aveva ironizzato su un'altra presunta sorellastra) si scambiano messaggi a distanza, e due anni fa la stampa argentina era arrivata a ipotizzare che l’ex fuoriclasse del Napoli avesse intenzione di chiedere il carcere preventivo per Giannina nell’ambito di una causa, intentata anche contro Claudia Villafañe per una presunta sottrazione di patrimonio. Maradona accusa l’ex moglie, e il suo attuale compagno, Jorge Taiana, un attore e produttore teatrale che Diego chiama «el Tontin», il tonto, di avergli rubato circa 9 milioni di dollari amministrando le sue fortune nella compravendita di immobili in Florida. E a questo proposito anche la Villafañe è intervenuta via social, rivolgendosi all’ex marito: «Se hai le p... di fare un video parlando di nostra figlia, spero tu ce le abbia anche per presentarti domani davanti al giudice, visto che finora non lo hai mai fatto». Tutto ciò fa capire che questa saga familiare è lungi dall’essere risolta.
Nino Femiani per quotidiano.net il 5 novembre 2019. Non c’entra nulla la preoccupazione etica sbandierata da Sting, Bill Gates, Warren Buffet e finanche dal cuoco stellato Gordon Ramsay, i quali pensano che ai propri figli non si debba lasciare alcuna eredità in termini monetari. No, stavolta la rottura sulla successione si scatena, e non per ethical reasons, nella casa del ‘Diez’ più famoso al mondo: Diego Armando Maradona. Il Pibe – che vanta un patrimonio che People With Money stima in 275 milioni di dollari – ha deciso di chiudere i rubinetti alla figlia Giannina, nata insieme a Dalma (con lei più nessun contatto) dal matrimonio con Claudia Villafañe, sposata nel 1984 e dalla quale ha divorziato nel 2004. La ragazza, oggi trentenne, un tempo coniugata con il campione del Manchester City, Sergio ‘Kun’ Agüero, ha aperto le ostilità pubblicando sul suo profilo Instagram un post velenoso sullo stato di salute (soprattutto mentale) del padre. «Lo stanno uccidendo da dentro, senza che se ne accorga. Vi ricordate che mio padre aveva uno zoo, in cui potersi fare le foto con il leone? Lo teneva sedato, altrimenti è impossibile domarlo. E ogni paragone con la realtà è pura coincidenza…». Insomma Dieguito ridotto dalle compagnie femminili da re della foresta a coniglio malandato. E lui risponde con un video diretto proprio a Giannina. In cui viene smentita ogni illazione sul suo stato di salute. «Non sto morendo per niente, dormo tranquillo perché sto lavorando. Mi è dispiaciuto moltissimo perdere contro l’Estudiantes (il suo Gimnasia sconfitto 0-1 in casa, ndr) . Non so quello che abbia voluto dire Giannina e come verrà interpretato. Ma so che ora, quando uno si fa più vecchio, gli altri si preoccupano più di quello che lascerà piuttosto di quello che sta facendo». Da qui la minaccia di prosciugare il patrimonio o di devolverlo a enti no profit: «E io dico a tutti che non le lascerò nulla. Che darò tutto in beneficienza. Tutto quello che ho guadagnato in vita mia lo donerò. E lo diranno a qualcun altro quando morirò. Ma per adesso no, perché sono sanissimo». La saga dei Maradona si arricchisce, quindi, di un altro capitolo, proprio nei giorni in cui spunta in Argentina un altro erede, il sesto. Si tratta di Magalì 23 anni: all’epoca del concepimento Diego viveva in Argentina come tecnico del Racing. Si va ad aggiungere a Giannina e Dalma, nate dal matrimonio con Claudia, a Diego jr Sinagra, nato dalla relazione con Cristiana Sinagra e non riconosciuto da Maradona fino al 2007, a Jana frutto della relazione con Valeria Sabalaín e Diego Fernando nato dal legame con Veronica Ojeda. Una nidiata numerosa che spinge le madri a difendere la ‘legittima’ dei figli. Lo fa Claudia Villafañe che ha già chiamato Diego in tribunale. «Se hai le p***e di fare un video parlando di nostra figlia, spero tu ce le abbia anche per presentarti domani davanti al giudice, visto che finora non lo hai mai fatto». Oltre ai problemi in panchina con il suo club, Diego deve ora fare i conti anche con la carta bollata.
Spunta Magalì, l’undicesima figlia segreta di Maradona: "Farò il test del DNA”. Dopo il figlio segreto di qualche settimana fa, spunta Magalì, un'altra ragazza che dice di essere la figlia segreta di Maradona che ha già chiesto al campione di fare il test del DNA. Roberta Damiata, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Sembra che uno dei più grandi campione di calcio di tutti i tempi, Diego Armando Maradona, sia stato anche un grande “campione” nel diventare papà, e dopo il figlio segreto (il decimo) di qualche settimana fa ora spunta Magalì, una ragazza che dice di essere figlia del campione e chiede il test del DNA. Magalì è ospite a “Live Non è la D’Urso” e racconta la sua storia che ha dell’incredibile. La ragazza infatti è stata data in adozione della madre ad una coppia, e raggiunta la maggiore età ha deciso di cercare la sua madre biologica specificando però che per lei considera suoi genitori quelli che l’hanno adottata e cresciuta con amore. Quando la incontra scopre che la mamma aveva pianificato dal momento che ha scoperto di essere incinta, di dare in adozione la bambina: “Mia madre mi ha dato in affidamento, era una decisione pianificata fin dall’inizio, e io ho accettato l’invito di venire in trasmissione - specifica - perchè su questa vicenda sono state dette molte cose e io vorrei chiarire e approfondire questi dubbi”. Racconta poi, la sua incredulità nello scoprire di essere figlia di uno dei già grandi campioni di calcio del mondo: "Non è facile accettare una cosa del genere, elaborarla, interiorizzarla, figurati quando è un personaggio famoso come lui al mondo. Sono passati tantissimi mesi dalla notizie e ci sono ancora giorni che mi alzo al mattino e mi chiedo, ma dove sono? Che cosa sto vivendo? E’ una cosa fortissima, ma grazie ai miei genitori ho deciso di affrontare questo percorso e ho intrapreso questo cammino per scoprire la verità". Continua poi raccontando di aver chiesto a Maradona, tramite i suoi avvocati, di poter fare il test del DNA: "Devo dire che è stato molto disponibile e ha facilitato in ogni modo questo percorso. Ci tengo molto a dire questa cosa perchè da Diego ho avuto la massima disponibilità al 100%”. Magalì dovrebbe essere stata concepita durante il periodo in cui l’ex calciatore svolgeva il ruolo di tecnico del Racing de Avallaneda, ma la madre non aveva detto nulla quindi il "Pibe de Oro" era completamente all’oscuro della vicenda. “Al momento io non penso di essere sua figlia voglio prima aspettare il test” conclude la ragazza. Intanto a casa del campione l’atmosfera si fa incandescente, per paura che il patrimonio con tutti questi figli riconosciuti possa andare disperso, ma Diego è irremovibile. “Se mia moglie pensa solo all’eredità allora io non le lascerò niente”.
Tommaso Pellizzari per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2019. Questa foto di Diego Maradona seduto su un trono a bordocampo (invece che in panchina) non è solo un piccolo capolavoro estetico. È un'immagine che potrebbe avere anche valore storico: nel senso che potrebbe una volta per tutte porre fina a una discussione che il mondo porta avanti da 15 anni, cioè da quando nel calcio è apparso Leo Messi: meglio lui o Diego? La foto è stata scattata il 29 ottobre, vigilia del compleanno numero 59 del Pibe. La squadra di cui è allenatore, il Gimnasia La Plata, doveva giocare a Rosario contro il Newell's Old Boys. Partita complicata: i rosarini stavano nella parte alta della classifica, il Gimnasia era penultimo con 4 punti. L'arrivo di Maradona fino a quel momento non aveva cambiato molto. Chiamato dopo un inizio disastroso (un punto in 5 partite), Diego non aveva invertito più di tanto la tendenza: quattro sconfitte e una sola vittoria, ma contro gli ultimi in classifica del Godoy Cruz. E sì che Maradona non aveva portato solo il suo carisma nel club di La Plata, 60 chilometri a Sud-Est di Buenos Aires. L'ex re di Napoli aveva introdotto anche tutte le sue scaramanzie, compresa l'eliminazione del verde che Diego ha imparato a temere da Carlos Bilardo, il c.t. con cui vinse il Mondiale nel 1986 (molti calciatori del Gimnasia avevano le scarpe proprio di quel colore o anche con dei semplici inserti cromatici: hanno dovuto cambiarle tutti). Poiché però la situazione non migliorava, Maradona ha aggiunto al suo look un cappellino da baseball, omaggio del leader del Venezuela Nicolas Maduro. Diego lo indossava anche al momento del suo ingresso in campo a Rosario. Dove ha trovato il regalo di compleanno preparato per lui dal Newell's Old Boys, in cui aveva giocato solo 5 partite tra il 1993 e il 1994: il trono, appunto. Diego prima lo ha autografato, poi ci si è seduto guidando i suoi alla seconda vittoria. Un bello 0-4, nello stadio dedicato a una delle glorie locali (per quanto ancora vivente): l'allenatore Marcelo Bielsa. Sì, perché Rosario è una città che al calcio argentino ha dato molto. Anzi, molti. Da Tomas Felipe Carlovich (genio solo potenziale, ma che per Maradona resta il più grande talento del futbol ) a Jorge Valdano, Angel Di Maria e Mauro Icardi. E poi, appunto, Leo Messi. Che nelle giovanili del Newell's ha giocato cinque anni, dal 1995 al 2000, prima di trasferirsi dodicenne al Barcellona. Quindi, riassumendo: in uno dei Paesi dal più alto tasso di rivalità calcistiche al mondo, una città decide di fare un omaggio mai visto a un forestiero che continua ad allungare la sua ombra sulla fama del figlio prediletto. Non saltate subito alla conclusione più facile, però: l'inchino di Rosario a Maradona non sancisce la resa finale di chi sosteneva che Messi fosse più grande. Quella foto chiude sì la discussione, ma in un altro senso, che va ben oltre la tecnica o i trofei dei due. Anche perché è un dibattito che difficilmente si può staccare da certezze ormai acquisite: il sinistro di Maradona è sì migliore di quello di Messi, ma Leo ha un destro e un colpo di testa nettamente superiori. Diego ha portato l'Argentina a vincere il Mondiale che alla Pulce manca, è vero. Ma era un altro calcio, in cui a un fuoriclasse un'impresa del genere poteva anche riuscire (nel frattempo, tra l'altro, la questione l'ha sintetizzata una volta per tutte qualche mese fa Ramon Besa, firma del quotidiano spagnolo El Pais : «Messi è la sublimazione di un modo collettivo di intendere il calcio, perché altrimenti sarebbe Maradona»). No, la foto di Rosario dice di più. E altro. Proprio il Mondiale vinto dal Pibe è la prova che nascere con certe doti fa la differenza. Ma altrettanto contano il carattere e il modo con cui le si mette a frutto. Perciò, smettete di chiedervi se Messi è meglio di Maradona, o viceversa. Le domande corrette sono altre due. Queste: nel 2046, quando Leo compirà 59 anni, ve lo vedete seduto su un trono a bordocampo? E poi: con chi, fra lui e Diego, uscireste una sera per farvi raccontare storie di vita e brevi cenni sull'universo, magari con sorprendenti rivelazioni su chi l'ha davvero creato?
Maradona e Napoli, letture sociologiche di un genio del calcio. Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Ho visto Maradona, come uno dice ho visto la Madonna. In un libro uscito nel 1991, Te Diegum. Genio, sregolatezza & bacchettoni(Leonardo editore), pregevole contributo di storici, giornalisti, giuristi, psicologi, antropologi, medici, sociologi alla beatificazione del Pibe de oro, l’antropologo Marino Niola scriveva: «Con l’esemplarità della sua vicenda, egli ha contribuito a farmi ripensare l’importanza di fenomeni sociali spesso sottostimati o guardati con sufficienza. E, per finire, Diego ha riconciliato la mia mente di studioso con il mio cuore di tifoso». Ecco, Matteo Marani con1984, Ho visto Maradona cerca proprio di ricostruire il tessuto sociale di quell’anno indimenticabile, quando arrivò in Italia uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi. Era l’epoca d’oro del calcio italiano, ci ricorda Matteo Marani. Platini alla Juve, Falcao alla Roma, Zico all’Udinese. Nell’estate in cui Maradona sbarcava nel campionato più bello del mondo, il Torino acquistava Junior, l’Inter Rummenigge, la Fiorentina Socrates. Era anche l’epoca in cui l’Italia era uscita dagli anni bui del terrorismo e cominciava a riscoprire il piacere della vita. La trattativa che il presidente Corrado Ferlaino condusse con il Barcellona fu lunga e complicata. Settimane di folli trattative, con intrighi e rilanci, blitz in Spagna e un finale rocambolesco con Ferlaino che, sapendo di non poter consegnare il contratto prima della chiusura del calciomercato, deposita in Lega una busta vuota e poi nella notte la sostituisce con l’aiuto di una guardia giurata. Ai blaugrana andarono l’equivalente di 13,5 miliardi di lire. Il Napoli portò a casa il miglior giocatore di quegli anni e, secondo Marani, della storia del calcio. Ma ne valse la pena perché nel 1987 arrivò il primo scudetto-riscatto. Marani indugia molto su questo lato sociologico come se la riabilitazione di una città sia dipesa da un solo uomo, sia pure un genio del calcio.
Marco Giusti per Dagospia il 23 settembre 2019. Se siete vissuti col culto di Diego Armando Maradona, se pensate che sia meglio di Pelé e di Cristiano Ronaldo, soprattutto se tifate Napoli, non potete non vedere questo spettacolare documentario a lui dedicato di oltre due ore, Diego Maradona, diretto da Asif Kapadia, il regista premio Oscar di Amy e Senna, prodotto dalla HBO, un maestro delle vite difficili da ricostruire al montaggio con quintali di materiali inediti, da oggi a mercoledì nelle nostre sale. Già presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes, senza la presenza di Maradona, e poi a Napoli qualche giorno fa per un pubblico commosso di fan, questo Diego Maradona vanta la ricostruzione minuziosa del periodo napoletano del campione grazie a qualcosa come 500 ore di materiale mai visto che doveva servire per un film mai fatto,, ma anche l’assoluta libertà nel raccontare i sette anni napoletani di Diego tra calcio, amori, droga e camorra. Al punto che potrà dare noia a qualcuno questo ritratto impietoso di Maradona, ma che mostra con esattezza il rapporto di schiavitù col successo, con la tifoseria e con la follia del momento. “A mad film about a mad life” leggiamo sul “Guardian”. Difficile non rimanere avvolti dalla follia geniale di Maradona e dalla tecnica di racconto avvolgente di Kapadia, l’asso per raccontare vite complesse e sfortunate come quelle di Senna e di Amy Winehouse. Qui ha la fortuna di affrontare un mito vivo. Un mito che ha intervistato assieme a molte altre persone, dal capo tifoseria Palummella a Bruno Giordano, da Ferlaino alla moglie Claudia, dall’operatore di fiducia che si porta dall’Argentina, Juan Carlos, che lo segue come un’ombra fin dal suo arrivo a Napoli il 5 luglio del 1984, accolto allo stadio da 60 mila tifosi adoranti. Kapadia tiene le interviste di oggi solo come commento audio, mentre scorrono le immagini del passato. Ne viene fuori un ritratto meno politico e militante di quello di Emir Kusturica, che poteva vantarsi di un Maradona sempre in campo, ma anche molto più documentato e pieno di materiali segreti. Grande spazio ha la storia del figlio non subito riconosciuto, Diego Armando jr, mentre a Ferlaino spetta di dirci la verità, che Maradona era come prigioniero di Napoli, del Napoli, dei napoletani e dei suoi vizi. Che andarsene, insomma, fu una liberazione. All’anteprima napoletana il pubblico dei fan piangeva. Difficile rimanere indifferenti. In sala da oggi.
Dagospia il 25 settembre 2019. Estratto del libro "Maradona è amico mio" di Marco Ciriello . C’è un Maradona per ognuno di noi che si ricongiunge in campo. Difficile spiegare tutto quello che è per i suoi tifosi, numerosi ancora oggi. Per gli argentini è andato oltre José Francisco de San Martín, per il continente sudamericano, a esclusione del Brasile, potrebbe essere identificato come Simón Bolívar, perché Maradona portava con sé un orgoglio caudillo che piaceva moltissimo ai capi di Stato dei primi anni del Duemila, da Chávez a Evo Morales arrivando perfino a Lula – andando in deroga all’orgoglio pallonaro del suo paese; ci sono foto che li vedono con sorrisi bambini giochicchiare con lui e altre che lo ritraggono in occasioni ufficiali, come il vertice contro George Bush a Mar del Plata, dove ho potuto vedere con i miei occhi che Maradona stava tra loro come un altro capo di Stato, uno Stato sovranazionale che dal mar dei Caraibi si cuciva all’oceano Indiano. Qualche anno prima a Buenos Aires chiesi a Washington Cucurto, forse lo scrittore più anticonformista d’Argentina, che cosa era Maradona, e lui mi rispose da sinistra: È l’unico mito che mi rimane, ed è capitalista. Estela Carlotto – la leader delle nonne di Plaza de Mayo – mi racccontò la sua felicità durante un Primo maggio a L’Avana quando scoprì che il calciatore non solo conosceva la sua storia, ma lasciava i giornalisti che aveva intorno, il codazzo di amici, per correre a renderle omaggio, sciogliendola ed euforizzandola; ed è curioso che nella scala d’importanza della signora Carlotto, lei si collocasse dopo Maradona all’interno della storia argentina, sicuramente un eccesso di umiltà, ma anche una spia dell’importanza del calciatore all’interno della storia emotiva del paese. Un’icona che se la giocava con altre icone abbastanza ingombranti come Carlos Gardel, Evita Perón e Ernesto Guevara, solo per citare quelle più note fuori dal paese. Maradona era difficile da marcare e difficile da decifrare nel suo continuo cambiare forma negli occhi e nei ricordi: da un quartiere all’altro di Buenos Aires e poi per ogni città argentina e risalendo fino agli Usa, dove è un po’ demone un po’ bandito, per arrivare in Africa dove invece è amatissimo, ricordo che in Sudafrica era l’unica rockstar giusto un gradino sotto Nelson Mandela, per riapprodare in Europa dove tutti fanno delle separazioni capillari tra l’uomo e il calciatore, come «France Football», che separò l’uomo dal bambino assegnando il pallone d’oro al bambino; viene scisso per essere salvato, si sottilizza, si smonta e rimonta per poi ammettere che sì, è il migliore, e nessun europeo si può paragonare a lui, quindi va s-categorizzato e portato oltre, divenendo il reperto non umano prestato al calcio. Molto probabilmente un Maradona al Real Madrid avrebbe suscitato un’eco diversa, a Barcellona non fu trattato bene e perfino uno come Montalbán scrisse un brutto saggetto su di lui, con una spietatezza e diverse ipotesi sulla camorra napoletana che si portano dietro più pregiudizi che prove, eppure c’è un dato sacrosanto: Maradona fu sogno, anche per loro. Infine Napoli, alla quale ha dato gloria in cambio di amore, ha dato quello che mancava alla città sul piano calcistico e ha perfino avuto compassione per ogni errore, per ogni giudizio sbagliato, per ogni caduta; il mito si stropicciava un poco, ma c’era sempre qualcuno pronto a rimetterlo in sesto, rinverdendo quell’elettricità che Maradona aveva portato alla città. L’uso della fantasia per sottrarsi all’incombenza del quotidiano, un continuo carnevale rivoluzionario messo in scena sui campi di pallone. Clown, foca, direttore di circo, trapezista, domatore, scenografo, sceneggiatore, attore, regista, scultore, pittore e via andando in una lunga sequenza che non lo vede mai impallato, mai in secondo piano, mai in ombra, nemmeno ora che senza il pallone appare come una caricatura. La sua fortuna è l’istinto, la grande capacità di non essere mai antipatico nemmeno nell’esercizio della prepotenza o nell’inseguimento dell’assurdo, come quando, nel corso di una partita della pace sotto la benedizione e lo sguardo di papa Bergoglio, si mise a litigare con un altro argentino, Juan Sebastián Verón. Maradona è uno spasso, perché si porta dietro una capacità unica di trasformare la realtà collettiva degli stadi dall’ostilità al consenso, lui è il re assoluto ma è anche il giullare, e siccome è stato l’ultimo di tutti quelli che ora lo guardano, in una povertà betlemmesca, può liquidare ogni accusa con un sorriso e un palleggio. Maradona è un’assoluzione continua, oscillando da un ossimoro all’altro, con la capacità di esercitare il potere rifiutandone le strutture, vivendo in un continuo impulso anarchico che però, uscito dalle aree di rigore, ha sbandato non poco: in panchina e in tribuna. Maradona è anche e soprattutto una contraddizione continua, con una ricerca di bersagli da colpire senza mai sottrarsi a giudizi, alle prese di posizione con una lunga lista di amici e nemici, che poi in fondo nemici proprio non sono, ma solo strumenti perfetti per esercitare la funzione da rapper alla Muhammad Ali, perché Maradona anche quando si sforza non riesce a essere cattivo: così Pelé può essere oggetto di strali, di prese in giro in una faida che dura da più di trent’anni e poi ricevere un bacio da figlio sotto gli occhi del freddo Putin che sembra pensare: Ma chi doveva dirmelo? Perché Putin non sapeva, e nemmeno la sua rete di servizi poteva prevederlo, che ogni apparizione maradoniana, come quelle delle madonne, è destinata a sconvolgere il contesto, a segnarlo e a renderlo pagina di cronaca. La capacità di Maradona di egemonizzare le scene è pari a quella che aveva un tempo di andare in porta col pallone, con una semplicità e una calma che ne segnavano la soprannaturalità. Maradona è l’uomo a più dimensioni, quello che si articola fuori dagli schemi, che si staglia su tutti, in una separatezza totale dagli altri, il tempo che vive, e il muoversi e pensare (calcisticamente parlando). Maradona nega la razionalità, se ne fa gioco, in una impermeabilità a questa, che in campo è miracolo e fuori dal campo è solo marketing o i peggiori guai. Ma lui ha la fortuna di tirare dei lunghi sospiri di sollievo pensando a tutto quello che è stato capace di combinare, senza mai fare calcoli, senza mai pensare di assicurarsi qualcosa, solo continuando a essere quello che è sempre stato: un bambino infinito.
Maradona nella casa del sonno: ricoverato nella clinica neurologica. Angelo Rossi su Il Mattino 2 giugno 2019. Da Maradona ti aspetti di tutto. Ma questa che arriva da Buenos Aires è sconvolgente: lo hanno messo a dormire per quattro giorni e quattro notti. In teoria per trovare un efficace rimedio all'insonnia che lo perseguita da anni, in pratica per essere studiato dal punto di vista neurologico. La storia è clamorosa, ma allo stesso tempo triste. Un bel giorno Diego si accorge che la lite familiare con l'ex moglie Claudia e le figlie Dialma e Gianinna lo sta consumando a livello di stress e di tensione. «L'ultima volta che ho visto le ragazze è stato quando mi hanno chiesto dollari» ha confidato egli stesso all'amico-avvocato Matias Morla, insieme al quale El Pibe s'è rivolto a un noto neurologo di Buenos Aires, Claudio Waisburg, professionista che lavora presso l'Istituto Soma. «Da tempo non riesco a dormire, non dico che le mie figlie stanno svuotando una banca ma vogliono alterare la realtà, la mia vita. Io ero sul punto di morire e loro acquistavano appartamenti a Miami» ha confessato ancora l'ex capitano del Napoli, ricordando i tragici giorni di quando, a Punta del Este, finì in coma. Da quel momento avrebbe perso il sonno, affidandosi a farmaci che però non hanno mai sortito l'effetto desiderato. Ecco perché adesso, studiandolo dal punto di vista neurologico proprio mentre viene indotto in un lungo sonno, si spera di trovare la medicina giusta. I medici che lo assistono lo hanno spinto in questo sonno prolungato per trovare il farmaco più adatto. Tutto ciò sta avvenendo in questi giorni nella clinica nell'esclusivo quartiere di Nordelta.
Paolo Ziliani per "il Fatto Quotidiano" il 30 agosto 2019. A questo punto può salvarci solo la Palombelli: invitando i due illustri ex coniugi a Forum, su Rete 4, per provare a dirimere una volta per tutte l' infuocato contenzioso. Tempo non ce n' è più: perché tra Diego Maradona e Claudia Villafañe, la donna che il Pibe portò all' altare nel novembre del 1989 a Buenos Aires, gli stracci volano e le accuse e i pettegolezzi da portineria si sprecano. Per chi si fosse perso l' ultima puntata della truculenta telenovela: dopo aver denunciato l' ex moglie con l' accusa di avergli sottratto maglie, mutande e canotte, innervosito dal lassismo dei giudici, che si muovono con tempi biblici, Dieguito si è lasciato andare a un dolente sfogo sui social. "Continuano a non restituirmi ciò che m' hanno rubato. Come può un giudice continuare a chiedere da dove provengono le magliette, le scarpe e i trofei? È come quando a scuola ti chiedevano: di che colore è il cavallo bianco di San Martin? Svègliati giudice Vilma Nora Dìas!". In realtà, il Pibe è una furia perché Claudia, che gli ha dato Dalmita e Giannina (la figlia che poi sposerà Aguero) e da cui si separò nel 1998, lo ha a sua volta portato in tribunale chiedendo un risarcimento di 1,5 milioni di dollari "per i danni e i pregiudizi provocati dalle calunnie e dagli insulti" riportati a più riprese dai media. "È una ladrona e una pessima madre", ha detto di lei Maradona. "Io invece mi sono sempre presa cura di lui anche ai tempi in cui frequentava cattive compagnie e mi riempiva di bugie: come ringraziamento, lui ha scelto la strada della sistematica umiliazione della mia persona", ribatte lei. Prossimamente: lui dirà che lei russava di notte e lei che il Pibe non tirava mai lo sciacquone. Non ci resta che Forum. Si salvi chi può!
· Dino Zoff.
Francesco Persili per Dagospia il 15 novembre 2019. “Scimmione bastardo”. E Bearzot rispose all’offesa di quella ragazza ventenne, che gli rimproverava la mancata convocazione di Beccalossi, con un ceffone. L’avventura Mundial nel 1982 iniziò così. Davanti all’Hotel Villa Pamphili di Roma tra insulti e schiaffi. “Paterni, educativi, le ho dato uno sganassone così come avrei fatto con mia figlia”, si giustificò il ct della Nazionale. “A Bearzot hanno fatto passare l’inferno. Scrissero che per soli 10 chilometri non era nato in Jugoslavia. E questa fu la più tenera... C’erano giornalisti che ironizzavano sulla sua faccia da pugile suonato, allenatori che dicevano di vergognarsi di essere suoi colleghi. È stato inchiodato da tutti ma ha vinto”. All’Aniene si parla del libro di Piero Trillini “La partita-il romanzo di Italia-Brasile” (Mondadori) e Dino Zoff ricostruisce l’atmosfera di quei giorni carichi di veleni, castronerie e elettricità. La stampa parlò di fughe al casinò, notti con majorette, si inventò una presunta love story tra Rossi e Cabrini. E poi la storia dei premi gonfiati e le accuse al Vecio per l’insistenza su Paolo Rossi: “Solamente gli imbecilli potevano pensare che un calciatore fermo da due anni riguadagnasse in quattro e quattr’otto la possibilità di giocare”. “Un linciaggio morale terribile” al quale Bearzot rispose con “coraggio e un’onestà feroce”. Vietò di leggere i giornali italiani e si fece martoriare dalla stampa pur di proteggere i suoi ragazzi. Il resto è scritto nelle pagine della mitografia sportiva. “Pablito”, sempre difeso dal ct, prende a segnare a ripetizione, l’Italia diventa campione del mondo. Tutti salgono sul carro di quella che qualche settimana prima era stata definita con sprezzo “l’Armata Brancarzot”. “Quel risultato determinò il contrario di quello che dicevano tutti e la nullità di tantissime persone”, artiglia Zoff mentre scorrono le immagini della sua parata al novantesimo di quella torrida Italia-Brasile. “La sceneggiatura perfetta di un grande thriller”, rimarca Malagò che di quella partita ricorda Abraham Klein, l’arbitro scampato all’Olocausto, e Eder, il brasiliano dal sinistro maledetto, “bello come un dio”, protagonista di avventure erotiche che meriterebbero un romanzo a parte. Sull'indicazione di Gianni Petrucci (come mediatore) nella commissione mista Coni-Sport e Salute, il numero 1 dello sport italiano sottolinea: "E' la persona che meglio può dare un contributo al nostro mondo". Qualche metro più in là Guido De Angelis annuncia l’uscita di un libro su Zoff per 'Lazialità': “Non racconteremo il Dino nazionale ma quello che ha fatto la storia della Lazio. Tra i suoi meriti anche quello di essere stato l’unico a gestire Gascoigne. Erano due mondi opposti ma insieme erano fantastici. Zoff stava al gioco, si divertiva, sapeva che Gazza era un genio. Scherzi e scenette esilaranti. Ricordo ancora quando tirò giù i calzoncini a Sclosa…” Dalla Lazio di ieri a quella di oggi. “Con quei quattro (Correa, Milinkovic, Luis Alberto e Immobile) al massimo, la Lazio può centrare la qualificazione in Champions. Quando attacca sembra il Liverpool. Simone Inzaghi? Lo terrei sempre, è il nostro Ferguson, abbiamo bisogno di riferimenti, e lui lo è”. Solo la moglie prova a fermare Zoff che continua a snocciolare aneddoti su Italia-Brasile (“forse la più bella partita mai giocata in un campionato del mondo, Italia-Germania del ’70 è stata più emozionante”) e su Bearzot. “Il suo era calcio all’antica? Non fatemi ridere. Quello che chiamano “catenaccio”, era una strategia ispirata al jazz. ‘Lavoro d’insieme, grande affiatamento e poi l’uscita del solista’. Diceva: ‘Siamo italiani. Perché dobbiamo giocare come i tedeschi? Abbiamo estro, fantasia, furbizia. In quel mondiale l’Italia ha fatto tutti gol su azione, non come adesso che si segna su rigore e punizione…” Ma Zoff si diverte ancora a vedere le partite? “Il calcio è lo specchio del mondo moderno. Ci sono molte esasperazioni mediatiche che comportano discussioni a non finire. Il Var? Va adoperato con buon senso, la macchina non ha cuore”. Le polemiche seguite alla sostituzione di CR7 vengono stemperate e riportate nell’alveo delle normali cose da campo: “Sarri ha fatto il suo ma anche Ronaldo ha capito e non ha fatto ulteriori dichiarazioni…”. Sulla Nazionale: “Mancini si è dimostrato bravo, non era scontato anche se io ero fiducioso. Sta venendo fuori una generazione di giovani molto interessante, a partire da Chiesa, Barella e Zaniolo”. Da grande appassionato di Formula 1, giudica anche la coesistenza Leclerc-Vettel: “Credo che la Ferrari possa puntare ancora su entrambi. Leclerc si è dimostrato un fenomeno, bisogna vedere se si conferma. L’importante è fare una macchina adeguata alla concorrenza…”
· Albertosi. Nome ordinario, Enrico. Nome straordinario, Ricky.
"I miei 80 anni ribelli. E quel pranzo in cella..." Compleanno speciale per uno dei portieri più forti: «Scommesse? Mi misero in mezzo. Ma bucatini super». Nino Materi, Lunedì 28/10/2019, su Il Giornale. Nome ordinario, Enrico. Nome straordinario, Ricky. Inevitabile che Albertosi nella storia del calcio entrasse volando sulle cinque lettere di r-i-c-k-y; roba da supereroe, con quella «k» e quella «y» che paiono la stilizzazione grafica di un portiere in volo all'incrocio dei pali e in uscita bassa sui piedi dell'attaccante. Ricky, nome breve. Come Dino (Zoff), Lido (Vieri), Sepp (Maier), Lev (Yashin). Portieri da urlo: il grido del gol che si strozza in gola nell'istante del miracolo. Nato a Pontremoli (Massa Carrara), Albertosi compirà 80 anni il 2 novembre: «Sono nato nel giorno dei morti, ma mi sento vivo più che mai». Anche quella carogna di infarto che tentò di fargli gol nel 2004 dovette rassegnarsi a tornare negli spogliatoi con la coda tra le gambe, sconfitto dal fisico temprato inox di Ricky. Giovane guascone, arrivò dallo Spezia alla Fiorentina per soffiare il posto a Giuliano Sarti, allora numero uno della Nazionale: «In Viola, all'inizio, partii in panchina. Sarti è stato un maestro che ho superato. Dai e dai il titolare diventai io. Credo che in cuor suo Sarti abbia sempre pensato che sarebbe finita così...». Ricky parla gonfiando il petto, senza abbassare gli occhi davanti a nessuno. Per molti è stato il portiere italiano più forte di ogni tempo, ma Nereo Rocco, suo storico allenatore al Milan, andava oltre: «Albertosi è il miglior portiere del mondo...», aggiungendo beffardo, «... me lo tengo stretto anche se ha tutto quello che non posso sopportare in un calciatore professionista: beve, fuma, fa tardi la sera, è pieno di donne e scommette ai cavalli». Un cocktail shakerato a base di erbe dolci e amare che hanno ispirato le pagine inebrianti di Ricky Albertosi, romanzo popolare di un portiere, (Urbone Publishing), libro curato da Massimiliano Castellani del Collettivo Soriano tra le cui fila milita pure Lamberto Boranga, altro highlander della porta che ha avuto la ventura di incrociare i suoi guanti con quelli di Ricky (che però spesso preferiva giocare a mani nude). Dieci dita libere da coperture che sono la metafora di un uomo mai ingabbiato dell'ipocrisia. Perfino quando, «ingabbiato», lo è stato davvero, finendo nel 1980 a Regina Coeli dopo essere precipitato nel pozzo nero del calcioscommesse. «Maledetto quel Lazio-Milan - racconta Albertosi al Giornale - Mi misero in mezzo per una telefonata ricevuta da quelli della Lazio di cui mi feci portavoce, ingenuamente, col mio presidente. L'ipotetico accordo prevedeva - in cambio di 80 milioni, poi scesi a 20 - la vittoria del Milan all'Olimpico. Tutti sapevano. Ma io ero il perfetto capro espiatorio. Il mondo mi crollò addosso. E saltò pure il contratto con i Cosmos dove avrei dovuto chiudere la carriera insieme ad altri campioni ingaggiati per esportare il soccer negli Usa». Un duro, il Ricky. Carismatico. Mai ruffiano. Pane al pane, vino al vino. E whisky al whisky. «Estremo difensore», anche di se stesso: «Se in partita commettevo un errore, non lo ammettevo subito, preferivo dare la colpa al difensore...»; o al «pallone troppo leggero», come in quel maledetto Milan-Porto del '79 che eliminò dalla Coppa dei Campioni i rossoneri messi in ginocchio da una punizione (ora, dopo 40 anni, può ammetterlo perfino Ricky: «Tutt'altro che imparabile») calciato dal piede velenoso di quel serpente di Duda. Oggi Albertosi vive serenamente a Forte dei Marmi circondato da figli, nipoti e dalla Betty, la seconda moglie con la quale per anni ha gestito a Milano il ristorante Tatum: «Ma i migliori bucatini alla amatriciana della mia vita li ho mangiati in carcere, cucinati da un compagno di cella». Ricky il calcio continua a seguirlo, ma in maniera ironica, disincantata: come al tavolo del bar «Gattullo» a Milano insieme con Pizzul, Viola e Jannacci che canta Vincenzina scolando bottiglie e bruciando stecche di Marlboro: «I portieri oggi hanno numeri assurdi dietro le maglie, guadagnano milioni ma commettono gravi errori di impostazione enormi (a Donnarumma fischieranno le orecchie, ndr). Anche la storia dello stress causato dalle troppe partite, è una roba che mi fa ridere...». Ci fu un tempo in cui Albertosi, tra i pali, oltre a dettare la legge del più forte, dettava anche legge in fatto di moda: la sua maglia blu o rossa ai tempi del mitico Cagliari scudettato del '70 fece epoca. Rompendo il grigiore cromatico dei portieri in nero. La Sardegna, un'isola circondata da un mare di ricordi. Che Ricky solca a larghe bracciate: «Il Cagliari, guidato da quel filosofo che era Manlio Scopigno. Eravamo in ritiro. Ogni notte giocavamo a poker. Nella stanza la visibilità era azzerata dalle sigarette. Il mister bussò alla porta, si affacciò sull'uscio e, tra la nebbia impenetrabile delle Marlboro, chiese educatamente: Scusate, disturbo se fumo?. Grandioso». Il 1970, anno memorabile per Ricky, la data leggendaria della «partita del secolo» in Messico: «Posso dire di fare parte di quel 4 a 3 contro la Germania entrato ormai nella leggenda dell'Italia». Era il suo terzo Mondiale. Con Pelè che alla fine della sfortunata finale col Brasile gli disse scherzando: «Ricky, è inutile che ti impegni, ti farei gol anche in amichevole...». Poi per Albertosi ci fu anche il quarto mondiale del '74 in Germania. E ce ne sarebbe stato, nel '78, perfino un quinto se il destino fosse stato meno cinico (o almeno un po' meno baro): «Bearzot mi aveva assicurato che avrei fatto parte della spedizione in Argentina, ma alla vigilia della partenza il mister mi chiamò dicendomi che Zoff con me in panchina non si sentiva tranquillo. E quindi era meglio se fossi rimasto a casa». Un tradimento che incrinò l'amicizia con Dino. Grande delusione, compensata nel '79 dallo scudetto della Stella conquistato con una sgargiante maglia gialla. Una rivalità, quella tra il metallico Zoff e il plastico Albertosi - che ha segnato pagine avvincenti nell'epopea di un ruolo riservato solo a quegli uomini speciali che sono i portieri. Dino e Ricky restano convinti di essere l'uno più forte dell'altro. In realtà è un match pari, come quello sul campo artistico tra Michelangelo Buonarroti e Michelangelo Merisi, ma loro - pur sapendolo - non lo ammetteranno mai. Da una parte Dino il freddo, tanto da risultare quasi glaciale; dall'altra Ricky il caldo, ai limiti della scottatura. Zoff il regolare, Albertosi l'irregolare che accetta perfino di chiudere la carriera nell'Elpidiense, in serie C. Con la gioia però di mietere ammirazione perfino sui campi dove la puzza della polvere annichilisce il profumo dell'erba. Ma per uno come Ricky anche quei terreni spelacchiati sapevano di poesia. Fino all'ultima partita: «L'amico Beppe Viola, da lassù, sono sicuro che ha condiviso la mia scelta». Perché i «romanzi popolari» più belli si consumano sempre davanti a una porta. Sormontata da una traversa.
«Il no di Riva alla Juve fregò soprattutto me». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessandro Bocci. Il portiere più grande? «Direi Buffon, ma se fossi andato a Torino forse sarei stato io il migliore di tutti i tempi». Enrico Albertosi, detto Ricky, sabato compie 80 anni e quando ti racconta la sua vita, ricca, piena, meglio di un romanzo d’avventura, non smetteresti più di ascoltarlo. Ha regalato alla Fiorentina la Coppa delle Coppe, al Cagliari il suo unico scudetto, al Milan quello della stella e in Nazionale ha preso le uova in faccia dopo la Corea, è stato il portiere dell’iconica Italia-Germania 4-3 durante il Mondiale in Messico nel '70 e campione d’Europa nel '68: «Quella volta sono rimasto in panchina dietro Zoff solo perché mi ero rotto un dito», tiene a precisare con la voce squillante dal buen ritiro di Forte dei Marmi, dove si gode la pensione e la famiglia e ripensa a quello che è stato. Una vita controvento. Sempre fuori dai pali e a volte qualche uscita l’ha sbagliata: «Ma rifarei tutto», dicono con puntiglio il portiere e l’uomo che non si sono negati niente: donne, cavalli, partite (532 in serie A), rivalità accese. Estroverso e spregiudicato, ha vissuto a mille all’ora. Solo un infarto, parecchi anni fa, ha rischiato di metterlo fuorigioco. Da quel giorno ha cambiato stile: meno stress e meno eccessi. «E mica è stato facile».L’esordio in serie A alla Fiorentina, la squadra del suo cuore, dove è rimasto dieci anni.
«E i primi cinque li ho trascorsi alle spalle di Sarti. All’epoca andava così: se eri giovane, dovevi fare la gavetta. Stavo in panchina e da panchinaro sono andato al Mondiale del ’62 con la Nazionale. Oggi sarebbe impensabile. I ragazzi hanno fretta e forse hanno ragione di averla. E poi è cambiata la mentalità, sia delle società che degli allenatori. Donnarumma, quando è entrato nel Milan, non è più uscito. Io ho esordito contro la Roma, ma quando Sarti si è ripreso dall’infortunio mi sono rimesso a sedere».
Quando se ne va, la Fiorentina vince lo scudetto…
«Una beffa. Però mi sono rifatto a Cagliari. Ho lasciato i viola perché avevo qualche problema personale e non andavo d’accordo con Bassi, l’allenatore. Mi aveva chiamato Italo Allodi per portarmi all’Inter ma a giugno, con mia grande sorpresa, mi sono trovato ceduto al Cagliari».
Non deve averla presa benissimo.
«Non ci volevo andare. All’epoca la Sardegna era una terra di banditi, mi faceva persino paura. E invece mi sono innamorato di quell’isola e di quella gente meravigliosa».
E ha vinto lo scudetto.
«Eravamo un gruppo formidabile. Ancora oggi ci vediamo con quei ragazzi: Tomasini, Greatti, Brugnera».
Il simbolo era Gigi Riva.
«Gigi sembrava scontroso, in realtà era solo timido. Nell’estate del '74 mi ha combinato un brutto scherzo: insieme a lui dovevo andare alla Juventus e il suo rifiuto ha fatto saltare anche il mio trasferimento».
Ma non le è andata male...
«Perché sono finito al Milan dove ho vinto lo scudetto della stella con Liedholm, un grande allenatore. Lui Scopigno e Valcareggi sono quelli a cui mi sento più legato, uomini che hanno capito il mio carattere. Però mi lasci dire una cosa...».
Prego…
«Se fossi andato alla Juventus avrei vinto molto di più e la mia carriera sarebbe stata diversa. E invece a Torino c’è andato Zoff…».
Con il quale ha litigato…
«Dino mi soffriva. Nel '78, ero alla fine della carriera, mi chiama Bearzot e mi chiede: Ricky vuoi fare il terzo portiere in Argentina? Io rispondo sicuro: pur di venire porto anche le valigie. Sarebbe stato il mio quinto Mondiale come nessun altro calciatore italiano a quei tempi. Dopo dieci giorni mi richiama il c.t. e mi dice che Zoff soffre la mia presenza e che è costretto a lasciarmi a casa».
Come ci è rimasto?
«Malissimo. E ho criticato pesantemente Dino per i due gol presi fuori dall’area con l’Olanda, uno quasi da centrocampo (ride…). Solo tanti anni dopo, incontrandoci in un albergo, abbiamo fatto pace».
Ma chi è stato il portiere più forte di tutti i tempi: Zoff o Buffon, o magari proprio lei Albertosi.
«Gigi è un grande, forse il migliore. Ma se fossi andato a Torino magari lo sarei diventato io…».
Ha sentito più la rivalità con Sarti o quella con Zoff?
«Sono state diverse. A Sarti portavo le valigie. Con Zoff me la sono giocata. Eravamo diversi: lui taciturno, io estroverso. Lui maniacale negli allenamenti, io pronto la domenica».
Anche in Nazionale ha pagine molto belle e al tempo stesso molto brutte da raccontare.
«L’azzurro, per quelli della mia generazione, era un traguardo perché solo i migliori ci arrivavano. Ne ho viste tante in quindici anni. Non posso dimenticare il lancio di uova quando siamo tornati dall’Inghilterra dopo la sconfitta con la Corea e neppure Italia-Germania 4-3, la partita di una generazione, la migliore del secolo».
Prima di finire la carriera poteva andare ai Cosmos con Chinaglia e Pelè.
«Ma sono stato squalificato per il calcioscommesse e tutto è svanito. Cosa è successo? Sono stato un ingenuo. Quando sono stato contattato dai laziali ho riferito cosa era successo a Felice Colombo, il presidente del Milan, anziché denunciare tutto alla Federazione. E ho pagato».
Così ha finito a Porto Sant’Elpidio.
«Sentivo di poter dare ancora qualcosa. Non era il momento di smettere. Il secondo anno ero portiere e allenatore allo stesso tempo ma durante una partitella di allenamento in famiglia in cui giocavo da attaccante mi sono rotto il crociato. In quel momento è finita».
Ora si gode la famiglia.
«Sono felice con Elisabetta, la mia seconda moglie da oltre quarant’anni. Festeggerò 80 anni con lei e i miei figli. Sereno. Non ho rimpianti. E ho la coscienza a posto. Forse sono stato un po’ matto, come tutti i portieri, però me la sono goduta».
E il calcio di oggi?
«È diverso, lo guardo con una certa distrazione. Guardo soprattutto i portieri. Penso che ai miei tempi c’era più concorrenza: Anzolin, Ghezzi, Lido Vieri, Castellini e sicuramente dimentico qualcuno. Adesso quelli bravi italiani sono pochi».
Mancini punta su Donnarumma anche se Sirigu lo incalza. Lei chi farebbe giocare?
«Intanto proverei Meret: è giovane, è bravo e ha un gran futuro».
· Buffon: "Qui per aiutare dalla panca".
Buffon: "Qui per aiutare dalla panca". L'ex Psg ha scelto il numero 77: «Però il capitano rimane Chiellini...». Marcello Di Dio, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale. Quel cordone ombelicale con la Juventus non si è mai spezzato. E ora che - dopo l'anno di Parigi - si è di nuovo rinsaldato, a 41 anni Gigi Buffon resta l'ultima vera bandiera del nostro calcio. Totti e De Rossi hanno lasciato la Roma («c'ero alla partita d'addio di Daniele, saranno sempre loro i simboli giallorossi»), lui torna in bianconero. «Ma non l'avevo mai presa come possibilità anche se è il finale più bello ed emozionante della mia carriera. E più forte ancora è viverla per la prima volta da riserva, solo con la Juve avrei potuto prendere una decisione simile», così l'ormai ex numero uno bianconero. Che lascerà quella maglia «a Tek (Szczesny, ndr)», prendendo la 77 «perché è la mia storia, la usavo a Parma quando facendo una stagione strepitosa approdai poi alla Juve». Ma lascerà anche la fascia di capitano a «Giorgione (Chiellini, ndr), un fratello che è giusto che continui a indossarla, perché io sono di nuovo qui non per togliere qualcosa ma per dare il mio contributo». Visite mediche, firma di un anno e poi un video di saluto ai tifosi sul sito ufficiale bianconero. «La vita regala sembra qualcosa di incredibile e vale la pena di sognare», il messaggio principale di Buffon. Che qualche ora dopo regalerà selfie e autografi durante l'inaugurazione del nuovo Juventus Flagship Store, aperto nel centro di Milano a due passi da San Babila e che già espone la nuova collezione. «Sto coronando un sogno, anche grazie all'esperienza con il Psg - così il portiere - In questa stagione, la 25ª quindi quella delle nozze di argento, posso vincere il mio decimo scudetto e la mia settima Supercoppa con la Juve e raggiungere il record di presenze in A (ne bastano otto in stagione, ndr), poi altri traguardi potrebbero arrivare». Inevitabile pensare alla Champions League, che rimane un obiettivo ma non dev'essere un'ossessione: «Non puoi iniziare una stagione pensando solo di vincere quella Coppa. Ci sono dieci mesi importanti per arrivare alla finale e può succedere ogni cosa. Ci sono almeno sei-sette squadre che tutti gli anni puntano a vincerla». Seduto a fianco a lui in panchina non ritroverà Allegri, ma Maurizio Sarri. «Ci siamo visti, mi ha fatto un'ottima impressione, e anche durante la conferenza stampa ha dimostrato di essere una persona intelligente». In allenamento alla Continassa dovrà contrastare i tiri di Cristiano Ronaldo, finalmente non più avversario: «Mi ha fatto soffrire tanto nella vita, speriamo di poter gioire insieme. Negli ultimi anni, agli sgoccioli della mia carriera, ho avuto la possibilità di giocare con campioni come Neymar e Mbappè al Psg e ora grazie alla Juve giocherò con Ronaldo. È un regalo importante». Poco distante da Buffon, il responsabile dell'area tecnica Paratici non dà conferme su De Ligt, il giovane difensore dell'Ajax seguito da tempo. «Nella mia carriera non ho visto uno così forte, a 20 anni gioca già a grandissimi livelli», gli elogi di Buffon. Sa che avere tanti campioni in rosa aiuta a vincere. E lui vuole farlo ancora. Anche da riserva.
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 5 luglio 2019. Forse è una storia romantica, forse è solo una storia triste. Forse è umana, o magari incomprensibile. Non riuscire a dire addio a sé stessi, alla parte più intensa di ciò che si è stati, al nostro nocciolo più duro e profondo. O magari è ebbrezza, o soltanto una piccola debolezza, una vanità. Buffon che torna alla Juve e non è più titolare, non è più capitano, non ha più il numero 1, e lo presentano mentre inaugurano un negozio, mica in conferenza stampa allo stadio. Cosa sei diventato, grandioso Gigi? Un modello? Un testimonial? Il tempo è una bestia brutta e inevitabile, disegna rughe nell' anima, mica in faccia. Sbianca i destini, non i capelli. Qui abbiamo una leggenda dello sport, forse il più grande portiere di tutti i tempi. Svernerà in panchina. Cosa mai potrà più essere alla sua altezza? Un rigore parato nella finale di Champions? La solita prodezza per il solito scudetto? Eppure Gigi era felice come un bambino, ieri. Dice che è di nuovo qui per dare, non per prendere. Uno dei giorni più belli della sua vita, e ci crede. Ma quel giro di campo unico, un anno fa, doveva forse restare l' ultimo, Quella commozione vera. Le lacrime non si replicano, scendono una volta e basta. Ma il demone ti chiama indietro, hai paura che tutto finisca. Tornare, non partire, è un po' morire.
Fr. Va. per “la Repubblica” il 5 luglio 2019. Chiellini - che Gigi Buffon chiama ora «Giorgione», ora «Chiello» - gli ha offerto la fascia da capitano. «L' ho rifiutata - dice - ora lui è un capitano riconosciuto. Per me è come un fratello, sarà il mio capitano», dice il nuovo secondo portiere della Juventus, a Milano per l' inaugurazione del negozio ufficiale della società bianconera, a due passi dal Duomo. Al 41enne campione del mondo, il titolare Wojciech Szczsny ha invece proposto la maglia numero 1. Altro rifiuto: «Giocherò con la 77, come ai tempi del Parma - dice Buffon - La 1 non è più mia, è di Szczsny e se la merita. La Juventus è casa mia, sono tornato per dare tutto, non per togliere qualcosa a qualcuno». Sorride, Gigi da Carrara. Non si cruccia all' idea di una stagione di molta panchina e poco campo. «Quando ho deciso di tornare ho fatto una scelta di cuore, non guardo al minutaggio - dice - anche fare la riserva è un' esperienza nuova, una sfida». Il ritorno a casa del portiere italiano più forte di sempre non ha niente della sconfitta. L' esperienza al Paris Saint Germain - un anno appena, abbastanza per ambientarsi e salutare - la riassume così: «Per me è stata un' occasione bellissima. Fra l' altro, ho potuto giocare con Mbappé e Neymar. Ora alla Juve sarò compagno di Cristiano Ronaldo. Tre grandissimi campioni, che incontro sul finire della mia carriera». Con Maurizio Sarri si è già incontrato. Ne è rimasto affascinato, come quasi tutti quelli che hanno occasione di parlarci: «È una persona molto intelligente, in conferenza stampa mi ha fatto una bellissima impressione». Quando gli si chiede quali siano i suoi obiettivi per l' ultima stagione in bianconero da giocatore - «Non ho mai pensato a cosa farò dopo il calcio», assicura - Buffon cita per primo il trofeo più familiare agli juventini: «Sarebbe bellissimo vincere il decimo scudetto in bianconero». E ancora: «Voglio la settima supercoppa e sarebbe importante raggiungere il record di presenze in Serie A». Glissa invece su ogni domanda che riguardi la Champions, che Allegri dopo l' eliminazione contro l' Ajax definì "bella e bastarda". Nemmeno la cita, la coppa maledetta: «Non possiamo basare un' intera stagione su un solo obiettivo. Rimane un obiettivo, certo. Ma ci sono sei o sette squadre allo stesso livello della Juventus». Buffon, tornato a Vinovo come il figliol prodigo, un pensiero lo dedica anche a De Rossi, a Totti e ai loro addii ravvicinati alla società di Pallotta: «Dispiace. Quando pensi a Roma e alla Roma la vedi rappresentata nei suoi simboli. ma io credo che il cordone ombelicale non si spezzerà mai. Come è stato anche per me con la Juventus».
Da calciomercato.com il 15 ottobre 2019. Una lunga lettera, scritta in prima persona, al giovane se stesso. Gianluigi Buffon, portiere della Juve, si racconta, e lo fa su The Players Tribune, noto portale che raccoglie scritti di tutti gli sportivi in giro per il mondo. BIRRA E PIPÌ - "Tra qualche giorno avrai la possibilità di esordire in Serie A con il Parma e non ne capisci abbastanza per avere paura. Dovresti essere a letto, a bere latte caldo. Ma che fai? Vai in un locale a bere una birra con il tuo amico della Primavera. Bevi una sola birra, vero? Ma poi esageri un po’. Pensi di essere il personaggio di un film. L’uomo forte. È così che abitualmente gestisci la pressione che non sai neanche di provare. Tra poco sarai fuori dalla discoteca a discutere con i poliziotti all'1 di notte".
LA SOLITUDINE DI SUPERMAN - "Da un lato, è vero che un portiere ha bisogno di fiducia, dev'essere senza paura. Se chiedessi a un allenatore di scegliere tra il portiere più tecnico al mondo e quello più coraggioso, ti giuro che sceglierebbe il bastardo senza paura ogni volta. Dall'altro lato, una persona senza paura può dimenticare facilmente di avere una mente. Se vivi in modo nichilista, pensando solo al calcio, la tua anima inizierà a cambiare. Alla fine sarai così depresso che non avrai più voglia di alzarti dal letto. Ridi pure ma succederà a te. Succederà al punto più alto della carriera quando avrai tutto ciò che potrebbe volere un uomo dalla vita. Avrai 26 anni. Sarai il portiere della Juventus e la Nazionale. Avrai soldi e rispetto. La gente ti chiamerà addirittura Superman.
"EROE - "È per questo che sei diventato un calciatore. Non per i soldi o la fama. Per l’arte e lo stile di quest’uomo Thomas N’Kono (portiere del Camerun a Italia '90, ndr). Grazie alla sua anima. Dovrai ricordarti questo: i soldi e la fama non sono l’obiettivo. Se non curi l’anima, se non cerchi ispirazione fuori dal calcio, subirai un calo. Se potessi darti un consiglio, ti direi di essere più curioso del mondo attorno a te quando sei ancora giovane. Risparmierai tanto dolore a te e alla tua famiglia".
BOIA CHI MOLLA - "Perché quando sei un giovane giocatore del Parma farai qualcosa d’ignorante che ti segnerà. Prima di una partita importante, vorrai fare un grande gesto per dimostrare ai compagni e ai tifosi che sei un leader, che hai coraggio, che hai grande personalità. Quindi scriverai un messaggio sulla maglia che vedesti una volta scritto sul banco di scuola. “Scriverai ‘Boia chi molla’”. Pensi che sia solo un modo per suonare la carica. Non sai che è uno slogan fascista. Questo è uno degli errori che provocheranno tanto dolore alla tua famiglia. Ma gli sbagli sono importanti perché ti ricordano che sei umano. Ti ricorderanno in continuazione che non sai un cazzo, amico mio. Questo è importante perché il mondo del calcio cercherà di convincerti che sei speciale. Ma devi ricordarti che non sei diverso dal barista o dall'elettricista di cui sei amico da una vita". A margine della cerimonia che ha portato Gigi Buffon a diventare Ambasciatore Onu il portiere bianconero ha parlato a ruota libera: di sé e delle ambizioni della Juve.
NAZIONALE - “Mi fa piacere la delicatezza e l'idea di Mancini e della Federazione, non è assolutamente dovuta. Ai tempi passati mi ero inquietato per un'altra cosa, un discorso d'orgoglio che ho molto chiaro nella mia testa e di cui magari parlerò a tempo debito”.
INTER - “Senza il minimo dubbio è la rivale numero uno per lo scudetto. Lo dico perché conosco Antonio Conte, il suo modo di insegnare calcio e di trasmettere convinzione. Pesa per noi l'aver disputato questa prestazione. Chiaro che se perdevi noi staremmo parlando di tutt'altro, una cosa che devo ancora capire ma che è la verità. È stato bello vedere giocare la Juve, bello vedere la personalità con la quale ha interpretato la gara, è stato belle vedere come il gioco si snodava e fluiva. Sinceramente ci sono stati dei momenti in cui la Juve mi ha entusiasmato, come a Madrid. Per me che sono juventino da 18 anni è bello vedere i ragazzi che giocano con questa intensità, questa tecnica, questo piacere. È bello".
CICLO - “Penso che ci sia ancora bisogno di due o tre mesetti per arrivare al massimo della nostra espressione, però stiamo partendo bene”.
SARRI - “Non mi ha stupito, c'è una persona in comune che conosciamo che me lo aveva spiegato bene. Era l'allenatore dei portieri del Napoli, Sandro Nista. E devo dire che ci ha beccato perfettamente, partiva dal presupposto che Sarri fosse una persona estremamente intelligente. Ci ha preso in pieno, perché nel comportamento quotidiano nel modo di gestire la squadra e cambiare tatticamente a seconda dei giocatori o dell'esigenza, si sta dimostrando un allenatore di primissmo livello. E con grandi idee”.
CHAMPIONS - “Io penso che negli ultimi due anni, ci sia la possibilità per delle vecchie outsider di poter fare il colpo gobbo. Ne ero convinto a Parigi, ero convinto saremmo potuti arrivare fino in fondo, c'erano segnali in partite che vincevamo con una convinzione devastante. Poi è accaduto quello che è accaduto in quella serata nefasta e abbiamo dovuto tirare i remi in barca. Però non vedo più quella squadra che dicevi: 'Contro questa ti fai male'. Vedi tante squadre con cui te la vai a giocare”.
IL RITORNO - “Nella mia scelta ha pesato per il 51% la volontà di non penalizzare la vita dei miei figli. Poi il desiderio di poter vincere la Champions, ma vincerla con certi ragazzi con cui ho passato la vita, certi tifosi, certi dirigenti, certa gente che poi è quella che mi ha accompagnato per tutta la carriera. Sarebbe impagabile se capitasse, mi sentirei nel posto giusto al momento giusto e potrei esprimere tutto me stesso per felicità e gratitudine.
theplayerstribune.com il 15 ottobre 2019. Caro Gianluigi diciassettenne, Ti scrivo questa lettera stasera da uomo di 41 anni che ha vissuto tantissime cose nella vita e che ha fatto alcuni errori. Ho delle buone e cattive notizie per te. La verità è che sono qui per parlarti della tua anima. Sì, la tua anima. Ne hai una, che tu ci creda o no. Iniziamo con le cattive notizie. Hai 17 anni. Stai per diventare un vero calciatore come nei tuoi sogni. Credi di sapere tutto. Ma la verità, amico mio, e che non sai un cazzo. Tra qualche giorno avrai la possibilità di esordire in Serie A con il Parma e non ne capisci abbastanza per avere paura. Dovresti essere a letto, a bere latte caldo. Ma che fai? Vai in un locale a bere una birra con il tuo amico della Primavera. Bevi una sola birra, vero? Ma poi esageri un po’. Pensi di essere il personaggio di un film. L’uomo forte. È così che abitualmente gestisci la pressione che non sai neanche di provare. Tra poco sarai fuori dalla discoteca a discutere con i poliziotti all’una di notte. Vai a casa, dai. Vai a dormire. E ti prego, non fare pipì sulla ruota della macchina della polizia. I poliziotti non lo troveranno divertente, la società non lo troverà divertente e rischierai di compromettere tutto ciò per cui hai lavorato. È questo il tipo situazione in cui ti caccerai senza motivo. C’è un fuoco dentro di te che ti porterà a fare tanti errori. Certo, pensi di dimostrare ai tuoi compagni che sei forte e libero ma in realtà è una maschera protettiva che porti. Tra qualche giorno ti regaleranno tre cose che sono molto allettanti ma anche molto pericolose. Soldi, fama, e il lavoro dei tuoi sogni. Certo, ora pensi, che cosa c’è di pericoloso in tutto ciò? Be’, è un paradosso. Da un lato, è vero che un portiere ha bisogno di fiducia, dev’essere senza paura. Se chiedessi a un allenatore di scegliere tra il portiere più tecnico al mondo e quello più coraggioso, ti giuro che sceglierebbe il bastardo senza paura ogni volta. Dall’altro lato, una persona senza paura può dimenticare facilmente di avere una mente. Se vivi in modo nichilista, pensando solo al calcio, la tua anima inizierà a cambiare. Alla fine sarai così depresso che non avrai più voglia di alzarti dal letto. Ridi pure ma succederà a te. Succederà al punto più alto della carriera quando avrai tutto ciò che potrebbe volere un uomo dalla vita. Avrai 26 anni. Sarai il portiere della Juventus e la Nazionale. Avrai soldi e rispetto. La gente ti chiamerà addirittura Superman. Ma non sei un supereroe. Sei un uomo come gli altri. E la verità è che la pressione di questo mestiere ti può far diventare un robot. La tua routine diventa una prigione. Vai all’allenamento. Torni a casa e guardi la Tv. Vai a dormire. Fai lo stesso il giorno dopo. Vinci. Perdi. Si ripete e si ripete. Una mattina ti alzerai dal letto e le tue gambe inizieranno a tremare fortissimo. Sarai così debole che non riuscirai a guidare la macchina. All’inizio penserai che si tratti semplicemente di stanchezza o di un virus. Ma poi la cosa peggiorerà. Avrai solo voglia di dormire. All’allenamento ogni parata sembrerà un’impresa. Per sette mesi non riuscirai a goderti la vita. Ora dobbiamo fare una pausa. Perché so quello che pensi leggendo questo a 17 anni. Ti stai dicendo, “Com’è possibile? Sono una persona felice. Sono un leader innato. Se sarò il portiere della Juventus e guadagnerò milioni, dovrò essere felice per forza. È impossibile essere depresso.” Allora, ti devo fare una domanda importante. Perché hai deciso di dedicare la tua vita al calcio, Gigi? Ti ricordi? E per favore, non dire solo grazie a Thomas N’Kono. Devi andare più a fondo. Devi ricordare ogni singolo dettaglio. Sì, avevi 12 anni. Sì, il mondiale si svolgeva in Italia. Sì, la prima partita era Argentina-Camerun a San Siro. Ma che facevi durante la prima partita? Chiudi gli occhi. Eri nel salotto da solo. Perché non c’erano i tuoi amici come al solito? Non ti ricordi. Tua nonna era in cucina a preparare il pranzo. E faceva così caldo che aveva chiuso tutte le finestre per rinfrescare la stanza. Era completamente buio tranne la luce gialla della televisione. Che cosa vedi? Vedi un nome strano. Non sai dov’è il Camerun. Non sapevi neanche che esistesse prima di questo momento. Certo, conosci l’Argentina e Maradona ma c’è qualcosa di magico nei giocatori camerunesi. Fa caldissimo sotto il sole d’estate, ma il loro portiere indossa comunque una divisa completa. Pantaloni lunghi neri. Una maglia lunga con il colletto rosa. Il suo modo di muoversi, come sta diritto, i suoi baffi fantastici. Ti conquista in modo inspiegabile. È l’uomo più figo che tu abbia mai visto. Il telecronista dice che si chiama Thomas N’Kono. E poi, la magia. C’è un calcio d’angolo per l’Argentina e Thomas esce dal mucchio e allontana la palla a 30 metri con i pugni. È questo il momento in cui capisci che cosa vuoi fare nella vita. Non vuoi solo fare il portiere. Vuoi fare questo tipo di portiere. Vuoi essere selvaggio, coraggioso, libero. Col passare dei minuti, mentre guardi la partita, diventi chi sei. La tua vita si scrive. Segna il Camerun e speri così tanto che resti in vantaggio che non ce la fai più. Salti giù dal divano. Passi tutto il secondo tempo a girare intorno al televisore. Quando viene espulso un giocatore del Camerun, non ne puoi più di ascoltare. Per gli ultimi cinque minuti ti nascondi dietro la televisione con il volume spento. Sbirci ogni tanto per vedere cosa sta succedendo e poi torni. Alla fine, dai un’occhiata allo schermo e i giocatori del Camerun stanno festeggiando. Corri per strada. Altri due ragazzini del quartiere fanno la stessa cosa. Tutti urlano, “Hai visto il Camerun? Hai visto il Camerun?” Quel giorno è nato un fuoco dentro di te. Il Camerun è un posto che esiste. Thomas N’Kono è un uomo che esiste. Farai vedere al mondo che Buffon esiste. È per questo che sei diventato un calciatore. Non per i soldi o la fama. Per l’arte e lo stile di quest’uomo Thomas N’Kono. Grazie alla sua anima. Dovrai ricordarti questo: i soldi e la fama non sono l’obiettivo. Se non curi l’anima, se non cerchi ispirazione fuori dal calcio, subirai un calo. Se potessi darti un consiglio, ti direi di essere più curioso del mondo attorno a te quando sei ancora giovane. Risparmierai tanto dolore a te e alla tua famiglia. Sì, essere portiere vuol dire essere coraggioso. Ma essere coraggioso non vuol dire essere stupido, Gigi. Al punto più acuto della tua depressione, succederà qualcosa di strano e bello. Una mattina deciderai di spezzare la routine e andrai in un bar di Torino diverso dal solito per fare colazione. Quindi farai un’altra strada per la città e passerai davanti a un museo d’arte. Ci sarà scritto CHAGALL sul manifesto fuori. Hai già sentito questo nome. Ma non sai niente di arte. Hai da fare. Te ne devi andare. Sei Buffon. Ma chi è Buffon? Chi sei veramente? Lo sai? È questa la parte più importante della lettera. Devi entrare in quel museo proprio quel giorno. Sarà la decisione più importante della tua vita. Se non entrerai in quel museo e continuerai a vivere da calciatore, da Superman, continuerai a chiudere tutti i tuoi sentimenti in cantina e la tua anima sparirà. Ma se entrerai vedrai centinaia di quadri di Chagall. La maggior parte non ti ispireranno niente. Alcuni belli, altri interessanti e altri ancora che non ti diranno proprio niente. Ma poi vedrai un quadro in particolare che ti colpirà come un fulmine. Si chiama La Passeggiata. E un’immagine quasi infantile. Un uomo e una donna fanno un picnic al parco, ma è tutto magico. La donna vola via verso il cielo come un angelo ma l’uomo rimane in piedi a terra tenendola per la mano, sorridendo. È come il sogno di un bambino. Quest’immagine ti trasmetterà qualcosa di un altro mondo. Ti farà sentire come un bambino. La sensazione della felicità nelle cose semplici. La sensazione di Thomas N’Kono quando respingeva la palla a 30 metri con i pugni. La sensazione di tua nonna che ti chiama dalla cucina. La sensazione di sederti dietro il televisore a pregare. Invecchiando si rischia di dimenticare queste sensazioni. Devi tornare al museo il giorno dopo. È fondamentale. La donna della biglietteria ti guarderà storto. Ti dirà: “Ma sei venuto già ieri?” Non importa. Entra un’altra volta. Quest’arte è la cura migliore. Quando aprirai la tua mente ti libererai di una pesantezza interiore, come la donna che viene alzata al cielo nel quadro di Chagall. Mi ha colpito l’ironia di questo momento. A volte penso che la vita sia scritta per noi. Ti succedono così tante cose belle senza un motivo che sembrano essere legate tra loro. E questa è un esempio. Perché quando sei un giovane giocatore del Parma farai qualcosa d’ignorante che ti segnerà. Prima di una partita importante, vorrai fare un grande gesto per dimostrare ai compagni e ai tifosi che sei un leader, che hai coraggio, che hai grande personalità. Quindi scriverai un messaggio sulla maglia che vedesti una volta scritto sul banco di scuola. “Scriverai Boia chi molla”. Pensi che sia solo un modo per suonare la carica. Non sai che è uno slogan fascista. Questo è uno degli errori che provocheranno tanto dolore alla tua famiglia. Ma gli sbagli sono importanti perché ti ricordano che sei umano. Ti ricorderanno in continuazione che non sai un cazzo, amico mio. Questo è importante perché il mondo del calcio cercherà di convincerti che sei speciale. Ma devi ricordarti che non sei diverso dal barista o dall’elettricista di cui sei amico da una vita. Questo pensiero ti tirerà fuori dalla depressione. Non il fatto di ricordarti che sei speciale, ma ricordando che sei uguale a tutti gli altri. Non puoi capirlo adesso a 17 anni ma ti prometto che il vero coraggio è mostrare le tue debolezze e non vergognarsene. Queste si accompagnano alle certezze che ognuno deve avere nella vita. Meriti il dono della vita, Gigi. Come tutti. Ricordati questo. Sei ancora troppo giovane e ingenuo per capire il modo in cui sono collegate le cose. Il mio unico rammarico è che non hai aperto la mente al mondo prima. Forse sei fatto così. A 41 anni senti ancora il fuoco dentro. Non sarai ancora pienamente soddisfatto, mi spiace dirlo. Neanche tenere la coppa del mondo in mano placherà questa sensazione. Non sarai contento finché non ci sarà una stagione in cui non prenderai nessuna rete. Sì, forse è vero che sei sempre stato così. Ti ricordi del primo inverno da tuo zio in montagna vicino Udine? O è un ricordo che può appartenere solo a un uomo più vecchio? Avevi quattro anni. Aveva nevicato durante la notte. Non avevi mai visto la neve prima. Ti sei svegliato, hai guardato fuori dalla finestra e hai visto un sogno. Tutto il paese era diventato bianco. Sei corso fuori in pigiama senza neanche sapere che cosa fosse la neve. Ma non hai esitato. Hai guardato la neve e cosa hai fatto? Hai riflettuto? Ti sei fatto qualche domanda? Sei tornato dentro a prendere il cappotto? No, ti ci sei tuffato dentro. Senza paura. Tua nonna gridava: “No, Gianluigi! No! No!”. Eri bagnatissimo, ridevi. Hai avuto la febbre per una settimana intera. Ma non te ne fregava niente. Nessuna esitazione. Diritto nella neve. Sei fatto cosi. Sei Buffon. Farai vedere al mondo che esisti.
Luciano Moggi: "Il mio Gigi strappato al Barça. Era ragazzino e già carismatico". Il portiere raccontato da chi lo portò alla Juve nel 2001 «Da sempre così: quando parla è Vangelo per i compagni». Roberto Perrone, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale.
«Sì, andò così, come ha scritto Gigi nel suo libro. Convocai il suo manager, Silvano Martina che stava trattando con il Barcellona: cosa fai in giro per l'Europa? Vieni domani in sede che parliamo. E Gigi firmò con la Juventus, era l'estate del 2001».
Luciano Moggi, 82 anni il 10 luglio, sa di calcio, come si diceva una volta. Fu lui a portare Gigi Buffon a Torino la prima volta. E ora il Numero 1, come recita la sua autobiografia, riprenderà il suo posto nel lato corto dello spogliatoio bianconero, quello dove ci sono solo due seggiole e due armadietti, il posto dei leader. Secondo una leggenda si chiamerebbe trono e spetterebbe a quello che, se fossimo nella vecchia Armata Rossa, sarebbe il commissario politico, il custode dell'ortodossia. Comunque si chiami, lì sedeva e probabilmente siederà Gigi con Ronaldo accanto.
«Ma Gigi Buffon non è solo questo. A parte il fatto che torna volentieri a casa, aveva anche altre opzioni».
Ci spieghi.
«Torna come secondo ma potrebbe essere il primo: ha la forza mentale oltre che fisica. Però Szczsny è bravo, così Buffon si adeguerà. Alla Juventus ha un futuro in società».
Lo hanno preso per il suo ruolo carismatico.
«Secondo me non solo per quello, comunque il carisma lo esercita di sicuro. Giocatori come lui, con la sua carriera, con il suo passato, sono credibili, quando parlano è vangelo».
La seconda vita in bianconero. Chi era Buffon quando lo prese lei?
«Era un ragazzino con le sembianze di un campione. Questo vuol dire che diventare un campione è un percorso. Tanti sembrano eccezionali e poi si dimostrano normali, tanti hanno la possibilità di trasformarsi e l'afferrano».
Pensa a qualcuno in particolare?
«Ronaldo. Quando lo vidi nello Sporting Lisbona mi incantò. Però poteva diventare solo un buon giocatore senza la sua forza mentale. Con questa è diventato un fuoriclasse».
È un problema comune a tanti giocatori, potremmo fare una lunga lista di nomi.
«Il passaggio del ragazzo all'età adulta, la maturazione è legata alla testa, se hai solo le qualità tecniche non vai lontano».
Buffon appartiene alla prima categoria.
«Prima di ingaggiarlo, parlavo spesso con Silvano Martina e dai suoi racconti avevo ricavato l'impressione, poi confermata dalla frequentazione, che Buffon fosse di una pasta speciale».
All'inizio lei pensava solo al suo ruolo come giocatore.
«Certo, però già all'ora non era semplice un ragazzino con dei sogni ma un professionista che voleva arrivare al massimo. Una condizione mentale. Se ci fate caso, Gigi da giovane non era protagonista del gossip, si dedicava solo all'attività agonistica».
E nello spogliatoio come si comportava?
«Quando arrivò, i primi tempi, era non dico sperduto, questo no, però di fronte aveva veterani alla Juve da tanti anni. Non aveva il carisma che può avere ora, ma dopo alcune settimane cominciò a far sentire la sua voce. Lui già diceva la sua e ogni parola che pronunciava non era scontata. Questa determinazione, questa voglia di importi è qualcosa con cui nasci».
Un anno da capitano non giocatore, diciamo così. Un sostegno in più per il nuovo tecnico Maurizio Sarri.
«Il passaggio tra lo spogliatoio e la scrivania non sarà traumatico, ma naturale. Per quest'anno, oltre che per il suo valore tecnico, sarà importante per la società e la squadra. C'è un allenatore nuovo che ha bisogno di conoscere meglio e più in fretta l'ambiente. In questo ruolo ci sarà anche Barzagli. Lui e Buffon saranno una presenza importante nello spogliatoio».
Quanto sarà difficile per Sarri?
«Allora, quando cambi ambiente, da qualsiasi ambiente tu venga, dalla Premier come Sarri o anche da un'altra squadra italiana, non dico che occorra un apprendistato, ma ci vuole un po' di tempo perché un conto è conoscere visivamente, tecnicamente i calciatori, un conto è capirli dal punto di vista caratteriale. Spesso i due aspetti non vanno di pari passo, ci vuole tempo e se hai qualcuno che ti aiuta, il tempo si dimezza e tutto è più semplice».
Uno dei suoi grandi assiomi, pronunciato quando prendeste Capello nel 2004, fino a un giorno prima acerrimo rivale con la Roma, fu: nel calcio tutti interpretiamo un ruolo, poi questo ruolo si cambia.
«Sì, è vero. Un professionista non ha bandiera, soprattutto se è un tecnico, la bandiera è dove allena e la tutela del proprio club passa dai risultati sul campo e anche dalle dichiarazioni. Certo, c'è chi si comporta in maniera più educata e chi meno, ma rappresentare il club che ti passa lo stipendio è il tuo compito».
Paolo Ziliani per “il Fatto quotidiano”l'8 luglio 2019. Intervistato dal Giornale di venerdì scorso, sul ritorno di Buffon alla Juventus dopo l' addio dell' estate 2018, Luciano Moggi si è inerpicato in un panegirico degno di miglior causa. "Il mio Gigi strappato al Barça: era ragazzino e già carismatico", diceva il titolo. Con l'occhiello a rafforzare il concetto: "Da sempre così: quando parla è Vangelo per i compagni". Poi l'intervista. "Alla Juventus ha un futuro in società, il carisma lo esercita di sicuro. Giocatori come lui, con la sua carriera, con il suo passato, sono credibili. Quando arrivò, i primi tempi era sperduto, ma dopo alcune settimane cominciò a far sentire la sua voce. Lui già diceva la sua e ogni parola che pronunciava non era scontata". Big Luciano, che dopodomani compirà 82 anni, ha forse problemi di memoria. In un'intercettazione del 12 ottobre 2004, Moggi e Giraudo parlavano del portiere come di un insopportabile fanfarone. Anzi, di un "matto".
Moggi: "Aho, allora".
Giraudo : "Volevo chiederti una cosa. Poi parliamo di Galliani, ma Buffon che parla a ruota di".
Moggi : "Gli ho già parlato, gli ho già telefonato".
Giraudo : "Tutti i giorni, ma tutti i giorni!".
Moggi : "No, no, gli ho già telefonato. Gli ho detto, guarda: ti hanno insegnato a farti i cazzi tuoi e a fare il mestiere tuo. Cerca di farlo".
Giraudo : "Questo deve cominciare a parare, che piglia dei gol del cazzo".
Moggi : "No, no, no. Questo non glielo posso di' Ha parlato male anche dei palloni". Giraudo : "Dei palloni! Ma questo è matto. Ohhh!".
Moggi : "Sì, sì, no no, ma gliel'ho gli ho fatto la ramanzina".
Giraudo : "Oh, bravo!".
A Moggi avranno dato alla testa i complimenti ricevuti la settimana scorsa da Marcello Lippi, che lo ha definito il dirigente più competente della storia del calcio. Con qualche ragione, visto che la formazione della nazionale, quando Lippi era c.t., gliela dettava Moggi: lui prendeva nota.
Dalla stessa intercettazione: Giraudo : "Senti, Camoranesi cosa ci ha? Niente?".
Moggi : "No, beh, Camoranesi ha un po' il ginocchio gonfio, gli ho detto a Marcello e gli ho detto anche di coso, gli ho detto anche di Cannavaro, sì esatto! Di non farlo giocare, lo mette in panchina, perché sai, lui è appena rientrato, sennò va a fini' che la Nazionale ce li manda tutti mezzi E poi Zambrotta di fargli fa' un tempo!".
Giraudo : "Oh, ce l' ha".
Moggi : "Eh, non ci ha giocatori. Ehm sì ma lo sai Cannavaro che mi ha fatto? Eh, m'ha fatto telefona' da coso, perché io gli ho telefonato e gli ho detto: guarda non giochi. Poi ti parlerà l'allenatore, ti dice quello che ti deve dire. E lui, vabbè, ma io vorrei gioca', eccetera. No Fabio, non giochi! Stasera mi telefona coso, mi telefona Fedele dice: sai c'è rimasto male Fabio. Allora guarda, visto che c'è rimasto male, digli 'na cosa, qui non siamo all' Inter, no? Il posto in Nazionale non glielo leva nessuno. Gli interessi preminenti sono quelli della Juve e non rompesse i coglioni! È rientrato da poco, ora ci manca che si faccia male con la Nazionale. Ma scherziamo? Se c' è rimasto male, ci rimane bene un' altra volta".
Dal fronte del Pianeta Pallone italico per oggi è tutto. Passo e chiudo.
Gigi Buffon e i cinque immortali: ecco quali sono i 5 giocatori in campo ormai da 21 anni. Alberto Neglia su Libero Quotidiano l'8 Settembre 2019. Il 17 giugno del '98, a Montpellier, l' Italia sconfisse all' esordio dei Mondiali per 3-0 il Camerun di un ragazzino di 17 anni, il più giovane calciatore di Francia '98. Si chiamava Samuel Eto' o e di lì a un decennio sarebbe diventato uno degli attaccanti più forti e completi della sua generazione. Il camerunense smette a 38 anni dopo aver vinto tutto (e segnato ovunque, anche in Inghilterra, Russia, Turchia e Qatar), con in tasca un record difficilmente ripetibile: è stato l' unico calciatore ad aver vinto, peraltro in due stagioni consecutive, il Triplete, con il Barça nel 2009 e con l' Inter di Mourinho nel 2010. A Milano, dopo quello che lui stesso definisce "il miglior affare di sempre" (con Ibrahimovic a Barcellona), si distinse - oltre che per i gol pesanti, come quello al Chelsea a Londra - per la predisposizione al sacrificio, che lo indusse a fare l' ala, e per il carisma magnetico. Per misurare l' influenza di Eto' o nel calcio e dare un peso specifico alla sua longevità, si pensi che era fino a ieri nell' élite degli eterni, uno dei sette calciatori ancora in attività ad aver preso parte al Mondiale francese. Quella rassegna iridata sarebbe diventata la prima di Gigi Buffon (pur senza mai giocare), oggi detentore del record di partecipazioni (5 volte, al pari dei messicani Carbajal e Marquez e del tedesco Matthaus). Il portiere 41enne, oggi rientrato alla Juve dopo un anno al Psg, è il più noto nel gruppo degli highlander che 21 anni fa andarono in Francia.
Ma non è l' unico portiere della lista. Óscar Pérez Rojas, 57 presenze con il Messico tra il '97 e il 2010, nel '98 era una riserva ma negli anni successivi è stato un punto fermo nonché icona per El Tricolor. Oggi, a 46 anni suonati, è ancora in attività in Messico (l' ultima stagione al Pachuca), è soprannominato El Conejo (il coniglio) per via della statura (172 centimetri) e in carriera ha segnato tre gol.
Tra i sei veterani c' è l' attaccante sudcoreano Lee Dong-gook (40 anni), che dal 2009 milita nello Jeonbuk Hyundai, squadra di massima divisione in Corea del Sud. Ha assaggiato l' Europa nella sua lunga carriera: qualche apparizione con il Werder e 14 presenze (e 2 gol) con il Middlesbrough. Il Daily Mail, che l' ha inserito nella classifica dei 30 peggiori attaccanti della storia della Premier, nel 2009 scriveva di lui: «I sudcoreani in Inghilterra si dividono in due categorie: quelli molto forti e quelli molto Dong-Gook Lee». In Francia giocò 13' nella sconfitta per 5-0 contro l' Olanda.
Giocò invece tutte e tre le partite il saudita Hussein Abdulghani, oggi 42enne difensore del Vereja (Bulgaria), affrontando la Francia poi campione e perdendo per 4-0. Ancora in attività anche due giapponesi (tra i più longevi, considerando che il 52enne Miura gioca tuttora in patria): Teruyoshi Ito, 45enne centrocampista dell' azul claro Numazu (3ª serie nipponica) e Shinji Ono, 39enne centrocampista del Ryky (2ª divisione) ex Feyenoord (con cui vinse la Coppa Uefa nel 2002) e Bochum. Alberto Neglia
· Gigi Riva.
Da ansa.it il 7 novembre 2019. Gigi Riva compie 75 anni e da giorni il telefono della sua casa di Cagliari squilla, per ammiratori e amici che lo riscaldano di affetto. "Sì, davvero tanta gente mi vuole bene: io non do tanta soddisfazione, ma questo affetto lo sento e mi fa davvero piacere", dice Rombo di Tuono in un'intervista a Donatella Scarnati, per Rai Sport. "Settantacinque anni sono tanti, si va in discesa...Ho superato bene qualche acciacco degli ultimi tempi, diciamo che mi accontento", prosegue Riva al telefono. "Il calcio mi diverte ancora - sottolinea - registro e rivedo la sera, con calma, al culmine delle mie giornate in casa con figli e le nipoti, ne ho cinque e tutte femmine, e loro sanno che il nonno ha sempre un regalo tra le mani. Certo, il calcio è cambiato, ma c'è spazio e divertimento per tutti, da chi gioca per salvarsi a chi fa le Coppe. E poi che soddisfazione questo Cagliari". A divertir meno anche Riva e' il razzismo. "C'e' nella vita di tutti i giorni, durante la settimana e per le vie delle nostre città - dice con l'unica nota di amarezza - Poi e' inevitabile che la domenica l'imbecille non si trattiene. Alla gente dico: continuate ad andare allo stadio, ma comportatevi bene. Il calcio ne ha bisogno, per andare avanti".
Gli auguri del Cagliari - Gigi Riva ne aveva 25 il 12 aprile 1970, il giorno in cui il Cagliari conquistò la vittoria sul Bari e lo scudetto. E ci stiamo avvicinando: il 2020 sarà insieme la festa per i 100 anni del club e per i 50 del tricolore. Cagliari e il Cagliari due scelte di vita per Riva. Il bomber rossoblù e azzurro (detiene ancora il record di 35 gol segnati con la maglia della Nazionale) festeggia il compleanno in quella che da quando è arrivato in Sardegna, appena diciottenne, è la sua città. Per il Cagliari ha fatto di tutto: ha segnato (164 gol in 315 partite di campionato), vinto uno scudetto, ha fatto il presidente del club, è andato in America a prendere giocatori. E per i sardi è "il mito". Da questa mattina sui social è un'invasione di auguri e di post con foto, video e disegni dedicati a Rombo di tuono. Il Cagliari molto affettuoso su Facebook: lo ha definito "il più grande di tutti i tempi". Poi sul sito ufficiale ancora buon compleanno. E una cronistoria del feeling sbocciato a metà degli anni Sessanta. "Non è stato amore a prima vista, il sentimento è nato piano, con la quotidianità, di pari passo con la scoperta e con la conoscenza. L'hanno conquistato la semplicità e la fierezza della gente, l'affetto spontaneo e genuino che gli è stato donato. E che lui ha ricambiato con il cuore, con la passione. Tutto, goccia dopo goccia. Un amore che dura tuttora, 56 anni dopo. Capita quando le radici sono tanto profonde, quando si ha ancora voglia di dare, di essere sempre lì l'uno per l'altro".
· Tardelli, dall’urlo al Mondiale: «Ho 65 anni, mi sento un ragazzino».
Caterina Balivo litiga con Marco Tardelli in diretta. L’intervista si è trasformata in un botta e risposta. L’ironia della conduttrice non piace all’ex calciatore. Valentina Dardari, Venerdì 11/10/2019, su Il Giornale. Pomeriggio teso a casa di Caterina Balivo durante la trasmissione “Vieni da me”. Ospite della puntata Marco Tardelli, campione del mondo, che ha parlato dei suoi inizi fino ad arrivare alla vittoria ai Mondiali di calcio del 1982. Tardelli ha ripercorso gli esordi non facilissimi a causa del suo corpo minuto. Faceva il cameriere e intanto si allenava a calcio “Ero magrolino, all'inizio al Pisa non mi volevano. Ma il mio primo allenatore ha insistito e mi hanno preso”. E subito Caterina Balivo con un sorrisetto ha aggiunto “Ti pagavano poco, per molti eri scarso. All’inizio eri scarso un po’ per tutti”. Battuta che non è certo piaciuta al calciatore che ha ribattuto “Non per tutti”, chiedendole poi di non offendere. L’intervista, da questo momento un po’ tesa, è proseguita. Il campione del mondo ha poi raccontato della vittoria ai mondiali, dei suoi amori, della sua carriera sportiva, dei figli e ovviamente dei suoi due nipotini, nati solo cinque mesi fa dalla figlia Sara. La conduttrice ha continuato chiedendo dove finissero i soldi del trasferimento da una società all’altra, e se una parte andasse anche nel portafoglio dei calciatori. Negativa la risposta di Tardelli che subito ha sottolineato “Di quei soldi non vedevamo una lira”. Poco dopo l’ex calciatore l’ha bacchettata dicendo “Potevi studiare un po’ di più”, riferendosi alla sua scarsa conoscenza riguardo il suo modo di giocare. La risposta della Balivo non si è fatta attendere “Io conosco solo il Napoli, sono di parte”. E poi ironicamente “Sei pignolo…”.
Emiliana Costa per leggo.it l'11 ottobre 2019. Marco Tardelli, botta e risposta in diretta con Caterina Balivo a Vieni da me: «Non offendere...». Lei replica così. Oggi pomeriggio, la conduttrice del salotto di Rai1 ha intervistato il campione del mondo. L'ex calciatore ha ripercorso i suoi esordi fino alla vittoria dei Mondiali '82. Ma durante l'intervista, qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto. Marco Tardelli parla dei suoi esordi: «Ero magrolino, all'inizio al Pisa non mi volevano. Ma il mio primo allenatore ha insistito e mi hanno preso». Caterina Balivo commenta ironica: «All'inizio eri scarso un po' per tutti». Ma lui replica con un sorriso pungente: «Non per tutti, non offendere...». Non è tutto. Il colloquio continua. Caterina Balivo chiede se una parte della somma del trasferimento da una società all'altra andasse anche nelle tasche dei giocatori. Tardelli risponde: «Di quei soldi non vedevamo una lira». All'ennesima domanda, l'ex calciatore riprende con fare bonario la conduttrice: «Potevi studiare un po' di più...». Caterina Balivo replica: «Io conosco solo il Napoli, sono di parte». Poco dopo aggiunge ironica: «Sei pignolo...». L'intervista si conclude con una rivelazione hot di Marco Tardelli: «Moana Pozzi? Ci siamo visti due volte... In amore ero un po' birichino».
Da adnkronos.com l'11 ottobre 2019. Moana Pozzi "era bella e intelligente. Ci siamo conosciuti in un ristorante. L'ho incontrata due volte, in realtà la storia per i giornali è andata avanti per anni. Ci siamo incontrati sempre nel ristorante? Amo mangiare...". Marco Tardelli risponde così, a Vieni da me, alle domande sul rapporto con Moana Pozzi. "Litigai con Gianni Brera, mi comportai molto male. E non ebbi mai occasione di scusarmi con lui, mi è dispiaciuto molto", dice Tardelli svelando lmeno un rimpianto legato alla maglia azzurra con cui ha trionfato ai Mondiali 1982. "Aveva scritto che avevo le ruote sgonfie, lo incontrai a Ponte Vedra. Mi comportai male, litigai... E non ebbi mai occasione di scusarmi...", racconta Tardelli. Il volto di Tardelli rimane legato all'esultanza per la rete realizzata l'11 luglio 1982 e al celeberrimo urlo: "Rifarlo qui? Noooo... Ho smesso di giocare dopo quell'urlo... E' stata una gioia immensa". "Ho marcato Maradona quando era al top, un vero fenomeno. Sono stato cattivissimo con lui in campo, cercavo di fermarlo in qualsiasi maniera. Sapeva che per fermarlo bisognava picchiarlo, probabilmente lo accettava. Ho marcato Pelè invece quando già giocava in America, alla fine della carriera", racconta.
Tardelli, dall’urlo al Mondiale allo spot sui vaccini: «Ho 65 anni, mi sento un ragazzino». Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Margherita De Bac. Il campione testimonial anti influenza: «Mi sento giovanissimo... ho tanta voglia di scoprire e mille progetti. Ho ancora troppe cose da fare». «Per carità non chiamatemi anziano, al massimo diciamo che sono semplicemente un po’ cresciuto», respinge la fredda classificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità Marco Tardelli. Dal 24 settembre scorso, data del suo sessantacinquesimo compleanno, è entrato ufficialmente nella fascia degli «over». L’età degli sconti in treno e, soprattutto, delle vaccinazioni gratuite che vengono raccomandate a livello internazionale per dribblare le malattie infettive e difendere l’organismo da una serie di complicanze serie. La terza età in cui, a prescindere dall’individuale condizione fisica e mentale, si smette di essere adulti per varcare dal punto di vista sanitario la soglia della vecchiaia. Ecco perché la rete nazionale di ricerca Italia Longeva presieduta da Roberto Bernabei — tra i promotori i medici di famiglia della società Simg — lo ha subito preso come testimonial di una campagna per promuovere tre profilassi-scudo contro influenza, pneumococco (causa di polmoniti) ed herpes zoster. Nello spot Tardelli è l’allenatore di una squadra di pensionati e quando uno di loro segna esulta come fece lui dopo lo storico gol contro la Germania ai Mondiali di Spagna dell’82.
Come si sente oggi?
«Tutto tranne che anziano, mi sento giovanissimo e comunque respingo ogni classificazione. L’età dipende da come siamo dentro. Certo, ognuno di noi cambia e anche io sono cambiato. Però a differenza di tante persone che quando le incontri non le riconosci, non mi sono trasformato nel fisico anche perché non mi sono mai lasciato andare. Sono un ragazzino con tanta voglia di scoprire e mille progetti. La progettualità è il segreto, ho ancora troppe cose da fare».
La formula vincente?
«È composta di amore, movimento e alimentazione attenta ma non esageratamente sacrificata. Non resisto a un piatto di buone lasagne. Ma la vera ricchezza sa qual è? Ho la grande fortuna di essermi innamorato all’età di 62 anni», dice pensando a Myrta Merlino, la conduttrice del programma «L’aria che tira» su La7. Anche per lei Marco è un amore grande: «Però nei confronti della malattia siamo diversi. Io ansiosa e ipocondriaca, lui stoico, non si farebbe mai visitare e con la febbre non si mette a letto. Tanto passa, mi dice quando cerco di portarlo dal medico. Tipico del campione. In compenso ha il credo della prevenzione. In questa stagione si vaccina e sono contenta che lo faccia».
Tardelli, ma lei come si allena per restare giovane?
«I miei stili di vita mantengono il tracciato di quando ero in attività. Gioco a tennis, cammino molto e tutti i giorni a passo veloce, niente più pallone per evitare il rischio di infortuni, alimentazione più sana possibile, mangio spesso al ristorante e mi contengo, un bicchiere di vino a pasto e tanta acqua. La notte ne bevo un litro e mezzo, il giorno sto attento a non sentirmi mai disidratato. La regola base è fare tutto in modo adeguato. È sbagliato praticare sport estremi».
È ingrassato?
«Ho appena cinque chili in più rispetto al peso forma degli anni migliori, un aumento fisiologico. Il professor Bernabei mi ha detto che oggi un uomo di 65 anni ha un’aspettativa di vita di altri venti (per le donne è di venticinque ndr). Sono contento di avere ancora tanto tempo a disposizione, metterei la firma per arrivare agli 85 in buone condizioni. Mi ricordo che quando mio padre aveva quarant’anni io lo consideravo un vecchio. Spero che i miei figli non pensino che io lo sia già adesso. La vecchiaia può attendere».
Si vaccinerà?
«Certo, ma contro l’influenza l’ho sempre fatto. Adesso sono ancora più motivato. Ho visto le tabelle che mostrano cosa si rischia se non ci si difende dalle malattie che possiamo evitare e mi sono spaventato. Per dirla con lo spot della campagna, la longevità è una partita che si vince giocando d’anticipo».
· Non sa chi è Paolo Rossi?
Paolo Rossi: «Bearzot? Dopo i 3 gol al Brasile non mi disse neanche una parola». Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. Il centravanti dell’Italia campione del mondo 1982: «Se una partita mi annoia, dopo 10 minuti guardo un film. Ma ancora adesso, davanti alla tv mi capita di pensare: “Io sarei andato sul primo palo..."». Treno Milano-Roma: una volontaria in cerca di fondi per un’associazione benefica si avvicina al viaggiatore che tiene davanti a sé le bozze di un libro intitolato «Quanto dura un attimo». La ragazza chiede: «Di che cosa parla?». «Della vita di Paolo Rossi». Silenzio. Sguardo smarrito. «Non sa chi è Paolo Rossi, l’eroe del Mondiale 1982 che segnò 6 gol in 3 partite dopo un inizio disastroso?». «Ehm, non l’ho mai sentito nominare. È grave?». A raccontarglielo, Pablito ride. E ribatte con la prontezza dei bei tempi: «Non si preoccupi troppo. L’altro giorno in stazione a Milano un gruppo di diciottenni mi ha fermato per chiedermi una foto con loro. Vengo da Abu Dhabi, dove ho appena incontrato 800 ragazzi, altri 800 fra i 13-14 anni a Pescara…».
Ma è anche per questo che, a 17 anni dalla sua autobiografia «Ho fatto piangere il Brasile» ne ha scritto (con la moglie Federica Cappelletti) un’altra, che diventerà anche una fiction o un film (e intanto è già pronto il documentario «Dreams Create the Future)?
«Un po’ sì, per tenere fresca la memoria e vivo il ricordo. Che non è solo mio. È degli anni 80, di quel Mondiale che ha lasciato un ricordo bello, positivo».
A questo proposito: l’Italia di Mancini ha riacceso un amore per la Nazionale che ricorda quello dei suoi tempi. E lei esordì in azzurro nel 1977, dopo solo 17 partite in serie A. Una scommessa, come quella che il c.t. attuale sembra fare su tanti altri ragazzi. Le torna il parallelo?
«No. La mia Nazionale era basata su un gruppo di giocatori molto consolidato. Al Mondiale dell’82 ci sono 7-8 giocatori che erano già stati fondamentali nel ’78. Dove finimmo quarti, ma giocando benissimo. L’Italia di Mancini nasce invece da un risultato negativo».
Tra l’altro: il 27 novembre Mancini ha compiuto 55 anni. Gigi Garanzini ha notato che quando Bearzot vinse il Mondiale ne aveva 54. Eppure per tutti era il «Vecio». E lei oggi ha più anni di lui...
«La cosa mi fa un certo effetto. Quando arrivai in Nazionale vedevo Bearzot come una persona di un certo tipo, con una certa esperienza. Oggi se penso a Mancini mi sembra uno giovane. Ma quelli di Bearzot erano 54 anni di un altro vissuto. In più, ci sono persone che nascono così, che sono già mature da giovani. Come Bergomi. O come Tonali oggi: sembra nato “fatto”, che abbia già 30 anni».
Lei invece aveva e ha l’aria da ragazzo. Ma, come ricorda nel libro, con una dote: «Giocare sull’anticipo, pensando sempre cosa fare un attimo prima che mi arrivasse il pallone». Quel «decimo di secondo» che le fa segnare l’1-0 nella finale contro la Germania. C’è qualcuno in cui lei rivede qualcosa di simile?
«Forse un po’ Agüero del Manchester City: gioca sempre sull’anticipo».
E da noi, a parte il classico paragone con Inzaghi?
«Ma io ero più tecnico... Al limite mi rivedo in Mertens del Napoli, ma più per la sua evoluzione da esterno a prima punta. Anche se a lui è successo molto più tardi che a me».
Già, perché nel 1976 Paolo Rossi è una promettente ala di neanche 20 anni quando, dopo tre infortuni alle ginocchia, finisce dalla Juventus (che l’aveva preso quando aveva 16 anni) al Lanerossi Vicenza in Serie B. L’allenatore è il romagnolo Giovan Battista (per tutti GB) Fabbri. Che le dice: «Io ti faccio giocare centravanti, tu non sei un’ala. Fidati, Paolo». Ma lei non era così convinto...
«È vero. Fabbri era un allenatore bravissimo e un precursore. Il suo era un calcio modernissimo, in cui i difensori dovevano costruire, i terzini attaccare e io ero la punta unica che con i suoi movimenti faceva inserire i centrocampisti».
Promozione in A nel 1976-77, secondo posto dietro la Juve l’anno dopo, con Paolo Rossi autore di 24 gol e capocannoniere. Dal libro si capisce che oltre a Bearzot, decisivi nella sua vita sono stati anche Fabbri e Giussi Farina, che di quel Vicenza era presidente.
«Fabbri era un uomo perbene, pacato, dava gli stessi consigli di un padre. Spesso mi invitava a pranzo a casa sua. Se lo immagina oggi un calciatore che va a pranzo a casa di Conte o Mourinho?».
No, anche perché è probabile che Conte dia da mangiare pochissimo. Farina, invece, passa alla storia come un astuto affarista, anche se per strapparla alla Juve spende molto più del necessario, ingannato da una soffiata su quanto Boniperti metterà nella busta per il riscatto della sua metà dal prestito (allora usava così). Però il ritratto che ne fa lei è differente: parla di un uomo affettuoso e molto legato a lei.
«Sono vere entrambe le cose. Nelle trattative non guardava in faccia nessuno. Ma con me era diverso. E infatti diceva: “Non ho mai amato nessun giocatore, tranne Paolo”».
E perché, secondo lei?
«Perché per lui sono stato come un sogno che ha voluto vivere, rubandomi alla Juve. Non ha fatto il manager. E infatti amava ripetere che “Rossi era diventato Rossi grazie al Vicenza”».
E poi c’è Bearzot. È vero, come scrive Piero Trellini nel suo libro «La partita», che quando lei era squalificato per il calcioscommesse da lui ricevette un grande aiuto, ma una volta venne a trovarla e le disse che aveva «dei fianchi da fattrice normanna»?
«Sì. E al massimo avrò avuto un paio di chili di troppo, mica 25! Me lo disse ridendo, ma questo era lui».
Cioè?
«Non era un uomo facile. Quando ti parlava non aveva l’aria del buon padre. Era un po’ rigido. A volte, poche, ti dava una carezza. Ma più spesso usava il bastone».
Tutto torna, ripensando a quanto la difese dalle critiche dopo le prime tre partite del Mondiale 1982. E al fatto che dopo i 3 gol al Brasile invece non le disse nemmeno una parola... A proposito: sempre Trellini scrive che il suo primo gol al Brasile nacque da un suo errore: un rinvio che finisce sulla schiena di Conti. La palla sta per finire in calcio d’angolo ma Collovati salva sulla linea di fondo. L’azione riparte e lei segna.
«A Prato diciamo “Il se e il ma sono il paradiso dei bischeri”. Mentre io dico sempre che non bisogna mai perdere la fiducia. Perché c’è un momento in cui tutto cambia. In quel primo gol io ci vedo tutto, che qualcuno ha voluto dire “Basta, vai, è il tuo momento”. Io sono religioso, e quindi ho ringraziato il Signore più volte».
Da Bearzot, invece, neanche una parola.
«No. Però era forte e gagliardo se c’era da difenderci all’esterno: noi gli abbiamo voluto bene anche per questo».
E per l’extra di latte e biscotti la sera, perché lei nel frattempo per lo stress aveva perso 5 chili.
«Le partite prima del Mondiale erano andate male, il girone pure. Io rientravo dalla squalifica delle scommesse e tutti mi vedevano come il salvatore della patria. Un peso enorme sulle spalle. E non mi diede una mano il fatto di segnare subito al mio rientro in campionato, il 2 maggio 1982, di testa all’Udinese. Pensai: sono ripartito subito. Ma quando andai in ritiro con la Nazionale capii che non era così, che non ero ancora io. Fu lì che realizzai che ci sarebbe voluto tempo. Bearzot me lo diede, perché aveva capito che dovevo solo giocare il più possibile per ritrovare il ritmo-partita».
Ecco: che cos’è questo famoso ritmo-partita?
«È un’abitudine alla sofferenza, alle misure che ha il campo, a tenere la concentrazione. Sono cose che si acquisiscono solo giocando. E a me mancavano perché ero stato fermo due anni. Un’infinità».
Dopo la terza partita, quella col Camerun, Bearzot le suggerì di indossare la maglia azzurra anche quando era in camera. E di guardarsi allo specchio.
«Sì, perché lui voleva che quella maglia ci responsabilizzasse».
Funzionò?
«Sì, perché è una di quelle cose da cui senti che un allenatore investe su di te, che ha una considerazione che ti aiuta a tirare fuori il meglio, quello che ancora non è uscito. E lo fa dicendoti una parola giusta o magari trasmettendoti un sentimento».
Ad aiutarla in quel Mondiale fu anche Antonello Venditti e la sua «Sotto la pioggia» che lei e Cabrini cantavate tutte le sere in camera in ritiro. Gliel’ha mai detto?
«Certo. L’anno scorso mi ha anche chiamato sul palco a un suo concerto per farmi cantare “Giulio Cesare”: “Paolo Rossi era un ragazzo come noi”...».
Però dal libro si capisce che lei dietro quel sorriso era molto più feroce di quanto sembrasse.
«Sì, ero supercompetitivo. Poi ci sono stati gli infortuni e tutto il continuo di alti e bassi a rafforzarmi».
Oggi lei fa l’opinionista alla Rai per le partite della Nazionale. Il ricordo di quel Mondiale di scontri feroci coi giornalisti influisce sul suo modo di lavorare?
«Un po’ sì, cerco di misurare le parole: ci sono passato, so come ci si sente. Quello che vedo lo dico, ma sto molto attento al modo. E comunque io sono rimasto amico di molti giornalisti e in generale ho sempre avuto un buon rapporto con loro. Certe cose facevano parte del gioco. Se le cose vanno male è normale che uno lo scriva. Oggi i giocatori hanno filtri su filtri. All’epoca ci si parlava serenamente. Io finivo l’allenamento e chiacchieravo con chi c’era. E mi è servito. Perché senza confronto i calciatori sono meno responsabilizzati e non crescono».
E aver giocato ad alti livelli fa la differenza, nel commentare una gara?
«Premesso che parecchi giornalisti di oggi sono preparatissimi, più di molti dell’epoca, certe cose le percepisci solo se hai giocato: certi movimenti o come un giocatore si rapporta con un compagno piuttosto che con un altro».
Quali squadre le piace guardare in tv, non per lavoro?
«Quelle di Champions: il City, il Barcellona. Però se una partita non mi piace, dopo 10 minuti mollo. Non sono un malato di calcio».
Delle partite giocate, è facile immaginare quali ricorderà sempre. Di quelle viste in tv?
«La finale Italia-Brasile di Messico ’70. Quella mi ha segnato. Avevo 14 anni, ma mi ci sono immedesimato, mi vedevo in campo a giocarla».
Le succede ancora?
«Qualche volta sì. Il fisico non funziona, ma la testa sì. E mi ritrovo a dire cose tipo “io sarei andato sul primo palo!”».
· Gianluca Pagliuca.
Da I Lunatici Radio2 il 3 ottobre 2019. Gianluca Pagliuca è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il portiere di Usa94, vicecampione del mondo, ha parlato di quello che fa oggi: "Alleno i portieri della primavera del Bologna e coordino i portieri. E' un bell'impegno. I portieri di oggi? Ultimamente sta venendo fuori qualche buon numero 1. Dopo Buffon c'è stato il vuoto, ora con Donnarumma siamo a buon punto e ci sono anche altri giovani interessanti, Golin, Cragno, Meret, Audero. C'è più qualità rispetto a qualche anno fa". Su Sinisa Mihajlovic: "Purtroppo ci è giunta questa bruttissima notizia a luglio e agosto, è stata una mazzata tremenda, bisogna dare merito alla società e all'ambiente, che si sono compattati ancora di più. Lo staff di Sinisa sta facendo un ottimo lavoro, lui si sta curando ma segue partite e allenamenti quotidianamente, si fa sentire. Ci vogliamo tutti bene". Sul secondo posto dell'Italia a Usa94: "Quella finale la sto ancora sognando, cosa darei per rigiocarla. Ogni tanto prima di addormentarmi penso sempre che per un rigore potevo diventare Campione del Mondo. E' la legge dello sport, la legge del calcio, vince solo una squadra, purtroppo non siamo stati noi. Il bacio al palo? Me lo ricordo benissimo, è una cosa indelebile, ancora oggi incontro persone che me ne parlano. La delusione per una finale dei mondiali persa ai rigori non si supera mai. Anche se arrivarci è già un successo. Ricordo ancora l'emozione, la tensione, è stata una esperienza incredibile. Mi rimane la delusione di non aver alzato quella maledetta coppa il 17 luglio del 1994. Cosa accadde nello spogliatoio tra Sacchi e Signori? Il mister preferiva affiancare Baggio con Casiraghi o Massaro. E Signori lo metteva esterno. Probabilmente a Beppe questa cosa non andava benissimo". Pagliuca nell'Inter ha giocato con Ronaldo, il Fenomeno: "Ronaldo rispetto a Messi e Cr7? Il Fenomeno era di un'altra categoria. E' arrivato in Italia a 20 anni e già iniziava ad avere qualche problema alle ginocchia. Ha fatto cose strepitose, un calciatore straordinario, mi ha dato soddisfazioni enormi. Il più forte". Sul sesso prima delle partite: "Prima delle partite, se fatto in modo intelligente, non crea problemi. Non succede niente. Anzi, se lo fai bene, in modo intelligente, ha anche ripercussioni positive". L'allenatore più importante: "Ne ho avuti tre determinanti. Boskov, Gigi Simoni e Carlo Mazzone. Tre allenatori che mi hanno dato tantissimo, saranno sempre nel mio cuore".
Marchisio lascia il calcio: "Ho vissuto un sogno. Peccato non aver vinto la Champions". Gazzetta.it il 3 ottobre 2019. Il "Principino" dice addio a 33 anni dopo l'ultima esperienza nello Zenit: "Sono un ragazzo di Torino che voleva giocare con la Juve e ci è riuscito. Ho rifiutato molte proposte, ma ho ascoltato il mio fisico". L'ultimo sguardo è per la famiglia seduta in prima fila: Claudio Marchisio sorride alla moglie Roberta, ai figli e alla mamma (il padre è rimasto più defilato), fa il classico sospiro rompighiaccio e poi dice tutto d'un fiato: "Ho deciso di ritirarmi, è stata una scelta ponderata e difficile. Volevo invitarvi a casa mia ma non ci stavamo tutti, così ho scelto lo Stadium perché per me è un luogo speciale". Lo Stadium è la sua seconda casa, perché qui Marchisio ha festeggiato 7 scudetti e trascorso l'ultima parte, la più esaltante, della sua vita bianconera. Claudio è stato per 23 anni un cavaliere della Signora, dalle giovanili alla prima squadra, passando anche per gli inferi della B, che però è stata la sua fortuna. Però anche i sogni hanno una fine e Claudio ha capito quest'estate che era arrivato il momento di dire basta. "Durante la riabilitazione per l'infortunio al ginocchio, dentro di me è scattato qualcosa. Vedevo da un po' che il mio corpo non reagiva più come volevo. Se non puoi dare quello che hai sempre dato è giusto arrivare a questa decisione. Non conta l'età ma come ti senti. Sono arrivate offerte da altri continenti, ma dentro di me sapevo che non potevo rispettare le aspettative. Ora cambia tutto, finisce una parte della vita e inizia un nuovo percorso. La mia famiglia mi ha insegnato che non bisogna guardare al futuro con paura ma con curiosità. Non so che cosa farò non mi precludo niente, mi prenderò un po' di tempo per la mia famiglia". Il sogno finisce ma restano i ricordi e i legami indissolubili: "Non ho mai preso in considerazione le offerte in Italia, per questo ho scelto lo Zenit dopo aver lasciato la Juve. Ho rescisso con il club russo per una questione di rispetto, sapevo che avrei saltato gran parte della stagione. La voglia di continuare c'è sempre, ma bisogna essere realisti e rendersi conto di ciò che si può dare". Marchisio ha vinto tanto, ma si porterà dietro per sempre due rimpianti: "Avrei voluto vincere la Champions e l'Europeo con la Nazionale. Se potessi, vorrei rigiocare la finale di Berlino. Per me l'anno più importante è stato quello della Serie B, perché stato il mio momento: ho capito che il mio sogno si stava realizzando. Di gol ne scelgo due: quello all'Inter nel 2009, stupendo e importante, e il primo allo Stadium". Domenica guarderà Inter-Juventus da tifoso: "Sono curioso di vedere come finirà, Conte che è andato all'Inter e la Juve è dietro che deve inseguire. Antonio è un grande tecnico, basta guardare il volto dei giocatori dell'Inter per capire che c'è la sua mano: sono gli stessi dell'anno scorso, ma stanno mostrando altro. Mi aspetto una corsa scudetto più avvincente, vincere partite come questa dà tanta benzina al campionato".
· Claudio Marchisio saluta il mondo del calcio.
Marchisio, l'addio al calcio 8 anni dopo la sua grande notte. Bandiera bianconera, chiude una carriera luminosa con due grandi rimpianti: "Non aver mai vinto la Champions, nonostante il ciclo vincente, e non esser diventato campione d'Europa con la Nazionale". Domenico Marchese il 3 ottobre 2019 su La Repubblica. Un monologo toccante nel silenzio della sala Giovanni e Umberto Agnelli, il cuore dell'Allianz Stadium in cui sono stati battezzati in bianconero Ronaldo e Sarri. Parole di Claudio Marchisio per salutare il mondo del calcio, almeno momentaneamente: una carriera da calciatore vissuta quasi interamente con la maglia della Juventus, tranne un anno in prestito ad Empoli per 'farsi le ossa' e uno in chiusura di carriera allo Zenit San Pietroburgo, quando ormai le ossa erano fatte ma erano anche stanche e logore. Un calciatore rispettato anche fuori dal campo, con le sue prese di posizione mai banali su argomenti di attualità, per la sua estrazione popolare, per la rappresentazione di un sogno, quello del calciatore. "Ho scelto questa parola per riassumere tutto, 'sogno': ho iniziato a sei anni nei Pulcini della Juventus, fino a vestire la maglia che ho sempre sognato". Vincendo sette Scudetti, quattro Coppa Italia, tre Supercoppa, e con due soli grandi rimpianti: "Non aver mai vinto la Champions, nonostante il ciclo vincente, e non esser diventato campione d'Europa con la Nazionale". "Avrete immaginato il perché vi ho chiesto di venire qui oggi, ho deciso di ritirarmi, è stata una decisione ponderata, ma difficile. Ho scelto un luogo come questo per annunciarlo. Ringrazio la Juventus che mi ha concesso questo luogo speciale. Ho passato una notte insonne, ho scelto la parola sogno per descrivere questa mia avventura. Il sogno di un bambino, il sogno di un ragazzo che intuisce di avere talento insieme a compagni che talento ne avevano, am non tutti potevano arrivare a coronare questo sogno. Serve anche al dedizione, il lavoro e anche la fortuna. Io fortuna ne ho avuta tanta, a trovarmi al posto giusto al momento giusto e prendere quel treno che passa una volta e avere sempre persone che mi hanno accompagnato. E mi hanno regalato emozioni e momenti indimenticabili dentro e fuori dal campo. Un sogno che ho vissuto con tutto me stesso, in ogni allenamento, in ogni partita, in ogni società con cui ho giocato. Juve, Empoli e poi lo Zenit. Quest'estate per me è stato un periodo difficile, ero in riabilitazione e dentro di me era scattato qualcosa. Cercavo di recuperare, tornare in campo, ma mi rendevo conto che la mia testa voleva fare qualcosa, ma il mio corpo non reggeva più come volevo. Lì cominciano le domande, vorresti dare tutto te stesso, essere quello che sei sempre stato, ma devi ragionare. E se non puoi dare quello che hai sempre dato era giusto arrivare a questa decisione. Non è importante l'età, è importante quello che senti veramente dentro. Negli ultimi mesi sono arrivate anche offerte importanti da altri continenti e da altri Paesi dove c'era grande interesse, ma dentro di me sapevo che non potevo rispettare quello che è Claudio, ossia quello che voleva dare tutto sé stesso. Da lì sono arrivato a questa decisione. [...] Ho vinto tantissimo, con i miei compagni e queste emozioni rimarranno sempre dentro di me. Voglio ringraziare tutti, in primis la mia famiglia che mi è sempre stata vicina, a mia moglie e ai miei figli che sono stati sempre vicino a me. Sono un ragazzo cresciuto nella provincia di Torino che vedeva il mondo in Torino e sognava la sua squadra del cuore e ho realizzato questo sogno grazie alla mia famiglia. Sono molto emozionato, devo ammetterlo, ma adesso cambia tutto. Finisce una parte della mia vita e inizia un nuovo percorso. La mia famiglia mi ha insegnato che non bisogna avere paura del futuro, ma guardarlo con curiosità. Non so cosa farò, negli ultimi anni ho portato attività extracalcio, ma non mi precludo niente. Non se farò l'allenatore o qualche altra cosa. E' giunto il momento di staccarmi, prendermi un po' di tempo per la mia famiglia.
Claudio Marchisio, in questa decisione ha pesato il suo sentimento o il non voler accettare offerte?
"Non ho mai preso in considerazione offerte in Italia. Da lì la mia decisione di andare allo Zenit. Quest'anno ho dovuto rescindere il contratto con lo Zenit per una questione di rispetto, sapevo che avrei saltato gran parte della stagione. La voglia di continuare c'è sempre, ma devi guardarti dentro e capire se sei in grado di restare a quei livelli".
Ha qualche rimpianto?
"Non vincere la Champions e non vincere l'Europeo con l'Italia. Non aver messo quei trofei in bacheca in quel ciclo vincente è il rimpianto più grande".
Quando si è reso contro che il suo sogno si stava avverando?
"L’anno della Serie B. Quello è stato il treno che è passato e che sono riuscito a prendere. Vedevo le facce dei grandi campioni in Serie B, avevano compiuto una scelta difficile. Ma per me in quel momento indossavo la maglia della Juve, non della Juve in serie B. Ero felicissimo per quella situazione e dovevo sfruttarla al massimo".
Qual è il gol che ricorda con maggior gioia?
"Due. Il primo contro l'Inter, non in questo stadio, all'Olimpico di Torino. Oltre a essere stato un gol stupendo, è stato importante. Venivo da un piccolo infortunio, mi affacciavo alla Nazionale maggiore e c'era l'Europeo. E poi il primo qui con la Juve, dove è nato quel ciclo vincente".
Tra i rimpianti c'è quello di non aver avuto un saluto come Buffon o Del Piero?
"La tempistica è stata diversa, non era fine stagione. Il mio momento poi l'ho avuto, sono contento di aver lasciato questo ricordo nei tifosi e quel momento non lo dimentico. Giocavo nello Zenit, ma tornare qui era tornare a casa. Con i tifosi ho sempre avuto un grandissimo rapporto e me l'hanno dimostrato in quella giornata".
Che partita vorrebbe rigiocare?
"Vorrei rigiocare la finale di Berlino. Se ci fosse la possibilità di rigiocarla, magari anche solo un tempo, non mi dispiacerebbe".
Come si vede per il futuro?
"Non mi precludo nulla, devo vedere anche cosa il calcio potrà darmi e cosa io potrò dargli. Ho bisogno di tempo per decidere, perché sono decisioni da prendere con i tempi giusti".
É stato tra i primi a usare i social in modo socialmente utile....
"Credo che la cosa più importante sia la responsabilità che hanno i ragazzi, soprattutto grazie alle possibili informazioni che ci sono quotidianamente, ai social, all'importanza che hanno ora i calciatori per i giovani. Non solo per essere un esempio positivo, perché siamo persone oltre che calciatori. Ognuno poi ha un carattere diverso. Io man mano col tempo ho capito che c'era bisogno di far sentire la mia voce fuori dal campo. Non ho mai avuto il problema di prendere le difese dei più deboli o di qualsiasi argomento. Senza avere paura, perché le critiche ci sono sempre. Le viviamo con le pagelle dopo la partita, per una gara non andata bene, non bisogna avere paura. Credo i giocatori debbano avere più coraggio".
Vede un suo erede?
"E' difficile da dire. Credo però che il calcio italiano stia cambiando. Ci sono sempre più giovani che hanno possibilità di giocare in grandi club. Lo stiamo vedendo nell'Inter con Sensi e Barella, che hanno la possibilità di giocare in grandi palcoscenici, ma non solo. Credo negli ultimi anni si stia facendo un grande lavoro e da italiano, da tifosi italiano, mi auguro che prima possibile la nostra società possa tornare ai vecchi livelli, ma è importante anche lavorare nel settore giovanile".
Ha detto qualcosa ai suoi figli o a sua moglie?
"I miei figli oggi volevano giocare con me ed erano arrabbiato che dovessimo venire qui. Loro sono piccoli, è giusto abbiano il loro percorso. Io sono felice che ora avrò più tempo da dedicare loro e sono sicuro che anche loro, vedendo i loro volti, siano più felici di avere papà a casa.
Strano vedere Inter-Juve da fuori?
"Strano no, sono curioso come tutta Italia. Non ci resta che guardarla. Al di là di Conte che è andato all'Inter, c'è una squadra che sta facendo bene con grandi risultati e la Juve che ora deve inseguire. Sarà un grande match, io la vivo da fuori da tifoso juventino".
Si aspettava che Conte riuscisse a cambiare l'Inter in così poco tempo e pensi sia pronto ad aprire un altro ciclo?
"Secondo me basta guardare il volto dei giocatori dell'Inter. Sono gli stessi dell'anno scorso, ma hanno un altro spirito e questo sicuramente è la mano dell'allenatore".
Si aspetta una corsa scudetto più aperta?
"Da fuori me lo auguro, ma è presto. Sarà un match acceso, ma ci sono ancora tante partite. Poi chiaro che vincere partite come queste, con tanta attesa, darà benzina per il resto del campionato, quindi sarà importante per le squadre far valere la propria forza in un match così".
· Samuel Eto'o lascia.
UN ETO'O E MEZZO. CHE FACCIO, LASCIO? Samuel Eto'o si ritira dal calcio. È nato nel 1981, ha 38 anni. È arrivato all'Inter a 28 anni, nel 2009, e avevamo l'impressione ne avesse già 40. Nell'agosto 2011 se ne è andato a giocare in Russia, nell'Anzi. Si è di fatto ritirato dal calcio vero a soli 30 anni. Pazzesco. Filippo Maria Ricci per Gazzetta.it l'8 settembre 2019. Che vita, quella di Samu. Sembra impossibile che sia contenuta in appena 38 anni. A 11 era già in Francia. “A giocare un torneo a Digione – ha raccontato nella sua biografia –. Mi fermai da una zia a Parigi ma la vita da sans papier è durissima: avevo paura persino ad uscire di casa, altro che giocare a calcio. Andai a fare un provino al PSG ma non mi fecero nemmeno superare il cancello perché non avevo documenti”. Samu tornò in Camerun, per ripartire si appoggiò a una delle academy più potenti del Paese, quella del re della birra Gilbert Khadji, e a 15 anni eccolo a Barajas, aeroporto madrileno. Ha un appuntamento col Real Madrid, nientemeno. Però a prenderlo non viene nessuno. E allora, ancora un volta, Eto’o deve fare da solo, conquistare la vita con le proprie mani. Ragazzo sveglio, pratico, brillante. Troverà la sede del Madrid. E al Bernabeu inizierà una storia di amore e di odio decisiva per la sua carriera. Carriera che si è chiusa con 4 Champions League, due ‘tripletes’ consecutivi (caso unico al mondo), un oro olimpico, due Coppe d’Africa (manifestazione di cui è capocannoniere all-time), 4 campionati tra Spagna e Italia e tante altre cose. A nostro avviso il più grande (e sicuramente il più vincente) calciatore africano della storia. Una lista infinita di successi in Africa e in Europa incorniciati da una personalità esplosiva, da un carattere che esprime alla perfezione il concetto di “Leone Indomabile” che è il simbolo della sua nazionale. Successi inframmezzati da polemiche varie, rapporti andati in frantumi e ricostruiti, scontri illustri con Luis Aragones, Florentino Perez, Ronaldinho, Pep Guardiola, Jose Mourinho.
LOTTA AL RAZZISMO— E quel filo nero della lotta al razzismo, una cosa che Samu ha vissuto sulla sua pelle, viva e reattiva. “A noi neri ci trattano come persone di serie B” ha detto ancora recentemente. Si parla tanto di Cagliari in questi giorni: nel 2010 sempre lì anche Samu da interista fu insultato per il colore della propria pelle. Segnò il gol della vittoria. A Getafe nel 2005 sparò un pallone contro i tifosi che gli davano della scimmia. A Saragozza nel 2006 disse “Non gioco più” e stava andandosene verso gli spogliatoi per protestare contro i beceri “buuuu” dei tifosi della Romareda. Lo fermarono Frank Rijkaard e l’arbitro. In Turchia all’Antalyaspor fu sospeso dal club dopo un post su Instagram nel quale condannava il razzismo. Una lotta costante, che oggi è ancora attualissima come ben sappiamo.
MAGLIETTE O TALENTO — Al Madrid Florentino Perez non lo vedeva. Lo mandò in prestito al Leganes: poco spazio. Poi in prestito al Maiorca fino alla vendita definitiva. Joan Laporta lo portò a Barcellona per 24 milioni: 12 per il Madrid (col quale Samu aveva partecipato e vinto la Champions del 2000) e 12 al Maiorca. Florentino al suo posto compra Michael Owen: “Puoi vendere tante magliette ma non essere il migliore – dice Eto’o parlando di quel momento – La mia storia col Madrid è come quella di un uomo che ama una donna che gli dà costantemente le spalle. Quando l’uomo decide di andarsene la donna lo insegue”. Un lustro in blaugrana con 3 Liga e due Champions (con gol in entrambe le finali), il doppio di quelle che il Barça aveva vinto prima del suo arrivo. La prima Liga la festeggia gridando nel microfono del Camp Nou a squarciagola, “Madrid cabron, saluda el campeon”. Apriti cielo. In blaugrana il sodalizio e la rottura con Ronaldinho, accusato da Samu, quando tutti tacevano, di vivere in maniera dissoluta e distruttiva per se stesso e per il Barça di Rijkaard. Che si sfascia e nel 2008 arriva Guardiola: Pep il primo giorno dice che non vuole Samu (e Ronaldinho, e Deco). I lusofoni se ne vanno, Samu no. Come sempre lotta, resiste, segna 36 gol ed è fondamentale per il primo “triplete” nella storia del calcio spagnolo. Poi Pep lo scambia con Ibra, e il resto è storia. Dell’Inter.
· Genio e Sregolatezza: Paul Gascoigne.
Alberto Facchinetti per il Fatto Quotidiano.it il 9 novembre 2019. Paul Gascoigne è scappato di nuovo dal ritiro scelto dall’Inghilterra per il girone iniziale di Italia ’90. Da alcune settimane il commissario tecnico Bobby Robson ha stretto amicizia con il dirigente del Comitato organizzatore Stefano Arrica, che ha il compito di gestire tutte le quattro squadre del Girone F. È proprio a lui che chiede di recuperare il suo giocatore. Nonostante queste ripetute fughe, Robson stravede per il campione del Tottenham. Figlio di Andrea, il costruttore del Cagliari scudettato 1970, Stefano fa da tramite tra l’organizzazione e le federazioni di Inghilterra, Olanda, Irlanda ed Egitto. Rimarrà con la squadra inglese per tutto il tempo del ritiro all’Is Molas Golf Club di Pula. “Partivo con qualcuno dello staff – racconta – e andavo alla ricerca di Gazza, lo trovavamo in qualche bar della spiaggia che beveva. A 23 anni aveva già un problema con l’alcol. Dai Paul, non rompere le palle, gli dicevo in inglese. Ancora cinque minuti, mi rispondeva. Non era mai facile riportarlo in albergo. Nel frattempo aveva fatto amicizia col barista e fraternizzato con tutto il bar. Non era mai rissoso. Era un ragazzo tenerissimo con un cuore grande, ma completamente pazzo. Chissà se si ricorda ancora di me… oggi sto male quando lo vedo in certe condizioni”. Arrica lo riportava in ritiro, ma poi capitava che riscappasse. “Era un giamburrasca, quando beveva biascicava parole incomprensibili. Già con il suo accento da Newcastle faticavo a comprenderlo. No, non era mai facile convincerlo. Anche perché non era una piuma. Mi aiutava il massaggiatore. Ad ogni modo Gazza ci teneva molto alla Nazionale e a fare bene in quelle settimane, ne combinò parecchie ma successivamente con le squadre di club ne fece di peggiori. Ricordo che a Is Molas David Platt cercava di farlo ragionare”. L’Inghilterra fece un gran mondiale, dopo il girone giocato interamente al Sant’Elia, si sbarazzò del Belgio agli ottavi, ebbe la meglio in una partita memorabile del Camerun ai quarti, ma uscì ai rigori con i tedeschi in una delle più belle gare della competizione. È il giorno in cui Gazza viene ammonito dall’arbitro brasiliano Wright e scoppia in lacrime perché capisce che salterà l’eventuale finale. Sarà invece solo una finalina con l’Italia perché dal dischetto sbagliano sia Pearce che Waddle e passano come al solito i tedeschi. “Grazie a mio padre – continua Arrica – ho iniziato a frequentare gli spogliatoi della Serie A sin da bambino. Ma un campionato del mondo giocato nel proprio Paese è un’esperienza unica. Il giorno della partita Robson mi faceva viaggiare in bus con la squadra e rimanevo in spogliatoio fino all’ultimo minuto, quando aveva già consegnato le maglie agli undici titolari. Quest’amicizia col mister era nata soprattutto nel campo da golf, visto che sia io che lui eravamo giocatori appassionatissimi. Non nascondo che in quell’estate tifai più Inghilterra che Italia. Mi sentivo parte del gruppo”. E a Bari per l’assegnazione del terzo posto? “Robson mi disse, sorridendo: ora puoi tifare Italia. Gazza squalificato non giocò quella partita. Allora avrei scommesso che sarebbe diventato Pallone d’oro. Quando partiva in progressione, cambiava tre velocità. Ne parlavo spesso con Liam Brady, in Italia in veste di telecronista: Gascoigne era il più forte del mondiale. A Bari giocammo anche una partita a tennis, io lui, David Platt e John Barnes. C’era un pubblico che sembrava di essere al Roland Garros. Anche in Puglia Paul scappò dal ritiro, lo ritrovai completamente ciucco ad Alberobello”. L’Italia intanto batteva 2-1 una altrettanto delusa Inghilterra, Baggio lasciava il rigore a Schillaci, che si consolava diventando capocannoniere del torneo. “Con Bobby Robson ci scrivemmo qualche cartolina nei mesi successivi, mi invitò in Inghilterra. Mi rammarico di essere stato pigro e di non essere andato a Londra a trovarlo, poi col tempo purtroppo ci siamo persi di vista”.
· Eric Cantona.
Claudio De Carli per “il Giornale” il 14 ottobre 2019. «Il pallone è come una ragazza, prima le piace essere accarezzata, e poi violentemente sbattuta». Una cosa così può averla detta solo Eric Cantona, l' unico francese amato dagli inglesi. In molti sono convinti che la sua storia abbia ispirato la carriera di Quentin Tarantino, ma è molto più pulp, neanche il regista ha osato spingersi a tanto. Les Caillols è un sobborgo di Marsiglia, la città più multietnica del mondo in fuga da se stessa, e qui si sono innamorati Albert Cantona, sardo di Ozieri, vagabondo, un fegato spappolato in guerra, e Eleonore Raurich, figlia di rifugiati catalani. E qui è nato Eric il 24 maggio 1966, radici forti, al punto che girava la voce fosse venuto al mondo in una caverna. Solo perché nonna Lucienne era proprietaria di una cava, peraltro confiscata dall' esercito tedesco che ne fa un deposito di armi. Comunque papà Albert fa il tifo per l' Olympique Marsiglia, gioca in porta in una piccola squadra e obbliga i figli a fare altrettanto, tutti portieri, compreso Eric. Ma tutti e tre in porta sono troppi anche se Eric è il più bravo. Quando una sera arriva a Marsiglia l' Ajax di Johan Cruijff e rimane fulminato dal profeta del gol. Esce dai pali e diventa subito la grande promessa del calcio francese, una mattina Guy Roux, il santone dell' Auxerre, chiama Celestino Tico Oliver del Caillolais e chiede notizie: «Prendilo subito, questo diventa un campione». A 17 anni debutta in Ligue 1 al fianco di Andrej Szarmach contro il Nantes di Michel Platini, e inizia a dare segni di squilibrio, dicono, solo perché si sposa e annuncia le sue nozze con Isabelle a cerimonia già in archivio. Guy Roux chiama il padre: «Ma insomma, suo figlio vuole diventare un vero calciatore o no?». Riduttivo: «Il calcio è un' arte minore, io sono interessato alle arti maggiori, non sono un uomo, sono Eric Cantona». Lo aspettano in sette fuori dallo spogliatoio, quattro li manda all' ospedale, gli altri tre scappano dalla paura. Poi taglia la corda, si infila un cappello da contadino e gira la Francia in autostop con in tasca Lo spleen di Parigi di Charles Baudelaire.
Non è neppure il prologo. Il film inizia a ventun' anni nell' Auxerre, cazzotto in bocca al suo portiere, il 5 aprile 1988 in coppa di Francia all' improvviso salta e sferra un mawashigeri a Michel Der Zakarian del Nantes, e lo tramortisce. Prende a pallonate l' arbitro, gli danno due mesi, si presenta alla Disciplinare e, a uno a uno, si mette davanti ai membri e urla in faccia: «Idiota!». Finge di abbattersi e annuncia il suo ritiro solo per andare in Val D' Isiere a sciare ma mentre è sulla funivia si mette a urlare: «Sapete chi sono? Sono Cantona e ritorno a giocare!». È grande e grosso, gli altri sciatori si rifugiano tutti in un angolo della cabina terrorizzati: «È pazzo». A volte le prende anche, con lo United a Istanbul contro il Galatasaray insulta l' arbitro, viene cacciato, lo vuole picchiare invece un poliziotto nel tunnel lo gonfia come un canotto. Al Montpellier, durante una banale discussione nello spogliatoio improvvisamente volano parole pesanti, Jean Claude Lemoult commette l' errore di mettergli le mani addosso, gli arriva un calcio preciso al volto e si risveglia al pronto soccorso.
Altre ed eventuali, due memorabili. Bernard Tapie è uno degli uomini d' affari più potenti, ricchi e discussi di Francia, in giro non se ne parla bene, anzi. Ma lo sport è il volano perfetto per coronare le sue ambizioni politiche, prima mette in piedi una squadra di ciclismo e vince due Tour de France con Bernard Hinault e Grag Lemond poi nel 1986 compra l' Olympique Marsiglia e dopo gli acquisti di Jean Pierre Papin e Abedi Pelè, prende anche un giovanissimo Cantona. Succede che un brutto pomeriggio a Sedan, Eric viene sostituito e non la prende benissimo, scaglia il pallone in tribuna, si spoglia e getta a terra la maglia. Tapie chiama Cantona. Eric si presenta, davanti alla porta dell' ufficio del presidente ci sono le sue due guardie del corpo, lui si fa largo e la spalanca. Tapie è sorpreso, si alza, e lo affronta: «Vedi, quello che hai fatto non mi piace. Questa non è esattamente la mia idea del calcio, se ce ne sarà bisogno ti faccio ricoverare in una clinica psichiatrica», gli fa. Ma capisce subito che potrebbe finir male e cambia registro, apre il cassetto e tira fuori una mazzetta di franchi: «Ma ti perdono, ecco, questo è il tuo stipendio...». Eric neanche li conta, prima un destro al fegato, poi un sinistro alla mascella, Tapie vola dietro la scrivania. Eric lascia i franchi sparsi sul pavimento, apre la porta, le due bodygard fanno per fermarlo e lui: «Il principale ha chiesto di portargli un bicchiere d' acqua». L' altra è più nota, il colpo a Matthew Simmons, uno che sugli spalti del Selhurst Park del Crystal Palace non doveva starci, tifoso del Fulham, 25 gennaio 1995. Simmons è un ventenne di Thorton Heath, sud di Londra e non ha un passato limpido, è un estremista con precedenti, appena uscito da galera per aver menato un benzinaio cingalese. È un provocatore come Richard Shaw, il difensore del Palace che ha picchiato Cantona per tutta la gara fino alla sua espulsione per reazione. Quando passa davanti al seggiolino di Simmons diretto nello spogliatoio, questo si alza e inizia a urlargli «Francese di merda, torna al tuo Paese figlio di p...». Questa volta il colpo arriva a piedi giunti: «Nella lotta colpisci per primo». Se ne occupa Scotland Yard, arrestato, condannato e poi squalificato per otto mesi, sospeso dallo United con multa esagerata. Ma i Red Devils non possono fare a meno di lui, Alex Ferguson non può fare a meno di lui, neppure la Premier e le pene vengono commutate in 120 ore di servizi sociali, deve insegnare ai bambini come si gioca a pallone e come ci si comporta con compagni e avversari. Prima lezione, bambini in estasi e lui: «Oggi vi racconto un segreto. Ho un modo infallibile per calciare i rigori, la metto dentro». Adesso è King Eric: «Il 1966 è un grande anno per il football inglese, è nato Cantona». Sfogliare il palmares per capire cosa è stato, calciatore del secolo per lo United, e poi cosa è diventato, scrittore, poeta, pittore, attore, capopopolo, filosofo, profeta, provocatore sempre, non basta qualche calata di piombo per arrivarci. Gira un film dove interpreta se stesso, si sveglia di notte, scende nella hall nudo, si imbatte in una signora: «Tranquilla, è in modalità notte». Dice: «Non posso girare ruoli da santo, sarebbe da ipocrita». Non si fa mancare niente, adesso ha un contenzioso qui da noi con la Forestale, ha messo le mani su vecchie strutture alla periferia di Cuglieri, ritorno alle origini sarde. Lui le ha definite vecchie stalle, l' amministrazione parla di pregevoli edifici cinquecenteschi, Eric vuole costruirci il suo regno, il Museo Cantona. Sistemerà anche questa faccenda a modo suo? Un giorno gli hanno chiesto di spiegare la sua vita e lui: «Premier League, maglia dello United, pochi minuti al termine, pioggerellina, fango, tutto sta per finire e non sono ancora riuscito a dare il colpo sotto alla palla, tutti i tifosi vogliono il mio classico pallonetto a bavero alzato: Oh oh, ah ah, Cantona. Poi l' inaspettato, calcio di rigore, mi presento sul dischetto, quattro passi indietro, il portiere sa che farò la scucchiaiata, parto per tirare giù la porta, lui ci casca, palla morbida, lo scavalco, ma si ferma sulla riga nel fango, si tuffa e l' agguanta. Rigore sbagliato. Ma parte un applauso che muove i muri dell' Old Trafford. E se la mia palla si è fermata nel fango, è giusto così».
· Zlatan Ibrahimovic: La Furia.
Zlatan Ibrahimovic: «Solo la rabbia mi fa sentire vivo. E mi calma». Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Andrew Corsello su Corriere.it. Zlatan Ibrahimovic con la maglia dei Los Angeles Galaxy, squadra californiana di cui è capitano (foto Jessica Chou/New York Times/ContrastoUna mattina d’estate, Zlatan ha appena terminato l’allenamento: scatti, vomito e doccia (in quest’ordine). Il vomito, niente di nuovo. «Sento il bisogno di star male oggi», confessa al preparatore atletico dei L.A. Galaxy non appena mette piede negli impianti sportivi. Il tecnico ha imparato a conoscerlo: ci risiamo. «Ho bisogno di mettercela tutta», gli spiega Zlatan. «Quando sto male, sto bene». Commento istrionico e presuntuoso. Lo sa benissimo, lui, e sa anche che io lo so. Ma siccome lui è Zlatan, ecco che mi lancia un’ammiccatina piratesca prima di rimettersi al lavoro. «Te lo sei mancato per un pelo! Cinque minuti fa, non riuscivo nemmeno a respirare, stavo vomitando l’anima. Vedi? È così che sono abituato a lavorare: ce la metto tutta. Dico sempre: vediamo di spremere il massimo da questo corpo». Sembra funzionare: eccome. Ha 37 anni, questo ragazzo. Quando guardi Zlatan ti vengono in mente un’infinità di domande retoriche. Ti rendi conto che cosa significano 37 anni per un atleta professionista di qualsiasi specialità? Ma soprattutto per un calciatore e a maggior ragione per un centravanti? Sotto tutti i punti di vista, Zlatan dovrebbe essere già avviato sul viale del tramonto, passato alla storia come il John McEnroe del calcio: burlone, insolente, sbalorditivo, esasperante, elegante, irriverente, fantasioso, scanzonato, immortale. Ha subìto un grave infortunio al ginocchio destro mentre giocava per il Manchester United nella primavera del 2017. C’è poco da scherzare: per chiunque altro sarebbe stato “game over”, fine della carriera. Ma sai com’è Zlatan. E sai come sono andate le cose. Ma se non sei al corrente, allora due sono le possibilità: uno, non sei vissuto su questo pianeta. Due: di cognome fai Ibrahimovic. Nel mondo calcistico lo conoscono come “Ibra”, o semplicemente Zlatan. Il 29 marzo del 2019, Zlatan e il suo bulldog inglese hanno preso l’aereo dal suo Paese natale, la Svezia, diretti in California. Il giorno 30, dopo le presentazioni ai nuovi allenatori e ai compagni dei L.A. Galaxy, e dopo un allenamento di 20 minuti, il calciatore si è sottoposto agli accertamenti di rito. Il medico della squadra lo ha legato a una macchina e dopo aver studiato i referti gli ha detto quello che Zlatan già si aspettava di sentire: «Sei molto stanco, è meglio se non giochi domani». In termini statistici e analitici, Zlatan si colloca al terzo posto tra i più grandi giocatori dei nostri tempi, alle spalle di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo. Tutti e tre sono non soltanto dei grandissimi marcatori, ma anche dei grandissimi creatori di occasioni di gol, capaci di esaltare il gioco dei compagni di squadra. Il genio di Messi sta tutto raso terra: come un furetto scatenato, sa imbastire la sua strategia a base di balzi e guizzi fulminei dettati dal suo sonar innato. Il genio di Ronaldo si esprime invece nelle sue splendide evoluzioni aeree — favorite da un fisico da matador perfettamente equilibrato — e nel suo dribbling. In passato, anche nella sua fenomenale velocità. Il genio di Zlatan è quello del pirata, traboccante di spavalderia e decisioni perentorie, da nodo gordiano. Possiede una creatività sconfinata, un’allegra e fanciullesca (i suoi detrattori direbbero infantile) capacità di immaginare possibilità sovrumane nel suo gioco da apparire unico, non solo in questi nostri tempi, ma forse nell’intera storia calcistica. Ha segnato reti che si potrebbero descrivere come geniali e sublimi, certo, ma anche ridicole, assurde, demenziali, arroganti, puerili o semplicemente stupide. Zlatan Ibrahimovic si nutre di una filosofia di vita individualistica (io contro tutti) sin dalla sua adolescenza scapestrata trascorsa in Svezia. Nessuno era in grado di fermarlo allora; nessuno può fermarlo adesso. «Non sono venuto qui per quello che ho già fatto in passato», ha dichiarato Zlatan. «Sono qui per dimostrare chi sono. Sono qui per procurare». Procurare? Che termine bizzarro. Non del tutto sbagliato, ma nemmeno esatto. La prima volta che lo sento pronunciare questa parola, mi dico che il suo inglese, seppur di buon livello, non è impeccabile, e forse il giocatore non sa cogliere ancora le sottigliezze della lingua. Ma quando insiste, non solo a utilizzare questa parola, ma a ribadirla, capisco che Zlatan è consapevole delle connotazioni extra calcistiche del termine. Che coincidono con il suo pensiero: non è venuto a Los Angeles solo per segnare reti, ma anche per facilitare e procurare le giuste occasioni. «Sono in grado di vedere le cose prima che accadano, ne sono convinto», dice Zlatan. Ci sono tante cose di te che non capisco, gli rispondo, evasivo, e penso quanto è strano che un uomo dal fisico possente come il suo sia in grado di sfoggiare il gioco di piedi più agile e accurato che il mondo abbia mai visto. «Come quando ho segnato contro l’Inghilterra», continua lui. Stavo proprio per chiedertelo! «Lo vedi? Ho letto nel futuro. Adesso dimmi: quanti sono in grado di farlo?». E si risponde da solo: «Solo un matto!». Definire quale sia il miglior gol mai segnato di tutti i tempi sarà sempre oggetto di accesi dibattiti. Ma il tiro al volo più famoso è stato il suo, giusto? Il primo gol di Zlatan per il Galaxy è stato un miracolo da 41 metri che 99 calciatori su 100 non oserebbero non solo tentare, ma nemmeno immaginare. Malgrado tutto, però, quando Ibra parla di procurare, si riferisce a qualcosa di più grande e di più intangibile dei semplici gol. «Non sono venuto all’MLS perché sono Ibrahimovic», spiega Ibrahimovic. «Sono venuto per mostrare che cos’è il calcio. Sono venuto per far vedere agli Usa come so giocare io». Arrogante? Certo. Ma Zlatan passa dalle parole ai fatti. «Ho detto al Galaxy, firmiamo pure questo contratto, ma se non siete contenti di me tra un mese, sono pronto ad annullarlo e me ne vado». Una dichiarazione che può sembrare boriosa, se non fosse per un precedente. Quando, a seguito dell’infortunio al ginocchio, non è stato più in grado di segnare, Ibrahimovic si era offerto di rimborsare il Manchester United per le partite mancate. Alla fine, mi viene fatto di pensare che quello che Zlatan vuole procurare non è altro che “Zlatan” stesso - virgolettato, pienamente autoreferenziale - e tutto ciò che ne consegue. Non solo il suo gioco stupendo ma anche il suo gioco meno bello; la sua lunga storia di cartellini e squalifiche per aver sfogato la sua rabbia con pugni e calci contro avversari e compagni di squadra. Solo quando i tifosi abbracciano il pacchetto Zlatan tutto intero, con il bello e il brutto, solo allora possono capire la passione e la rabbia che il giocatore nutre per il calcio. Le settimane precedenti il nostro incontro, ai primi di giugno, avevano visto Zlatan in azione allo stato puro. A maggio, il brutto: gli sono state affibbiate due giornate di squalifica per aver agguantato per il collo Sean Johnson, il portiere dell’NYCFC. («Ah! Quel pagliaccio si è buttato a terra, ha fatto finta di svenire, e io gli ho detto “aspetta che chiamo l’ambulanza, mi sembri in fin di vita!”. Poi Johnson manda una foto all’MLS per mostrare un graffio sul collo! Senti, io ho fatto 800 partite. Ho giocato contro animali che volevano spezzarmi le gambe. Ma quello che succede nella partita resta nella partita. In Europa, se uno si permette di inviare la foto di un graffio sul collo se lo mangiano vivo».) Poi, il 2 giugno, il bello: nella sconfitta a sorpresa per 2 a 1 contro i New England Revolution, Ibra ha realizzato uno dei gol più pazzi-stupidi-geniali della sua carriera. «Non abbiamo pensato “siamo 11 contro 11”. Non era quel tipo di partita», ha commentato. «Era piuttosto una gara individuale. Voler dimostrare di essere il migliore. Non era “io corro verso di te e tu mi passi la palla”. No. Era “io corro dove va la palla perché voglio prendertela”. Perciò mi stavano sempre addosso: “Sei un giocatore viziato. Vuoi fare la primadonna. Non si gioca così”». Una testa di leone ruggente, un pesce, una piuma, simboli buddisti, un uomo vitruviano: c’è questo e molto altro nel tatuaggio che ricopre tutta la schiena di Zlatan Ibrahimovic. Il calciatore ha postato su Instagram la foto dell’opera completa lo scorso anno. Ottenendo quasi 38 milioni di like. Tutti addosso, sempre Appunto. Persino dopo aver fatto il suo ingresso nel club ufficiale della sua città natale, a 17 anni, i genitori di uno dei suoi compagni di squadra avevano chiesto che fosse cacciato via dalla lega. «In quel momento mi sono detto, “adesso distruggo tutti. Non avrò più rispetto per nessuno”. Ai loro occhi non avevo nessun talento, ero uno stronzetto del Rosengard». Una domanda inevitabile: ma il giovane Zlatan si divertiva a giocare a calcio? «Competizione pura, fin dall’inizio», confessa Zlatan. «O eri il numero uno o non eri nessuno». E adesso ti diverti? «Lo guardo e mi faccio sempre quella domanda», commenta Jovan Kirovski, direttore tecnico dei L.A. Galaxy. «Per conto mio, il calcio mi piace ancora tanto e per questo continuo a giocare. Anch’io sono competitivo e anch’io voglio vincere. Ma quando guardo Zlatan, quando osservo l’intensità totale del suo allenamento, la sua incredibile concentrazione, mi chiedo se si è mai divertito in campo. E sono convinto che se non segna e non vince, lui no, non si diverte». Se avete seguito la lunga e gloriosa carriera di Ibra, la sua marcia trionfale da Malmö all’Ajax, alla Juventus, all’Inter, al Barcellona (l’unico club dove non ha funzionato, a causa degli scontri titanici con l’allenatore Pep Guardiola), e poi al Milan, al Paris St.-Germain, al Manchester United, è difficile immaginare, per quanto esuberante e spiritoso sappia essere nella sua vita privata, che Zlatan non riesca a divertirsi quando scende in campo. Quando segna una delle sue reti pazzesche si avverte la sua gioia, sì, ma è una gioia che scaturisce da una certa qual soddisfazione feroce, la rivincita del gladiatore. Ecco. Così si fa. Adesso mi credete? È sotto i vostri occhi. Basta scorrere una qualunque delle innumerevoli raccolte dei gol più celebri di Zlatan messe in Internet dai suoi fan e confrontarla a quelle dei suoi contemporanei, come Messi, Ronaldo e Gareth Bale. Costoro sembrano inevitabilmente stupefatti, al pari dei tifosi, davanti alla loro impresa. Restano sbalorditi, si mostrano pazzi di gioia, invasati. Ibra è diverso. L’esultanza fanciullesca, benché presente, passa in secondo piano. È interessante notare che nella sua lista di atleti cosiddetti trascendentali — cioè quegli atleti che, a suo avviso, non si limitano a praticare uno sport, ma lo incarnano — è annoverato Mike Tyson. Perché lo sguardo di Ibra, dopo molti dei suoi gol più inauditi, tradisce la smorfia misteriosa di una rivincita senza gioia. È tanto più enigmatica, la sua reazione, quanto più Ibra sa rivelarsi una persona piacevolissima, lontano dal campo. A un certo punto, mentre parliamo della sua giornata, gli chiedo se sogna mai di giocare a calcio. «Sognare? No, non ho bisogno di sognare. Quando ero giovane, sognavo. Adesso ci sono dentro, nel sogno. Adesso sono io il sogno». Quando Ibra scherza con l’intervistatore si avverte una totale assenza di malizia. Non c’è insofferenza nelle sue battute spiritose, nessun sospetto che reciti un copione a caso, magari per noia. Ai suoi occhi, il ruolo di “Ibra” è quello di essere gradevole e divertente. Non posso fare a meno di chiedermi se Zlatan punta consapevolmente a trasmettere questa impressione proprio perché il divertimento, quando scende in campo, non fa più parte dell’equazione. Là, tutto ruota attorno alla rabbia e al senso di rivalsa (nei confronti degli avversari, degli arbitri e perfino dei compagni di squadra, certo, ma soprattutto verso se stesso). «Giochi bene quando sei arrabbiato?», gli chiedo. «YESsssss!», mi risponde Ibra, lentamente, sibilando le “s” quasi a ribadire i sentimenti che lo agitano. «È solo allora che riesco ad ottenere il meglio da me stesso. È così che mi sento vivo». «Ci sono atleti che si lasciano corrodere dalla rabbia. Non Zlatan», dice Zlatan. «Ho bisogno di provare rabbia per sentirmi vivo. Quando mi rilasso, quando gioco senza rabbia? Il mio gioco diventa sciatto, a volte ho paura addirittura di cedere alla violenza». Una rivelazione a dir poco sorprendente: che in mancanza della rabbia, e della concentrazione che ne deriva, Zlatan tema addirittura di lasciarsi andare all’irascibilità e alla meschinità, e che questo possa portare a sua volta a un gioco scorretto, a scontri violenti e a cartellini rossi. «Quando provo rabbia, invece, sono estremamente vigile». Trovi energia nella rabbia? «Yessssss. Quando provo rabbia, sono consapevole delle minime cose che mi circondano. Ma se pensi che la rabbia possa spingermi a far del male deliberatamente a qualcuno? Questo mai. Non fa parte del mio Dna». (Il calciatore Nedum Onuoha del Real Salt Lake potrebbe dissentire. Quando Zlatan lo ha spintonato a terra durante la partita vinta dal Galaxy per 2 a 1 questa primavera, Onuoha ha definito il suo avversario «un vero e proprio teppista» e ha previsto «che avrebbe tirato fuori la solita storia della sua competitività, che è qui che trova lo stimolo per essere il migliore di tutti i tempi. È così che funziona. Non voglio insinuare che i giocatori più bravi dell’MLS ottengono un trattamento di favore, ma da quello che ho visto finora, è molto più facile essere Zlatan che l’attaccante del Real Salt Lake») . «Non ti nascondo che di tutti i posti dove sono stato durante la mia vita professionale, questo è il più difficile». Zlatan dice che il gioco americano deve continuare a migliorare. «L’MLS non è a livello europeo, per dirla tutta. In passato, ho giocato con calciatori che erano o al mio livello, o ci si avvicinavano di molto. E questo indubbiamente favorisce il gioco di squadra. Qui, ho la sensazione di essere una Ferrari tra tante Fiat. E può anche capitare che la Ferrari diventi una Fiat, o che la Fiat diventi una Ferrari. Ho avuto lo stesso problema con la squadra nazionale (svedese), ma non a questi livelli. Ho detto: non lo accetto, non accetto che la palla non mi arrivi o mi arrivi troppo tardi, voglio che i miei compagni di squadra raggiungano il mio livello. Tutto questo mi costringe a rallentare un po’. Il gioco qui in America potrebbe essere molto più veloce, molto più tattico, molto più ritmico». E poi ci sono i rimpianti. È sorprendente che, pur avendo vinto ovunque sia stato, e nonostante la sua ininterrotta capacità di segnare, Zlatan non sia riuscito a portare il Galaxy ai play-off l’anno scorso (e che la squadra non risulti neppure in vetta alle classifiche nella sua stessa città). L’insuccesso gli brucia, e non solo la mancata qualificazione, ma la stessa “mentalità da play-off”. «Qui, puoi perdere cinque partite e tutti ti dicono “non ti preoccupare, siamo nei play-off”. Allora perché giocare per i primi otto mesi del campionato? No, non lo accetto. Se vogliamo essere i migliori, bisogna esserlo ogni giorno. In Europa, se arrivi ultimo in classifica vai in serie B. Questa è la pressione che ti senti addosso... L’anno scorso, abbiamo lottato per arrivare in sesta posizione e accedere ai play-off, ma siamo arrivati settimi. Se fossimo arrivati sesti, i tifosi ci avrebbero felicitato per la “grande stagione”. Io dico invece: dobbiamo lottare per la sesta posizione? Vuol dire che abbiamo fatto un campionato di merda!” Bisogna lottare per arrivare primi, non sesti». Quando, inevitabilmente, affrontiamo la storia del suo infortunio, Zlatan si apre con totale sincerità e umiltà. «Non è stato facile», ammette con un sussurro, quasi che dirlo ad alta voce possa ancora compromettere la sua capacità di giocare. Che effetto potrebbe avere su un uomo come lui, se la sua rabbia non trovasse più appiglio in campo? «Non è stato facile», ripete. Dopo un attimo di esitazione, racconta che la sera prima aveva guardato la finale dell’NBA. «Ma quando Kevin Durant si è infortunato, ho spento la tv. Perché per me è il migliore. La partita è lui. Quando si è fatto male, non c’era più niente da vedere». Oppure, forse, Zlatan non è riuscito a guardare un grandissimo giocatore come lui, con già alle spalle la parte migliore della sua carriera, che si infortunava in campo e avrebbe dovuto affrontare un recupero lungo e doloroso. «Sento che il mio corpo ha sempre fatto quello che gli ho chiesto. Sento che mi risponde ancora oggi. Quando smetterà di rispondermi, allora saprò con certezza che è arrivato il momento di farmi da parte». Ma se la passione è lo stimolo della sua eccellenza all’età di 37 anni, quella stessa passione gli impedirà sicuramente di abbandonare il calcio. «Certo, sarà molto difficile smettere. Quando mi sono infortunato, ho dovuto lasciare la famiglia per dedicarmi alla riabilitazione. Non volevo farmi vedere bloccato a letto, incapace di muovermi. Sono così emotivo quando gioco. Ma la mia è un’emotività controllata. Non mi butterò sotto un’auto se non potrò più giocare a calcio, è chiaro?». Mi siedo per un attimo. Ripensando a Zlatan e alla sua rabbia, mi chiedo dove trova gioia e serenità nella vita. Poi mi torna in mente una storia che mi ha raccontato Brendan Hannan, il vicepresidente di marketing, comunicazioni e operazioni digitali del Galaxy. Hannan parlava della grandissima disponibilità dimostrata da Zlatan a Los Angeles, sia verso i tifosi che venivano agli allenamenti a caccia di foto e autografi, sia verso tutti coloro che lavoravano nelle promozioni della squadra. Poco dopo il suo arrivo al club, Ibra aveva accettato di girare una pubblicità con Mickey Mouse. «Ibra era appena arrivato», ricorda Hannan. «Non giocava da mesi e nessuno sapeva in che condizioni fosse il suo ginocchio. Alcuni dubitavano che avrebbe segnato più di dieci reti e c’era chi pensava che non avrebbe nemmeno mai giocato». Ragion per cui tutto il personale del Galaxy restò impietrito quando Zlatan si mise a calciare un pallone con Mickey Mouse e, a sentire Hannan, cominciò «a fare cose strane». Come palleggiare, fare il tunnel, lanciare la palla a dieci metri di altezza e poi mettersi in posizione limbo con le gambe piegate all’indietro, il torace rivolto verso il cielo per bloccare la palla — senza rimbalzo — per poi inarcare la schiena e far schizzare la palla un metro in aria. Zlatan recitava Zlatan senza risparmiarsi. Santo cielo, ma perché? «Volevo solo far divertire Mickey Mouse. Ma quello non reagiva!» protesta Zlatan. «Sbatteva le palpebre. Allora continuavo a fare acrobazie e a chiedergli: ti piace, Mickey? Ma lui non mi rispondeva e sbatteva le palpebre. E io pensavo: ok, proviamo questo, e questo, e questo». Non è normale, osservo. «Sono io che non sono normale», ammette Zlatan. Poi mi sussurra: «Il calcio è uno sport bellissimo, non credi?». Traduzione di Rita Baldassarre.
Inizio carriera. Nato il 3 ottobre 1981 a Malmö, nella Svezia meridionale, da genitori immigrati dai Balcani, Zlatan Ibrahimovic ha giocato con Malmö, Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, Paris Saint Germain e Manchester United.
Le origini: odio-amore - Figlio di emigranti dai Balcani, Zlatan Ibrahimovich, classe 1981, ha sempre avuto un rapporto di amore-odio con il suo Paese natio, la Svezia. Nella sua biografia ha raccontato: «Se mi fossi chiamato Svenson avrei avuto qualche possibilità in più. Però riconosco che mi ha stimolato molto, dovevo essere dieci volte migliore degli altri per raggiungere gli stessi traguardi. Essere discriminato mi ha portato a lavorare come un matto».
La carriera e le critiche - Dopo Malmö, Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, Paris Saint Germain, nel 2016 approda in Premier League, al Manchester United di Mourinho. Alle critiche risponde: «Sono stati fortunati che non sono arrivato dieci anni prima, immaginate cosa avrei potuto fare a 25 anni. C’è chi ha detto che sono su una sedia a rotelle: li ho messi tutti a sedere su una sedia a rotelle»
· Maldini Family.
Cesare, Paolo, Daniel Le tre generazioni di Maldini con la maglia rossonera. Pubblicato venerdì, 26 luglio 2019 da Arianna Ravelli su Corriere.it. Era il 1954, il primo anno del calcio in tv, a San Siro erano in corso i lavori per il secondo ampliamento. In una partita contro il Venezia all’Arena Civica, Tognon e Pedroni, titolari del Milan, si fecero male. Entrò Cesare Maldini, appena arrivato dalla Triestina di Nereo Rocco; ruolo, spiegò lui anni dopo, «centromediano». Non uscì più. Esordio ufficiale poco dopo, il 19 settembre, a San Siro, proprio contro la Triestina. A volte la vita. Era il 1985, l’anno della nevicata epocale, a Milano è appena crollato il Palazzetto dello sport. Il 20 gennaio anche a Udine c’è tanta neve, ma gli spalatori fanno un miracolo e rendono il campo praticabile per la gara con il Milan. Mauro Tassotti è a casa indisposto, Sergio Battistini si fa male, così Liedholm nella ripresa fa esordire Paolo Cesare Maldini, non prima di chiedergli su che fascia preferiva giocare. «Dove vuole lei mister». Quella volta fu terzino destro, per 25 stagioni è stato più spesso a sinistra, e poi al centro della difesa. Quella domenica Cesare è a San Siro a vedere Inter-Atalanta da vice del c.t. Bearzot e sa dalla radio dell’esordio del figlio: «L’ho scoperto così, non ho mai voluto dir nulla a Liddas (il nomignolo di Liedholm) e lo stesso lui a me, del resto eravamo compagni di squadra», ha poi raccontato Cesare. È l’estate, torrida, del 2019. A Milano si discute dell’abbattimento di San Siro e della costruzione di uno stadio tutto nuovo. Dall’altra parte dell’Oceano, a Kansas City, il Milan gioca la sua prima gara della tournée americana contro il Bayern Monaco, versione aggiornata delle partite all’Arena Civica. Suso è infortunato, il mercato tra entrate e uscite è in alto mare, così Giampaolo schiera Daniel Maldini titolare dal 1’: trequartista, perché qualcosa di diverso nel passare delle generazioni c’è. A Milano sono le tre del mattino, Paolo, che di quel Milan ora è dirigente ed è rimasto a casa proprio per gestirne il mercato, questa volta l’avrà saputo per tempo e avrà messo la sveglia. Di certo, la mamma di Daniel, Adriana Fossa, ha postato il suo orgoglio su Instagram. Poi, una telefonata a Daniel. Che questo, scritto il 24 luglio 2019 nella brezza di Kansas City, sia l’incipit del terzo capitolo della saga dei Maldini — che nelle prime due ha avuto come scena finale una grande Coppa alzata al cielo (1963 la prima di Cesare e dell’Italia, 2003 la prima di Paolo da capitano che ne ha vinte cinque) — è naturalmente tutto da vedere. Come sa meglio di tutti Paolo, e per lezione diretta appresa da Cesare. In famiglia raccontano che la sorella maggiore Donatella avesse fotografato Paolo con una maglia granata che colpiva il pallone durante un torneo alle elementari. E che quella foto stesse vicino alla porta della camera da letto dei suoi genitori, Cesare e Marisa. Postura inequivocabile, ma pare che Cesare sia stato l’ultimo a vedere l’evidente. «Ma ti sei accorto che Paolo sembra fatto per giocare a calcio?», gli dicono in famiglia. «Non è che non lo avesse capito — racconterà anni dopo Paolo a Federico Buffa — è che sapeva benissimo quanto è lunga la strada per diventare un giocatore, sapeva benissimo che il talento non basta e quanto lavoro e sacrifici servano». Quando Paolo esordisce, il massimo che Cesare gli concesse fu di saltare il lunedì di scuola. Ora Paolo, che è stato un padre più presente (per circostanze: ha lavorato sempre a Milano, e spirito del tempo) ha lo stesso atteggiamento con i suoi figli. Il primo, Christian, 22 anni, anche lui difensore, cresciuto nel vivaio del Milan, al momento gioca nel Fano in C. Daniel compirà 18 anni l’11 ottobre, frequenta il liceo scientifico-sportivo e dopo l’esordio in prima squadra dell’altro giorno, nessuno in famiglia vuole aggiungergli pressioni. «A me rinfacciarono che giocavo solo grazie al cognome. Per loro sarà peggio — preconizzava tempo fa Paolo —: al suo primo allenamento, Christian era circondato dalle telecamere. Io preferisco mettermi in disparte, come faceva mio padre con me». Però da tempo a Milanello c’è gente che si dà di gomito quando si nomina Daniel Maldini, per esempio il vecchio compagno di squadra del padre e per anni responsabile del settore giovanile Filippo Galli: «Daniel è il classico giocatore di talento, che anticipa le giocate e vede calcio prima degli altri. Quand’era più piccolo mancava un po’ di continuità ma ci ha lavorato sopra». In campo certe somiglianze sono impossibili da non vedere. Stessa eleganza, stessa schiena dritta un po’ in avanti, stesse movenze del padre. E del nonno. «Io non ho mai visto giocare mio padre — ha raccontato sempre Paolo — però non c’è dubbio che l’estetica, la ricerca del bello l’ho presa da lui. Christian e Daniel hanno nel fisico e nel modo di camminare qualcosa di mio: da bambino ho preso tante distorsioni perché ho i piedi che curvano verso l’interno». Particolari. Difficile trovare un’altra dinastia come i Maldini. Sarà perché l’Italia è sì il Paese delle famiglie, ma nello sport vincono solo i meriti. Tre generazioni di sportivi le vantano gli Andretti (nonno Mario, figli Michael e Jeff, nipoti John e Marco), leggende del motorsport, o gli Earnhardts, famosissima famiglia in Usa di campioni della Nascar, i Colemans nel baseball. «È bella, la storia dei Maldini dinastia di calciatori, ma io sono davvero contento quando i miei figli fanno qualcosa di cui essere orgogliosi fuori dal campo».
· Fiorentina, ecco Ribery.
Fiorentina, ecco Ribery: la stella viola segnata da cicatrici, abbandoni, gol e vittorie a raffica. Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 su Corriere.it. Le sue prime parole in terra Toscana hanno subito suscitato il boato dei tifosi: «Mi manda Luca Toni». E quale referenza migliore per il colpo mondiale della Fiorentina che ha un nome e un cognome conosciuto ovunque: Frank Ribery. Un talento indiscusso, nonostante i suoi 36 anni. Vincenzo Montella dovrà ringraziare la bella moglie del francese, Wahiba Belhami, che ama l’Italia e ha convinto il marito ad accettare l’offerta dei viola per potersi trasferire nella bellissima Firenze. Una situazione non nuova, visto che nel 2001 Veronique Zidane impose al marito Zizou il trasferimento al Real, dando l’addio alla Juventus, perché attratta dal fascino di Madrid. La nuova avventura di Ribery sta per decollare, dopo 12 stagioni al Bayern Monaco (425 presenze, 124 gol) e 24 trofei, tra i quali la Champions del 2013 vinta contro il Borussia Dortmund, in una finale tutta tedesca, di Jurgen Klopp. L’esterno francese vivrà in Toscana una meritata seconda giovinezza senza dover dimostrare nulla a nessuno. Per anni il suo talento e la sua bravura sono passati in secondo piano perché anche quando è diventato un top player era pur sempre un uomo segnato dalle cicatrici sul viso per via di un incidente in auto all’età di due anni. Una che va dalla tempia al mento e l’altra, altrettanto evidente, parallela alle sopracciglia. I segni distintivi di Ribery, prima ancora dei suoi scatti, dei suoi dribbling, delle sue finte e dei suoi gol. Plasmato dal Marsiglia, l’attaccante si è consacrato in Bundesliga: con la maglia del Bayern è diventato una stella, riuscendo a dimenticare la delusione per la finale mondiale persa a Berlino, nel 2006, contro l’Italia di Marcello Lippi. Pazzo del calcio e della sua famiglia (ha 4 figli: Hizya, Shahinez, Seif e Mohammed), Ribery ha avuto una forza di volontà fuori dal comune: «Senza il pallone sarebbe stata dura davvero», ha ammesso qualche anno fa, raccontando la sua infanzia a Boulogne-sur-Mer, proletaria cittadina marinara, e le insidie di Chemin Vert, quartiere popolare. «La sofferenza mi ha fatto rinascere. Con quella cicatrice da bambino non è stato per niente facile, ma mi ha dato forza, speranza. Mi ha permesso di diventare il calciatore che sono. Sì, la cicatrice mi ha fatto sognare. La gente quando uscivo mi guardava sempre. E non perché ero una brava persona o per le mie qualità a giocare a calcio, ma semplicemente per quelle cicatrici. Mi sentivo giudicato. Oppresso. Magari piangevo, certo, ma non andavo mai all’angolo. Soffrivo da matti, sì, ma diventavo ogni giorno più forte. Ma una cosa è certa: non mi farò mai un lifting. Le cicatrici sono parte di me», ha aggiunto. Anche se le cicatrici sono stati il dolore minore di Frank, abbandonato appena nato dai suoi genitori biologici in un convento di suore. Il calcio è stata la sua resurrezione, la moglie Wahiba la sua certezza. Firenze sarà, probabilmente, la sua ultima avventura.
Fiorentina, Ribery: «Dopo il k.o. con il Genoa mi sono allenato fino alle 4». Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessandro Bocci, inviato a Firenze. «Ho giocato con Zidane, Henry e Thuram che mi dicevano “il calcio va troppo veloce, cerca di godertelo”. Ai giovani voglio insegnare tutto». Come sul prato verde. Franck Ribéry affronta con animo lieve e l’autorevolezza del campione la prima intervista italiana dentro il centro sportivo della Fiorentina. Quaranta minuti in cui racconta se stesso e il rapporto con il calcio che ama come la sua vita e che lo ha spinto, a trentasei anni, a raccogliere una nuova sfida, colorata di viola, diversa dalle altre, ma egualmente intrigante. «Quando ho accettato di venire a Firenze, non potevo sapere che sarebbe stato amore a prima vista. E invece è stato così, sin dalla sera della presentazione. Quella notte è stata speciale e la porterò sempre con me». Amore totale e incondizionato. E l’impatto si è rivelato formidabile. Lo stadio scandisce il suo nome,la Lega lo ha premiato come miglior giocatore di settembre. Franck, rigorosamente in italiano, confessa le sue speranze e anche le difficoltà. «Perché ho vissuto un’estate diversa dal solito. Non mi era mai capitato di allenarmi da solo, ed è brutto. Il calcio è gioia e condivisione. Un conto è lavorare insieme ai compagni, un altro farlo a casa con un preparatore».
Perché la Fiorentina? È stata davvero sua moglie a orientare la scelta?
«Non proprio. Avevo altri contatti, in Inghilterra e anche in Italia. Ma con i dirigenti viola è scoccata la scintilla. Parlando con Pradè e Barone, anche con l’allenatore Montella, ho sentito calore e fiducia nei miei confronti. E allora Wahiba mi ha detto: andremo a Firenze. Ora sono qui e sono felice».
Anche Toni, suo compagno al Bayern Monaco, ha avuto un peso nella scelta...
«Luca è un amico e le sue parole sono servite. Mi ha raccontato la città, spiegato le dinamiche del club e la passione dei tifosi».
Come si vive il passaggio dal super Bayern alla Fiorentina?
«Sono venuto con la stessa determinazione che avevo in Germania. Firenze mi ricorda Marsiglia. La mentalità dei tifosi è la stessa, sono caldi e passionali. La gente qui vive per il calcio e mi spinge a dare l’anima per la squadra. Noi senza di loro siamo niente. La Fiorentina è un grande club con una grande storia ed è come una famiglia».
Ha fatto in fretta a ritrovare la condizione.
«All’inizio ho dovuto lavorare duro, ma già alla terza giornata contro la Juventus mi sentivo meglio. Gioco con il cuore e in campo metto tutto quello che ho».
Non solo Firenze l’ha accolta bene, ma tutto il calcio italiano. I tifosi del Milan a San Siro si sono alzati in piedi per applaudirla.
«È vero e conferma la bontà della scelta che ho fatto. La serie A è un buon campionato, conosciuto nel mondo. Juve e Inter sono fortissime, anche Roma e Lazio mi piacciono e il Napoli è cresciuto nel tempo».
Non tutto fila liscio, però. Il razzismo e le intolleranze sono un bel problema.
«Preferisco guardare il lato bello, per esempio la passione dei tifosi che ti applaudono quando entri in campo per il riscaldamento. C’è tanta gente sana che apprezza lo spettacolo. Questo è importante. Ho giocato con Zidane, Henry e Thuram che mi dicevano “il calcio va troppo veloce, cerca di godertelo”. Avevano ragione. Ora lo capisco meglio. Il razzismo, invece, non lo capisco perché siamo tutti uguali: bianchi, neri. Siamo esseri umani».
E sul campo che differenze ha trovato?
«Ho giocato 12 anni in Germania dove si corre sino al novantesimo qualunque sia il risultato. Qui si lavora sulla tattica e c’è molta strategia, come in Francia. Bello, così posso sperimentare una cosa nuova».
Rispetto a quando ha cominciato, come è cambiato il calcio?
«Le nuove generazioni sono differenti. Noi pensavamo a divertirci e a imparare, non certo ai soldi. Ora la vita è diversa, i ragazzi hanno altri problemi e priorità: le macchine, gli sponsor. Troppe cose per cui rischiano di rovinarsi».
È per questo che parla molto con i giovani, almeno in campo.
«Lo faccio anche fuori. Vorrei aiutarli. Mi piace perché mi ascoltano. Vedono come lavoro, come mi alleno, anche come mangio. Ho vinto tutto nella mia carriera e loro prendono esempio da me».
Cosa pensa di potergli trasmettere?
«La mentalità. Io non ci sto mai a perdere, se succede mi arrabbio. Bisogna pensare a vincere, sempre. Non è facile, anzi è impossibile. Ma bisogna provarci. Io lo faccio persino nelle partitelle di allenamento».
Anche al Bayern era un punto di riferimento.
«Lo eravamo in tre o quattro. Mi piace questo ruolo. Ho conosciuto Alaba che aveva 16 anni, lo portavo a casa mia a pranzo e lo incoraggiavo. Un giorno ha visto la mia Ferrari e il mio orologio al polso. Gli ho risposto di non guardarli e di pensare solo a migliorare e di concentrarsi sul campo. Dopo, e solo dopo, sarebbe arrivato il resto. Alaba ce l’ha fatta e ora mi ringrazia. Qui parlo tanto con Chiesa e Castrovilli, sono ragazzi in gamba e vogliamo crescere tutti insieme».
A lei chi ha trasmesso la mentalità giusta?
«Al Mondiale 2006 stavo spesso con Zidane e ho capito come si comporta un campione e cosa bisogna fare per esserlo. Zizou è stato un esempio».
Qual è la lezione che le ha insegnato il calcio?
«Che un giocatore solo, anche il più bravo, non vince. Il gruppo è la forza di una squadra».
È vero che dopo aver perso con il Genoa è venuto di notte a allenarsi al centro sportivo?
«L’ho fatto perché ero arrabbiato e dovevo sfogarmi. Sono rimasto sino alle 4.30: corsa e cyclette ascoltando la musica. Così poi sono andato a letto e ho dormito. Il messaggio per i compagni deve essere chiaro: vincere e ancora vincere. Bisogna arrivare alle partite con lo stato d’animo giusto, sapendo di averle preparate bene».
Come si trova con Montella?
«È bravo e conosce bene il calcio. Quello dell’allenatore è un mestiere duro perché sono sempre sotto pressione e quando non arrivano i risultati vivono male. All’inizio abbiamo perso due partite e non è stato semplice».
Lei è un po’ l’allenatore in campo...
«Mi sento di poter assumere questo ruolo e credo sia importante anche per Vincenzo. Così posso aiutarlo».
Chi è stato quello che ha più inciso nella sua carriera?
«Senza dubbio Jupp Heynckes, un tecnico preparato e una persona come si deve. Con lui e il suo staff funzionava tutto a meraviglia».
Dove può arrivare la Fiorentina?
«Dobbiamo pensare partita dopo partita. Ma sono convinto che possiamo fare una bella stagione. Le vittorie di questo ultimo periodo ci aiuteranno, permettendoci di lavorare con più serenità».
Lei ha giocato in tanti grandi stadi, i più belli del mondo. Quale le è piaciuto di più?
«San Siro che mi ha applaudito...». Ride.
Anche Firenze vuole lo stadio nuovo.
«Non è una missione facile, ma sarebbe importante e aiuterebbe il club a espandersi. Mi piacerebbe giocare nel nuovo impianto...».
Ma sino a che età vuole continuare?
«Non lo so. Intanto due anni vanno bene, poi vediamo. Sono venuto qui perché ho fame e voglio riuscire a vincere qualcosa. Ma il futuro non si può prevedere».
Che impressione le ha fatto il presidente Commisso?
«Lui e Joe (Barone ndr), sono persone sincere. E non false. Persone con un grande cuore. Per me è importante. Gente vera. E anche io sono vero».
E quando deciderà che è l’ora di smettere, vuole restare nel calcio?
«Mi piacerebbe, vorrei lavorare con i giocatori, aiutarli». In quel momento entra nella stanza Daniele Pradè, lo abbraccia e gli stringe la mano: «Affare fatto Franck, sarai il mio nuovo mister». Ridono tutti. Ribéry è un uomo felice. E realizzato.
· Gabriel Batistuta.
Enrico Sisti per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 ottobre 2019. ( Ri) scoprendo Batistuta con " El numero nueve" di Pablo Benedetti che visto ieri alla Festa del Cinema nell' ambito di " Alice nella città" troviamo analogie con certi capolavori e con la natura contraddittoria dei loro artefici: «Un giorno dissi che il calcio non mi piaceva ed era vero», dice l' ex campione viola e giallorosso nell' ouverture di questa sinfonia d' autunno. Agassi vomitava insulti a squarciagola contro chi lo obbligava a sottoporsi a dosi di tennis inaccettabili per chiunque, Simenon disprezzava certe sue pagine sublimi, Picasso rinnegò il suo periodo blu come Schoenberg la sua fase tonale. Poi per fortuna il 50enne " Re Leone" precisa: «Alla fine il calcio è diventata la mia passione». Una passione devastante e dai costi elevatissimi: «Per il calcio mi sono rovinato la salute». Non è un caso che il documentario (ma è parola riduttiva) su uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio, uno che vedeva la porta anche bendato, che sapeva calciare di destro come pochi al mondo, da fermo, in velocità, pressato da un lato, schiacciato dalla fatica, o di testa anche se lo avessero agganciato a un molo con cinque funi, cominci non con un' azione, una rete, e nemmeno con un sorriso: ma con una lastra e una diagnosi pronunciata tra sguardi preoccupati: « Questo danno sarà permanente ed è iniziato almeno quindici anni fa». Gabriel Batistuta: un maestro di antichità e di modernità. Uno che ha sacrificato la vita a lungo termine per migliorarsi la vita sullo stretto: un dribbling in cui il cuore ha prevalso sul ragionamento. Il suo modo di stare al mondo combaciava col suo modo di concepire il ruolo di punta centrale: una vocazione disperante per ottenere il massimo e con una qualità di gesti continua, semplicemente spaventosa. È stato lui, nelle fasi più calde ed emozionanti della sua formidabile carriera, a stabilire un punto di contatto fra il centravanti tradizionale e il centravanti di manovra tipico degli anni in cui si sarebbe arrivati a produrre il cosiddetto " falso nueve". Fu lui, soprattutto nella Roma di Capello, ad aggiornare il manuale delle istruzioni sino a trascinare allo scudetto una squadra disavvezza alla vittorie. Ma il film non è questo. E non può esserlo. C' è un dolore là in fondo. Quel che conta in queste immagini è la crepuscolare accettazione del " dopo": « I primi anni in Italia sono stati duri, non ero certo che ce l' avrei fatta » , dice alla moglie, « e ora posso dire di aver vissuto grazie a te e ai ragazzi». Un "dopo" dal profilo straziante che le immagini confermano: il primo impatto con un campo di calcio giunge con l'" Artemio Franchi" vuoto. Non c' è sudore, non ci sono spettatori, non c' è nemmeno un pallone: soltanto un rullo che lavora la superficie verde. Il calcio fa male. Dona gioie assurde che si sbriciolano e sono le briciole quelle che restano. Bisogna essere forti domani, non oggi. Questo è il messaggio di Batistuta, fantastico calciatore dalle cartilagini svanite. Il racconto si chiude come si era aperto: dopo mille meraviglie (se dovessimo sceglierne due: la rete a Wembley contro l' Arsenal nel '99 e la seconda contro il Parma nel 2001) il cerchio si stringe e così l' inquadratura. Chirurgia, tutore alla caviglia, stampella. Futuro senza più bugie o inganni. La primavera è finita. Felici di averti applaudito.
Le caviglie a pezzi, l’idea di amputare: i gol pagati cari di Gabriel Batistuta. Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it da Paolo Baldini. Ha entusiasmato Firenze e portato uno scudetto alla Roma. Ora rivela: «Quando ho smesso non c’era più cartilagine: osso contro osso. Spesso non riuscivo a scendere dal letto». Gabriel Omar Batistuta, 50anni, detto Batigol e Re Leone, tra i 5 migliori attaccanti al mondo quando era in attività, in Italia ha giocato per Fiorentina, Roma e Inter. Sposato da quasi 30anni con Irina, ha 4 figli (foto Alberto Conti)«Sto bene, sì». Quando la favola sfuma nel dramma il Re Leone sa come piazzare la palla: «Sì, ora sto bene». Dice che il calcio gli ha regalato tanto. Più di quanto si sarebbe mai aspettato. Ma per il calcio ha anche pianto. Lacrime di gioia, dopo un gol da Pallone d’oro. Di commozione, «per l’affetto e la stima che ho ricevuto dai tifosi, ovunque sono andato». Di rabbia, «per le maldicenze e i torti subiti». Per 17 anni Gabriel Omar Batistuta, 184 gol in nove anni alla Fiorentina, 30 gol e uno scudetto in due stagioni e mezza alla Roma, 77 partite e 54 reti nella nazionale argentina, ha convissuto con un dolore assoluto. «Le mie caviglie sono fragili per costituzione. Non ho mai potuto giocare al cento per cento. Sono stato torturato dalle distorsioni. Andavo avanti a furia di infiltrazioni e antidolorifici. L’impegno con la società, con il pubblico, con me stesso era troppo importante. Scendevo in campo in condizioni impossibili. Ero il Re Leone, Batigol il guerriero e stringevo i denti».
Il conto, salato, è arrivato a fine carriera. «Appena smesso, mi sono ritrovato con le caviglie a pezzi. Non avevo più cartilagine. Osso contro osso, su un peso di 86-87 chili: il minimo movimento diventava un tormento. Lo stesso problema di Van Basten, che ha detto basta a 28 anni. Certi giorni non riuscivo a scendere dal letto. Piangevo di rabbia e mi dicevo: non può finire così». Per 17 anni, con alti e bassi, ha combattuto un nemico invincibile. «La mia famiglia mi reclamava: ora puoi stare con noi. E invece soffrivo, stavo male. Così male che sono andato da un amico medico e gli ho chiesto di amputarmi le gambe. L’ho pregato, ho insistito. Gli ho detto che quella non era più vita». Un mese fa a Basilea gli è stata applicata una protesi alla caviglia sinistra dal team del professor Beat Hintermann e a Firenze sta ora conducendo una faticosa riabilitazione. «Una soluzione che rincorrevo da almeno sei-sette anni. Fra 40 giorni, tolto il tutore, sapremo se il dolore è scomparso e potrò finalmente camminare come una persona normale». Sull’odissea di Batigol e i retroscena della sua formidabile carriera, Pablo Benedetti ha realizzato un docufilm, El numero nueve, prodotto da SenseMedia, che sarà presentato in anteprima mondiale il 23 ottobre, al festival Alice nella città durante la Festa del Cinema di Roma. Il Re Leone dice che a fare l’attore non ci ha mai pensato, che l’occasione è arrivata, inaspettata, a 50 anni. Spiega che i gol non hanno mai riempito completamente la sua esistenza. Che ha sempre conservato una parte segreta di sé, disponibile solo per Irina, «la chica hermosa che aspettavo all’uscita da messa quando eravamo ragazzi e con la quale, fra poco, festeggerò trent’anni di matrimonio», e per i quattro figli, tutti maschi: Thiago 28 anni, Lucas 23, Joaquin 21 e Shamel 16. «Thiago fa l’attore, vive da solo a Baires. Lucas lavora nell’azienda di famiglia. I primi tre sono nati a Firenze, Shamel in Qatar quando giocavo per l’Al-Arabi e la mia carriera stava finendo». Racconta che quando era un ragazzo, ai tempi del Grupo Alegria e delle partite in piazza dei Friulani, tirar calci a un pallone non gli sembrava il modo migliore per guadagnarsi da vivere: «Preferivo studiare: la matematica, la fisica, la chimica. Avevo una buona memoria visiva. Facevo pallavolo, basket, tennis. Il calcio per me allora era solo un bel gioco, non una prospettiva. Scappavo via dagli allenamenti. E non perché fossi una testa calda: non ci credevo abbastanza». Quasi un presagio: «Temevo di infortunarmi. Oddio, pensavo, se mi spacco e mi ritrovo senz’arte né parte che faccio?». Torna spesso agli insegnamenti di papà Osmar: rispetta gli impegni, sii responsabile, diffida delle cose troppo facili. «Quando ero famoso erano tutti amici. Mi avvicinava gente che non conoscevo. Opportunisti, spesso. Ma io non ero disposto a far entrare chiunque nella mia vita».
Diego Maradona lo ha definito «il centravanti più forte che abbia mai visto giocare». Per i critici è uno dei cinque attaccanti top della storia del calcio. Lui scherza: «Senza questo dannato problema chissà che traguardi avrei potuto raggiungere. Il Pallone d’oro, no. È legato alle vittorie della tua squadra. Ma in qualche momento me lo sarei meritato». Una carriera speciale. «Non ero un talento. Solo potenza, all’inizio. Sono migliorato con il tempo. A fare sul serio del resto ho cominciato tardi». Non ha rimpianti: «Tutto quello che è successo l’ho voluto io. Nessuno mi ha obbligato: avrei potuto prendere il mio tempo, gestire meglio gli infortuni, curarmi senza fretta. Invece non l’ho fatto, è andata così». Ricorda le partite nei cortili, «quando costruivamo le reti con le sporte per le cipolle recuperate al supermercato», la scuola 6044 di Reconquista, dove oggi c’è una biblioteca sportiva che porta il suo nome, i match con il Club Platense Porvenia e la selezione del paese insieme all’amico Diego, che oggi fa il parrucchiere. «Un giorno, al Torneo Carvarella, Diego mi passa la palla e io, pum, quasi sfondo la rete. Lui s’avvicina e mi dice: amico, tu sei speciale». Rivive il trasferimento, non facile, a Rosario per i Newell’s Old Boys e i bravi maestri di allora: il direttore tecnico Jorge Griffa e l’allenatore Marcelo Bielsa, «che poi ho ritrovato in Nazionale». Ricorda l’amicizia con Stefano Fiorini, lo storico preparatore che ancora oggi lo segue, l’amore per Irina Fernández, «così elegante e delicata», e le nozze nella cappella di San Roque, un 28 dicembre di quasi trent’anni fa. Rammenta i campionati disputati con il River Plate e il Boca Juniors, strappando la stima di due tifoserie che vanno d’accordo come il diavolo e l’acqua santa. «Un vero miracolo realizzato grazie a un precetto che mi sono sempre dato: rispettare i tifosi e i compagni, dare l’anima per la maglia». Sorride: «Nella mia carriera ho dato poco retta agli allenatori. L’attaccante di razza deve seguire l’istinto. Capire, quando è sotto porta, qual è la soluzione migliore. Sapevo fare gol in molti modi, anche se l’etichetta del centravanti tutta forza me la sono trascinata dietro per sempre». Poi il trasferimento a Firenze. «Era la mia occasione, lo sentivo. Ma mi trovai a disagio. La città mi sembrava piccola e tutto era antico. Solo più tardi mi resi conto della meraviglia che avevo intorno. Solo più tardi compresi che i fiorentini, così ironici, esigenti e un po’ incazzati, mi somigliano. Sbagliai le prime partite e dissero che ero un bidone. Feci 13 gol, ma non tirava aria buona. L’anno dopo retrocedemmo. Accettai di restare. Risalimmo e, finalmente, scattò l’amore. Cecchi Gori era il presidente. Mi facevo pagare bene, in cambio garantivo 30 gol a stagione, quando le difese erano più chiuse e le marcature asfissianti. Rifiutai offerte straordinarie, Real compreso. Ma a me non piaceva vincere facile. Ribaltare il tavolo e battere i favoriti, quella sì era vita. Trapattoni ci diede una mano convincendo il presidente al salto di qualità. Ma non bastò. Racconta il suo gol più famoso: Wembley, 27 ottobre 1999, Arsenal-Fiorentina, sedicesimi di Champions League. In campo per i londinesi Bergkamp, Ljungberg, Overmars, Vieira. «Percussione di Heinrich, che non sa a chi passare. Il difensore Winterburn che mi marcava era distratto. Mi spostai, tirai e tutto in un attimo era già finito. Quel gol nella mia testa l’avevo già segnato prima ancora di colpire la palla. Firenze per una notte fu la capitale d’Europa». Difficile pensare che un amore così grande potesse finire. La prima crepa risale a un FiorentinaMilan di fine anni Novanta. Calcio d’angolo, Bati scende a difendere. Salta di testa con Bierhoff che gli tocca il ginocchio in volo. Cade, si rialza, torna a giocare. Pochi minuti dopo, mentre punta la porta, la gamba cede definitivamente. Due mesi fuori. Intanto i dirigenti viola, come rivela il film di Benedetti, danno il via libera a Edmundo, detto o’ animale, per andare al Carnevale di Rio. Bati la prende male: si sente tradito e poco dopo chiede di essere ceduto.
Va a Roma e, accanto a Totti, vince lo scudetto 2000-2001: «Me lo meritavo. Feci 20 gol in 26 partite. A Roma sarei rimasto a lungo, ma accettai la proposta dell’Inter. Fu Massimo Moratti in persona a convincermi: tra di noi c’era molta stima. Mi dispiace di non avergli dato di più». Vennero due anni in Qatar con Guardiola, Hierro, i fratelli De Boer, Caniggia, Effenberg: «Un’esperienza positiva, disintossicante». Poi la parentesi australiana. «Volevo andare lontano. Cercavo una vita nuova con la mia famiglia». Irina nel film dice: «Ho sempre saputo che sarebbe stato difficile. Ora so che è stato anche meraviglioso». Infine il ritorno nella bella casa di Reconquista. Cercando un sollievo per le caviglie matte. Assecondando il desiderio di «tornare ad essere una persona comune». Facendo picnic sulle spiagge del rio Paranà, il luogo della riflessione, una passeggiata nel verde con Irina o un giro in barca sul lago. Rendendosi conto che l’emozione più forte non è legata a una vittoria ma «è vedere felice mia madre». Tornando senza farsi notare sui campetti dove tutto iniziò: «Mi auguro che almeno uno di quei ragazzi possa ripercorrere il mio cammino. Ma per farcela, bisogna crederci: è questo il messaggio del film». Sorride: «Mi fanno tenerezza i giovani che con tutte le loro forze inseguono un sogno o i vecchi che stentano a campare dopo una vita di lavoro e fanno la fila per una visita in ospedale». Il calcio, una volta sistemate le caviglie, potrebbe dargli ancora molto. «Ma per lasciare l’Argentina dopo 15 anni dovrebbe valerne davvero la pena. Firenze è la mia città, sicuro. Ma io sono come una bella donna, mi piace essere corteggiato. Per farmi compiere un passo così importante ho bisogno di motivazioni forti. E non parlo solo di soldi. Cerco rapporti sinceri, autentici. O principe o signor nessuno: le verità a volte sono fragili. Il calcio è un mondo meraviglioso, ma non tutto è come sembra. E le delusioni, caviglie a parte, sono sempre possibili». Gabriel Batistuta sulla panchina di un campetto di calcio in una scena di El numero nueve, il docu-film scritto e diretto da Pablo Benedetti. Al suo fianco lo storico preparatore di Batigol, Stefano Fiorini (58 anni), suo punto di riferimento negli anni di Firenze come oggi Batistuta (a destra) nella sua Argentina, seduto su una tribunetta di fortuna con alcuni ragazzi locali. È un’altra immagine tratta dal docufilm «El numero nueve» di Pablo Benedetti, prodotto da Sense Media, in anteprima mondiale il 23 ottobre alla Festa del Cinema di Roma Il «numero nueve», da 30 anni sposato con Irina, un mese fa si è finalmente operato. Adesso spera: «Tra 40 giorni saprò se il dolore è finito, se camminerò come una persona normale» (foto Alberto Conti)
· Icardi e le regole del Mobbing.
Icardi fa causa all'Inter: cosa dicono le regole sul mobbing nel calcio. Il muro contro muro, la richiesta di reintegro e indennizzo milionario e quella norma che obbliga club e calciatori nel loro rapporto. Giovanni Capuano il 31 agosto 2019 su Panorama. Mauro Icardi ha deciso di fare causa all'Inter. Una svolta clamorosa (anche se non del tutto inattesa) dopo sei mesi di muro contro muro dal giorno della decisione del club di togliergli la fascia da capitano, fino alla comunicazione che l'argentino non faceva parte del progetto tecnico della prossima stagione. Una guerra senza esclusione di colpi che ha messo fine alla storia di Icardi in nerazzurro, durata sei anni e arricchita da 124 gol. Icardi ha trascorso l'estate da separato in casa, ha rifiutato tutte le proposte arrivate a lui e alla società e alla fine si è mosso per le vie legali chiedendo il reintegro e un risarcimento da un milione e mezzo di euro. Il reintegro riguarda la parte tattica delle sedute di allenamento dalla quale l'argentino è sempre stato escluso con eccezione di un giorno a partire dalla prima fase del ritiro a Lugano e dopo il rientro dei compagni dalla tournée internazionale alla quale non ha preso parte. La mossa di Icardi ha colto di sorpresa l'Inter che si è detta incredula, convinta di aver sempre rispettato le regole pur nell'esclusione del giocatore dal progetto tecnico. L'amministratore delegato Marotta ha lavorato per mesi cercando di creare le condizioni per la cessione dell'attaccante, ma la chiamata in causa del Collegio Arbitrale a tre giorni dalla fine del mercato alza definitivamente il livello dello scontro.
Cosa dicono le regole sul mobbing nel calcio. Il rapporto tra diritti e doveri reciproci di calciatori e società è regolato dall'articolo 7 dell'accordo collettivo sottoscritto dall'AIC (Associazione Italiana Calciatori), la Figc e le leghe. Dieci righe che normano preparazione precampionato e allenamenti, partecipazione alle gare e trasferte nel corso della stagione, stabilendo quali sono i limiti reciproci delle due parti. Il punto centrale è l'obbligo per un club di fornire al suo tesserato tutte le attrezzature idonee alla sua preparazione, mettendo a sua disposizione un ambiente "consono alla sua dignità professionale". Vietati, insomma, gli esodi forzati lontano dallo spogliatoio dei compagni di squadra o gli allenamenti in orari diversi e non coincidenti con quelli del gruppo. Sia nel corso del precampionato che durante l'attività agonistica. "Il calciatore ha diritto di partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato con la prima squadra a meno che lo stesso non sia venuto meno ai suoi obblighi contrattuali. Attenzione, però: perché possa scattare il provvedimento dell'esclusione dagli allenamenti (previsto dall'articolo 11 dello stesso accordo) ci deve essere una contestazione scritta della mancanza e un giudizio del Collegio Arbitrale, non potendo agire autonomamente. Gli obblighi del calciatore sono così descritti: partecipare a tutti gli allenamenti nelle ore e nei luoghi fissati dalla società, oltre che a tutte le gare ufficiali o amichevoli sia in Italia che all'estero. Ha diritto a giocare? No. La scelta se utilizzarlo o meno in partita rientra nei legittimi poteri contrattuali dell'allenatore, così come quello di schierarlo in un ruolo non gradito. Nello stesso ambito rientra anche l'iscrizione o mancata iscrizione alle liste campionato e Uefa. Se presentate come frutto di una scelta tecnica autonoma dell'allenatore possono ricadere sotto i suoi poteri legittimi. Alla controparte non resta che provarne il carattere della non giustificazione tecnica e l'esistenza dell'obiettivo di forzarlo a prendere una decisione non voluta in tema contrattuale o di trasferimenti.
Da gazzetta.it l'1 settembre 2019. Il caso Albertazzi che Mauro Icardi cita nella sua memoria, lo seguì lui, l’avvocato Mattia Grassani, grande esperto di diritto sportivo. E vinse. Ma inutile farsi illusioni. “Situazione diversa, il Verona lo faceva cambiare in un altro spogliatoio, non si allenava mai nello stesso campo della squadra e gli tagliarono le gomme dell’auto nel parcheggio del centro sportivo”.
Grassani, ma allora quello che Icardi chiede al Collegio Arbitrale di accertare rappresenta o no mobbing?
“Attenzione prima di parlare di mobbing nel mondo del lavoro sportivo: è il comportamento datoriale più grave che possa esistere. Si fonda su ripetute umiliazioni inflitte al calciatore, privazione dei diritti fondamentali e totale demolizione della professionalità dell’atleta. Icardi fuori dal progetto Inter? Va tenuto anche in considerazione che la sfera di programmazione compete alla società e quella tecnica all’allenatore responsabile della prima squadra, ambiti di competenza nei quali è difficile entrare e sui quali l’autonomia è notevole”.
Come finirà il giudizio e in quanto tempo sapremo l’esito?
“L’esito, da spettatore esterno, è imprevedibile, partita aperta ad ogni risultato, nella quale la ricostruzione in fatto, più che in diritto, della vicenda potrà far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. Circa i tempi, avendo Icardi promosso il ricorso con procedura accelerata, entro 45 giorni dall’insediamento del Collegio il lodo dovrà essere emesso e sarà un verdetto inappellabile”.
Carlo Angioni per gazzetta.it l'1 settembre 2019. L’Inter si ritrova con la grana Mauro Icardi ancora da risolvere e con la sua richiesta di reintegro completo negli allenamenti e di risarcimento danni, ma Antonio Conte guarda oltre: “Abbiamo fatto tutto nella maniera più corretta possibile e andremo avanti così. Non ci sono turbative nello spogliatoio, si parla da 8 mesi di questa vicenda e non voglio entrarci: io voglio solo essere concentrato sul lavoro, su questa stagione. Invece i protagonisti restano ancora gli altri, quelli che non devono giocare”. Icardi rimarrà ancora fuori e intanto domani per l’Inter arriva la trasferta di Cagliari con un Alexis Sanchez in più, che vestirà la maglia numero 11. “Cosa ci può dare? Spero di rispondere più in là - continua Conte -, dopo che si sarà integrato e avrà fatto quello che di solito fa. E’ molto bravo nella finalizzazione e nel fare assist, è un giocatore importante che nelle ultime due stagioni non è andato bene con lo United. Arriva con tanta voglia di fare”. Con la squadra c’era anche Steven Zhang. Il presidente ci ha tenuto a fare un discorso motivazionale ai convocati: 5 minuti in inglese e in italiano. Vincere in Sardegna, dopo il debutto pieno di entusiasmo contro il Lecce, sarebbe un altro bel segnale al campionato: “L’entusiasmo va gestito, noi dobbiamo continuare a lavorare bene. Abbiamo avuto una buona partenza ma ho detto ai ragazzi che ci sono cose su cui dobbiamo migliorare. Bisogna continuare a lavorare sapendo che da quello che faremo passerà il nostro futuro. Cagliari è un campo difficile, loro sono una buonissima squadra e avranno grande voglia di rivalsa dopo la sconfitta col Brescia”. Conte punterà ancora sugli italiani, con D’Ambrosio-Ranocchia-Candreva-Sensi quasi certamente titolari. Per Barella, al ritorno a Cagliari, ancora panchina: “Niccolò sta lavorando, sta entrando dentro la nostra idea di calcio. E’ positivo, sono contento del suo innesto nella rosa. Quando sei all’Inter sai che entri in competizione con gli altri, voglio che ci sia una competizione positiva. Dopo la sosta inizierà la Champions e tutti dovremo farci trovare pronti, poi non ci sarà più tempo per gli errori. Gli italiani? L’importante è avere un nucleo di giocatori forti, se sono italiani meglio perché tutti abbiamo a cuore le sorti della Nazionale. E’ importante avere un’ossatura che conosca bene il modo in cui si lavora”. In Sardegna, però, non ci sarà uno degli ultimi arrivati, Cristiano Biraghi: “Abbiamo deciso di riportarlo a un livello fisico ottimale. E’ arrivato un po’ provato, ha bisogno di lavorare e mettersi al pari con gli altri. Tra due giorni chiuderà il mercato, l’Inter farà altri colpi last minute? “Siamo contenti di poter fare qualcosa di importante con questa rosa. Poi penso che Marotta sia stato abbastanza chiaro dicendo che il mercato dell’Inter è chiuso. Politano? Se dovessero esserci uscite dovremmo fare entrate, ma non ho avuto dal giocatore alcun avviso di scontentezza. Mancano ancora due giorni ma io sono contento dell’impegno di Matteo. Lui sa benissimo cosa penso di lui, il ruolo in cui lo considero importante”.
Da gazzetta.it il 6 settembre 2019. Wanda Nara per la prima volta parla del passaggio di Icardi dall'Inter al Psg e lo fa nel programma "Morfi, todos a la mesa", condotto dalla sorella Zaira. "Tra le opzioni che abbiamo avuto - dice la moglie e agente dell'attaccante argentino - andare al Psg è stato il peggiore per me perché devo andare e venire con i ragazzi. Ma ho pensato a lui. C’erano molte squadre importanti in Italia che lo volevano e sarebbe stato più comodo". Wanda Nara parla anche delle voci che davano Icardi inseguito dal Boca Juniors: "Mi piacerebbe che un giorno Mauro giocasse lì. Immagino cosa si può sentire scendendo in campo in uno stadio così, pur essendo del River non mi opporrei. Però non c'è stata nessuna proposta seria dal Boca".
MAXI LOPEZ — Sulla foto di Maxi Lopez con Neymar: "Hanno caricato la foto lo stesso giorno in cui Mauro si è unito alla squadra. È una foto vintage, non è attuale. Voglio pensare che sia stata una coincidenza, perché tutti i giocatori sanno tutto“. Infine Wanda chiude all'ipotesi di rappresentare altri calciatori: "Non posso, perché gestire Mauro richiede impegno. Mi hanno proposto altri giocatori, i mariti delle amiche. Chi mi conosce sa che non lo faccio per interesse, ma per l'amore che ho per Mauro".
Andrea Ramazzotti per corrieredellosport.it il 6 settembre 2019. Mauro Icardi ha fatto le valige e si è trasferito al Psg, mentre Wanda Nara... non traslocherà. La bella showgirl resterà a vivere a Milano e continuerà a essere il volto da copertina di Tiki Taka. La conferma è arrivata ieri da fonti vicine a Mediaset, dove la moglie dell'attaccante è considerata un risorsa importantissima, uno dei motivi (se non il principale...) per cui la trasmissione condotta da Pierluigi Pardo lo scorso anno ha registrato ascolti da record. Ecco perché da Cologno Monzese si sono affrettati a sottolineare che Wanda ha un contratto fino a giugno e che ogni domenica sera sarà regolarmente al suo posto, davanti alle telecamere di Italia 1, nonostante il marito non sia più tesserato per l’Inter. Anzi, è probabile che nei prossimi mesi l’impegno della Nara con Mediaset possa... raddoppiare perché è allo studio il suo utilizzo anche in un'altra trasmissione. Il volto dell’argentina da oltre 5,6 milioni di followers su Instagram è assai riconoscibile per gli italiani e piace. Ecco perché gli uomini di Pier Silvio Berlusconi non intendono perderla. Il trasferimento di Maurito al Psg, se da un lato toglie un po’ di “piccante” alle dichiarazioni di Wanda, dall’altro rasserenerà il clima attorno alla showgirl e pure i rapporti con Pardo.
CHE TENSIONE - Lunedì su Radio 24 il conduttore di Tiki Taka è stato duro: «La vicenda che abbiamo vissuto è stata surreale e la strategia di Wanda, ammesso che ce ne fosse una, si è rivelata un fallimento totale. L’idea che un giocatore come Icardi, che ha segnato 124 gol con la maglia dell’Inter, vada via in questo modo, tra i caroselli dei tifosi, non è il massimo. Poteva trasferirsi al Napoli, alla Roma... Se lei ha fatto un capolavoro, io sono magro. Se si fosse prolungata la causa con l’Inter la sua presenza a Tiki Taka non era conciliabile con la mia deontologia professionale. L’ho detto all’azienda». A Mediaset non hanno apprezzato. Ciò premesso, non ci saranno variazioni nella squadra di Tiki Taka, ma è all’orizzonte un chiarimento tra Pardo e Wanda che, in caso di trasferimento all’estero del marito, avrebbe potuto esercitare una clausola per risolvere il contratto con il gruppo televisivo di Berlusconi e seguire il marito. Non lo farà anche perché resterà a vivere con i 5 figli in città, nella nuovissima casa dove si trasferirà tra poche settimane. Con voli di linea o jet privati pagati dal Psg farà la spola con Parigi, ma Milano e Mediaset resteranno casa sua. Almeno per un altro anno. Poi se il Psg acquisterà Icardi...
Da corrieredellosport.it il 17 ottobre 2019. Sembra non finire mai la telenovela tra Maxi Lopez, Mauro Icardi e Wanda Nara. Ieri l’attaccante del Crotone, al programma radiofonico “El que abandona no tiene premio”, aveva detto di voler voltare pagina rispetto al matrimonio tra Icardi e la sua ex moglie. Oggi però un commento sui social network getta nuova benzina sul fuoco. Maxi Lopez, commento al veleno su Wanda: “Ho deciso di perdonare Icardi”, ha scritto su Instagram il profilo ‘Che fatica la vita da bomber’, attribuendo la frase, per l’intervista di ieri, a Maxi Lopez. Lo stesso attaccante del Crotone però ha commentato con un post al vetriolo nei confronti di Wanda Nara: “Altroché perdono, un ringraziamento perché si è portato via W…”. Maxi Lopez insomma ringrazia Icardi per aver sposato Wanda Nara, sua ex moglie da cui ha avuto tre figli: difficile immaginare che non arrivino ulteriori repliche.
L'ultima stoccata di Maxi Lopez: "Grazie Icardi che ti sei portato via Wanda..." Maxi Lopez torna a sulla relazione tra Mauro Icardi e Wanda Nara, riaccendendo un tormentone che sembrava oramai arrivato ai titoli di coda. Gabriele Bertocchi, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Manca solo un titolo da soap opera per il tormentone Wanda Nara-Maxi Lopez, che si arricchisce negli ultimi giorni di un nuovo capitolo. Lopez e quel commento su Instagram. Era da mesi che la coppia Nara-Lopez non faceva parlare di sè. Icardi passa al Paris Saint-Germain, Wanda torna in tv e Lopez firma con il Crotone in B. Tutto troppo tranquillo. E infatti la tempesta spezza la quiete e si materializza sotto forma di un commento sui social. Ma andiamo con ordine: l’attaccante del Crotone, durante un'intervista in radio aveva dichiarato di voler voltare pagina rispetto al matrimonio tra Icardi e la sua ex moglie. Le sua parole sono poi state riprese dalla pagina Instagram "Che fatica la vita da bomber", titolando il post con la frase "ho deciso di perdonare Mauro Icardi". Peccato però che a poche ore dalla pubblicazione della notizia, Maxi Lopez ha pensato bene di passare al contrattacco, commentando: "Altro che perdono, lo ringrazio per avermela portata via". Di certo non un segnale distensivo.
Maxi Lopez perdona Icardi per Wanda Nara: «Voglio solo la felicità dei miei figli». Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 da Corriere.it. Prima o poi il perdono sarebbe dovuto arrivare. Intervenuto nel programma radiofonico «El que abandona no tiene premio», nell’ambito di una riflessione sui conflitti familiari, Maxi Lopez ha raccontato di aver messo da parte il suo rancore nei confronti di Mauro Icardi (insieme in uno scatto del 2014, Ansa), che ha sposato la sua ex moglie, Wanda Nara, con la quale ha avuto due figlie: «Non ho nessun problema con lui. Il mio obiettivo nella mia vita, oltre al calcio, parlando umanamente, è cercare di trovare e dare felicità ai miei figli. L’unico obiettivo che ho è quello. Il resto per me è già passato. È una pagina che ho girato tanto tempo fa e non mi stressa affatto». L’attaccante argentino, oggi al Crotone, si è dichiarato ottimista, nonostante le battaglie legali con Wanda Nara: «I problemi li hanno tutti, le complicazioni ci sono in tutte le vite. Ma poi la tua vita si sviluppa in base a come la prendi». Infine, sulla riunione con i suoi tre figli, Maxi Lopez ha concluso: «Ho scelto di essere felice. Ed è una scelta di vita. Le cose possono andare bene o male. Ai tempi ho fallito nella mia vita di coppia. Ma poi ho una vita da padre e per i miei figli. Era una situazione e basta. Le cose vanno avanti e ho scelto di vivere così: con energia e buone vibrazioni. Penso che sia il modo migliore». Solo un mese fa, al momento del passaggio di Mauro Icardi dall'Inter al Psg, la pace sembrava lontana. Nel club francese giocano infatti altri due argentini, Angel Di Maria e Leandro Paredes, che per non rovinare i rapporti in Nazionale con Lionel Messi, grande amico di Maxi, avrebbero accolto male l'ex nerazzurro. E a luglio lo stesso Lopez aveva attaccato il rivale - sempre dalla televisione argentina - accusandolo di non lasciarlo parlare con i suoi figli.
Icardi ancora escluso dall’Argentina Il giallo del veto di Messi. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Carlos Passerini. Nonostante i gol con il Psg l’ex capitano dell’Inter non è stato convocato per le amichevoli. Le ruggini con il 10 del Barcellona.
Solita storia. Anzi: storiaccia. Il nome di Mauro Icardi non compare nell’elenco dei convocati della nazionale argentina per le amichevoli contro il Brasile (15 novembre) e l’Uruguay (18 novembre). Ci sono invece lo juventino Paulo Dybala e l’interista Lautaro Martinez. La storiaccia è il veto a Maurito. Di mezzo c’è la sintonia mai nata fra il clan Messi e Icardi, ora tornato bomber al Psg. In molti sono convinti che l’ex interista stavolta una chiamata l’avrebbe meritata, da parte del c.t. Scaloni. Una questione di antiche ruggini che ciclicamente Messi e amigos cercano di smentire, senza successo. In Argentina a queste smentite non crede nessuno. Leo non ama Mauro, questa è la verità. E Leo in Nazionale comanda. Ogni sua richiesta è un ordine. Non c’è c.t. che non sia adeguato. Dietro al veto anti-Icardi c’è un intreccio di rapporti che somiglia proprio a una telenovela, muy argentina. Amore e futbol. Con Messi che da sempre è amico di Maxi Lopez, ex marito di Wanda Nara, attuale moglie di Icardi. Il quale da Messi e da quelli del suo clan (Aguero, Paredes, Di Maria) sarebbe considerato una specie di traditore.
Un nemico, appunto. Anni fa anche Diego Maradona attaccò l’ex interista per questa ragione: «È un traditore. Va a casa (di Maxi Lopez, n.d.r.), gioca a fare l’amico e poi gli soffia la donna. Questo è tradimento. Ai nostri tempi, solo se guardavi la donna di un compagno, nello spogliatoio ci saremmo alternati per prenderlo a pugni». Icardi non ha mai commentato la vicenda. Andando per la sua strada. L’ultima convocazione con l’Argentina risale esattamente a un anno fa, 21 novembre 2018, 2-0 al Messico. Il primo gol lo segnò lui. Dopo, non è stato mai più chiamato. Al suo posto stavolta Scaloni ha reclutato anche Alario del Bayer Leverkusen e Nico Gonzalez dello Stoccarda. In Argentina in molto storcono il naso. L’ultimo successo della Selecciòn risale al 1993. E ora in tanti iniziano a pensare che questo veto danneggi solo e soltanto la Selecciòn. Si può dare loro torto?
Barbara Costa per Dagospia il 19 ottobre 2019. Ci sono uomini che la chiamano nei modi più dispregiativi, la Yoko Ono del calcio, ma pure stronza, strega, non le dicono puttana ma è quello che pensano, questi uomini che tali non sono bensì mezze seghe, individui tristi, vili, atterriti da quella che io chiamo "paura della figa", e non ci sono dubbi, da qualche tempo questo terrore ha i capelli lunghi e biondi, le curve sinuose e lo sguardo furbo di madame Wanda Nara. Quante parole inutili, dette da uomini noiosi sull’orlo del loro fallimento esistenziale, perché non hanno capito, non vogliono capire, che la realtà sta mutando, veloce e irreversibilmente, e ci sono donne che ora sì, fanno quello che gli pare, e puntano dritte a ciò che più fa spavento a matusi maschi illusi di potere: senza chiedere permesso, queste donne si prendono ciò che vogliono, e mai più gli scarti, ciò che gli uomini gli lasciano, permettono. Ne è prova massima il successo, l’ascesa di questa bomba argentina, che ha deciso di sovvertire le pedata-leggi, i codici machisti da spogliatoio, ed entrare a piedi uniti e rompere i maroni al settore più maschilista, stantio, alieno a ogni cambio che è il calcio italiano. Sì, quello che ai vertici mette (anche) uomini che credono di avere l’autorità indiscussa di dire ogni boiata razzista e incivile; quello convinto di non dover rendere conto di niente, quello che parla delle calciatrici col disprezzo che crede meritino, quando in verità ogni sua sparata, caduta, è la prova concreta della sua paura della figa. E allora, Wanda Nara, 32 anni, 5 figli, 3 cani, oggettivamente gnocca, moglie di un toy-boy calciatore di cui è procuratrice, ma pure modella, showgirl, imprenditrice, opinionista di calcio, e tra qualche mese del GFVip. Il critico televisivo principe italiano si è accorto dopo un anno e mezzo che la signora Nara a suo parere c’entra una mazza in un programma che tratta di calcio, e scrive che è ridicola, insignificante, non ci dovrebbe essere, come se non fosse sterminato l’elenco di individui con pene tra le gambe che dicono cazzate sul calcio, e però loro guai a toccarli, che scherzi, son maschi, quindi di calcio capiscono, evidentemente per sapere di calcio bisogna ragionare col pisello, allora tanto vale chiamarli testa di c…, non vi sarebbe offesa! Certo, la Nara non è Carolina Morace, ma chi lo è, chi tra i testa di calcio che la attaccano? Dai, cosa dà fastidio di Wanda Nara? Che stia lì, seduta tra uomini, ad ammonirli che il loro tempo è minato, e non si torna indietro: Wanda ammicca, fa la sensuale, sorride, dice le sue ovvietà tra le maschie ovvietà a testimonianza, palese, che vi sono uomini che stanno aggrappati a "troni" che presto non gli apparteranno più, presto dovranno sloggiare, magari faranno i muti valletti, o forse no: ci serviremo di carne sì maschia ma giovane! Wanda Nara, quanto piace dirne ogni male possibile, tanta è la voglia di darle della troia, basandosi su quel fake-porno-tape (2 milioni e mezzo di visualizzazioni, e solo su Pornhub), in cui una bionda a Wanda ben poco somigliante fa un pompino. Degradarla e in che modo, se non sessualmente? Insozzarla per illudersi così di fermarla, di rimandarla se non in cucina almeno da dove è venuta, come se in patria non avesse già fatto sfracelli ormonali, conquistato, fatto razzia di tutto ciò di cui aveva voglia, capriccio, e sentila qua: “In Argentina sanno bene chi sono io, ma ignorano chi sia la "vostra" Belen!”. Ma brava, Wanda, bel tiro netto, imparabile. Lei gioca a viso aperto, non si chiude in difesa. Non dice così chi di calcio sa? Se il procuratore è un tuo familiare, magari tuo fratello, va bene, se è tua moglie no, la discriminante sta nel ca…, che un fratello ovvio ha e una moglie no, ma chiunque contesti a Wanda carenti abilità, costui è un antiquato che anela un calcio che non esiste più. Avrà fatto i suoi errori, Wanda, ma non sbaglia nel mettere al primo posto il guadagno, quello che non ti fai soltanto con la pedata, ma quello che ti arricchisce con una data immagine che ti auto-narri sui social, un’immagine di calciatore "fighetto" il cui capostipite fu David Beckham anni fa. A Wanda basta un video su Instagram per terremotare volumi di traffico e far scordare un suo "autogol", e rimettere palla al centro a rimontare. Basta farsi vedere nuda, che rotola appagata e felice su un letto sfatto, per ribaltare il risultato, e vincere. Le basta rilasciare interviste giuste, ai giornali giusti, su argomenti giusti, su cui rivelare il giusto. O far scendere una lacrimuccia davanti alla telecamera. Se serve, perché no? Per Wanda è uno scherzo, ma chi lo dice che per trionfare in un campo bisogna abbatterne le regole, no, basta conoscerne gli assi (maschili) portanti, e usarli e piegarli a tua convenienza. Wanda lo sa e usa il cervello, e solo di facciata la sua avvenenza, ciò che i da lei arrapati chiamano “carrozzeria”, per fregarti la palla, e buttartela in rete e uccellarti, a te, sì, proprio a te, che ti credi il più sapiente, il più preparato, ma piantala, è finita un’era, quel posto non è più tuo, è di Wanda per quanto le andrà, fino a che non se ne stuferà. Wanda Nara tutto controlla e muove, le regole le detta, le cambia, da protagonista assoluta si prende la scena e si alza e se ne va, a te al di là dello schermo ti lascia a metà, insoddisfatto, ma Wanda se ne va perché deve lavorare, è una procuratrice, fa affari, te lo sei dimenticato? A te non rimane che sfogare la tua frustrazione sui social, ma guardati, sei uno sportivo da divano, che vuoi postare, quale filtro adoperare, ti credevi qualcuno a straparlare di calcio e invece no, rimedia, fai qualcosa, ma credimi, è tardi, non ti basterà, non ti servirà.
Marco Macca per fcinter1908.it il 23 novembre 2019. Continuano le polemiche infinite tra Wanda Nara, Mauro Icardi e la famiglia della moglie e agente dell’attaccante, attualmente in prestito al Paris Saint-Germain ma ancora di proprietà dell’Inter. Ospite della trasmissione argentina Confrontados, infatti, Andrès Nara, padre di Wanda, ha spiegato nel dettaglio il perché dei suoi cattivi rapporti con la figlia: “E’ un insieme di molti fattori: gli scontri che abbiamo, la distanza… Lei ha la sua personalità e io ho la mia, ha i suoi motivi anche se non è successo nulla per arrivare a questa situazione. E’ una somma di diverse cose. Sto anche difendendo la situazione di Maxi (Lopez, ex marito di Wanda, ndr) e questa cosa forse la disturba“. Parole che si aggiungono a quelle rilasciate qualche giorno fa a Radio Mitre: “Con Wanda non ci parliamo. Con Mauro non ho rapporti perché non avevo davvero la possibilità. In questa fase, questi ragazzi sono storditi dalla fama, dai soldi e dalla situazione in cui vivono, e hanno paura di tutte le persone che si avvicinano a lui. Non mi piace quando qualcuno è inarrivabile solo perché ha fama e soldi, vorrei poter parlare con lui come se fosse un ragazzo normale”.
Wanda Nara gelosa di Icardi, tira i capelli a Giorgia Venturini prima della diretta a Tiki Taka. Nel backstage della trasmissione sportiva, Wanda Nara ha dato una bella tirata di capelli alla collega per aver elogiato con troppa enfasi le prestazioni del calciatore argentino. Novella Toloni, Lunedì 25/11/2019, su Il Giornale. L'amicizia nulla può di fronte alla gelosia. Deve averlo capito anche Giorgia Venturini, l'opinionista della trasmissione sportiva Tiki Taka che ieri sera, nei camerini del programma di Italia Uno, è stata "vittima" di un attacco di gelosia di Wanda Nara. La moglie di Mauro Icardi non è riuscita a trattenersi mentre la Venturini elogiava le prestazioni del calciatore e ha dato una tiratina di capelli alla collega. Le due sono amiche fuori e dentro gli studi televisivi Mediaset ma quando si tratta di Maurito, Wanda Nara non riesce proprio a trattenersi. L'episodio, tra l'ironico e il serio, si è consumato nei camerini della trasmissione, poco prima della diretta di Tiki Taka. La moglie di Icardi ha pubblicato sui social network l'arrivo a Milano da Parigi e il trasferimento in auto verso gli studi televisivi. Nei camerini, la bella argentina ha continuato a realizzare filmati anche dopo l'arrivo della collega Giorgia Venturini, con la quale stavano chiacchierando della puntata serale. Non è la prima volta che le due scherzano e si riprendono con filmati curiosi da condividere con i follower prima della diretta o nelle pause pubblicitarie. Nelle storie di Instagram Wanda ha ripreso la Venturini che annunciava gli argomenti caldi della serata sportiva. Poi la co-conduttrice di Tiki Taka chiede: "Di Mauro non si dice niente?" e Giorgia Venturini risponde: "No perché è il numero uno, sta vincendo tutto, si meriterebbe anche il pallone d'oro". Parole che hanno letteralmente infiammato Wanda che, senza lasciare il cellulare, ha afferrato la treccia della collega dandole una bella tirata. "Tranquilla un po' con mio marito che è il numero uno eh!", ha esclamato l'argentina mentre tirava a sé, per i capelli, la Venturini tra le risate generali e interrompendo improvvisamente il video. Wanda Nara non è nuova a sorprendere fan e follower con video inusuali dal backstage di Tiki Taka. I video condivisi sui suoi profili social, riservano sempre aneddoti curiosi ma anche siparietti hot in compagnia della collega. Come quello avvenuto qualche settimana fa quando la Nara pubblicò per sbaglio su Instagram la foto di Giorgia Venturini in topless. La bella argentina, che si appresta a esordire come opinionista nell'edizione 2020 del Grande Fratello Vip, provò a censurare lo scatto hot mettendo qualche stellina sul decolté nudo ma l'operazione non andò a buon fine, pubblicando così la foto hot dell'ex naufraga.
Le fragilità di Wanda Nara: "Soffro la differenza d'età con Mauro". Wanda Nara svela la sua più grande paura rispetto al marito Icardi: "Vedete il mio personaggio, dietro c'è molto di più". Novella Toloni, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. La vedremo prossimamente nelle vesti di opinionista al Grande Fratello Vip, nel frattempo Wanda Nara si è confessata in una lunga quanto pungente intervista sul quotidiano "La Repubblica". Co-conduttrice a Tiki Taka, manager e procuratrice del marito, il calciatore Mauro Icardi, mamma di cinque figli, la popolare Wanda ha svelato molto del suo modo di essere e del suo "personaggio", come lei stessa si è definita: "Mi nascondo dietro un personaggio. Se ti fai conoscere e capiscono il tuo punto debole, poi sanno dove colpirti". Wanda Nara è sicuramente una delle donne più discusse del calcio italiano, criticata dagli interisti per le scelte di Mauro Icardi e messa costantemente sotto la lente d'ingrandimento nel talk calcistico "Tiki Taka". Ma lei non le manda certo a dire e spiega: "Io sono diretta. Questo lavoro mi ha fatto diventare più forte. Nel calcio ci vuole diplomazia anche se le cose non sono corrette. Beh, io alla diplomazia preferisco sempre la verità. La televisione mi ha insegnato a essere determinata. All'inizio ero più morbida, ho capito presto che dovevo essere dura. Noi donne siamo forti come gli uomini, possiamo fare tutto, anche nello sport. Invece resistono i pregiudizi, che mi fanno arrabbiare. Se sei donna e dici la tua sul calcio devi lottare per parlare". In televisione come sui social, Wanda Nara non si è mai trattenuta, ma in realtà le foto sexy pubblicate ogni giorno sui suoi profili nascondono altro: "Se mettessero una telecamera a casa nostra conoscerebbero persone diverse". Wanda ha confessato di essere una mamma come tutte le altre "che si alza presto la mattina, prepara la colazione e porta i figli a scuola. Mi sento più in concorrenza con le altre madri che con i personaggi televisivi". Sexy e provocante sì ma per un motivo molto importante: "La verità è che soffro la differenza d' età con Mauro, ho sette anni più di lui. Ci tengo a essere sexy, anche sui social". Un lato fragile che difficilmente la Nara ha fatto vedere, ma che lei assicura potrebbe emergere dalla sua partecipazione al Grande Fratello Vip, in qualità di opinionista: "A Tiki Taka, un mondo di uomini, devi farti vedere più forte, altrimenti ti calpestano. Al Grande fratello potrò farmi conoscere per come sono: solare, divertente e schietta". Accantonata la debolezza per un attimo, Wanda Nara è tornata a parlare del rapporto con il padre che lei definisce "complicato". L'uomo, dopo il divorzio della figlia da Maxi Lopez, si sarebbe schierato dalla parte del genero, suscitando le ire di Wanda: "Quando ho divorziato ho preso i bambini e sono tornata in Argentina a lavorare. Sarebbe stato importante averlo al mio fianco, invece papà è stato vicino al mio ex. Continua a fare scorrettezze: io non gli rispondo".
«Non sono la cattiva della storia, ma sono quella che l’ha risolta». Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Guido De Carolis su Corriere.it. Le verità raccontate sono state tante, le bugie di più. Questa è la versione di Wanda Nara. L’hanno dipinta come la cattiva della storia, la responsabile del divorzio tra Mauro Icardi e l’Inter. «Hanno detto che facevo del male a mio marito, il padre dei miei figli. Le persone ragionano quando parlano? Come posso non volere il bene di Mauro? Il suo bene è il mio». Wanda mette in fila gli ultimi durissimi mesi, chiusi con il prestito di Icardi al Psg. «Non è un divorzio. Mauro e l’Inter sono come fidanzati che si prendono una pausa di riflessione».
Wanda, sta dicendo che a fine anno Mauro tornerà?
«Al Psg non si poteva dire no: ha tutto per vincere, è un club pieno di stelle, Mauro è onorato di farne parte. A fine stagione sceglieremo ciò che sarà meglio: io lavoro per lui, ma poi le scelte sono sue».
Ha rifiutato tante proposte. Come l’ha convito alla fine ad accettare il Psg?
«Sono la moglie, non solo la procuratrice: lo conosco. Sapevo avrebbe detto sì. La scelta del Psg viene dopo un anno di polemiche e tensioni, l’ha fatta anche per dare un po’ di tranquillità ai figli e alla famiglia. Se fosse rimasto sarebbe stato sempre un caso».
Perché i rapporti con l’Inter si sono deteriorati?
«Per tanti malintesi, ma la voglia di giocare nell’Inter e l’amore dei tifosi resta. In una lunga relazione ci sono delle crisi. Alla fine ci lasciamo con un rapporto ricucito, senza nessun tradimento».
Che è successo davvero?
«L’Inter aveva la necessità di vendere Icardi. Da capitano Mauro non avrebbe mai lasciato il club. È stata una strategia per cederlo».
Con che motivazione gli è stata tolta la fascia?
«Per venderlo, così gli è stato detto. Lo scorso gennaio aveva rifiutato il trasferimento a un’altra squadra. E lui ha risposto: “Io sono il capitano e questa squadra non la lascio”. Lì i rapporti si sono incrinati, avevano un’altra idea».
L’altro club era la Juventus che a gennaio riproponeva lo scambio con Higuain e 50 milioni?
«Non dirò io il nome della squadra. L’altro giocatore però a Milano ci è venuto, ma non all’Inter… Se a Mauro lo avessero detto chiaramente sarebbe stato diverso. La fascia non potevano toglierla alla fine della stagione?».
Quando gli è stata tolta Icardi si è rifiutato di andare a Vienna: perché?
«Non è andata così. Stava già giocando con un dolore al ginocchio. Quando gli hanno tolto la fascia lui ha detto: “Per giocare non serve solo il corpo, ma soprattutto l’anima. E quella al momento mi si è rotta”. L’Inter sapeva che Mauro era già andato tre volte a Barcellona per curarsi».
Da quel giorno però sta fuori due mesi. Lei chiama Massimo Moratti per farsi aiutare?
«Tutti stavano bastonando Mauro, Moratti è uscito con una dichiarazione per difenderlo: un grande uomo. Le sue parole sono state ossigeno quando stavo soffocando».
Icardi è passato dai 29 gol del primo anno con Spalletti a essere sul mercato: perché?
«Non so i conti della società o come funziona il fair play. Forse in quel mercato si poteva vendere solo Icardi».
Secondo molti le sue dichiarazioni a Tiki Taka hanno avuto un peso decisivo nella vicenda: ridirebbe tutto?
«L’Inter sapeva tutto. Non dovevano darmi il permesso, non ho un contratto con loro. Ridirei tutto sì, non ho mai parlato con cattiveria o per ferire. Dico sempre la verità, dice bugie chi è senza coraggio. Continuerò con Tiki Taka, Mediaset è una famiglia».
Perché i cattivi rapporti tra i croati (Perisic e Brozovic) e Mauro?
«È stato gonfiato tutto. I rapporti sono sempre stati cordiali, uno è il mio vicino».
Crede di essere discriminata perché è una donna?
«No, discriminata no. Però sono una figura che non esiste: moglie e agente. Sentire parlare di calcio una donna è strano. Ma le società mi hanno sempre trattato con rispetto e parità. A me non piace parlare di sessismo o razzismo: il problema ce l’ha chi fa certe accuse».
Conte ha dovuto accettare le scelte della società?
«Credo di sì. Ho parlato con lui, gli avevano garantito che avrebbero comunque rinforzato la squadra».
Come sono cambiati gli equilibri con l’arrivo di Marotta? Non vi siete trovati?
«Il calcio è business, Marotta fa le scelte e deve badare ai conti. Alla fine si vedrà chi ha fatto bene. Sul campione che è Icardi non ho mai avuto dubbi: avevo 15 offerte. Lo sapeva pure Marotta. Se siamo arrivati all’ultimo giorno non è perché siamo matti: conosciamo il valore di Icardi».
Era proprio indispensabile fare causa all’Inter?
«Non era una causa per soldi, solo gli ignoranti lo credono. Se fosse stato per soldi sarebbe andato via 3-4 anni fa, quando l’Inter non giocava la Champions, è rimasto per amore del club. Voleva tornare in gruppo e allenarsi con Conte: chissà con lui dove poteva arrivare».
Lei sostiene che Mauro ha detto no alla Juve.
«Era il capitano dell’Inter, non ci sarebbe mai andato».
Paratici e Wanda, si è favoleggiato tanto anche di uno scambio Icardi-Dybala.
«Con Fabio ho un rapporto cordiale. Si è interessato, il rapporto continuerà».
Pensa che in futuro Mauro possa andare alla Juve o in Italia non vuole più giocare?
«Giocare in italia gli piace, conosce bene il campionato, ha segnato 135 gol. Penso tornerà. Non so dove e come. La priorità sarà sempre l’Inter».
Chi l’ha delusa di più?
«Chi parlava a nome mio senza conoscermi, non mi deludono le scelte di un club, quelle sono fatte per i conti».
C’è stato un momento in cui le è venuto da piangere?
«No. Da quando gli hanno tolto la fascia, sapevo che non avrebbe avuto problemi a trovare una squadra».
Tutta questa situazione ha influito sul vostro rapporto?
«Mauro non è abituato alla sofferenza, ma sa convivere con la difficoltà. Non bada alle voci. Poteva sopportare di restare all’Inter anche in una condizione difficile, ha una corazza e per la mia famiglia sarebbe stato più facile averlo in Italia: ma no, tra noi le cose vanno benissimo».
Suo marito a Parigi, lei a Milano: le cambierà la vita?
«Siamo una famiglia all’antica con tanti bambini e ci piace essere presenti. Stavo firmando il contratto di Mauro a Parigi e intanto chiamavo casa per aiutare a fare gli zaini per la scuola il giorno dopo. Sarà difficile, Mauro fa tanto».
Wanda è la buona o la cattiva della storia?
«Sono quella che l’ha risolta. Era difficile uscire da questa situazione e farlo trovando una squadra di quel livello. La scelta di Parigi rende orgogliosa me, lui e la famiglia. Da procuratrice sono riuscita a fare il meglio, senza tradire né la maggioranza dei tifosi che lo amano né l’Inter».
Au revoir Madame Wanda.
Da Il Messaggero.it il 26 settembre 2019. Wanda Nara infiamma i social. Nuda, sul letto, per un servizio fotografico. La moglie e agente di Mauro Icardi, ex attaccante dell'Inter, da questa estate ha iniziato a posare spesso senza veli. Adesso però si è mostrata come mamma l'ha fatta, senza censure, sdraiata sul letto avvolta da lenzuola bianche. Il video ha letteralmente fatto impazzire i fan su Instagram con oltre un milione di visualizzazioni. Tra loro anche Alessia Marcuzzi ha commentato con l'emoticon delle fiamme.
Da Fcinter1908.it il 26 settembre 2019. Per tanti Mauro Icardi è colui che ha “rubato” la donna all’amico. Zaira Nara, sorella di Wanda, ha voluto fare una precisazione in merito, cercando di rompere un tabù: “Penso che la parola” tabù “sia importante perché davvero per tutti Mauro “ha sposato la moglie del suo amico” e non è così. Se la relazione fosse durata sei mesi, tutti avrebbero detto “la famiglia si è separata a causa di un flirt”. Invece ecco l’amore. Oggi ci sono due figlie in comune e una famiglia insieme agli altri tre figli di mia sorella. Stanno insieme da 7 anni. Chiaramente non c’era nessun vincolo di migliore amico con Maxi. Nel calcio ci sono molti amici. Succede anche che quando un giocatore è lontano dal suo paese, ti prendi cura del resto degli argentini e questo può essere confuso con un’amicizia ”. Zaira ha anche elogiato le recenti dichiarazioni di Icardi in merito a Wanda: “Ho trovato eccellenti le parole di mio cognato. Wanda cerca i migliori benefici per Mauro come calciatore e per tutta la famiglia. È orgoglioso di essere rappresentato da Wanda.”
Davide Turrini per ilfattoquotidiano.it il 6 novembre 2019. Quando dice “parescio” è uno dei momenti più caldi della domenica sera. “Sero a sero” e “sona ciempion” aumentano le palpitazioni. “Grassie” ed “essordio” coronano rapidi gli attimi fuggenti in cui Wanda Nara si regala anima e corpo al suo affezionatopubblico. Quella “s” alla Omar Sivori che riesce a donarci una squadra inesistente – la “pal” – ma incredibilmente sexy – è la Spal, per chi fosse già in tachicardia – è il chiodo fisso di noi tikitakiani di ferro. Altro che le incazzature con saltello di Franco Ordine. Noi passiamo ore, traverse, pali e incontri ravvicinati con l’abbronzatura perenne dell’arbitro Cesari, solo per immaginare l’istante in cui quella consonante scivolosa che vaga nello studio di Canale 5 finisce tra le curve apoplettiche di Wanda. Che poi è uanda, vanda, wendi, tesoro, luce della mia vita. La schedina tra le dita, i risultati del giorno, una classifica presa di petto e giudicata per sommi capi con brividi lungo la schiena. Ma la Nara 2019/2020 finisce lì. Sacrificatissima. Le ricordate le liti furibonde, altrimenti dette triangolazioni, tra Bobo-Cassano-Wanda poco più di un anno fa? Quando il “caso Icardi” era più insondabile, incomprensibile, irrisolvibile di quello del triangolo delle Bermuda? Ecco, quest’anno ve le scordate. Anzi potete tornare ai tempi di Sara Ventura al Processo di Biscardi. Unica mansione: lanciare la pubblicità. E dire che la novità della Nara, in modalità trespolo Galagoal, anticipata dalla puntata in cui dopo pochi minuti aveva salutato tutti perché il calcio mercato stava per chiudere e lei doveva piazzare il marito al Paris Saint Germain, era parsa subito una genialità dell’ineffabile Pardo. Un po’ vigilessa in mezzo al traffico, un po’ soldatessa alle grandi manovre, Wanda poteva davvero essere una bomba ad orologeria. Un risultato inatteso, un commento; una vittoria in trasferta, una battuta; un salto in classifica dell’undici dei brocchi, un sorriso dalle labbra infuocate. Invece nulla. Nara deve correre come fosse una ladra. La classifica talvolta nemmeno gliela lasciano sotto agli occhi per più di otto secondi. La scena è tutta altrui. Domenica scorsa abbiamo conteggiato soltanto dodici, dicasi dodici, in quasi due ore di trasmissione, interventi e/o inquadrature di Wanda. Durata media dell’intervento/inquadratura: due secondi e mezzo. Interrotta in fase di fraseggio, sovrastata in area di rigore, lasciata ai margini della discussione, alla wandissima tocca addirittura porre domande qualunque da far penzolare in mezzo ai colleghi pescecani. “È l’Inter che ci si aspettava o manca ancora qualcosa?” (ehm, cosa?). “Bobo e Cassano giocano con qualche strumento?” (verbo sbagliato). “Ma non si dovrebbe sospendere più nemmeno la partita” (commentando, con sgomento del pubblico di sinistra, il caso Balotelli/Verona). Infine la frase sfumata: “Per me questa squadra…”. E le inquadrature rubate come a Non è la Rai? Una con ditino sotto al mento, una in cui fa “no, no” con la testina, un’altra corrucciata come Brigitte Bardot in bikini a Saint Tropez. Censurata, vilipesa, messa ai margini di Tiki Taka, Wanda nostra, l’Evita del calcio italiano, deve tornare al suo posto. Sul divano. Assieme a Giorgia Rossi, a fianco dell’integerrimo Carlo Pellegatti. Pierluigi tu che puoi tutto, tu che vuoi tutto, ingordo che non sei altro, ridacci Wandona nostra mughinianamente distesa e barricadera sul divanone bianco dove si fa la storia del calcio in tv.
· Sandro Mazzola.
Dagospia l'1 novembre 2019. Da I Lunatici Rai Radio2. Sandro Mazzola è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Mazzola ha parlato di quando giocava a calcio: "Con la notte quando giocavo avevo un rapporto difficile. La sera prima della partita facevo fatica a dormire, ci mettevano in camera in due, il mio compagno di stanza non riusciva mai a dormire. Parlavamo degli avversari, chiedevo informazioni sul mio marcatore. Avevo sempre una marcatura a uomo e un secondo pronto a venirmi a prendere se fossi riuscito a saltare il primo". Sul duello con Rivera: "Forse il calcio italiano ha perso qualcosa nel metterci l'uno contro l'altro. Quando andavamo in Nazionale a giocare all'estero tutti si meravigliavano, dicevano che ci volevano nella loro squadra, che poi ci avrebbero pensato loro a dare una maglia agli altri nove calciatori. Solo che a noi italiani piace un po' complicarci la vita da soli. Io e Rivera soffrivamo questa cosa. Ma non abbiamo mai litigato, a parte qualche derby. Siamo stati anche i primi a fare il sindacato dei calciatori, anche su quel campo avevamo le stesse idee. Quando la gente ci vedeva insieme si stupiva". Sul papà, Valentino Mazzola: "La sua storia agli inizi è stata un po' un ostacolo. Io giocavo nei ragazzi, l'Inter mi aveva scartato, c'era solo un osservatore che credeva nelle mie caratteristiche. Alla fine i nerazzurri si accorsero che ero migliorato, ero molto magro, avevo poca forza, l'Inter ha deciso di prendermi pagando una certa cifra quando vide che stavo sviluppando. Il Torino? L'ho sfiorato a fine carriera. C'era la possibilità di andare a Torino a chiudere la carriera però non me la sono sentita. Non ero più quello di prima, poteva sembrare una cosa ingiusta quella di andare a vestire quella maglia. Io facevo la mascotte del Torino quando c'era mio papà. La maglia del Torino ce l'ho nel cuore. Guai a chi la tocca. L'ultimo ricordo di mio padre? Mi viene in mente il Filadelfia. Quando mi portava agli allenamenti, mi sedevo in panchina e a fine allenamento mi faceva entrare in campo e tirare i rigori al portiere Bacigalupo, che era anche il numero 1 della Nazionale. Lui mi faceva segnare e io facevo il giro del campo, come se ci fosse il pubblico".
· Gianni Rivera.
Gianni Rivera: «Tavecchio mi voleva c.t., ora voglio fare l’allenatore». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Arianna Ravelli. A 76 anni ha preso il patentino. «Mi ispiro a Rocco che diceva: “Come gioco? Cudicini in porta e tutti gli altri fuori”». Astenersi nostalgici. Un’ora con Gianni Rivera al Foro Italico senza parlare di passato (o almeno solo un po’), ma di futuro. Sarà che Gipo Viani gli diceva che era «nato vecchio» («perché ero responsabile anche a 17 anni») ma adesso che ne ha 76, è più golden boy che mai. Meglio, un fanciullo convinto che il pallone sia un linguaggio intergenerazionale, e che Rocco, Liedholm e Fabbri siano i grandi classici in grado di spiegarlo a tutti.
Rivera, davvero vuole fare l’allenatore?
«Certo, ho preso il patentino. Prima ho aspettato che gli scienziati dicessero che si campa fino a 120 anni. Ho fatto 20 anni il calciatore, 22 il politico, potrei averne davanti 20 da allenatore».
Sul serio, come le è venuta l’idea?
«Tutto è partito quando, dopo Conte, la Federazione è rimasta senza tecnico. L’allora presidente Tavecchio aveva pensato a me, ma Ulivieri, il presidente dell’associazione allenatori, gli ha detto che non avevo il titolo».
Tavecchio ha pensato a lei prima di Ventura?
«Sì, allora Tavecchio ha chiesto a Ceferin: “ci tengo che Gianni abbia il titolo di allenatore”, e quello: “Scrivimi una lettera”. Tavecchio lo ha fatto e Ceferin ha risposto che non si poteva. Perché non gliel’abbia detto subito non so».
Così il titolo se lo è guadagnato.
«I primi due corsi, quello per allenare i giovani e per assistente allenatori li ho seguiti quando ero ancora presidente del settore tecnico, per capire come funzionava. Poi già che c’ero ho preso anche l’ultimo: è stato utile. Siamo andati a visitare West Ham, Atalanta, Juventus: alla fine capisci che gli allenamenti sono quelli, il campo è sempre grande uguale».
Ma come? e le tattiche? I sistemi di gioco?
«A me viene in mente Rocco che a chi gli chiedeva come avrebbe giocato ha detto: con Cudicini in porta, tutti gli altri fuori».
Ma Rocco non è superato?
«Macchè, gli allenatori non devono essere protagonisti. A me diceva mi te digo de fa questo e te digo de fa quell’altro però in campo te va ti. Quando parlava era una sentenza».
A occhio sembra che lei possa andare d’accordo con Massimiliano Allegri.
«Se dice queste cose sì. Ma è vero che mi riconosco in una certa gestione».
Ma torniamo ai corsi di Coverciano: utili?
«Sì, senz’altro. Ci sono settori come comunicazione, medicina, psicologia, in cui fai alcune cose come abitudine ma ti manca la tecnica. Io per esempio mangio senza glutine, mi sono confrontato con il medico».
E la tesi finale?
«Ne ho approfittato per metterci anche una proposta di legge che avevo fatto nel ‘90, per istituire il Ministero dello Sport, con ministro il presidente del Coni: così lo Stato si sarebbe occupato di giovani e di pratica sportiva. Il Cio lo avrebbe accettato. Al Coni si erano arrabbiati tutti, ma mi pare che la riforma di adesso sia andata molto oltre».
Per un lungo periodo della sua vita il calcio non è stato una priorità: seguiva le partite, ma neanche troppo...
«È vero, ero parlamentare e mi piaceva, facevo quello».
Di calciomercato, per esempio, non sapeva nulla...
«Io lo eliminerei».
Poi nel calcio come ci è tornato?
«È successo con Abete, mi hanno chiesto di fare il presidente del settore giovanile e poi quello del settore tecnico. Adesso mi hanno rimesso in gioco con il Club Italia, di cui stanno scrivendo il regolamento: per ora c’è la tessera. Hanno organizzato le partite tra le vecchie glorie, purtroppo io non posso più giocare. Adesso mi do al tennis, con l’età il campo si restringe».
E come mai non è diventato allenatore prima?
«Quando ho smesso di giocare, Felice Colombo mi ha chiamato subito a fare il vicepresidente del Milan. Il mio rammarico è che ho smesso assieme a Capello, lui ha fatto il primo corso che dava il patentino di A, avrei potuto farlo con lui. Ho visto Capello a Venezia, ci hanno dato il Leone d’oro alla carriera, io gli ho detto “ho aspettato che smettessi tu per iniziare io».
I proprietari del calcio sono cambiati, sono entrati i fondi d’investimento. Pensa che riuscirebbe ad adattarsi?
«Immagino che i fondi diventino proprietari per guadagnare sulla vendita, ma è molto difficile, se ti va bene perdi poco. In generale ci vorrebbe qualcuno che li aiuta ad accettare che il calcio è uno sport difficile, il bello è la sua imprevedibilità. Conoscendo l’ambiente potrei suggerire qualcosa a chi dell’ambiente non è».
Ma di questo Milan in difficoltà che dice?
«Mi dispiace, non so se è una crisi generale, tecnica, mentale, societaria. Sono tutti coinvolti. Mi sono meravigliato, i giocatori hanno più valore della classifica che hanno. Credo che la società potrebbe fare molto, ha i mezzi finanziari, l’ad non può pensare solo ai conti. Maldini e Boban immagino provino a dare una mano. Mi sono un po’ preoccupato quando ho letto che non vogliono metterci dieci anni a vincere...».
Rivera allenatore del Milan è...?
«Una domanda che non si può fare! Io l’allenatore lo posso fare dappertutto. Inaugurerei un sistema diverso…».
Cioè?
«Starei più in panchina, seduto! Se hai il vantaggio di vedere da vicino la partita, tanto vale guardarla... Sarei tra Rocco e Liedholm, il primo era più caldo ma non è che in campo facesse chissà che, Liedholm non si muoveva proprio. L’unica volta che si è alzato è quando uno a bordo campo faceva casino, ha detto “ti do un pugno di vantaggio, poi cominciamo a litigare”. Si sono messi tutti a ridere».
Sono i suoi punti di riferimento.
«Loro due e Fabbri: per me non sbagliavano mai. Fabbri ha inventato il libero davanti alla difesa. Purtroppo gli è capitata la Corea».
Ma oggi per lei chi sono gli allenatori bravi?
«Sono quelli che vincono, anzi quelli le cui squadre vincono. Perché in campo vanno i giocatori. Poi l’allenatore è l’unico che paga, il presidente da solo non si manda via, i giocatori non li puoi cambiare tutti. Fa parte del ruolo, per fortuna adesso guadagnano tanto. È per quello che sono sempre lì a ripetere 3-5-2, devono dimostrare che sono bravi strategicamente, devono raccontarla un po’, io non ho quella mentalità. Di sicuro non mi prenderei i meriti, ma sarei pronto a prendere le colpe».
Davvero sarebbe risposto a rischiare di farsi esonerare da un presidente mangiaallenatori?
«Da certi presidenti non andrei».
Saprebbe gestire la pressione.
«Credo che non mi sconvolgerebbe. Agitarsi? Non ce n’è motivo».
E i tifosi: sa che oggi esistono i social?
«I tifosi capiscono solo una cosa: vincere, ma non domani, ieri. Ho sempre avuto un buon rapporto con loro. Nel ’62 o giù di lì, andai a inaugurare uno dei primi Milan club, al bar vicino si era creato un po’ di casino. C’erano quattro vecchietti che giocavano a carte, uno ha chiesto cosa stava succedendo e l’altro gli ha risposto: “C’è Rivera, non lo riconosce? Vale mezzo miliardo”. E il vecchietto: “L’è propria vera, i danè vale po nigot (non valgono più niente, ndr)».
Di Mourinho, Guardiola, Klopp, che pensa?
«Per me sono tutti uguali, non studio le strategie degli altri».
E da cosa ripartirebbe lei?
«Dalla tecnica. Se non torniamo a insegnare la tecnica individuale prima dell’aspetto fisico atletico non andiamo lontano. Il pallone deve prevalere sempre».
I ragazzi di oggi sono cambiati, hanno mille informazioni, mille stimoli. Pensa che troverebbe una chiave per comunicare con loro?
«Una volta che gli spieghi che devono andare a letto col pallone, non abbandonarlo mai, solo per darlo a un compagno o per fare gol... È da lì che si deve partire, perché quando hai il pallone tra i piedi devi sapere che fare: tenerlo, darlo vicino, darlo lontano. Un po’ viene automatico, un po’ s’impara, è la tecnica».
Le piace la Nazionale di Mancini?
«Sì, sta lavorando con i giovani e gli stanno dando risultati. Qualificarsi con grande anticipo è un fatto significativo, così ora ne può provare altri. Penso che ci siano molti giovani italiani in grado di dare un contributo».
Cosa pensa della Var?
«Posso dire che la moviola è nata per stabilire se il mio tiro nel derby del ’67 era gol o no. Alla Var all’inizio ero contrario, ora dico: se c’è perfezioniamola il più possibile, perché la Var non può sbagliare. Certo ci fosse stata ai miei tempi mi avrebbe risparmiato un bel po’ di storie».
Tardelli poco tempo fa ha chiesto scusa a Brera, che però ha trattato molto peggio lei.
«Di sicuro, però poi siamo diventati amici. Lui aveva parlato degli abatini, gli altri due, Mazzola e Bulgarelli, se ne sono fregati, io gli ho risposto e sono diventato l’abatino doc. Dopo la Corea io ho fatto il mio miglior campionato, lui mi ha convocato nel suo ristorante di pesce dove poteva bere vino rosso per dirmi che dovevo tornare in Nazionale. Ma siamo diventati amici soprattutto perché ho apprezzato il vino rosso».
Perché non si è trovato un altro Rivera?
«Si vede che avevo caratteristiche difficilmente replicabili, forse un talento superiore alla media».
E oggi chi le piace?
«Ronaldo, Messi. Gli italiani? A quel livello non ce ne sono».
Rivera in panchina. Sarà difficile, ma quanto sarebbe divertente.
· Calcio Dotto (Emanuele).
CALCIO DOTTO (EMANUELE) MINUTO PER MINUTO. Cristiano Vella per Il Fatto Quotidiano il 4 giugno 2019. “Undecimo? Lo dicevo per due motivi, per ricordare un grandissimo galantuomo, che era Roberto Bortoluzzi, e perché l’italiano è una lingua bellissima”. Emanuele Dotto, voce storica dello sport italiano, tra i grandi di Tutto il calcio minuto per minuto ha lasciato ieri, dopo 39 anni di carriera. E ad ascoltare i suoi racconti, di Boskov, di Maradona, Zico, Merckx, sembra di ritornare a pomeriggi assolati di radioline appoggiate in equilibri precari purché funzionassero, fruscìo di schedine del Totocalcio e la voce gentile di Dotto a raccontare di portieri che avocano a sé il pallone all’undecimo minuto. “Il mio linguaggio ricercato? Parlo italiano, semplicemente, che è una lingua bellissima che oggi a volte viene mortificata”. Il racconto dello sport è cambiato, tanto, in 40 anni: è cambiato il linguaggio, “oggi Brera sembrerebbe una lingua straniera”, ed è cambiato lo sport stesso.
“La mia prima radiocronaca – racconta Dotto – è stata Berloni-Scavolini di pallacanestro, nel 1980, due anni dopo ho iniziato col calcio, con Varese-Lazio. Raccontavamo in maniera diversa: non c’era la spettacolarizzazione di oggi con la tendenza a enfatizzare qualsiasi cosa, non si badava granché ad agenti, procuratori o procuratrici. Era un’Italia povera, che sognava col Totocalcio”. Oggi invece c’è il campionato spezzatino: “È un po’ come il cibo: mangiare troppo ti porta la nausea, e oggi con questa bulimia si assiste anche alla minor partecipazione emotiva. C’è stato un cambiamento profondo e radicato: a me ormai il calcio sembra un altro sport, forse perché io sono del ’52 e resto ancorato ai valori di quel tempo. La mia era l’epoca in cui c’erano le bandiere, oggi semmai ci sono le banderuole”.
Infatti tra i tanti campioni incontrati in 40 anni di sport i ricordi di Dotto partono da un punto diametralmente opposto a gloria e lustrini: “Penso subito a Osvaldo Bagnoli, una delle persone più belle e intelligenti che ho conosciuto nonostante non avesse studiato. Ricordo quando ero a Verona con gli scaligeri che persero contro la Juventus che ebbe vari episodi arbitrali a favore: negli spogliatoi Volpati per la rabbia tirò uno zoccolo in una vetrata, rompendola. A quel punto si affacciò un ufficiale dei carabinieri per chiedere se andasse tutto bene e intervenne Bagnoli con la famosa battuta “Se cercate i ladri sono nell’altro spogliatoio””.
Come dimenticare poi Boskov: “Laureato in storia e geografia, potevi parlarci di tutto: mi diceva “gentilezza costa poco e compra tutto”. Ricordo che gli chiesi il motivo dello spostamento di Invernizzi in posizione arretrata, alla Samp. Mi rispose: “Uomo che fugge è buono per altra battaglia” frase che riflette la genialità dell’uomo”.
L’episodio più curioso con Zico, fuoriclasse brasiliano dell’Udinese: “Mi riconobbe trent’anni dopo per quel che emerse da una mia domanda. Io gli avevo chiesto cosa lo avesse colpito di più dell’Italia e lui mi rispose che erano state le banane, perché se le avesse date ai suoi maiali lo avrebbero morso vista la qualità scadente rispetto a quella del Sud America. Trent’anni dopo mi ha incontrato e mi ha riconosciuto come “quello delle banane””.
Nessun dubbio per Dotto sul più grande di tutti: “Maradona, l’esempio perfetto di ciò che distingue il calciatore dal fuoriclasse, con tutti i suoi problemi” e sempre legati a Napoli sono i campioni che ricorda con più piacere: “I fratelli Abbagnale, cui aggiungo anche Agostino: sono il top per umanità, si sono davvero fatti “il mazzo” per vincere e sono stati stupendi anche nelle sconfitte. Ecco: il calcio dovrebbe imparare da loro e dal canottaggio, non c’è scusa o arbitro che possa influire e vince chi è più forte”.
Emanuele Dotto e l'ultima radiocronaca: "Come uscire da un giardino incantato". Va in pensione l'ultimo di una linea dinastica del calcio radiofonico che comincia con Nicolò Carosio per proseguire con Ameri, Ciotti, Bortoluzzi, Provenzali, e Cucchi: "La radio è fantasia, immaginare e lasciarsi guidare. Il giornalismo un privilegio e un dovere sociale. Oggi Brera sarebbe una lingua straniera" Maurizio Crosetti il 26 giugno 2019 su La Repubblica. Lui che ama i classici e il latino, forse direbbe "nomen omen": perché davvero Emanuele Dotto è dotto. Ora se ne va in pensione con quella voce piena di giochi di parole, armonia e ironia, ultimo di una linea dinastica del calcio radiofonico che comincia con Nicolò Carosio per proseguire con Ameri, Ciotti, Bortoluzzi, con l'indimenticabile Provenzali, e arrivare a Riccardo Cucchi e, appunto, Emanuele Dotto. I patriarchi di un sogno leggero come l'aria, profondo come le emozioni più vere.
Hai pianto, domenica 2 giugno, al microfono del Giro: era l'ultima telecronaca. "Perché esco da un giardino incantato dove ho raccolto fiori per 39 anni e mezzo". Emanuele, cos'è la radio? Cosa c'è dentro la scatola?
"E' fantasia, è raccontare, è Manzoni, è De Roberto. E' immaginare, è lasciarsi guidare. Io ho provato a far capire agli altri un mondo guardato con gli occhi di un bambino".
E il giornalismo, Emanuele, cos'è?
"Un privilegio e un dovere sociale. Un servizio e un godimento senza fine. Quanti musei mi ha fatto visitare, e pure gratis! Non dimenticare che sono genovese..."
Come cominciò?
"Non avevamo la televisione, mio padre aveva capito con notevole anticipo sul Grande Fratello o Barbara D'Urso che la tivù può rendere abbastanza stupidi: e dire che quella televisione, rispetto a oggi, era la Treccani. Dunque, in casa la radio era sempre accesa: per Gran Varietà con Dorelli, per la musica da ballo, i concerti sul terzo canale, la santa messa, i radiodrammi, le commedie di Eduardo e Govi, i radiogiornali e naturalmente Tutto il calcio".
Finché non ti hanno dato un microfono e un paio di cuffie da astronauta.
"Ero stato al Corriere Mercantile e al Giornale di Montanelli, e nell'80 venni assunto dalla Rai, sede regionale della Liguria. Da lì, in fondo periferia, ho cominciato a girare il mondo. Diciamo che mi considero un evaso".
E' anche una bellissima storia familiare. Tuo fratello Matteo è una colonna dello sport Mediaset.
"Più piccolo di dodici anni, lo portavo in giro nei servizi e lui telefonava i tabellini dell'Ausonia Basket al giornale: l'ho svezzato così. Siamo figli di ferroviere. Diciamo che Matteo, caporedattore e uomo-macchina, è un capostazione mentre io ho fatto parte del personale viaggiante".
Da Dotto a Dotto, passando per il terzo, che fratello non è: Giancarlo.
"Oh, qui ho una gag divertente da raccontare. Eravamo in albergo ad Amsterdam per un Ajax-Milan e mi arrivavano strane telefonate di attori, teatri, registi. A un certo punto mi chiamò persino Carmelo Bene per farmi una scenata. In quel mentre, Giancarlo riceveva gli squilli di Massimo De Luca che gli chiedeva della radiocronaca. Insomma, al centralino avevano scambiato i due Dotto".
Quando si va in pensione bisogna ricordare i maestri.
"Oggi Brera sarebbe una lingua straniera. L'Arcimatto era lento nel parlare, era pacato eppure modernissimo. Ma che pubblico potrebbero mai avere oggi sui social Arpino, Montanelli, Enzo Biagi e Giuanbrerafucarlo? Viviamo tempi che esaltano chi non sa assolutamente nulla e lo ostenta, lo urla e talvolta così arriva pure in Parlamento".
Un pallone, le bici, le parole per dirlo, e noi di qua dai diffusori ad ascoltare. E poi?
"Vorrei parlarvi de 'I Bari di Caravaggio' che andai a cercare al Kimbell Art Museum di Fort Worth, tradendo per qualche ora la nazionale di calcio. Oppure de 'La cattura di Cristo', è sempre un Caravaggio, che ammirai a Dublino dopo una volata vinta da Kittel: il traguardo di quella tappa del Giro era proprio davanti alla National Gallery of Ireland. Se vai a Siena, non puoi non vedere l'Assedio di Montemassi dipinto da Guidoriccio da Fogliano, se sei a Ravenna e ti perdi l'Abbazia di Pomposa vuol dire che sprechi un match-point".
Come si fa a essere così forbiti in una radiocronaca da Marassi o dal Cibali?
"Basta aver fatto il classico e amare la nostra meravigliosa lingua: non è pedanteria ma rispetto. Siamo figli di un'irripetibile storia di parole, nei Promessi Sposi c'è già tutto ma proprio tutto".
Emanuele, hai 67 anni, sei una voce amica di tanta gente e sembri ancora un bambino.
"Voglio morire a cent'anni facendo il giornalista".
· Sandro Piccinini.
IL CALCIO “'CCEZIONALE” DI SANDRO PICCININI. Maurizio Caverzan per la Verità il 10 settembre 2019. Sandro Piccinini è appena tornato da Londra: una delle mete del suo anno sabbatico? «Per la verità, da qualche tempo Londra è la mia seconda città», racconta il telecronista sportivo ex Mediaset. «Ho cominciato a conoscerla per lavoro, poi ci ho preso casa e mi sono fatto degli amici. È una città immensa, caotica, piacevole. La Brexit? Non so se ne risentirà, è abbastanza forte per conservare tutta la sua attrattiva. C’è sempre sullo sfondo una possibile retromarcia, un nuovo referendum e la possibilità che Boris Johnson cada. Londra è sempre Londra». Miami, Cuba, Shangai, Hong Kong sono state le altre mete di quest’anno di pausa, iniziato dopo i Mondiali di Russia 2018 e trasmessi in esclusiva da Mediaset. Di cui Piccinini, sessantunenne romano, ha commentato la finale tra Francia e Croazia.
Parlando di retromarce, alcune partite di Champions League torneranno su Canale 5: e tu?
«Io e Mediaset ci siamo lasciati dopo 30 anni di matrimonio felice. Nell’ultimo giorno di lavoro ho commentato la finale mondiale. Difficile tornare insieme dopo una separazione consensuale. L’anno sabbatico è finito, ma è molto probabile che si prolunghi. Sia perché, avendo guadagnato abbastanza posso aspettare senza frenesie una proposta stimolante, sia perché il mercato televisivo è piuttosto ingessato».
Qual è stato il vero motivo della separazione?
«Continuando la metafora sentimentale, quando ci si separa dopo 30 anni non è elegante svelare il motivo. Anche le coppie migliori hanno voglia di cambiare».
Possibili ripensamenti?
«Tutto è possibile, ma li ritengo improbabili. Mi avrebbe sorpreso se mi avessero chiamato per la Champions».
Altre strade?
«La Rai non può assumere esterni da un giorno all’altro. Sky ha quasi più telecronisti che partite e Dazn è una realtà appena nata. Inoltre, io sono una figura ingombrante il cui innesto può provocare malumori che non sempre i direttori subiscono volentieri. Credo bisognerà attendere il nuovo contratto dei diritti, quando qualche nuovo marchio di streaming potrebbe ricorrere alle prestazioni di un telecronista sufficientemente popolare».
C’è qualcosa che accomuna gli addii a Mediaset di Ettore Rognoni, storico direttore dello sport, di Piccinini, voce principale del calcio, di Carlo Pellegatti e di quello, prossimo, di Maurizio Pistocchi?
«Direi di no. Isolerei la situazione di Rognoni, un dirigente che appartiene alla stagione di Carlo Freccero direttore di Italia 1, Giorgio Gori di Canale 5 ed Enrico Mentana capo del Tg5. Persone difficilmente sostituibili. Gli altri casi sono diversi tra loro. Pellegatti è andato in pensione. Pistocchi vive un dissidio con l’azienda e mi dispiace, ma è ancora lì. Dal 1996 io ero free lance e rinnovavo annualmente il contratto, fino alla separazione».
Come hai trascorso l’anno sabbatico?
«Sono stato benissimo. Molti avevano pronosticato: dopo due o tre mesi le partite ti mancheranno. Magari succederà, ma finora non è accaduto. Ho viaggiato anche in Italia, visitato bei posti, alcune mostre, ho condotto una vita più rilassata, come in una lunga vacanza. Sì, qualche sera mi è mancata la partitona di Champions, ma ti assicuro: nessun attacco di panico. Prolungare questa vacanza per adesso non mi dispiace».
È comprensibile che dopo 1800 telecronache se ne avverta la mancanza.
«In realtà sono di più. Le ho contate fino a duemila poi basta, non so se siano 2100 o 2200».
La più avventurosa?
«Bisogna tornare ai tempi delle tv locali, quando feci una cronaca senza vedere la partita».
Cioè?
«Lavoravo a Teleregione, un’emittente romana. A Firenze c’era Fiorentina-Lazio e a quell’epoca radio e tv locali non erano ammesse nella tribuna stampa con i telefoni fissi. I cellulari non esistevano. In settimana io e Raffaele Pellegrino, ora produttore al Tg5, facemmo un sopralluogo accorgendoci che nel bar della tribuna centrale c’era un telefono a gettoni. Purtroppo sugli spalti gli spettatori seguivano la partita in piedi e da quel telefono si vedevano solo le loro nuche».
Quindi?
«Inventammo il nostro sistema: ci munimmo di un sacchetto con 400 gettoni e di tanti foglietti da compilare con scritto “tiro di…”, “fallo di…”, “dribbling di…”. Pellegrino guardava la partita, aggiungeva i nomi dei calciatori e mi portava dieci foglietti alla volta. Intanto io facevo la mia radiocronaca di fantasia alla quale aggiungevo le note dei foglietti. In pratica, dicevo i fatti con uno o due minuti di ritardo».
Nessuno se ne accorse?
«Non c’erano le pay tv e le partite in diretta a smascherarci. Solo Tutto il calcio minuto per minuto, che però si collegava sporadicamente. Il problema era il gol, infatti speravamo finisse zero a zero. Invece vinse la Fiorentina 3 a 0. Alla fine della partita mi ritrovai con una decina di gettoni e un mal di testa feroce».
La telecronaca più difficile?
«Juventus Milan, finale Champions League del 2003, 20 milioni di telespettatori su Canale 5. I calci di rigori fecero l’80% di share, chissà che cosa guardava il residuo 20%. Fu una telecronaca stressante di una partita equilibrata, noi eravamo la tv del presidente del Milan. Ma non arrivò mezza telefonata di protesta».
Quella più emozionante?
«Francia Croazia del Mondiale 2018, che arrivò al termine di un mese di telecronache, esperienza entusiasmante anche se non c’era l’Italia di mezzo».
Il più grande telecronista di sempre?
«All’inizio mi piaceva Giuseppe Albertini della tv della Svizzera italiana, poi telecronista del Mundialito Fininvest. In assoluto però prediligevo Enrico Ameri, l’unico sempre in sincronia con l’azione, capace di trasmettere il pathos del pubblico».
Nelle telecronache di oggi l’eccesso di protagonismo dei commentatori si sovrappone all’evento?
«Si parla troppo. I telecronisti stanno ridiventando radiocronisti. In tv non si deve dire tutto quello che già si vede, basta accompagnare l’azione, magari dicendo il nome del giocatore. Troppe parole soffocano il telespettatore. Telecronista, seconda voce, bordocampista: un diluvio. Per distinguersi, si eccede».
Un nome in positivo?
«Massimo Callegari, che lavora in Mediaset e a Dazn. Mi sembra quello più misurato e vicino al mio stile. Conosce i tempi del calcio, avendolo giocato».
Ti mancano i programmi, tipo Controcampo?
«Non particolarmente. La mia passione è per la telecronaca, i programmi sono stressanti. Ora, non facendone da tempo, potrei sperimentare nuove idee. Ma ci vorrebbero le persone giuste».
Il programma preferito?
«Il più delle volte dopo il novantesimo cambio canale. Il Club di Fabio Caressa è tranquillo, forse troppo. Non mi dispiacciono quelli di Federico Buffa e Giorgio Porrà, ma non è che corro a casa per non perderli. Sono programmi perfetti per arricchire l’offerta delle pay tv».
Chi sono stati i tuoi maestri?
«Ameri, di cui conservavo le cassette audio. Poi ho rubacchiato qua e là. Da Rognoni a Fabio Galimberti, direttore di TeleRoma56, dove approdai dopo quel Fiorentina Lazio. E poi Michele Plastino, che mi ha insegnato a stare in studio».
È stata l’estate delle rivoluzioni: come vedi Maurizio Sarri alla Juventus?
«Bene, se la società è convinta della scelta. Se fai la rivoluzione devi crederci, come dimostrò Berlusconi quando prese Arrigo Sacchi. Sarri è un grande allenatore e i giocatori sono fortissimi. Quando un allenatore propone metodi nuovi i campioni possono avere un attimo di smarrimento. Ma siccome alla Juventus c’è la cultura del lavoro non vedo pericoli».
Antonio Conte all’Inter?
«Stesso discorso. Conte ha lavorato bene in situazioni diverse e ha le carte in regola per continuare a farlo. Io penso che le partite le vincano i giocatori, ma lui è maniacale e pretende dedizione totale. Molti dicono che l’Inter si è mossa benissimo sul mercato, per me si è mossa bene».
La Roma che lascia andare Francesco Totti e Daniele De Rossi?
«James Pallotta ha dimostrato di saper essere brutale e di non farsi condizionare dalla mozione degli affetti. È accaduto quando Totti ha smesso di giocare. E con De Rossi che avrebbe potuto essere utile alla causa un altro anno o due».
Ieri è partito il campionato: preferisci sbilanciarti sul podio finale o dare i voti al calciomercato?
«Il calciomercato non è ancora finito, quindi... La Juve mi sembra un gradino sopra Napoli e Inter che vedo sullo stesso livello». (...)
La Juventus vincerà la Champions?
«È una competizione in cui la fortuna ha un ruolo fondamentale. Sorteggi, infortuni, arbitraggi. Tutte le ultime 20 vincitrici hanno goduto di un momento favorevole. Pensiamo al Chelsea di Di Matteo, massacrato dal Napoli nei gironi eliminatori. La Juventus può arrivare in fondo, ma tante squadre si stanno rinforzando. Per esempio, se il Barcellona prende Neymar…».
Concordi con Mourinho che a proposito del Var ha detto che «solo i ladri possono essere contrari alle telecamere di sicurezza»?
«Concordo, anche se capisco chi non ama il Var al 100%. In Manchester City Tottenham al 94° un gol è stato annullato perché il pallone ha sfiorato una mano. A volte l’eccesso di zelo mortifica lo spettacolo. Ma nessuno tocchi il Var, sempre meglio del far west di prima».
Quanta strada farà l’Atalanta in Champions?
«Dipende molto dal sorteggio. È una squadra solida, entusiasta, che ha fatto una buona campagna acquisti. Ma in Champions tutti giocano con questo spirito».
Il Milan arriverà quarto?
«Vediamo le ultime mosse di mercato, Leao è un ottimo acquisto. Dipende da quanto la società sosterrà Marco Giampaolo. È un grande test anche per Paolo Maldini».
Dove farà il telecronista Sandro Piccinini?
«Fra due anni, spero in un nuovo grande gruppo dello streaming, tipo Amazon o Apple, ai quali potrebbe servire un telecronista popolare. Prima la vedo dura. Aspetto, tranquillo».
· Che brutto il calcio moderno, ha tolto l’anima al pallone.
90 anni di campionato: il 6 ottobre 1929 nasceva il girone unico. Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 da Corriere.it. 90 anni e non sentirli. Cadrà domenica lo speciale anniversario per il campionato di Serie A a girone unico, iniziato il 6 ottobre del 1929 e conclusosi con la vittoria dell’Ambrosiana. Le celebrazioni che cominceranno nel corso della 7ª giornata -durante la quale verrà anche osservato 1’ di silenzio per la scomparsa di Giorgio Squinzi- dureranno nove mesi. «La Serie A è parte della storia di ognuno di noi» ha dichiarato l’ad Luigi De Siervo. Diverse le iniziative, dal logo ‘90’ che apparirà negli stadi alle collaborazioni con Radiorai e le tv. Entro fine anno verrà pubblicato un libro che ripercorrerà la storia della A dal 1929 a oggi e in primavera a Milano verrà allestita una mostra. Ai top 11 degli ultimi 90 anni saranno dedicate copie di un’opera realizzata da Paolo Todeschini, ex calciatore e allenatore e poi divenuto scultore. Dipinti sui calciatori realizzati dagli artisti Rock&Loste caratterizzeranno le pareti esterne del palazzo di via Rosellini. Questi i risultati della prima giornata della storia:
Alessandria-Roma 3-1
Juventus-Napoli 3-2
Lazio-Bologna 3-0
Livorno-Ambrosiana 1-2
Milan-Brescia 4-1
Padova-Modena 1-3
Pro Patria-Cremonese 4-2
Pro Vercelli-Genova 3-3
Triestina-Torino 0-1
Massimo Fini per il “Fatto quotidiano” il 14 agosto 2019. Venerdì ho letto sul Fatto, a firma di Lorenzo Vendemiale, una notizia sbalorditiva, che però è scivolata via come se nulla fosse. La notizia è questa: la società bianconera ha deciso di vietare, per il prossimo campionato, l' ingresso allo Stadium a tutti i tifosi, e anche non tifosi, che, residenti a Torino o altrove, sono nati in Campania. Ma come? Sono anni che ci rompono i coglioni con la "discriminazione razziale" allo stadio mettendo sotto accusa striscioni sostanzialmente innocui, perché ironici, come "Forza Vesuvio" se si è a Verona o, a campi invertiti, "Giulietta era una zoccola", e adesso si accetta tranquillamente un provvedimento che non si può definire altrimenti che razzista? La società bianconera ha dovuto poi fare marcia indietro, dopo che la Questura di Torino si era giustamente dissociata da questo dissennato provvedimento che configurava un reato. La legge Mancino del '93 punisce con la reclusione fino a un anno e 6 mesi chi "istiga all' odio razziale". Personalmente sono sempre stato contrario a questa legge perché, a parer mio, esiste un diritto all' odio, che è un sentimento come la gelosia o l'ira, che può essere punito solo quando si materializza in atti concreti (cioè se torco un solo capello alla persona che odio allora sì devo andare in gattabuia). Ma visto che la legge c'è a quel punto avrebbe dovuto essere applicata anche al signor Andrea Agnelli, attuale presidente della Juve. Fra due settimane inizia il Campionato. E a me come a molti altri della mia generazione sale una sorta di disgusto. Cosa singolare perché la mia generazione, diciamo quelli che erano ragazzi negli anni 50 e nei primi 60, aveva solo il calcio, il grande sport nazionalpopolare insieme al ciclismo. Il tennis era roba da ricchi, lo sci lo conoscevano solo quelli che abitavano in montagna, il basket apparteneva, insieme al baseball, alla cultura americana e quel gioco non era ancora entrato nella nostra mentalità e nel nostro costume, a differenza della pur mediocre letteratura yankee dell' epoca, introdotta in Italia da Elio Vittorini con Americana (Steinbeck, Irwin Shaw e l'indigeribile Saroyan). Il calcio lo abbiamo giocato tutti, ognuno al suo livello, nei cortili, in strada, a Milano nei terrain vagues lasciatici graziosamente in dono dai bombardamenti americani e poi, diventati un po' più grandi, nei campi regolari di qualche società minore. Ma negli ultimi decenni economia e tecnologia (vale a dire la tv) hanno via via distrutto i motivi rituali, mitici, simbolici, identitari, comunitari, che per un secolo e passa hanno fatto la fortuna di questo gioco. Oggi le squadre, non solo di A, ma di B e anche di C, sono zeppe di stranieri e a volte in partite di cartello del nostro Campionato non vedi in campo un solo giocatore italiano. I giocatori cambiano squadra ogni anno e, grazie al calciomercato di gennaio, all' interno della stessa stagione, con tanti saluti alla regolarità del Campionato. Le maglie, per esigenze degli sponsor, vengono cambiate quando la squadra gioca in trasferta. Come si fa a identificarsi? Con la politica degli abbonamenti (denaro che entra in anticipo) è saltato anche l' elemento comunitario e interclassista, la suburra va dietro le porte, gli altri, a seconda del loro status, nelle diverse tribune. Un tempo il piccolo imprenditore sedeva accanto al suo operaio, gli spettatori si diluivano per estrazione sociale ed età nell' intero stadio, se si cacciano tutti i ragazzotti nelle curve come si può poi pretendere che non facciano casino? Le pay tv e le pay per view hanno introdotto un altro elemento di discriminazione sociale. Per esigenze televisive si gioca ogni giorno e a ogni ora: venerdì c' è un anticipo di B, il sabato la B e due anticipi di A, a mezzogiorno di domenica c' è una partita di cartello, alle tre del pomeriggio giocano le squadre meno interessanti, alle 18.30 altra partita, la sera il match più importante, il lunedì il posticipo di A, il martedì e il mercoledì c'è la Champions, il giovedì quella competizione comica che è l' Europa League e la danza infernale ricomincia. Anche i più importanti campionati stranieri, Premier League, Liga spagnola, Bundesliga, sempre per esigenze televisive sono tarati in modo da non collidere fra di loro. A tutto questo si è aggiunto il Var. Una squadra segna ma i giocatori e gli spettatori trattengono il fiato. C'è il Var. Si crea una sorta di comica assemblea fra arbitro, tre ometti in tenuta da gioco che stanno nelle catacombe dello stadio e fra poco, per non essere influenzati, in un punto imprecisato dello spazio, i guardalinee, il "quarto uomo". Solo quando l' arbitro indica il cerchio di centro campo o il punto da cui deve essere battuta la punizione per un presunto fuori gioco si può esultare o piangere. Ma in quel momento sul campo non sta succedendo nulla. Una situazione surreale. Il calcio andrà a morire per overdose, come tutta la nostra società. Ce lo saremo meritati.
ALLEGRI-ADANI, MEJO DI UNA SERIE TV. Filippo Bonsignore per corriere.it il 4 maggio 2019. Allegri-Adani, atto secondo. Senza polemiche, con toni tutto sommato concilianti, qualche puntura ma senza trascendere. Ad una settimana dallo scontro post Inter-Juve, il tecnico bianconero e l’ex difensore, ora commentatore di Sky, si sono ritrovati sul ring dopo Juve-Toro. Ed è stato un dopo partita lunghissimo per i tempi inconsueti di permanenza di un allenatore ai microfoni, tempi che sono regolati dalla Lega Calcio. Allegri è rimasto 23 minuti a parlare, prima del derby («Pareggio meritato, la sconfitta sarebbe stata ingiusta») poi dei temi su cui si è accesa la rissa verbale la scorsa settimana. Al gong, sono rimaste cristallizzate le due visioni differenti del calcio: Allegri fedele al risultato ad ogni costo, Adani idealista dell’estetica e del bel gioco. Max riassume: «Il calcio non è una scienza esatta, è arte. Quello che fanno Ronaldo e Messi è arte. Puoi prendere tutti i foglietti che vuoi e scrivere…». «Che cosa puoi fare per far diventare dominante la Juve?» domanda Adani, che chiede anche un parere sulla sconfitta del Liverpool contro il Barcellona in Champions League. Il tecnico bianconero risponde: «Ho allenato Milan e Juve: sono club che hanno Dna e contesti diversi. Non si può scimmiottare altri club, come Bayern Monaco o Barcellona, ognuno ha la sua identità. Il Liverpool? Ci sono categorie come in tutte le cose, giocatori di livello che fanno la differenza. Loro e il Barça hanno avuto quattro palle gol a testa, ma il livello del Barcellona è superiore e ha fatto tre gol. L’avevo detto ad ottobre che il Barcellona era il grande favorito per la vittoria della Champions, ha gente che fa la differenza». Anche la Juve ha uno come Messi, vale a dire Cristiano Ronaldo, obietta Adani. «Con l’Ajax siamo andati in difficoltà dopo aver subito il pareggio, c’era troppo timore, bisognava mantenere la serenità» analizza Max. Che poi ribadisce: «L’allenatore ha il dovere verso l’azienda di portare in fondo i risultati, poi come si portano in fondo è opinabile. Però c’è un dato di fatto, quelli che vincono sono pochi, anche qui ci sono le categorie. In cinque anni abbiamo vinto cinque scudetti e disputata due finali di Champions League e non credo che abbiamo sempre giocato male, poi ci sono le mode…». Sono, in ogni caso, prove di tregua: «Quello che è successo sabato mi è dispiaciuto, era solamente uno sfogo dopo la partita — chiarisce Allegri —. Si parla tanto di evoluzione del gioco, ma come dico sempre credo che non sia tutto da buttare quello che ci hanno insegnato i vecchi allenatori. Parlo per i nuovi allenatori che devono crescere: fare questo lavoro è un mestiere difficile. Significa avere sensibilità e percezione, capire i momenti della stagione, altrimenti diventa tutto troppo scientifico. Poi rispetto i criteri di tutti, è giusto che vengano fatte delle critiche». Sipario definitivo?
POMO D’ADANI. Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport” l'1 maggio 2019. Allegri: «Sta’ zitto!». Adani: «Sta’ zitto lo dici a tuo fratello!». Allegri il giorno dopo, assente Adani: «Accuse da chi non è ferrato». Adani due giorni dopo, assente Allegri: «Lui è stato scortese, arrogante e anche maleducato». E noi a guardare, noi giornalisti sportivi, e a commentare a una distanza d’insicurezza stupidamente voluta e cercata da altri giornalisti sportivi. Aldo Grasso, uno che quando non scrive di televisione si fa leggere volentieri, l’ha risolta con «una frase che riassume bene il disprezzo della critica: “I critici sono come gli eunuchi di un harem: sanno come si fa, lo vedono fare tutti i giorni, però non sono capaci di farlo”. Allegri non l’ha detta, ma il senso era quello». A differenza degli eunuchi, noi giornalisti sportivi ci siamo tagliati le palle da soli condannandoci a una sorta di impotenza coeundi. Mi spiego. Diverso, in questo caso come in altri che l’hanno preceduto, è il peso dei contendenti - Adani è un libero portatore di opinioni per conto terzi probabilmente ben pagato, il secondo un professionista di successo abbondantemente ripagato da trofei e milioni - tanto che nei commenti la maggioranza (non juventina) tende ad attribuire il ruolo di vittima a Adani e quello di arrogante persecutore a Allegri («io non dimentico»). Nella sostanza, Adani ha avuto la possibilità di studiare da Allegri, ma ha scelto altre strade, assumendosi il diritto di criticarne l’operato. Senza entrare nel merito del modo, risulta evidente la disparità di peso, tanto che Allegri avrebbe potuto o dovuto rinunciare al battibecco fin dalle prime battute, evitando il rischio di creare una vittima. Cosa che ha fatto, invece, regalando uno straordinario momento di fama all’interlocutore: contrariamente a chi dice che Adani sarà punito e allontanato da Sky, ritengo più probabile che ne trarrà un forte vantaggio professionale. Da opinionista. Sempre che non intervenga qualcuno a proporne la promozione a giornalista. Il professionista dell’informazione e della comunicazione ha una facoltà di critica garantita dall’appartenenza a un Ordine che può, in caso di scorrettezze, censurarlo in varie forme. Gli opinionisti - salvo eccessi da querela - possono dire quel che vogliono, come da antico spot. E stupisce che le grandi aziende d’informazione, dotate di decine se non centinaia di giornalisti professionisti, preferiscano impiegare al loro posto una larga maggioranza di opinionisti senza regole, quasi a lasciare intendere che i giornalisti veri - salvo poche eccezioni - non abbiano le capacità di sostenere confronti “coraggiosi” con i vari addetti ai lavori, dirigenti, allenatori, giocatori. Nei grandi conflitti “ideologici” di un tempo, fra difensivisti e offensivisti, con responsabili delle nazionali o delle federazioni, la critica e i contrasti più accesi vedevano protagonisti i giornalisti e non, come oggi, i loro surrogati. In Rai, un tempo, Giorgio Tosatti parlava per sé e per l’azienda anche in un inatteso battibecco con un tecnico come Mazzone. Così come faceva nel suo giornale. Con proprietà di linguaggio e senso di responsabilità. Oggi Allegri si sente definire “arrogante” da chi non sa che l’arroganza indica “la richiesta e l’appropriazione di ciò su cui non si possono vantare diritti”. Allegri i suoi tituli li ha vinti, non pretesi per tenere testa a un opinionista scomodo. Non prendo la parte né dell’uno né dell’altro, anche perché di Adani apprezzo la passione, la spontaneità-genuinità tutta emiliana e l’applicazione, lo studio (lui parla di ciò che vede e rivede più volte) mentre ad Allegri i difensori li devono consegnare Paratici e Agnelli. Rimpiango semplicemente un passato in cui i vari Baretti, Cannavò, Crespi, Cucci, De Cesari, Melidoni, Mura, Palumbo, Tosatti e Zanetti “pesavano” non soltanto per competenza e personalità ma per spazi legittimamente conquistati e garantiti dal ruolo, dall’esperienza, dalla conoscenza e dalla eccellente comunicativa. Oggi, anche per colpa di qualche collega ortofrutticolo (protettore dei propri orticelli) il giornalista sportivo orfano di testata ricava spazi di espressione in qualche televisione privata o sui social. PS: A Max dico che se il calcio ad altissimo livello fosse così semplice come lui afferma non ricorrerebbe a un guru della tattica quale è Dolcetti e allo staff di match analyst diretto dal figlio dell’indimenticabile Scirea.
ADANI, MA CHI TI HA DATO LA PATENTE (DI CRITICO)? Pierluigi Panza per Giornalisti nel pallone il 30 aprile 2019. Ho apprezzato e scritto positivamente su Allegri dal primo giorno in cui è venuto alla Juve: anche se le strade dovessero separarsi per stanchezza i risultati parlano da soli. Ho scritto che comprare Cr7 non è uguale a vincere la Champions. Basta questo per essere un critico di calcio? No. Mi scuserete un’incursione “colta” nel territorio del tifo, ma la paradossale scena Allegri-Adani-Sky può essere d’aiuto per mettere le cose a posto. Allegri, che è l’oggetto della critica, accusa il “critico” Adani di essere un teorico e di leggere libri (che è, infatti, quello che un vero critico dovrebbe fare); Adani “critico” senza esserlo, si difende dicendo che lui non ha studiato (paradossale per un critico); Sky che, come tutti non dovrebbe fare incontrare critico e oggetto della critica ma affidare a giornalisti-cronisti dotati di terzietà l’onere dei fatti e delle domande, li fa scontrare. Tre errori paradossali.
La figura del critico nasce nel XVIII secolo come soggetto di mediazione e valutazione tra pubblico e oggetto di studio (arte, letteratura, spettacoli, manifestazioni). La sua fondatezza si basa o sulla consapevolezza che esista una Teoria di ciò che valuta (Diderot) o sulla base di una vasta conoscenza di ciò che valuta (Caylus), ovvero sull’osservazione e lo studio (proprio i libri). Il critico non è l’artista, non è il letterato e non è il musicista: se svolgesse i due ruoli sarebbe in conflitto. Non esiste un critico di musica lirica che fa anche il sovrintendente o il direttore d’orchestra e male quando uno scrittore si mette a fare il critico letterario.
Diventano critici perchè sono dei falliti? E’ la tesi di Allegri, una tesi molto popolare la cui paternità va al filosofo Nietzsche (anche qui il cognome è difficile, come Szczesny), che scrive: “Si immaginino le nature debolmente artistiche…contro chi volgeranno le loro armi? Contro i loro nemici secolari, gli spiriti artistici forti… A costoro viene sbarrata la via… In apparenza questo sciame danzante possiede perfino il privilegio del buon gusto: colui che crea è, infatti, sempre svantaggiato rispetto a colui che sta solo a guardare e non pone mano all’opera lui stesso… Così sono conoscitori dell’arte perché vorrebbero eliminare l’arte in genere…” (“Considerazioni inattuali”, 1873-74). Parafrasando nell’allegrese: i critici sono calciatori o allenatori di seconda tacca che sparano contro chi lavora…
Adani è un critico? Direi di no, è un opinionista che partecipa all’avanspettacolo del calcio dando “pareri” non “giudizi critici” formulati sulla base di strumenti critici e una preparazione specifica: ma non è “poco ferrato” (Allegri su Adani) perché legge i libri, bensì il contrario! Non è che se uno ha fatto il pittore poi smette e diventa critico d’arte, questo è, invece, il punto! Vagamente, la faccio breve, un critico di calcio (per ora mai esistito) potrebbe essere una figura simile a quella di Giorgio Tosatti: cronista sportivo, direttore di giornale, studioso, scrittore di libri, in possesso del patentino di Direttore Tecnico della FIGC, non allenatore e non giocatore. Magari ci sarà un giorno un professore di Sociologia dello sport, con patentino di allenatore, giornalista sportivo, studioso della materia di livello internazionale, ex giocatore: sarebbe un critico.
A cosa serve la critica? A mediare tra il parere non informato della società (doxa) e l’oggetto di interesse: signor critico che romanzo mi consiglia di leggere? In una società corretta la sua funzione è poi quella di evidenziare le possibile carenze dell’oggetto di studio (non lodare) per portare a un continuo miglioramento di ciò che è sottoposto a critica.
La libertà dell acritica si esercita se il critico è libero: per questo è sbagliato che i “media” facciano incontrare critico e calciatore/giocatore: le due figure non dovrebbero mai aver pranzato insieme o darsi del tu! E’ il giornalista-cronista, non il critico-commentatore, che deve porre le domande! Per stare nei paradossi, il critico è colui che, a inizio anno o inizio partita, sulla base delle sue conoscenze, ipotizza un risultato (ad uso degli scommettitori, poniamo!). E’ come il “perito d’arte” del tribunale che ti dice, sulla base di criteri non scientifici ma oggettivi, quanto vale un quadro e se è vero o falso. Se sbaglia, viene escluso dal circolo peritale. Dunque, signor critico di calcio, ora lei mi dice quanto vale Icardi e poi vediamo se la cifra alla quale viene venduto corrisponde a quella da lei ipotizzata. Se lei continua a sbagliare il prezzo o il risultato delle partire o il nome del giocatore che serve, lei, signor critico, cade nel discredito, guadagna meno e finisce ai giardinetti. Se questo non si può fare, non può esistere un “critico di calcio”. Parlare dopo la partita, o parlare perché si è stati calciatori, allenatori… è solo “opinionismo” da bar, non critica, che si fa anche sui libri, osservando, studiando e informandosi (anche presso gli allenatori, di ciò di cui non si è imparato).
“VINCERE NON BASTA…” Angelo Carotenuto per “la Repubblica” il 26 giugno 2019. La sera della famosa discussione in tv, Max Allegri aveva soli 19 giorni di Juve davanti a sé, ma non lo immaginava. Daniele Adani sa cosa si dice adesso di lui, scherzando: che un contributo all' esonero sia giunto dalle critiche del 28 aprile. Soprattutto perché il successore è Sarri, di Allegri antitesi e di Adani riferimento: uno degli allenatori a cui il più aperto tra gli analisti della tv italiana, da anni a Sky, riconosce un ruolo di ricerca. Due mesi dopo, Adani ne parla per la prima volta. Dinanzi all' evidenza che quelle idee hanno preso il Palazzo.
Una rivoluzione?
«Non la chiamerei così. Era una strada inevitabile. Nel mondo si gioca per lasciare qualcosa. Vincere non basta più. La Juve aveva un percorso sicuro, ma non più congruo con la grandezza societaria né con le scelte dei club europei, la cui identità non dipende dai risultati. L' Italia non è un riferimento. Deve allinearsi. La Juve l' ha deliberato. Permetterà ad altri di seguirla senza remore. Poteva arrivarci un anno fa».
C' è anche Giampaolo al Milan. Perché solo ora?
«Perché è meno faticoso connotare Sacchi e Sarri come eccezioni, anziché rinnovarsi e seguirli. Ma i Sacchi e i Sarri nel mondo esistono. Ovunque. Guarda come gioca l' U20 della Nuova Zelanda. Avere cultura difensiva non vuol dire essere difensivisti. Sarri e Giampaolo sono due cultori del lavoro sulla linea difensiva. Il catenaccio, dipende dove lo fai. Il Milan di Sacchi nella metà campo avversaria. Dominio, proposta, il termine giusto è: un calcio del protagonismo. Ci ridono dietro se parliamo delle diagonali dei terzini. Il ruolo è cambiato. Alexander-Arnold manda il Liverpool in finale con una giocata da strada, da oratorio, su corner, non con una copertura. Palleggiano più i terzini che i centrocampisti centrali. A certi livelli va preteso questo. Non esiste più una squadra che gioca bene senza coinvolgere il portiere. Palleggi all' indietro, porti nella tua area gli avversari e li scopri alle spalle».
Si deve giocare in un modo solo?
«No. Esistono molti modi di vincere e di perdere. Non sempre una vittoria equivale a un successo, o la sconfitta a un fallimento. Un' idea di gioco dà coraggio. Idea e coraggio si dividono i compiti. Il punto è la produzione offensiva, non il possesso. Si può essere propositivi anche senza palla, come l' Atletico Madrid, con un recupero alto e la ripartenza di qualità. Non ci si può permettere di vincere 1-0 e dare merito al cinismo».
La teoria rende il calcio meno semplice?
«Semplice non vuol dire banale. Parla di complicazioni chi non vuole adeguarsi. Chi ascolta è già adeguato. Cosa significa essere pop? Abbassare il livello del ragionamento e del linguaggio? Non credo. Un ascoltatore merita che un comunicatore lo spinga avanti. La teoria è l' anticamera della pratica. I calciatori eseguono teorie. Scopo del calcio è emozionare. Bielsa non si misura con i trofei ma con l' eredità che lascia dove lavora. Se Guardiola forse l' allenatore più importante della storia - lo giudica il migliore, non lo fa per regalare complimenti. Dov'è l' emozione in una vittoria cinica? Il calcio è gioia. La gioia è far gol, non buttare la palla fuori».
Perché con Allegri finì a quel modo?
«Io chiesi: uno come te che ha vinto 5 scudetti, che contributo può dare per crescere? Lui salvaguardava una posizione e rivendicava uno status. Perse la gestione della conversazione dimenticando che non parlava con me, ma con il pubblico attraverso me. In una discussione capita di alterarsi. È segno di passione. Ma tra gente di calcio non si evita un confronto sul calcio».
Ha pensato che potesse essere un nervo scoperto? Forse erano le stesse critiche che sentiva dentro la Juve?
«Non lo so. Io non lavoro scaldando una sedia. Un bravo analista deve tradurre in pensieri interessanti ciò che vede. Anche un contraddittorio, nei modi giusti, fa riflettere. Non vivo per il consenso, non credo di dividere, ma non mi interessa unire nella mediocrità».
Allegri le disse: tu leggi libri. La prese come un' offesa?
«Ma no, mi veniva da ridere. Allegri ha con sé 20 persone che studiano. Il suo staff e i suoi analisti sono dentro le teorie. Libri. Ricerche. Relazioni. Abbiamo amici comuni».
Sarri alla Juve. Conte all' Inter. Totti e De Rossi via dalla Roma, Gattuso dal Milan. Che rapporto deve avere il calcio con i simboli?
«Sono un luogo comune. Conta il valore delle persone, non delle carriere. In un mondo dove tutti accedono a tutto con un pulsante, non basta esibire un vecchio numero di maglia. Non si bluffa più. Se non ti rinnovi, non puoi avere ruoli operativi. Altra cosa è un ruolo iconico. Quello va difeso. Ma Cruyff non aveva idee immortali perché giocava bene».
I tifosi vogliono icone?
«I tifosi hanno il diritto totale di abbandonarsi all' amore per i simboli. È giusto rimanere legati a un volto e a un ricordo. La gente che ama, ha il diritto di essere guidata. Quale miglior guida di un' icona? Ma sono i simboli ad avere un onere. La gente li amerà in eterno, loro devono meritarlo. Non si può usufruire di un amore eterno senza ricambiare con uno sforzo, facendo affidamento su ciò che si è stato».
Come fa l' icona di una parte a essere figura di garanzia in tv?
«Io non sono stato icona di nessuno, non so come si sentano i colleghi leggende dei rispettivi club. So che la tv si fa in un modo solo. Preparandosi. La tv non è figurina. È contenuto».
Lei come si prepara?
«Il calcio cambia. Anche se c' è il derby di Milano, non posso perdermi il Velez in Libertadores sapendo che Heinze è un allenatore emergente. Devo conoscerlo per essere adeguato quando avrò un confronto. Devo essere credibile quando mi chiedono se João Félix valga 120 milioni. Esistono gli Havertz, non solo Zaniolo. È una ricerca basata sull' ambizione di essere giusto nell' esposizione e sulla libertà di non scendere a compromessi con un contenuto. A Sky ho un gruppo di lavoro con cui mi trovo bene».
Il calcio è diventato scientifico?
«Scientifico è un aggettivo che spaventa. Sembra che riduca le emozioni. Il calcio è un' offerta evoluta. L' allenatore ne è l' epicentro. Gestisce investimenti, la crescita delle persone, le emozioni di una città. Klopp non è meno importante di Salah, Pochettino pesa quanto Kane».
Cinque allenatori che la divertono?
«Guardiola, Pochettino, Sarri, De Zerbi e Baldini della Carrarese. De Zerbi rappresenta il cambiamento. Trasforma la sua ossessione per il calcio in produzione creativa. La creatività non è un castigo per la praticità. De Zerbi è sempre in viaggio tra romanticismo e modernità. Lo studio genera intuizioni. Vale anche per giornalisti e presidenti».
Ranieri e il ricordo della Lazio che si scansò contro l'Inter. 2 maggio 2010, i nerazzurri si presero mezzo scudetto all'Olimpico. I tifosi laziali non volevano favorire la Roma, ma la squadra se la giocò. Giovanni Capuano il 3 maggio 2019 su Panorama. Sono passati nove anni e un giorno, eppure quel Lazio-Inter del 2 maggio 2010 continua a far discutere. Fu l'ultimo, vero, ostacolo per i nerazzurri di Mourinho sulla strada dello scudetto che avrebbe poi fatto da apripista alla conquista del Triplete. Un tricolore virtualmente perso con il sorpasso della Roma a inizio aprile e ritrovato quasi per caso nella serata della clamorosa caduta dei giallorossi in casa con la Sampdoria il 25 aprile. La trasferta all'Olimpico con la Lazio rappresentava per l'Inter l'ultima salita impegnativa prima della discesa (non sarebbe stata tale) contro Chievo e Siena. Così come nel 2002 i tifosi della Lazio chiesero ai giocatori di scansarsi per lasciar strada ai nerazzurri, gemellati, ma soprattutto per evitarsi la beffa dello scudetto ai rivali della Roma. Allora il titolo finì alla Juventus, nel 2010 la storia è stata diversa ma, a rileggere le cronache dell'epoca, non come Claudio Ranieri che sedeva sulla panchina della Roma ricorda. Il tecnico testaccino ha buttato lì a nove anni di distanza un "così è stato" come risposta alla domanda sul fatto che la Lazio si fosse scansata, che riapre il dibattito. Ormai si tratta di storia e non di cronaca, ma proprio per questo vale ricordare come andò quella sfida giocata all'Olimpico il 2 maggio 2010.
Lazio-Inter 0-2, ecco cosa successe. L'Inter vinse per 2-0 segnando una rete per tempo e dovendo attendere oltre 40 minuti per trovare il vantaggio con un colpo di testa di Samuel prima del raddoppio di Thiago Motta nella ripresa. Merito soprattutto del portiere uruguaiano Muslera, il migliore dei suoi. Un autentico muro nel respingere le occasioni degli attaccanti di Mourinho che, va ricordato, attraversavano un momento di forme notevole che sarebbe culminato nelle successive tre settimane nella conquista del Triplete. I nerazzurri, raccontano le cronache di quel giorno, attaccarono per tutta la gara mettendo in difficoltà la formazione che Reja (squalificato) aveva schierato con praticamente tutti i titolari in campo ad eccezioni di Rocchi e Stendardo. C'erano Muslera, Mauri, Kolarov e Lichtsteiner - i quattro con più presenze alla fine del campionato - e anche Zarate, Radu e Brocchi oltre a Baronio. Ci fu un clima strano, come c'era stato il 5 maggio di sette anni prima. Un clima che non aveva impedito a Poborsky e compagni di passeggiare sui resti dell'Inter di Cuper, in rottura fisica e psicologia continuata, ma che non spinsero la Lazio di Reja all'impresa. Si scansarono i biancocelesti? Certamente avevano meno motivazioni dell'Inter, anche se la salvezza fu sigillata solo la settimana successiva a Livorno. Forse, però, semplicemente si trovarono di fronte una squadra superiore, cattiva al punto giusto e motivata dalla possibilità di prendersi uno scudetto che sembrava perso fino al regalo della Roma contro la Sampdoria.
Che brutto il calcio moderno, ha tolto l’anima al pallone. Il gioco più bello del mondo è diventato un monopoli globale fatto di traffici di stranieri, vivai impoveriti e procuratori famelici, scrive Gennaro Malgieri il 14 Aprile 2019 su Il Dubbio. In qualsiasi stadio europeo metta piede, mi accade di sentirmi estraneo allo spettacolo che si sviluppa sul campo. Non riconosco più i calciatori come protagonisti delle squadre nelle quali militano. La stragrande maggioranza di loro non ha niente a che fare con le nazioni che li ospitano; i club che li pagano profumatamente non sono nemmeno sfiorati dal dubbio che l’appartenenza nazionale sia il fondamento della costruzione comunitaria calcistica, i cui elementi prevalenti sono i giocatori, i tifosi e la società. Pertanto, la vittoria o la sconfitta è percepita semplicemente come una sorta di agonismo senz’anima, sostenuto dagli spiriti elementari della contrapposizione passionale ma agnostica. Certo, il calcio nasce come sublimazione sportiva di un patriottismo innocuo, che non scade nella follia dell’odio tra contrapposte fazioni, ed è sempre stato comunque mitigato dall’innesto in ogni compagine di alcuni elementi extra- nazionali che spesso cambiavano nazionalità, diventando “oriundi”. Oggi è impossibile, in Italia come altrove, vedere formazioni composte soltanto da calciatori appartenenti alla stessa nazione; accade anzi, al contrario, che su undici non più di due o tre ( ma spesso nessuno) lo siano. In Italia il fenomeno è più pronunciato che altrove, e lo scadimento della nazionale azzurra ne è la diretta conseguenza. Se i migliori – o alcuni di essi – giocatori stranieri militano nel campionato italiano, è fatale che impediscano a chi italiano lo è di nascita di poter emergere. Togliendo il posto agli autoctoni, i campioni importati impoveriranno anche le rappresentative nazionali. Il fenomeno migratorio dei calciatori è tra i più preoccupanti. A suon di milioni di dollari ed euro le nazioni perdono i loro campioni, mentre club, giocatori e procuratori si arricchiscono. È l’effetto collaterale più macroscopico della globalizzazione del calcio. Quattro anni fa, la disfatta delle squadre sudamericane in Brasile si spiegò così. È l’avvilente condizione che si vive in alcune nazioni europee – in Italia in primo luogo – dove i vivai non esistono quasi più, mentre si fa spazio a presunti campioni, pagati poco ( tranne alcuni, ovviamente) o acquistati attraverso scombinate operazioni di mercato ( prestiti onerosi, svincolati, a cui offrire uno stipendio) che bloccano la crescita di giovani talenti. È fin troppo evidente che un tale stato di cose non garantisce a chi è chiamato a selezionare i “nazionali” di poter avere a disposizione non più di trenta elementi per costruire una squadra con qualche ambizione. Dalla massiccia migrazione calcistica deriva l’irresistibile omologazione nel modo di concepire il gioco: quasi tutti i protagonisti giocano più o meno alla stessa maniera, gli schemi adottati sono prevedibili e ripetitivi. La bellezza della differenza che un tempo, per esemplificare, faceva di quello brasiliano il più spettacolare calcio del mondo, si è dileguata. Il contrasto tra avversari, esaltato dai dribbling funambolici o dalle giocate geniali, è retaggio di un passato ormai lontano. Quando a qualcuno riesce di saltare l’uomo, il cronista di turno grida quasi al miracolo. La Germania, che pure aveva capito prima di altre compagini come adeguandosi ai modelli globalisti sarebbe giunta la fine, vi pose rimedio una quindicina d’anni fa, ma non aveva previsto che il massiccio inserimento di elementi stranieri nelle squadre di club avrebbe finito per sortire lo stesso effetto. La “macchina tedesca” ha girato a pieno regime per pochi anni, per poi capitolare. Finché erano pochi gli stranieri nella Bundesliga, il meccanismo funzionava; poi si inceppò: il sistema d’importazione globalista ebbe la meglio. La “rivoluzione conservatrice” tedesca – calcistica, s’intende – era iniziata dopo le molte disfatte seguite alla vittoria del Mondiale italiano nel 1990, quando cominciò l’esaurimento della potenza germanica sui campi di calcio, e si concretò a partire dal 2006 con l’avvento di Jürgen Klinsmann, già fuoriclasse dell’Inter dal 1989 al 1992, e Joachim Löw alla guida della nazionale. L’esaurimento è stato inevitabile dopo la conquista del Mondiale del 2014. In Europa non c’è nessuna nazionale che brilli come un tempo. Un mediocre calcio figlio di club – i cui proprietari, tra i maggiori, non sono neppure europei – dove militano giocatori di tutto il mondo mina il principio nazionale che dovrebbe essere alla base del movimento calcistico. Il tempo eroico del football è dunque definitivamente alle nostre spalle? Sembra proprio così. Non ci rimane che contemplarlo. (…) Chi avrebbe mai immaginato, solo trent’anni fa, che il calcio sarebbe diventato la tomba della fantasia? Chi avesse avanzato l’ipotesi di una simile catastrofe antropologica sarebbe stato ritenuto folle. Ma, nei fatti, lo sviluppo del movimento calcistico ha portato alla desertificazione dell’inventiva, il mercatismo ha avvolto come una gigantesca piovra il mondo del football. Nei suoi tentacoli sono finiti i sogni dei ragazzini che vorrebbero diventare Messi o Ronaldo, come una volta Maradona o Platini e prima ancora Rivera o Mazzola, Garrincha o Pelé, Piola o Meazza. O come la giovanissima anglo- indiana, Parminder Nagra, protagonista di Sognando Beckham ( Bend It Like Beckham), film- culto del 2002 diretto da Gurinder Chadha e interpretato, tra gli altri, da Keira Knightley e Jonathan Rhys Meyers: fu il primo film occidentale trasmesso dalla televisione nordcoreana. Tutto è profitto, gli spazi dell’irreale si sono ristretti. Al bazar dello sport non c’è una sola bancarella su cui storie esemplari, esercizi di ammirazione, entusiasmo gratuito e passioni innocenti vengano esposte come una volta. Quando, per esempio, correndo dietro ad un pallone, in strada, nei parchi o negli oratori, si poteva immaginare di diventare, se non proprio campioni, almeno onesti calciatori. E la fantasia accompagnava progetti di gloria, piccoli o grandi, che crescevano fino a quando la palla rotolava negli improvvisati spazi nei quali ci si alimentava di leggende che, domenica dopo domenica, prendevano forma sui campi di calcio veri.(…) Adesso le scuole di calcio impongono imperiosamente – a genitori perlopiù abbacinati dal mito di un successo a portata di mano per i propri figli – regole e comportamenti che il mondo dei bambini non capisce e mal sopporta. Si fa credere, dall’alto di un business inimmaginabile fino a pochi anni fa, che basta frequentare una di queste scuole, che spuntano come funghi soprattutto nelle grandi città, per avere concrete possibilità di affermazione, all’esoso prezzo della sottrazione della felicità a adolescenti che vorrebbero guadagnarsi il loro effimero, ma quanto radioso, momento di gloria, come accadeva prima che il calcio diventasse un’industria, divertendosi, dispiegando il loro naturale entusiasmo. Costret- ti, come fossero adulti in miniatura, a studiare schemi e tattiche, li si fa rinunciare alla gioia di rincorrere un pallone da mettere in rete perché prigionieri di regole che non formano, ma intristiscono. Osservateli nelle patetiche competizioni a cui danno vita: non hanno la gioia dipinta sui volti, lanciano sguardi preoccupati a manipolatori di coscienze, ma anche di membra in formazione, cercando approvazione o schivando plateali disapprovazioni che finiscono per condizionarli. Macchinette inceppate avvolte in improbabili divise copiate dai grandi club… Non sembra che da quando le scuole di calcio spopolano siano venuti fuori campioni come quelli ricordati. Se avremo nuovi Maradona o “replicanti” di Falcao e Platini, quasi certamente non usciranno da lì. (…) In vista delle qualificazioni mondiali, i club, nelle mani di affaristi apolidi, continueranno a concedere ( quando non a negare) di malavoglia i loro giocatori alle nazionali. Temono infortuni, disagi, perdite di tempo. Una volta erano orgogliosi di avere i propri gioielli tra i convocati delle rappresentative dei vari Paesi. Oggi è una scocciatura che può mettere a repentaglio il fatturato. Tuttavia, non si possono sottrarre. E, sia pure con un groppo alla gola e qualche apprensione, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco: partita dopo partita, la tribù globale del calcio internazionale si ritrova così in un qualche angolo del mondo dove celebra i propri fasti in uno scenario planetario condizionato da grandi affari economici e finanziari. La passione dei poveri mortali alimenterà uno dei più ricchi business della storia. Il Mondiale di calcio, tuttavia, è un fenomeno contagioso. Un grande spettacolo. Indipendentemente dalla qualità: l’attuale presidente della Fifa vorrebbe allargare la platea dei partecipanti a quarantotto squadre. Una storia infinita e di scarsissimo livello agonistico, tranne che per una decina di partecipanti. Si fa illudere che ci sia gloria per tutti, ma la gloria frutta denaro, e perfino chi è consapevole di arrivare ultimo si adatta al ruolo in cambio di milioni di dollari. Dal 1930, in ogni continente, nonostante il mercatismo trionfante, o forse proprio grazie ad esso, continua a crescere il numero degli adepti che s’identificano con il football alla stregua di una religione profana. Una religione dai costi altissimi e dalle rese economiche ancora più alte. Un affare incalcolabile fondato sul primordiale istinto dell’antagonismo che diviene, in alcuni deprecabili casi, feroce, incontrollabile e assoluto. Come in tutte le tribù, il “nemico” è sempre da abbattere: nel calcio vige la stessa regola, e i riti che esso propone sono vere e proprie cerimonie belliche spinte da pulsioni che si potrebbero definire “politiche”, officiate da quei “militi” bonari e appassionati, barocchi e un po’ cialtroni, quando non delinquenti veri e propri, che sono i tifosi. Organizzati più o meno per bande, riproducono sul piano sportivo la logica del clan, della fazione, del gruppo organizzato secondo regole ferree che rimandano a schemi e modelli politici di tipo tradizionale; negli stadi celebrano i loro trionfi “patriottici” (…) Al di là dei sociologismi necessari per capire un fenomeno planetario, credo che il calcio sia essenzialmente un’estetica dell’anima, forse la più riuscita in tempi moderni, capace di mettere assieme sensibilità profonde che non hanno confini: da qui la sua intrinseca “politicità”. Uno dei più acuti e brillanti studiosi del fenomeno calcistico contemporaneo, Giancristiano Desiderio, che al football ha dedicato riflessioni filosofiche straordinariamente originali, in uno dei suoi libri sull’argomento, Il divino pallone ( Vallecchi, 2010), ha opportunamente scritto: «Il calcio, come la filosofia, è materia delicata e infiammabile. Va maneggiato con cura. Praticato in un regime di libertà, è quello che tutti considerano semplicemente un gioco, un passatempo, una distrazione. Praticato in un regime di illibertà rivela tutta la sua carica umana. Praticato in un regime totalitario diventa a tutti gli effetti un gioco pericoloso. Per i dittatori che se ne vogliono impadronire, la palla è la manifestazione del gioco e il gioco è, per definizione, senza controllo, perché nessuno lo può possedere senza vederselo annullare nelle sue tracotanti mani. La palla deve essere giocata. Su un campo di calcio, lo si voglia o no, c’è in gioco la vita. Il calcio è implicitamente una critica del potere perché il gioco non ha padroni e nasce solo là dove c’è pluralità ed esperienza dei singoli giocatori. Solo chi è affetto da un delirio di onnipotenza può credere di controllare il gioco». Se la “politicità” del calcio è incontestabile, è pur vero che esso sfugge a chi se ne vuole appropriare per farne uno strumento propagandistico: accadde nel 1978 in Argentina, la cui nazionale vinse il Mundial, ma nessuno pensò di glorificare il generale Jorge Videla per questo. Il calcio, depurato da tutte le incrostazioni mercantili e dall’utilizzo che il potere è tentato di farne, è semplicemente una delle manifestazioni moderne della cultura dei popoli, soprattutto di quelli che sono alla ricerca di un protagonismo mai avuto: guardo alcuni disegni giovanili del grande scrittore Henry de Montherlant, leggo le vecchie poesie di Umberto Saba e quelle nuove dello straordinario poeta del calcio Fernando Acitelli, mi soffermo sulle pagine di Osvaldo Soriano e ripenso a miti che non ritornano, da Garrincha a Maradona, passando per Pelé e Sivori, incantatore di serpenti e di portieri. Poi, mi do pace davanti all’incanto di un divino soffio di forza e bellezza evocatomi dal discobolo di Mirone, il quale eleva a eroe l’atleta, uomo potente orgogliosamente consapevole di avere un’anima. No, il calcio non è soltanto uno sport. E non è una questione tra le altre, che si esaurisce nei bar.
· "Così ho fatto entrare Italia-Germania nel mito".
"Così ho fatto entrare Italia-Germania nel mito". Il «Volkswagen» del Milan compie 80 anni e rivive la sfida del Messico: «Pareggiai al 90' e iniziò la leggenda», scrive Massimo M. Veronese, Sabato 30/03/2019, su Il Giornale. Ha il nome di un generalissimo della Renania, un soprannome, Volskwagen, pieno di certezze e, un tempo, i capelli così biondi da sembrare bianchi. Karl Carletto Schnellinger è sempre stato uno di noi anche quando giocava con gli altri. Aveva scelto di stare dietro perché è da lì che si comandano gli eserciti, ma quando si avventurò oltre le linee nemiche, all'Azteca, giugno 1970, Italia-Germania 4-3, inventò con una spaccata all'ultimo minuto la partita del secolo. Una vita nel Milan, dove ha vinto tutto, ma anche Mantova e Roma, quattro mondiali con la Germania. Compie 80 anni. E li porta da kaiser.
È vero che da ragazzo voleva fare il chirurgo o il pilota di aerei?
«Certo. Studiavo in un ginnasio dove tutti i professori odiavano il calcio. Quando mi chiamavano alla lavagna e non sapevo rispondere mi dicevano: vedi? É il calcio che ti rovina...»
Addirittura...
«Alla maturità ho dovuto fare una scelta. Mi pare tardi per recriminare».
Perché, è pentito?
«Ho giocato a pallone, vinto tanto, visto il mondo. Mi hanno voluto bene e rispettato ovunque. Va bene così».
Chi era il suo idolo?
«Mi piaceva Fritz Walter: era il capitano della Germania che vinse mondiale del 1954».
L'avversario più forte?
«Best, Cruijff, Pelè. Ma il migliore è stato Di Stefano. Era nel Duemila negli anni '50».
Italia-Germania 4-3 è la sua partita più bella?
«No, ma è una partita eterna. Io sarò per sempre quello che l'ha creata. È un dono di Dio».
È vero che era nell'area dell'Italia per guadagnare prima gli spogliatoi?
«Avevo visto sull'orologio dello stadio che il tempo era scaduto e mi sono detto: che cavolo ci stai a fare in difesa?
Volevo evitare il casino di fine partita. Invece mi sono trovato tra i piedi la palla di Grabowski».
Immagino i commenti dei suoi compagni del Milan...
«Mi sono trovato seppellito dagli abbracci dei miei. Quando mi sono rialzato non ho avuto il coraggio di guardare negli occhi Rosato. Ma gli altri...»
Gli altri?
«Mi mandarono a fanculo».
Anche Rivera?
«Mi disse: ma sei matto? Alla fine ho voluto la sua maglia e lui la mia. Sono andato anche negli spogliatoi a salutarli.
Sono stato l'unico».
E ci credo...
«Che dovevo fare? Ho segnato per il mio Paese, mi sono fatto pure uno strappetto in quell'azione. Mi avete perdonato solo perché avete vinto».
Le è rimasto sullo stomaco quel 4-3?
«Si vince e si perde. Semmai se ogni persona che ha visto quel gol mi versasse un centesimo sarei l'uomo più ricco del mondo».
Non è vero però che ha fatto solo un gol nella vita...
«Ne ho fatto uno all'Inter, uno alla Juventus. Ma allora per noi terzini non era possibile passare la metà campo».
È vero che sennò Rocco le diceva: «Te lego, tedesco, te lego...»
«Peggio. Se andavo in attacco mi tagliava le palle...»
Però...
«Però Rocco è stato come un padre per me. Sul piano umano nessuno è stato come lui».
Peggio la Fatal Verona o il mondiale perso con gli inglesi per un gol fantasma?
«Peggio l'Inghilterra. A Verona io non c'ero...»
Ah, no?
«Sennò mica finiva così...»
Le piace il calcio di oggi?
«Relativamente. Troppi soldi. E non mi piacciono i simulatori. Ai miei tempi nessuno si buttava per terra perché aveva paura di fare brutta figura».
Le dispiace qualcos'altro?
«I tatuaggi. Come fanno ad andare in giro conciati così?».
Quanto varrebbe oggi Schnellinger?
«Lo dica lei...»
Un'enormità...
«Ma oggi avrei un procuratore. Non esiste nessuno dei calciatori di adesso che abbia il coraggio come avevamo noi di andare dal presidente a chiedere un aumento. Anzi...»
Anzi?
«Quando mi proposero di andare al Milan, la Roma mi offrì molto di più, ma accettai di prendere di meno pur di andare al Milan».
Come si ferma la Juve che vince sempre?
«Con il tempo. Tutto finisce, non può vincere tutta la vita. Certo ora sembra imbattibile».
È sempre tifoso del Milan?
«Tifoso e innamorato. Soffro se non vince anche se da tedesco non lo faccio vedere».
Gattuso le piace?
«Un bravo ragazzo, pulito. Spero che sappia vincere la pressione, spero che continui a lungo sulla panchina. E che ci porti in Champions».
Agli ultimi mondiali l'Italia non si è qualificata e la Germania non ha passato il primo turno. Che è successo?
«È un momento della vita. Ma torneremo grandi: noi tedeschi e noi italiani».
In cosa è diventato italiano e in cosa è rimasto tedesco?
«Ho un cuore italiano e un cuore tedesco. Ma io mi sento europeo: l'Italia e la Germania sono l'Europa».
Sa che vogliono demolire San Siro?
«Sono i tempi che cambiano. Ma San Siro è il cuore di Milano. Come si fa a strapparsi il cuore?».
L'età insegna qualcosa o si resta quello che si è?
«Qualcosa cambia, qualcosa resta. L'importante è vivere il proprio tempo. Alla mia età mi è rimasto solo un cruccio...».
Davvero? Mi dica...
«Ho un nipote interista».
E le dispiace davvero?
«Ma no, ognuno è libero di vivere come crede. Però...»
Però?
«È sempre in tempo per cambiare idea...».
· San Siro: la storia di un tempio del calcio (1926-2019).
San Siro: la storia di un tempio del calcio (1926-2019). Dalla fondazione nel 1926 ai trionfi delle milanesi. Dai grandi concerti ai Mondiali del 1990 al terzo millennio che ne deciderà il futuro, scrive Edoardo Frittoli il 10 aprile 2019 su Panorama. Tutto comincia alle ore 16 del 19 settembre 1926, quando l'arbitro fischia l'inizio del match amichevole tra Milan e Inter nel nuovo "stadio calcistico di San Siro", la struttura nata per le partite in casa dei rossoneri e cresciuta tra i prati della periferia ovest della città. Per i cugini ospiti, i nerazzurri, il nuovo impianto che condivideranno anni più tardi con il Milan porta bene: la vittoria dell'Inter è netta (6 a 3). Pochi giorni dopo la partita inaugurale, le rivali cittadine si rivedranno sull'erba del nuovo impianto da 35 mila posti. Questa volta per formare una squadra unica e incontrare in un'amichevole i cecoslovacchi del DFC Praga. A pochi metri di distanza dalle tribune (parzialmente coperte) di un vero "stadio per il football" privo della consueta pista di atletica gli 8 nerazzurri e i 3 rossoneri scelti si impongono per 4-1.
Uno stadio "all'inglese". Il nuovo stadio era stato fortemente voluto dall'allora presidente del Milan, l'industriale della gomma Pietro Pirelli, che sborsò 5 milioni di lire per sostituire l'ormai inadeguato impianto di viale Lombardia . In un solo anno di lavoro la struttura progettata da Ulisse Stacchini (lo stesso che progettò il ristorante Savini e poi la Stazione Centrale) assieme al collega Alberto Cugini viene terminata in tempo record dalla posa della prima pietra il 1 agosto 1925. Fino ad allora il Milan aveva giocato in piccole strutture, da Porta Vittoria al Trotter fino alla struttura di viale Lombardia ormai pericolante ed inadeguata, mentre l'Inter (rinominata durante il fascismo Ambrosiana) giocava all'Arena Civica. Lo stadio di San Siro, costruito "all'inglese", rimarrà di proprietà del patron Pirelli fino al 1935 quando sarà ceduto al Comune di Milano. Durante lo stesso anno partiranno i lavori del primo ampliamento con la costruzione delle curve di raccordo con le tribune, l'anno successivo alla prima vittoria dell'Italia ai Mondiali, la cui semifinale Italia-Austria (1-0) si era svolta proprio di fronte allo stadio milanese gremito al limite della capienza, che sarà destinata a crescere di ben 20.000 posti. Disegnato dagli ingegneri Perlasca e Bertera ospiterà la Nazionale dopo l'ampliamento nel match Italia-Inghilterra del 13 maggio 1939, dove tra gli azzurri due volte campioni del mondo scese in campo Giuseppe Meazza. Dopo lo stop imposto dalla guerra, la prima partita sul prato di San Siro si giocherà il 1 dicembre 1946 in una giornata nebbiosa. In campo l'Italia affronta l'Austria in un match che durerà 95 minuti a causa del temporaneo malfunzionamento del cronometro dell'arbitro davanti a 60.000 spettatori stipati nell'unico anello dello stadio sopravvissuto alla guerra. Il risultato finale sarà a favore degli azzurri, che vincono per 3 reti a 2 (reti di Castigliano, Mazzola e Piola). L'anno successivo, il 1947, vedrà San Siro accogliere un nuovo ed illustre inquilino, l'Inter, che lascia definitivamente l'Arena Civica diventata ormai inadeguata per capienza e logistica. La prima partita del campionato 1947-48 giocata dai nerazzurri nello stadio condiviso con i cugini fu Inter-Modena del 14 settembre, terminata 1-1.
San Siro, il "signore dei due anelli". Passano pochi anni dalla ripresa del campionato dopo la tragedia della guerra che il Comune di Milano già pensa all'ampliamento della struttura. Sono i primi anni del boom quando viene presentato un progetto più che ambizioso, reso noto dalle prime indiscrezioni dei media che lo presentarono ai lettori come il nuovo "stadio dei centomila", dalla capienza massima prevista dal progetto. I primi lavori di scavo del nuovo perimetro iniziarono il 12 luglio 1954, portando subito alla luce la difficile natura del terreno argilloso che impediva un corretto drenaggio. Durante il campionato 1953-54le due squadre milanesi torneranno ad allenarsi all'Arena, mentre giocheranno a San Siro le partite di campionato con gli spalti dalla capienza sensibilmente ridotta per fare spazio agli imponenti lavori del secondo anello, che caratterizzerà l'immagine dello stadio milanese fino alla trasformazione dei Mondiali di Italia 1990. Lo stadio è per i tempi una meraviglia del progresso: divisori di vetro, postazioni telefoniche per la stampa, nuovi servizi pubblici e soprattutto gran parte delle gradinate coperte. I lavori proseguirono per due stagioni di campionato con la capienza limitata a 40mila posti, teatro di due scudetti delle milanesi (l'Inter nel 1954 e il Milan nel 1955). I collaudi della nuova struttura da 100.000 posti iniziarono nel settembre del 1955, dopo che la Giunta comunale ebbe stanziato 26 milioni di lire per la sistemazione del piazzale antistante lo stadio con i nuovi parcheggi, la modifica della viabilità e il rondò dei tram.
"Luci di gloria a San Siro": la grande stagione delle milanesi. La prima partita nel rinnovato impianto si giocò il 3 settembre 1955e non portò bene ai rossoneri, che persero per 4 a 1 contro la Dinamo Mosca. Il secondo test per il nuovo entusiasmante stadio dei milanesi soltanto una settimana dopo con un derby amichevole terminato 6 a 4 per i rossoneri. L'impianto quasi raddoppiato (e in seguito limitato ad 85.000 posti per ragioni di sicurezza) regge bene l'impatto della folla. Un po' meno il deflusso del traffico a causa della viabilità di accesso non ancora del tutto sistemata. L'illuminazione notturna arriverà due anni più tardi quando 180 riflettori illumineranno a giorno l'erba dell'amichevole del 28 agosto 1957. Alle 21:30 si affrontarono Milan e Fiorentina, con i rossoneri in campo con lo scudetto cucito sulla maglia. Le luci a San Siro resteranno accese da quella sera in poi. L'illuminazione dello stadio milanese sarà il preludio ad un raggiante decennio per le milanesi, gli anni '60, con le conquiste della Grande Inter di Herrera e del Milan di Nereo Rocco e Josè Altafini. I nerazzurri del Presidente Angelo Moratti festeggeranno sotto i riflettori di San Siro lo scudetto del 1963 conquistato dall'Inter di Burgnich, Picchi, Mazzola, Facchetti, Jair, Suarez e Corso. L'anno successivo arriverà la Coppa dei Campioni con gli uomini di Herrera a fare il giro del campo di San Siro alzando il trofeo dopo la vittoria nella finale di Vienna contro il Real Madrid (3-1). Ancora più entusiasmante la stagione 1964-65 con 90.000 tifosi nerazzurri ad assistere all'epica rimonta sul Benfica e alla conquista della seconda Coppa dei Campioni, affiancata dallo scudetto vinto al rush finale proprio contro i cugini del Milan. San Siro ospiterà anche la finale della coppa Intercontinentale, vinta contro gli argentini dell'Indipendiente. L'anno successivo sugli spalti di San Siro l'Inter festeggerà lo scudetto della stella e di nuovo la coppa Intercontinentale sempre contro l'Indipendiente. Il Milan del paròn Nereo Rocco entusiasma i tifosi rossoneri dello stadio rinnovato già nel 1962 con i record di Altafini e Rivera. Anticipando i trionfi dell'Inter, i rossoneri conquistano la Coppa dei Campioni (primi nella storia delle società italiane) dopo la vittoria di Wermbley contro il Benfica. La doppietta del Milan arriverà nella stagione 1967-68 con un altro tricolore ad esaltare gli spalti di San Siro, mentre l'anno successivo arriverà al seconda Coppa dei Campioni conquistata dal Milan del bomber Pierino Prati contro l'Ajax.
Anni '70: il buio delle milanesi, i riflettori sui grandi concerti. Il decennio successivo ai trionfi di Inter e Milan fu magro di risultati per le cittadine di casa a San Siro. Per il Milan di Rivera l'unico scudetto del decennio arriverà nella stagione 1978-79 (quello della stella), mentre i nerazzurri del presidente Fraizzoli andò un po' meglio, con gli scudetti vinti agli estremi del decennio nel 1970-71 e 1979-80. Poco dopo gli ultimi trionfi, lo scandalo delle scommesse e la retrocessione del Milan in serie B getterà ombra sui fasti calcistici degli anni precedenti. Se i riflettori si spensero momentaneamente per il calcio milanese, lo stadio accese la stagione dei grandi concerti inaugurati dall'esibizione del re del reggae Bob Marley. Era la sera del 27 giugno 1980 (la stessa della strage di Ustica) quando una folla record di circa 100.000 persone invade il manto erboso (che rimarrà definitivamente compromesso) e gremisce i due anelli. Poco dopo toccherà a Edoardo Bennato, che attira ben 60 mila fans. Era la notte del 20 luglio 1980 e la grande stagione dei concerti di San Siro era cominciata in trionfo. Di lì a poco il gotha della musica internazionale si sarebbe esibito nello stadio dei milanesi, dal tour di "Born in the Usa" di Bruce Springsteen (una delle star più affezionate al Meazza) nel giugno 1985. quindi Madonna, Michael Jackson, David Bowie e tra gli italiani gli ospiti d'onore Vasco Rossi e poi Luciano Ligabue.
1990: il terzo anello e le "notti magiche". La ripresa del grande calcio a San Siro iniziò nella seconda metà degli anni ottanta, con il Milan stellare di Silvio Berlusconi e degli olandesi e con l'esaltante scudetto dei record dell'Inter allenata da Giovanni Trapattoni. Ma l'appuntamento calcistico che avrebbe ancora una volta cambiato la storia e il volto dello stadio (che era stato intitolato al campione del passato Giuseppe Meazza nel 1980) era quello dei Campionati Mondiali di Calcio dell'estate 1990 ospitati dall'Italia. Il piano di riqualificazione di San Siro fu approvato dalla proprietà nella seduta del Consiglio Comunale della giunta Pillitteri l'11 febbraio 1987, che stabilì il tetto massimo di spesa a 64 miliardi di lire (di cui 49 di contributi dallo Stato). Il nuovo progetto prevedeva la costruzione del terzo anello, per la capienza massima di 85.000 spettatori ottenuta per la riduzione dei posti al primo e secondo anello (con la sparizione definitiva dei "parterre"). Il nuovo San Siro, secondo il progetto dell'architetto di fiducia di Silvio Berlusconi Giancarlo Ragazzi, si sarebbe elevato fino a 50 metri dal suolo, con il nuovo anello sovrastato da una copertura in travi d'acciaio. Inizialmente Silvio Berlusconi con la sua Edilnord aveva caldeggiato la costruzione di un nuovo stadio, progetto rientrato per l'opposizione del Comune di Milano e per la perplessità della dirigenza dell'Inter. La società del biscione presentò allora un secondo e definitivo piano di ampliamento della struttura esistente, ed i lavori ebbero inizio naufragando poco dopo nelle polemiche per la crescita esponenziale dei costi (dagli iniziali 64 ai quasi 170 miliardi del gennaio 1990) dovuta soprattutto all'incidenza delle cosiddette riserve di cantiere e a perizie suppletive. Non migliore si presentava la situazione delle infrastrutture legate allo stadio, con il naufragio del progetto di una metropolitana leggera e la mancata realizzazione di nuovi alberghi. Con i cantieri ancora aperti attorno al perimetro di San Siro l'inaugurazione ufficiale avvenne il 2 giugno 1990 dopo un esborso finale di oltre 180 miliardi. Pochi giorni dopo, il primo fischio d'inizio dei Campionati riecheggerà tra i nuovi spalti con le poltroncine colorate la sera dell'8 giugno. L'arbitro francese Vautrot dava inizio alla prima partita giocata al Meazza tra Argentina e Camerun.
San Siro, la "Oxford degli appalti": gli anni di Tangentopoli. L'ultima partita dei Mondiali giocata davanti al pubblico del Meazza si giocò il 1 luglio 1990 (Germania Ovest- Cecoslovacchia 1-0). Quando i riflettori si spensero, San Siro piombò nel buio della bufera di tangentopoli, che investì anche gli appalti di Italia '90. L'inchiesta guidata dai magistrati del pool di Mani Pulite coinvolse in particolare il ruolo del manager di Edilmediolanum Clemente Rovati. Poco dopo l'arresto del manager del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, i Carabinieri ammanettavano Rovati che fu a capo di un maxi-consorzio comprendente costruttori del calibro di Torno e Frabboni. Al vaglio degli inquirenti, un'intercettazione telefonica fortemente compromettente in cui l'allora assessore socialista al Demanio Bruno Falconieri dichiarò di aver fatto di San Siro la "Oxford degli appalti". Fu dagli interrogatori di Rovati e degli altri imprenditori coinvolti nella fitta rete della corruzione che emersero le irregolarità che avevano portato al raddoppio dei costi per l'ammodernamento del Meazza, fatto che contribuirà in maniera determinante alla scomparsa dalla scena politica dell'amministrazione socialista milanese. Alla fine di quel "terribile" 1992, sul prato dello stadio più chiacchierato d'Italia il Milan di Fabio Capello e dell'ultimo Van Basten conquistava il suo 12° scudetto.
Il Terzo millennio e il futuro (incerto) di San Siro. Il sistema delle tangenti sui lavori a San Siro danneggiò non soltanto le tasche dei contribuenti ma anche la qualità della struttura stessa, vanto di una ex Milano spazzata via dall'opera dei magistrati. Le coperture trasparenti delle travi perimetrali ad esempio furono realizzate con materiali più scadenti rispetto al progetto originario (e meno trasparenti). La minore filtrazione dei raggi solari e l'imperfetta sistemazione del sistema di drenaggio del terreno di gioco crearono quello che negli anni successivi si rivelò un problema molto grave: quello dell'erba, la cui crescita e manutenzione sembrava in quegli anni impossibile. Saranno dunque necessarie per tutto il decennio frequentissime (e costosissime) "ri-zollature" dei 7.200 metri quadrati del campo per garantire una praticabilità sufficiente ad Inter, Milan e squadre ospiti. Nel 2002 fu avanzato il primo progetto per la realizzazione di un terreno sintetico, che naufragherà per la perplessità di giocatori e società a causa delle caratteristiche del manto che rendevano la corsa più faticosa e per la maggiore durezza dell'erba artificiale, possibile causa di seri infortuni. Medicato negli anni con centinaia di interventi, il prato di San Siro vedrà gli scudetti del Milan (1995-1996,1998-99, 2003-2004 e 2010-2011) ed il ritorno nel terzo millennio della Grande Inter (5 scudetti consecutivi dal 2005 e apoteosi del Triplete con Mourinho nella stagione 2009-2010). Alla vigilia dei 30 anni dall'ultima ristrutturazione per il mitico stadio meneghino si apre una nuova partita: il contratto tra il Comune di Milano e le società calcistiche cittadine sarà in essere fino al 2030, ma il dibattito degli ultimi anni riguarda l'ipotesi della costruzione di un nuovo stadio ad uso esclusivo (come lo Juventus Stadium di Torino) oppure una nuova ristrutturazione del Meazza (il Comune è attualmente più propenso alla seconda ipotesi). Chi invece prevede una prossima demolizione del tempio del calcio milanese asserisce che i vantaggi sarebbero più degli ostacoli. Un nuovo stadio verrebbe costruito in tempi brevi e sarebbe già concepito per garantire introiti rapidi con le infrastrutture commerciali e alberghiere incluse nel progetto. La questione sicurezza sarebbe poi un altro punto a vantaggio dei fautori dell'impianto ex-novo in quanto, nonostante gli adeguamenti realizzati negli anni (l'ultimo nel 2016) lo stadio rinnovato nel 1990 risulta carente da un punto di vista del deflusso dalle uscite di sicurezza. Anche la questione della capienza è uno degli argomenti più dibattuti riguardo al futuro del Meazza: le società milanesi vorrebbero un impianto da circa 60mila posti per garantire il pieno funzionamento di stadio e servizi. Per molti altri, invece, un tempio della storia mondiale del calcio nonché simbolo di Milano non si deve abbattere (è risultato da un sondaggio che il Meazza è attualmente uno tra i simboli più conosciuti della città a livello internazionale). I vantaggi sarebbero -oltre che turistici- anche urbanistici per il minore impatto ambientale di una nuova struttura. In attesa di una decisione da parte di Milan e Inter in molti si chiedono se le luci di San Siro rimarranno accese ancora a lungo o verranno spente per sempre.
· Sla, ecco perché uccide i calciatori.
Sla, ecco perché uccide i calciatori. Uno studio dell'Istituto Mario Negri di Milano svela i legami tra il calcio e la Sla, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'1 aprile 2019 su Panorama. 15 gennaio 1989. È il novantesimo minuto. Allo stadio Artemio Franchi di Firenze si gioca Fiorentina -Juventus. La palla va in calcio d’angolo. La battuta dalla bandierina è affidata a Roberto Baggio. Che calcia al centro dell’area. Stefano Borgonovo, col numero 9, si stacca in elevazione, colpisce di testa e buca la rete di Stefano Tacconi. I due, coppia dal gol in quel campionato, corrono sotto la Curva Fiesole che esplode di gioia, come l’intero stadio, come tutta la città. Nove anni dopo, nel 2008, Roberto Baggio e Borgonovo sono di nuovo sotto la curva dei tifosi viola. Ma stavolta il codino più famoso del calcio italiano spinge l’amico su una carrozzina. Borgonovo sta giocando la sua partita più difficile, quella contro la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, una delle malattie più misteriose, spietata nella sua progressione, che porta alla paralisi dei nervi e dei muscoli fino alla morte. Quella partita Borgonovo la perderà nel 2013. Come tanti altri suoi compagni. Perché chi gioca a calcio si ammala con doppia frequenza, e prima, di Sla, detta anche morbo di Gerigh. Ormai è provato scientificamente. Lo rivela uno studio dell’Istituto farmacologo Mario Negri di Milano che Panorama ha esaminato. Il sospetto di una correlazione tra il mondo del calcio e la malattia non è nuovo, ma stavolta il campione di popolazione analizzato è più ampio e lascia pochi dubbi. Gli scienziati hanno analizzato tutti i giocatori di calcio che comparivano negli album delle figurine Panini dal campionato 1959-1960 fino a quello 1999-2000: 23.875 calciatori di serie A, B e C presi in esame, la cui carriera è stata ricostruita dai ricercatori del Mario Negri coordinati da Ettore Beghi, capo del laboratorio di malattie neurologiche, uno dei massimi esperti di Sla. Tra quei giocatori, 32 hanno contratto il male. Significa che si sono ammalati il doppio rispetto alla popolazione generale. Soffermandosi solo sulla serie A, il rapporto è addirittura sei volte superiore. Non solo. Gli ex professionisti si ammalano prima, in media intorno ai 43 anni, rispetto ai 65 anni della popolazione. Lo studio, durato cinque anni, è stato condotto dalla dottoressa Elisabetta Pupillo e si è avvalso del parere di esperti come Nicola Vanacore dell’Istituto superiore di sanità e Letizia Mazzini dell’ospedale universitario di Novara. I risultati saranno presentati ufficialmente a maggio a Filadelfia, al meeting dell’American academy of neurology. Ma perché il calcio sembra essere un acceleratore di questa patologia che attacca i neuroni motori? Il procuratore di Torino Raffaele Guariniello fu il primo, alla fine degli anni Novanta, ad aprire un’inchiesta per provare a spiegare il numero elevato di morti bianche nel mondo del calcio. Raccolse i dati dei calciatori scomparsi per la malattia e ipotizzò un coinvolgimento di sostanze dopanti. In realtà, emerse che il doping non c’entrava affatto. E allora perché questa coincidenza nel mondo del pallone? Stefano Borgonovo, che ha creato una fondazione che finanzia la ricerca, fu uno dei casi più eclatanti. Il calciatore esordì nel Como, dove tornò a fine carriera come allenatore. E proprio la sua squadra è stata una delle più flagellate, negli anni, dalla Sla. La colpa fu data ai pesticidi usati per il prato del campo. Ma non è mai stato possibile stabilire un rapporto di causa ed effetto. E anche i pesticidi uscirono dalla lente di ingrandimento degli studiosi. Oggi Beghi prova a tracciare una linea e a fare la somma degli studi da lui condotti fino a oggi. E anticipa a Panorama quelle che potrebbero essere le cause scatenanti della Sla. Però ci tiene a non criminalizzare il calcio: «L’esordio della malattia ha implicazioni genetiche di predisposizione. L’attività sportiva non fa male in sé, ma a certi livelli può anticipare l’insorgenza del morbo nei soggetti predisposti». Quest’ultimo studio, spiega Beghi, raccoglie l’eredità dei tre precedenti che hanno permesso di restringere il campo delle responsabilità. Una prima ricerca del 2012 accertò che i malati di Sla erano più frequenti tra coloro che avevano subìto traumi ripetuti. Un dato apparentemente neutro, ma significativo se collegato ad altre ricerche. Come quella del 2014, sempre del Mario Negri, in cui emerse che l’età media di insorgenza della malattia si abbassava nei soggetti che avevano praticato attività sportiva di una certa intensità. In pratica, nei soggetti predisposti, coloro che svolgono sport si ammalano prima della media della popolazione generale. Questi risultati, letti alla luce dei nuovi studi, permettono di avanzare un’ipotesi: «La Sla ha cause molteplici ed è evidente l’interazione tra geni e fattori ambientali. Tra questi ci sono l’attività fisica intensa e i traumi ripetuti, da quelli più lievi a quelli che rendono necessario un ricovero ospedaliero. I ricercatori puntano l’attenzione anche sulle possibili interazioni con molecole presenti in determinati antinfiammatori, se i soggetti ne avessero abusato. Non a caso certe molecole contenute in questi farmaci sono simili a quelle di alcuni pesticidi». Non solo. «Anche gli aminoacidi ramificati» aggiunge Beghi «potrebbero avere una responsabilità. Sono molecole che il nostro organismo sintetizza naturalmente, ma resta da chiarire il loro ruolo in caso di assunzioni esagerate, come talvolta capita agli atleti che vogliano aumentare le prestazioni». In conclusione, questa scoperta getta luce sui meccanismi, tuttora oscuri, della malattia, aiutando a comprendere che la Sla risulta da una complessa interazione tra fattori genetici e fattori esterni. «Purtroppo gli studi non permettono ancora di introdurre misure volte alla prevenzione della Sla» conclude Beghi. «Ma l’aver capito che svolgere attività sportiva a livello intensivo può anticipare un processo degenerativo ci permette di progettare ulteriori ricerche su malattie che con la Sla hanno elementi in comune, come l’Alzheimer e il Parkinson. Detto questo, voglio ribadire: giocare a calcio non fa male. Anzi».
· Davide Astori, la scoperta agghiacciante: tra il 1980 e il 2015 190 giovani atleti morti come lui.
Da Il Corriere dello Sport il 13 luglio 2019. Si infittisce il caso sulla morte di Davide Astori: nell'inchiesta bis per il decesso dell'ex capitano della Fiorentina, finisce anche Pietro Amedeo Modesti, direttore della Medicina sportiva dell'ospedale di Careggi. Il Professor Modesti è il terzo nome che finisce sul registro degli indagati per la morte di Davide Astori. Accusato dalla Procura di Firenze di "soppressione, distruzione e occultamento di atti veri", Modesti si aggiunge a Giorgio Galanti, indagato per "falso materiale in atto pubblico", e a una sua stretta collaboratrice, Loira Toncetti, che lo avrebbe assecondato come "concorrente morale". Secondo quanto ipotizzato dagli investigatori, Davide Astori sarebbe potuto essere stato sottoposto ad un esame denominato "strain", nel luglio del 2017, come sostiene la difesa di Galanti, ma che la refertazione dell'esame sia stata effettuata solo successivamente, e stampata dal computer di Medicina sportiva dell'ospedale di Careggi. Secondo la procura di Firenze, sul certificato stampa dal computer dell'istituto di Ponte Nuovo a Firenze, sarebbe comparsa l'equipe della struttura oggi diretta da Modesti, e proprio quest'ultimo, del tutto estraneo agli eventi accaduti nel luglio 2017, accorgendosi di questo particolare, avrebbe tentato di distruggere il documento, che però è arrivato in procura a Firenze "portato" da qualcuno che era presente in ospedale dopo aver assistito alla scena o recuperando in qualche modo il certificato che si era cercato di far sparire. Lunedì i tre indagati per questa inchiesta, i professori Giorgio Galanti, Pietro Amedeo Modesti, e la collaboratrice Loira Toncetti, sono stati convocati in procura per l'interrogatorio.
Caso Astori, nuovo sospetto dell'accusa: "Certificato predatato, un esame mai eseguito". Indagato ancora il professor Giorgio Galanti che aveva fatto i controlli sul giocatore della Fiorentina morto il 4 marzo 2018 e una dottoressa sua ex collaboratrice. Laura Montanari il 07 luglio 2019 su La Repubblica. C'è un nuovo sospetto che si fa strada fra chi indaga sulla morte di Davide Astori, il capitano della Fiorentina trovato morto in albergo a Udine il 4 marzo 2018. C'è un esame, lo strain, un accertamento per studiare possibili anomalie del muscolo cardiaco, che non sarebbe stato eseguito, ma di cui sarebbe stata prodotta una documentazione predatata. Insomma un falso certificato, secondo l'accusa, realizzato a posteriori ma retrodato al 10 luglio 2017 quando il difensore viola viene sottoposto alle visite mediche per idoneità agonistica. Per questo è indagato per falso il professor Giorgio Galanti, ex direttore del centro di riferimento regionale di Medicina dello sport dell'ospedale fiorentino di Careggi in concorso con una sua ex collaboratrice, la dottoressa che sottoscrive quello stesso documento. La notizia è stata anticipata oggi dalla Nazione. Galanti assieme al professor Francesco Stagno, direttore sanitario dell'Istituto di Medicina dello Sport di Cagliari era già indagato per omicidio colposo (il calciatore aveva giocato nel Cagliari anni prima). Secondo la procura di Firenze, il calciatore non era stato sottoposto allo strain nell'ultima visita medica di idoneità agonistica e per questo nel mirino degli inquirenti è finita anche una ex collaboratrice del professor Galanti che avrebbe materialmente redatto l'atto considerato falso dalla procura. La ex collaboratrice, una dottoressa che lavora tutt'oggi a Careggi ha ricevuto un invito a comparire. Secondo la procura quel documento datato luglio 2017 sarebbe stato realizzato nel 2019, quindi ben dopo la morte del calciatore. "So della nuova contestazione di cui siamo stati informati due giorni fa - spiega Sigfrido Feynes, legale che difende Galanti - ma mi riservo di fare degli approfondimenti". Cosa può essere accaduto e perché il professor Galanti avrebbe fatto retrodatare quell'analisi? La retrodatazione potrebbe essere un modo per rafforzare la tesi difensiva del medico: cioè, tutti gli accertamenti sono stati eseguiti seguendo il protocollo. Oppure molto più banalmente l'esame che non è stato trovato nelle prime perquisizioni a Careggi e sarebbe emerso ora perché magari era disperso in qualche cartella, in qualche cassetto, in qualche archivio: è soltanto un'altra delle ipotesi sul tavolo di questa inchiesta. "Non appena avremo gli atti della procura - spiega l'avvocato Antonio Olmi, uno dei due difensori della dottoressa, l'altra è l'avvocata Chiara Bandini - ci sottoporremo volontariamente all'interrogatorio". La procura ha comunque convocato la dottoressa per il 15 o 16 luglio prossimi. Le perquisizioni a Careggi sono state eseguite una ventina di giorni fa e in quella occasione è stato trovato il documento contestato che si riferisce allo strain, documento mai visto nei precedenti controlli di quelle stesse stanze. L'inchiesta principale per omicidio colposo ritiene che Davide Astori sia morto per la mancata diagnosi di una patologia cardiaca che gli avrebbe impedito il proseguimento della carriera agonistica. Diagnosi che per il pm non fu fatta per la carenza di alcuni approfondimenti medici. Questi, insieme ad altri esami, avrebbero potuto rivelare l'insorgenza della patologia in tempo utile per sottoporre Astori alle cure necessarie.
Davide Astori, la scoperta agghiacciante: tra il 1980 e il 2015 190 giovani atleti morti come lui, scrive il 23 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Un dato agghiacciante è emerso da uno studio dell'Università di Padova in collaborazione con la Regione Veneto. La ricerca è partita dalla tragica e improvvisa scomparsa del capitano della Fiorentina Davide Astori, morto per quella che l'autopsia ha definito cardiomiopatia aritmogena. E ha scoperto che tra il 1980 e il 2015 ben 190 giovani atleti sono deceduti in Italia per la stessa patologia di Astori. Su un totale di circa 700 atleti sotto i 40 anni morti in quello stesso periodo di tempo per morte cardiaca improvvisa, la cardiomiopatia aritmogena ha inciso per il 27%. Percentuale altissima, come sottolinea Il Giorno, se confrontata con chi soffre della stessa patologia ma non pratica sport a livello agonistico: sugli atleti incide 5 volte di più.
· Sport e demenza.
I traumi alla testa possono mettere a rischio la virilità. Come comportarsi. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 da Corriere.it. Bisogna evitare in tutti i modi di subire traumi cranici, specie ripetuti, perché ora si sa che, oltre a tutti gli altri rischi connessi, immediati e ritardati, c’è anche quello che possano interferire nel tempo con una soddisfacente vita sessuale. Uno studio pubblicato sulla rivista Jama Neurology da ricercatori guidati da Rachel Grashow dell’Harvard T. H. Chan School of Public Health, ha dimostrato un’associazione fra traumi cranici ripetuti e riduzione del livello di testosterone e difficoltà di erezione. Lo studio è partito rilevando la presenza di questi sintomi in un gruppo di oltre 3.500 ex giocatori di football americano ormai ultracinquantenni. Si è così scoperto che in circa il 18 per cento di loro c’era stata riduzione nel livello di testosterone e che circa il 23 per cento aveva difficoltà di erezione. Ma questi problemi erano presenti con una frequenza circa doppia nei giocatori che avevano subito il maggior numero di traumi cranici nel corso della loro carriera. Il dato è rimasto statisticamente significativo anche dopo le correzioni statistiche necessarie per valutare l’influenza di altri possibili fattori: età, sovrappeso, diabete, apnee del sonno e disturbi dell’umore.
Calcio scozzese: colpi di testa vietati agli Under 12 contro Alzheimer e Sla. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Introdurre da gennaio un divieto ai colpi di testa per i ragazzi sotto i 12 anni. Ci stanno pensando in Scozia, come accade già negli Stati Uniti da alcuni anni, dal 2014. In sostanza, i motivi per questo nuovo allarme sono due: lo stato di demenza senile denunciato dalle famiglie di Peter Cormack - ex centrocampista del Liverpool negli anni ’70 - e George Reilly, ex Watford e Wba. Poi, la pubblicazione da parte dell’Università di Glasgow di uno studio che rivela per i giocatori una percentuale di rischio molto superiore alla media di morire di demenza e di gravi malattie neurologiche. Tanto basta per spingere la federazione a prendere delle contromisure. Curata dal neuropatologo Willie Stewart, questa è una ricerca durata quasi due anni ed effettuata su 7.676 ex calciatori scozzesi nati fra il 1900 e il 1976. Rispetto a persone della stessa età e condizioni di vita, il rischio per i calciatori di ammalarsi è cinque volte superiore per l’Alzheimer, di quattro volte per malattie neuromotorie come la Sla e di due volte per il Parkinson. Per questo John MacLean, capo dello staff medico della Federcalcio scozzese, ha suggerito di prendere subito provvedimenti per ridurre «i pesanti colpi di testa» fra i giovani calciatori.
I calciatori hanno più probabilità di ammalarsi di Alzheimer e Sla. Lo rivela studio dell’Università di Glasgow. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 da Corriere.it. I calciatori professionisti soffrono per malattie di carattere motorio e neuronale cpiù degli individui che non hanno praticato questo sport. A questa conclusione è giunto uno studio della durata di 22 mesi, condotto dai ricercatori dell’Università di Glasgow e finanziato dalla Football Association, che ha esaminato 7.676 ex calciatori del campionato scozzese presenti in campo in un periodo che va dal 1900 al 1976. Nei casi esaminati e stata riscontrata una probabilità di cinque volte maggiore di ammalarsi di Alzheimer, di circa quattro volte nel caso di altre patologie psicomotorie, di due volte relativamente al morbo di Parkinson. Le cause sarebbero riconducibili almeno in parte ai vecchi palloni di cuoio, colpiti ripetutamente di testa nel corso della carriera sportiva dai soggetti presi in esame. In passato, nel 2002, alla stessa causa scatenante erano risaliti gli studiosi del caso di Jeff Astle, un ex attaccante del West Bromwich e della nazionale inglese morto pochi mesi prima. Astle aveva solo 59 anni quando i medici, per via dell’encefalopatia traumatica cronica, dissero che il suo cervello era ormai simile a quello di un novantenne. Le cause della patologia furono ricondotte ai colpi di testa contro i vecchi palloni di cuoio, molto più pesanti di quelli moderni. L’alzheimer aveva colpito anche altri colleghi di Astle, come l’ex capitano del Tottenham negli Anni Sessanta Danny Blanchflower, morto nel 2003a 67 anni, tanto da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Il fenomeno si associa anche ai recenti casi di Sclerosi Laterale Amiotrofica (Sla), che negli ultimi anni hanno riguardato il calcio italiano. Su tutte la storia di Stefano Borgonovo, ex calciatore di Fiorentina e Milan scomparso nel giugno 2013, ma è ancora da verificare se le ragioni scatenanti possano essere le stesse. Le famiglie dei giocatori affetti da questo tipo di malattie, come quella di Astle, da tempo chiedono una maggiore attenzione sul tema. Lo studio condotto a Glasgow dal dottor Willie Steward è solo l’ultima prova della connessione fra i due aspetti, un incremento della probabilità di ammalarsi e l’avere giocato a calcio a livello professionistico in gioventù. Gli ex giocatori del campionato scozzese sono stati confrontati con un campione di 23mila persone che in passato non hanno praticato questo sport. Nei prossimi mesi ulteriori ricerche daranno una risposta anche rispetto ai ruoli coperti in campo, se ci saranno fra questi differenze relativamente alle patologie dell’apparato neuronale contratte negli anni. «Alcuni ex giocatori», ha aggiunto inoltre Bobby Barnes, un alto funzionario dell’Associazione dei Calciatori Professionisti nel Regno Unito, «hanno già accettato di donare il proprio cervello alla medicina dopo la propria morte. Chiaro segno che intorno a questa tematica c’è un grande interesse, ora che i risultati delle ultime ricerche stanno dando un maggiore riscontro scientifico».
CONSIDERATE LA VOSTRA DEMENZA. Da gazzetta.it il 22 ottobre 2019. Allarme calciatori. Secondo una ricerca svolta in Inghilterra su richiesta della Football Association e del sindacato dei giocatori (quindi decisamente seria), i calciatori professionisti hanno una percentuale di rischio molto superiore alla media di morire di demenza e di altre gravi malattie neurologiche. Come riporta il Daily Express in prima, hanno esattamente probabilità tre volte e mezzo superiori rispetto a persone della stessa fascia d'età. Lo studio, condotto dall'Università di Glasgow per 22 mesi sui casi di 7676 ex calciatori scozzesi, ha anche riscontrato un rischio cinque volte superiore per l'Alzheimer, di quattro volte per malattia neuromotorie come la Sla e di due volte per il Parkinson.
LE CAUSE. La FA ha già fatto sapere che istituirà una task force per cercare di comprendere meglio le cause di questi numeri impressionanti. Il sospetto è che possano dipendere dalle tante volte in cui i calciatori colpiscono il pallone di testa, soprattutto quelli di una volta che erano particolarmente pesanti. Ma questo nesso non è comunque riportato nella ricerca dell'Università di Glasgow. Dell'Inghilterra campione del mondo nel '66 sono tre i giocatori affetti da Alzheimer (Martin Peters, Nobby Stiles e Ray Wilson), a cui si aggiunge il caso di Jeff Astle, scomparso nel 2002 a 60 anni per encefalopatia traumatica cronica. L'attaccante era famoso per i suoi colpi di testa.
Andrea Pettinello per foxsports.it il 22 ottobre 2019. Troppi calciatori rischiano di soffrire di demenza una volta terminata la carriera, gli allenatori lo sanno e non fanno assolutamente nulla per tutelarli. A rivelarlo è Alan Shearer, che in un documentario che andrà in onda sulla BBC non solo si è sottoposto a test medici specifici per stabilire quali e quante fossero le possibilità di soffrire di demenza in futuro, ma ha anche cercato di sensibilizzare coloro che potrebbero presto avere a che fare con problematiche simili. Tra partite e allenamenti, un giocatore può colpire il pallone con la testa tra le 800 e le 1500 volte a settimana: un dato troppo spesso sottovalutato. E fino alla morte di Jeff Astle avvenuta nel 2002 per una rara forma di demenza, gli esperti non avevano mai realmente preso in considerazione il fatto che colpire il pallone con la testa provocasse un danno gravissimo al cervello dei calciatori. Prendiamo come esempio Fabrice Muamba, vivo per miracolo dopo esser collassato in campo nel bel mezzo di una partita per un arresto cardiaco. In seguito a quell'incidente, nel giro di poco più di 6 mesi, su tutti i campi di calcio (non solo quelli di Premier League) era obbligatorio che i paramedici a bordocampo avessero accesso a un defribrillatore. In quel caso ci si è mossi prontamente, risolvendo un problema fino a quel momento ignorato, ma quanto bisognerà aspettare prima che il rischio della demenza venga preso realmente in considerazione? Dobbiamo assicurarci che il gioco del calcio non diventi uno sport in grado di uccidere. Finora non ci si è presi abbastanza cura degli ex calciatori e non lo si sta facendo nemmeno con i giocatori attuali. Servono risposte immediate, ma soprattutto serve maggior sensibilità e responsabilità da parte di chi, queste situazioni, le vive ogni singolo giorno della sua vita. Chiunque pratichi questa attività, e non deve per forza giocare in Premier League, potrebbe in futuro soffrire di questo tipo di problematica. Queste le parole con le quali Alan Shearer ha voluto introdurre il documentario che andrà in onda sulla BBC durante il prossimo weekend. L'obiettivo dell'ex attaccante inglese, nonché miglior marcatore della storia della Premier League, è quello di dar voce anche a quelle poche persone che nel corso di questi ultimi anni hanno cercato di sensibilizzare tutti coloro che ritenevano la demenza un problema marginale in uno sport come il calcio. In allenamento colpivo il pallone di testa tra le 100 e le 150 volte. Ogni giorno. Il che vuol dire una media di 1000/1500 colpi di testa a settimana. Allora non era un problema, ma oggi o un domani potrebbe esserlo. Ho già di mio una pessima memoria e non escludo che il tutto possa aggravarsi con il passare del tempo. A far da ostacolo, però, ci si è messo recentemente Les Ferdinand, anche lui ex attaccante della nazionale inglese e oggi direttore sportivo al QPR, che ha spiegato di non aver intenzione di supportare la teoria di Shearer fino a che non saranno dei medici specializzati a confermare la veridicità delle sue parole. In attesa che il documentario di domenica sveli qualche retroscena, i pareri sull'argomento continuano a essere ancora troppo discordanti.
· Beppe Marotta vs Fabio Paratici.
Paolo Ziliani per ''il Fatto Quotidiano'' il 28 luglio 2019. La vera storia del Grande Amore e del Grande Freddo che hanno dapprima unito e poi allontanato i due più importanti dirigenti del calcio italiano: Beppe Marotta, 62 anni, ad dell' Inter e Fabio Paratici, 47 anni, Chief Football Officer della Juventus. Storia di un' amicizia tradita.
L'antefatto data 23 ottobre 2012. È la sera di Nordsjelland-Juventus (1-1) di Champions e Antonio Conte è in tribuna per la squalifica di 4 mesi rimediata nel calcio scommesse; accanto a lui c' è Paratici, braccio destro di Marotta alla Juve. Il regolamento non lo consente, ma a dare ordini al vice Alessio in panchina è Conte, che detta a Paratici le sue disposizioni, subito girate ad Alessio via sms. Succede però che nel secondo tempo, con la Juve sotto di un gol, i tre sms dei cambi ordinati da Conte finiscano per sbaglio anche sul telefonino di Gianluca Fiorini; che è un procuratore e agente Fifa. Fiorini legge gli sms e di lì a poco vede entrare in campo, come da ordini, prima Vucinic, poi Bendtner, poi Giaccherini. "Hai sbagliato persona", scrive a Paratici. Che l' indomani lo chiama e gli prega di non dire nulla: Conte è squalificato, per lui sarebbe un guaio grosso. Ma che ci azzecca un sms finito sul telefonino sbagliato con la rottura di un'amicizia?
Per capirlo occorre saltare al 15 luglio 2014 quando al pronti-via del ritiro, in polemica col club che non gli compra i giocatori richiesti, Conte si dimette e abbandona la Juve. Due giorni dopo, e stavolta non per sbaglio, Paratici chiama Fiorini. È agitato. Gli spiega che Alvaro Morata senza Conte minaccia di non venire più alla Juve e che Marotta ne è felice: chiede un aiuto a Fiorini che l' anno prima, agli Europei Under 21 in Israele, aveva avvicinato Morata per conto di Osti (Sampdoria). Fiorini chiede un compenso in caso di buon esito dell' intervento. Poi chiama Morata, che è a cena a Madrid, e lo convince a dire sì alla Juve. L' indomani Paratici chiama Fiorini e lo ringrazia: ti aspetto a Vinovo, gli dice. In realtà Paratici chiede a Fiorini una mano anche per Babic, 18enne difensore serbo: è un extracomunitario, ma Paratici vuol fare l' operazione contando su un club amico come Sassuolo o Atalanta. La trattativa però non decolla; e nel frattempo Fiorini comincia a sentire Paratici freddo nei suoi confronti. Decide così di chiamare Marotta e gli rammenta il ruolo avuto nell'"operazione Morata": Marotta, che voleva Immobile, cade dalle nuvole. Non ne sapevo niente, dice. Tempo pochi minuti e Fiorini riceve sms durissimi da parte di Paratici, come: "La Juventus non ha bisogno di Gianluca Fiorini". L' agente prova allora a ricontattare Marotta, ma i suoi tentativi cadono nel vuoto. Il 13 novembre Fiorini chiede alla Figc l' autorizzazione ad adire le vie legali nei confronti di Paratici per le ingiurie ricevute via sms: la Figc non gli risponderà mai. Nel frattempo Paratici ha confessato a Marotta l' episodio degli sms "proibiti" finiti sul cellulare di Fiorini: il fatto non è ancora caduto in prescrizione e Paratici non si fida di Fiorini, che ora potrebbe inguaiare la Juve. L' agente invia infatti un esposto in cui documenta il fatto degli sms alla Procura federale (Palazzi) e alla Procura del Coni: non avrà mai risposta. Riceve invece un' inattesa e artefatta denuncia per stalking da parte di Marotta, fatta senza chiedere l' autorizzazione alla Figc. Il 20 febbraio 2015 Marotta presenta una seconda denuncia alla Digos di Torino (che il 9 maggio va a sequestrare il telefonino di Fiorini) all' attenzione del commissario Carmine Massarelli: un pubblico ufficiale che di lì a poco riceverà compensi dalla Juventus per docenze, pagate 140 euro l'una, che svolgerà in data 17-06-2015, 28-03-2017 e 28-06-2017, come risulta dai tabulati di questure.poliziadistato.it. Ai primi di gennaio il procuratore Toso condanna Fiorini alla multa di 300 euro per molestie telefoniche. Fiorini fa opposizione (sarà definitivamente assolto nel 2018), presenta a sua volta una denuncia per diffamazione verso chi ha fornito false testimonianze a Marotta e chiede alla Procura federale il deferimento di Marotta che lo ha portato in tribunale violando la clausola compromissoria. Ancora una volta Palazzi, e il Palazzo, fanno finta di nulla. Tutto ciò, Marotta lo fa per rimediare ai pasticci di Paratici che possono compromettere l' immagine della Juventus e bruciare lo stesso Paratici. Per aiutarlo, il dg chiede testimonianze amiche a Pradè, Osti, Corvino, Foschi ed è costretto a calarsi in contenziosi legali. Ma Marotta di Paratici è amico: sono una cosa sola, dicono. Ma molta acqua è passata sotto i ponti dalla sera in cui Paratici sbagliò a mandare quei tre sms; e tante cose sono successe, ultima l' acquisto di CR7 che Marotta osteggiò e Paratici invece propiziò. Alla fine Paratici è entrato nel cuore di Agnelli scacciando Marotta e scalzandolo dall' organigramma. Come dice la canzone: "Cominciava così". Con un sms, sette anni fa.
· Pallonari. Figli di…
PALLONARI NATI CON LA CAMICIA. Sara Sirtori per Io Donna il 25 agosto 2019. Sta per tornare il campionato do calcio italiano. E con lui ritornano a far sognare sul rettangolo verde gli eroi del pallone. Calciatori che riempiono le pagine dei giornali e dei social, sia per le loro prodezze atletiche sia per le loro vite dorate, ormai diventate di dominio pubblico tanto quanto il loro talento, espresso nei canonici 90 minuti settimanali. Fare il calciatore è ancora uno dei sogni più gettonati dei bambini. Ma se quando si è piccoli si brama solo l’idea di passare la vita a giocare con il pallone, crescendo si pensa anche ad altro. Fama e ricchezza, per esempio. Ma sbirciando tra le biografie degli dei del pallone, ecco che si scopre che non tutti hanno avuto bisogno di diventare calciatori per ottenerle. Qualche nome? Gerard Piqué. O Andrea Pirlo. O Federico Chiesa. Loro sono i calciatori nati con la camicia. Sono quelli che hanno scelto di inseguire un sogno con una libertà che è diventata sinonimo di passione. Forse le loro storie non sono da romanzo di formazione come quella di Cristiano Ronaldo, nato poverissimo nella poverissima Madera, che grazie al talento e a una determinazione fuori dal comune ha conquistato il trono del calcio. O come quella di Diego Armando Maradona, cresciuto a pane e pallone nelle favelas dei disperati di Buenos Aires. Ma, in un certo senso, sono tutti predestinati fin dalla nascita. Pur avendo scelto strade molto diverse. Mario Gotze è un giocatore tedesco del Borussia Dortmund. Se avesse seguito le orme paterne, non avrebbe regalato la Coppa del Mondo alla sua Nazionale nel 2014 con un goal decisivo ai supplementari. Jurgen Goetze, infatti è uno dei professori universitari più noti in Germania. Ha una cattedra nel dipartimento di Ingegneria elettronica all’Università tecnologica di Dortmund e ha collaborato anche con l’Università di Yale negli Stati Uniti. Ironia vuole che anche gli altri suoi due figli fanno i calciatori. Ha frequentato le scuole migliori di Spagna, tutte rigorosamente private e dalle rette astronomiche. Non che fossero un problema, perché Gerard Piqué proviene da una facoltosa famiglia catalana. Il difensore del Barcellona e della Nazionale spagnola ha travalicato i confini del calcio da quando ha per compagna la pop star Shakira, madre dei suoi due figli. Ma in realtà il biondo calciatore non avrebbe avuto bisogno del calcio per essere un nome celebre, almeno a Barcellona, sua città natale. Il padre Joan, infatti, è un noto avvocato e imprenditore di successo, mentre la madre Montserrat dirige un centro ospedaliero. Nella lista dei 15 calciatori proposta da iODonna c’è posto pure per un nobile. Si tratta dell’olandese Jan Vennegoor of Hesselink, l’incubo di chi doveva scrivere il suo nome sulla maglietta della squadra. Il suo doppio cognome deriva dall’unione di due casate nobili del XVII secolo che hanno così unito possedimenti, ricchezze e prestigio sociale. Jan, che è stato un attaccante di diverse squadre inglesi e anche della Nazionale olandese, attualmente fa il talent scout per la sua ultima squadra, il Psv Eindhoven. Per stare in casa nostra, per esempio, Gianluca Vialli è nato in una famiglia benestante di Cremona. Sebbene la mamma abbia sempre smentito la diceria che li voleva miliardari, Luca e i suoi fratelli sono cresciuti nella casa di famiglia, ovvero Villa Affaitati di Belgioioso, un vero castello del XV secolo a Grumello Cremonese e Uniti. Stessa situazione per il Maestro, ovvero Andrea Pirlo, così bravo sul campo da calcio da guadagnarsi un soprannome così importante. E chissà se la tranquillità di non dover guadagnare a tutti i costi non sia stata agli inizi il segreto della grandezza del centrocampista di Milan e Juventus, che ha potuto con tranquillità affinare il suo talento. Andrea, infatti, proviene da una famiglia bresciana molto benestante. Il padre, Luigi Pirlo, è un affermato uomo d’affari nel ramo della siderurgia, con interessi anche nell’edilizia e nel settore del vino.
Non solo il figlio di Ancelotti: da Pioli a Conte, quando nello staff entra qualcuno di famiglia. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Monica Colombo su Corriere.it.
Davide Ancelotti. Tra le pieghe delle scosse telluriche che stanno facendo traballare il Napoli, tra i mille motivi che hanno provocato l’insubordinazione dello spogliatoio verso il diktat di De Laurentiis di trascinare la squadra in ritiro, tra le cause che hanno compromesso il rapporto di fiducia fra giocatori e Ancelotti, si registra anche il malumore verso qualche elemento dello staff. La presenza di Davide, figlio del tecnico, e di Mino Fulco, genero di Carlo, stanno riportando a galla le antiche accuse di nepotismo che Ancelotti già aveva dovuto sopportare a Madrid e successivamente in Bundesliga a Monaco. Eppure Davide, 30 anni, non è l’unico «figlio di» ad essere parte del gruppo di lavoro del più celebre padre. Con il rischio di essere etichettati come «raccomandati», spesso le persone di famiglia vengono scelte per rappresentare un appoggio in più all’interno del team. Di certo Davide, che al Napoli ha addirittura il ruolo di vice-allenatore (ecco perché qualche giocatore non lo considera credibile e/o preparato), non è l’unico esponente di una prole di tecnici a lavorare in famiglia.
Gianmarco Pioli, match analyst. Stefano Pioli, il nuovo allenatore del Milan, entrato in carica il mese scorso, ha condotto il secondogenito Gianmarco, 27 anni, con sé a Milanello. Ricopre il ruolo di match analyst: aveva già confezionato video per Stefano all’Inter e alla Fiorentina. In passato aveva giocato nei dilettanti dello Juventus Club Parma.
Gianluca Maran, l’uomo dei droni. Ha 25 anni, è stato assunto dal Cagliari nell’estate del 2018 insieme al padre. «Inserirlo nello staff è stata più un’idea mia — ha dichiarato Rolando Maran —. Deve fare l’analisi per tutti gli allenamento con il drone, sa dove inquadrare così che per me è più semplice analizzare la seduta di lavoro. Fra noi è un continuo scambio di informazioni».
Niccolò Prandelli ha «lasciato» il padre. Nel 2012 quando l’allora c.t. Cesare Prandelli lo aggregò alla Nazionale, Niccolò aveva 28 anni. «Che male c’è? — si difese Prandelli all’epoca —. Ha già grande esperienza e le caratteristiche giuste». In passato aveva già lavorato con il padre a Firenze e poi a Valencia. Poi le strade si sono separate. Niccolò dal 2017, chiamato da Donadoni, svolge il ruolo di preparatore atletico nel Bologna.
C’è anche lo Special Son (di Mourinho). Aveva 18 anni quando nella primavera dello scorso anno, Mourinho jr, Josè Mario, Zuca per gli amici, venne inquadrato tra i membri dello staff dello Special One al Manchester United. «Un giorno dopo un periodo in cui avevamo riportato diversi risultati negativi, venne da me per analizzare alcuni aspetti delle criticità — raccontò di lui Josè Mourinho —. Mi presentò alcune statistiche di squadra e io le mostrai ai miei assistenti dicendo di stare attenti perché un giorno lui avrebbe potuto rubare loro il posto. Spesso rivedo me in lui a quell’età quando volevo imitare mio padre». In passato era stato portiere nelle giovanili di Inter, Real Madrid e Chelsea.
I Pochettino, una famiglia per il Tottenham. Mauricio è il celebre allenatore, arrivato in finale di Champions e a ogni sessione di mercato accostato a qualche big italiana. Il figlio Maurizio da quest’estate è tesserato dallo stesso club londinese. Gioca però nell’Under 23. 18 anni, attaccante esterno, iniziò la carriera nel Southampton.
Zidane, 4 figli su 4 calciatori. Enzo Zidane, il primogenito, di professione fa il centrocampista. Dopo essere cresciuto nelle giovanili del Real Madrid è passato all’Alaves, da lì in Svizzera al Losanna, dove non ha lasciato tracce. L’ultima stagione l’ha giocata in prestito nella serie B spagnola al Rayo Majadahonda, e quest’anno prova a rilanciarsi all’Aves, Primeira Liga portoghese. Nella B spagnola, precisamente al Racing Santander, è andato Luca, il portiere che papà Zinedine ha già fatto debuttare nella prima squadra del Real Madrid: il prestito dovrebbe servirgli per crescere. Il terzogenito è Theo, che a 17 anni è un giocatore nello «Juvenil B» del vivaio madridista e promette bene come trequartista. Infine c’è Elyaz, difensore di 14 anni sempre nelle giovanili del Real.
Gianluca Conte, fratello sempre con Antonio. Dai tempi del Bari, Gianluca, classe 1972, segue il fratello Antonio in ogni avventura professionale. Dalla Juventus alla Nazionale passando per il Chelsea. Laureato in Scienze motorie, segue le partite dalla tribuna da cui riprende con la telecamera tattica le varie situazioni di gioco. Individua i problemi, gli errori, le possibili strategie. Confeziona video da sottoporre ai giocatori per comprendere dove si è sbagliato e come intervenire. Chissà se è ossessionato come il fratello.
· Il Calciomercato. Il Romanzo dell’Estate.
IL VERO ROMANZO DELL’ESTATE? IL CALCIOMERCATO. Andrea Schianchi per Sportweek-la Gazzetta dello Sport il 25 agosto 2019. Principi e capitani d’industria, comandanti e semplici parvenu, ricchissime canaglie e poveracci che giocano a fare i potenti: il mondo del calciomercato è da sempre un gigantesco palcoscenico sul quale si esibiscono tutte le varietà umane, nessuna esclusa, per dar vita a un avvincente romanzo d’avventura. Perché in esso,proprio come nelle pagine di Robinson Crusoe, c’è la commedia e c’è la tragedia (entrambe opportunamente dosate), ci sono i soldi (tanti, il motore di tutto), c’è l’inganno e c’è l’astuzia, e alla fine, a seguire bene la trama, si scopre anche il colpevole. Sul finire del 1930, per esempio, le squadre italiane cercano l’affare al di là dell’oceano. La Juventus della famiglia Agnelli mette gli occhi su un veloce ala destra brasiliana: Pedro Sernagiotto, detto Ministrinho, cioè “piccolo ministro”, per la bassa statura. Gioca nella Palestra Italia, non ancora Palmeiras, e i dirigenti bianconeri si accordano con i colleghi di San Paolo per il trasferimento. Tutto fatto, il prezzo è giusto (20 mila lire) e Sernagiotto s’imbarca su un transatlantico con destinazione Italia. Durante il viaggio, però, due emissari del Genoa, loschi figuri, avvicinano Sernagiotto, gli parlano del Grifone e lo convincono a firmare un contratto. Così, quando sbarca proprio al porto di Genova, i dirigenti della Juve scoprono l’inganno. Sernagiotto è formalmente bianconero ma, poiché si è legato anche al Genoa con quella firma in alto mare viene squalificato per un anno dalla Federcalcio. Pochi anni dopo per un giocatore nasce addirittura un caso di Stato. Il12 settembre 1935 il caporal maggiore Annibale Frossi,fante della Gran Sasso, è sulla motonave Saturnia nel porto di Napoli: mancano poche ore alla partenza per l’Africa Orientale. Adelchi Serena, reggente del Partito Nazionale Fascista, ordina: «Il caporal maggiore Frossi Annibale deve scendere». E di persona spiega all’incredulo soldatino che, anziché andare a combattere in Etiopia, giocherà nella squadra dell’Aquila che l’aquilano Serena vuole portare a una trionfale promozione. La Serie A, per il gerarca Serena, sarebbe ciò che l’Impero è per il Duce: gli andrà male, nonostante l’ingaggio del soldato Frossi per il quale al Padova (società di appartenenza) non viene versata una lira. D’altronde, è un affare di Stato. Nel Dopoguerra il calciomercato diventa la vetrina delle vanità e l’Hotel Gallia di Milano, a due passi dalla Stazione Centrale, il centro attorno a cui ruota tutto l’universo del pallone. Tre sono i personaggi che manovrano le scene: il principe Raimondo Lanza di Trabia, proprietario del Palermo; Paolo Mazza, presidente della Spal; e Gipo Viani, allenatore e poi direttore sportivo, che tutti chiamano lo Sceriffo per i modi sbrigativi e per una certa somiglianza con John Wayne. Il Principe ama ricevere i dirigenti delle squadre rivali in una suite all’ultimo piano del Gallia: li accoglie in vestaglia e li liquida in pochi minuti. Ama la vita, lo champagne e le donne. Ha sposato l’attrice Olga Villi alla quale, dicono i maligni, ha voluto fare un regalo speciale: il mediano Fuin, bravo giocatore che, se non funziona nel Palermo, può sempre palleggiare nel giardino della sua villa.
LO SCERIFFO E IL COMANDANTE. Lo Sceriffo è tanto furbo al tavolo da poker quanto durante le trattative. Si sussurra che, nella sua azienda agricola a Nervesa della Battaglia, faccia marchiare le mucche con il nome dei giocatori venduti. Mazza usa la furbizia contadina per non cadere nelle trappole del mercato e per non farsi troppo abbagliare da quel mondo di milionari. Una volta, però, anche lui se la vede brutta. Estate del1953, deve cedere il portiere Ottavio Bugatti al Napoli del Comandante Achille Lauro. I due si accordano sul prezzo: 55 milioni di lire. Ma Lauro non stacca l’assegno: semplicemente scrive «pagare 55 milioni» su un pacchetto di sigarette Turmac e lo consegna a Mazza. «Non ti preoccupare, domani vai in banca e incassi. Mi conoscono...». Mazza passa una notte da incubo, la mattina presto si sveglia, corre agli sportelli della Banca Commerciale e lì scopre che la firma di Achille Lauro, anche se fatta su un pacchetto di sigarette, vale quanto una cambiale: soldi incassati.
L’ASTUZIA DELL’AVVOCATO. C’è sempre Achille Lauro al centro del palcoscenico nell’estate del 1965. La Juve deve liberarsi di Omar Sivori perché l’allenatore Heriberto Herrera non lo vuole vedere. E così l’avvocato Agnelli, che aveva definito Sivori «un vizio», si convince a trattare la cessione di uno dei suoi campioni preferiti. Per discutere del passaggio del Cabezon al Napoli l’Avvocato sceglie una location alla moda: l’alto mare al largo di Capri. Qui, su uno yacht, parla con Achille Lauro e raggiunge un’intesa sulla base di 90 milioni di lire. Ma siccome vendere Sivori, per lui, è come privarsi di un’opera d’arte, alza la posta, gioca d’azzardo, finge di voler trattenere l’argentino. Lauro abbocca emette sul piatto anche l’acquisto di due motori Fiat per la sua flotta navale. A quel punto, ottenuto ciò che vuole, l’Avvocato dice sì. Il primo ad avere un’autentica rete di osservatori e informatori, tirapiedi e portaborse, è Italo Allodi. Costruisce il Mantova di Mondino Fabbri, soprannominato il Piccolo Brasile, è l’architetto della Grande Inter di Moratti e della Juve che negli Anni 70 domina la scena italiana. Nell’estate del 1967, però, anche lui deve inchinarsi alla furbizia di un collega più astuto: Gioacchino Lauro, presidente del Napoli. Allodi, per conto dell’Inter, sta trattando l’acquisto di Dino Zoff dal Mantova e duella col Milan. Mancano pochi minuti alla fine del calciomercato, la folla dei tifosi riempie il piazzale davanti al Gallia, è ormai mezzanotte e nessun acquisto viene annunciato: allora Zoff rimane al Mantova? Cinque minuti dopo, sventolando una raccomandata spedita poco prima e alzando un calice di champagne verso l’esterrefatto Allodi, Lauro fa sapere che Zoff giocherà nel Napoli. Mentre Inter e Milan litigavano, lui ha piazzato il colpo.
LO SCAMBIO DI PERSONA. Nel 1973 il romanzo si fa violento. Corrado Ferlaino vuole a tutti i costi il centravanti Giorgio Braglia della Fiorentina e riesce a concludere l’acquisto. In quel periodo, però, i giocatori sono gestiti, diciamo così, da mediatori e furbacchioni che sulle loro spalle si fanno i soldi. Uno di questi è Romeo Anconetani, non ancora presidente del Pisa. Saputo del passaggio di Braglia al Napoli, si precipita furibondo verso Ferlaino e gli molla tre ceffoni gridando: «Braglia è mio, tu non devi permetterti di trattare i miei giocatori!». Ferlaino incassa e sale in camera, Anconetani si siede su un divano a sbollire. Un suo collaboratore si avvicina e chiede: «Perché ti sei arrabbiato con Ferlaino?». «Ha preso Braglia, che è nostro. Non può farlo!». E il collaboratore: «Braglia? Ma noi non abbiamo nessun Braglia. Forse ti sei confuso con Braida...». Anconetani sbianca, si fa dare carta e penna dal portiere dell’albergo e scrive le sue scuse a Ferlaino pregando che gli vengano recapitate immediatamente.
TANTI SOLDI PER SAVOLDI. A metà anni Settanta l’Italia è in ginocchio: crisi economica, proteste di piazza, rapimenti, omicidi. Sono gli anni di piombo, eppure l’allegro mondo del calcio sembra non accorgersi di nulla: spende e spande come se nulla fosse. E si arriva a toccare l’apice del paradosso quando il Napoli acquista dal Bologna il centravanti Beppe Savoldi, valutato 2 miliardi di lire: è il colpo più costoso del mercato, se ne parla anche all’estero. Il presidente partenopeo Ferlaino e quello degli emiliani Luciano Conti si trovano per siglare l’accordo, ma qualcosa s’inceppa. «Ecco qui la cifra. Firmi?» domanda Ferlaino. «Non ho gli occhiali» si giustifica Conti e, grazie a quella banale scusa, prende tempo. Il fatto è che gli sono arrivate minacce pesanti: «Se vendi Savoldi, rapiamo tutta la tua famiglia». Solo dopo aver ottenuto dalla Questura un’adeguata protezione Conti si convince a cedere (e a incassare). Tre anni più tardi, maggio 1978, entrano in azione gli agenti dei servizi segreti. Non quelli veri, ma quelli del calciomercato: i soliti informatori, che a volte millantano e a volte dicono la verità. C’è in ballo la comproprietà di Paolo Rossi tra il Vicenza e la Juve: il nuovo che avanza sfida il vecchio potere. Una spia, rimasta sempre nell’ombra, la sera prima di scrivere la cifra dentro la busta sigillata dalla ceralacca, telefona a Giussi Farina, presidente del Vicenza, e gli dice: «Scrivi due miliardi e 600 milioni, la Juve mette due miliardi e mezzo». Farina esagera e scrive 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire. Solo quando aprono la busta della Juve, e la cifra è 875 milioni, Farina ha il sospetto di essere stato fregato. Che la spia fosse juventina?
TRE FATTORINI GHANESI. Quando, nel 1980, riaprono le frontiere, la pacchia, se possibile, aumenta. Giocatori che, in pochi giorni, viaggiano da una parte all’altra del mondo, magari dopo una breve sosta in un Paese terzo per risolvere qualche problemino fiscale. Tutto legale, per carità. Il maestro di queste operazioni è Luciano Moggi. Anche se non sempre gli va bene: nel 1982, da d.s. del Torino, acquista Safet Susic che però ha già firmato con l’Inter e l’affare salta.Nel1994, da d.g. della Juve, tenta il colpo con Luis Figo. Il Parma si è accordato con il giocatore, allora Moggi va direttamente allo Sporting Lisbona e conclude l’affare con il club portoghese. La Uefa decreta che entrambi i contratti sono validi e vieta a Figo di trasferirsi in Italia per almeno due anni. Nel 1992, per conto del Torino di Gian Mauro Borsano, Moggi fa spese in Ghana. Acquista tre minorenni: Gargo, Kuffour e Duah. Le regole impediscono l’affare e lui aggira l’ostacolo: fa assumere i ragazzi come fattorini dell’azienda di Borsano inattesa che le acque si calmino. Gli007federalipescanoifurbetti con le mani nella marmellata e annullano l’operazione. Va meglio, molto meglio, ad Adriano Galliani e Ariedo Braida che nel 1988 volano a Lisbona per acquistare Frank Rijkaard. Una volta firmato l’accordo, si accorgono che davanti alla sede dello Sporting si è radunata una folla che non pare avere buone intenzioni: contesta la cessione dell’olandese e agita i bastoni Nel 1988, dopo aver chiuso per Rijkaard al Milan, devono quasi scappare dalla sede dello Sporting Lisbona. E Braida addirittura s’infila il contratto firmato dentro le mutande. delle bandiere. Così i due chiedono gentilmente dove sia un’uscita secondaria e, prima di imboccarla, Braida compie il gesto decisivo: infila il contratto di Rjikaard appena firmato nelle mutande, «così è al sicuro». E poi via all’aeroporto prima che i portoghesi ci ripensino.
Calciomercato e parametri zero: ecco quanto guadagnano i procuratori. Spostano giocatori a fine contratto e fanno soldi. Tanti: quasi 2 miliardi di euro dal 2013 (e l'Italia è il campionato che spende di più). Giovanni Capuano il 7 gennaio 2019 su Panorama. Agiscono sempre meno nell'ombra dei grandi campioni che spostano. Guadagnano cifre altissime che escono dal sistema calcio e sono finiti nel mirino della Fifa che vorrebbe ridurne poteri e giro d'affari. Sono i procuratori o intermediari che gravitano nell'orbita del calciomercato e che ne sono diventati protagonisti quasi quanto i player (top e non) e i club di cui rappresentano gli interessi facendosi pagare caramente. Non si muove affare senza il loro consenso, o quasi. E la percentuale che prendono sul passaggio di un calciatore da una squadra all'altra nel panorama internazionale è di poco superiore al 7% quando in ballo ci sono 5 o più milioni di euro per salire fino al 28% nel caso di affari low cost con i club come committenti dei loro servigi. Il giro d'affari è impressionante. Dal 2013 al 2018 il costo totale delle intermediazioni è stato di 1,86 miliardi di euro e gli intermediari sono entrati in gioco in ben 16.825 trasferimenti internazionali su un totale di 86.212: uno su cinque. Numeri ricavati dal sistema TMS della Fifa dove i club sono obbligati a registrare i valori delle proprie operazioni compresi i cosiddetti "oneri accessori".
La corsa all'oro dei parametri zero. Il fenomeno si sta accentuando con il moltiplicarsi delle operazioni con i cosiddetti 'parametri zero', ovvero i calciatori arrivati a scadenza di contratto e liberi di accasarsi in un altro club senza che questi debba riconoscere nulla alla squadra dalla quale vengono. Parametri zero solo virtualmente, visto che nel caso dei top player gran parte del guadagno finisce nelle tasche degli intermediari e dei giocatori stessi. I casi di De Vrij (7,5 milioni di commissioni), Emre Can (16), Ramsey (si parla di 9 milioni) e, prima ancora, di Llorente e Pogba solo per citare i maggiori, fanno scuola. La lista dei calciatori con contratto in scadenza al 30 giugno 2019 è lunga e fa gola a tanti, promettendo di aumentare il peso e i guadagni dei procuratori. Anche il nuovo regolamento del Fair Play Finanziario, entrato in vigore nel giugno 2018, obbliga le società a maggiore trasparenza.
Quanto spende la Serie A. La corsa al rialzo delle spese per intermediazioni è fotografata dai numeri oltre che dalla cronaca. Dal 2013 (190 milioni di euro in tutto il mondo) al 2018 (478 milioni) l'incremento è stato del 151 per cento. Una crescita che si è accentuata negli ultimi mesi: +22,5% dal 2017 al 2018. Quasi tutto il giro d'affari è generato da operazioni che coinvolgono club sotto il controllo dell'Uefa: 458 milioni di euro nell'anno solare 2018 su un totale di 478 (96%). Agli altri restano le briciole. E dentro il microcosmo europeo sono Premier League (136 milioni di euro) e Serie A (115) i due campionati che mettono maggiormente mano al portafoglio per garantirsi i servigi degli intermediari. Più staccate Bundesliga (49), Portogallo (38), Liga spagnola (33) e Ligue1 francese (29).
Simona Marchetti per corriere.it il 22 ottobre 2019. A dispetto di un cliente del calibro di Cristiano Ronaldo (Juventus), non è Jorge Mendes l'agente sportivo più potente e ricco del pianeta, bensì il suo collega Jonathan Barnett, che gestisce - fra gli altri - Gareth Bale (Real Madrid). A stabilirlo è stata l'annuale classifica di Forbes, che ha messo in fila i procuratori che, in base alle commissioni guadagnate sui trasferimenti, hanno incassato di più nel 2019, assegnando così lo scettro al titolare dell'agenzia londinese Stellar Group, seguito da Scott Boras (baseball) e da Mendes, mentre nella top-5 figura anche Mino Raiola, preceduto da Jeff Schwartz (basket Nba).
Jonathan Barrett - 128 milioni di dollari. Terzo in classifica lo scorso anno, nel 2019 Jonathan Barnett è salito al primo posto grazie ai 128 milioni di dollari (pari a 115 milioni di euro) guadagnati nelle commissioni sui trasferimenti e agli ingaggi per 1,3 miliardi di dollari (1,17 miliardi di euro) negoziati nei contratti degli atleti. Co-fondatore e presidente della società londinese Stellar group, il potentissimo agente ha 213 clienti, fra cui Gareth Bale (Real Madrid), Saul Niguez (Atletico Madrid) e Wojciech Szczesny (Juventus).
Scott Boras - 119 milioni di dollari. A differenza di Barnett, Scott Boras - che tramite la Boras Corporation gestisce di fatto il baseball Usa - ha negoziato contratti per un valore complessivo di 2,4 miliardi di dollari (2,1 miliardi di euro), incassando però «solo» (si fa per dire) 118,8 milioni di dollari (106,8 milioni di euro) di commissioni. Nel suo portfolio Boras ha 66 clienti, fra cui Bryce Harper dei Philadelphia Phillies.
Jorge Mendes - 118 milioni di dollari. Titolare della Gestifute, allo stato attuale Jorge Mendes ha un giro di 118 milioni di dollari (105 milioni di euro) in commissioni e di 1,2 miliardi di dollari (1,08 miliardi di euro) in contratti. Oltre a CR7, nell'elenco dei suoi 122 clienti figurano anche Bernardo Silva, João Cancelo ed Ederson (Manchester City) e James Rodríguez (Real Madrid).
Mino Raiola - 70,3 milioni di dollari. Mino Raiola si conferma al quinto posto della graduatoria di Forbes con 703 milioni di dollari (631 milioni di euro) di contratti negoziati (fra cui il trasferimento record per 105 milioni di euro di Paul Pogba al Manchester United nel 2016) e 70,3 milioni di dollari (63,1 milioni di euro) di commissioni guadagnate. Insieme a Pogba, l'elenco dei 72 clienti dell'agente italo-olandese comprende inoltre Zlatan Ibrahimovic (LA Galaxy), Lorenzo Insigne (Napoli), Marco Verratti (Psg), Gianluigi Donnarumma (Milan) e Matthijs de Ligt (Juventus).
La classifica degli agenti sportivi più pagati del 2019. Sempre più ricchi e decisivi, ecco i procuratori che hanno incassato le commissioni maggiori. Nella lista anche Mino Raiola. Giovanni Capuano il 22 ottobre 2019 su Panorama. Ricchi, sempre più ricchi. E sempre più importanti nel decidere le traiettorie di carriera dei propri atleti e i destini dei club ai quali si legano. Ecco la classifica dei procuratori o agenti internazionali che hanno incassato le commissioni maggiori nell'anno 2019. Uomini dalle cui mani sono passati gli affari più caldi del calciomercato mondiale e che hanno trattato i contratti delle star dell'Nba e dello sport professionistico. Con quali risultati? Decine, centinaia di milioni di euro incassati spostanto uomini che a loro volta sono delle multinazionali individuali, con fatturati spesso vicinia quelli dei club che li stipendiano con emolumenti altissimi, ma inferiori alla quota dei contratti pubblicitari capaci di generare.
La classifica dei cinque procuratori più pagati. In testa alla graduatoria dei procuratori più pagati del 2019 c'è Jonathan Barnett, che rappresenta due stelle come Bale e Saul Ninguez ma che nella sua scuderia ha oltre 200 clienti. Ha trattato affari per 1,3 miliardi di dollari con guadagni stimati da Forbes (che ha redatto la classifica) di 128 milioni. Al secondo posto Scott Boras che lavora con il baseball Usa e che ha ottenuto ricavi per 118,8 milioni di dollari assistendo a trade per 2,4 miliardi. Terzo il portoghese Jorge Mendes con il suo impero Gestifute (Ronaldo e tanti altri) da 118 milioni di guadagni nel 2019 (1,2 miliardi di trattative). Appena sotto il podio ecco Jeff Schwarts che lavora con le stelle del basket Nba (72,5 milioni di dollari in commissioni) e Mino Raiola, l'uomo che movimenta le estati del calcio italiano ed europeo e che ha portato a Torino l'olandese De Ligt in uno dei movimenti più costosi degli ultimi anni. La stima è che abbia incassato complessivamente 70,3 milioni di dollari di commissioni. Anche se quinto in classifica, non gli è certamente andata male...
"Raiola, per i nemici Mino", la biografia del re dei procuratori. Sembra un romanzo la vita di Mino Raiola, eminenza grigia del calcio internazionale, raccontata molto bene nel libro di Giovanni Chianelli e Angelo Pisani. Andrea Bressa il 28 settembre 2018 su Panorama. Non è un campione, non fa gol, non vince campionati o coppe, eppure è uno dei più importanti e potenti personaggi del calcio. Parliamo di Carmine Raiola, per tutti Mino Raiola, procuratore al momento più famoso e forse più influente nel mondo del pallone. È una figura affascinante per la sua eccentricità e per la sua storia, ben raccontata nel libro Raiola, per i nemici Mino, scritto dal giornalista Giovanni Chianelli e dall’avvocato Angelo Pisani (edito per LOG Edizioni). Mino Raiola è una eminenza grigia del calcio, lontana però nell’aspetto dal mondo patinato a cui appartiene. Basso, tarchiato, scostante, scorbutico e trasandato nell’abbigliamento, ha dalla sua la conoscenza di ben sette lingue (italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese), una grande fiuto per gli affari e, soprattutto, l’indubbia capacità di portarli a termine e farli fruttare. Nato a Nocera Inferiore nel 1967, Mino emigra con la famiglia in Olanda, ad Haarlem, nel '68. I Raiola mettono in piedi un’attività, la più ovvia per degli emigrati italiani campani: una pizzeria. Fra i tavoli del locale, lavorando come cameriere, il giovane Mino impara a conoscere le persone, cosa pensano, cosa vogliono. Ma soprattutto impara come e dove far fruttare le idee, in termini economici. Abbandonata prestissimo la carriera da calciatore nell’Harleem, ad appena 20 anni gli viene affidato il ruolo di direttore sportivo delle giovanili della sua ex squadra. Questo è il punto di partenza di una carriera strepitosa nel mondo degli affari calcistici, un trampolino di lancio che gli consente di avventurarsi nella difficile attività di procuratore, con la sua prima società, la Intermezzo. Nemmeno trentenne, grazie a un inedito accordo con il sindacato dei calciatori, riesce a diventare il rappresentante degli atleti olandesi per l'estero. Frank Rijkaard al Milan nel 1988, Bryan Roy al Foggia nel 1992 e Dennis Bergkamp all'Inter nel 1993 sono i primi colpacci del procuratore italo-olandese. Gli affari vanno bene, anche perché Raiola si è inventato un nuovo modo di trattare: far pagare alle società un cartellino dal prezzo ribassato (o addirittura proporre un parametro zero), così da poter arrivare a compensi maggiori per i giocatori, che fra l’altro rendono anche di più. Una formula in cui vincono tutti, club, atleti e, naturalmente, Raiola. Zeman, Moggi, Galliani, Moratti: sono numerosi i personaggi che inevitabilmente incontra e con cui ha a che fare, con esiti positivi e negativi. È Raiola che porta in Italia Pavel “Furia ceca” Nedved nei primi anni Novanta, che fa esplodere il talento e l’immagine di Zlatan Ibrahimovic. Non è un caso, del resto, che il campione svedese nella sua biografia Io, Ibra abbia riservato un grande spazio al rapporto con Raiola. Ma non siamo qui per raccontare la storia di Mino Raiola. Per scoprirla interamente rimandiamo ovviamente al libro di Chianelli e Pisani. I due autori sono riusciti a fare un ritratto limpido, chiaro ed efficace del più potente dei procuratori. Va dato loro il merito di aver usato uno stile estremamente scorrevole e fresco, ricco di ironia. Sembra di leggere un romanzo: ma forse è perché la stessa vita di Raiola lo è. Raiola. Per i nemici Mino di Giovanni Chianelli e Angelo Pisani (LOG Edizioni) 171 pagine
· Calcio e business: ecco le plusvalenze delle squadre di Serie A.
IL CALCIOMERCATO È TRUCCATO: NON SI VENDONO GIOCATORI MA PLUSVALENZE. Lorenzo Vendemiale per il “Fatto quotidiano” il 18 agosto 2019. L'estate di Lukaku e De Ligt, forse di Icardi e Dybala, sicuramente di Spinazzola e Pellegrini, Radu e Pinamonti, Neto, Jordao e decine di altri carneadi: non giocatori, plusvalenze viventi. I top player magari cambieranno il volto della Serie A, ma sono i piccoli nomi che la tengono a galla. Centinaia di operazioni apparentemente insignificanti eppure preziose: al giorno di Ferragosto, in Serie A ci sono state 524 cessioni e 644 acquisti (fonte Transfermarkt). Oltre mille movimenti sui bilanci: il calciomercato oggi serve ad aggiustare i conti, più che le squadre. E non è ancora finita: il "baraccone", come l' ha definito il mister dell' Atalanta Gasperini, proseguirà fino al 2 settembre, oltre l' inizio del campionato (la Figc di Gravina ha cancellato la fine anticipata, una delle poche cose buone fatte dal commissariamento Coni) Tanti acquisti, pochi soldi (veri) Dietro ogni transazione ci sono calcoli complicati, formule fantasiose. Prendiamo i due acquisti dell' estate, Matthijs de Ligt alla Juventus e Romelu Lukaku all' Inter: pagati 85 e 75 milioni, somme mostruose che però diventano abbordabili se pagabili in comode rate in 5 anni. Oppure Nicolò Barella, dal Cagliari ai nerazzurri per oltre 45 milioni di euro, il centrocampista italiano più caro di sempre. Sulla carta: in realtà il trasferimento è in prestito, per cui l'Inter ha sborsato per il momento solo 12 milioni (il resto dopo). È così che oggi si fa il mercato, e che spese apparentemente insostenibili si conciliano con i bilancio. Lo spiega bene il portale Calcio e finanza, che ha dedicato degli approfondimenti al mercato delle big. Nonostante una campagna da 200 milioni ("la più cara di sempre", è stato scritto), il costo della rosa dell' Inter è aumentato di "soli" 40 milioni. Il Milan, che per i suoi conti in rosso è stato addirittura escluso dall' Europa League, sembra stia spendendo e spandendo: Leao, Hernandez, Krunic, Bennacer, Duarte. "Come fa?", si chiedono in tanti. In realtà il costo della rosa è addirittura inferiore di 25 milioni rispetto all' anno scorso. Al contrario, la ricca Juventus si trova in imbarazzo per dover vendere diversi giocatori che gravano sulle casse. E questo anche perché alcuni acquisti a parametro zero, a zero non lo sono affatto: i vari Rabiot e Ramsey, arrivati in scadenza e quindi teoricamente gratis, costano decine di milioni in stipendi o commissioni agli agenti, veri padroni del mercato. Quanti scambi fra big: una mano lava l' altra Dietro ai colpi che accendono i sogni dei tifosi, c' è un' infinità di trasferimenti, prestiti, scambi. Plusvalenze. È la parola magica: si tratta del guadagno derivante dalla differenza fra il prezzo di cessione del calciatore e il suo costo a bilancio (diverso dal prezzo d' acquisto). Parte dal principio che i giocatori sono considerati alla stregua di "beni", in quanto "patrimonio" del club. Ed è questo che fa scattare il meccanismo perverso, quasi incontrollabile: creare ricavi dal nulla per gonfiare i bilanci. Ormai è una prassi: Il Fatto ha già dedicato un' inchiesta ai casi borderline, ma anche senza sfiorare l' illecito questo mercato non ha fatto eccezione. Anzi, visto che il giochino funziona, ormai le grandi hanno preso addirittura a scambiarsi i giocatori fra loro. Se io ti compro un giocatore a 50, e tu uno mio più o meno alla stessa cifra, entrambi metteremo a bilancio un guadagno. Così Quella 2019 è stata l' estate del "gioco delle coppie": Spinazzola e Luca Pellegrini tra Juventus e Roma, Manolas e Diawara tra Roma e Napoli, Danilo e Cancelo tra City e Juve. Ma si potrebbero citare anche Demiral e Rogerio, Radu e Pinamonti, ecc. Scambi di dubbia utilità tecnica ma finanziariamente convenienti per tutti. Difficile spiegare, ad esempio, perché i bianconeri hanno ceduto Cancelo per acquistare un altro terzino poco difensivo come Danilo (difetto che veniva contestato al portoghese). Tutto ha più senso, però, nel momento in cui si scopre che l' ipervalutazione di entrambi i cartellini (gonfiata addirittura fino a 65 e 37 milioni) ha permesso ai club di realizzare una grossa plusvalenza. All' orizzonte potrebbe esserci già il prossimo caso, il più clamoroso: anche la telenovela Icardi rischia di finire in un altro scambio, magari alla Juve per Dybala. Situazione diversa (quello del centravanti nerazzurro è un caso particolare), la soluzione è la stessa. Il report Figc: il 22% dei ricavi è gonfiato Messa così, sembra la panacea di ogni male: il fatturato lievita, il bilancio respira. Infatti le operazioni si moltiplicano. Il problema, però, è che è quasi tutto virtuale. Dietro quelle cifre non ci sono risorse vere: la plusvalenza si segna tutta subito, anche se i soldi arrivano dopo o non arrivano mai (spesso gli scambi di giocatori reciproci sono a flusso zero). L' effetto è gonfiare il bilancio. Lo certifica anche il "Report calcio 2019" della Figc: nel 2017-2018 sono cresciute sia le plusvalenza (713 milioni, letteralmente esplose nelle ultime due stagioni) che i debiti, vicini a 4 miliardi. E questo perché il 22% del fatturato di un club è fatto di questi ricavi spesso fittizi, mentre le spese sono sempre tutte vere. Dopo questo mercato i dati peggioreranno ancora. Il presidente Figc Gravina vorrebbe intervenire ma è dura, l' inchiesta del 2018 su Cesena e Chievo Verona conclusa quasi in nulla: non esiste un criterio per stabilire il valore oggettivo di un calciatore (e quindi sanzionare i responsabili). Così il "baraccone" va avanti finché non finisce la liquidità in cassa per pagare stipendi e scadenze: è abbastanza difficile che succeda in Serie A, dove c' è un miliardo l' anno di diritti tv, unica vera fonte di sostentamento del calcio italiano. Per mettere a posto i conti ci sarà sempre un' altra sessione di trasferimenti: in fondo a questo serve davvero il calciomercato.
IL CALCIO DI OGGI? FARE DEBITI PER RIPAGARE I DEBITI. Matteo Spaziante per “il Foglio” il 2 agosto 2019. Il calcio-bond va sempre più di moda. Dopo Milan, Inter e Juve, ora tocca alla Roma, il cui Cda nei giorni scorsi ha approvato l’emissione di un prestito obbligazionario del valore massimo di 275 milioni di euro, in un’operazione che punta a rifinanziare l’attuale debito della società capitolina. I giallorossi seguono così l’esempio di altre società, non solo italiane, che hanno scelto la strada del bond. L’obiettivo principale è quello della ristrutturazione del debito, in particolare quello verso Goldman Sachs (per cui saranno utilizzati 210 milioni), a tassi più vantaggiosi, mentre il resto sarà utilizzato per la gestione ordinaria del club senza ulteriori versamenti da parte di Pallotta e soci (che hanno speso oltre 250 milioni dal 2012 a oggi). In Italia il primo club a utilizzare questa strategia è stato il Milan, nell’ambito dell’operazione Yonghong Li-Elliott: i due bond da 128 milioni complessivi nel maggio 2017 erano stati interamente sottoscritti dal fondo di Paul Singer, poi diventato proprietario dei rossoneri nell’estate 2018. Poi è toccato all’Inter, che nel dicembre 2017 ha lanciato un bond a 300 milioni con l’obiettivo, esattamente come la Roma, di ripagare un precedente prestito di Goldman Sachs e avere quindi liquidità senza dover ulteriormente gravare sulle casse della proprietà. Più orientata invece alla sola ristrutturazione del debito l’emissione del bond della Juventus da 175 milioni lo scorso febbraio: “L’obiettivo è quello di dotare la società di nuove risorse finanziare, ottimizzando la struttura e la scadenza del debito a un costo conveniente visto il momento del mercato”, aveva spiegato il Cfo bianconero Marco Re. In totale quindi quasi 900 milioni (878 per la precisione) in bond per quattro delle principali società italiane negli ultimi quattro anni, sulla scia di quanto fatto da club esteri come il Manchester United (che ne aveva emesso uno da 500 milioni nel 2010). Un nuovo debito per rifinanziare un precedente debito: una strada da seguire sempre con particolare attenzione.
Calcio e business: ecco le plusvalenze delle squadre di Serie A. E' diventato il salva-bilanci: 731 milioni nel 2018, il doppio rispetto a due anni fa. E a usarle sono soprattutto le big, scrive Giovanni Capuano il 22 marzo 2019 su Panorama. Da ossigeno dei poveri a leva per sanare i bilanci di tanti, soprattutto delle big. Non più un affare di provincia, ma uno strumento utilizzato con sempre maggiore continuità; questo sono diventate le plusvalenze nel calcio italiano e questo raccontano i numeri aggregati dei bilanci della stagione scorsa. Ci sono alcune avvertenze prima di maneggiare l'analisi condotta sui conti delle squadre partecipanti all'ultimo campionato di Serie A. La prima è che il sistema delle plusvalenze è assolutamente legale e quando si è avuto il sentore di comportamenti illeciti sono intervenute magistratura e giustizia sportiva. La seconda è che per alcuni club i numeri sono riferiti a bilanci chiusi al 31 dicembre 2017 e, dunque, quando saranno noti quelli del 2018 potranno esserci alcuni scostamenti. Il dato aggregato, pubblicato dalla Gazzetta dello Sport nella tradizionale inchiesta sullo stato di salute del calcio italiano, dice che nella passata stagione le plusvalenze scritte a bilancio hanno toccato quota 731 milioni di euro. Una fetta non secondaria del totale dei ricavi della Serie A, saliti a 3,111 miliardi di euro comprese le plusvalenze (poco meno di 2,4 senza conteggiarle).
Plusvalenze raddoppiate dal 2016 al 2018. L'esplosione di questa voce dei conti economici delle società italiane è evidente ed è fotografata alla perfezione dall'analisi che Panorama ha fatto sull'andamento delle ultime stagioni. Il fenomeno è rimasto sotto controllo fino al 2015 e ha cominciato a galoppare negli ultimi 24 mesi. Si è passati nell'arco di due stagioni da 376 a 731 milioni di euro (+94%) e il grande balzo è avvenuto nell'estate della cessione di Pogba al Manchester United, aprendo l'era delle maxi plusvalenze e tracciando una strada che sino a quel momento era stata percorsa soprattutto da chi aveva necessità di limare i conti per rispettare il Fair Play finanziario oppure ne aveva fatto strumento per incassare e reinvestire sperando di mantenere vivo il circolo virtuoso. Di fatto, le plusvalenze rappresentano oggi quasi un quarto del totale dei ricavi dei club italiani: 23,5%. Due anni fa erano attestati al 15,5%. Una progressione che preoccupa perché svela la difficoltà per tanti a incidere sulle voci strutturali del fatturato, dallo stadio agli incassi dell'area commerciale. E il diritti tv non possono coprire tutto. Ma così facendo si espongono le società al doppio rischio di una scarsa stabilità nella progressione e della difficoltà a costruire cicli tecnicamente vincenti. Le piccole, invece, stanno progressivamente rinunciando al loro ruolo di vivaio del calcio italiano. E' una conseguenza anche del sistema dei prestiti che consente alle big di intercettare per tempo un potenziale campione, prenderlo e poi farci plusvalenza se non riesce a sfruttarne le qualità in prima squadra.
La classifica delle plusvalenze della Serie A. L'altro dato incontrovertibile è che le plusvalenze sono sempre più uno strumento utilizzato dalle big e non più un affare di provincia. Prendendo la classifica della stagione 2017-2018 emerge che le prime (Juventus, Napoli e Roma) ne hanno accumulate per 178 milioni con una media di quasi 60 a testa. Alle spalle del podio e in zona Europa la media scende a 48 milioni con Inter, Lazio, Milan e Atalanta che ne hanno messe insieme per un totale di 193. Detto che le retrocesse si sono fermate a 9 milioni complessivi (il Crotone è addirittura andato in negativo) con una media di 3, il gruppone di centroclassifica si è attestato a 35. Non è una novità, ma una tendenza consolidata dal 2016. Nella stagione precedente, infatti, le Big Three della Serie A (curiosamente sempre Juventus, Roma e Napoli) avevano fatto registrare una media di 113 milioni (340 complessivi), ovvero quasi il triplo rispetto alla media complessiva per club del campionato.
Ecco le plusvalenze club per club:
Juventus 93,9 milioni di euro
Fiorentina 87,2
Torino 71,2
Lazio 63,7
Roma 53,9
Inter 49,1
Atalanta 45,5
Sampdoria 36,7
Milan 34,7
Napoli 30,2
Genoa 27,5
Bologna 26,1
Chievo 24
Sassuolo 17
Cagliari 14,2
Udinese 6,8
Verona 6
Benvento 3,3
Spal 0,3
Crotone -0,2
Ultima annotazione: se pensate che nel 2018 le cose siano cambiate, vi sbagliate. La Juventus, solo per prendere ad esempio il club più ricco e che ha fatto i numeri più alti nelle ultime due stagioni, ha contabilizzato plusvalenze per 35,6 milioni di euro solo a luglio 2018 e ne ha aggiunte per altri 41 tra Sturaro, Audero e Cerri. Quota cento non è lontana e le altre si stanno muovendo sulla stessa strada.
· Prestiti e panchine: così il calcio italiano brucia i suoi giovani talenti.
Prestiti e panchine: così il calcio italiano brucia i suoi giovani talenti. Dopo il settore giovanile solo 6 giocatori su 100 subito in Serie A o B. Le seconde squadre da salvare e il paragone con l'estero, scrive Giovanni Capuano il 20 marzo 2019 su Panorama. Nicolò Zaniolo ce l'ha fatta e come lui altri nove. Non di più. Dieci su 443 che significa due su cento. Che diventano sei su cento se si allarga il panorama alla Serie B. Sono i calciatori nati nel 1999 che hanno concluso l'anno scorso la loro esperienza nei settori giovanili dei club italiani e che sono riusciti a mettere piede nel calcio dei grandi. Una minoranza. Troppo pochi per giustificare lo sforzo fatto per crescerli. Prestiti, panchine e carriere che si perdono nel tortuoso giro della provincia: così il calcio italiano brucia (o rischia di bruciare) la sua meglio gioventù. Numeri e storie impietose che emergono da un report molto dettagliato portato sul tavolo di un incontro organizzato da Lega Pro e Juventus all'Allianz Stadium, presenti i presidenti Gravina, Agnelli e Ghirelli, per ragionare di seconde squadre un anno dopo la loro introduzione e col rischio che il progetto si concluda per mancanza di adesioni. "Partito monco" l'ha definito il presidente della Figc Gabriele Gravina: "Un atto di forza senza alcuna visione, un errore, un lancio cosmetico all'interno di un percorso politico di vanto per qualcuno". Fatto in fretta e furia con i club messi spalle al muro e ritiratisi in buon ordine con l'unica eccezione dei bianconeri che stanno faticando con la loro Juventus Under 23 nei campi del girone A della Serie C. Senza grandi risultati, ma con la forza di una scelta che ora costringe tutti a decidere da che parte stare.
Il salto nel buio del professionismo. Eccoli i numeri che fotografano lo stato d'arte del calcio italiano. Prendendo come riferimento i giovani calciatori classe 1999, quella che nel giugno scorso ha formalmente concluso il suo percorso di crescita nel settore giovanile, solo 10 su 443 hanno trovato posto in Serie A e 18 in Serie B. Di questi 28 (che rappresentano il 6,3% del totale) solo 11 hanno accumulato almeno 10 presenze (2%). Gli altri sono finiti nel giro della Serie C (102 su 443 ovvero il 23%) o all'estero (20 che equivale al 4,5%) e nella maggioranza si sono persi tra leghe minori, fuori quota e addio al sogno di diventare professionisti. Un destino amaro condiviso da due su tre. Dopo anni di sacrifici e progetti. Non si tratta solo dell'effetto di una selezione fisiologica, ma del prodotto di un sistema che non ha previsto fin qui la fase di cuscinetto tra il calcio dei piccoli e quello dei grandi. L'esito finale è che la Serie A continua ad essere nelle retrovie per minutaggio concesso agli under 21 (9,7% contro il 14 di Francia e Germania, per esempio), l'età media rimane alta (26,9 anni in questa stagione) e ogni finestra di mercato si trasforma in una corsa contro il tempo per piazzare prestiti e stringere accordi che consentano a chi ha investito nella formazione di un talento promettente di non perderne di vista l'ultima fase del percorso di crescita.
Il boom dei prestiti (che la Fifa bloccherà). In mancanza dello sbocco naturale in uscita dai settori giovanili, ecco l'esplosione del fenomeno dei prestiti. In Serie A in questa stagione ce ne sono 440, numero record rispetto al resto d'Europa. I club di Premier League ne hanno dati 129 (tre volte e mezzo in meno di quelli italiani), nella Liga sono 95 e scendono a 72 in Ligue1, 48 in Bundesliga e solo 29 in Eredivisie, il campionato olandese che è uno dei modelli di riferimento su come si possano crescere e valorizzare giovani talenti. La Fifa sta per normare il mercato dei prestiti riducendolo drasticamente. La Figc progetta di cancellare la "recompra". Tutti strumenti utilizzati dalle società per fare plusvalenze e controllare il mercato degli emergenti. Servono i prestiti alla carriera di un giovane? Di sicuro svezzano i ragazzi, ma se si prende come esempio la Juventus emerge che nella stagione attuale (dati fino a febbraio) meno della metà ha giocato più del 50% dei minuti disponibili e l'anno scorso il dato scendeva al 34%. Significa che una squadra che accoglie un prestito non sempre è stimolata a farlo giocare con continuità perchè in fondo sta dando valore a un patrimonio di un altro club. In Serie C un terzo dei giocatori (439 su 1.528) è in prestito e di questi 340 sono Under 21. L'età da seconda squadra.
Servono le seconde squadre? Un anno fa il bando che apriva alle seconde squadre, dopo dibattiti eterni, è arrivato quasi fuori tempo massimo. La Juventus ha aderito, le altre si sono fatte da parte. E oggi? Basterebbe guardare all'estero per capire che gli errori nel lancio non devono cancellare il programma: Spagna, Francia, Germania e Olanda (solo per restare alle leghe top) le hanno e funzionano a meraviglia. In Inghilterra esiste un campionato Under 23. In Belgio un torneo per le riserve. Solo in Bosnia, Islanda, Kosovo, Lettonia, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Serbia e Slovenia non risulta nulla. Il famoso cuscinetto, insomma, serve. Eccome. Ai club per non disperdere loro patrimoni e al sistema calcio dei paesi che riesce ad accelerare il lancio dei giovani verso il sistema professionistico che conta. Un esempio? La Spagna mondiale del 2010 aveva 19 giocatori su 23 usciti dall'esperienza delle seconde squadre, diventati 20 all'Europeo del 2012. La Germania iridata nel 2014 ben 13 su 23 e la Francia campione in Russia la metà. In Italia l'Under 20 - la nazionale che deve qualificarsi per le Olimpiadi - rimane un ibrido non sempre vincente e si perde via. Ultima immagine per spiegare la differenza: la storia professionale di Morata e Spinazzola. Il primo uscito dal vivaio del Real Madrid non ancora maggiorenne è arrivato stabilmente tra i grandi dopo 4 stagioni tra Castilla (la squadra B) e Real Madrid accumulando 136 presenze di cui 52 con i blancos e nel 2013, all'età di 21 anni, ha vinto l'Europeo di categoria con già oltre cento partite da pro in carriera. Spinazzola ci ha messo 6 anni tra prestiti e giri in provincia (98 presenze in tutto) prima di tornare alla casa madre che aveva lasciato uscendo dal settore giovanile a 19 anni e 4 mesi, quasi due più tardi rispetto allo spagnolo. E può dirsi fortunato, oltre che bravo, perché ce l'ha fatta. Ma il suo esordio in prima squadra nel club di formazione è arrivato che di anni ne aveva 25 e 10 mesi contro i 18 di Morata.
· Calcio, quanto ci costa la sicurezza negli stadi.
Calcio, quanto ci costa la sicurezza negli stadi. Dati ufficiali non ce ne sono ma abbiamo provato a fare il calcolo di quanto ci costa la sicurezza dentro e fuori gli stadi, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 21 marzo 2019 su Panorama. "Maledetti sbirri di merda, pagherete tutto. Solo odio contro di voi, venite a prendermi, paura zero". Il tifoso bergamasco affida il suo messaggio al web dopo gli scontri tra polizia e ultras della Atalanta, avvenuti a Firenze mercoledì 27 febbraio. A causa sua, e di persone come lui, i contribuenti italiani pagano ogni anno oltre 20 milioni di euro. Tanto è stato speso per la sicurezza nello scorso campionato di calcio e circa altrettanto si spenderà per quello in corso. Sono stime in ampio difetto, calcolate da Panorama partendo dagli scarsi dati ufficiali disponibili. Secondo l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive del Dipartimento della pubblica sicurezza, nella stagione calcistica 2017/2018 per garantire l’ordine pubblico durante lo svolgimento delle gare di serie A, serie B e Lega pro sono stati impiegati 85.388 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri. E l’Osservatorio non computa le partite di coppa, per le quali occorrono altre migliaia di agenti. Un esercito. Che se fosse impegnato in compiti istituzionali, invece che nel controllo delle tifoserie, basterebbe probabilmente a spazzare via ogni organizzazione criminale. Le cifre. Il numero medio di agenti per una partita di serie A è di 211 unità, ma spesso sono molti di più. Leggendo l’ordine di servizio della questura di Firenze proprio per la partita di Coppa Italia Fiorentina-Atalanta del 27 febbraio scorso, quando cinque agenti sono finiti in ospedale e un funzionario di polizia ha riportato un naso fratturato e sei punti di sutura a un labbro, si scopre che gli uomini «comandati» erano 348. Per fare un paragone, nello stesso giorno, poliziotti e carabinieri impiegati nel normale servizio di volante, pattugliamento e controlli antiterrorismo al celebre piazzale degli Uffizi o al Duomo e per il Progetto sicurezza, erano appena 40, distribuiti sulle 24 ore; meno di un settimo di quelli che sorvegliavano i tifosi, con buona pace dei cittadini che chiedono più controlli contro furti, spaccio e rapine. Chi lavora la domenica, inoltre, deve recuperare il riposo e quindi sarà assente per un giorno dal normale servizio. Ma non basta. Un esponente delle forze dell’ordine impegnato in questo tipo di eventi sportivi - per legge deve avere almeno dieci anni di anzianità - costa allo Stato, per la giornata, 90 euro lordi di stipendio. Alla fine del campionato, coppe escluse, quei circa 85 mila uomini di cui si diceva, soltanto come voce «stadio» nello stipendio, costano all’erario 7.684.920 euro. Ci sono da aggiungere molte altre indennità e spese. Quella di «ordine pubblico»: di media 15 euro al giorno, per un totale di 1.280.820; lo straordinario, pagato circa 13 euro: per tre ore di media ciascuno fa 3.073.968. C’è quindi il vitto consumato prima o dopo il servizio, che va dai 7 euro di buono pasto ai cosiddetti generi di conforto: un totale di 725.798 solo per pastasciutta e crostatine. Se la partita si gioca di domenica va anche calcolato il «festivo», pagato 12 euro ad agente. Per i poliziotti dei reparti mobili poi, è previsto un rimborso forfettario di 610 euro annui. E se si stima che, approssimativamente, l’80 per cento del loro impiego è destinato allo stadio, ci vogliono altri 2.440.000 euro solo per le partite di pallone. Impossibile quantificare il costo degli alberghi dove il personale deve spesso dormire. Per gli incontri di sabato 2 e domenica 3 marzo il reparto mobile Padova, per esempio, ha inviato 50 agenti prima a Milano e poi a Bergamo. Questi hanno dormito in hotel «tre stelle» al prezzo di circa 50 euro a camera tripla. E i veicoli? Ogni partita di calcio mette in moto un carosello di auto, camionette, furgoni. Mezzi speciali, dotati di griglie metalliche a protezione dei finestrini e del parabrezza, pneumatici antiscoppio e antiforatura, e poi telecamera posteriore, sirene, lampeggianti, coprifari… Consip, la Centrale di acquisti per la pubblica amministrazione, ha appena concluso un bando di gara milionario per il Dipartimento della pubblica sicurezza per l’acquisto di questi veicoli. La stima inserita nel bando è di 182 automezzi, ognuno al prezzo, scontato, di 100 mila euro. E il carburante? Non esistono valutazioni al riguardo. Si possono poi quantificare altre spese fino ai 20 milioni indicati: non lo facciamo qui per ragioni di spazio. Nonostante questo spiegamento di forze e capitali, non di rado le partite sono teatro di scontri con poliziotti e carabinieri feriti o omicidi, come quello di Daniele Belardinelli, ultras interista ucciso durante un agguato - che il tribunale di Milano ha definito «preparato militarmente» - contro i rivali del Napoli che stavano affluendo a San Siro, il 26 dicembre scorso. Fin qui quello che costano le partite di calcio al Viminale e a noi cittadini. Vediamo quanto le stesse partite fruttano ai proprietari delle società calcistiche. Solo per la serie A, nella stagione calcistica 2016-2017, i ricavi operativi da ingresso allo stadio ammontano a 227 milioni e 900 mila euro, di cui 122 milioni per gli abbonamenti, che sono quelli che acquistano soprattutto i tifosi delle curve, ultras compresi. Solo una piccola fetta - pari all’8 per cento - degli incassi totali, che arrivano per lo più dai ricavi per i diritti televisivi (38 per cento), dalle plusvalenze dei giocatori (22 per cento) e dagli sponsor (16 per cento). Lo stadio quindi non è la prima fonte di introiti per i club, da sempre recalcitranti all’ipotesi di partecipare ai costi per l’ordine pubblico, ritenendosi assolti da ogni obbligo per aver già previsto gli steward agli ingressi e sugli spalti e per il fatto di versare tasse milionarie. Eppure ciò che avviene fuori non sembra riguardare le società, nonostante le pattuglie impiegate a scortare i tifosi da una città all’altra, le volanti lungo i percorsi di accesso alla partita, la Polfer che vigila su stazioni e convogli, fino ai reparti mobili e ai battaglioni. Per non parlare delle Digos, che in ogni citta hanno una sezione dedicata proprio al tifo calcistico. In Inghilterra, invece, le società contribuiscono in percentuale (sempre troppo bassa secondo le forze dell’ordine locali) ai costi per la sicurezza pubblica anche dentro e fuori dallo stadio. I nostri sindacati di polizia protestano: «Poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani vengono distolti dai compiti istituzionali di prevenzione dei reati per i quali gli italiani pagano le tasse» afferma Mauro Marruganti, segretario generale toscano di Fsp, già Ugl Polizia di Stato. «La soluzione giusta è quella adottata in Inghilterra, dove le milionarie società calcistiche partecipano alle spese. Non si capisce perché chi non è un tifoso o non assiste alle partite debba pagare le tasse per l’ordine pubblico e subire una minore tutela della propria sicurezza, poiché tante risorse sono destinate agli stadi». Marruganti rileva anche che, a fronte di tali spese, agli agenti sia economicamente riconosciuto ben poco, pur rischiando la vita. Gli fa eco Riccardo Ficozzi, segretario generale Siulp Firenze: «Le cifre spese dimostrano che l’ordine pubblico per il calcio sia una priorità per lo Stato. Allora, che vengano almeno introdotte regole più ferree per limitare i rischi per gli agenti e la cittadinanza, e regole di ingaggio più chiare. Oggi, infatti, un poliziotto “comandato di ordine pubblico” rischia prima le botte e poi un processo». Finora la politica non è riuscita a dare risposta a quello che resta un problema esclusivo tra il ministero degli Interni e i club. Eppure sono tutti i contribuenti italiani a farsi carico dei costi di una sicurezza che riguarda comunque un numero limitato di tifosi, nel silenzio delle società di calcio. Sarà sempre così, è lecito chiedersi?
· Ladri di Sport e pure di Calcio.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della sera” il 19 ottobre 2019. La notizia rimbalza dall'Inghilterra con inevitabile clamore. Si parla di calcio, di grandi club e di corruzione. Il protagonista è lui: Giuseppe «Pino» Pagliara, agente, manager e faccendiere sessantaquattrenne già coinvolto in vicende poco chiare che hanno agitato il mondo del pallone. Succede che, davanti ai giudici di Londra dove è in corso un processo per bustarelle che lo vede imputato, spunti una registrazione nella quale Pagliara tira in ballo sir Alex Ferguson, totem del football inglese con i suoi 27 anni ininterrotti alla guida del Manchester United e un bottino di tutto rispetto: due Champions, 13 Premier e coppe varie. Secondo il Daily Telegraph , l'agente italiano ha raccontato di una combine fra Manchester e Juventus per una partita di Champions dei tempi in cui lui collaborava con Luciano Moggi. Pagliara avrebbe suggellato l'accordo ringraziando Ferguson a suo modo, con un Rolex d'oro da 35 mila euro. Naturalmente, la perplessità è quella: possibile che il grande allenatore, con un ingaggio da 9,4 milioni di euro l'anno (dato 2012), quarto tecnico più pagato di tutti i tempi, si faccia corrompere per un Rolex? Cosa c' è dietro a questa storia? Tutto nasce da un'inchiesta del Telegraph di tre anni fa che, tra l'altro, portò alle dimissioni di Sam Allardyce da commissario tecnico della nazionale inglese. Spacciandosi per investitori asiatici, i reporter registrarono Pagliara a sua insaputa. E lui, disinvolto e senza limiti, si lasciò un po' andare puntando il dito su Ferguson e su altri nomi famosi del calcio d'Oltremanica, da Steve McClaren a Nwankwo Kanu, Harry Redknapp... «Se c'è una cosa su cui posso sempre fare affidamento è l'avidità degli allenatori - diceva in un incontro -. Pensavo che gli italiani fossero corrotti, ma qui in Inghilterra va ancora peggio. Si nasconde tutto sotto il tavolo... Non sai quanti mi chiamano dopo il trasferimento di un loro giocatore e mi chiedono: "Pino, c'è un caffè per me?". Ho aperto tanti di quei conti correnti in Svizzera...». Verità? Millanterie? Certo è che Pagliara non è nuovo a scandali sportivi. A Genova, per esempio, lo ricordano come l'uomo della valigetta. Era il 2005 e lui girava l' Italia trattando calciatori per conto del Venezia del dg Franco Dal Cin , allora in serie B. Quel giorno fu fermato in macchina dai carabinieri di Monza fuori degli uffici della Giochi Preziosi del patron del Genoa. Gli trovarono 250 mila euro in contanti infilati in un sacchetto. Si parlò anche in quel caso di partita truccata, Genoa-Venezia, match decisivo per il ritorno nella massima serie della squadra della Lanterna, con quella lagunare già matematicamente retrocessa. Finì 3 a 2 per i rossoblù ma la festa durò poco. Ci furono condanne e squalifiche e il Genoa venne costretto dal giudice sportivo alla retrocessione in serie C. Per la Procura ligure i 250 mila euro avuti da Enrico Preziosi erano una parte del prezzo della combine, per lui era invece la prima tranche dell' acquisto di una calciatore del Venezia, Ruben Maldonado. «L'illecito, in tutta questa storia, c' è davvero - tuonò lui respingendo l' accusa e gettando benzina sulla vicenda -. È stato quello commesso dal Torino e dal Venezia. E da otto giocatori, quattro per squadra, portieri compresi...». Faceva nomi e cognomi, diceva che gli estremi difensori erano stato certamente pagati: «Ricordo che poco prima dell' incontro i veneziani dicevano "basta tirare in porta"». L'avvocato che lo difendeva invita alla prudenza. Come dire, le sue parole vanno prese sempre con le pinze. Perché con Pagliara non si sa mai dove si fermano i fatti e dove inizino le interpretazioni. «Con il calcio ho comunque chiuso - concludeva con toni definitivi in un' intervista dell' epoca -. Questi cinque anni di squalifica mi costeranno il patentino di agente Fifa». Per Pagliara l' Italia era diventata un terreno minato. Meglio l'Inghilterra: «Lì ero un manager stimato. Ho curato i trasferimenti di Ravanelli, Maccarone, Juninho, Boksic, Branca, Kanu...». Tornò dunque da quelle parti e ripartì dal suo lavoro: trattare, tramare, ringraziare. Fino a che, un bel giorno, pensando forse di chiudere un affare con un investitore orientale, ha osato troppo. E ha toccato il mostro sacro, sir Alex, scatenando il finimondo nell' isola della Regina. Diventata, di colpo, ostile.
Juve in Champions: passaggio al girone truccato? Le Iene il 22 ottobre 2019. La Juve in Champions nel 1997 ha battuto 1 a 0 il Manchester United nella partita decisiva per il passaggio del girone. Ma questo risultato potrebbe essere truccato, stando alle dichiarazioni di Giuseppe Pagliara. Ferguson sarebbe stato comprato con un Rolex. Alice Martinelli ha indagato su questa storia. Giuseppe Pino Pagliara, forse questo nome non vi dice niente, ma si tratta di un collaboratore di Luciano Moggi alla Juventus. Dalle cronache italiane era sparito da un po’, ma personaggi come lui a volte ritornano. È riemerso non in Italia ma in Inghilterra, dove è a processo per una storia di bustarelle che mette in seria difficoltà la reputazione di una delle persone più amate, rispettate e onorate del calcio inglese: Sir Alex Ferguson. Ferguson è lo storico allenatore del Manchester United, a un certo punto della sua carriera si trova davanti alla Juve in Champions. Ferguson e Pagliara sono associati da una registrazione dell’italiano che dice: “Con 35mila euro ho comprato Ferguson”. Avrebbe truccato Juventus Manchester con un Rolex.
Facciamo un passo indietro. Pagliara in Italia ha fatto un sacco di pasticci. Nel 2005 mentre trattava l’acquisto di un calciatore del Venezia è stato sorpreso dai carabinieri fuori dagli uffici del patron del Genoa Preziosi con una valigetta con 250 mila euro in contanti. Per la procura servivano a truccare Genoa-Venezia per lui servivano a comprare un giocatore. Viene allontanato dal calcio italiano e vola in Inghilterra: l’ennesimo cervello in fuga. Un giorno finisce nelle registrazioni dei giornalisti del Telegraph che si sono finti rappresentanti di una società asiatica che voleva aggirare le regole sui trasferimenti dei giocatori da una squadra all’altra. Ecco alcune frasi registrate durante l’incontro.
“C’è solo una cosa su cui ho sempre potuto fare affidamento ed è l’avidità degli allenatori”.
“Pensavo che gli italiani fossero corrotti ma gli inglesi fanno anche peggio”.
“Ho aperto così tanti conti Svizzeri per manager che non mi crederesti mai”.
“I manager dei club di calcio vogliono le prostitute”.
Proprio durante questo generoso racconto del suo modo di vedere il calcio spunta fuori Ferguson e il Rolex regalo in cambio di un ritocchino al risultato di Juve-Manchester United.
Resta da capire a quale sfida tra questi due grandi club si riferisca. L’ipotesi più probabile è che si riferisca a quella del 10 dicembre del 1997. Manchester e Juve erano nello stesso girone. I diavoli rossi erano già classificati mentre la Juve era obbligata a vincere. Lo fa a 5 minuti dalla fine. Inzaghi la butta alle spalle di Schmeichel di testa. La Juve passa. Per queste dichiarazioni Pagliara è a processo. Alice Martinelli lo becca fuori dal tribunale inglese e gli chiede se è vera la storia di Ferguson. Lui nega: “Secondo te, se avevo 35 mila euro non me li tenevo?” e non dice altro. Per la cronaca. La Juve nella stagione 97/98 dopo aver passato il girone è arrivata in finale ad Amsterdam. Lì ha perso contro il Real Madrid 1 a 0.
LADRI DI CALCIO. Marco Mensurati e Fabio Tonacci per "la Repubblica" il 21 settembre 2019. Due report riservati - di cui Repubblica ha potuto prendere visione passano in queste ore da una scrivania all' altra della Lega di Serie A e dei broadcaster titolari dei diritti tv del calcio (Sky e Dazn). Ed entrambi raccontano la stessa realtà: la progressiva svalutazione del calcio italiano causata dalla diffusione inarrestabile del "pezzotto". Già, perché la maxi operazione antipirateria di martedì scorso, che ha neutralizzato una paytv parallela ed illegale da 5 milioni di abbonati, seppur spettacolare ha intaccato solamente una minima parte del business clandestino. I finanzieri e i poliziotti della Postale sono infatti riusciti a intervenire in maniera "profonda e incisiva" su quello che in gergo viene definito il "pezzotto fisico". Per capirci: l' apparecchio comprato dai tassisti di Napoli e attivato con un codice numerico. Rimane inalterato il mercato del "pezzotto liquido", cioè quella giungla di siti (Rojadirecta, un tempo, era il più famoso) e link che portano le partite, spesso gratis e in alta definizione, a casa degli utenti. «Fatto cento il settore dei "ladri di calcio", - spiega una fonte qualificata - trenta scroccano la partita col pezzotto fisico, gli altri la trovano sul web». I dati raccolti dagli investigatori privati della Friends Mts - un' agenzia che si occupa di controllo dei contenuti protetti a cui si è rivolta la Lega Calcio - sono inquietanti. Solamente nel corso della scorsa stagione, le 38 partite di Serie A sono state trafugate in 158 mila trasmissioni live, tra web (92.000 link), Facebook (60.000) e piattoforma Kodi (solo 6.000 per l' erede della console Xbox). La squadra più "pezzottata" è stata la Juventus. Secondo gli analisti, però, il dato è sottostimato rispetto alla portata reale del fenomeno, che non riguarda solamente le partite live ma anche gli highlights, cioè la sintesi delle azioni salienti. Un secondo report, anche questo riservato, dimostra che i pirati rubano anche 90° minuto : il dato più recente in mano a Luigi De Siervo (ad della Lega) è relativo agli highlights della prima giornata del campionato in corso e racconta di 10.402 link che, subito dopo i match, trasmettevano i gol. Di questi, 1.340 erano su YouTube e, prima di essere disattivati, avevano fatto in tempo a registrare più di due milioni e mezzo di visualizzazioni. Numeri che spaventano la Lega Calcio, soprattutto in queste settimane di preparazione del bando per la vendita dei diritti tv per il triennio (2021-2024). Il rischio è che, se non si riesce ad arginare il contrabbando, il valore della Serie A possa ulteriormente abbassarsi (e con esso anche il livello del calcio italiano) secondo un meccanismo ormai chiaro: a causa dell' emorragia di abbonati provocata dalla pirateria, i broadcaster - che oggi sostengono l' industria del pallone - saranno sempre meno disposti a investire. Non è un caso che tanto dai club quanto dalle tv si stanno sollevando richieste di misure adeguate per arginare il fenomeno. «Oggi in Italia - spiega un esperto di antipirateria - stiamo navigando controcorrente, cerchiamo di fermare i pirati nell' unico campo in cui sono imprendibili: la tecnologia. Cerchiamo di prenderli uno per uno, sito per sito. Invece bisogna intervenire su due piani diversi: quello culturale, colpendo gli utenti che commettono un reato guardando una partita su Rojadirecta o attraverso il pezzotto comprato dal tassista, e quello degli interessi economici, dunque costringendo le aziende di telecomunicazioni - che fatturano allo stesso modo il traffico dati generato dai pirati e quello generato da Sky - a collaborare ». Il punto delle cosiddette telco è cruciale: con il monitoraggio dei flussi del traffico web, sarebbe facile per loro individuare ogni anomalia e bloccare le trasmissioni illegali. Ma non lo fanno. Né intervengono, salvo rare eccezioni, tempestivamente (cioè durante il corso dell' evento live) a fronte delle segnalazioni arrivate dai broadcaster. Tra le misure invocate c' è quella della "super-injunction" sul modello inglese: un ordine del giudice che costringa le telco a chiudere i segnali clandestini in tempo reale.
· Platini. Quei sospetti di corruzione sull’assegnazione al Qatar dei mondiali.
Platini, il discorso del re: «Voglio un’altra avventura, tornerò nel calcio». Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. Tornerà, l’ha promesso. E lo farà presto. «Non posso chiudere con la parola “sospeso” dalla Fifa. La vita non è finita, a 64 anni ho la possibilità di un’ultima avventura, ma non posso sbagliare, devo pensarci bene». Michel Platini non si arrende, va in contropiede e prepara il rientro nel calcio, dopo aver scontato la squalifica di quattro anni, inflitta per un pagamento non dichiarato di 1,8 milioni di euro ricevuto dall’ex presidente della Fifa, Sepp Blatter. Platini trent’anni e passa di calcio e nel calcio li racconta nel libro «Il re a nudo», curato da Tony Damascelli e edito da Baldini+Castoldi. Nella sede della casa editrice e della Nave di Teseo, introdotto da Elisabetta Sgarbi, l’ex bianconero ripercorre un passato ricco di successi e un futuro mai compiuto, stroncato dalla squalifica quando stava per diventare numero uno della Fifa. «Sono stato vittima di un complotto e di un processo mediatico violento. Ma non sono incazzato, voglio giustizia e l’avrò». Parecchi temono il ritorno di Platini, «Le Roi» ha ancora molti sostenitori «in fondo famiglia e amici sono rimasti, ho perso solo i cortigiani». Esclude un rientro alla Juve, «perché non si vivono due storie d’amore con la stessa persona», ma si tiene vago su un incarico all’Eca, «una possibilità». Di certo è rimasto in freddi rapporti con l’ex segretario generale dell’Uefa Gianni Infantino, miracolato dall’esclusione del francese alle elezioni Fifa del 2015 e diventato presidente al suo posto. «Mi aspettavo mi togliesse la squalifica dopo che ero stato assolto dalla giustizia ordinaria, non l’ha fatto», è la stilettata di Platini, deciso a ritagliarsi un nuovo ruolo: «Voglio combattere per lasciare alle nuove generazioni una Fifa non mafiosa». Nella sua terza vita da dirigente e presidente Uefa, seguita a quelle da campione e (brevemente) da allenatore, Platini ha lasciato un segno, con il fair play finanziario, da molti contestato e aggirato, «ma se non ci fosse stato il calcio sarebbe morto, ucciso dai debiti». Il cuore del problema, per Platini e il calcio, rimangono i soldi. Il francese offre una visione a tratti romantica del pallone, «appartiene alla gente, ai bambini, non alla Fifa. Oggi è ancora più bello. Certo, poi dieci club saranno sempre più ricchi e questo non mi piace. È una lotta eterna: prima con il G14, oggi con altre idee. Tutti devono poter vedere il calcio». Si arriva qui al punto centrale: l’assegnazione del Mondiale 2022 al Qatar. Per come è maturato quel voto, per le ombre che si trascina dietro, le inchieste e le vendette scaturite, il coinvolgimento di Fbi, Usa, servizi segreti inglesi e politica francese, resta il punto di svolta per un’intera generazione di dirigenti, tra cui Platini e l’ex amico-nemico Sepp Blatter, oggi un uomo in fuorigioco. «È stato un grande presidente, ma non è uscito alla grande. Anche lui votò per il Qatar. Vedrete sarà un Mondiale bellissimo. Gli Usa lo ebbero nel 1994 e anche da loro il calcio non esisteva», sottolinea Platini. Sarà un Mondiale tecnologico, sempre più caratterizzato dalla Var. Se il francese fosse stato presidente della Fifa non l’avrebbe mai introdotta: «Non mi piace, anzi è proprio una sciocchezza, ma non si tornerà mai indietro». Lo disturba però di più il razzismo negli stadi. «Nel 2020 non è possibile insultare per il colore della pelle. Chiudere le curve è rischioso: è come con i bambini, più gli vieti lo zucchero più vanno in cucina a cercarlo».Il calcio però ha ingredienti di prima scelta, i grandi campioni: zucchero indispensabile per appagare il palato dei tifosi. «Messi e Ronaldo hanno segnato un’epoca e non sono finiti. Neymar mi piace, Mbappé sarà la stella dei prossimi dieci anni». La Juve resta sempre nel cuore di Platini che assolve Ronaldo per aver contestato la sostituzione. «Ha avuto una reazione umana, capitava anche quando il Trap faceva uscire me, Boniek o Rossi e entrava Prandelli». Mette però in guardia i bianconeri. «In campionato vince il migliore, invece in coppa cinque minuti sbagliati ti cambiano la vita. La Juve è forte se fisicamente va a mille, se corre meno iniziano i problemi». Platini spera invece che i suoi siano davvero finiti.
L'assurda storia della villa di Lele Mora, finita all'ex segretario della Fifa attraverso il Qatar. I documenti esclusivi analizzati da L’Espresso con le testate del consorzio EIC, rivelano nuovi elementi legati all'assegnazione dei Mondiali di Calcio e dei diritti televisivi. Che riguardano anche la celebre dimora in Sardegna appartenuta al re degli agenti. Francesca Sironi il 18 ottobre 2019 su L'Espresso. Le due vite di una villa a Porto Cervo. Che dopo il tramonto di Lele Mora e dei suoi party è diventata la dimora estiva di uno degli ex uomini più potenti della Fifa, passando per il Qatar. L'Espresso, insieme al consorzio investigativo EIC, può rivelare nuovi elementi su un'operazione immobiliare fra l'ex segretario generale della Federazione e il proprietario del Paris Saint-Germain, al centro di un'inchiesta della procura federale svizzera. Un servizio esclusivo che trovate in edicola da domenica 20 ottobre e già online su Espresso+ . Gli atleti soccombenti per il caldo durante la maratona notturna, a Doha. I mondiali di calcio del 2022. I diritti televisivi per quelle partite-evento. E una lussuosa villa a Porto Cervo, 13 camere con piscina sopra una delle più invidiate insenature della Costa Smeralda. Un filo lega questi luoghi. Passando dall'ex segretario generale della Fifa Jérôme Valcke a Nasser al-Khelaïfi, proprietario del Paris Saint-Germain e della catena televisiva beIN sports, uno degli uomini più influenti dell'emirato. Una serie di documenti esclusivi analizzati da L’Espresso con Mediapart, Der Spiegel, Tamedia, e le altre testate del consorzio investigativo europeo EIC, può rivelare ora nuovi elementi su una vicenda chiave per comprendere interessi e rapporti di potere nel calcio globale. «La casa di Porto Cervo mi è stata confermata questa sera. Sono proprietario a Porto Cervo!!» scrive a un conoscente l'ex numero due della Federazione, Valcke, ai primi di settembre del 2013. È pronto a diventare il proprietario di una magione chiamata dai vicini “Villa Bianca”. Forse per via del colore preferito da Lela Mora: che aveva voluto che gli interni, come i suoi vestiti, fossero tutti immacolati. La villa in questione, ironia dei ritorni, è infatti la stessa dove Lele Mora trascorreva le sue estati fra tronisti e veline. L’ex re dei festini berlusconiani ne è stato anfitrione fino al 2008. Nel pieno del suo fallimento la proprietà venne comprata da un’immobiliare di Brescia a lui vicina. Nell'estate del 2013 Valcke è pronto a diventare il nuovo padrone di casa. In quei giorni dà istruzioni per l'acquisto a un istituto finanziario. Non servono prestiti, spiega, grazie «a un’entrata straordinaria di fondi che copre il costo dell’operazione, ovvero cinque milioni di euro». Da chi arriva, quel sostegno straordinario? Documenti in possesso della procura federale svizzera mostrano come inizialmente fosse previsto il supporto arrivasse da Nasser al-Khelaïfi, il facoltoso businessman che sta trattando con la Fifa i diritti tv dei mondiali. A novembre l'operazione verrà interrotta. Il giorno prima di capodanno verrà acquistata per 5 milioni di euro da una società del Qatar. Valcke l'affitterà attraverso una società offshore pochi mesi dopo, fino al 2015, quando verrà sospeso dalla carica. Nel 2017 l'intervento della procura federale svizzera e della Guardia di Finanza italiana porterà al sequestro della Villa Bianca. Valcke «contesta formalmente d’aver ricevuto un qualsiasi vantaggio. Il procedimento giudiziario è ancora in corso». La villa è ancora chiusa: i party esclusivi in Sardegna restano un ricordo. Tutti i dettagli sul numero del settimanale in edicola da 20 ottobre e già online su Espresso+.
LA REPLICA. «Il nostro cliente contesta fermamente d'aver commesso la minima infrazione», ha risposto il businessman qatariota alle domande di EIC, dopo la chiusura dell'articolo pubblicato sul settimanale: «E denuncia quella che ha i contorni di una strumentalizzazione mediatica continua. Nel merito, si limiterà a ripetere che non è ne è mai stato proprietario della villa».
L'ex segretario Fifa Jérôme Valcke, la villa di Lele Mora e i diritti tv del Mondiale al Qatar. Un accordo tra il manager e il potente tycoon di Doha e proprietario del Paris Saint-Germain, Nasser Al-Khelaïfi con al centro l'ex residenza in Costa Smeralda dell'agente televisivo. Nuove accuse sul torneo del 2022, già finito nelle cronache per i casi di corruzione. Francesca Sironi il 18 ottobre 2019 su L'Espresso. La maratoneta Sara Dossena, soccombendo all’afa che incollava l’aria (umidità al 73 per cento, di notte), si è dovuta ritirare. «Sono svenuta, sono stata costretta a fermarmi», raccontava a fine gara: «Faceva troppo caldo, il mio fisico è esploso». I mondiali di atletica da poco terminati in Qatar saranno ricordati non per i record agonistici ma per le crisi degli sportivi frastornati dalle temperature e per l’energia divorata dai climatizzatori, oltre che per gli spalti vuoti. Ma le critiche, così come l’embargo della vicina Arabia Saudita, non sembrano riuscire a fermare l’emirato fondato sulla più alta concentrazione di ricchezza al mondo. Trecento miliardi di Pil lanciati di corsa verso il prossimo mega appuntamento sportivo atteso a Doha: i mondiali di calcio del novembre-dicembre 2022. Sì, d’inverno, perché in estate (quando di solito si disputa il torneo) il termometro arriva a 50 gradi. Tifosi e calciatori saranno accolti da stadi futuristici, refrigerati a ghiaccio in mezzo al deserto, in strutture già a buon punto grazie a masse di lavoratori senza nome (quasi tutti migranti nepalesi in condizioni di sostanziale schiavitù, di cui più di 1.400 morti durante la costruzione degli stadi e delle strade, secondo le autorità di Kathmandu). I dubbi sociali, ambientali, politici (il governo di Doha appoggia tra l’altro la guerra della Turchia contro i curdi), non riguardano però solo il Qatar. Ma l’intero sistema globale del calcio. Diverse indagini stanno cercando infatti di fare luce su come interessi e regalie sembrano aver ingolfato la sede della Fifa al momento di stabilire sedi e diritti tv dei prossimi mondiali. Fra questi, c’è anche il tabellone assegnato a Doha. Una serie di documenti esclusivi analizzati da L’Espresso con Mediapart, Der Spiegel, Tamedia, e le altre testate del consorzio investigativo europeo EIC, rivela ora nuovi elementi su una vicenda chiave di quella stagione: l’attivismo dell’ex segretario generale della Federazione, Jérôme Valcke, nei confronti di uno degli uomini più influenti dell’emirato, Nasser al-Khelaïfi, proprietario del Paris Saint-Germain e della catena televisiva beIN sports. Al centro della vicenda c’è una lussuosa villa di Porto Cervo: 438 metri quadri, 13 camere con piscina a vista sul mare azzurro di una delle più invidiate insenature della Costa Smeralda. Nel 2013 viene acquistata da una società dove si triangola il rapporto fra il segretario generale della Fifa e il proprietario del Psg. Sull’acquisto sta indagando la magistratura federale svizzera, che con la Guardia di Finanza di Sassari ha sequestrato la villa nel 2017. Da allora è sigillata. Alcuni documenti inediti, consultati dai giornalisti di EIC, raccontano adesso i retroscena su quel buen ritiro sardo. Una storia a cui non manca l’ironia dei ritorni: la villa in questione è la stessa dove Lele Mora trascorreva le sue estati fra tronisti e veline. L’ex re dei festini berlusconiani è stato infatti padrone e anfitrione fino al 2008. Nel pieno del suo fallimento la proprietà venne comprata da un’immobiliare di Brescia a lui vicina, la “Pleiadi” di Luigi Angelo Zavaglio (ex manager del Billionaire Beach) e di una fiduciaria di Giovanni Semeraro. Viene venduta cinque anni dopo per 5 milioni di euro a una società del Qatar. Jérôme Valcke era un uomo potente. Da segretario generale della Fifa, le più importanti decisioni della Federazione passavano da lui, oltre che dalla scrivania dell’ex presidente Sepp Blatter. Nell’estate del 2013 Valcke è un uomo felice. Intanto perché è ricco: riceve 120 mila euro al mese di stipendio, incassa 15 milioni di bonus - e si fa prendere dai lussi. Tanto da abusarne un po’, come per i voli su jet privati a spese Fifa: uno dei motivi per cui verrà sospeso pochi anni dopo da ogni incarico. Nel luglio di quel 2013, hanno rivelato i Panama Papers, apre una società offshore , domiciliata alle Isole Vergini britanniche. Serve come porta bandiera di uno yacht di 32 metri. Costa 2,8 milioni di euro. L’anno seguente Valcke porterà la barca in un cantiere navale di Pisa per rimetterla a nuovo, spendendovi altri 15 milioni, raccontava allora Il Tirreno. Ma è solo l’inizio dell’estate da re Mida del dirigente francese. Il 30 agosto infatti, mostrano i nuovi documenti ottenuti dal consorzio EIC e L’Espresso, Valcke avanza una proposta d’acquisto per la dimora sarda. L’offerta viene accettata dall’immobiliare bresciana ai primi di settembre. «La casa di Porto Cervo mi è stata confermata questa sera. Sono proprietario a Porto Cervo!!» scrive lui la sera stessa a un suo contatto. Sarà sua la dimora chiamata “Villa Bianca” forse per via del colore preferito da Lela Mora: che aveva voluto che gli interni, come i suoi vestiti, fossero tutti immacolati. Bianco è anche il divano da cui mostrava, in “Videocracy”, la suoneria fascista del suo cellulare, Faccetta Nera. Ma questo è il passato. Valcke sta per diventare il nuovo padrone di casa. In quei giorni dà istruzioni a un istituto finanziario su come «finalizzare l’acquisizione». Non servono prestiti, spiega, grazie «a un’entrata straordinaria di fondi che copre il costo dell’operazione, ovvero cinque milioni di euro». Da chi arriva, quel sostegno straordinario? Documenti in possesso della procura federale svizzera mostrano che inizialmente era previsto che il supporto arrivasse da Nasser al-Khelaïfi, l’influente businessman che sta trattando con la Fifa i diritti tv dei mondiali. L’atto di vendita è datato 8 novembre. A firmare il contratto doveva essere l’allora moglie del manager francese, l’ex concorrente di Miss Italia Ornella Stocchi. Il 30 ottobre, una settimana prima di festeggiare dal notaio, Valcke redige e stampa un documento che «sembra aver consegnato a Nasser al-Khelaïfi», scrivono i procuratori federali in una nota di sintesi. Si tratta delle istruzioni perché il facoltoso qatariota si faccia carico delle spese. «Devi firmare […] per dare mandato all’avvocato di firmare l’atto di vendita al tuo posto» scrive l’allora segretario generale della Fifa: «È tutto ok». Quindi precisa che serve «un trasferimento di cinque milioni all’inizio della prossima settimana sul conto del notaio. Devi indicare il motivo del bonifico. Causale: costo d’acquisto e tasse di una proprietà a Arzachena, Porto Cervo. Bisogna fare anche un bonifico di 200 mila euro sul conto di … per le spese d’agenzia». È tutto pronto. Ma all’ultimo momento, l’operazione viene annullata. A comprare ufficialmente la lussuosa proprietà sarà, il 31 dicembre dello stesso anno, una società con sede in Qatar, la “Golden Home Real Estate”. L’amministratore, Abdelkader Bessedik, è un avvocato francese che vive a Doha. Suo fratello Ahmed è considerato un uomo ombra di al-Khelaïfi. Non solo. Rispondendo alle domande del consorzio Eic, è lo stesso avvocato di Bessedik a spiegare: «Il titolare della società, al momento dell’acquisto, era al-Khelaïfi. In effetti, il mio cliente non poteva comprare un immobile attraverso una compagnia qatariota prima d’aver ricevuto un’autorizzazione. Questa è arrivata subito dopo la vendita; a quel punto il mio assistito è diventato proprietario della Golden Home. I fondi erano suoi». Dall’inizio del 2014 Valcke passeggerà in terrazza: secondo Le Monde, che ha avuto accesso al contratto firmato il primo luglio del 2014, la affitta dall’aprile del 2014 attraverso la sua società offshore. Canone: 96 mila euro all’anno, da cui deducibili i costi di manutenzione e gli eventuali acquisti di mobili. L’avvocato di Bessedik spiega che ci sarebbe stato un accordo verbale, in un primo momento, che permetteva al manager di stare a Porto Cervo in cambio del pagamento delle «spese correnti e di qualche spesa di miglioramento». L’accordo venne «formalizzato» per iscritto solo tre mesi dopo, e l’ammontare dell’affitto «è stato fissato in modo da corrispondere, più o meno, a quanto avrebbe dovuto sostenere». Valcke ha risposto all’EIC di aver adempiuto ai suoi doveri e che «contesta formalmente di aver percepito un qualsiasi vantaggio indebito». I documenti dimostrano quindi che al-Khelaïfi, il proprietario del Psg e della rete televisiva beIN, si è prodigato per il segretario generale della Federazione chiamata a decidere luoghi, regole e diritti del calcio. Il sospetto degli inquirenti è che il sostegno fosse collegato a un contratto: l’acquisto da parte di beIN dei diritti televisivi per il Medio Oriente delle Coppe del mondo 2026 e 2030. L’affidamento, deciso con largo e inusuale anticipo, vale 480 milioni di dollari. Una cifra alta, che potrebbe trovare una spiegazione sempre in quell’estate del 2013: se è un anno d’oro per le vacanze di Valcke, infatti, rappresenta invece un momento difficile per il Qatar, come mostrano i materiali ottenuti da Der Spiegel con Footbal Leaks. Nel 2013 l’emirato doveva affrontare due minacce: un rapporto del comitato etico della Fifa, guidato da Michael Garcia, sui sospetti di corruzione nell’assegnazione dei mondiali al Qatar. E il tergiversare della Federazione sullo spostamento delle partite in inverno. Indispensabile per evitare la fusione dei calciatori al caldo, ma anche una grana per il sovrapporsi con altri mega eventi sportivi come il Super Bowl, oltre che per la necessità di riorganizzare i calendari dei campionati nazionali. Insomma, spine. I partner commerciali del Qatar però, assicurava all’epoca Valcke, erano pronti a compensare economicamente il rischio dei mancati incassi per la Fifa. Le riunioni e gli incontri si susseguono. La Federazione firma la vendita dei diritti a beIN per 480 milioni. Pochi mesi dopo, nel 2014, accetterà lo spostamento in inverno. E a settembre rifiuterà di pubblicare il rapporto Garcia. Il fronte qatariota vince insomma su tutta la linea. «Mr. Valcke ha già detto nell’ottobre del 2017 di non esser stato l’autore delle decisioni prese nel merito, e di non aver influito sulle stesse in modo contrario ai suoi doveri», ha risposto alle domande di EIC il suo avvocato, Patrick Hunziker. Sulle trattative con beIN ribadisce che il suo assistito «non influisce né sulle negoziazioni né sulle decisioni, ma ne è informato», e che «contesta formalmente d’aver ricevuto un qualsiasi vantaggio. Il procedimento giudiziario è ancora in corso». E la villa? Avrebbe voluto intestarla alla moglie perché era cittadina italiana, «ma la sua previsione di poter sostenere la spesa si era rivelata errata». Sostiene che il fatto che il padrone di casa fosse un amico di al-Khelaïfi sia una coincidenza. Nel febbraio del 2015, in occasione di un viaggio a Doha, Valcke riceverà un altro piccolo regalo dal Qatar, un orologio Cartier da 40 mila euro. Nei mesi successivi le indagini si appesantiscono, e a settembre verrà sospeso dalla Fifa. Il successo di Mida si è offuscato. Anche per la “Golden Home”. Nel 2017 si è trasferita dal Qatar all’Italia. All’inizio i soci sono due, Bessedik e un imprenditore nato in Qatar. Poi rimane solo l’avvocato francese. Ma anche nel suo caso, la villa, sequestrata, non luccica più.
LA REPLICA: «Il nostro cliente contesta fermamente d'aver commesso la minima infrazione», ha risposto il businessman qatariota alle domande di EIC, dopo la chiusura di questo articolo: «E denuncia quella che ha i contorni di una strumentalizzazione mediatica continua. Nel merito, si limiterà a ripetere che non è ne è mai stato proprietario della villa».
Quei sospetti di corruzione sull’assegnazione al Qatar dei mondiali, scrive il 15 marzo 2019 Mauro Indelicato su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Il primo mondiale in Medio Oriente non è poi così lontano. Dalle kermesse sportiva giocata in Russia è già quasi passato un anno, a settembre nel continente sudamericano iniziano le prime partite di qualificazione, Qatar 2022 inizia ad essere quindi realtà. Ma qualcosa ancora non quadra. L’assegnazione del mondiale di calcio al paese arabo non manca ancora oggi di suscitare polemiche su due fronti: le condizioni dei lavoratori che stanno costruendo gli stadi e le presunte mazzette pagate alla Fifa per vincere la candidatura.
L’inchiesta del Sunday Times. L’assegnazione del mondiale del 2022 avviene nel dicembre 2010. Da allora è un susseguirsi di sospetti ed inchieste circa la regolarità delle votazioni che portano la coppa del mondo sulle rive del golfo Persico. Il Qatar è un paese molto piccolo, in uno spazio grande quanto l’Abruzzo devono essere tirati su almeno dieci nuovi avveniristici impianti per permettere lo svolgimento della competizione. A livello logistico c’è perplessità sulla bontà del progetto, ma il paese arabo è tanto piccolo quanto ricco: petrolio e soprattutto gas garantiscono introiti importanti, che permette a Doha di avere uno dei fondi sovrani più ricchi al mondo. Ecco uno dei motivi per i quali si pensa che, nel dietro le quinte delle votazioni, i petrodollari possano aver pesato sull’assegnazione. A tornare sull’argomento, già in realtà affrontato nel 2014 su diverse testate internazionali, è il Sunday Times. Un’inchiesta del giornale britannico mostra un presunto giro di mazzette da mezzo miliardo di Dollari che da Doha raggiungono direttamente i vertici della Fifa in Svizzera. Tutto questo a pochi giorni dai passi più importanti che portano il 2 dicembre 2010 all’assegnazione al Qatar del mondiale 2022. Non solo il pagamento di 400 milioni di dollari effettuato dal fondo sovrano qatariota, ma anche l’interessamento dei vertici di Al Jazeera, la tv all news che ha sede proprio a Doha. L’emittente avrebbe offerto, secondo i documento svelati dal Sunday Times, cento milioni di Dollari per i diritti di trasmissione se il mondiale fosse assegnato al Qatar. Un totale quindi di mezzo miliardo, capace di influenzare in maniera decisiva l’esito delle votazioni. A questi, occorre aggiungere altri 480 milioni di dollari promessi alla Fifa sempre per il discorso riguardante i diritti tv. Qualche anno fa l’organo di controllo della federazione calcistica effettua un’inchiesta su quell’assegnazione, poi però archiviata proprio poche settimane dopo la promessa dei 480 milioni di dollari. Il Sunday Times riferisce di alcune risposte arrivate dalla Fifa dopo che lo stesso ente che gestisce il calcio internazionale viene contattato dai giornalisti inglesi. In queste risposte, la federazione afferma che le accuse documentate dal Sunday Times sono oggetto di commenti e valutazioni interne già dal 2017, le conclusioni dal giugno di quell’anno sono visionabili presso il sito della Fifa: “Il nostro ente – scrivono dalla sede del ‘governo del calcio’ – Collabora con tutte le autorità per fare luce sulla vicenda”. Ma, c’è da scommetterci, da qui al 2022 il mondiale in Qatar è destinato a fare ancora discutere.
Possibile il nuovo format già nel 2022? Intanto prende piede l’idea di assistere già fra tre anni all’esordio del mondiale a 48 squadre, a dispetto delle 32 attuali. Una formula già approvata, ma la cui entrata in vigore è prevista soltanto nel 2026, quando la coppa del mondo sarà giocata tra Usa, Messico e Canada. Adesso la Fifa però vorrebbe anticipare i tempi e portare all’allargamento della competizione nell’edizione di Qatar 2022. L’Associated Press rivela un rapporto di 81 pagine redatto da alcuni dirigenti Fifa, che dovrebbe essere discusso a giugno: in esso, per l’appunto, è spiegato il progetto del mondiale a 48 squadre fra tre anni. Il torneo sarebbe organizzato con la consuetudinaria divisione tra fase a gironi e fase ad eliminazione diretta, ma ci sarebbero molte più partite da giocare. Infatti i gironi passerebbero dagli attuali otto, formati da quattro squadre, ai 16 con all’interno tre formazioni. Le prime due vanno ai sedicesimi di finale, con a quel punto il tabellone che scorrerebbe con un formato “tennistico” fino alla finale. Chiaro quindi che per realizzare un progetto del genere, occorrono più stadi che il Qatar non può permettersi. E questo sia perché è difficile stravolgere il progetto a tre anni dal fischio d’inizio del mondiale, sia perché fisicamente non c’è spazio per la costruzione di nuovo impianti. Ecco quindi che, secondo il rapporto reso noto dall’Ap, l’allargamento del mondiale a 48 squadre si potrebbe effettuare soltanto se al Qatar si affiancano altri Stati nell’organizzazione. A livello di forza economica e sotto il profilo logistico, si potrebbe pensare agli Emirati Arabi Uniti ed all’Arabia Saudita come altri paesi ospitanti. Ma, a livello politico, il progetto non è fattibile. Si tratta di governi che dal giugno 2017 applicano al Qatar pesanti sanzioni internazionali. Si pensa dunque ad altri Stati della regione, seppur non confinanti. In pole position, per affiancare Doha ci sarebbero Kuwait e Oman. Ma, per l’appunto, tra scandali e politica, tutto è ancora da vedere.
Platini fermato e rilasciato: Qatar 2022, scandalo senza fine. L'ex presidente Uefa sotto torchio: accusato di corruzione nell'inchiesta sui Mondiali. La sua difesa: "Estraneo ai fatti". Giovanni Capuano il 19 giugno 2019 su Panorama. L'ex presidente della Uefa, Michel Platini, è stato fermato, interrogato per un'intera giornata e poi rilasciato a tarda notte a Nanterre, in Francia, nell'ambito dell'inchiesta sull'assegnazione del Mondiale del 2022 al Qatar che ha scosso dalle fondamenta la Fifa provocando un vero terremoto negli scorsi anni. La notizia è stata riportata dal sito francese Mediapart e dalle principali testate transalpine e da lì ha fatto rapidamente il giro del mondo. Platini è stato fermato nella mattinata di martedì 18 giugno e la vicenda cui si fa riferimento è quella della controversa decisione che portò i Mondiali del 2022 ad essere assegnati al Qatar insieme a quelli del 2018 in Russia. Una scelta presa dall'allora presidente della Fifa, Blatter, nel dicembre del 2010 e che aprì una stagione di denunce, inchieste e arresti fino alla decapitazione del potere del pallone con la salita alla carica di numero uno di Gianni Infantino. Platini è stato rilasciato a tarda notte ed è uscito accompagnato dal suo legale che ha spiegato come si sia trattato solo di un interrogatorio in qualità di testimone. L'ex presidente della Uefa ha negato ogni coinvolgimento nei fatti oggetto di un'inchiesta partita dal 2016 e che si riferisce a fatti che hanno già portato alla decapitazione dei vertici della Fifa. La notizia sui siti di tutto il mondo.
Le accuse e l'arresto. Secondo quanto ricostruito, l'ex presidente Uefa è stato chiamato presso gli uffici della Polizia a Nanterre per essere sentito. L'ipotesi d'accusa è quella di "presunti atti di corruzione attiva e passiva di dipendenti non pubblici". Un filone aperto dal Pnf (Procura nazionale per i reati finanziari) e che vede coinvolto non solo Le Roi ma anche altri personaggi di primi piano. Con Platini è stata posta in stato di fermo Sophie Dion che era consigliera allo Sport del presidente francese Sarkozy. Interrogato anche Claude Gue'ant, ex ministro dell'Interno ed ex Segretario Generale dell'Eliseo sempre durante la presidenza Sarkozy.
Quella cena all'Eliseo nel novembre 2010. Nel mirino degli investigatori il pranzo organizzato il 23 novembre 2010 all'Eliseo, alla presenza del presidente della Repubblica Sarkozy, con l'emiro Tamim Ben Hamad Al Thani e l'allora primo ministro qatariota Hamad Ben Jassem. Secondo le ricostruzioni anche di stampa circolate negli anni successivi, si sarebbe trattato del momento in cui Platini sarebbe stato oggetto di pressioni per persuaderlo a votare il Qatar nello scrutinio segreto in cambio di investimento dell'emiro nel calcio francese. Cosa poi avvenuta con l'acquisizione del Psg e le faraoniche campagne acquisti delle estati successive. A svelare la cena del presunto patto era stato France Football nel 2013 come prova di atti corruttivi nel processo di scelta del Qatar come sede del primo Mondiale invernale (cosa che ha scatenato le proteste di club e federazioni), nonostante la presenza di competitor di altissimo livello come gli Stati Uniti e le accuse di sfruttamento degli operai impegnati nella costruzione degli stadi in mezzo al deserto. La ricostruzione descrive un vero e proprio “Qatargate” con sponsorizzazioni a pioggia soprattutto in Africa e Asia, partite amichevoli e il sospetto crescente del pagamento di vere e proprie tangenti per comprare il voto dei delegati della Fifa. Platini si è sempre difeso con orgoglio denunciando di essere vittima di un complotto. Recentemente l'ex presidente Uefa ha avuto modo di chiarire di essere andato a quel pranzo per comunicare a Sarkozy la sua intenzione di votare Russia per il 2018 (glielo aveva chiesto Blatter) e Qatar per il 2022. Una scelta già fatta, senza alcuna pressione da parte di nessuno.
La parabola (discendente) di Le Roi. L'ex stella francese pagò un prezzo salatissimo allo scandalo, rimanendo impigliato nel sospetto di corruzione ed essendo obbligato ad abbandonare la carriera di dirigente sportivo emergente nell'ottobre 2015. Per lui l'accusa di aver illecitamente ricevuto pagamenti per 2 milioni di franchi svizzeri da parte di Blatter come compenso per consulenze svolte molti anni prima (dal 1999 al 2002) e mai saldate fino al 2011. Un'accusa sempre rigettata con forza da Platini che ricevuto una squalifica da tutte le attività calcistiche per 8 anni, poi ridotti a 6 e 4 nel corso dei vari gradi di giudizio. Il bando terminerà nel prossimo mese di ottobre e teoricamente rimetterebbe in corsa Platini per una carica nel mondo del calcio. Della vicenda si è occupata anche l'autorità giudiziaria svizzera che non ha trovato riscontri di un operato illegale da parte dell'ex calciatore juventino e simbolo della nazionale francese. Più volte Platini ha sostenuto di voler rientrare nel mondo del calcio una volta riabilitato e terminato di scontare una pena considerata ingiusta.
Mondiali in Qatar, le manovre di Sarkozy per i milioni degli emiri "Ma Platini resta Le Roi". Pubblicato martedì, 18 giugno 2019 da Stefano Montefiori, su Corriere.it. Il 2 dicembre 2010 il comitato esecutivo della Fifa attribuisce i Mondiali del 2022 non al candidato che sembrava favorito fino a pochi giorni prima, gli Stati Uniti, ma al Qatar. Un Paese privo di qualsiasi tradizione calcistica (55° nella classifica Fifa) e di stadi, che verranno costruiti da immigrati trattati come schiavi e destinati a morire sul lavoro a centinaia. In compenso, dato il clima desertico, bisognerà giocare d'inverno e in stadi climatizzati. Insomma, una scelta incomprensibile. E neanche spiegabile con una generica attenzione geopolitica verso il mondo arabo-musulmano, perché in quel caso la candidatura del Marocco, dove almeno si gioca a calcio, avrebbe avuto più senso. Allora, come è stato possibile? «I quattro voti portati da Michel Platini — il suo e altri tre — hanno fatto pendere la bilancia a favore del Qatar e gli Usa sono stato battuti 14 voti a 8», ha raccontato ieri Sepp Blatter, all’epoca presidente della Fifa. Blatter è stato il capo del calcio mondiale per 17 anni, il suo vice Platini sperava di prenderne il posto ma sono caduti in disgrazia entrambi travolti dalle inchieste sportive e hanno litigato accusandosi a vicenda. Ora l’amico-nemico lo difende. «È l’intervento politico della Francia che ha fatto scegliere il Qatar — ha detto ieri Blatter all’Équipe —. Prima del voto Platini mi ha telefonato dicendo che aveva parlato all’Eliseo con Nicolas Sarkozy. Gli ho chiesto se Sarkozy lo aveva forzato e Platini mi ha risposto di no, aggiungendo però che il presidente aveva sottolineato che sarebbe stato bene votare per il Qatar». E così è stato. Secondo Blatter, Platini non è stato corrotto, non ha cambiato voto per soldi, ma per la richiesta del suo presidente, Nicolas Sarkozy. Bisogna quindi tornare indietro di nove giorni, al pranzo organizzato il 23 novembre 2010 all’Eliseo dal capo di Stato francese Sarkozy. Gli invitati d’onore sono amico Tamim ben Hamad al-Thani, allora principe ereditario del Qatar ed emiro tre anni dopo, e Michel Platini presidente dell’Uefa e vice-presidente della Fifa. Gli archivi ufficiali dell’Eliseo consultati nel 2015 da Le Monde indicano che a quel pranzo, all’epoca segreto, partecipano anche il premier qatarino Hamad ben Jassem al-Thani, «vero amico» di Sarkozy, il segretario generale dell’Eliseo Claude Guéant e Sophie Dion, consigliera di Sarkozy per lo sport. Anche Guéant e Dion sono stati interrogati ieri. Durante quel pranzo, si parla di un possibile acquisto del Paris Saint-Germain da parte del Qatar (avvenuto poi nel giugno 2011), dell’ingresso della rete tv BeIn Sports (gruppo Al Jazeera) nel mercato dei diritti del calcio fino quel momento monopolizzato da Canal Plus, e del sostegno al Qatar per i mondiali 2022. Platini in privato esprime perplessità a Sarkozy sull’operazione PSG ma il presidente gli risponde «I qatarini sono gente a posto». Dopo il voto a favore del Qatar, nel febbraio 2011 Platini riceve dalla Fifa due milioni di franchi svizzeri. Alla fine, perché Sarkozy tiene tanto al Qatar? L’emirato del Golfo ha solo 200 mila cittadini ma immense riserve di gas e la voglia di giocare a suo modo la partita contro il rivale di sempre, l’Arabia Saudita. Agli inizi degli anni Duemila Sarkozy e il Qatar sono entrambi dei parvenus della politica internazionale, entrambi vogliono affermarsi rompendo gli schemi. Mitterrand e Chirac erano alleati con l’Arabia Saudita. Sarkozy vuole cambiare: appena diventa presidente nel 2007, il primo capo di Stato straniero che invita all’Eliseo è l’emiro del Qatar. E di lì a poco il Qatar comprerà 80 Airbus A350 per 14 miliardi di euro. È l’inizio di un rapporto speciale che porterà l’emirato a pagare il riscatto di 400 milioni di euro per le infermiere bulgare finalmente liberate da Gheddafi (e secondo voci smentite da Sarkozy, pure il suo divorzio da Cécilia), e a penetrare in Francia con un soft power che va dai fondi per le banlieue al PSG, dal celebre hotel Martinez a Cannes ai palazzi sugli Champs Élysées e a investimenti nelle più importanti aziende francesi. Forse Platini è colpevole di corruzione o forse no. Di sicuro ha partecipato a un gioco più grande di lui e persino del calcio.
Michel Platini fermato, corruzione per i Mondiali in Qatar. "Io estraneo ai fatti". Rilasciato nella notte. L'ex asso della Juventus e presidente Uefa dal 2007 al 2016, in stato di fermo a Nanterre. Al centro dell'inchiesta un pranzo all'Eliseo organizzato da Nicolas Sarkozy nel 2010, nove mesi prima dell'assegnazione dei Mondiali 2022 al Qatar. I consulenti: "Non un arresto, ma un interrogatorio in qualità di testimone". La Repubblica il 18 giugno 2019. Rilasciato nella notte l'ex presidente dell'Uefa, Michel Platini, in stato di fermo per tutta la giornata di ieri presso la caserma della polizia giudiziaria di Nanterre. La notizia è delle prime ore della mattinata e l'accusa mossa nei confronti dell'ex asso della Juventus è quella di corruzione, legata alla scelta del Qatar quale sede dei prossimi mondiali di calcio, nel 2022. La replica di Platini è affidata al suo legale: "Michel Platini non ha nulla di cui vergognarsi, e sostiene di essere totalmente estraneo a fatti", hanno dichiarato i consulenti dell'ex numero uno dell'Uefa in un comunicato. "Non è un arresto, ma un interrogatorio in qualità di testimone in una condizione voluta dagli inquirenti che permette di evitare che le persone ascoltate possano accordarsi fuori dalla procedura". Sorpreso l'ex presidente della Fifa Sepp Blatter: "E' una cosa di cui si era già parlato. Non so perché si torna all'improvviso su questa storia".
Il pranzo all'Eliseo. E' un pranzo all'Eliseo organizzato da Nicolas Sarkozy nel 2010, nove giorni prima dell'assegnazione dei Mondiali di calcio al Qatar, al centro dell'inchiesta che ha portato al fermo di Michel Platini. L'ex presidente dell'Uefa e vicepresidente Fifa è interrogato dai magistrati del Parquet national financier (Pnf), la procura anti-corruzione con sede a Nanterre, a nord di Parigi. Insieme a lui c'è anche Claude Guéant, all'epoca segretario generale dell'Eliseo. Sia Guéant che Platini erano presenti all'ormai famosa colazione del 23 novembre 2010 in cui sarebbero state negoziate con l'emiro del Qatar Tamim ben Hamad al Thani le condizioni per dare il via libera all'assegnazione del Mondiali del 2022, come effettivamente è poi accaduto qualche giorno dopo con il voto della Fifa il 2 dicembre 2010. Il pranzo all'Eliseo avrebbe dato luogo a un vero e proprio baratto, che comprendeva da parte dei francesi la richiesta al Qatar di acquistare la squadra capitolina Psg, di aumentare la loro partecipazione nel gruppo Lagardère e di creare un nuovo canale sportivo, BeIn Sports. Tutte richieste che si sono poi puntualmente realizzate. Le ipotesi di reato sono "corruzione privata", "associazione a delinquere", "traffico di influenze e ricettazione di traffico di influenze". E' chiaro quindi che potenzialmente l'indagine, a cui partecipano anche magistrati svizzeri e americani, rischia di aprire altri fronti, e non è escluso che possa allargarsi ad altri responsabili politici e sportivi.
Il mistero del Picasso. Nella vicenda, colorata di contorni misteriosi come una spy story, è comparso anche un misterioso quadro di Picasso. Già nel 2016 la Procura nazionale finanziaria aveva aperto un'indagine preliminare per "corruzione privata", "associazione a delinquere", "traffico di influenze e ricettazione di traffico di influenze" in merito all'assegnazione dei Mondiali 2022 in Qatar. Platini, che aveva riconosciuto di aver votato per il Qatar durante lo scrutinio del 2 dicembre 2010, era stato ascoltato come testimone nel dicembre del 2017. Il 14 dicembre dello stesso anno la polizia aveva perquisito le abitazioni - a Nyon e a Saint Cloud - e le cassette di sicurezza di Michel Platini, proprio nel giorno della morte del padre Aldo. Motivo della procedura, proprio la ricerca dell'opera: a novembre 2014 infatti, il settimanale britannico Sunday Timesaveva pubblicato un articolo che sospettava Platini di aver ricevuto da parte dell'ex presidente dell'Unione russa di calcio, Viacheslav Koloskov, un non meglio precisato Picasso come incentivo a scegliere la Russia come Paese ospitante per i mondiali del 2018. Platini ha sempre smentito in modo deciso di aver ricevuto un omaggio di questo genere.
L'inizio dei guai e il ruolo della Fifa. Ma l'indagine ha radici profonde, che affondano già nel maggio 2011. Quando accuse di corruzione tra i più alti funzionari della Fifa sollevarono dubbi sulla legittimità dell'assegnazione della Coppa del Mondo 2022 al Qatar. Jack Warner, all'epoca vicepresidente della confederazione mondiale del calcio, parlava in una una email diventata di dominio pubblico della possibilità che il Qatar "avesse comprato" il diritto di ospitare la Coppa del Mondo attraverso un sistema di corruzione passato per Mohammed Bin Hammam, all'epoca dei fatti al vertice della Confederazione calcistica asiatica. Illeciti sempre negati dai funzionari del Qatar. A giugno 2014, però, fu proprio il Sunday Times a ottenere e diffondere documenti comprendenti email, lettere e bonifici bancari che avrebbero dimostrato come Bin Hammam avesse versato oltre 5 milioni di dollari ai dirigenti Fifa per sostenere la candidatura qatariota. Accuse però rigettate dallo stesso Bin Hamman e da tutti gli accusati di aver ricevuto la tangente. Anche il canale televisivo di Stato in Qatar, Al Jazeera, avrebbe secondo quei documenti offerto segretamente 400 milioni di dollari alla Fifa per ottenere i diritti di trasmissione del Mondiale 2022, appena 21 giorni prima che il torneo fosse assegnato proprio al Paese arabo. E Al Jazeera avrebbe poi versato in un conto Fifa altri 100 milioni di dollari solo se il Qatar avesse vinto il ballottaggio della Coppa del Mondo nel 2010. Indagini e accuse fortemente smentite dalla Fifa.
La prima indagine su Platini. I guai giudiziari di Michel Platini iniziarono nel 2015, candidatosi a luglio per la presidenza Fifa contro l'antico mentore Sepp Blatter. Pochi mesi dopo, ad ottobre fu accusato di avere illegalmente ricevuto proprio da Blatter due milioni di franchi svizzeri nel 2011 per consulenze svolte tra il 1999 e il 2002: a seguito dell'accusa da parte della megistratura svizzera, fu squalificato per 8 anni - ridotti in appello a 4 dal Tas di Losanna - dal comitato etico della Fifa: Platini annunciò poi le sue dimissioni dall'Uefa, di cui era presidente. Un anno fa poi proprio la magistratura elvetica aveva scagionato da ogni accusa l'ex fuoriclasse della Juventus.
Francesco Prisco per Il Sole 24ore il 18 giugno 2019. Forse non è stato il più grande calciatore di tutti i tempi. Anzi, togliamo il forse: Michel Platini rientra senza dubbio in una Top 10 «all time» del calcio ma non ha mai neanche sfiorato il ballottaggio Pelé-Maradona. Il discorso, tuttavia, è un altro: il numero 10 di Francia e Juventus, fermato per una faccenda di corruzione legata all’organizzazione dei Mondiali di Qatar 2022, è stato sicuramente il giocatore più intelligente di tutti i tempi. In campo e fuori. Impareggiabile senso della posizione e formidabili doti di assist-man ne hanno fatto un fuoriclasse assoluto. Dello sport prima, della politica poi.
Genio e regolarità. Se da qualche parte nella Silicon Valley qualcuno elaborasse uno speciale algoritmo per mettere in relazione carriera agonistica e parabola professionale post agonistica di ogni atleta, Platini se la giocherebbe probabilmente soltanto con George Weah che, da centravanti del Milan anni Novanta, è diventato addirittura presidente della sua Liberia. Ma in campo Le Roi è stato molto più decisivo: tre Palloni d’oro a certificare le vittorie all’Europeo, in Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe e ci fermiamo qui, per quanto la lista potrebbe essere ancora più lunga. Una carriera impressionante, la sua, ma a impressionare è ancora di più la lucidità con la quale ha saputo gestirla. Mai un passo in più del dovuto: in ogni gesto la stessa precisione chirurgica di quando tirava un calcio di rigore. In ogni parola un raro senso della misura: «Sono francese e mi sento tale. Stimo l’Italia, ma io non sono italiano», diceva ancora 23enne, prima di una partita con la Nazionale della sua terra d’origine. Genio e regolarità.
Tre squadre per un fuoriclasse. Arriva dalla Lorena, regione di confine e grandi traffici, da una famiglia italiana (suo nonno era un muratore di origini novaresi) che nella nuova patria ha cominciato a salire la scala sociale (suo padre insegna matematica con la passione per il calcio). La sua via per l’affermazione si chiama campo di gioco, un terreno sul quale conta pochi rivali. Cambia ancora meno squadre: «Ho giocato nel Nancy perché era la mia città, nel Saint-Étienne perché era la migliore in Francia e nella Juventus perché è la migliore al mondo», dirà dopo il ritiro. Parole che denotano rara stoffa da leader.
Il capolavoro del ritiro a 32 anni. Il ritiro, appunto: un capolavoro. Platini è del 1955, con la sua Francia sfiora per due volte la vittoria del Mondiale nel 1982 (quarto) e nel 1986 (terzo). Quell’anno è all’apice della sua parabola sportiva e vede trionfare l’Argentina guidata da un ragazzo di cinque anni più giovane. Nella stagione calcistica successiva quello stesso ragazzo, con il Napoli, gli scucirà lo scudetto dal petto. È il 1987 e un Platini appena 32enne sceglie di ritirarsi, se ne va quando avrebbe ancora tanto da dare perché punta sempre all’eccellenza, non gli va di fare il comprimario.
La parentesi da allenatore e Francia ’98. Si butta a fare l’allenatore, imbocca la corsia preferenziale riservata ai grandi campioni e finisce sulla panchina della Nazionale francese ma è probabilmente la cosa che in carriera gli riesce peggio: buca la qualificazione a Italia ’90, esce nella fase a gironi dall’Europeo del ’92 e allora alza bandiera bianca. È quasi una fortuna: Platini prende infatti le redini del comitato organizzatore dei Mondiali di Francia ’98. Mette a capitale tutto il bagaglio di credibilità e il sistema di relazioni costruitosi da atleta e tecnico. Tutto funziona alla perfezione al di là delle Alpi, persino Zinedine Zidane che regala a Les Bleus la prima Coppa del Mondo della loro storia.
Mr. Fairplay va all’Uefa. Da quel preciso momento la sua carriera «politica» non si ferma più: è prima vicepresidente della Federcalcio francese (2001-2008), poi sale sul treno di Sepp Blatter ed entra nell’esecutivo della Fifa (2002). Nel 2007 centra la prima delle tre elezioni consecutive alla guida dell’Uefa. Politicamente si muove su due binari: da un lato garantire alle squadre vincitrici dei campionati minori il diritto a qualificarsi per la fase a gironi autunnale della Champions, dall’altro assicurare il fair play finanziario dopo la fortunatissima epoca del «paga Pantalone». Un sistema che si basa sul consenso e che crea consenso. Fino a quando, nel 2015 in Fifa, crolla la grande architettura di Blatter e le macerie travolgono pure Le Roi: Platini si ritrova incriminato dalla magistratura svizzera per aver percepito illegalmente dall’eterno presidente Fifa 2 milioni come compenso per consulenze effettuate tra il 1999 e il 2002. Nel 2016 sceglie di dimettersi per quanto, due anni più tardi, arriverà un’assoluzione definitiva.
Il senso di «Le Roi» per la politica. Platini non ha dubbi: è stata tutta una macchinazione per porre bruscamente fine a una parabola dirigenziale destinata ai vertici del calcio mondiale. Tutta una roba politica, insomma. Vedremo come andrà stavolta, con le accuse che gli arrivano dalla madrepatria a proposito dell’organizzazione del più controverso Mondiale di calcio della storia. Vedremo cosa dirà alla fine del fermo. Lui che, a proposito della politica, ha sempre detto: «Dovrebbe essere come la Nazionale: dovrebbero sempre giocare i migliori. Ma non è mai così, in nessuna parte del mondo».
GLI EMIRI AVEVANO TANTA VOGLIA DI FIFA. Marco Mensurati e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 19 giugno 2019. La lunga notte della Fifa non è ancora passata. Quel grande suk che fu la riunione a Zurigo del 2 dicembre 2010 continua a parlare. E, a nove anni di distanza, ad agitare i suoi fantasmi. Fantasmi che, ieri, hanno seguito le Roi Michel Platini fino alla soglia della camera di custodia di Nanterre, dove ad attenderlo c' erano i poliziotti dell' Office Anticorruption convinti di avere finalmente in mano le prove dello "schema corruttivo" che - secondo l' inchiesta aperta nel 2016 - ha determinato la storia recente del calcio mondiale.
La scelta geopolitica. Platini, di quello schema, è l' uomo chiave. Nella riunione decisiva, il suo voto spostò gli equilibri e permise al calcio di consegnare se stesso e il proprio potere al Qatar, preferendo, per la prima volta nella storia, russi ed emiri ai manager in giacca e cravatta del versante anglosassone del mondo (Inghilterra e Stati Uniti). Fu un colpo di mano, quello di Platini e della Francia, che in pochi secondi spazzò via il tacito accordo di spartizione verso cui sembrava indirizzata la Fifa: alla Russia la coppa del mondo 2018, agli Stati Uniti quella del 2022. Le cose andarono diversamente. Gli Usa - che sull' evento del 2022 volevano investire pesantemente - restarono a bocca asciutta e gli emiri tornarono a Doha forti di una vittoria che di lì a poco avrebbe spostato parecchi equilibri. Troppi.
Il ruolo di Platini. Pochi giorni dopo, fu lo stesso Platini a dichiarare di aver votato per il Qatar. Attirando su di sé l' ira della parte "occidentalista" della Fifa, nonché le attenzioni di Fbi e media anglosassoni. I giornali francesi dissero che le Roi aveva subito pressioni da parte di Nicolas Sarkozy. Si scoprì che il 23 novembre del 2010, una decina di giorni prima dell' assegnazione, Sarkozy organizzò un pranzo riservato all' Eliseo con Tamin bin Hamad al-Thani, allora principe ereditario. Nel corso dell' incontro si discusse di molti temi, ma su tutti dell' acquisto da parte del fondo sovrano di Doha del Psg, e della creazione dell' emittente beIN Sports per fare concorrenza a Canal+ nel mondo dei diritti tv. Due interventi in grado di rilanciare l' intero settore, per la Francia.
L' accordo segreto con Al Jazeera. Ma a motivare la giravolta di Platini c' era anche dell' altro, e di personale. Le indagini dell' Fbi - che di lì al 2015 portarono allo "scandalo Fifa" e alle dimissioni di Blatter - individuarono un bonifico sospetto da 2 milioni di franchi svizzeri ricevuto nel febbraio del 2011. Secondo Platini, era il pagamento di una consulenza svolta per Blatter tra il 1998 e il 2002. Ma di quei soldi non si è mai trovata traccia nei bilanci. Un primo processo per quei fatti si è concluso con un' assoluzione, in Svizzera. Ma adesso l' anticorruzione francese ha trovato nuovi elementi, in particolare su un contratto segreto tra la Fifa e Al Jazeera (emittente di Doha). Quel contratto assegnava ad Al Jazeera i diritti televisivi delle future coppe del mondo in cambio di 300 milioni di dollari, più uno strano bonus da 100 milioni in caso di assegnazione del mondiale al Qatar. Bonus che è stato pagato due mesi dopo l' assegnazione, negli stessi giorni del bonifico a Platini.
Il figlio di le Roi. A rendere ancor più sospetti i rapporti tra Platini e il Qatar, c' è anche un' altra storia. Pochi mesi dopo il pranzo all' Eliseo, suo figlio Laurent venne assunto presso la Qatar Sports Investments, anche se Michel dichiarò che la circostanza non aveva nulla a che vedere con il suo voto. A trarre vantaggi inaspettati dalla relazione dell' ex campione francese con gli emiri non fu solo il giovane Laurent, ma anche due suoi "grandissimi amici". Agli atti dell'inchiesta ci sono due mail del comitato promotore dei mondiali in Qatar in cui si dispone di mandare due "inviti sicuri" per il Forum annuale sulla Finanza e gli Investimenti di Parigi, a Louis Nicollin, «un industriale e presidente di club» che aveva prestato il suo aereo a Platini durante la campagna presidenziale del 2007, e a Gael Levergies, un ristoratore di Parigi con cui le Roi «è andato tre volte in vacanza».
Il braccialetto giapponese. Del resto, nella notte del grande suk del 2 dicembre, si era caduti anche più in basso. Nelle carte dell' Fbi c' è l' elenco dei cadeaux fatti a Platini dai promotori giapponesi. Uno "yakusugi ball", un braccialetto in cedro giapponese (1.200 dollari), una macchina fotografica digitale (1.200 dollari) e un paio di orecchini da 700 dollari per la signora Platini. I russi, invece ci erano andati più pesanti, inviando all' ex presidente dell' Uefa un Picasso (che lui nega di aver mai ricevuto).
Euro 2016. Ma non è tutto. Perché stando alle dichiarazioni dell' avvocato di Platini, William Bourdon, gli investigatori francesi dopo tre anni di indagini hanno superato le ipotesi di accusa deducibili dal lavoro dell' Fbi e si sono convinti che "il grande schema corruttivo" abbia abbracciato anche Euro 2016. «Il mio cliente - si è limitato a dire l' avvocato sul punto - ha risposto con serietà e precisione a tutte le domande».
NEL FANGO DEL DIO PALLONE. Alberto Neglia per “Libero quotidiano” il 19 giugno 2019. Una volta George Best disse: «Sono nato con un grande dono, e con esso è arrivata anche una vena distruttiva». Il leggendario nordirlandese dello United, consumato dall' alcol fino alla scomparsa a 59 anni, deve la sua immortalità non solo al talento calcistico. Numerosi i problemi con la giustizia per il genio maledetto: nel 1984 finì in carcere per guida in stato d' ebbrezza: «Un reato che non mi avrebbe fatto finire in gattabuia, se poi non avessi preso a testate un poliziotto". La storia del calcio e dello sport in generale è costellata di uomini per i quali il male è stato un lato necessario. Diego Maradona, che da calciatore ha vissuto un dualismo storico con Platini, ha condiviso quella vena distruttiva di cui parlava Best. Nel '91 fu arrestato dalla polizia argentina per detenzione di droga, il più ingombrante dei suoi demoni. Di recente è tornato in tribunale per accuse di truffa da parte dell' ex moglie Claudia Villafane. Il caso Platini è l' ennesimo legato alla corruzione nello sport. Nel 1980, in Italia, scoppiò il Totonero, e nel vortice delle scommesse finirono diverse stelle dell' epoca, tra cui Paolo Rossi e Bruno Giordano. Venendo ai giorni nostri, ha destato clamore il caso del campione del mondo 2006 Vincenzo Iaquinta, condannato a 2 anni di carcere nell' ambito del processo Aemilia. L' accusa? Possesso d' armi in favore di associazione mafiosa. È il calcio inglese, comunque, a regalare storie di casi giudiziari senza eguali. Il Mirror ha di recente elencato i detenuti più famosi nella storia del campionato britannico. Merita un posto d' onore un' altra leggenda dello United: Eric Cantona. Il francese finì in prigione nel '95, anche se per sole 24 ore, per aver rifilato un calcione a un tifoso del Crystal Palace che lo aveva provocato. Nella lista "criminale" figura anche Joey Barton, che nel 2008 fu imprigionato per 77 giorni per una rissa nel centro di Liverpool. L' anno prima aveva picchiato il compagno di squadra Ousmane Dabo in allenamento, causando a quest' ultimo il distacco della retina. Il caso più rumoroso della storia recente del calcio inglese è invece quello di Adam Johnson, scarcerato il marzo scorso dopo 3 anni dietro le sbarre. L' ex Sunderland era stato condannato a 6 anni per pedofilia. Il Mirror non cita Robinho, brasiliano ex Milan, accusato di stupro nel 2009 ai tempi del City. Il fantasista ci è ricascato durante gli anni a Milano: nel 2017 è stato condannato a 9 anni di carcere per violenza sessuale di gruppo. Non solo calciatori, ovviamente, tra le star criminali. Mike Tyson fu condannato a 10 anni di reclusione nel '92 per abusi sessuali. L' ex icona del football americano, O.J. Simpson nel '94 fu accusato di omicidio della ex moglie Nicole Brown e dell' amico Ronald Lyle Goldman, ma fu assolto un anno più tardi. L' ex velocista sudafricano Oscar Pistorius sta scontando la pena di 13 anni e 6 mesi inflittagli nel 2017 per l' omicidio della fidanzata.
MAZZETTE, SCHIAVISMO E MORTI BIANCHE: TUTTE LE OMBRE SUI MONDIALI DEL QATAR. Romolo Buffoni per “il Messaggero” il 19 giugno 2019. Il calcio ha trovato nel deserto la risorsa per placare la sua sete sempre più pressante di denaro. Emiri e sceicchi hanno riversato nelle casse dei club europei un fiume di soldi capace di deviare il rimbalzo del pallone, cambiando la storia di due club come il Paris Saint-Germain e il Manchester City, strappati dall'eterno anonimato, e anche quella della Coppa del Mondo Fifa che nel 2022, per la prima volta, sarà disputata quando in Europa sarà inverno. Tutti sognano un emiro. L'ultimo a confessarlo è stato Francesco Totti lunedì, nel giorno del suo addio alla Roma americana: «Tornerò con un'altra proprietà e il club piace molto agli emiri». In un certo senso il club giallorosso beneficia già dei petrodollari grazie allo sponsor Qatar Airways (39 milioni fino al 2021). Per i ricchi arabi il calcio non è solo un giocattolo costoso. Il Qatar porta nel mondo, grazie al pallone, i suoi messaggi politici nella guerra all'Arabia. Anche per questo Nasser Al-Khelaifi, patron del Psg, stregato dal brasiliano Neymar due anni fa non esitò a pagare la clausola rescissoria per liberarlo dal Barcellona: 222 milioni di euro sull'unghia. Anzi, ne tirò fuori dal portafogli 300: il resto fu mancia per il giocatore. E non gli è da meno Mansur bin Zayd Al Nahyan, che non è qatariota ma degli Emirati Arabi Uniti, patron dal 2008 degli inglesi del City e cugino di Tamim bin Hamad al-Thani, fondatore della Qatar Sport Investments che detiene, appunto, il Psg. Mansur con campagne acquisti faraoniche ha ribaltato le gerarchie di Manchester dove, prima del suo avvento, solo lo United collezionava trofei. Oggi invece è la squadra di Guardiola a vincer. Per entrambi, ovvero per Al-Khelaifi e Al Nahyan, è la Champions League il sogno, l'oggetto del desiderio che le centinaia di milioni spesi finora non riescono ad acquistare. Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, Liverpool, Manchester United, Juventus e tutte le altre grandi del calcio continentale hanno accusato il colpo. Pur con fatturati e patrimoni monstre, nessuna può contare su interi Stati alle spalle. Per questo la Uefa ha tentato di salvare il salvabile introducendo il Fair Play finanziario, ossia il divieto di rimpinguare le casse sociali con iniezioni dirette di denaro da parte dei patron. Ostacolo aggirato attraverso sponsorizzazioni fittizie, alle quali per ora sembra non esserci rimedio. La guerra diplomatica divenuta anche commerciale fra emiri ed Arabia Saudita, il nemico giurato nello scacchiere geopolitico del Golfo, con tanto di embargo pesante per il Qatar. L'Arabia viene accusata di supportare attivamente la pirateria televisiva attraverso il canale beoutQ. Polemica che lo scorso inverno ha coinvolto anche la nostra Lega di Serie A per la scelta di disputare la Supercoppa italiana Juventus-Milan a Gedda. I Mondiali del 2022, per il Qatar, rientrano in questo quadro. Per assecondare questi potenti finanziatori l'universo pallonaro ha scarificato addirittura la ritualità del Mondiale estivo. Gli avveniristici stadi sorti nel deserto hanno, ovviamente, sistemi di aria condizionata di ultimissima generazione ma costringere i giocatori a giocarsi la Coppa a 50 gradi all'ombra rasentava il tentato omicidio. Ma non importa, si sposta il calendario e di gioca da novembre a dicembre. I tifosi? Capiranno. Del resto quelli del Sudamerica hanno sempre visto la Coppa del Mondo in maniche lunghe. Gli europei per una volta sacrificheranno pizza, birra & caroselli con polenta, vino rosso e cioccolato caldo. Pecunia non olet.
Alec Cordolcini per “il Giornale” il 19 giugno 2019. Sulla carta Qatar 2022 dovrebbe essere la 22ª edizione del Mondiale di calcio. Nella realtà invece è tutto fuorché calcio. Ci sono corruzione, squalifiche, arresti, morti sul lavoro, violazione dei diritti umani, frizioni geopolitiche, tutto messo a mollo in uno sterminato oceano di petrodollari. Presto o tardi, però, la sporcizia finisce a riva. L' ultimo carico è arrivato ieri dalla Francia con l' arresto di Michel Platini nell' ambito di un' inchiesta aperta due anni fa dal Parquet National Financier, la superprocura anti-corruzione transalpina istituita nel 2014. Epicentro dell' indagine la cena organizzata all' Eliseo nel novembre 2010 tra Platini, il Presidente Nicolas Sarkozy, lo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani e Sébastien Bazin, all' epoca proprietario del Paris Saint-Germain. Platini - in stato di fermo con l'accusa di corruzione - ha sempre dichiarato di aver deciso di votare per la candidatura del Qatar prima della cena, ma secondo l' indagine fu in quell' occasione che venne ufficializzato il tutto: Al Thani si sarebbe impegnato a effettuare una serie di investimenti, tra i quali l' acquisto del PSG, in cambio del pieno sostegno dell' Uefa alla candidatura del Qatar, promossa grazie a pagamenti per 5 milioni di dollari a diversi funzionari del calcio mondiale. Mazzette finite nelle mani di membri della Concacaf, dell' Oceania e di federazioni africane. Un caso divenuto noto come Qatar-gate e che ha portato alla squalifica a vita dell' ex presidente della AFC (la federazione asiatica) Mohamed Bin Hammam per violazioni ripetute al codice etico. Dopo il businessman qatariota è caduto anche Sepp Blatter, nonostante nel suo caso la controversa assegnazione di Qatar 2022 abbia rappresentato solo la scintilla capace di fare luce su un malgoverno consolidatosi nel corso degli anni. Il mondo del pallone attorno al Qatar scotta anche per motivi geopolitici. Un esempio è arrivato dal tentativo, fallito, del Presidente Fifa Gianni Infantino di anticipare di quattro anni il Mondiale a 40 squadre, introducendolo già in occasione di Qatar 2022. L' operazione necessitava però di un paese co-organizzatore, ma dal giugno 2017 il Qatar ha rotto i rapporti diplomatici con Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrain, con tanto di chiusura delle frontiere. Tra i paesi non confinanti, l' Oman ha declinato l' invito, mentre il Kuwait presentava enormi problemi a livello di logistica, di infrastrutture ma anche politici, basti pensare che il divieto di bere alcolici rimane totale (il Qatar per contro ha previsto un' esenzione per gli stranieri), e un main sponsor come Budweiser non avrebbe sicuramente gradito. Fino a qualche tempo fa nel mondo del lavoro del Qatar era in vigore la Kafala, un meccanismo di reclutamento che prevedeva la confisca dei passaporti ai lavoratori migranti. Pochi giorni fa l' Organizzazione Internazionale del Lavoro ha definito una farsa la riforma del lavoro che avrebbe abolito questo moderno sistema di schiavitù, denunciando la permanenza di un sistema di concessione di permessi in uscita dal paese, nonché del potere eccessivo dei datori di lavoro nei confronti della manodopera. Lo sfruttamento della forza lavoro straniera, le centinaia di morti nei cantieri per la realizzazione delle infrastrutture per il Mondiale e l' assoluta mancanza di tutele sono state oggetto a più riprese di denunce da parte di Human Rights Watch, Amnesty International e dell' International Trade Union Confederation.
«La Uefa nascose i problemi del Paris Saint Germain con il Fair Play Finanziario». Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 su Corriere.it. «La Uefa è stata troppo morbida con il Psg, si è arresa senza combattere. Abbiamo le prove». La bomba arriva dagli Stati Uniti. A lanciarla è il New Tork Times, il quotidiano statunitense. A dire il vero, il rapporto tra il massimo organismo continentale e il club transalpino è da sempre al centro di polemiche. Soprattutto in Spagna, da quando nel 2017 Al Khelaifi aveva strappato Neymar al Barcellona versando la clausola rescissoria di 222 milioni di euro. A dubitare di questa operazione era stato Javier Tebas, il presidente della Liga: «Ci sono società alle quali non importa nulla del bilancio quando devono far firmare un giocatore. Questo perché ricevono dei redditi da uno stato», le sue parole pronunciate a maggio. Ora è il New York Times ad andare a fondo nella questione per le presunte irregolarità del 2017. Quell’anno il Psg aveva acquistato anche Mbappé dal Monaco in prestito con un diritto di riscatto fissato a 180 milioni di euro: «Cifre che non potevano quadrare con il sistema del fair play finanziario», scrive il NYT. Il quotidiano americano ha pubblicato un rapporto investigativo nel quale vengono evidenziate possibili irregolarità. Soprattutto viene analizzato il comportamento dell’Uefa, “colpevole” di aver svolto un’indagine superficiale e approssimativa nei confronti della società francese. Al Khelaifi aveva dimostrato di poter sostenere le due operazioni dispendiose, quelle di Neymar e Mbappé appunto, grazie a un fatturato aumentato però in modo sospetto grazie a sponsorizzazioni “di famiglia”, come quella da oltre 100 milioni di euro sostenuta dall’ente del turismo del Qatar. «Un tecnicismo per poter continuare a giocare la Champions». Così ne era nata un’indagine. Il capo investigatore dell’Uefa, l’ex primo ministro Yves Leterme, aveva incaricato l’agenzia Octagon Wolrdwide di condurre un’inchiesta su questa sponsorizzazione e sul suo effettivo valore, stimato dalla stessa intorno ai 5 milioni. Una cifra ben lontana dai 100 milioni messi a bilancio dal Psg, che aveva invece presentato un report analogo ritenendo che il calcolo fosse corretto. Così Leterme aveva preso per buoni i valori espressi dal club francese, assolvendolo. Tutto sembrava finito finita lì. Fino all’inchiesta del New York Times che spiega tutto questo per lo stretto «rapporto tra l’organo di governo del calcio europeo e beIN Media Group, con sede in Qatar, che ha garantito i diritti televisivi dell’Uefa e di altri partner». E Al Khelaifi fa parte del comitato esecutivo dell’Uefa ed è anche il presidente e amministratore delegato di beIN Media Group. Tutto torna. O quasi.
Football Leaks, così la Uefa ha permesso a Manchester City e Psg di truccare i bilanci. I due club tra i più potenti del mondo violano le regole del fair play finanziario. Ma grazie all’aiuto di Platini e Infantino non sono stati esclusi dalla Champions. Ecco cosa rivelano i documenti esclusivi. Vittorio Malagutti e Stefano Vergine il 05 novembre 2018 su L'Espresso. Dall’anonimato all’olimpo del calcio mondiale. Nel giro di dieci anni Paris Saint-Germain e Manchester City sono diventate due delle squadre più forti e popolari in circolazione. Hanno vinto più volte i rispettivi campionati nazionali, hanno iniziato a dare filo da torcere ai più blasonati club europei nella Champions League, il trofeo più ambito nel Vecchio Continente. Il problema è che questi straordinari risultati sportivi sono stati raggiunti grazie a un’abbondante dose di doping finanziario, aggirando nella più totale impunità le regole di bilancio fissate per i club dall’Uefa, la Federazione europea del pallone. Ecco, allora, le sponsorizzazioni gonfiate, iscritte a bilancio a un valore molto più alto di quello reale. Le società esterne usate per scaricare costi eccessivi. E una lunga serie di trucchi contabili che hanno permesso alle due società di investire somme colossali, fuori dalla portata delle altre grandi squadre continentali, per aggiudicarsi i migliori giocatori sulla piazza, da Neymar a Mbappé, da De Bruyne ad Agüero. A raccontarlo sono i documenti di Football Leaks: contratti, email, presentazioni riservate ottenute dal settimanale tedesco Der Spiegel e analizzate da L’Espresso insieme alle testate internazionali che formano il consorzio di giornalismo investigativo European Investigative Collaboration (EIC). Migliaia di carte che dimostrano come Psg e City siano riuscite a dribblare le regole del fair play finanziario, ad evitare le sanzioni più dure previste dai regolamenti. Tutto questo con l’aiuto di due degli uomini più potenti del calcio mondiale, la coppia che ha governato la Uefa fino al 2016: il presidente Michel Platini e il suo segretario generale Gianni Infantino, oggi al vertice della Fifa.
Fair play col buco. Il fair play finanziario è stato introdotto di fatto dalla Uefa nel 2013, poco dopo l’ingresso nel calcio europeo degli emiri del Qatar e di Abu Dhabi, diventati rispettivamente padroni del Psg e del City. La regola generale, sostenuta con orgoglio da Platini e Infantino, prevede che ogni squadra europea abbia un bilancio quasi in pareggio, senza perdite eccessive (al momento è concesso un rosso di 30 milioni di euro in tre anni). L’obiettivo è evitare che le società più ricche possano annientare le più povere solo grazie al potere dei soldi, al deficit.
Football Leaks, l'Uefa ha punito il Milan e graziato l'Inter. Che però aveva i conti peggiori. Dai documenti riservati consultati dall'Espresso e dal consorzio Eic emerge una forte disparità di trattamento tra le due squadre: ai rossoneri fu in un primo momento vietata la partecipazione alle Coppe. Ma i nerazzurri avevano un rosso più profondo. Impedire cioè che i nuovi magnati del calcio - sceicchi arabi, oligarchi russi, finanzieri americani e industriali cinesi - pompino milioni di euro nelle casse della loro squadra nel tentativo di annientare la concorrenza dotata di mezzi finanziari molto inferiori. Proprio questo era l’obiettivo dei nuovi padroni del Paris Saint-Germain e del Manchester City. I manager dei due club hanno truccato i bilanci. La Uefa lo ha scoperto, ma alla fine ha preferito usare le maniere morbide invece che espellere le due squadre dalle coppe europee, come successo per molto meno a diversi club minori in questi anni, dalla Dinamo Mosca al Galatasaray, dal Malaga alla Stella Rossa di Belgrado. Non proprio quello che aveva promesso le Roi Michel. «Avrò il coraggio di punire i club famosi», aveva scandito Platini poco prima dell’introduzione delle nuove regole l’allora presidente della Uefa. «Imporremo le più dure sanzioni», gli aveva fatto eco il fido Infantino. Niente di più lontano dalla realtà, come vedremo.
Francesi impuniti. Partiamo dal Psg, la corazzata controllata dal regime del Qatar. Nel 2013 la Uefa inizia un’indagine sui conti della società. A condurla è il Club Financial Control Body, una specie di procura interna alla Uefa. Sotto osservazione finisce soprattutto il contratto di sponsorizzazione tra i parigini e Qta, la Qatar Tourism Authority. L’ente del turismo qatariota ha firmato un accordo di sponsorizzazione quinquennale che porterà nelle casse della società parigina 1,075 miliardi di euro, circa 200 milioni all’anno. Somma enorme se si pensa che squadre blasonate come Real Madrid, Bayern Monaco o Barcellona incassano al massimo 30 milioni all’anno per avere un logo sulla loro maglietta. La Qatar Tourism Authority è disposta a mettere sul piatto quasi sette volte tanto. E senza nemmeno avere il proprio nome stampato sulle divise dei parigini. Ad ogni modo, per le regole del fair play finanziario ciò che conta è innanzitutto se la Qatar Tourism Authority è una “parte correlata”, cioè un’azienda controllata in qualche modo sempre dai proprietari del Psg. Gli investigatori della Uefa arrivano alla conclusione che è proprio così. In altre parole, gli emiri hanno siglato un contratto con se stessi per aggirare le norme e dotare la società parigina di nuovi mezzi finanziari. A questo punto la norma vorrebbe che quel contratto venga registrato nel bilancio al suo valore di mercato.
Football Leaks, Roberto Mancini e i pagamenti offshore ai tempi del Manchester City. Una società nel paradiso fiscale di Mauritius per l'attuale ct della nazionale quando allenava la squadra inglese. Nel loro rapporto, i detective dell’organo che governa il calcio europeo citano anche il parere di una società esterna, la Octagon. Secondo l’azienda americana specializzata in marketing calcistico, ai valori di mercato quel contratto vale in realtà circa 3 milioni di euro all’anno. «Le prove dimostrano che l’accordo tra Qta e Psg è finalizzato a eludere gli obiettivi» del fair play finanziario, è la conclusione contenuta nel report degli investigatori Uefa. I quali ricordano che, nel caso in cui non fosse possibile trovare un accordo con il club, il tribunale interno della Uefa dovrebbe imporre al Psg le misure previste in casi come questo: «inclusa la possibilità di esclusione dalle prossime competizioni Uefa», si legge. È a questo punto che entrano in campo Infantino e Platini. La coppia al vertice della Uefa si dà un gran da fare per risolvere i problemi del Psg. Alla fine di febbraio del 2014 il club ottiene un incontro riservato nella sede dell’organizzazione, in Svizzera. Sulle rive del Lago di Ginevra, a Nyon, sbarca il presidente della società Nasser Al Khelaifi. Accompagnato dal suo braccio destro, Jean-Claude Blanc, l’emissario dell’emiro del Qatar trova ad aspettarlo Platini e Infantino. Nella riunione volano parole grosse, gli animi si scaldano. Alla fine Infantino e Platini propongono però al numero uno del Psg un accordo amichevole. Alle nostre richieste di commento, la Fifa ha risposto a nome di Infantino ricordando che «il Club Financial Control Body della Uefa è completamente responsabile delle proprie decisioni». Platini, che al momento non ricopre più alcun incarico nell’organizzazione, non è voluto entrare nel merito delle nostre domande, glissando anche sul suo possibile conflitto d’interessi con il Qatar visto che il figlio, Laurent Platini, lavora da anni per una società degli sceicchi. L’ex fuoriclasse della Juventus si è limitato a sottolineare «l’indipendenza» degli organi Uefa preposti a far rispettare le regole del fair play finanziario. Di sicuro la decisione del pool di investigatori del Club Financial Control Body arriva poco dopo quell’incontro riservato a Nyon. Nessun deferimento del Paris Saint-Germain al tribunale interno ma un accordo, un “settlement agreement”. Un patto i cui dettagli più importanti erano rimasti finora segreti. Le carte di Football Leaks raccontano che alla fine del 2014 la Uefa ha concesso al club dell’emiro al Thani di iscrivere a bilancio il contratto con la Qatar Tourism Authority per un valore di 100 milioni di euro all’anno. La metà rispetto all’originale, ma comunque infinitamente di più rispetto al valore di mercato attribuito dagli esperti consultati dall’autorità di controllo, che avevano fissato l’asticella a soli 3 milioni di euro all’anno. Per la verità, la decisione della Uefa ha creato qualche dissidio all’interno dell’organizzazione. Poco prima dell’accordo lo scozzese Brian Quinn si è infatti dimesso dal ruolo di capo degli investigatori. Secondo alcune fonti che hanno seguito da vicino la vicenda, Quinn - che è rimasto comunque fino alla metà del 2015 uno dei membri dell’autorità investigativa - all’epoca disse ai colleghi di non aver voluto firmare quell’accordo perché lo riteneva «troppo indulgente» verso il Psg vista l’entità della violazione. Poco male. Al posto di Quinn è stato nominato l’italiano Umberto Lago. Un commercialista vicentino, professore di Economia all’università di Bologna, che pochi anni dopo aver lasciato la Uefa finirà dall’altra parte della barricata: consulente nel Milan sui temi del fair play finanziario. Ma questa è un’altra storia. Ciò che conta in questa vicenda è che con Lago al vertice degli investigatori, l’accordo con il Psg viene siglato.
Il City la fa franca. Il docente italiano non ha usato il guanto di velluto solo con il Psg. C’era sempre lui a capo dei detective della Uefa quando si è trattato di decidere sul caso del Manchester City. Come la squadra francese, anche i Citizens erano accusati di aver imbellettato il bilancio societario. Un maquillage contabile che, secondo gli ispettori della Uefa, era stato ottenuto grazie ad alcuni sponsor di Abu Dhabi di fatto controllati sempre dalla famiglia reale: Aabar, uno dei fondi sovrani locali, ed Etisalat tra i più grandi gruppi telefonici del Medio Oriente. Pubblicamente la Uefa in quei mesi faceva la voce grossa. «La nostra organizzazione», dichiarò Infantino, «non ha paura di fare ciò che necessario per proteggere il gioco, per mantenere sana la competizione». Il coraggio di Gianni venne subito messo alla prova, visto ben presto gli investigatori della Uefa scoprirono le magagne finanziarie del club dell’emiro. Negli anni precedenti il City aveva infatti inserito nel bilancio diverse sponsorizzazioni a un prezzo tre volte maggiore rispetto a quello di mercato. Contratti firmati senza che ci fosse nemmeno una negoziazione preventiva, a dimostrazione del fatto che quelli non erano sponsor indipendenti ma semplici rami dell’impero finanziario della famiglia reale di Abu Dhabi.
Operazione Super League: così le grandi squadre si sono comprate il calcio. Un unico campionato su scala europea, alternativo ai tornei nazionali e alla Champions. Ecco il progetto segreto sponsorizzato dai club più ricchi d'Europa, tra cui Juventus, Real Madrid e Barcellona. Alla fine, per convincerle a restare, l'Uefa ha aumentato i premi per le società maggiori, penalizzando tutte le altre. I report interni alla Uefa parlano chiaro. Il contratto con Aabar, registrato per 17 milioni di euro all’anno, ne valeva al massimo 4. Quello con Etilsalat secondo gli esperti aveva un valore di mercato di 4 o 5 milioni, mentre il club incassava 18,5 milioni di euro a stagione. Se il City avesse dichiarato il reale valore di quei ricavi, le perdite sarebbero schizzate a 233 milioni di euro. Insomma bye bye Champions League, che significa arrivederci ai tanti milioni garantiti grazie alla vendita dei diritti televisivi. Ma le strade che portano al fairplay finanziario sono infinite. E l’8 maggio del 2014, a Londra, la squadra degli sceicchi di Abu Dhabi imbocca quella giusta. Infantino incontra l’amministratore delegato del City, Ferran Soriano, in quello che il manager descrive in una email come «secret meeting». Soriano non ha voluto commentare il contenuto di quella conversazione, mentre il City si è rifiutato di rispondere a domande basate su materiale «che - ci ha scritto - si presume sia stato rubato nel chiaro tentativo di danneggiare la reputazione del Club». Una settimana dopo quell’incontro segreto a Londra, l’accordo confidenziale viene firmato. Il club inglese non ottiene tutto quello che vuole, cioè il completo proscioglimento dalle accuse, ma rispetto alle cifre contenute nel report degli investigatori non può proprio lamentarsi. La Uefa gli concede infatti di registrare, per tre anni, gli stessi contratti incriminati, a un valore di 26 milioni superiore a quello di mercato. E come al Psg impone una multa: 60 milioni di euro, di cui 20 milioni da pagare subito e gli altri 40 da versare in caso di mancato rispetto delle regole durante l’anno successivo.
Com’è finita? A settembre del 2015 la Uefa ha annunciato di aver cancellato la multa al Paris Saint-Germain e al Manchester City. «Entrambi i club», ha scritto l’organizzazione gestita dall’attuale presidente della Fifa, «hanno dimostrato di aver rispettato tutti gli obiettivi del pareggio di bilancio». Avanti tutta con la Champions, allora. Con buona pace di chi, per molto meno, si è dovuto accontentare di guardare lo spettacolo della Coppa dalle grandi orecchie solo in televisione.
Quelli che…sono in fuorigioco.
Luca Valdiserri per il “Corriere della sera” il 20 novembre 2019. La glasnost (trasparenza) di Gorbaciov contribuì alla caduta del Muro di Berlino, la glasnost del designatore Can A, Nicola Rizzoli, vuole far cadere il muro tra allenatori, calciatori, tifosi e arbitri. La riunione plenaria, presente anche la stampa, ribadisce le linee guida e annuncia novità, mentre continuano i lavori per la sala Var unica a Coverciano. La principale è la spiegazione - data quasi sicuramente sul sito dell' Associazione Italiana Arbitri - dei casi più controversi della giornata. Chissà se saranno messi online pure i dialoghi tra arbitro, quarto uomo, Var e l'assistente al Var. Due i concetti fondamentali: 1) «la Var non nasce per eliminare gli errori, ma per restituire credibilità allo sport più amato»; 2) l'arbitro «resta centrale nel processo decisionale e di revisione». Su questo tema è stato graffiante l'intervento di Ancelotti: «L'impressione è che alcune partite siano arbitrate e altre decise dal Var. Accetto l' errore dell' arbitro, non quello del Var che prevarica». Ancelotti aveva in mente il contestato rigore non fischiato sul finire di Napoli-Atalanta, che ha portato al pareggio bergamasco sul ribaltamento. Rizzoli ha ammesso che è stato sbagliato non fermare l' azione e controllare. Così come ha concesso che il rigore in Lazio-Lecce era da ribattere, ma l' errore è stato dell' arbitro mal posizionato e non del Var che è meglio intervenga «solo se un giocatore diventa attivo nell' azione». La difficoltà di cambiare registro «ci ha portato a più sbagli del dovuto». Chiarita la divisione sui falli di mano tra zona rossa (braccio sopra il livello delle spalle), verde (lungo il corpo) e grigia (i casi controversi). Nei primi due casi conta più la geografia, cioè la posizione, nel terzo la dinamica dell' azione. Confermato che qualsiasi tocco di mano o braccio che porta al gol - volontario o meno - porta al suo annullamento. Rizzoli ha chiesto ai capitani delle squadre di impegnarsi di più perché non si vedano più capannelli mentre l' arbitro discute con la Var. Allarme cartellini: +175% di ammonizioni (da 11 a 40) per simulazione rispetto alla stagione scorsa, +167% di cartellini rossi, da 1 a 3 quelli per proteste. «Segnali di un nervosismo che fa male al calcio». La Var sarà introdotta anche in B: lo ha stabilito l' assemblea della Lega, con 19 voti a favore su 20. È probabile che si parta con una sperimentazione offline in 2-3 partite a giornata e poi si passi all' utilizzo vero nei playoff e nel playout. A pieno organico, invece, dalla prossima stagione.
Estratto dell’articolo di Matteo De Santis per “la Stampa” il 20 novembre 2019. […] «Appronteremo un sito per spiegare immediatamente le decisioni prese nei casi più critici», promette Marcello Nicchi, presidente dell' Aia. Una rivoluzione barattabile con la correttezza e la perfetta conoscenza del regolamento altrui. «Saremmo dovuti andare da ogni società a spiegarlo, faccio mea culpa», ammette il designatore Nicola Rizzoli. Ammissione di colpa che si somma agli altri segnali di un cambio di rotta all' orizzonte. […] E così nel giorno in cui Rizzoli snocciola dati, ammette errori di base […] si materializza la scena che potrebbe rottamare l' incomunicabilità tra arbitri e allenatori e/o giocatori: Ancelotti che si alza e chiede «In Napoli-Atalanta avete sbagliato o no?». «Sì, a non interrompere l' azione», la risposta di Rizzoli a proposito del contatto sorvolato tra Llorente e Kjaer, seguito dal pari di Ilicic, che fece infuriare gli azzurri. «Ora me ne potrei anche andare. Io voglio sapere chi arbitra le partite, l'arbitro o chi sta alla Var? Deve decidere l' arbitro: il suo errore lo accetto, quello di chi sta alla Var no», la replica del Carletto non più furioso. «Hai ragione», la chiosa pacificatrice del designatore. Uno spettacolo andato in scena nel giorno in cui anche la Serie B, con 19 voti favorevoli e uno solo contrario, ha decretato l' ingresso della Var: sperimentazione (off line) nel girone di ritorno, entrata in vigore da playoff e playout.
Massimiliano Gallo per ilnapolista.it il 20 novembre 2019. Il 19 novembre 2019 è una data da cerchiare in rosso sul calendario del Calcio Napoli. Il club incassa quella che può essere considerata la vittoria politica più importante del ciclo De Laurentiis. E arriva dopo due settimane di caos assoluto, di guerriglia civile in cui l’indice di autolesionismo è andato ben oltre l’allarme rosso. La speranza è che con oggi si possa voltare pagina, fermo restando le scorie amministrative dell’ammutinamento. Sta di fatto che oggi il Napoli ha ottenuto ragione sull’arbitraggio di Napoli-Atalanta. L’abbattimento di Llorente – da parte di Kjaer – avrebbe dovuto comportare l’interruzione del gioco da parte di Giacomelli. Che avrebbe potuto assegnare il rigore o ripartire con un fallo per l’Atalanta, avrebbe dovuto quindi consultare il Var. E il commento porta la firma del designatore arbitrale Nicola Rizzoli che ha ammesso: “Sì, abbiamo sbagliato”. Con buona pace della Gazzetta dello Sport che, unica e sola, ha sostenuto intrepida che l’arbitraggio di Giacomelli era stato più che sufficiente. Lo diciamo con la massima simpatia possibile, la speranza è che il quotidiano principe del giornalismo sportivo italiano – dopo qualche scivolone di troppo – colga l’occasione per superare il momento di sbandamento e torni sulla retta via. Oggi, nel forum con il designatore arbitrale Nicola Rizzoli, è stata fondamentale la figura di Carlo Ancelotti molto più che allenatore del Napoli, ambasciatore e ministro degli esteri del Napoli. Che ha dimostrato ancora una volta il proprio spessore politico. Dopo aver praticamente da solo posto all’attenzione del calcio italiano la vergogna, con il solito savoir faire ha inchiodato l’ex arbitro alle proprie responsabilità e lo ha costretto ad ammettere che, sì, Giacomelli ha commesso un grave errore in Napoli-Atalanta. Ovviamente c’è anche dell’altro. C’è tutto il lavoro politico che il Napoli ha messo in piedi da quella sera. A partire dalle uscite pubbliche di Aurelio De Laurentiis, seguito da Ancelotti (che venne addirittura espulso, peraltro per motivi inspiegabili), e infine dal capitano Lorenzo Insigne. Lavoro che è poi proseguito dietro le quinte. De Laurentiis si è fatto sentire, eccome, nel cosiddetto Palazzo. A partire dalla Federcalcio, ovviamente. E oggi è passato all’incasso. Ennesima dimostrazione che quando si marcia uniti nella stessa direzione, i risultati si raggiungono. Ovviamente, visto tutto quello che nel frattempo è accaduto, la vittoria politica non può essere sbandierata come avrebbe meritato. Perché intanto, come ben sappiamo, al Napoli è accaduto di tutto. Con il ritiro, il no politico ma non disobbediente di Carlo Ancelotti, l’ammutinamento, la serata di forte tensione negli spogliatoi. Il Napoli ha gettato dalla finestra la battaglia politica che aveva cominciato e ha spalancato al nemico le porte della città. Va anche detto che nel computo dei premi-partita, De Laurentiis aveva deciso di considerare quella con l’Atalanta una vittoria. Quindi da pagare. Questo prima dell’ammutinamento. Nel frattempo, il Napoli ha subito ulteriori torti arbitrali, come ad esempio il mani in area in Napoli-Genoa. Ma chi mai avrebbe avuto il coraggio di dire qualcosa, visto tutto quel che era successo? Chi mai avrebbe potuto gridare all’arbitro mentre in casa ci si picchiava con i forconi e si dava fuoco all’intero palazzo? La giornata di oggi deve segnare una nuova pagina per il Calcio Napoli. Ovviamente non si può amnistiare quel che è accaduto. Chi ha sbagliato, pagherà. I calciatori chiederanno scusa e si assumeranno le conseguenze amministrative del proprio gesto. Stabilite ovviamente dall’arbitrato. Ma il Napoli deve guardare oltre. Da stasera ha la consapevolezza che non era impazzito la sera di Napoli-Atalanta. È impazzito qualche giorno più tardi. Ma ora deve riprendere a guardare avanti.
Fuorigioco. Pubblicato lunedì, 12 agosto 2019 da Carlos Passerini su Corriere.it. Sono fantasmi. E si sa che i fantasmi, quelli veri, non si danno pace. Sono inquieti, tormentati. Soli. E infelici. Come José Mourinho. A confessarlo è stato lui stesso, quando qualche giorno fa gli hanno chiesto conto della sua prima estate senza panchina: «Ho molto tempo libero, ma non mi diverto, non ci riesco. Ho il fuoco dentro. I miei amici mi dicono di godermi l’estate. Ma mi manca il mio calcio, l’impegno, la sfida. Con gli altri, con me stesso». Per compensare il vuoto, e probabilmente anche per combattere quell’umanissima paura d’essere dimenticati, di uscire dal giro che conta, di diventare un allenatore anzi un uomo qualunque, lo Special One ha accettato la proposta di Sky Sport Uk di commentare la Premier. Avrà perso appeal, non l’attitudine alla polemica raffinata: il suo fulminante pronostico sul campionato («vincerà uno fra City, Tottenham, Liverpool e le riserve del City») è già cult. Resta il fatto che un Mou in fuorigioco fa un certo effetto. Possibile che, a soli nove anni dal capolavoro del triplete, José sia costretto a rilasciare interviste un giorno sì e l’altro anche per autopromuoversi? Come uno qualunque? Si può passare da Speciale a ordinario in meno di dieci anni? Cosa è successo? Non è più di moda? Forse, come sostengono in molti, il suo calcio vincente ma speculativo oggi non risponde più alle esigenze di un sistema nel quale i grandi club non vogliono più solo vincere trofei, ma pianificano la creazione di un modello, di un brand. «Se ci pensate, è esattamente quello che è avvenuto alla Juventus» osserva Alessandro Altobelli. «Vincere non è più sufficiente, serve di più, oggi c’è anche l’immagine, il marketing, per stare al passo con i tempi devi proporre un’idea, un progetto, un’immagine di te». Che deve essere commercialmente efficace. Un brand, appunto.
La vicenda di Allegri è eloquente. Con Sarri, Madama cerca un altro modo di vincere. Un altro modo di essere. L’effetto collaterale, e anche un po’ surreale, è che così uno come Max passa dai cinque scudetti consecutivi (più le due finali di Champions) a uno status di disoccupato. Che, a differenza di Mou, sta però vivendo in maniera più serena. O così almeno racconta chi gli sta vicino: fra una vacanza e l’altra, rigorosamente al mare, sistema la nuova casa di Brescia dove andrà a vivere con la sua Ambra Angiolini. Domenica scorsa ha compiuto 52 anni e la Juventus gli ha fatto gli auguri sul sito ufficiale.
Allegri, Spalletti, Gattuso: tutti fermi. Significativo che siano a spasso ben tre allenatori arrivati nei primi cinque posti nella stagione scorsa: la prova che siamo di fronte a qualcosa di simile a una rivoluzione. Dopo la tormentata esperienza interista, conclusa comunque con lo sbarco in Champions due volte su due, Luciano si è consolato all’Aquafan di Riccione: era lì l’altro giorno, abbronzato come tutto l’anno. Rino invece scalpita. I 18 mesi rossoneri l’avevano svuotato ma ora è pronto: il suo ex compagno Beckham lo sta valutando per il suo Inter Miami, ma lui preferirebbe una soluzione europea da subentrato. Tanto prima o poi qualche panchina salta. Basta aspettare. Anche se poi, qualche rischio, quando si arriva in corsa, c’è. Questione di scelte, insomma. Secondo gli allibratori i primi esonerati saranno Juric, Liverani e Corini. Verona, Lecce, Brescia: le tre neopromosse. Tutto nella norma. Osservatori interessati? Gli italiani liberi sono Ranieri, Pioli, Prandelli, Nicola, Guidolin, De Biasi.
Anche all’estero i fantasmi non mancano. Dopo l’epopea Arsenal, Wenger vuole allenare ancora. Idem Laurent Blanc, fermo però già da tre anni. Fino a qualche settimana fa c’era anche Rafa Benitez, che però ha poi accettato la proposta del Dalian Yifang. Pure andando in Cina si rischia di diventare fantasmi, vero. Ma con uno stipendio 14 milioni di euro l’anno, meno inquieti.
· Zdenek Zeman.
Ugo Trani per “il Messaggero” l'11 ottobre 2019.
Sette partite di campionato e due di coppe europee sotto lo sguardo di Zeman: il nuovo avanza o il calcio è sempre lo stesso?
«Ormai non si inventa più niente. Questo sport è più fisico e più aggressivo. E sempre meno tecnico. A interpreti di qualità vengono addirittura cambiate le caratteristiche. Non faccio nomi, guardate le partite e capirete».
Sarri è già in testa: ha fatto prima del previsto?
«È bravo. Anche se poi alla Juve hanno vinto tutti. Si è adattato ai giocatori. A me piace. Non è però più quello di Napoli».
Domanda al contrario: chi è in grado di non far vincere il nono scudetto di fila alla Juve?
«L'Inter. Oppure il Napoli che però non ha segnato per due partite di fila. Mai successo. Da Ancelotti ci si aspettava di più: l'anno scorso ha conosciuto i calciatori. Adesso tocca a lui».
L'Inter è davvero così distante dai bianconeri?
«La rosa della Juve è superiore. Ma Conte se la gioca sul fisico, ha una buona squadra e vuole che i giocatori si comportino come era lui in campo. Un cagnaccio. Lo apprezzo. É tra i pochi che riesce a guidare un gruppo. Gli altri, invece, sono gestori».
Sarri e Conte, con chi sta?
«Sarri, ma di Napoli. Non credo che a Torino, però, rinunci al suo credo. Ci vuole più tempo. Chiede di giocare a un tocco e bisogna quindi imparare il resto. Come muoversi in campo».
Conosce bene Immobile: che cosa accade con Inzaghi?
«L'ha detto Ciro. Lui si sentiva bene ecco perché non voleva uscire. Io, se lui non zoppica, non lo levo mai. E' sempre lo stesso: generoso, lottatore e con i tempi giusti. E fa gol. È capocannoniere, nonostante si sia già mangiato diverse reti».
Non conosce Fonseca: ha capito come vuol far giocare la Roma?
«No. Dal vivo sono andato all'Olimpico solo per la gara contro l'Atalanta. Non ho visto il calcio offensivo e aggressivo. Parlare è un conto, poi mettere in pratica sempre un altro. E l'Ucraina, come campionato, non è l'Italia. Lui sta cambiando tanto, anche il sistema di gioco. Quando lo ha fatto Di Francesco, alla fine ha perso il posto».
Eppure all'inizio è stato accostato proprio a Zeman: che cosa ha pensato in quei giorni?
«La solita offesa al mio gioco. Lo dicevano solo perché prendeva troppi gol».
Perché Inzaghi non riesce a decollare?
«La Lazio è discontinua. Buon calcio, ma a tratti».
Come mai la Roma passa da un infortunio all'altro?
«A parte i traumi di gioco, la principale causa è la mancanza di preparazione in estate. Dopo tre giorni si gioca, magari in America. Si chiede subito uno scatto. Così ti rompi. Servono quaranta giorni per mettere la base, distribuiti tra lavoro muscolare e organico. Ora si mischia tutto. E lo stress fisico, prima o poi, lo paghi».
Giusto esonerare Giampaolo e Di Francesco?
«No. Ma è sempre così. Le società li scelgono, ma poi non gli danno il tempo di lavorare. Il Milan qualche punto l'ha fatto, la Sampdoria è in una situazione più preoccupante. Ma Eusebio se avesse saputo che questa era la situazione non sarebbe andato. Gli hanno ceduto i migliori e ancora oggi non si sa di chi è la società».
Quale squadra di serie A è divertente da vedere?
«In Italia nessuna. Inter-Juve è stata una bella partita. Caso isolato. Spero ce ne siano altre. Io guardo il Liverpool. Condivido lo spirito di Klopp. Calcio aggressivo, veloce e di qualità. Loro sì, giocano. Anche lì la partita inizia sullo 0 a 0, ma le squadre vanno in campo per cambiare il risultato. E vincere. In Premier anche le ultime della classifica ci provano. E capita che battano le prime. Qui, se sei inferiore non giochi. A parte il Lecce di Liverani. Vediamo se si salverà».
L'Italia domani gioca a Roma contro la Grecia: è a punteggio pieno e con tre turni d'anticipo si può qualificare per Euro 2020. Come valuta il lavoro di Mancini?
«Propositivo. Ha inciso il suo ruolo, da calciatore. Bravo a dar spazio ai giovani, anche se qualche convocazione stona. Ma non può fare diversamente: la Juve ha un titolare, l'Inter un paio. Deve quindi scendere di livello in campionato, chiamando gente con meno esperienza. I grandi club schierano quasi esclusivamente gli stranieri».
La Roma e la Lazio sono in corsa per il quarto posto: quale delle due è favorita?
«Possono farcela entrambe. Ora Inzaghi ha qualche chance in più, essendo a Roma da più anni. La squadra è collaudata. Fonseca ancora deve scegliere la formazione e su chi puntare. Ma nella sua rosa ha sicuramente più qualità».
E l'Atalanta?
«Buona squadra. Ha annientato la Roma che ha avuto solo chance casuali e non costruite. Gasperini punta sul duello fisico. Ma il gruppo è formato da stranieri. E solo due top: Gomez e Ilicic».
Crede che Totti e De Rossi, prima o poi, torneranno alla Roma?
«Penso di sì, ma dovranno esserci le condizioni giuste. Francesco ha dovuto dire basta perché lo utilizzavano solo a scopo pubblicitario. È triste che sia finita così perché per anni è stata la Roma di Totti. Oggi è la Roma di nessuno: il presidente non si sa dove sia. Chi la rappresenta? A Francesco auguro di trovare un ruolo in cui riesca a divertirsi e dare il suo contributo. Non lo vedo allenatore. Daniele, invece, sì. Ha voglia di farlo».
A proposito di suoi ex giocatori: che cosa succede a Insigne?
«Lorenzo rimane calciatore importante. Napoli è più difficile fuori e in campo ne risenti. Se gioca nel suo ruolo, è sempre tra i migliori».
Il calciatore italiano che finora ha fatto meglio?
«Barella. L'ho conosciuto nella primavera del Cagliari. Espulso in ogni partita e diversi rigori sbagliati. Me lo ricordo per quanto menava. E per la qualità».
E Zaniolo?
«Ha forza fisica. Ma è centrocampista. Mezzala destra o sinistra».
C'è uno straniero, tra quelli appena arrivati, ad aver incuriosito Zeman?
«Mi intriga Leao. Mi aspetto tanto, ha qualità. Vediamo come si ambienta. Bisogna aver pazienza, è successo anche con Maradona, Platini e Zidane. Gli stranieri sono, però, troppi e penalizzano il calcio italiano».
Ha lavorato con il presidente Pallotta: a distanza di anni, come mai non è riuscito ancora a conquistare la tifoseria?
«Perché ha ceduto i giocatori con cui avrebbe vinto lo scudetto. E facile, con quei campioni».
Anche il presidente Lotito è criticato: non ha investito come avrebbe voluto la gente?
«Ha poca ambizione, come del resto la tifoseria. Si accontentano. La Lazio, però, è Lotito».
La top 11 di Zeman, usando solo i giocatori che ha allenato?
«Lasciamo stare. Come faccio a scegliere come play tra Di Biagio e Verratti?. Ho avuto grandi in ogni ruolo».
E lo straniero più bravo?
«Stessa risposta: Aldair, Cafu, Boksic e anche altri. Chi prendo?».
C'è un suo ex giocatore che ha fatto una carriera migliore di quanto si aspettasse?
«Tommasi. Non mi aspettavo che diventasse così forte. Corsa, personalità e intelligenza».
Chi è il miglior tecnico italiano?
«Mio figlio Karel, ma non allena».
A 72 anni quale squadra avrebbe voglia di guidare?
«Non i campioni del mondo, ma in un club dove l'allenatore consiglia i giocatori. E a loro insegna. Ora i presidenti fanno la squadra con i procuratori. Quando alla Roma mi mostrarono cinquanta centrali difensivi, in dieci secondi scelsi Marquinhos. E dicono ancora che lo hanno preso loro. Lo misi terzino, come Nesta. Quando sono giovani, di lato fanno meno danni. Ma avete visto quanto è diventato forte Alessandro. Adesso l'altro fa addirittura il mediano in mezzo Ma sa che cosa fare: quando conquista la palla, la appoggia a Verratti».
Torna sempre ai suoi ragazzi: perché non ricomincia dal settore giovanile?
«A Palermo feci salire sessanta giocatori nel professionismo. Ora ti impongono gli stranieri. Viene privilegiato il business. Io penso sempre alla prima squadra. E alla Nazionale. Con la Lazio diedi otto giocatori a Sacchi. E con la Roma ho sempre avuto tanti azzurri».
Franco Ordine per “il Giornale” il 12 agosto 2019.
Buongiorno signor Zeman, come va?
«Sono al mare a riposare le vecchie ossa».
Dove si trova di bello?
«In Sicilia, a Mazara del Vallo».
Non è stanco di fare vacanza?
«A quelli che sostengono che stanca stare al mare avrei voglia di chiedere: ma avete mai lavorato?»
Mazara è famosa per la sua flotta...
«Il tempo ha disperso anche questa meraviglia. Una volta c' erano 200 pescherecci che uscivano tutti i giorni, oggi sono ridotti a 60».
Non è stufo di starsene in disparte rispetto al calcio di casa nostra?
«Voglia di rimettermi al lavoro ne ho: posso garantirlo. Ho anche parlato con tante persone ma ho un difetto inguaribile: vorrei fare calcio come piace a me. E invece, qui in Italia, ci sono interessi di altra natura che prevalgono, interessi economici intendo».
Parliamo allora di questo calcio che non le piace: come giudica il ritorno dall' estero di molti allenatori di valore?
«È un evento da considerare positivo ma a una sola condizione: all' estero, e in particolare in Inghilterra, Sarri e Conte per esempio, hanno potuto lavorare con le loro idee e costruito le squadre secondo i rispettivi principi. Da queste parti non sarà così scontato raggiungere gli stessi obiettivi».
Allude per caso ai primi mal di pancia coincisi col debutto della Juve di Sarri nelle amichevoli?
«Sarri deve scalare una montagna. È arrivato in una squadra che è abituata a vincere in un modo completamente diverso dal suo e di recente ha dominato puntualmente la scena italiana. Se il nuovo tecnico non dovesse partire col piede giusto, immagino già i problemi, i rimpianti dei tifosi e le polemiche dei critici».
Idem per Antonio Conte all' Inter?
«Conte sta allestendo la nuova Inter utilizzando le proprie convinzioni e la sua idea di calcio. Ha un ostacolo da superare: deve riuscire a trascinare tutto l' ambiente, convincere il gruppo a seguire i suoi insegnamenti e i suoi metodi d' allenamento. A sentire le voci che girano, dello spogliatoio interista non si parla benissimo in fatto di applicazione».
Ci sarà qualcuno, caro Zeman, che le suggerisce un pizzico di ottimismo?
«Sì ed è Marco Giampaolo. Perché il Milan, che pure ha una storia gloriosa, non ha l' obbligo di vincere e può perciò partire senza grandi clamori puntando quasi tutto sul gioco e sull' insegnamento».
Bene, uno l' abbiamo trovato. Di Fonseca nuovo tecnico della Roma che referenze ha?
«In questo periodo è complicato da valutare. Bisogna innanzitutto vedere se riesce a costruire la squadra oppure gliela stanno costruendo gli altri. Non mi fido di quello che leggo perché ai primi d' agosto sono tutti convinti di aver lavorato bene e di poter vincere. Poi arriva il campionato e si ascolta un' altra musica».
A proposito di Roma, che effetto le ha fatto l' addio, polemico il giusto, di Francesco Totti?
«Sono rimasto molto dispiaciuto perché si è trattato di uno che ha vissuto una vita nella Roma e ne ha scritto le pagine più esaltanti. Mi viene perciò da pensare che, tutto sommato, ha fatto anche bene visto che non poteva decidere, non poteva incidere e in pratica si sentiva inutile».
Stesso destino è capitato a De Rossi...
«Hanno avuto la stessa storia più che lo stesso destino. Con una differenza che non possiamo dimenticare. De Rossi ha avuto problemi fisici: nell' ultimo torneo ha giocato poco. Perciò credo che la società l'abbia lasciato partire. Di sicuro la sua assenza peserà nello spogliatoio perché lì De Rossi era una risorsa formidabile».
Lei è uno che ha lavorato bene con i giovani, pensiamo alla covata del Pescara: Verratti, Immobile, Insigne. Cosa pensa della nuova generazione convocata da Mancini?
«Mi aspettavo molto di più dall' under 21 nel recente campionato europeo. Si è toccato con mano il limite di questa nuova leva: la mancanza di esperienza ad alto livello. Prendete Zaniolo: cosa si può pretendere da un giovanotto che fino a qualche mese prima giocava nella primavera dell' Inter? Prendiamo Chiesa: è anche lui un vero talento. Alla Fiorentina può fare la differenza, in una squadra di vertice non saprei».
Il mercato è partito col botto ma poi si è un po' bloccato: c' è qualche nuovo arrivo che le ha suscitato qualche emozione?
«De Ligt, il difensore dell' Ajax acquistato dalla Juventus: tutto il mondo ne parla benissimo. E io penso che dopo Koulibaly sia il più forte difensore in circolazione. Sa giocare a calcio, riesce a far partire l' azione e magari a fare anche qualche gol che non guasterebbe mai».
Dica la verità Zeman: c' è qualche squadra che le piacerebbe allenare oggi?
«La Lazio».
Perché mai?
«Perché ha un gruppo composto da calciatori non famosi, non strapagati, da formare. E io in queste condizioni riesco a dare il meglio».
A proposito della Lazio, la convince il metodo Lotito?
«Sì. Se non può partecipare alla lotta per lo scudetto, mi sembra intelligente condurre la società in modo tale da vincere qualche trofeo, come appunto ha fatto in questi anni, senza appesantire il bilancio con spese fuori controllo».
Lei non è mai stato tenero con gli arbitri: ora che c' è il var il giudizio sulla categoria e sul mezzo tecnologico è cambiato?
«In certi momenti serve molto, in altri il suo uso diventa discutibile».
A cosa si riferisce?
«A un derby di Milano in cui venne fischiato un calcio di rigore durante una mischia da calcio d' angolo. Mi va bene ma a una condizione: che si fischino tutti i rigori commessi durante i calci d' angolo. E in Italia ce ne sono almeno 5 durante ogni calcio d' angolo».
Che effetto le fa vedere il Palermo che ricomincia dalla serie D?
«Provo un vero dispiacere. Io ho vissuto 15 anni a Palermo, lì ho cominciato la mia carriera. Forse bisognava intervenire qualche anno prima, magari quattro. Ricominciare da capo non è facile anche se ti chiami Palermo».
Per chiudere Zeman, chi vincerà il campionato?
«Sulla carta la favorita è quella di sempre: la Juve. Poi parlerà il campo e potrebbe riservare qualche sorpresa perché nel frattempo la concorrenza ha accorciato la distanza. Bisognerà vedere se oltre al bagaglio tecnico, gli altri concorrenti sono riusciti a guadagnare la stessa mentalità della Juve».
Buone vacanze, signor Zeman.
· Non solo Allegri e Mihajlovic, guarda le sexy figlie dei mister.
Non solo Allegri e Mihajlovic, guarda le sexy figlie dei mister. Da Valentina alle sorelle Virginia e Vicky, quanti follower nel pallone, scrive Tgcom24 il 14 marzo 2019. Belle, sexy e molto social. Le figlie dei mister conquistano i follower a suon di foto intriganti e di storie imperdibili. Ne sanno qualcosa Valentina Allegri, diventata single da poco che si è concessa una vacanza al caldo. E che dire delle figlie di Sinisa Mihajlovic? Per loro l'Isola dei famosi è stato solo l'ennesimo colpo per accrescere i fan di Virginia e Vicktorija. Poi c'è Matilde Mourinho, Katia Ancelotti, le figlie di de Boer. Insomma tutte pronte ad “allenare” i follower...Virginia e Vicktorija Mihajlovic sono state concorrenti dell'Isola dei famosi 2019: star del web sono molto legate a papà Sinisa. Per loro pagine social ricche di scatti mozzafiato e inquadrature imperdibili da far andare nel pallone i fan. Dopo l'impresa di martedì sera, non solo mister bianconero Allegri è cliccatissimo, ma pure la figlia Valentina, già reginetta dei social. Da poco tornata single dopo la storia d'amore con il cantante del trio Il Volo, Piero Barone, fresca di laurea, Valentina ha raccontato in tv di andare perfettamente d'accordo con la nuova compagna di papà, Ambra Angiolini. Anche Matilde Mourinho è scatenata su Instagram. Indimenticabile è la sua scollatura sfoggiata qualche anno fa al fianco di un imbarazzato papà Josè durante un red carpet ai Gq Awards. Social e mondana anche Katia Ancelotti, figlia di Carlo, come pure le meravigliose figlie di Frank de Boer, allenatore della Atlanta United ed ex calciatore olandese. Sfoglia le pagine di Beau, Romy e Jacky...
Non solo Allegri e Mihajlovic. Matilde Mourinho: la vita della figlia di José tra sfilate e viaggi da sogno. Laureata al London College of Fashion, 22 anni, si sta facendo notare sui social. Con lei c'è (quasi) sempre il fidanzato Danny, scrive Federica Bandirali il 15 marzo 2019 su Il Corriere della Sera.
Da Chanel. Ha un cognome "ingombrante" ma che sfoggia con orgoglio: Matilde Mourinho, 22 anni, figlia del tecnico portoghese Josè, esonerato dal Manchester United a dicembre 2018, sta conquistando il popolo social con la sua personalità e il suo stile. Il suo account @matildefmf ha quasi raggiunto i 33 mila follower e dando un occhio alle sue foto si capisce la sua passione per la moda, mondo in cui è decisamente ben ambientata. È stata in prima fila all'ultima sfilata parigina di Chanel, quella in ricordo di Karl Lagerfeld. Una presenza ovviamente ben documentata sul suo Instagram.
Con il papà. Nel 2015 Matilde si era presentata con il padre sul red carpet del GQ British Awards: la sua scollatura non era passata inosservata a fotografi e curiosi. Appare poco accanto al padre, ma è con lui quando serve.
Selfie. Matilde, sempre con abiti e accessori di tendenza, è una grande amante dei selfie, come un po' tutte le sue coetanee. Certo è che le location scelte dalla giovane sono spesso luoghi lussuosi.
Studentessa modello. Matilde Mourinho si è laureata nel luglio del 2018 al London College of Fashion: sembra che i suoi compagni di corso l'abbiano soprannominata “Special sexy” parafrasando la dicitura “Special One” del suo famoso papà.
Influencer. Lei, in attesa di capire quale sarà il suo futuro lavorativo, si è buttata sui social e anche le pose, come si vede dalle sue foto, sono da vera influencer. Compresa quella per il 22 esimo compleanno.
Make up e hair styling. Nelle foto postate, Matilde è spesso truccata e curata nell'acconciatura come una vera influencer. Il suo stile è giudicato "trasversale" perché passa da un look classico a uno decisamente più audace nell'arco anche di una sola sera.
Viaggi. Non solo moda ma anche viaggi in giro per il mondo. Dalle Maldive a Dubai a Los Angeles in hotel di lusso: una vita, quella di Matilde, sotto i riflettori e che suscita qualche inevitabile invidia da parte degli haters.
Beauty routine. Non rinuncia alla beauty routine nemmeno quando è in giro per il mondo: con gli iconici braccialetti a chiodo, eccola applicarsi argilla naturale. Ideale per rigenerare la pelle del viso.
Con il fidanzato. Accanto a lei, nella vita di tutti giorni così come alle sfilate o nei suoi viaggi, c'è Danny Graham, un giovane rampollo inglese che, dopo un periodo da latin lover, pare abbia messo la testa a posto proprio accanto alla figlia di Mou.
Logo addicted. I suoi abiti e accessori preferiti sono quelli con il logo in bella vista. I suoi outfit sono sempre con un dettaglio dell'ultima tendenza. Ama i jeans.
· Il Guerriero Mihajlovic.
Mihajlovic dopo il trapianto: «Ho avuto medici e infermieri straordinari. Mi sono rotto di piangere». E si commuove. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 da Corriere.it. «In questi 4 mesi difficili ho conosciuto medici straordinari, infermieri che mi hanno curato, supportato e sopportato, perché so di avere un carattere forte, a volte difficili, ma sono stati meravigliosi con me. Ho capito subito di essere nelle mani giuste, senza di loro non avrei potuto fare questo percorso che secondo me è andato molto bene». Lo ha detto Sinisa Mihajlovic, in conferenza stampa a Casteldebole, facendo il punto sulle sue condizioni di salute dopo il trapianto di midollo osseo a cui è stato sottoposto per curare la leucemia diagnosticata a inizio stagione. La conferenza è stata interrotta da un blitz dei suoi calciatori, che l’allenatore ha bonariamente ripreso: «Dovrebbero essere in campo, fan di tutto per non allenarsi». Il serbo, noto per essere un duro, non ha comunque avuto problemi ad ammettere di essere rimasto inizialmente sconfortato: «Ho pianto e non ho più le lacrime. Mi sono rotto le palle di piangere», commuovendosi nuovamente. Uno stato d’animo che è stato confortato dal primario di ematologia del Sant’Orsola, Michele Cavo, che ha ribadito che «le lacrime sono catartiche». La strada per la completa guarigione, da un punto di vista medico, non è completata. Cavo ha infatti voluto precisare: «Abbiamo ancora bisogno di tempo per capire la risposta finale ottenuta, per cercare di monitorare Sinisa e le possibili complicanze. Ma siamo felici di averlo restituito in questa ottima forma a tutta la comunità». Serve ancora cautela, infatti: per valutare la guarigione completa da una leucemia di questo tipo, infatti, occorrono cinque anni. Ma un altro degli ematologi del Policlinico emiliano, Francesca Bonifazi, assicura: «Già dopo due anni il rischio di recidiva è minimo». Mihajlovic ha poi parlato delle cure: «Prendo anche 19 pastiglie al giorno, mi sento stanco, ieri ho anche preso un giorno libero. Spero di uscire da questa vicenda come un uomo migliore. Prima la pazienza non era il mio forte, ora mi godo ogni minuto della giornata, vedo tutto in un’altra maniera. Ma finché potrò esserci, ci sarò sempre, sarò più presente che in questi quattro mesi, ma con prudenza, perché un po’ il cuore dovrò metterlo da parte per curarmi». E riguardo all’annuncio della malattia e all’impatto sulla squadra, si ritrova la vecchia grinta, e Sinisa spiega con veemenza: «Sapevo che avrebbe condizionato la squadra, la classifica, le partite, ma non volevo che diventasse una scusa. Io ho lottato ogni giorno e fatto forse cose che nessun altro avrebbe fatto: ho cercato sempre di essere presente con telefonate, Skype, per andare allo stadio e alle partite. E speravo di vedere in campo un po’ di forza e un po’ del sacrificio che io facevo tutti i giorni, e questo non è sempre successo. Quindi sono incazzato nero per i risultati, il comportamento della squadra, il gioco, il non dare il 100%. Adesso dobbiamo riprendere a fare punti, sappiamo qual è la strada giusta, tutti. E chi non riprende a dare tutto, farà i conti con me». Nella stessa conferenza stampa l’amministratore delegato del Bologna Claudio Fenucci ha aggiunto: «La vicenda di Sinisa ha dato un aspetto diverso alla comunità del calcio. In qualsiasi stadio abbiamo avuto messaggi di solidarietà, di calore, rivolti alla persona e non solo al calciatore. È un messaggio dato a tutti quelli che soffrono».
Da repubblica.it il 29 novembre 2019. In questi 4 mesi difficili ho conosciuto medici straordinari, infermieri che mi hanno curato, supportato e sopportato, perché so di avere un carattere forte, a volte difficili, ma sono stati meravigliosi con me. Ho capito subito di essere nelle mani giuste, senza di loro non avrei potuto fare questo percorso che secondo me è andato molto bene". Lo ha detto Sinisa Mihajlovic, in conferenza stampa a Casteldebole, facendo il punto sulle sue condizioni di salute dopo il trapianto di midollo osseo a cui è stato sottoposto lo scorso 29 ottobre. "Sono stati quattro mesi e mezzo tosti, sono stato rinchiuso in una stanza di ospedale, da solo. Il mio più grande desiderio era di prendere una boccata d'aria fresca e non potevo farlo. Non mi sono mai sentito un eroe, ma un uomo, sì forte, con carattere, che non si arrende mai, ma sempre un uomo con tutte le sue fragilità. Queste malattie non si possono sconfiggere solo col coraggio ma anche con le cure. E voglio dire a tutti quelli che sono malati, di leucemia o di qualche malattia grave, che non devono sentirsi meno forti se non affrontano la malattia come l'ho affrontata io. L'unica cosa che non devono perdere mai è la voglia di vivere, di lottare". Affiancato dall'ad Claudio Fenucci ("Sono strafelice di averlo qui con noi e di averlo rivisto in campo con la tuta del Bologna") e accolto anche dalla squadra ("Dire che ci sei mancato è poco, siamo stracontenti che sei tornato. Grazie di essere tornato", le parole di Blerim Dzemaili a nome del gruppo), dopo aver 'rimproverato' i giocatori ("Ma non dovevano essere in campo ad allenarsi? Mi fanno sempre delle sorprese...Fanno di tutto per non allenarsi"), Mihajlovic ha voluto ringraziare tutti per "le dimostrazioni di vicinanza e affetto che ho sentito in questi ultimi 4 mesi. L'ultima volta ci siamo sentiti il 13 luglio, quando ho annunciato la mia malattia. Pensavo fosse giusto, dopo il percorso fatto, parlare qui assieme ai medici che mi hanno curato per spiegare il mio stato di salute e quello che si deve fare per il futuro". "Per noi il cerchio ancora non si è chiuso, abbiamo ancora bisogno di tempo per capire la risposta finale ottenuta, per cercare di monitorare Sinisa e le possibili complicanze. Ma siamo felici di averlo restituito in questa ottima forma a tutta la comunità" ha detto Michele Cavo, direttore del reparto di Ematologia del Policlinico Sant'Orsola. "Sin dall'inizio abbiamo tracciato la strada maestra, consapevoli del fatto che sarebbe stato un percorso complicato, con un caso clinico complesso da affrontare con professionalità e cautela - racconta affiancato dal tecnico serbo - E già dopo il primo ciclo abbiamo ottenuto la remissione completa". "Da non tifoso di calcio ho visto però un affetto trasversale che gli ha dato forza - ha aggiunto il professor Cavo - Sinisa ha sempre visto le cose in positivo e si è sempre fidato ciecamente di noi, anche quando i no gli stavano stretti si è adeguato". "C'è stato l'attecchimento del midollo osseo, un primo passo fondamentale senza il quale gli altri passi non possono succedersi. E c'è assenza di complicanze, che non è poco" ha spiegato Francesca Bonifazi, medico ematologo del Sant'Orsola. "Le condizioni sono soddisfacenti, il decorso post-operatorio è regolare ma occorre cautela. I primi 100 giorni sono i più delicati, il sistema immunitario è ancora molto fragile. Il ritorno alla vita normale avverrà gradualmente in funzione di tanti fattori, valuteremo di volta in volta la possibilità che Sinisa possa essere presente". La dottoressa Bonifazi precisa che "il bollino del guarito si può dare dopo cinque anni" ma già dopo due anni il rischio di recidiva è minimo.
«Mihajlovic, eseguito il trapianto di midollo osseo». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 su Corriere.it da Arianna Ravelli. Lo riferisce il sito del club che diffonde una nota dell’Ospedale Sant’Orsola: «Le condizioni del paziente sono soddisfacenti». L’allenatore del Bologna Sinisa Mihajlovic è stato sottoposto a un trapianto di midollo osseo, da donatore non familiare, il 29 ottobre. Lo riferisce il sito del club rossoblu diffondendo una nota dell’ospedale Sant’Orsola: «Le condizioni generali del paziente e gli esami ematologici sono soddisfacenti». È un altro passo, e un altro sospiro di sollievo. La notizia girava a Bologna ma per delicatezza tutti hanno aspettato che le cose diventassero ufficiali. Un altro piccolo segno di affetto per Sinisa Mihajlovic che, in questa strana e tremenda stagione, ha ricevuto però mille segnali di vicinanza, dalla processione dei tifosi al Santuario, alla «serenata» della sua squadra che, dopo la vittoria a Brescia, ha fatto deviare il pullman fin sotto la finestra dell’ospedale dove Sinisa era ricoverato, alle parole dei colleghi che lo vorrebbero candidare per la Panchina d’Oro. Intanto, Sinisa entrando e uscendo dall’ospedale, ha continuato ad allenare (il Bologna è 15° con 12 punti) e a pianificare il futuro (per esempio corteggiando il suo amico Zlatan Ibrahimovic per farlo andare a Bologna). Il 20 novembre l’allenatore serbo aveva terminato il terzo ciclo di cure contro la leucemia al Sant’Orsola. La moglie Arianna su Instagram aveva pubblicato una foto sorridente insieme al marito con il messaggio: «Più bella cosa non c’è. Back Home». Giovedì poi Mihajlovic aveva seguito l’allenamento della squadra. Prima della seduta il tecnico, arrivato a Casteldebole intorno a mezzogiorno, aveva parlato ai suoi ragazzi, a cui, com’è inevitabile, in certi momenti è mancato. «Il nostro problema non è non avere l’allenatore, è non avere Sinisa Mihajlovic. A tavola, vicino a noi, nella vita, con la famiglia», le parole, che spiegano tutto, del direttore tecnico del Bologna Walter
Mihajlovic sottoposto a trapianto, il messaggio tenero della figlia Virginia: «Mi scoppia il cuore». Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. Sinisa Mihajlovic è stato sottoposto a trapianto di midollo osseo: l’annuncio è arrivato venerdì dall’ospedale Sant’Orsola di Bologna, rilanciato anche dal club. Le notizie sono apparse rassicuranti: «Le condizioni generali sono soddisfacenti», assicurano i medici. Il tecnico del Bologna ha poi completato anche il terzo ciclo di chemioterapia e si sta prendendo qualche giorno di riposo in famiglia. Anche se lui infatti vorrebbe andare in panchina per la sfida con il Parma di domenica alle 12.30, i medici lo hanno sconsigliato: le previsioni meteo annunciano pioggia e Mihajlovic deve assolutamente evitare di ammalarsi prendendo un’influenza.Subito dopo l’annuncio dell’avvenuto trapianto, è arrivato anche il messaggio della figlia Virginia, che su Instagram ha pubblicato un tenero scatto d’infanzia insieme al papà: «E quanto ti penso mi scoppia il cuore», ha scritto. In un’intervista a Verissimo, Virginia, con la sorella Viktorija, aveva detto che «paradossalmente è lui che dà forza a noi. In questi giorni in cui è stato a casa, in alcuni momenti, quasi mi dimenticavo che fosse malato perché non mostra mai la sua sofferenza. È sempre lo stesso, si comporta come sempre».
“PAPÀ SINISA È UN GUERRIERO: È LUI A DARCI FORZA”. Da Il Messaggero il 15 settembre 2019. La vicenda della malattia di Sinisa Mihajlovic ha commosso tutta l'Italia e non solo il mondo del calcio. Virginia e Viktorija, figlie dell'attuale tecnico del Bologna, sono state ospiti di Verissimo, raccontando tanti dettagli sulla leucemia che ha colpito l'ex difensore serbo. «Nostro papà è un guerriero: paradossalmente, è lui a darci forza. Dal punto di vista psicologico, non sembra neanche malato, perché sta affrontando anche questa sfida con la sua solita determinazione» - raccontano le figlie di Sinisa Mihajlovic - «Per noi non è semplice, abbiamo paura per lui, eppure lui è quello che sta affrontando questo momento con più forza di tutti. A chi sta soffrendo per una malattia, possiamo dire una cosa: la componente psicologica vale almeno il 50% di tutto, dovete e potete essere forti». Viktorija, la figlia maggiore di Sinisa Mihajlovic e della moglie Arianna, ha raccontato: «Anche se sono la più grande, sono senza dubbio la più emotiva, quella che tende a soffrire e a emozionarsi di più. Ricordo che da bambina mi chiesero di cosa avessi più paura, ed avevo risposto: "Che mio padre possa essere malato". Abbiamo ricevuto tanto affetto da parte di tutti, ringraziamo tutti a nome della nostra famiglia. In ospedale abbiamo conosciuto altre famiglie di persone malate, anche bambini: è qualcosa che fa male a pensarci, ma abbiamo scoperto che è possibile farsi forza a vicenda quando si condivide un dolore». Le due figlie di Sinisa Mihajlovic, protagoniste anche di una passata edizione de L'Isola di Famosi, hanno poi aggiunto: «Eravamo in vacanza in Sardegna, sentivo mamma parlare al telefono ma non capivo che stesse parlando con papà, che in quel momento si trovava ancora a Bologna. Lei diceva: "Va bene, ora inizi le cure", così io sono entrata in camera e le ho chiesto di dirmi subito cosa stesse succedendo. Mia madre, di fronte alla mia insistenza, ha riattaccato e mi ha detto che papà aveva la leucemia, siamo scoppiate in lacrime entrambe. Prima dovevamo dirlo a Vicky, che è molto sensibile, poi ai nostri fratelli più piccoli». La notizia ha ovviamente sconvolto la famiglia di Sinisa Mihajlovic, come rivelano le figlie: «Uno sente sempre storie di malattie che colpiscono altri, ovviamente uno si dispiace ma noi pensavamo: "Non potrà mai capitare a noi, nostro padre è uno sportivo che da sempre fa una vita sana e attiva". Invece poi è successo, ci siamo sentiti cadere il mondo addosso. La forza di papà ci ha fatto trovare coraggio, la sua determinazione ci ha travolto e siamo diventati più forti». Virginia, poi, aggiunge: «Lo abbiamo raggiunto a Bologna, lui ogni volta era felice di entrare in ospedale, perché diceva: "Prima inizio, prima finisco, non vedo l'ora di iniziare le cure". Quando è apparso in panchina a Bologna, io lo sapevo già, ma lui voleva che fosse una sorpresa e mi aveva chiesto di non dirlo a nessuno».
Matteo Dalla Vite per la Gazzetta dello Sport il 15 settembre 2019. Il neologismo è tratto. «Sinisa ha detto a tutti noi tante cose. Ma un messaggio in particolare l' ha sottolineato: che dovremo essere... disperati». E' un amarcord insomma, un tornare con la macchina del tempo agli ultimi 4 mesi di un campionato fa: quando la B era dietro l' angolo e ogni pallone era «come fosse l' ultimo, quando ogni momento - continua Emilio De Leo, tattico di Mihajlovic - era da sfruttare per fare qualcosa di buono, per portare la partita dalla tua parte. Ecco, noi dovremo essere disperati con... qualità, non in senso negativo, quindi anche con la solita intraprendenza e l' assunzione dei rischi che ci ha sempre caratterizzati». Un Bologna sinisiano: e lo dovrà essere ancora di più perché da quando c' è il Bologna United, beh, oggi sarà la prima di campionato in cui Sinisa non sarà in panchina. Sinisa agirà da remoto, come successo nelle amichevoli e anche in Coppa Italia a Pisa: una telefonata unica di 90' più recupero col video-analyst Baldi che a sua volta è in collegamento con la panchina, quindi il vice Miroslav Tanjga ed Emilio De Leo. «Se al posto di Danilo giocherà Bani - dice Tanjga -? Al momento quello è l' indirizzo. E sì, l' idea è che Palacio faccia il Falso-nove». Tanjga si vede che è compagno da una vita di Sinisa: ha le sue pause e il modo diretto di dire le cose. «Se mi aspettavo 4 punti nelle prime due giornate? Beh, onestamente me ne aspettavo sei». Appunto. Con un interprete al fianco, Tanjga si esprime in tedesco e ogni tanto sorride. «Il fatto che non ci sia Sinisa non deve essere visto come un dilemma, oltre al fatto che i ragazzi ci sono stati abituati durante alcune partite: perché quello che conta è la mentalità di questa squadra, quella costruita l' anno scorso e che deve portarti a giocare in un certo modo con una squadra apparentemente inferiore o superiore. Quindi, nessuna paura: anche perché a livello di produttività non cambia e non deve cambiare nulla: Sinisa è sempre con noi». Dopo aver presenziato a Verona («Non aveva altro in testa che quella promessa fatta alla squadra» hanno detto le figlie Viktorija e Virginia a Verissimo) e contro la Spal al Dall' Ara, Mihajlovic oggi vedrà la gara su un monitor collegato direttamente col Rigamonti. In caso di vittoria, il Bologna eguaglierebbe la partenza sprint del 2002 quando, con Guidolin in panca, furono 7 punti nelle prime 3 gare. «Ma il Brescia è organizzato, corto, certamente Romulo è un valore aggiunto e Donnarumma è scaltro» dice De Leo. Tutto ciò che può moltiplicare quella disperazione qualitativa.
Matteo Dalla Vite per gazzetta.it il 16 settembre 2019. Bologna United, anche questa volta. Appena il pullman del Bologna è partito da Brescia, l’idea lanciata da un tesserato e raccolta da un plebiscito assoluto ha visto concretizzarsi un’altra “trovata”: tutta la squadra, col pullman stesso, è andata sotto la finestra della camera dell’Ospedale Sant’Orsola a salutare Sinisa Mihajlovic. Cori, video e applausi fino a quando non è apparso il volto di Sinisa, affacciatosi dalla propria finestra sorridente e strafelice per la vittoria del Rigamonti. Del resto era stato proprio Sinisa, come sempre, a scuotere la squadra dopo un primo tempo orribile. Lo aveva fatto all’intervallo e al telefono tramite De Leo, a tal punto che - complice anche l’espulsione di Dessena - il Bologna ha sviluppato un secondo tempo bello, credibile e vincente. La trasformazione e il secondo posto in classifica per una notte ha poi alimentato la lampadina dell’intuizione: andiamo da Sinisa. Tutti insieme. Ed eccolo lì, il pullman del Bologna, sotto la finestra di Sinisa come fosse tutto un modernissimo Romeo e Giulietta. Sinisa si è affacciato e ha partecipato all’iniziativa della squadra. "Solo quando vincete venire a rompere le balle - ha scherzato il tecnico –. Poi mercoledì ne riparliamo dei vostri errori. Siete stati bravi, però non avete ancora fatto nulla".
Serie A, il Bologna rimonta il Brescia. Palacio svela il segreto: "Merito di Mihajlovic". Libero Quotidiano il 16 Settembre 2019. Allo stadio Mario Rigamonti di Brescia, il Bologna stava rischiando di subire un'imbarcata. Al riposo, il risultato dice 3-1 per le Rondinelle e il risultato sta pure stretto agli uomini di Eugenio Corini, perché in campo i rossoblu risultano non pervenuti. Nel secondo tempo cambia qualcosa: il Bologna rientra in campo con tutt'altro spirito, il Brescia ha difficoltà nel chiudere gli spazi e ripartire come è riuscito a fare nel primo tempo (complice anche l'ingenua espulsione di Dessena in avvio di ripresa per una simulazione evitabile) e i felsinei non solo riescono a pareggiare i conti con il gol facile facile del "Trenza" Palacio e lo sfortunato autogol di Sabelli, ma addirittura a ribaltare il risultato con il gol a 10 minuti dalla fine di Riccardo Orsolini, il pupillo di mister Mihajlovic, che a causa della leucemia, non ha potuto seguire i suoi ragazzi in panchina come nelle prime due giornate. Un 4-3 epico che, però, ha un suo perché ed è stato il capitano rossoblu Rodrigo Palacio a svelarlo: "Alla fine del primo tempo Mihajlovic ha chiamato lo staff che ci ha riferito tutta la sua rabbia per il parziale negativo e questo ci ha scosso. Il mister per noi è importante - ha proseguito - ci ha dato una grande mentalità. Ci manca molto non averlo in panchina assieme a noi". Anche dall'ospedale Sant'Orsola dov'è ricoverato, Sinisa è riuscito a raddrizzare la situazione come solo lui sa fare: con grinta e rabbia, trasmesse poi ai giocatori per la riuscita dell'impresa. Ma non è finita qui: i giocatori del Bologna, di rientro dalla trasferta lombarda, hanno deciso di fare una sosta a sorpresa proprio sotto il Sant'Orsola per festeggiare il successo e il secondo posto in classifica con il loro mister. Sinisa, pure dalla finestra della sua stanza d'ospedale, ha voluto predicare la calma ai suoi: "Poi mercoledì ne riparliamo dei vostri errori. Siete stati bravi, però non avete ancora fatto nulla". Un ambiente unito che si è stretto attorno al proprio allenatore, in questo modo il Bologna ha la sua marcia in più.
Miracolo Mihajlovic: in panchina col Bologna nonostante la malattia. Il tecnico serbo esce dall'ospedale e raggiunge la squadra per guidarla a Verona nel debutto della stagione. Giovanni Capuano il 25 agosto 2019 su Panorama. L'immagine più forte della prima giornata del campionato è quella di Sinisa Mihajlovic in panchina alla guida del suo Bologna. Il serbo, che sta lottando contro la leucemia, ha lasciato l'ospedale Sant'Orsola di Bologna e ha raggiunto la squadra a Verona nelle ore precedenti il match. Ha parlato ai giocatori in albergo prendendo tutte le precauzioni del caso, poi si è diretto verso lo stadio dove ha seguito la partita in maniera attiva, a bordo campo, con maglietta e cappellino a nascondere la calvizie e un vistoso cerotto sul collo. Mihajlovic ha commosso i suoi giocatori e tutto il pubblico che lo ha accolto con un'autentica ovazione. Il serbo è rimasto in ospedale per 41 giorni consecutivi e sta combattendo con coraggio la sua battaglia contro la malattia.
Il sì dei medici, Sinisa va in panchina:«Ragazzi, ora voglio grinta». Pubblicato lunedì, 26 agosto 2019 da Annalisa Grandi e Alessandro Mossini su Corriere.it. Raccontano i suoi giocatori che ha detto poche parole: «Siate grintosi, determinati». Ma se non avesse aperto bocca non sarebbe cambiato granché. «È bastata la sua presenza. Vederlo lì. Ci aveva detto in settimana di non essere al 100%, non ce lo aspettavamo» spiega l’attaccante Riccardo Orsolini lasciando lo spogliatoio. Il richiamo del campo è stato troppo forte: Sinisa Mihajlovic voleva essere con i suoi ragazzi alla prima gara di campionato, Verona-Bologna, e ieri li ha raggiunti, presentandosi regolarmente in panchina. Sorprendendo loro e tutta Italia. Verona-Bologna così è diventata una partita speciale. Seguita dalle agenzie di stampa europee, accompagnata dai tweet dei politici («Il vincitore della prima giornata ha un nome e un cognome: si chiama Sinisa Mihajlovic» scrive Renzi; «Il Popolo del Calcio aspetta solo te» è il messaggio di Salvini). Il sogno Sinisa lo aveva covato a lungo, nei quarantuno giorni di ricovero nel reparto di ematologia dell’istituto Seragnoli del Policlinico Sant’Orsola di Bologna dopo la diagnosi di leucemia. E dopo una lunga trattativa ieri è diventato realtà. Dai medici, a determinate condizioni, è arrivato il via libera e il tecnico serbo del Bologna nel pomeriggio è salito su una vettura adeguatamente sanificata per dirigersi a Verona. A novanta minuti dal fischio d’inizio, Mihajlovic è arrivato all’albergo Crowne Plaza di Verona, sede del ritiro rossoblù, facendo una sorpresa ai suoi giocatori e giusto in tempo per la breve riunione tecnica prepartita: occhi lucidi, volti sorpresi, uomini spiazzati. Perché Sinisa lo aveva promesso alla squadra, in un paio delle tante conversazioni telefoniche avute in teleconferenza via Skype tra un allenamento e una partita, ma da qui a realizzare quel desiderio espresso anche alla famiglia, agli amici e ai dottori il passo è stato lungo. «Siamo rimasti choccati — ha confessato il capitano Andrea Poli a Dazn — non ce lo aspettavamo anche se ce lo aveva promesso. Siamo rimasti colpiti, ma siamo contenti che sia qui: dimostra di avere un coraggio eccezionale. Ci siamo emozionati al suo arrivo in albergo». Trentatré giorni fa Mihajlovic aveva concluso il suo primo ciclo di chemioterapia, seguendo poi allenamenti e partite dall’ospedale con appositi streaming, in contatto quotidiano con i membri del suo staff: la determinazione con cui ha affrontato la sua battaglia e la disponibilità a seguire in tutto e per tutto le indicazioni dei medici ha poi portato alla decisione di ieri, quando gli è stata data qualche ora di permesso per allenare di persona la squadra, prima di rientrare in tarda serata al Sant’Orsola. Alle 19.15 Mihajlovic è arrivato allo stadio subito dietro al pullman della squadra, scendendo dall’auto con la mascherina necessaria per chi si trova a non avere ancora le difese immunitarie al 100% in ambienti pubblici: il resto lo ha fatto la gente, con i 2.300 bolognesi presenti a cantare il coro «Dai Sinisa alè alè» durante il riscaldamento e ad esplodere in un vero e proprio boato alla lettura delle formazioni, con il nome di Mihajlovic lungamente applaudito da tutto il Bentegodi. Poi è arrivato il momento della partita. I 90 minuti in cui il tecnico serbo ha mostrato la sua voglia di vivere la professione e la sua passione, e anche i segni dei trattamenti medici, su un corpo e su un viso smagriti. Il ruggito, però, è quello di sempre: è già in piedi al fischio d’inizio, al limite dell’area tecnica, seduto resiste un paio di minuti, non di più. Poco prima del fischio finale, salutato di nuovo dall’applauso del Bentegodi, Mihajlovic rientra nello spogliatoio, leggermente in anticipo. Da oggi riprenderà le cure. A fine partita arriva il messaggio di sua moglie Arianna: «I guerrieri si riconoscono da lontano. My love».
Mihajlovic, la dedica della moglie Arianna: «I guerrieri si riconoscono da lontano». Pubblicato lunedì, 26 agosto 2019 da Corriere.it. C’è una foto di loro due sorridenti, ad accompagnare il messaggio. Sinisa Mihajlovic domenica sera è tornato in panchina, dopo quarantuno giorni passati in ospedale , dopo aver scoperto di essere malato di leucemia. È tornato a bordo campo, a Verona, per la partita contro il Bologna. Lo hanno accompagnato gli applausi del pubblico, la commozione dei suoi giocatori. E lo ha accompagnato, e sostenuto, come sempre, la moglie Arianna Rapaccioni. Che sul suo profilo Instagram ha postato una foto insieme al marito accompagnata dalla dedica: «I guerrieri si riconoscono da lontano. My Love». Tantissimi i commenti, i messaggi di supporto di tifosi e non solo. «Di forza ne abbiamo tanta, ma con il vostro amore siamo imbattibili» scrive la moglie di Mihajlovic rivolta a loro. Tanti i messaggi di sostegno che sono arrivati sui social anche da politici e volti noti dello spettacolo, da Matteo Renzi a Simona Ventura. Arianna e Sinisa si erano conosciuti nel 1995, lui vestiva la maglia della Sampdoria e dopo una partita all'Olimpico la incontrò in un ristorante. Il matrimonio nel 2005, da cui sono nati cinque figli.
LO SCHIFO CORRE SUI SOCIAL! Da gazzetta.it il 26 agosto 2019. Dopo quello di tutto il mondo del calcio, Sinisa Mihajlovic riceve anche l’applauso del medico che lo sta curando dalla leucemia e che gli ha dato l’ok per essere in panchina contro il Verona, a 40 giorni dall’inizio delle cure. “Devo dare merito al paziente, che ancora una volta è stato scrupoloso e si è attenuto perfettamente alle raccomandazioni - ha detto all’Ansa il professor Michele Cavo, primario di Ematologia del Sant’Orsola di Bologna, dove è appunto ricoverato il tecnico serbo -, posso anche ritenere che quello che è avvenuto ieri non sia un episodio isolato e mi riferisco alla possibilità di essere in campo. Per contro ci saranno altri momenti, quando seguirà altri cicli di terapie, in cui questo, invece, non sarà possibile”. Tra i tanti messaggi di affetto e solidarietà che sta ricevendo in queste ore Mihajlovic non potevano mancare quelli della sua famiglia. “Ma come si fa? La grande bellezza”, ha scritto la figlia Viktorija su Instagram. Un post che ha ricevuto oltre 20mila like. Anche la moglie di Sinisa, Arianna Rapaccioni, ha dedicato un pensiero al marito: “I guerrieri si riconoscono da lontano, my love”.
IL RITORNO DI MIHA. Enzo Boldi per Giornalettismo.com il 26 agosto 2019. Ci risiamo. L’attesa per la ripresa della Serie A, dopo un’estate passata a parlare solamente di colpi (o presunti tali) di calciomercato, è stata condita dalla bella notizia del ritorno in panchina di Sinisa Mihajlovic dopo la fine del primo ciclo di chemioterapia per curare la sua leucemia. Un fatto che ha fatto sorridere il cuore di molti tifosi che, al di là del tifo, hanno espresso grande vicinanza e sollievo per aver rivisto l’allenatore serbo di nuovo a bordo campo per seguire e dirigere il suo Bologna nella sfida del Bentegodi contro l’Hellas Verona. Molti, ma non tutti. Purtroppo, come spesso accade, sui social c’è chi ha pensato bene di proseguire con gli insulti al 50enne tecnico dei felsinei. E non si tratta di rivalità sportiva, ma di ideali politici e non solo. Alcuni utenti non hanno perdonato a Mihajlovic alcune sue esternazioni del passato e la sua vicinanza ideologica a movimenti di estrema destra, come quando non si tirò indietro dal sostenere la famosa tigre Arkan, Zeliko Raznatovic, capo delle milizie paramilitari serbe e considerato il boia di Milosevic. E tutto questo è tornato in auge in diversi commenti sui social. Pochi, ma comunque troppi. Nel mirino, secondo questi utenti, c’è la presunta beatificazione di Mihajlovic da parte della stampa che avrebbe dimenticato il passato dell’allenatore serbo. E, oltre al punto di vista politico, c’è anche chi rilancia il complotto del veleno della chemioterapia che avrebbe peggiorato le sue condizioni di salute, senza migliorarle. Anzi, la fotografia di lui a bordo campo durante Hellas Verona – Bologna, sarebbe la testimonianza di come la cura sia peggiore del male.
Vince l'umanità di Mihajlovic la tecnologia perde ancora. Riccardo Signori, Martedì 27/08/2019, su Il Giornale. In questo mondo di like, tweet #hashtag, Var, mettiamoci il cuore di Sinisha Mihajlovic e respiriamo a pieni polmoni. L'uomo vince ancora, la dannata tecnologia non ce la farà mai a metterci al muro. Provate a togliere dalle mani di un bambinello, dai 5 ai 60 anni, il cellulare, e annessi aggeggi, ne uscirà un putiferio dopo aver accettato insopportabili minuti/ore di mutismo. Provate a mostrargli un uomo che vuol vincere una battaglia, corpo a corpo con un avversario più forte, anche andando sul campo con i suoi giocatori, smagrito nel fisico ma terribilmente muscoloso nelle corde dei sentimenti: il bambinello di cui sopra magari non capirà a quale meraviglioso spettacolo sta assistendo. Ma la vita gli ha fatto un regalo a sua insaputa. La prima giornata forse non ci ha regalato gran calcio (sorry Sarri, Giampaolo ecc) ma una colorita e colorata sintesi della vita. Vedi il belga Mertens che frega tutti con un capitombolo fasullo e conquista il montepremi partita dicendoti: nella vita vince il più furbo. Vedi gli uomini italiani del Var che sbagliano le valutazioni (e saranno puniti) ma tutti se la prendono con l'internazionale Var, meccanismo senza anima, solo ricco di fredde valutazioni: figlio della tecnologia che rovina il pathos e ricaccia in gola l'urlo di gioia, che ti rianima dopo un gol annullato in fuorigioco, ma ti impedisce di farla franca se il rigore c'è. Non c'è difesa contro la Var, ma non c'è offesa che possa metterla in soggezione psicologica. Tecnologia bella invenzione, ma quando non esisteva vivevamo ugualmente e , pazienza, se il rigore c'era o non c'era: tanto era sempre colpa degli arbitri. Come adesso. Infine vedi il cittadino del mondo Mihajlovic in piedi davanti alla panchina, che ha voluto fare un regalo a se stesso, alla squadra, al pubblico e a tutto l'universo del pallone: ingigantito da quel fisico prosciugato dalla chemioterapia. E pensi che non esiste tecnologia senza il cuore, non esiste calcio senza un Mihajlovic: il cuore ha vinto. Non sappiamo come sarà il campionato, sappiamo invece di cosa abbiamo ancora bisogno.
Mihajlovic, il messaggio della figlia Viktorija: «Lottare è nel nostro Dna». Pubblicato domenica, 14 luglio 2019 da Corriere.it. «Dicono che Dio dia le battaglie più difficili ai soldati migliori. Anche se non rispondo, vi leggo tutti e vi ringrazio di cuore. Noi siamo la famiglia Mihajlovic, non lottare non è nel nostro Dna!». È il messaggio postato su Instagram da Viktorija Mihajlovic, la primogenita di Sinisa e della moglie Arianna Rapaccioni, per incoraggiare il papà e ringraziare tutti quelli — e sono tantissimi — che gli hanno manifestato vicinanza. Quando l’allenatore del Bologna ha rivelato in conferenza stampa di essere stato colpito dalla leucemia, ha subito spiegato due cose: che avrebbe lottato, «attaccando» il male (Sinisa andrà in ospedale martedì per iniziare le cure), e che non lo avrebbe fatto da solo, perché avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di chi gli vuole bene. Viktorija — 22 anni, un profilo social molto seguito e una partecipazione con la sorella Virginia all’Isola dei famosi —, ha voluto dire pubblicamente di essere a fianco del padre. Sinisa ha un figlio, Marco, avuto da una precedente relazione, e poi quattro figli con la moglie Arianna: Viktorija e Virgnia, poi Miroslav, Dusan e Nikolas. A febbraio, Sinisa ha confessato che la moglie aveva perso un figlio: «Purtroppo la gravidanza si è interrotta. Avere un figlio a 50 anni è un po’ come ricominciare, tornare giovani. Mia moglie ci soffre, lo so, lo vedo. Io nel dolore penso che forse abbiamo già avuto tutto come genitori. Forse un altro figlio sarebbe stato sfidare le leggi del tempo. Ma di notte prima di addormentarmi il pensiero corre sempre lì».
Antonio Prisco per Il Giornale 14 luglio 2019. Un caso scuote ancora di più la giornata difficile di Sinisa Mihajlovic, il tecnico serbo si scaglia contro Ivan Zazzaroni, che sul Corriere dello Sport in edicola stamattina aveva parlato per primo della sua malattia. ''Ho chiesto questa conferenza perché volevo darvi io la notizia e per questo volevo riservatezza. Qualcuno ha rovinato un'amicizia che durava da vent’anni'', Mihajlovic non aveva però fatto nomi durante la conferenza stampa in cui ha annunciato di essere malato di leucemia prima di andare più nello specifico: ''Lo ha fatto per vendere duecento copie in più''. Tutti gli indizi hanno portato a Zazzaroni, amico da anni di Sinisa, che nel suo pezzo sul Corriere dello Sport, non citando tuttavia la malattia gli aveva scritto il suo incoraggiamento: ''Il Guerriero comunicherà che si ferma per qualche giorno, giusto il tempo di superare lo scoglio e vincere rapidamente un’altra battaglia. Che non è una guerra. La febbre, l’assenza, gli accertamenti, i silenzi, le mezze parole, le ansie di chi vuole bene al Guerriero: decine di chiamate, ieri pomeriggio, al suo cellulare, a quello di Arianna, la moglie, agli amici. Perché il Guerriero è molto amato''. Un fulmine a ciel sereno continua il giornalista bolognese: ''Dopo un autentico miracolo sportivo come quello che il Guerriero ha appena compiuto a Bologna trasformando un vuoto in un pieno, un’ipotesi di gruppo in una squadra, è arrivata la botta, perché al Guerriero la vita non ha mai regalato nulla: i successi e le soddisfazioni se li è dovuti meritare. Sempre''. Prima di chiudere con una splendida citazione: ''Credere che esiste un ponte da dove sei a dove vuoi andare è il 99% della battaglia. L’altro 1% è attraversarlo''. Nel momento in cui lo diceva, Richie Norton stava forse pensando a Sinisa il Guerriero. Un augurio e soprattutto un buon auspicio che, nonostante tutto Sinisa saprà cogliere di sicuro.
Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport 14 luglio 2019. Non mi sono perso una sola parola della conferenza stampa di Sinisa, provando a misurare ogni sua frase, ogni espressione dello sguardo, i gesti, le battute, come ipnotizzato dai suoi occhi. Lucidi. «Ma non è paura», ci ha rassicurati. Mi ha raggelato, il giorno prima avevo urlato in redazione tutta la mia rabbia quando intorno alle 17 mi avevano raccontato che l’amico di vent’anni era malato di leucemia e che molti sapevano. Deve sempre prevalere l’angoscia di chi soffre, e allora mi pento per la prima volta di aver fatto il giornalista e non l’amico di vent’anni, l’amico che per l’intero pomeriggio di venerdì aveva dovuto rispondere a decine di altri amici e tifosi, e che aveva cercato più volte al telefono l’amico di vent’anni, e poi Arianna, la moglie, e Sabatini, e Mancini, e il dottor Nanni, l’unico in grado di fornirmi delle certezze e qualche rassicurazione. «Fattelo dire da lui», il consiglio di Sabatini. Ma lui, Sinisa, non ha risposto. “Perché ha lasciato il ritiro?” “Ma è vero che ha fatto degli accertamenti clinici?” “Che cos’ha?” “È grave?” “Tornerà ad allenare?” “Sai qualcosa?” Una domanda dietro l’altra, un tormento, chiamate, messaggi.
La scelta. Sì, ho fatto il giornalista e non l’amico che avrebbe dovuto attendere un’altra mezza giornata per lasciare che fosse lo stesso Sinisa a raccontare. Dopo aver ascoltato le sue parole e aver visto il suo volto, riconosciuto il coraggio di sempre, ho capito che mi sarei dovuto scusare pubblicamente con lui: avrei dovuto fare l’amico, “Sini”, come nei vent’anni precedenti, non il giornalista che peraltro ha raccomandato a suoi di non scrivere una riga sull’entità della malattia. L’ultima verità. Quella parola che fa paura. Dovevo fare una scelta, di fronte al tuo pianto, al tuo dolore, so di aver fatto quella sbagliata. Una riflessione mi accompagna da ieri: si discute - inutilmente, spesso è esercizio d’ipocrisia - di notizie false, fake news, e si arriva a scandalizzarsi per notizie vere. La privacy? Forse solo i social hanno il diritto di ignorarla, visto che gli interessati se ne servono per confessarsi pubblicamente? Se uno non segue Facebook o Instagram o Twitter e legge semplicemente un giornale, deve non sapere? Non pensavo ieri e non penso oggi di aver arrecato un danno a Sinisa: ho solo sfogato il dolore per una notizia che non avrei mai voluto ricevere aggiungendo un affettuoso incoraggiamento. Gli ho inviato un messaggio, il contenuto non lo rivelo: conta solo che si riprenda bene e in fretta, tutto il resto riguarda la mia coscienza. Meglio un rimorso confessato che una macchia nel cuore.
Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 17 luglio 2019. Conosco Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport, perché ci divertiamo a vestire i panni di giurati a Ballando con le stelle e saperlo in una polemica incentrata sulla parola "cinismo" mi fa impressione. Perché Zazzaroni fatica a trattare con cinismo anche un tango fatto male e perché è tra le poche persone che risolve le cose alzando il telefono e senza mai cercare le scorciatoie della nota vocale e del messaggio su Whatsapp. La vicenda "Sinisa Mihajlovic" e la valanga di insulti che hanno travolto il direttore del Corriere dello Sport cancellano perfino quel residuo di fiducia rimasto nell' implacabile tribunale dei social in cui anche Gigino89 di professione elettrauto può discettare di deontologia professionale, trattamento dei dati sensibili e giornalismo. I fatti: Mihajlovic, allenatore del Bologna, la settimana scorsa non era partito con la squadra per il ritiro a Castelrotto. Si parlava di febbre, ma poi il suo arrivo era slittato ancora e le informazioni si erano diradate. I giornalisti sportivi a quel punto fanno il loro mestiere. Alzano il telefono, chiamano dirigenti, compagni di squadra, medici e chiunque possa dare un nome a quella febbre e una risposta alla curiosità dei tifosi e dei lettori. La parola "leucemia", purtroppo, inizia a fare il giro delle redazioni. Viene pronunciata a bassa voce, col rispetto dovuto all' uomo e alla sua malattia. Zazzaroni, venerdì scorso, è tra i giornalisti che sa. La sua fonte non è Sinisa, suo amico da tanti anni, perché Sinisa non risponde ai suoi messaggi e comunque i due non si sentono da un mese. Il giorno dopo, questo anche si sa, Mihajlovic terrà una conferenza stampa per rivelare il mostro da combattere. A quel punto succede quello che scatenerà le ire del tribunale social composto (anche) da tanti giornalisti che ci terranno a fare sapere quanto per loro il giornalismo affondi le radici nell' umanità, prima ancora che nella necessità di dare una notizia. Come no. Zazzaroni, sabato, scrive un editoriale: Forza Sinisa. Dice che il Guerriero supererà la battaglia. Che si fermerà qualche giorno, giusto il tempo di superare lo scoglio e vincere. Fine. Tutto qui. Nessun riferimento specifico alla "leucemia". Un messaggio affettuoso, che allude a un problema di salute, ma per nulla morboso o irrispettoso della privacy di Sinisa, tanto più che se decidi di dare spiegazioni attraverso una conferenza stampa anziché tramite uno scarno comunicato vuol dire che ci vuoi mettere la faccia. Che la tua malattia non è tabù. Nessuno trova una nota stonata nell' editoriale di Zazzaroni. Sinisa però fa la sua conferenza stampa, pronuncia la parola "leucemia" con commovente fierezza e poi aggiunge che qualcuno ha rivelato la sua malattia per vendere qualche copia in più, rovinando un' amicizia di 20 anni. Non immagina, Sinisa, quello che scatenerà con queste parole sulla testa di Zazzaroni. Parole legittime, perché nessuno può decidere per lui il tatto e il riserbo di cui ha bisogno. Ma da fuori si potrebbe tentare di rimanere lucidi. E invece no. Orde di hater insultano Zazzaroni per giorni, dandogli del "cinico" che ha tradito l' amico per vendere copie, come se poi "vendere copie" fosse l' equivalente di spacciare eroina ai bambini. Giornalisti traboccanti umanità gli danno lezioni, rispolverando perfino il concetto di "deontologia" professionale. La stessa applicata quando si sono divulgati dettagli sulla malattia di Sergio Marchionne che non ha mai parlato, di Schumacher la cui famiglia chiede privacy da sempre, del "morbo" di papa Ratzinger, del recente toto-malattia di Angela Merkel con diagnosi da bar sul suo tremore in un valzer morboso di dettagli e supposizioni, che è da sempre la parte più ingrata e sì, cinica, del lavoro di giornalista. L' aggravante, per Zazzaroni, sarebbe un' amicizia ventennale con Sinisa. Quel Forza Sinisa sarebbe il suo alto tradimento. E sì, tutti quelli migliori di lui glielo fanno notare, tra un insulto e un clic per sbirciare il video del suv che travolge i due bambini in Sicilia.
Dal profilo Facebook di Andrea Scanzi il 18 luglio 2019. Caro Sinisa, se non ho letto male comincerai oggi le tue cure. Probabilmente non mi conosci, e se mi conoscessi forse non ti piacerei. E magari viceversa. Abbiamo ideali e apprendistati diversi. Eppure ti ho sempre stimato, perché ti ho sempre trovato vero e mai ipocrita. Men che meno retorico. Di te conoscevo la grinta, quel mancino che inventava traiettorie mistiche e divine. Gli spigoli. I saliscendi in panchina. E la tua ritrosia per Suso, che ti è valsa qualche mio vaffanculo (ma forse poi avevi ragione tu). Tutto questo, ora, appare così lontano. Lontano e inutile. Ma lo impariamo sempre troppo tardi, quel che è davvero importante e quello che non lo è. Hai sempre avuto fama e storia da duro. Ebbene, credo che non ci sia prova di forza maggiore dell'avere il coraggio di piangere in pubblico. Sabato sei stato così bello ed enorme, nel mostrarti nudo e fiero alla mitraglia, che mi son quasi vergognato del mio essere così piccolo. Hai detto che non erano lacrime di paura, ma ti garantisco che sarebbero state belle anche se composte da quella materia lì. Hai ricordato che la vita non ti ha regalato nulla, e questa sarà solo un'altra battaglia. E hai pure aggiunto che c'è gente che ha barattato vent'anni di amicizia per un titolo urlato e qualche copia in più, e in tutta onestà mi son vergognato per loro. Hai poi ripetuto che non vedevi l'ora di scendere in campo contro quest'avversaria così carogna. Non ne dubito. Falle il culo, come tu sai fare, con tutta la forza e tutte le lacrime che hai dentro. Se prima ti stimavo, dopo quella conferenza di pura vertigine umana ti voglio bene. Io come tanti. Praticamente tutti. Grazie, dal cuore, per tutta questa tua forza travestita da fragilità - e viceversa. Anche se ne avresti fatto a meno, hai finito con l'essere un esempio. E gli esempi, no, non perdono mai. Ti aspetto. Ti aspettiamo.
"HO LA LEUCEMIA MA VINCERO’ QUESTA BATTAGLIA”. Da sport.sky.it il 13 luglio 2019. Mihajlovic: "Ho la leucemia, quando l'ho saputo sono rimasto chiuso in camera a piangere. Affronterò questa malattia, non vedo l'ora di andare martedì all'ospedale. Prima inizio e prima finisco".
- Tutti pensiamo di essere invincibili, ma non è così. L'unica cosa da fare è provare a prevenire queste situazioni. Questa cosa può succedere a tutti".
- "La malattia ti cambia la vita ed è più facile combatterla soltanto grazie alle prevenzione".
- "Voglio ringraziare tutto il Bologna. In questi giorni ho pianto molto quando ho visto o letto qualcosa che mi ha commosso".
- "Ho ricevuto 500-600 messaggi, mi scuso con tutti quelli a cui non ho risposto. Sono stato un po' da solo. Mi hanno scritto tantissime persone".
- "Noi dobbiamo avere coraggio, non dobbiamo avere paura. Vincerò questa sfida per me, per la mia famiglia e per tutti quelli che mi vogliono bene".
Il ds Walter Sabatini: "Il mister ha parlato a tutti e mi sembra una cosa molto bella. La famiglia Saputo è schierata al fianco del mister, andiamo avanti tutti insieme. Io mi sarei nascosto in una grotta al posto di Mihajlovic ".
Il dottor Gianni Nanni: "Mihajlovic comincerà le cure martedì, verrà ricoverato in ospedale. Dopo le cure potrà recuperare la sua attività. Non possiamo dire quanto tempo ci vorrà perché non conosciamo ancora il tipo di leucemia".
Il ct dell'Italia, Roberto Mancini ha scritto su Instagram: "Mihajlovic sei troppo forte, questo ti fa un baffo e poi dobbiamo giocare a padel". Anche i tifosi hanno fatto sentire la loro vicinanza al mister serbo: "Sinisa non mollare, Bologna è con te" lo striscione apparso a Casteldebole.
Mihajlovic: «Ho la leucemia, devo fermarmi. Non ho paura e vincerò». Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Corriere.it. Sinisa Mihajlovic annuncia, quasi con un sorriso amaro: «Ho fatto alcuni esami che hanno evidenziato alcune anomalie. Ho la leucemia. Non ho paura, so che vincerò. Affronterò tutto e guarirò». Il tecnico deve quindi fermarsi per sottoporsi a una terapia d’urto. L’annuncio della malattia, scoperta quasi per caso partendo da un sospetto, sabato pomeriggio a Casteldebole, stigmatizzando anche la fuga di notizie che ha allarmato il calcio italiano: «Mi dispiace non sia stata rispettata la mia richiesta di riservatezza per vendere 100 o 200 copie in più rovinando un'amicizia durata oltre 20 anni». Il tecnico parla di una forma «in fase acuta e aggressiva, ma trattabile. Si guarisce. Sono stato chiuso due giorni in casa a riflettere, ho pianto anche con i miei giocatori - afferma commuovendosi - Ma non vedo l'ora di andare martedì in ospedale: prima comincio e prima finisco. Sono sicuro che questa sfida la vincerò, per mia moglie, per la mia famiglia. Io non gioco mai per non perdere, altrimenti perdo: così nel calcio, così nella vita. Ma ho bisogno dell'aiuto di tutti quelli che mi vogliono bene». L'allenatore Bologna, che lo scorso anno in quattro mesi ha guidato la squadra alla salvezza, giovedì non aveva seguito la squadra nel ritiro di Castelrotto, in Alto Adige, rimanendo in città perché ufficialmente influenzato «In realtà la febbre non c'era - spiega il medico della squadra - perdonateci la bugia ma stavamo ultimando gli esami». Nella notte tra venerdì e sabato le prime voci sulla sua malattia, sabato pomeriggio la conferma. La conferenza stampa era stata introdotta dal ds Walter Sabatini, visibilmente commosso: «Mihajlovic starà al Bologna fino al termine del contratto. L'allenatore del Bologna rimarrà Sinisa qualsiasi cosa accadrà nei prossimi giorni. Noi saremo al suo fianco. Lui resta l'allenatore del Bologna: sconfiggerà la malattia». Alla lettura del messaggio era presente fin da almeno un’ora prima un gruppetto di tifosi con uno striscione: «Sinisa non mollare. Bologna è con te». In mattinata era arrivato via Instagram l'incoraggiamento dell'ex compagno di squadra, e ora c.t. della Nazionale, Roberto Mancini: «Sei troppo forte: questo ti fa un baffo, e poi dobbiamo giocare a padel».
Mihajlovic in lacrime: "Ho la leucemia, ma vincerò". L'annuncio dell'allenatore del Bologna: "Non ho paura, non dovete provare pena per me". Il dt Sabatini: "Resta lui in panchina". Le reazioni da tutto il mondo del calcio. Luca Bortolotti il 13 luglio 2019 su La Repubblica. Sinisa Mihajlovic ha la leucemia. L'allenatore del Bologna lo ha annunciato sabato pomeriggio in conferenza stampa al Centro Tecnico di Casteldebole commuovendosi più volte davanti ai giornalisti. "Ho visto il direttore tecnico Walter Sabatini che stava peggio di tutti - ha iniziato scherzando il 50enne serbo -: mi ha rubato la scena, e allora ho fatto di tutto per star peggio e riavere l'attenzione. Ho chiesto questa conferenza stampa - ha proseguito poi seriamente - per darvi la notizia per primo e dire tutto con chiarezza. Purtroppo o per fortuna abbiamo fatto alcuni esami, scoprendo anomalie. La cosa più difficile è stato far credere a mia moglie che avevo la febbre il giorno della partenza per il ritiro, il giorno in cui in realtà dovevo fare ulteriori accertamenti: alle nove di sera ho saputo, è leucemia". "E' stata una bella botta, sono rimasto due giorni chiuso in camera a pensare a tutto, a riflettere, a piangere, mi è passata tutta la vita davanti. Non sono lacrime di paura, le mie. Io rispetto la malattia, ma so che la vincerò. La guarderò dritta negli occhi, la affronterò a petto in fuori: non vedo l'ora di andare martedì all'ospedale, prima comincio e prima finisco. E' in fase acuta, ma attaccabile. Ci vuole tempo, ma si guarisce. Ho spiegato tutto ai giocatori in call conference, e ho pianto anche con loro. La malattia si deve affrontare come voglio che loro affrontino le partite, ho detto loro: attaccare, pressare, aggredire, andare a fare gol, non stare ad aspettare". "Questa sfida sicuramente la vincerò, non ci sono dubbi: per me, per la mia famiglia, per tutti quelli che mi vogliono bene, e sono parecchi. Ho ricevuto 500-600 telefonate e messaggi, mi scuso per non aver risposto, volevo stare con me stesso per affrontare con serenità e coraggio quel che devo affrontare, spero mi capiscano. Ringrazio tutto il Bologna, mi hanno fatto capire che sono uno di famiglia, che mi vogliono bene. Come ho detto ai giocatori, ho bisogno di aiuto per vincere questa sfida. In questi giorni ho pianto molto, mi sono commosso spesso, ma non mi piace che si pianga con me, che la gente mi veda e pianga: io non voglio far pena a nessuno". "Il 28 febbraio - ha raccontato l'ex campione di Sampdoria e Lazio - ho fatto degli esami ed era tutto a posto, mi sono allenato tutti i giorni fino a fine maggio e non c'era alcun sintomo. Poi siccome mio padre è morto di cancro e faccio sempre le prove tumorali, se non l'avessimo fatte con gli esami di sangue normali non avrei scoperto niente". "Nessuno deve pensare di essere indistruttibile e invincibile, perchè poi quando succede è una botta tremenda. L'unica speranza è anticipare, per scoprire prima il problema. Nella mia vita nessuno mi ha regalato nulla, ma sono sicuro di uscire un uomo migliore da questa situazione", ha concluso.
Il dirigente Walter Sabatini lo aveva introdotto così: "Il mister ha deciso con molto coraggio di incontrare la stampa, gli siamo vicini, idealmente tutto il club è qui, questo uomo ha in mano il Bologna, gli vogliamo bene, noi siamo al suo fianco, andiamo avanti con lui, lui resta l'allenatore del Bologna qualsiasi cosa accada, preferisco Sinisa con 2-3% in meno che chiunque altro: gli basta per essere il migliore". Il medico del Bologna, Gianni Nanni, ha informato che il tecnico rossoblù verrà curato all'Ospedale Sant'Orsola di Bologna. "È un problema nato il giorno prima del ritiro, quando abbiamo avuto il sospetto che si trattasse di una patologia del genere - aggiunge -. In tempi rapidi abbiamo avuto la conferma, ovvero che si tratti di una leucemia acuta. Vent'anni fa non si poteva parlare di questa malattia, oggi con le conoscenze che abbiamo possiamo parlare anche di un futuro roseo per un allenatore che può fare la propria professione". "Conosco bene Sinisa Mihajlovic - ha scritto in una nota dal Canada il presidente del Bologna Joey Saputo - e so che è un uomo che non si arrende di fronte a nulla. Certo, la notizia della sua malattia ci ha scossi e in questo momento voglio esprimere soprattutto la vicinanza mia a della mia famiglia a Sinisa e ai suoi cari. Come ha detto Walter Sabatini in conferenza stampa, Mihajlovic è e resterà l’allenatore del Bologna. Ma le questioni professionali oggi passano in secondo piano: Sinisa ha una battaglia da vincere e può stare certo che troverà in me, nel Bologna Fc e in tutta questa città che lo ama degli alleati pronti a combattere insieme lui. Altre parole in questo momento non servono. Forza Sinisa!".
LE REAZIONI. Già in mattinata, il ct azzurro Roberto Mancini gli aveva mandato il suo pubblico saluto su Instagram: "Questo ti farà un baffo". Poi da sabato sera, ricevuto l'abbraccio caldo dei tifosi fuori dai cancelli del centro tecnico, Mihajlovic è stato travolto dai messaggi di tutto il mondo del calcio italiano.
Mihajlovic, che guerriero "Leucemia, ti batterò Amo giocare all'attacco". L'annuncio shock e la sua battaglia per tutti: «Fate sempre controlli, nessuno è invincibile». Franco Ordine, Domenica 14/07/2019 su Il Giornale. Sinisa Mihajlovic si è tolto la corazza ed è sceso nell'arena della vita per combattere un nemico inaspettato. «Ho la leucemia in fase acuta, aggressiva ma attaccabile e questo è quel che conta» ha spiegato nel bel mezzo della conferenza stampa convocata a Casteldebole per svelare il giallo che aveva avvolto la sua assenza dal ritiro del Bologna. L'ha fatto a modo suo Sinisa, mostrando le debolezze dell'uomo che si è accorto a 50 anni di non essere invincibile, cedendo qualche volta, due in tutto, alle lacrime senza mai indietreggiare di un centimetro. «Non sono lacrime di paura» ha avvertito. «Io rispetto la malattia, l'affronto, so che vincerò. Non vedo l'ora martedì di entrare in ospedale: prima inizio e prima finisco» ha raccontato piegandosi a una tenerezza che è sempre stata la sua cifra migliore dietro la maschera da guerriero esibita quasi per difendere il suo pudore. Prima di presentarsi davanti a taccuini e telecamere, ha parlato con la squadra in call conference ripetendo gli stessi concetti seminati nei mesi passati quando gli affidarono una squadra morta nella testa e nelle gambe che lui ha saputo rianimare. «Ho detto loro che se abbiamo coraggio, vinciamo, in difesa si perde. In questa sfida userò la tattica che piace a me e vincerò per me, per mia moglie, per la mia famiglia che adoro e per tutti quelli che mi vogliono bene» il riassunto del saluto allo spogliatoio. Già, la moglie Arianna. «È stato difficile farle credere che avevo la febbre a 40 e non potevo andare in ritiro, io che non ho mai avuto la febbre in vita mia» il racconto molto intimo di Sinisa prima di addentrarsi nei particolari. «Il 25 febbraio ho fatto gli esami e stavo bene. Ho allenato tutti i giorni fino al 27 maggio del campionato e stavo bene. Sono tornato a casa, non avevo stanchezza né chiazze rosse, correvo e stavo bene. Purtroppo o per fortuna, tornato a Bologna ho fatto altri esami del sangue e ho scoperto anomalie. Quando è arrivato il responso, leucemia, è stata una bella botta» la ricostruzione trasformata in un nuovo scatto in avanti. «Mi sono chiuso in stanza per due giorni a riflettere e a piangere, tutta la vita mi è passata davanti» la confessione tradita da attimi di commozione e di silenzio sopraffatto dall'applauso dei cronisti presenti. «Attenzione, queste non sono lacrime di paura, io la sfida la vincerò ma ho bisogno di chi mi vuole bene e non voglio vedere gente che piange, non voglio far pena, io sto bene» è diventato il suo mantra, il suo nuovo grido di battaglia. Senza la corazza, Sinisa Mihajlovic ha voluto anche rendere un servigio alla comunità segnalando l'importanza della prevenzione. «Faccio sempre controlli, mio papà è morto di cancro, se non li avessi fatti avrei forse scoperto la malattia l'anno prossimo. Nessuno deve pensare di essere indistruttibile, invincibile perché quando ti arriva, ti cambia la vita. Ti svegli e pensi che sia un incubo e invece non è un incubo» la sua durissima esperienza raccontata con garbo, come si racconta una favola. «State sereni, io la vinco questa battaglia e spero dopo, alla fine, di essere una persona più matura». Già perché Walter Sabatini, il ds, schierato al suo fianco, nel sentirlo parlare così, ha avuto un moto d'ammirazione. «Al suo posto mi sarei nascosto in una grotta» ha spiegato prima di declinare la decisione della società. «Sinisa rimane il nostro allenatore. Preferisco lui non al 100% a qualunque altro allenatore» la motivazione. Gianni Nanni, il medico del Bologna che martedì lo scorterà al reparto di ematologia del Sant'Orsola, non ha dubbi: «Tornerà una macchina da guerra». Come sono convinti tutti quelli che lo conoscono meglio. Roberto Mancini, il ct, sodale di cento battaglie calcistiche, gli ha dedicato un post su Instagram: «Questo ti fa un baffo». E la Samp ha citato una frase di Boskov per ricordargli che «dopo pioggia viene sole». Buon sole, Sinisa.
Anima, lacrime, fragole e razzismo: le 11 frasi del guerriero Mihajlovic. Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Corriere.it.
1. Sul Torino: «Mi dicevano che il Torino era diverso da qualsiasi altra squadra, si respirano pagine di storia, belle, drammatiche e intense. Anima, cuore, orgoglio, lacrime e sudore come piace a me, non vedevo l’ora di tornare a lavorare in una società che mi somigliasse. Il Toro è abituato a stare nell’arena, a combattere e lottare».
2. Sulla Lazio: «Io sono biancoceleste. Per quello che ho vinto e per quello che mi hanno dato i tifosi della Lazio. Rispetto la Roma e i suoi sostenitori, ma io sono laziale».
3. Sul razzismo: «Parliamo tanto di razzismo in Italia, ma non più solo bianco o nero. Anche zingaro, o serbo, di m... Si parla di razzismo solo con bianchi e neri, se si tocca un popolo intero va tutto bene. Ma questa è l’Italia. Comunque, chi mi ha chiamato zingaro lo aspetto, me lo venga a dire in faccia. Sanno dove vivo, vediamo se hanno le palle».
4. Su Roberto Mancini: «Se sono diventato un allenatore, lo devo a Roberto e per questo lo ringrazio. Non dimentico mai ciò che ha fatto per me, anche quando giocavamo insieme. A volte abbiamo litigato perché se subivamo un gol, lui dava sempre la colpa a noi difensori e io mi arrabbiavo di brutto. Alla fine però eravamo e siamo come fratelli».
5. Su Mario Balotelli: «Mario deve continuare a lavorare come sta facendo e deve essere contento di essere menato, se non prende botte significa che è scarso».
6. Sulle motivazioni da derby: «Se uno non è motivato per giocare il derby deve cambiare mestiere, meglio che faccia il ragioniere».
7. Sul mercato: «Anche a me piacciono le fragole, ma non devono costare come le ostriche. 25 milioni sono tanti soldi per un giocatore comunque giovane che in prospettiva può diventare molto forte».
8. Sul Milan: “Ci sono squadre che hanno il diritto di sognare di vincere e altre che hanno il dovere di vincere: il Milan fa parte di queste ultime”.
9. Sul derby di Milano «Chi non salta nerazzurro è. Sono anni che Milan non fa Milan, ci rifaremo nel derby». (Poi perderà 1-0)
10. Sulla sua vita privata «Avere un figlio a 50 anni è come ricominciare. La vita mi ha dato tutto, rivorrei soltanto mio padre».
11. Su Maksimovic «Per me è morto». (In rosa al Torino nell’estate 2016, il difensore aveva deciso di sparire dai radar granata per essere ceduto al Napoli)
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2019. Dopo una fuga di notizie che aveva allarmato il calcio italiano, Sinisa Mihajlovic ha convocato una conferenza stampa per annunciare la sua leucemia, aggiungendo: «Sembra un incubo ma è la realtà. Non ho paura, io vincerò e diventerò un uomo migliore e più maturo. Nella vita nessuno mi ha regalato nulla e mi guadagnerò anche questa vittoria». Ed in effetti l'allenatore serbo ha buone probabilità di vincere la sua battaglia, poiché oggi queste malattie ematologiche non incutono più il timore di una volta, perché sono non solo curabili ma addirittura guaribili. Le leucemie sono tumori maligni liquidi, neoplasie del sangue che si sviluppano nel midollo osseo, nel sangue stesso, nel sistema linfatico e in altri tessuti, e si distinguono in acute e croniche a seconda della velocità di comparsa e di progressione di malattia. Il nome leucemia deriva dalla parola greca "leucos" che significa bianco, ed "ema" sangue, proprio perché questa patologia ha inizio nei globuli bianchi, le cellule incaricate di combattere le infezioni. Nei pazienti leucemici infatti, il midollo osseo inizia a produrre un numero elevatissimo di globuli bianchi anomali, milioni di cellule che non funzionano correttamente, non difendono dalle infezioni, per cui il primo sintomo che compare è la febbre persistente, come quella denunciata da Sinisa, e che lo ha indotto fortunatamente ad un rapido controllo medico. Durante il suo commosso racconto Mihajlovic ha rivelato di controllare spesso il suo stato di salute, avendo avuto un padre morto di cancro, e di aver eseguito tre mesi prima un check up completo, nel quale gli esami risultavano tutti regolari, di aver sempre condotto una vita sana, allenandosi tutti i giorni, senza accusare assolutamente alcun sintomo. Il dato certo infatti, è che per le leucemie non esiste alcuna prevenzione, poiché le malattie tumorali del sangue colpiscono all' improvviso come un' influenza, e non ci sono esami di screening da poter effettuare come nel caso dei tumori solidi, del cancro degli organi per intenderci, poiché essendo queste patologie emopoietiche di tipo sistemico, ossia coinvolgenti tutto l' organismo in quanto tumori "liquidi" del sangue, è importante saperne riconoscere i sintomi. Nel caso di una febbre persistente, o di una infezione che non risponde alle comuni terapie antibiotiche, o ancora nel caso di comparsa di eccessiva stanchezza e pallore cutaneo, o di sanguinamenti spontanei e non provocati, come quelli delle gengive, o di altri sintomi che includono sudorazioni eccessive, specialmente notturne, con ingrandimento di fegato o milza, o di dolori ossei non giustificabili, è consigliabile un consulto medico con prescrizione delle comune analisi del sangue. Sinisa come unico sintomo, oltre alla febbre, aveva accusato un lieve dolore all' anca, per il quale aveva eseguito una risonanza magnetica non indicativa, ma poi un semplice esame emocromocitometrico ed una valutazione dello striscio di sangue venoso periferico, hanno permesso di sospettare immediatamente la diagnosi leucemica acuta, ed un aspirato midollare ne ha individuato con certezza il tipo istologico ed anche il tipo di strategia terapeutica da adottare. Le leucemie acute oggi sono malattie curabili con alte possibilità di guarigione, e le terapie mettono a disposizione farmaci innovativi e potenti, quali gli anticorpi monoclonali o gli inibitori delle tirosin-chinasi, che vanno a colpire esclusivamente le cellule in replicazione tumorale, risparmiando quelle sane, sterilizzando in tale modo il sangue ed il midollo dalle cellule neoplastiche, ed i pazienti che hanno una remissione completa di malattia per più di cinque anni si posso considerare guariti. In base al tipo cellulare interessato dalla proliferazione neoplastica, le leucemie si distinguono in "linfoidi" quando il tumore colpisce i linfociti e le cellule della linea linfoide, e "mieloidi" quando la trasformazione maligna riguarda le componente della linea mieloide (globuli rossi, piastrine e leucociti). La leucemia acuta linfoide è la più comune nei bambini, ma compare anche nel paziente sopra i 65anni, mentre la mieloide acuta è più frequente nell' adulto. Il midollo osseo mantiene per tutto l' arco della vita la capacità di sostituire regolarmente l' enorme numero di cellule ematiche senescenti, le quali, dopo la loro immissione nel sangue periferico, hanno vita breve, poiché i globuli bianchi vivono 1 solo giorno, le piastrine 4-6 giorni e i globuli rossi circa 120 giorni, ed in condizione normale esiste un equilibrio tra il numero di cellule che vengono prodotte e quello che è destinato a morire. Quando insorge la leucemia, il midollo osseo produce globuli bianchi anomali, ovvero cellule leucemiche tumorali che non svolgono la normale attività difensiva dalle infezioni ed infiammazioni, e lo sviluppo dei globuli rossi e delle piastrine viene "soffocato" dai cloni tumorali, interferendo significativamente e portando a gravi problemi come anemia, emorragie ed infezioni sistemiche. Le leucemie acute sono malattie rapidamente progressive, caratterizzate da un decorso rapido e dalla comparsa precoce di sintomi, insorgono nei bambini e nei giovani adulti, mentre le leucemie croniche hanno un decorso più lento, la proliferazione nel sangue è meno rapida, spesso sono asintomatiche, e sono caratteristiche dell' età senile. La gravità di una leucemia dipende dal tipo di cellule interessate, dalla risposta alle cure e dal coinvolgimento dei vari organi, ed essendo patologie che non si possono operare, la terapia è esclusivamente medica, a base di chemioterapici e degli anticorpi monoclonali, che assicurano la sopravvivenza a cinque anni in oltre il 68% dei pazienti trattati nei casi di leucemia linfatica, nell' 85% nei bambini sotto i 15 anni, con una percentuale minore in quelli con leucemia mieloide. Se la chemioterapia di induzione ha successo, il paziente ottiene la remissione completa della malattia, e la terapia di mantenimento ha lo scopo di mantenere la remissione completa il più a lungo possibile. Quando la scomparsa della leucemia non è invece completa, o il tipo di leucemia è ad alto rischio, il paziente leucemico viene avviato al trapianto di midollo, che oggi si effettua con le proprie cellule staminali emopoietiche, che vengono prelevate dal paziente stesso, selezionate, moltiplicate ed in seguito reinfuse in una vena del braccio come una comune trasfusione di sangue. Il trapianto allogenico trova indicazione per tutte le leucemie ad alto rischio che raggiungono la remissione completa, in quelle in cui si assiste ad una ricaduta, o nei casi in cui la risposta terapeutica venga giudicata insoddisfacente od incompleta. Il trapianto di staminali oggi è l' unica arma in grado di offrire la speranza di guarigione anche in leucemie in fase avanzata o refrattarie ai trattamenti convenzionali, e negli ultimi decenni si è consolidato come una terapia straordinaria che ha assicurato nel mondo milioni di guarigioni una volta ritenute impossibili. Sinisa Mihajlovic ha avuto la fortuna di accertare la sua malattia all' esordio, e la sua leucemia non ha ancora compromesso le condizioni generali, per cui ha ottime possibilità di remissione completa della patologia ematologica affrontando la terapia medica ed un eventuale trapianto di staminali. Un percorso terapeutico che richiede coraggio e determinazione, in quanto lungo e faticoso, ma una volta superato lo shock iniziale della diagnosi, sempre traumatico per qualunque paziente, («ho passato due giorni chiuso in camera a piangere essendo precipitato in un incubo») egli imparerà a guardare negli occhi la sua leucemia, ad accettarla, a combatterla e a guarirla, con la forza che all' inizio si pensa di non avere, ma che emerge in tutti i pazienti colpiti da questa patologia, in coloro che hanno l' istinto alla vita, e che hanno attorno affetti ed amori dai quali non vogliono distaccarsi, (Sinisa ha una moglie amatissima e 5 figli) e con i quali desiderano continuare a vivere e tornare a sorridere.
Ps: in Italia vengono diagnosticati circa 15 nuovi casi di leucemia ogni 100mila persone all' anno, ovvero: 5.300 nuovi casi ogni anno tra gli uomini e circa 3.900 tra le donne. Nel nostro Paese le forme più frequenti di leucemia sono la linfatica cronica (33,5% del totale), la mieloide acuta (26,4%), la mieloide cronica (14,1%) e la linfatica acuta (9,5%).
Claudia Lai, la moglie di Nainggolan: «Vi racconto il mio periodo più buio». Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. «Una foto in bianco e nero per raccontare la mia storia, fermare tutto e subito per ricordare un momento in particolare, il periodo più brutto della mia Vita. Un periodo che spero diventi al più presto soltanto un brutto ricordo(11/9/2019)». Con una fotografia in bianco e nero postata su Instagram Claudia Lai, moglie del giocatore del Cagliari Radja Nainggolan, è tornata a parlare delle cure che sta affrontando per sconfiggere il cancro. L’annuncio della malattia era arrivato lo scorso 11 luglio, data in cui aveva iniziato la chemioterapia. L'immagine è stata accolta dall'affetto dei fan e dai messaggi degli amici, come quello di Miralem Pjanić, compagno del centrocampista del Cagliari ai tempi della Roma. «È da un mese che mi sveglio la mattina sperando che si tratti solo di un incubo». Così Lai aveva annunciato su Instagram l'inizio della chemioterapia. «Ho sperato che questa giornata arrivasse il più tardi possibile ma non è stato così — aveva scritto — e con loro anche la mia allegria.. da oggi inizierò un nuovo percorso della mia vita, la chemioterapia». La donna, sposata con il calciatore ex Roma e Inter dal 2011 (proprio Nainggolan aveva deciso di lasciare Milano per tornare a Cagliari e stare vicino alla moglie, ndr) e mamma di due figlie, aveva raccontato: «Dopo secchiate di lacrime versate, è ora di andare a combattere questa brutta bestia». E augurando un in bocca al lupo a lei stessa «e a tutte le persone che stanno vivendo il mio stesso incubo», aveva concluso il post con l'hashtag: #nonperderemaiilsorriso.
La moglie di Nainggolan continua la battaglia contro il cancro: "Cos'ho fatto di male per meritarmi questo?" Claudia Lai sta combattendo contro il cancro e ora ha ricominciato la radioterapia. Accanto a lei il marito, le figlie e tutta la sua famiglia. Anna Rossi, Sabato 26/10/2019, su Il Giornale. La moglie di Radja Nainggolan ha annunciato lo scorso luglio di avere il cancro. Un brutto annuncio che ha sconvolto la sua famiglia e i migliaia di fan che la seguono da tempo. Claudia sui social spesso si sfoga, si è mostrata quando si è rasata i capelli e non ha paura di farsi vedere nella sua fragilità. Claudia è una leonessa che vuole e deve vincere questa "guerra" per sé, ma anche per la sua famiglia. Aysha e Mailey, le due figlie, danno a Claudia Lai tutta la forza di cui ha bisogno. E anche il marito non è da meno, tanto è che lo scorso week end le ha pure dedicato un goal. Ma proprio in questi giorni, Claudia ha annunciato che ha ripreso la radioterapia. E mentre si appresta ad arrivare la festa di Halloween, la moglie di Radja ha voluto ricordare lo scorso anno. Quando questo incubo non esisteva ancora. "Domani - scrive - sarà l’inizio di un nuovo percorso, una nuova avventura.. la radioterapia... sono ancora incredula sull’accaduto, tante volte mi domando cos’abbia fatto di male per meritarmi tutto questo...! Poi mi rendo conto che come me ci sono milioni di persone che combattono a testa alta, con un unica speranza... uscirne quanto prima!!! Sono stanca e stufa di tutto, vorrei come ogni anno in questo periodo dover pensare, cosa organizzare per Halloween alle mie bambine, invece devo solo pensare ad organizzarmi le giornate in ospedale... sarà un Natale di merda, saranno feste tristi ma #STIGRANDISSIMICAZZI ... avanti tutta. Vado l’ammazzo e torno... Bambine mie, niente lacrime, recupereremo tutto il tempo perso!!! PAROLA DI MAMMA". E noi facciamo un grosso in bocca al lupo a Claudia. Forza!
· Morta la bimba di Luis Enrique.
Morta la bimba di Luis Enrique: «Una lotta durata per cinque mesi». Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Corriere.it. Terribile tragedia per Luis Enrique e la sua famiglia. La piccola Xanita, la figlia di 9 anni dell’ex allenatore della Roma, non ce l’ha fatta. Ad annunciarlo è stato proprio Luis Enrique su Twitter: «Nostra figlia Xana è deceduta questo pomeriggio all’età di 9 anni dopo aver combattuto per cinque intensi mesi contro l’osteosarcoma. Ringraziamo tutti per i messaggio d’affetto ricevuti durante questi mesi e apprezziamo la discrezione e la comprensione», si legge. Da ricordare che Luis Enrique aveva lasciato, lo scorso marzo, la guida della Nazionale spagnola, per poi dimettersi a giugno: «Ringraziamo anche il personale degli ospedali di San Joan de Deu e Sant Pau per la loro dedizione e cura. Ringrazio i medici, le infermiere e tutti i volontari. Con una menzione speciale alla equipe di cure palliative di Sant Joan de Deu». Infine: «Ci mancherai moltissimo, ma ti ricorderemo ogni giorno della nostra vita nella speranza che in futuro ci incontreremo di nuovo. Sarai la stella che guida la nostra famiglia. Riposa Xanita».
Dramma Luis Enrique: è morta Xanita, la figlia di nove anni. Per lei aveva lasciato la nazionale spagnola. L'ex tecnico della Roma ed ex ct della Spagna aveva lasciato tutto per seguire la bimba malata di un tumore alle ossa. "Sarai la stella che guida le nostre vite". La Repubblica il 29 agosto 2019. La piccola Xana non ce l'ha fatta. La figlia di 9 anni dell'ex commissario tecnico della Spagna, Luis Enrique, è morta acausa di un tumore alle ossa. A ufficializzare la notizia un comunicato della famiglia. Luis Enrique aveva lasciato lo scorso 19 giugno l'incarico di ct delle "Furie Rosse" proprio per stare accanto alla sua bambina. Oggi la tragica notizia. "Nostra figlia - informa una nota della famiglia - è deceduta oggi pomeriggio all'età di 9 anni dopo aver lottato intensamente per cinque mesi contro un osteosarcoma". Luis Enrique e famiglia ringraziano tutti per il sostegno, la discrezione e la comprensione mostrate in questi mesi. Particolari ringraziamenti al personale degli ospedali di Sant Joan de Deu e Sant Pau, ai medici, agli infermieri e ai volontari, con una menzione speciale per l'equipe di cure di Sant Joan de Deu. Quello del tecnico asturiano, un passato da calciatore nel Barca, Real e nella nazionale iberica, poi la panchina del Barca B, un breve passaggio alla Roma, i trionfi col Barcellona e la guida della Spagna, è un annuncio fatto sui social, e pieno di ringraziamenti a tutti i medici, infermieri, volontari che hanno assistito la piccola Xana e che negli ultimi giorni gli hanno somministrato le cure palliative; e di quanti sapendo il motivo del misterioso addio alla panchina della Roja, mesi fa, gli erano stati vicini con discrezione e amore. "Ci mancherai moltissimo - le uniche concessioni a un dolore intimo e indicibile - Ti ricorderemo ogni giorno della nostra vita, nella speranza che un giorno torneremo ad incontrarci. Sarai la stella che guida la nostra famiglia". Dal premier spagnolo Pedro Sanchez al Barca, dal Real alla federcalcio spagnola, da Nadal alla Roma, all'Inter e al Milan, sono state tantissime le espressioni di cordoglio, un'ondata di commozione, abbracci, solidarietà, per un dramma che ha lasciato tutti sgomenti. Sotto shock anche l'Italia del calcio, che ha spesso incrociato le sue strade con un tecnico arcigno e sempre retto, dal famoso episodio della gomitata di Tassotti a Usa '94 all'esperienza romana. "Non ho parole", il messaggio di Sanchez, come di Sergio Ramos: "Xana sarà la nostra stella. Ci uniamo al dolore della famiglia Martinez Cullell e vogliamo condividere la gratitudine per il suo memorabile esempio di amore e tenerezza". Da oggi, sul profilo twitter di Luis Enrique, la foto è quella di una splendida bimba sorridente.
Silvia Morosi per corriere.it il 30 agosto 2019. La figlia di Luis Enrique non ce l’ha fatta. All’età di 9 anni si è spenta la piccola Xana, dopo cinque mesi di dura battaglia contro un tumore osseo: a renderlo noto è stato l'ex ct della nazionale spagnola con una nota pubblicata sul proprio profilo Twitter. «Ci mancherai molto, ma ti ricorderemo ogni giorno della nostra vita nella speranza che ci incontreremo di nuovo in futuro. Sarai la stella che guida la nostra famiglia», ha scritto Enrique, ringraziando «i medici, gli infermieri, il personale e i volontari degli ospedali San Joan de Deu e Sant Pau». Tantissimi i messaggi social di cordoglio e di affetto inviati all'allenatore e alla sua famiglia, dal mondo del calcio e dello sport. I primi a muoversi, sono stati i club: quelli dove ha militato, Roma e Barcellona, ma anche il Real Madrid e la nazionale spagnola: «Un giorno abbiamo conquistato la nostra stella, e da oggi ne abbiamo un’altra che ci illumina il cielo con la sua luce. Riposa in pace, piccola Xana. Dalla Nazionale di calcio spagnola ci uniamo al dolore della famiglia Martinez Cullell e condividiamo la gratitudine per il suo ammirabile esempio di amore e coraggio». Anche la Roma, in un tweet, ha dedicato un pensiero al suo ex allenatore: «L'ASRoma si stringe attorno alla famiglia di Luis Enrique in questo momento di dolore. Coraggio Mister», si legge nel messaggio del club giallorosso, seguito da quelli di altri club italiani come Inter e Milan. Francesco Totti non ha fatto mancare il suo messaggio di cordoglio nei confronti: «Non ci sono parole… riposa in pace piccola stella», ha scritto l'ex capitano giallorosso su Instagram. Tra i messaggi di cordoglio, anche quello di Luis Alberto, il trequartista della Lazio, che ha ripreso il tweet con cui Enrique ha dato il triste annuncio: «Come padre non posso immaginarmi un dolore più grande. Le mie più sentite condoglianze a Luis Enrique e tutta la sua famiglia. Riposa in pace, Xanita». Gerard Piqué, difensore del Barcellona e presidente del Futbol Club Andorra, ha scritto: «Mister, mi dispiace dal profondo. Riposa Xana». Sergio Ramos, difensore del Real Madrid e della nazionale spagnola, ha aggiunto: «Míster, todo nuestro apoyo y cariño para ti y para tu familia. No hay palabras, pero nos tienes a tu lado siempre» («Mister, tutto il nostro sostegno e il nostro amore per te e la tua famiglia. Non ci sono parole, siamo sempre al tuo fianco»). Tra i tanti l'ex attaccante Bobo Vieri ha immediatamente diffuso sui social il suo cordoglio scrivendo un post in cui dice di pregare tutti per la piccola Xana volata in cielo a soli nove anni e per la famiglia. Non solo il mondo del calcio, ma quello dello sport in generale si è unito al dolore di Enrique. Il campione di tennis Rafa Nadal — a New York per gli US Open — ha scritto: «Sono molto triste e non posso immaginare il dolore della famiglia. Un abbraccio enorme a Luis Enrique e alla sua famiglia da lontano». Anche il premier spagnolo Pedro Sanchez ha espresso la sua vicinanza a Enrique: «Non ho parole».
L’addio di Luis Enrique alla figlia Da Messi a Totti: «Siamo con te». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Luca Valdisserri su Corriere.it. «Piangevo perché non avevo scarpe, poi ho incontrato un uomo che non aveva i piedi». La bio che Luis Enrique aveva scritto sul suo profilo Twitter, letta ora, fa accapponare la pelle. L’ex c.t. della Spagna, allenatore di Barcellona e Roma, ha affidato al social il messaggio più terrificante per un padre: la notizia della morte di sua figlia. Xana aveva 9 anni ed è stata portata via da un tumore osseo. «Nostra figlia è morta dopo aver lottato per 5 intensi mesi contro un osteosarcoma», ha scritto. Lucho ha ringraziato il personale degli ospedali catalani Sant Joan de Deus e Sant Pau, con lo straziante particolare della «menzione speciale all’equipe di cure palliative». In questi casi si dice che non ci sono parole. Luis Enrique, invece, ha trovato per Xana le più toccanti: «Ci mancherai molto, ma ti ricorderemo ogni giorno della nostra vita nella speranza che ci incontreremo di nuovo in futuro. Sarai la stella che guida la nostra famiglia». La notizia ha unito nel dolore tutto il mondo del calcio, senza divisione di tifo. E pensare che in passato, da giocatore, Lucho era stato pietra dello scandalo per il passaggio dal Real Madrid al Barcellona. Così Pep Guardiola, amico intimo che lo consigliò come allenatore ai dirigenti della Roma: «Spero che possa sentire che siamo con lui e spero di poterlo vedere al più presto per dirgli che gli voglio bene». Così Cristiano Ronaldo: «Tutta la forza del mondo mister, e un abbraccio enorme». E poi tutto il Barça, a partire da Leo Messi, che ieri si è fermato in allenamento per un minuto di silenzio in cui in molti non hanno trattenuto le lacrime. E il capitano del Real Madrid, Sergio Ramos. E il tennista Rafa Nadal. E il primo ministro Pedro Sanchez, ma soprattutto, migliaia di tifosi comuni. In Italia, il dolore di Francesco Totti: «Riposa in pace piccola stella». Il rispetto del presidente Urbano Cairo e del Torino «che si stringono commossi intorno a Luis Enrique e alla sua famiglia». Le parole di Carlo Ancelotti: «Gli sono vicino». I ricordi di tanti club sui profili ufficiali. Il 25 marzo, Luis Enrique è a Malta con la nazionale spagnola, per una gara di qualificazione a Euro 2020. È lì che ha riceve una telefonata della moglie, Elena Cullell, una di quelle donne che fanno la fortuna dei calciatori che le hanno sposate. La sentenza è già senza appello. La Federcalcio mette a disposizione un aereo per riportare Luis Enrique a Barcellona, accompagnato dallo psicologo della nazionale, Joaquin Valdes, suo grande amico. La Spagna viene affidata al vice, Robert Moreno, che lo ha seguito nel Barça B, nella Roma, nel Celta Vigo e nel Barcellona. Il 19 giugno Luis Enrique lascia definitivamente la panchina della nazionale «per motivi personali». La sua statura morale è tale che nessun media mette in piazza il suo dolore. Una forma di rispetto che arriva fino all’ultimo giorno anche se parecchi in Spagna e qualcuno anche in Italia sapeva la verità. Luis Enrique ha allenato la Roma per una sola stagione, ma chi lo ha conosciuto ha avuto il tempo necessario per farselo entrare nel cuore. Un particolare dice tutto: viveva all’Olgiata, Roma Nord, anche se il centro sportivo di Trigoria sta a Roma Sud. Con il traffico può essere un’ora di macchina. Anche un’ora e mezza. Ogni giorno. Ma i figli più grandi, Pacho e Sira, avevano la scuola internazionale in quella zona e preferiva spostarsi lui piuttosto che costringere loro a togliere tempo allo studio. Lucho ha chiesto che i funerali siano in forma strettamente privata. Poi si chiuderà nel suo dolore e prenderà la bicicletta, grande amore. Cercherà l’impossibile: attenuare il dolore con la fatica. Ma la salita della vita sa essere peggiore di qualsiasi montagna e non conosce mai discesa.
Luis Enrique torna c.t. della Spagna: «Moreno è stato sleale, non lo voglio più con me». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 da Corriere.it. «L’unico responsabile dell’assenza di Moreno nel mio staff sono io. La Federazione non c’entra. Il problema con lui nasce il 12 settembre, nell’unico contatto che abbiamo avuto. Facciamo una riunione a casa mia, capisco che vuole fare gli Europei da c.t. e poi, eventualmente, tornare a fare il mio vice». Così Luis Enrique ha raccontato la sua verità sul rapporto spezzato con il suo ex vice, nel giorno in cui ha ufficialmente ripreso la guida della Spagna. «Mi metto nei suoi panni — ha continuato Luis Enrique —, capisco che per lui sia l’occasione della vita, l’ambizione per me è una virtù, ma finisce di esserlo quando è smisurata, allora diventa un difetto. Per me è un comportamento sleale, io non mi sarei comportato così e non voglio gente con queste caratteristiche nel mio staff. Gli dico che non lo voglio e che ho intenzione di tornare a lavorare, anche se non so quando. La riunione è finita in maniera cordiale. Sia chiaro che io non ho mai chiamato la Federazione né ho permesso che eventuali terzi si muovessero per me. A fine ottobre mi hanno chiamato il presidente Rubiales e il direttore Molina, sono sempre stati affettuosi e leali. Gli ho subito detto che non avevano impegni con me. Abbiamo parlato, mi hanno proposto di tornare e tutti sapete come è andata. Mi sento responsabile e non orgoglioso di come sono andate le cose, ma ora ho voglia di pensare solo alla Nazionale, di parlare con i giocatori, non ci saranno stravolgimenti anche se qualche scelta sarà diversa». Luis Enrique ha tanto da dire, ne ha passate tante negli ultimi mesi, ha vissuto la tragedia peggiore che possa capitare a un padre con la morte della figlia di appena 9 anni, ma per se stesso, per la sua Xana che non c’è più e per i suoi cari, ha deciso che era arrivato il momento di tornare a lavorare, a vivere. Lo farà ripartendo da dove aveva lasciato, dalla guida della Spagna, anche se senza Moreno, il vice che lo aveva sostituito dopo le sue dimissioni e che ha portato la squadra agli Europei. «So che l’attenzione mediatica è rivolta a quanto avvenuto negli ultimi mesi — ha continuato il c.t. — mi vedo costretto a dover dare molte spiegazioni, sono una persona che non ama le polemiche e chi mi conosce lo sa, ma mi ritrovo coinvolto in un caso che vede protagonista una persona che ha lavorato con me per tanti anni. Abbiamo valori diversi, ho deciso in un certo modo e sono orgoglioso della mia scelta. Non mi pento di nulla, ma non vado fiero della situazione che si è venuta a creare». Gli chiedono se non sia triste per la rottura dei rapporti con Moreno. «Nella vita sono le situazioni che vivi che ti permettono di conoscere meglio le persone, è il modo migliore per capire chi è tuo amico e chi no. Dal punto di vista professionale non ho nessuna critica per lui, è un allenatore molto preparato e i risultati lo dimostrano, come persona non ho mai avuto dubbi su di lui, ma poi le sue parole non hanno più trovato riscontro nei comportamenti. Non voglio aggiungere altro, dico solo che non sono il buono, ma neanche il cattivo del film». Il contratto di Luis Enrique sarà fino al 2022: «Non sono solito firmare lunghi accordi, ma in questo caso sono felice di averlo fatto per tre anni e non chiudo la porta per allungare ancora questa avventura, ma allo stesso modo non avrei problemi se un giorno il presidente Rubiales mi dicesse di andar via».
· Silvio Baldini: l’anarchico.
“MAI STATO CON I PIU’ FORTI, IO SONO UN ANARCHICO”. Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano il 18 luglio 2019. Il parametro della ricchezza per Silvio Baldini è il frigo di casa pieno. Non è una questione di abbondanza assoluta, di opulenza, di esibizione, ma è la base dell' accoglienza, il piacere di condividere e aggiungere quel posto a tavola. Guardarsi negli occhi. Capire chi si ha di fronte. Confrontarsi. Cercare indicazioni anche attraverso la natura ("è passata una farfalla, buon segno"). Rispettare gli insegnamenti della montagna o della cultura contadina. Silvio Baldini si definisce uomo dei monti. E lì un giorno vuole tornare. Oggi ha 61 anni, vive a Massa Carrara, quando stringe la mano ha una presa decisa, di chi quella mano la può chiudere a pugno e se necessario difendersi e difendere. Per anni ha allenato in Serie A, da quando è arrivata la chiamata del Palermo e dell'allora presidente Zamparini ("lì la mia carriera è finita. Ho sbagliato e perso i giusti stimoli"). È cresciuto tra bar, osterie, malavitosi, cozze raccolte all' alba e vendute ai ristoranti, fughe d' amore in Brasile e amici sempre più grandi di lui. Sa quali sono le regole della sopravvivenza, e come spiega spesso Daniele Adani, "è per molti un maestro di vita". Oggi allena gratis la Carrarese in Serie C "solo perché avevo bisogno di ritrovare il gusto originario".
Maestro di vita.
«Le definizioni non mi piacciono, comunque con Daniele abbiamo un rapporto bellissimo, una volta l' ho portato in montagna alle cinque del mattino. E da lì è cambiato il suo modo di vedere il calcio».
Perché?
«Era squalificato, così gli ho mostrato un'alba differente. Differenti prospettive. È importante ribaltare i punti di vista e magari affidarsi alle sensazioni, che ogni tanto diventano intuizioni. Come per Antonio Conte».
Cioè?
«La prima volta che l' ho visto a Coverciano ho pensato: "Lui diventerà un grande allenatore". E non so il perché».
Poi siete diventati amici.
«Diverse volte è venuto a pranzo, poi un giorno l'ho chiamato: "Devi imitare Guardiola": lui si è presentato dal presidente del Barcellona e ha chiesto la panchina blaugrana; "Tu devi andare da Agnelli e proporti per la Juve"».
L'ha ascoltata.
«Uscito dall'incontro con la dirigenza bianconera mi ha immediatamente chiamato: "Sono l'allenatore"».
Altra predizione?
«Torneo di Viareggio, vedo giocare un giovanissimo Ciro Immobile, poco dopo incrocio il padre e lo tranquillizzo: "Suo figlio arriverà in Nazionale". Adani è testimone.
Come sono i ragazzi della C?
«Eccezionali, ovviamente sognano la Serie A, ma sono circondati da procuratori e genitori scemi».
Questo un po' in tutte le categorie.
«Un giorno mi chiamano a Coverciano (è il Centro Tecnico Federale) per i corsi di aggiornamento e parlare del 4-2-3-1, rispondo: "Se vengo, l'argomento lo decido io"».
Ovvio.
«Così li ho edotti della storia di Mario, il pastore».
Qual è?
«Per sei anni sono stato fermo, non allenavo, per questo partivo il primo novembre per la Sicilia, restavo quindici giorni lì, poi tornavo a casa una settimana, e altri quindici giorni sull' isola. Giù e su fino a febbraio».
Per cosa?
«Vivevo sui monti insieme ai miei cani ed è lì che ho conosciuto Mario: la sera mangiavamo insieme, chiacchieravamo, dormivamo in una baita, non avevamo i sevizi igienici, ed era normale affrontare i temi centrali della vita. La sua, di vita, per me è una stella polare dell' esistenza».
Come mai?
«Ultimo di sette figli, nessun lusso, solo praticità; per lui, da bambino, il giorno più bello dell' anno era la Fiera perché portavano gli animali da comprare o barattare.
Insomma, Mario.
«Un gruppo di Rom possedeva un cavallo bellissimo, chi riusciva a cavalcarlo, dietro una scommessa di 5 mila lire, lo vinceva. Impossibile. Mario guarda l'animale e gli sussurra: "Sarai mio". A quanto narra lui l'animale lo guarda con occhio diffidente ma curioso».
Catarsi.
«Uno che non ha studiato, analfabeta, riesce a cogliere lati profondi della vita. Questo mi colpisce. Mario ha passione, parla con l'anima, e non serve cultura per suonare certe corde - (Ci pensa) - Cassano e Maradona non sono delle cime, eppure sono Cassano e Maradona: vivono d' istinto. A Cassano l'istinto è costato caro. Se si fosse allenato sarebbe arrivato al livello di Messi o Ronaldo».
Alla fine, il cavallo?
«Mario chiede i soldi al padre che gli risponde: "Non ho 5 mila lire e non sei pronto"; oggi è impossibile trovare un genitore capace di capire qual è il momento: al campo arrivano frotte di parenti pronti a lanciare pargoli senza paracadute».
Presunti assegni circolari.
«Mi chiamano in continuazione per far giocare chiunque, tutti chiedono favori. Il padre di Mario no. Il padre di Mario lo sprona a mettere da parte i soldi. Così passano gli anni, arriva il giorno della Fiera, e lui è pronto per la sfida, è il suo momento, è cresciuto, maturato e consapevole».
Ciò che manca al calcio.
«Esatto. Ma al momento di affrontare il cavallo, si piscia sotto. Il padre gli molla un ceffone: "Sii uomo". "Va bene". Sale. L' animale prova a buttarlo a terra, corre, scalcia, lui non molla e lo doma. Alla fine i Rom non accettano la sconfitta, il padre estrae il coltello: "Ora è di mio figlio". Dopo 8 anni, un giorno muore il padre e un'ora dopo pure il cavallo. Mario ha pianto per l'animale».
Non per il padre.
«È normale, è il ciclo della vita. Poco tempo fa ho perso il mio, aveva 87 anni, non c'è da disperarsi, tocca a tutti».
Cos'è il dolore?
«Il tradimento dal punto di vista umano».
Hanno scritto che vuol diventare pastore.
«Quando smetto desidero immergermi nella natura, senza rotture di coglioni, altrimenti mi tocca finire in galera».
Che c'entra la galera?
«Qui intorno è pieno di scemi, hanno rubato a tutti, se ci provano sono cazzi, mica mollo facile».
Non ci sono dubbi.
«In questa casa non c'è nulla da rubare, non ci sono gioielli, ma ho sempre il frigo pieno.
Per quanto intende allenare?
«Fino a quando mi diverto».
Lei da ragazzo.
«Sono cresciuto con i miei nonni, uno in particolare, fascista, mi portava al bar a giocare a carte».
Con gli altri ragazzi?
«Sono sempre stato con i più grandi, i miei nonni possedevano un' osteria: lì si cimentavano con la morra, un gioco che al di fuori sembra cretino, al contrario è necessaria l' astuzia per anticipare il movimento dell' avversario».
Imparato da suo nonno?
«Non si insegna. Chi sa non lo tramanda».
Alcool?
«Astemio. Solo una volta mi sono ubriacato, ma per provare e capire: sono stato talmente male da lasciar perdere. Per sempre. Neanche fumo».
Anomalia.
«Nel calcio invece girano le canne».
Tante?
«La domenica sera capita».
Ha cambiato molte squadre.
«Non le ho contate».
Le dispiace non essersi fermato per periodi lunghi?
«È impossibile con i direttori sportivi di oggi: devono difendere il loro orto e ti scaricano alla prima difficoltà».
Ha provato con la televisione.
«Andavo perché cercavo un modo di esternare, ma anche quel mondo è pieno di gelosie e invidie. Mi scappava da ridere».
Passa per comunista.
«Mai stato. Anarchico sì».
Allora, come mai?
«Forse perché sono cresciuto con molti amici di Lotta Continua, ma non sono mai andato a sentire un comizio di Adriano Sofri; mio nonno ripeteva: "Una volta erano tutti fascisti, poi all'improvviso no; noi italiani siamo un popolo di merda, sempre con il vincitore"».
Ha ceduto a Zamparini.
«La colpa è di mia moglie».
Scarica su di lei?
«Un giorno torno a casa e le dico: "Ho ricevuto un'offerta incredibile: tre anni a due miliardi l'anno"».
Tantissimo.
«Allora quella cifra la prendevano solo gli allenatori delle big».
Risposta?
«Abbiamo tre figli e niente alle spalle».
Era vero?
«A quel tempo eravamo sempre sotto in banca: quando ho iniziato ad allenare il Chievo avevo un rosso di 28 milioni».
Quindi?
«Ho accettato e da quel giorno ho smesso di essere un allenatore. Consapevole di ciò».
Consapevole.
«Ho iniziato a controllare la Borsa o guardare il prezzo degli immobili; ho mollato la mia passione e ho raschiato il barile. Per questa ragione adesso alleno gratis».
Ha sbagliato, quindi.
«Era più giusto finire in squadre come il Genoa, la Sampdoria o la Fiorentina, guadagnare meno, ma costruire. Invece ho perso».
Basta saperlo.
«Oggi vivo con una pensione da 2.400 euro al mese e gestisce tutto mia moglie. Ribadisco: il frigo è sempre pieno, il superfluo non mi interessa (mostra l' orologio) : questo l' ho pagato 200 euro, lo indosso da anni».
Torniamo a lei da ragazzo.
«A vent' anni sono partito per il Brasile e senza dire nulla ai miei».
Perché lì?
«Ero innamorato di una brasiliana».
Conosciuta dove?
«Al night. A quel tempo frequentavo i luoghi più equivoci della zona, molti miei amici di allora sono morti».
Morti di cosa?
«Vivevano di espedienti, non temevano nulla, sfrontati, esagerati. Anche armati».
Proprio amici suoi?
«Uno di loro è stato coinvolto nella vicende della Banda della Magliana».
Chi?
«Dante Del Santo detto "Il Cinghiale", lo conoscevo bene (è stato accusato di essere uno dei killer di Renatino De Pedis, ucciso a Roma nel 1990); chi ha rovinato questa generazione è la cocaina».
Lei presente ma esterno.
«Mi ha salvato diventare allenatore: quando avevo trent'anni già guidavo una formazione di C e senza patentino. E poi la salvezza definitiva l'ho raggiunta grazie all' incontro con mia moglie: mi ha conquistato con il silenzio; se mi incazzo non dice nulla, si mette a piangere».
Altro che night.
«La brasiliana era una spogliarellista, mi innamoro e la salvo, altrimenti la obbligavano a prostituirsi».
Astemio pure al night.
«Gino, taglialegna anarchico, da ragazzo mi ha spiegato: "Se hai soldi non prendere mai la sbornia, altrimenti te li portano via; le sbornie vanno bene quando hai i debiti e dici all'oste: Un giorno pago"».
La sua giornata in Brasile.
«Andavo al mare, in giro, poi magari allo stadio: nel 1980 ho visto la Nazionale brasiliana al Maracanà: 160 mila spettatori».
Già appassionato di calcio.
«Tornato dal Brasile ho iniziato la carriera da allenatore».
Lei è un sopravvissuto.
«Eccome. Un giorno mi hanno arrestato per bracconaggio».
A quanti anni?
«Sempre 20 o 21. Gino mi rimproverò: "Te l' avevo detto di non andare con gli ubriachi"».
La colpa era di chi stava con lei.
«Da solo non mi avrebbero mai pizzicato. Sono cresciuto in mezzo alla natura, vedo e sento tutto (indica due merli non lontano da noi, e inizia a spiegare qual è il maschio, la femmina, e perché uno è più paffuto dell' altro)».
Nella lite televisiva tra Adani e Allegri, con chi stava?
«Adani, ovvio. Sempre con lui. E comunque Allegri lo conosco bene e da anni».
Di lui cosa ne pensa?
«Ha una capacità straordinaria nel capire chi ha di fronte e in poco tempo».
Bella dote.
«Ha un' intelligenza da strada, la stessa velocità di giudizio dei banditi che ho conosciuto da ragazzo».
Lei e i soldi.
«Dopo aver firmato il contratto con Zamparini me ne hanno chiesti tanti, una processione, e ho cercato di aiutare tutti, pure chi mi stava sulle palle, per questo a un certo punto ho pregato mia moglie di seguire tutti i conti».
Riconoscenza?
«Raramente.
Domani inizia la nuova stagione con la Cararrese.
«Siamo in piena campagna acquisti. Mi aiuta mio figlio grande».
È bravo?
«Un genitore non deve dare un giudizio di merito; posso rispondere: mi serve (si incupisce) Ho paura di avergli trasmesso dei valori difficili da gestire, lui uno come Gino il taglialegna non lo ha conosciuto, ma solo un babbo allenatore».
La segue nelle partite?
«Sempre, e se a volte resto calmo è perché so che c' è lui (ora sorride) Ci abbracciamo solo quando vinciamo».
Solo?
«Non ho cresciuto i miei figli a bacini, queste storie non le sopporto. Quindi la partita è la nostra scusa per un contatto fisico (interviene la moglie: "È come un fiammifero, così si accende, così si spegne. Ed è generoso: se esce e vede qualcuno da solo, lo porta a casa anche se non lo conosce")».
Gioca a carte?
«No, perché per vincere è necessario imbrogliare. Mio nonno imbrogliava».
Ma tra i 21 anni e la carriera d' allenatore, come impegnava le giornate?
«D'estate ero un bagnino».
Ha mai salvato qualcuno?
«Più di uno; riuscivo a stare in apnea tre minuti e mezzo».
Fenomeno.
«Per mantenerci mi svegliavo alle quattro del mattino, indossavo la muta, pescavo branzini e 70-80 chili di cozze; mia moglie tornava a prendermi alle 8, con la colazione, quindi mangiavo, portavamo a casa i molluschi, lei li puliva e la sera li vendevo ai ristoranti. Guadagnavo 80 mila lire al giorno».
Non male.
«E poi affittavo gli ombrelloni alla spiaggia pubblica, mille lire al giorno. Alla fine della stagione racimolavo 10 milioni che mi servivano per l' inverno».
Altro che Zamparini.
«Avevo addosso una cattiveria unica».
Una cattiveria sana.
«Mai stato con i più forti. Io sono un anarchico».
· Stiamo Allegri.
Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2019.
Massimiliano Allegri, com' è il calcio visto da fuori?
«Ci sono due cose sopra le altre: la prima è che i giocatori africani stanno spostando il calcio sul lato fisico. La qualità resta fondamentale, ma la base del calcio sta cambiando. La seconda è che sto rivedendo un grande ritorno del contropiede».
Contropiede?
«Sì, abbiamo seguito per vent' anni Guardiola equivocando. Guardiola raccontava solo la sua eccezione, non era un calcio per tutti. Il Barcellona storico nasce con tre grandi giocatori che pressano alti e spingono le difese avversarie dentro la loro area. Così a sua volta i centrocampisti salgono e si inseriscono e la tua difesa può arrivare a metà campo. Ma devi avere Iniesta, Xavi e Messi. Noi abbiamo preso come lezione comune un argomento che riguardava solo loro».
E il contropiede?
«È uno dei miei argomenti sensibili. Quando sento Sacchi che parla di tenere il pallone e avere atteggiamenti propositivi non capisco cosa dica e mi arrabbio. Perché non dovrebbe essere propositivo giocare in verticale, perché dovrebbe esserlo fare venti passaggi di un metro? Ho visto venti volte le partite di Sacchi, ricordo quella a San Siro in cui il suo Milan segnò cinque gol al Real. Giocava dritto per dritto, come un fuso. Mentre il Real si scambiava con calma il pallone. Era un Milan verticale, esattamente di contropiede, che non è facile da farsi ma quando riesce è un grande spettacolo».
Cosa pensa del calcio di Klopp?
«La base è la stessa del vero calcio moderno, avere tre attaccanti che pressino continuamente la difesa, la tengano chiusa dentro l' area. Se hai Mané, Salah e Firmino devi andare per forza per linee verticali. Klopp ha capito questo e anche che gli attaccanti vanno protetti in tutto il loro lavoro. Quando era al Dortmund prendeva molti più gol, me lo ricordo. Ma anche lui fa un gioco verticale, scatta continuamente, cerca spazio non di lato ma alle spalle dell' avversario. Non capisco perché ci si debba vergognare di avere inventato noi questo modo di giocare. Una cosa è difendersi per portare via un pareggio, quando il pareggio valeva la metà di una vittoria. Altra cosa è guidare l' attacco dalla difesa, cercare lo spazio in modo diverso. Non è un risparmio, è un altro modo di investire».
Proseguendo nel riesame, ci sono altre scoperte interessanti?
«L' importanza dei giocatori e il vero ruolo dell' allenatore».
In che senso il vero ruolo?
«Che non esistono gli schemi, non esiste l' intelligenza artificiale, conta l' occhio del tecnico. Da gennaio metteranno i tablet a disposizione della panchina. Saprai quali sono i percorsi di campo più frequentati. Per fare cosa? Per riassumere in una frase quello che ho già visto. Il calcio è un campo, non un universo. Le cose si trovano, si toccano, non importa essere troppo elettronici. Serve un allenatore che sappia fare il suo mestiere la domenica, quello è il giorno in cui bisogna essere tecnici. Il resto tocca ai giocatori, alla loro diversità. Oggi, giro, vedo il calcio dei ragazzi, dei dilettanti, parlo con i loro allenatori e sento cose che mi spaventano, parlano come libri stampati, come le televisioni, sono gli slogan più frequenti riversati su ragazzi che a loro volta scambieranno il calcio con un' altra serie di slogan».
Che cosa intende allora quando parla di semplicità del calcio e di logica dei ruoli?
«Faccio un esempio. Koulibaly, Manolas e Albiol, tre grandi giocatori allenati da un tecnico, Ancelotti che stimo moltissimo. Il professore lì in mezzo era Albiol, per caratteristiche tecniche, cioè per letture di situazioni, per capacità di intuire il progresso delle azioni. Koulibaly è eccezionale fisicamente, meno sotto l' altro aspetto. Manolas è bravissimo sull' uomo, meno ancora propenso di Koulibaly all'idea collettiva. Voglio dire che il calcio secondo me è capire questo, le singole doti applicate alle situazioni singole. Non uno schema fine a se stesso. Un uomo che si integra e si completa con un altro fino a fare un reparto. Questo non te lo dice un numero, un tablet o un algoritmo. O lo senti da solo o non capirai mai la partita. Per questo sono convinto che l' allenatore si riconosca solo il giorno della partita».
Manca ancora qualcosa?
«I dirigenti. Abbiamo vissuto di intuito per molti anni, ora è tempo di costruirli. Non immaginiamo cosa significhi per un allenatore avere al fianco gente come Galliani o Marotta. Per me fu decisivo già Cellino ai tempi del Cagliari. Il calcio è troppo una via di mezzo: si prendono manager bravissimi che non lo conoscono, o gente di calcio che non è un vero manager. Io l' ho detto a Coverciano, dobbiamo aprire al futuro, preparare continuamente la nuova classe dirigente. Servono corsi su corsi, esami duri, riscontri di competenze specifiche. Diamo Coverciano in mano alle grandi menti del calcio: faccio due nomi, Lippi e Capello, hanno fatto tutto nella loro carriera e sono ancora giovani. Basta con gli amici degli amici. Se non avremo buoni dirigenti non avremo nemmeno buoni allenatori. Infatti non sappiamo più a chi dare le grandi squadre. Dobbiamo chiedere ai migliori di darci una mano. Aver fiducia nella qualità più che sulla buona volontà».
E cosa le hanno risposto?
«Semplicemente no».
La Nazionale però sta risorgendo...
«Ho trovato Salsano qualche giorno fa, l' ho pregato di fare i miei complimenti a Mancini. Sta facendo un lavoro ottimo. E sa perché?».
Perché è bravo?
«Certamente, ma quello lo è sempre stato. Ma ora è un' altra persona, è diventato severo, serio...».
Prima non lo era?
«Ma certo che lo era, ora però è cambiato. Ora parla di calcio con tutti, gioca semplice. È un maestro. Mentre il nostro è un mondo di professori».
Per esempio?
«Non è un esempio, è un ricordo. Questa estate ero a Pescara con Galeone e Giampaolo, fatale che parlassimo di calcio. Dissi a Giampaolo: "Marco, non ti do consigli, ma una cosa voglio dirtela. Sei al Milan, non è da tutti. Non fare una squadra di fighetti perché ti spaccano in due. Non è quello lo stadio per scherzare.
Vuoi un fantasista centrale?
Non è Suso. Ma Suso è un gran bel giocatore. Sintetizza, adattati. Il calcio è di tutti. Se non hai il regista che cerchi, niente ti vieta di giocare con due mediani nel mezzo". L' importante è la qualità dei giocatori. È lì che un allenatore non deve transigere, sulla competenza dei dirigenti, che è il vero problema del nostro calcio».
È la vecchia malattia di essere tutti filosofi?
«Se i filosofi sono bravi, perché no? Il problema è il risultato, cioè la realtà. Lo ottieni o no? Io a casa non ho nemmeno un computer, uso l' iPhone come un telefono e basta. Ma se guardo calcio so cosa vedo. E mi nascono mille idee. Siamo ancora più forti noi della tecnologia».
Quando tornerà?
«La prossima stagione. Non prima».
E le sue domeniche?
«Le passo a guardare calcio. La mattina in giro per il Piemonte dietro a mio figlio, otto anni, tornei di calcetto. Poi pomeriggio e sera davanti alla televisione. E alla fine della giornata mio figlio mi dice che comunque farà il pilota di Formula 1».
Allegri va in contropiede sul calcio, ma si fa (almeno) 5 autogol: ecco come. E perché. Pubblicato sabato, 07 dicembre 2019 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. Nella ricchissima intervista a Mario Sconcerti sul «Corriere della Sera» del 6 dicembre, Massimiliano Allegri dice tante cose sorprendenti. Ma una di queste lo è di più: «Io a casa non ho nemmeno un computer, uso l’iPhone come un telefono e basta». Davvero strano, perché alcune delle affermazioni dell’ex allenatore della Juventus somigliano molto a quelle che, su ogni argomento, si leggono nelle discussioni sui social network: opinioni personali scambiate per fatti o espresse su base di fatti inesistenti, distorti o male interpretati; noncuranza per le contraddizioni; riduzione di concetti complessi a ovvietà, in modo da evitare obiezioni decisive. Più l’antimodernismo. Che Allegri rivendica di applicare non solo alla sua vita quotidiana ma anche al suo lavoro.
Nell’intervista l’allenatore livornese ribadisce che a suo parere nel calcio «non esistono gli schemi, non esiste l’intelligenza artificiale, conta l’occhio del tecnico». E aggiunge: «Da gennaio metteranno i tablet a disposizione della panchina. Saprai quali sono i percorsi di campo più frequentati. Per fare cosa? Quello che ho già visto. Le cose si trovano, si toccano, non importa essere troppo elettronici». Al di là del fatto che magari non tutti gli allenatori hanno il suo occhio, e quindi la tecnologia li può aiutare, Allegri implicitamente sostiene che chi usa le tecnologie lo fa in modo acritico, senza riflettere sui dati a disposizione. Ma chi l’ha detto che è così? Chi l’ha detto che un allenatore, davanti a un tablet con delle statistiche, non si limiti a tenerle in considerazione o a utilizzarle mescolandole con altre idee o suggerimenti che il campo gli ha dato? Se il ragionamento di Allegri fosse vero, è come se quegli stessi allenatori si mettessero al volante di un’automobile aspettandosi di essere portati a destinazione senza guidarla. Dopodiché, non è chiaro perché per Allegri un allenatore non debba studiare e aggiornarsi, ma i dirigenti calcistici sì: «Servono corsi su corsi, esami duri, riscontri di competenze specifiche». Strano, perché Allegri è palesemente infastidito dalla presenza nel calcio di troppi «professori». Tra cui però non figura il c.t. della Nazionale Roberto Mancini, «maestro in un mondo di professori» cui Allegri fa i complimenti: «È cambiato. Ora parla di calcio con tutti. Gioca semplice». Opinione rispettabile ma piuttosto discutibile, perché invece il calcio della Nazionale di oggi sembra di gran lunga il più complesso e raffinato mai giocato da una squadra di Mancini: basta confrontarlo con quello della sua prima Inter o anche del suo Manchester City (avvertenza: anche questa è un’opinione. Che però sa di esserlo). Così come figlio di un’opinione di Allegri è stato il consiglio che Max ha rivelato di avere dato al collega Marco Giampaolo prima che iniziasse la sua esperienza al Milan: «Non fare una squadra di fighetti, nessuno ti vieta di giocare con due mediani nel mezzo». Qui invece Allegri cade in contraddizione rispetto alla sua convinzione che nel calcio i calciatori contino molto di più del modo in cui li si fa giocare. A Giampaolo, il suo predecessore in rossonero rivela di avere suggerito l’esatto contrario: prima di tutto il modulo. Solo che poi viene difficile resistere alla tentazione di andare a rileggere una delle formazioni del Milan di Allegri che conquistò lo scudetto del 2011. Per esempio quella che vinse il derby il 14 novembre 2010: Abbiati; Abate, Nesta, Thiago Silva, Zambrotta; Gattuso, Ambrosini; Flamini, Seedorf, Robinho; Ibrahimovic. Ecco: se questi 11 li avesse avuti Giampaolo, avrebbe chiesto al club di venderli, per comprargli dei «fighetti» come quelli che si è trovato in rosa quest’anno? L’aspetto curioso dell’intervista di Allegri è che proprio l’argomento dei calciatori è quello da lui usato per sminuire il Barcellona di Guardiola, che «nasce con tre grandi giocatori che pressano alti e spingono le difese avversarie dentro la loro area. Così a sua volta i centrocampisti salgono e si inseriscono e la tua difesa può arrivare a metà campo. Ma devi avere Iniesta, Xavi e Messi». Sarebbe lunghissimo spiegare quanto errata sia questa lettura del gioco di quel Barcellona: basti dire che non erano esattamente quei tre i pressatori chiave del centrocampo blaugrana. In più, ad Allegri sfugge che il Barcellona di Guardiola è il punto di arrivo e non di partenza della rivoluzione spagnola. Che nasce negli anni 70 ma che ha un’accelerazione decisiva con la vittoria della Spagna nell’Europeo 2008: quello in cui il c.t. è Luis Aragonés, che impone il «toque», al punto da chiedere ai giornalisti di smettere di usare la dizione «Furie rosse» come sinonimo della sua Nazionale. La riprova di tutto questo? Quando la «Roja» trionfa, Pep Guardiola deve ancora iniziare ka sua prima stagione da allenatore del Barcellona. Che, a differenza di quanto pare credere Allegri, non avrebbe poi giocato in «orizzontale». Guardiola, anzi, ha sempre detto di odiare il cosiddetto tiqui-taca: perché a lui del possesso fine a se stesso non importa nulla. Il possesso, se accompagnato da una rapida circolazione della palla, ha un solo scopo: muovere l’avversario in modo da creare gli spazi per arrivare al gol. Che ci si arrivi in orizzontale, diagonale o verticale non fa nessuna differenza. Così come non ne fa alcuna per uno dei maestri di Guardiola, cioè Arrigo Sacchi. Sul cui Milan Allegri si lancia in un’affermazione curiosa: «Ho visto venti volte le partite di Sacchi, ricordo quella a San Siro in cui il suo Milan segnò 5 gol al Real. Giocava dritto per dritto, come un fuso. Era un Milan verticale, esattamente di contropiede». Verissimo. In parte. Chi ha mai negato che il Milan giocasse in verticale? Chi ha mai negato che il pressing feroce ordinato da Arrigo non avesse lo scopo di recuperare il pallone e fiondarsi in porta il prima possibile? Mentre tutto si può dire di quel Milan, tranne che giocasse «esattamente di contropiede». Primo, perché il contropiede è un modo di giocare che prevede difesa bassa e colpi alle spalle di un avversario sbilanciato. E il Milan non faceva quello. Secondo, perché la differenza tra contropiede e ripartenza (azione sistemica nata dai movimenti di squadra tendenti a mettere in difficoltà gli avversari in possesso del pallone) è non solo evidente, ma ormai consolidata da almeno un trentennio. Dirlo, a differenza di quanto sembra credere Allegri, non è necessariamente esprimere un giudizio di valore su un modo di giocare rispetto a un altro. Infatti non è nemmeno chiaro a chi Max si riferisca quando dice «non capisco perché ci si debba vergognare di avere inventato noi questo modo di giocare». La vergogna non c’entra: c’è chi, semplicemente, si limita a preferire un calcio diverso. E questo al netto del fatto che tutti i grandi allenatori degli anni 2000 (Ancelotti, Guardiola, Mourinho, Klopp) hanno avuto – direttamente o indirettamente – un maestro riconosciuto: Arrigo Sacchi. Il quale, se non inventato, almeno ha perfezionato in modo decisivo un certo modo di giocare. Eppure è italiano anche lui. Perché ce ne dovremmo vergognare, per dire?
STIAMO ALLEGRI (E INNAMORATI). Da sportmediaset.mediaset.it il 14 giugno 2019. Dopo la Juventus, il meritato relax. Massimiliano Allegri conferma la volontà di prendersi un anno sabbatico dopo il divorzio con i bianconeri: "Sto fermo un anno, anche perché c'è da riprendere un po' in mano la vita privata. Mi serve quest'anno per ricaricarmi per il prossimo". Motivi personali dietro alla decisione dell'allenatore toscano: "Questi ultimi 16 sono stati anni in cui ero nella centrifuga. Lasci un po' andare gli affetti familiari". "Non si può stare tutto l'anno a cento all'ora. Per avere dei picchi alti, devi fare “cazzeggio creativo” con divertimenti e uscite con gli amici per poi acquisire la lucidità che ti serve per alzare la prestazione. Quando ho bisogno di staccare vado a casa, vado a Livorno, dagli amici. Poi torno fresco e do il massimo" ha spiegato Allegri. Il suo nome era stato accostato a diverse panchine: dal Barcellona, che poi ha confermato Valverde, al Milan passando pure per il Chelsea, ancora in attesa di liberare Sarri con destinazione Juventus. L'ex tecnico bianconero dunque si toglie dal mercato, le dichiarazioni rilasciate ad un evento a Milano sono molto chiare. "Non sono quello di quando ho iniziato, le esperienze mi hanno aiutato. E poi ora c'è la pancia - ha raccontato Allegri -. I cinque anni alla Juve sono stati tutti diversi, devi essere lucido e prendere le decisioni giuste al momento giusto. Noi non alleniamo 25 giocatori ma 25 aziende, c'è chi guadagna un milione e chi 10: nell'ambiguità succede casino. Quest'anno ho fatto 38 formazioni diverse su 38 partite, ma i titolari sapevano di essere i titolari e lo stesso per le riserve". Poi, certo, la voglia di allenare può tornare da un momento all'altro e, soprattutto se arrivasse un'offerta dall'estero dove ha più volte dichiarato di voler provare un'esperienza, Allegri per tutta la stagione 2019/20 rimarrà un fantasma che aleggerà su molte panchine delle big: in caso di cattiva annata, con Mourinho sarà il primo tecnico ad essere accostato a squadre di tutta Europa...
Da tgcom24 il 14 giugno 2019. Fanno coppia fissa già da due anni, e si amano alla follia. Per il loro secondo anniversario insieme, Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri si regalano una cenetta romantica e una dedica appassionata. Sbirciando all'interno della loro auto, il settimanale "Chi" ha beccato un tenero biglietto scritto dall'attrice al mister: "Tu sei il mio unico amore", gli scrive con tanto di cuore trafitto. E si firma "il tuo pesciolino". Così romantico che più non si può: il messaggio che Ambra lascia al suo Max è un concentrato di dolcezza. "Tu sei il mio unico amore. Non ho mai amato nessuno come te. Il tuo pesciolino", e un cuore con le iniziali M e A, proprio come vuole la tradizione. I due passeggiano insieme dopo la cenetta, lei elegante in pantaloni chiari e top nero, lui casual in jeans e giacca. Per coronare il momento speciale, si scambiano anche un bacio appassionato.
Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri si sposano. Le nozze potrebbero essere molto vicine. Sono sempre più insistenti le voci di matrimonio tra Ambra e Allegri. E il fatto che l'ex allenatore della Juventus abbia deciso di prendere un anno sabbatico per dedicarsi alla famiglia non fa che confermare i rumors. La Repubblica il 28 Giugno 2019. C'è chi dice che si terrà questa estate, chi invece pensa che verrà celebrato entro la fine del 2019. Nessuno ha dubbi però sul fatto che il matrimonio tra Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri sia solo una questione di tempo. Qualche mese fa era stato il settimanale Chi a diffondere la voce che l'attrice e "il Conte Max" (come è soprannominato) si sarebbero sposati addirittura entro la fine di giugno 2019. Più di recente invece rimbalzano alcune dichiarazioni di fonti vicine ad Allegri secondo le quali l'ex allenatore di Juve e Milan avrebbe confermato l'imminenza delle nozze. Ad avvalorare l'ipotesi c'è anche la decisione di Allegri di prendersi un anno sabbatico, un periodo di pausa dal lavoro per dedicarsi alla famiglia: "Starò fermo un anno perché devo riprendere in mano la mia vita privata. Gli ultimi sedici anni sono stati una centrifuga, sono anni in cui lasci andare un po’ gli affetti e la famiglia, i figli, gli amici. Quest’anno, mi servirà per ricaricare le batterie in vista della stagione successiva" ha dichiarato lo stesso Massimiliano al giornalista Gianluca Di Marzio. Di sicuro questo anno di pausa sarebbe perfetto per "incastrare" anche un bel viaggio di nozze...Sia per Ambra che per Allegri non si tratterebbe del primo matrimonio: lei è stata sposata per 12 anni con il cantante Francesco Renga, insieme al quale ha avuto i due figli Leonardo e Jolanda; lui invece ha alle spalle due matrimoni... e mezzo. Nel '92 aveva chiesto la mano della fidanzata dell'epoca, Erika, ma a due giorni dalla cerimonia ci ripensò e salpò a bordo della barca "White Escape" (ironia della sorte) prestatagli dall'allenatore Giovanni Galeone per sparire in mare aperto per un paio di giorni. In seguito ha sposato prima Gloria Patrizi, da cui ha avuto la figlia Valentina, e poi Claudia Ughi, con la quale ha avuto il figlio Giorgio. Ora, a due anni dall'inizio della loro storia d'amore, sembra essere arrivato per entrambi il momento di riprovarci.
· Giovanni Galeone.
Giovanni Galeone: ''SESSO PRIMA DELLA PARTITA? NON SONO MAI STATO IN GRADO DI ORGANIZZARE IL MIO, FIGURIAMOCI QUELLO DEGLI ALTRI''. Alessandro Ferrucci per ''il Fatto Quotidiano'' il 24 giugno 2019. Sul pianale posteriore della macchina la guida del 2018 dedicata a Relais e Chateaux prende il sole. È vissuta, sfogliata, non è lì per caso. Mister, lei se la gode. "Accanto c' è pure la pubblicità delle sigarette, anche se non posso più fumare". Giovanni Galeone è un uomo in grado di mantenere un equilibrio raro tra goliardia e cultura, autoironia e profondità; piacere e senso del dovere; una spiccata passione per le donne, e se racconta dell' ultimo concerto di Mina, quello leggendario alla Bussola di Viareggio, non parla della performance canora, "ma delle sue gambe strepitose"; e poi non è banale neanche sui libri, non finisce sul solito Soriano, "perché amo più i francesi"; un uomo che quando entra nel ristorante preferito di Pescara ("qui da Michele vengo da 33 anni"), discute brevemente su quale vino stappare, perché il padrone di casa non si avventura in troppe repliche: "Giovà, tanto ne sai più di me, sei come un sommelier". A 78 anni non intende più allenare, e non è una questione di età, "ma solo perché oramai non c' è alcun rapporto vero con i giocatori: oggi se ne rimproveri uno o non lo schieri tra i titolari, mica ti viene a parlare, a cercare delucidazioni. No. Manda il procuratore a rompere le palle". Non teme l' aspetto nostalgico: "Il calcio di trent' anni fa era più bello", e non si riferisce solo a schemi di gioco, o protagonisti, bensì a storie da raccontare, persone da crescere, altre con le quali poter condividere anche sigaretta e caffè alla fine del primo tempo. O sorridere e stupirsi come è accaduto raramente in Serie A, pochi casi, quasi tutti finiti nel mito, come il Genoa di Bagnoli, la Roma di Liedholm ("lui è il maestro"), il Parma di Sacchi ("sia ben chiaro: Arrigo è arrivato dopo"), o il suo Pescara, protagonista negli anni Ottanta di leggende e promozioni, calciatori scoperti e altri sottovalutati, oggi immortalato da Lucio Biancatelli nel libro Poveri ma belli: il Pescara di Galeone dalla polvere al sogno. In quel Pescara giocavano Massimiliano Allegri e Gian Piero Gasperini, e in carriera ha allenato Marco Giampaolo; in sostanza tre big della Serie A sono suoi figliocci o quantomeno allievi.
Viene trattato da mito.
«È un po' esagerato».
Ne è certo?
«Ci sono anche altre squadre che non hanno ottenuto i successi e l' attenzione che meritavano, eppure hanno cambiato la storia del calcio».
Tipo?
«Corrado Orrico ha applicato pressing e zona anni prima di Arrigo Sacchi e il Bari di Enrico Catuzzi (1982) era uno spettacolo, ma nessuno cita questo disgraziato che è pure morto».
E lei?
«Ribadisco: non sono il solo e ho la fortuna di una vita divertente e vissuta nel calcio».
Da che età?
«A 16 anni sono andato via di casa, e già giocavo nella Nazionale Juniores, una squadra formidabile, con dentro Enrico Albertosi, Mario Corso e Giovanni Trapattoni».
Ma i suoi erano contenti?
«Non importa, sono andato e basta; poi quando mio padre veniva a Trieste per trovarmi, e giocavo già nell' Udinese, palesava sempre lo stesso cruccio: comprarmi una casa, o darmi dei soldi».
Rifiutava?
«Non ne avevo bisogno e non mi sembrava giusto.
Guadagnava.
«Anche mio padre stava bene: era ingegnere, dirigente all' Ilva e vivevamo a Napoli; progettava gli altiforni».
Sperava nel figlio ingegnere.
«Mai nella vita, per fortuna aveva un altro maschio; comunque viaggiava molto, costruiva impianti: è in mezzo al disastro di Taranto, l'altoforno lo ha creato lui, il primo in Europa a colata continua».
Insomma, viene da una famiglia molto borghese.
«Mio padre liberale, credeva in Giovanni Malagodi (segretario dal 1954 al 1972); mamma era nostalgicamente monarchica, cresciuta nei salotti partenopei, e a casa, quando avevo dieci o undici anni, si leggeva Il Borghese, o i libri di Julius Evola o Giovannino Guareschi».
Le interessavano?
«La mia vita andava verso altri lidi, e nessuno mi ha inibito».
Cioè?
«Preferivo stare in strada con chi aveva meno di me, e se potevo davo una mano».
Se n' è andato a 16 anni.
«Sì, e quando le persone mi dicevano e dicono "come sei stato bravo", da sempre sento un po' di fastidio».
Perché?
«Avevo il culo parato con il paracadute dei miei; quindi non ci vuole coraggio, sarei potuto tornare a casa sempre e accolto con amore».
Quindi, a Trieste.
«Non vivevo in un quartiere centrale, ma a Servola, dove spesso arrivavano i profughi slavi, in particolare dall' Istria, e le scritte erano ancora bilingue».
Come si trovava?
«Una meraviglia, grandi giocatori, bravi in ogni sport, gente con cultura e tradizione, allora motivate dalla fame patita; mentre quelli di città non li cagavamo».
La politica l' interessava?
«Più il sociale, mi ha sempre affascinato la realtà delle persone, le loro storie; quando vivevo a Trieste, arrivavano camion pieni di carbon coke da scaricare all' Ilva, e subito si ammassavano le donne per caricarne sacchi, e accendere il fuoco».
Ciò la colpiva.
«Sì, perché a casa avevo la luce elettrica e la possibilità di spendere; se non sei un cretino devi avvertire l' evidente disuguaglianza».
Si sentiva in colpa?
«No, venivo da una famiglia splendida, papà mi ha rifilato solo uno schiaffo».
Per?
«Forse un brutto voto a scuola, ma non ricordo bene; ma dopo il ceffone mi sono chiuso in bagno e ho spaccato lo specchio con un pugno: ero furioso con me stesso».
Quando ha scoperto i libri?
«Da ragazzo leggevo molto, ne sentivo il bisogno, amavo i gialli e i francesi».
Dicono che portava Prévert in panchina.
«Leggenda sbagliata lanciata da non so chi: Prévert è noioso, il mio calcio allegro».
Ha mai manifestato?
«Un paio di volte, e ho preso delle randellate».
Per cosa?
«Contro un comizio di Giorgio Almirante a Udine; per sfuggire mi sono rifugiato in un portone; in un' altra situazione mi hanno caricato su una camionetta della polizia».
Il suo rapporto con i calciatori.
«Gli lasciavo tutta la libertà».
Potevano uscire la sera?
«Non erano affari miei».
Se andavano a donne?
«Non me ne fotteva niente. E lo dicevo pure a Luciano Gaucci: "Guarda, non sono un guardiano di mucche"».
Sesso prima della partita.
«Non sono mai stato in grado di organizzare il mio, figuriamoci quello degli altri».
Donne cacciate dal ritiro?
«Mai, anche perché non ci andavo. Mangiavo fuori».
Un divieto?
«Mi infastidivano i telefonini, era il periodo delle scommesse, temevo ci cascassero».
L' allenatore è un guru.
«Forse qualcuno, io no; non credo neanche Allegri, e poi oggi i giocatori fanno quello che vogliono, hanno un potere contrattuale esagerato, non rispettano più i ruoli, e magari come con Icardi pretendono di parlare con il presidente».
"Giampaolo è un secchione", ha dichiarato.
«È un ragazzo molto attento, e a voler essere critici, non è un talento puro per il ruolo di allenatore, però è uno che si informa, studia, cresce e legge abbastanza bene le partite».
Allegri?
«Max è uno raro».
Ha un debole per lui.
«(Ride) Non è così: con Gasperini mi sono scontrato più di una volta, eppure lo considero un genio, e quando mi dicono "Gasperini ha imparato da lei", rispondo che sono io ad aver appreso da lui».
Addirittura.
«Non sbagliava un movimento, giocava sempre a culo in avanti; poi s' incazza, carattere terribile, ma bravissimo».
Allenatore già in campo.
«È fondamentale, solo chi gioca può capire veramente la partita, e anche in questo Allegri era il numero uno».
Collovati sostiene che il calcio è solo per uomini.
«Stupidaggine, ed è una tesi di Bettega, solo che a lui nessuno ha mai osato replicare».
Non sia mai.
«Era Juventus-Milan, palla al centro, pronti via, riceve Rivera, arriva Tardelli e gli rifila un' entrata terribile; a fine match domandano a Bettega un giudizio, e lui: "Il calcio non è da signorine". Oggi sarebbe stato massacrato».
Il Mondiale femminile lo guarda?
«No perché non lo conosco, non riuscirei a valutarlo».
Le dichiarazioni dei calciatori sono spesso banali.
«Da vent' anni è così, da Sacchi in poi».
Stuzzica sempre Sacchi.
«Non è vero, nel 1988 sono stato l' unico allenatore invitato alla sua festa scudetto».
Vi conoscete da una vita.
«Insieme già al corso di allenatori; ogni tanto mi lancia qualche pugnalata, io rispondo (prende il cellulare e divertito mostra le loro discussioni)».
Che vi scrivete?
«Nell' ultimo esordisce con "Caro Giovanni, ti ho sempre stimato e sempre considerato un amico". Ho risposto: "Arrigo l' ho sempre saputo e nel peggiore dei casi sperato"».
Si diverte.
«Lui si incazza, però sono stato con Arrigo nelle due finali di Coppa Campioni vinte nel 1989 e 1990 e pure sugli spalti agli Europei del 1988; anzi nel 1990 dopo la partita e post cena, siamo rimasti fino alle 6 del mattino con Berlusconi a parlare di moduli: "Arrigo, lei mi consente"».
Ne capiva?
«Ogni tanto le sue formazioni erano di 12 elementi».
Insomma, agli Europei?
«Andiamo da Valentini (storico dirigente Figc) e gli chiediamo due biglietti per assistere a Olanda-Inghilterra. Li trova. "Tranquilli, posti ottimi". Macché! Entriamo allo stadio e finiamo in mezzo agli hooligan inglesi, Arrigo preoccupato: "E ora?". Lo guardo e lo rassicuro: "Stai tranquillo, togli la maglietta e fingi"».
A torso nudo?
«Tutto il tempo, e mi rompeva su un giocatore. Fissato».
Chi?
«Impazziva per l' attaccante inglese Gary Lineker, lo voleva, e io: "Hai Van Basten, cosa te ne fai di questo?"».
Un suo ex attaccante, Mario Jardel, ha dichiarato la sua vecchia tossicodipendenza.
«Povero. Però aveva una bella moglie».
Oltre la moglie?
«Con lui in campo, spesso era come giocare in dieci.
È capitato spesso di calciatori con problemi?
«Ogni tanto, uno pure bravo: arrivava la mattina al campo completamente fiacco, annebbiato. Sicuro si faceva».
Cosa non tollera?
«L' ipocrisia e la menzogna».
Sarri è stato disonesto nell' accettare la Juventus?
«Fa un po' di casino, non è preparato per certe situazioni; quando l' anno scorso leggevo alcune dichiarazioni, riflettevo se fossero opportune».
Come?
«Anche questa voglia di apparire di sinistra, troppo; Giampaolo non ne parla mai, eppure era bertinottiano, uno di Rifondazione, infatti ora Berlusconi gli vuole parlare (e scoppia a ridere)».
Cosa si diranno?
«Marco non resta zitto, non è uno che si fa scivolare le cose addosso come Max».
Pure Allegri ha carattere.
«E della Juve ci è rimasto male, si è sentito tradito, dispiaciuto in particolare per Andrea Agnelli. Non ha superato l' addio; e sono anni che gli consiglio di andare via. Comunque con Ambra è contento».
Bene.
«Sa stare con uno come lui, quando viene circondato dai fan non si scoccia, resta in disparte e osserva col sorriso».
La Juve non la sopporta.
«Dal 1958».
Un sentimento recente.
«Giocavo a Coverciano contro la Nazionale A, noi ragazzi rispettosi dei grandi, emozionati evitavamo ogni contatto, eppure Giampiero Boniperti alzava continuamente il braccio e chiamava "fallo"».
Ahi.
«Prepotenza da padroni».
Lei alla Juventus?
«Non mi avrebbero mai chiamato, mentre mi sarebbe piaciuto andare alla Roma di Dino Viola o al Napoli di Maradona, invece ho perso sia l' una che l' altra; il Napoli per colpa di Moggi e Ferlaino».
Ha avuto presidenti particolari, come Gaucci.
«Mai visto uno così generoso, impressionante, elargiva soldi a tutti, in particolare ai giocatori. E non mi ha mai chiesto una formazione».
Lei e le donne.
«Sono solo favole».
Sicuro?
«Come per Max, solo favole. Anzi, lui non sa neanche cosa sono le discoteche, ed è un' impresa dargli il secondo bicchiere di vino».
Cosa sognava da ragazzo.
«Ancora oggi sogno di giocare a calcio; mai da allenatore».
Il suo mito?
«Luisito Suarez».
Un amico?
«Gianni Mura. Usciamo e beviamo le nostre bottiglie di vino, poi scattano le gare mnemoniche, anche con altri; uno fortissimo era Giorgio Faletti, sapeva tutto. Ah, secondo Gianni non capisco nulla di portieri e Amarone».
Ha ragione?
«Sì. Mi piaceva solo Angelo Peruzzi. La prima volta che l' ho visto in allenamento era un ragazzino, con quattro o cinque "senatori" della Roma che gli tiravano delle bordate (pallonate). Lui niente. Li sfidava. Gli andava sotto e con modi spavaldi li invitava a continuare».
Tra Messi e Ronaldo?
«Messi tutta la vita».
In Italia?
«Ho amato Totti, ma chi mi ha impressionato è Cassano: eccezionale, in allenamento spiazzava tutti, uno spreco, e poi è ruffiano, quando incontra qualcuno sono baci e abbracci».
Tabù: i gay nel calcio.
«Ci sono, oggi più di ieri».
Altro tabù: il doping.
«Quando giocavo ci rifilavano di tutto, ed era normale».
Un rimpianto?
«Io? (Sorride con occhi e labbra, e i suoi occhi e le sua labbra hanno l' età dei sogni, quando giocava a pallone). Mi sono divertito».
· Maurizio Sarri. Da bancario a banchiere.
Da bancario a banchiere. Ma Sarri non è un Giuda. Tony Damascelli, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. Era vestito con l'abito da cerimonia, divisa ufficiale del club, cravatta compresa, ma ha parlato come se avesse, indosso, la tuta. Schietto, nei limiti del consentito dalle regole sabaude, puntuale e per nulla ruffiano, toscano nell'intelligenza della battuta e nell'intuizione delle risposte. Non ha circuito i tifosi bianconeri che lo stanno trattando come un migrante clandestino, non ha rinnegato la sua origine napoletana e il suo affetto per quella folla meravigliosa ma ha ribadito che il mestiere porta a scelte che fanno parte del gioco e, dunque, la sua carriera meritava questa stazione di arrivo. Che è anche di partenza, nel club più importante d'Italia, nella squadra carica di titoli. Sarri da bancario vuole diventare banchiere, entra a fare parte di un'azienda che ha ritmi e testa di un cinismo, di una perfidia e di un senso di appartenenza, quasi esclusivi. Chi scrive e parla di stile Juve non sa di che cosa stia parlando e scrivendo, lo stesso stile è una invenzione giornalistica, legata soltanto a Gianni Agnelli e suo fratello Umberto. Potrei elencare altre figure che con il sedicente stile nulla hanno avuto a che fare in passato o hanno, tra i contemporanei. Sarri ha ammesso errori di linguaggio e di postura ma ha aggiunto che facevano parte di un momento di lotta e passione. Non significa, come qualcuno invece lo condanna, di un avido voltagabbana ma è l'orgoglio di un professionista che vuole raggiungere il risultato migliore. Il popolo napoletano non gliela perdona, quello juventino lo aspetta all'esame: deve battere Conte e l'Inter e andare a vincere al San Paolo come lui stesso fece all'Allianz di Torino. De Laurentiis Aurelio, con il garbo che lo contraddistingue, gli ha mandato un messaggio elegante, ricordando che Sarri urla e bestemmia. Direi che sarebbe l'ideale interprete di un cinepanettone. Aurelio, come lo ha nominato lo stesso Sarri in conferenza, dovrà farsi una ragione: l'ex consulente finanziario ormai ha traslocato a Torino, forse con la tuta, forse con la sigaretta, forse con le guance non rasate, in quel viso che ricorda don Pietro Savastano, nella serie televisiva Gomorra. «Ogni mattina mi svegliavo e il primo pensiero era quello di sconfiggere la Juventus». Sarri Maurizio finalmente dormirà serenamente e si desterà tranquillo. L'incubo riguarderà altri colleghi suoi.
"Juve, per tre anni ho pensato a batterti. Adesso voglio solo vincere con te". Stile bianconero e Sarrismo da Treccani. Un'ora per presentare il nuovo tecnico. "Nessuno mi aveva mai corteggiato come loro". Davide Pisoni, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. L'aereo privato e la sala Gianni e Umberto Agnelli, prima di lui concessa solo a Cristiano Ronaldo. Un trattamento da marziano della panchina. Perché c'è una Juventus prima e dopo CR7, perché c'è una Signora prima e dopo Maurizio Sarri. Nulla sarà come prima. Trattasi di rivoluzioni. Se quella del cinque volte pallone d'oro è stata assordante come un'esplosione, quella dell'allenatore è silenziosa come l'indifferenza. I tifosi restano alla larga dall'Allianz Stadium, ad Allegri era andata peggio. «Ovunque sono stato accolto con scetticismo», non si sorprende Sarri, se stesso fino in fondo alla sua prima uscita bianconera. «Non è una scelta rivoluzionaria, ma il coronamento di una lunga carriera», apre così un'ora e due minuti sull'unirsi tra due visioni che fino a ieri sembravano in contraddizione. Lo stile Juve che ha fatto la storia e il Sarrismo entrato nella Treccani. La sfida è tutta qui: procedere con una fusione ad alto rischio che sarebbe un fallimento in ogni caso se non portasse alla vittoria. Fabio Paratici, seduto come un anno fa alla destra del marziano di turno, lo dice: «Conta sempre vincere». Per poi spiegare l'addio ad Allegri: «L'alchimia si stava esaurendo. Non è questione di gioco». Sarà, ma chi arriva porta proprio un calcio diverso. Voluto fortemente. «È stata la prima scelta, sempre», dice Paratici. «Mai visto una società così determinata nel prendere un allenatore e fare anche un sacrificio per venire a parlarti», rivela Sarri. Forse indiretta conferma del viaggio di Agnelli e Nedved a Londra a casa Sarri. L'ex tecnico del Chelsea della società dice: «Mi ha colpito l'unità». Poi gli basta una cena con Paratici e Nedved, seguita dal pranzo ieri con Agnelli, per dire «che ho avuto l'impressione di stare con amici: non so cosa sia lo stile Juve, io non ho visto etichette». E il Sarrismo? «Io sono questo. Una persona diretta, che ha bisogno di sentirsi dire quello che pensano e dire quello che pensa». E si pensa subito al passato, al Napoli. A De Laurentiis che provoca dice grazie. A chi gli dà del traditore o dell'attore replica: «Se ho un avversario che voglio sconfiggere in tutti i modi lo posso odiare, ma anche apprezzare. Io ho rispettato tutti. Ho dato tutto me stesso». Sarri non cerca di ingraziarsi il popolo bianconero. Si taglia solo un dito medio: «Una reazione sbagliata». Ai napoletani ricorda il «gesto di rispetto estremo, con la mia condizione familiare, andando un anno all'estero». Già, perché Sarri torna in Italia anche per stare vicino ai suoi genitori, un valore aggiunto. Ma è pronto a tutto: «Al San Paolo? Se mi applaudono è una manifestazione d'amore, se mi fischiano è una manifestazione d'amore». Saranno fischi. La differenza tra Napoli e Torino è sottile ma sostanziale. «Prima mi alzavo al mattino per studiare come sconfiggere la Juve. Ora pensando a come vincere le partite». A suo modo. Convinto che si possa farlo anche giocando bene «divertendosi in campo» anche dove «l'unica cosa che conta è vincere». Ecco la sfida della fusione. Lo scudetto «è una responsabilità, l'eredità di Allegri pesante», la Champions «un sogno da inseguire con determinazione, ma dal coefficiente di difficoltà mostruoso». Però c'è Cristiano Ronaldo. Volerà nel resort di lusso in Grecia per parlargli. Come parlerà con altri due-tre, per definizione sarriana «gli incidenti». Il concetto di squadra vacilla, chissà cosa hanno pensato i difensori, come sembra contraddirsi quando spiega che l'organizzazione si fermerà a 30 metri dalla porta avversaria «per poi liberare il talento». E i movimenti mandati a memoria dal suo Napoli che facevano girare la testa a tutti? Nel fiume di parole si capisce perché la Juventus ha voluto Sarri dopo Allegri: «A CR7 spero di riuscire a fargli fare qualche altro record». Lui allena per migliorare i giocatori, anche il più forte del mondo. È solo a questo punto che la giacca e la cravatta d'ordinanza sembrano stargli strette. Perché si parla di campo e lui ci va in tuta. «Ne parleremo. L'importante è che a questa età non mi mandino nudo». Non sarebbe da Signora. Che dopo aver fatto la rivoluzione societaria dei quarantenni dieci mesi fa, si affida a un sessantenne per continuare a vincere in Italia e per spezzare l'ossessione Champions. Una Signora in tuta sul tetto d'Europa: cose di due mondi opposti. Fusione o fallimento.
Sarri, la presentazione alla Juventus in dieci parole (e non solo). Sarrismo, tradimento, palazzo, tuta, discriminazione e tanto altro: tutto il pensiero del nuovo tecnico bianconero in concetti chiave. Giovanni Capuano il 20 giugno 2019 su Panorama. Emozionato. Rigorosamente in giacca e cravatta, accompagnato da Fabio Paratici e scortato in prima fila dal presidente Agnelli e da Pavel Nedved. Maurizio Sarri è entrato così nel mondo Juventus, vivendo il suo primo giorno ufficiale da tecnico che dovrà traghettare il club campione d'Italia ininterrottamente dal 2012 in una nuova dimensione. Se possibile europea e legata a una proposta di calcio diversa rispetto a quella di chi l'ha preceduto e la cui eredità viene definita "pesantissima". Non poteva essere una presentazione banale e non lo è stata. Sia per la location scelta, la stessa voluta un anno fa per esibire al mondo Cristiano Ronaldo, sia per la molteplicità degli argomenti in gioco. Due città, due popoli, diversamente maldisposti verso il cambio di panchina dell'anno. Uno, quello napoletano, perché tradito dall'uomo che ha amato. L'altro, quello juventino, perché incerto su stile e capacità di un tecnico non prodotto dell'elite internazionale. Temi su cui Sarri non poteva sottrarsi, consapevole di avere gli occhi di tutti puntati addosso. Spesso le prime parole sono quelle che lasciando il segno, tracciano la strada, cominciano a scolpire i tratti del rapporto che nasce (o muore) tra un uomo e chi lo deve seguire. Ecco, allora, il pensiero di Sarri sintetizzato in dieci parolechiave. Le key words che accompagnano il suo sbarco sul pianeta Juve.
VELOCITA'. E' stata quella con cui ha deciso di sposare la Juventus quando è stato contattato. Concetto ribadito in più declinazioni: "Ho visto una società determinatissima come mai mi era capitato in trent'anni di carriera". Determinata nel volergli trasmettere dal primo momento la volontà di prenderlo come allenatore, unita, capace di spendere gli argomenti giusti. Una scelta che, di conseguenza, è stata veloce, facile e rispettosa: "Penso che la Juventus sia il coronamento della mia carriera, penso di aver rispettato tutti e nell'ultimo atto dovevo rispettare la mia professionalità e la mia carriera".
PERCORSO. Non solo il suo percorso professionale ("lunghissimo e difficilissimo", quello che lo porta dai dilettanti al club più potente d'Italia. Un crescendo emozioni su cui scherza anche: "Non è che ci sono passato direttamente, altrimenti sarei morto di infarto una ventina d'anni fa...". Percorso è anche quello fatto per costruire le sue squadre che sono come "figli" e "se educhi tre figli nella stessa maniera non vengono su allo stesso modo". Percorso è quello che deve iniziare per cominciare a capire la sua Juventus, identificare i giocatori (3-4) "che possono fare la differenza", imparare a conoscerli e poi cucirgli addosso un modo di giocare che sia funzionale e possibilmente vincente.
SARRISMO. "Io non lo so cosa è il sarrismo. Ho letto sulla Treccani che è una filosofia calcistica ma non solo, però io ho sempre pensato e vissuto in questo modo. Io sono questo, negli anni ho cambiato il modo di vedere il calcio e la vita ma spero di essere rimasto sugli stessi concetti: una persona diretta, a volte anche troppo, che ha bisogno di sentirsi dire dagli altri quello che pensano e dire quello che pensa lui. Può portare a scontri, ma sono sempre risolvibili".
OBBLIGO. Inteso come obbligo di vincere, rispetto del motto juventino che rimarca come la vittoria non sia importante ma l'unica cosa che conta. "La Juventus in Italia ha l'obbligo di mettersi sulla spalle il fardello della favorita mentre se parliamo di Champions si parte con l'obiettivo di vincere ma ci deve essere la consapevolezza che a livello europeo ci sono altre 8-9 squadre attrezzate per farlo".
Altrove dice anche: "Vediamo cosa viene fuori della mia Juve, vincere sarà impossibile ma proviamo a continuare a vincere e a divertire tutti". Non è un messaggio di resa. Anzi.
QUALITA'. "Penso che i giocatori che possono cambiarci la storia sono i giocatori offensivi, quelli con grandi qualità. Poi sta a noi organizzarli al meglio. Negli ultimi trenta metri bisognerà partire dai più talentuosi, differentemente da quello che dicono io organizzo i primi settanta metri e lascio liberi gli ultimi trenta dove si gioca su principi di calcio e non su schemi.
La fase difensiva andrà "adeguata" su quello che i talentuosi possono dare in quella offensiva. Qualche nome? Ne butta lì alcuni senza pretesa di completare un elenco, ma comunque significativi di quale possa essere il suo modo di pensare calcio: Ronaldo (ovviamente), Dybala, Douglas Costa e Bernardeschi. Tutti talenti.
TRADIMENTO. "Ho vissuto tre anni in cui mi svegliavo tutte le mattine e il mio primo pensiero era quello di sconfiggere la Juventus che stava vincendo. Noi eravamo l'alternativa più credibile. Il mio dovere morale e professionale era fare l'impossibile per battere la Juventus. Ho dato il 110% e lo rifarei. Non ci siamo riusciti, però è chiaro che è un'avversità sportiva. Adesso la mia professionalità mi spinge a dare il massimo per la Juventus. Quello che ho fatto, posso averlo fatto con modi sbagliati ma credo sia intellettualmente apprezzabile. Se ho un avversario che voglio sconfiggere in tutti i modi lo posso odiare, ma apprezzare".
PALAZZO (e potere). "Io volevo andare a prendere il potere che era lo scudetto. Vincere. Era un terreno puramente professionale. Noi non potevamo stare su tre obiettivi in quella stagione e ne abbiamo scelto uno. Abbiamo provato a essere feroci e ci siamo quasi riusciti, siamo stati in gioco fino a dieci giorni dalla fine del campionato. Eravamo belli convinti. Non è finita come volevamo, ma il viaggio è stato stupendo".
TUTA. "Ne parlerò con la società. Ho scritto sul contratto che quando andrò a rappresentarla fuori dal campo devo essere in divisa sociale, ma in campo preferirei la tuta. Vediamo. L'importante è che a questa età non mi mandino nudo".
DISCRIMINAZIONE. "Non posso cambiare idea se cambio società. Penso che in Italia sia ora di smetterla e che sia una manifestazione di un'inferiorità così netta rispetto a quello che si respira negli stadi europei. E' ora di dissociarci tutti e di dire basta. Basta. E' giusto anche fermare le partite. La mia idea di fondo rimane la stessa".
ERRORE. "Il dito medio mostrato entrando allo Stadium l'ultima volta? E' stato un errore, una reazione esagerata da parte mia e lo spiegai anche nel dopo partita. Dissi che avevo fatto un brutto gesto, un eccesso di reazione nei confronti di 10-15 stupidi. Con i tifosi della Juventus non ho mai avuto nulla. Dovevo non reagire, ma se in mezzo a 45mila persone ci sono 20 stupidi che ti sputano e ti dicono terrone di merda non li considero tifosi della Juventus".
Da gazzetta.it il 20 giugno 2019. Arrivano direttamente dal set di “Si vive una volta sola” (un film di Carlo Verdone) le dure parole di Aurelio De Laurentiis dirette al suo ex pupillo Maurizio Sarri, proprio mentre quest’ultimo si presenta a tifosi e giornalisti come nuovo allenatore della Juventus. E il vulcanico presidente del Napoli non si risparmia: “Sarri sta sempre in tuta, urla e bestemmia, vorrei proprio capire come si adeguerà allo stile della sua nuova squadra”. Provocazione o meno, le dichiarazioni del numero uno azzurro sono destinate a fare rumore. Aggiunge ADL: “La differenza tra Sarri e Ancelotti? Il primo, neo allenatore Juventus, è un uomo da stadio, da curva, uno che piace ai tifosi; Ancelotti è invece un’aziendalista”. E infine la chiosa: “Sarà ancora più bello vedere quando Ancelotti batterà la Juve sul campo”. Lanciato, ufficialmente, il guanto di sfida.
Da Juvenews il 20 giugno 2019.
PARATICI – “Siamo qui per dare il benvenuto al nostro nuovo tecnico Maurizio Sarri”.
SARRI – “Mi fa molto piacere essere qui, sono pronto a rispondere alle vostre domande.”
PARATICI – “Noi avevamo le idee chiare sin dall’inizio, bisogna aver rispetto di tutti i soggetti in campo. Due grandi club, con il Chelsea che ringrazio per la collaborazione, e un allenatore ancora sotto contratto, per questo ci sono voluti tempi da rispettare.”
SARRI – “Non penso sia una scelta rivoluzionaria. Io tre anni fa arrivo al Napoli e do tutto me stesso, sono andato li perché li tifavo da piccolo e avevo la sensazione potessimo diventare competitivi. Negli ultimi mesi a Napoli mi vengono dubbi sull’affetto della situazione, e mi sono detto che era nato un problema che il Napoli mi ha tolto presentando Ancelotti. A quel punto preferisco prima passare per l’estero, faccio un’esperienza bellissima ma nella seconda parte sento il bisogno di tornare in Italia, possibilità offerta dalla Juventus, la migliore società in Italia. È il coronamento di una lunga carriera e difficile, ho rispettato tutti, compreso me stesso.”
SARRI – “Mai visto una società così determinata a prendere un allenatore, e questo mi ha convinto subito. Sono stati tutti compatti nel venire verso di me. Con il nome che si portavano dietro poi tutto è stato più facile.”
SARRI – “Abbiamo davanti un lungo percorso per arrivare alla Premier League. La partenza è dalle strutture, girando in Inghilterra per gli stadi ti rendi conto dell’inadeguatezza delle cose in Italia. Il clima allo stadio è nettamente diverso. Abbiamo la fortuna che dal punto di vista professionale abbiamo ancora un piccolo vantaggio. Il gioco è una conseguenza della mentalità, la il risultato è meno importante di qui. Il fermento che vedo in Serie A mi fa pensare ad un anno stimolante per gli allenatori. Mi sembra si stia creando una bella aria frizzante e che ci siano i presupposti per vedere qualcosa di nuovo e interessante.”
SARRI – “Mi aspetto di alzarmi la mattina a studiare il modo di vincere le partite. Il risultato non è dovuto, la mattina mi alzerò per vincere. La Juventus ha l’obbligo di avere i favori del pronostico, in Champions League anche ma dobbiamo far conto con altre 9 squadre diverse. Le responsabilità sono più a livello italiano che europeo, dove la Champions ha un coefficiente di difficoltà mostruoso.”
SARRI – “Penso che non si può partire dal modulo per fare mercato, bisogna avere le idee di chi può fare a differenza e metterlo in grado di farla. Il primo passo è studiare le caratteristiche dei giocatori, poi parlarci, e poi arrivare al modulo per valorizzarli al meglio. IL 433 del Chelsea era diverso da quello del Napoli, li dovevamo accompagnare le caratteristiche di Hazard. Dovremmo accompagnare i giocatori che sono capaci di fare la differenza, il modulo sarà una conseguenza.”
SARRI – “Il mio è un percorso lungo, C2, B, A, Premier e poi Juventus. Mi da emozione essere qui, è la squadra più importante d’Italia. Il percorso è lungo e fatto di passi. Vengo dal Chelsea che ha una storia inferiore alla Juventus, per me è un altro passo in avanti di quelli fatti gradualmente. L’emozione è forte. Allenare Ronaldo è un escalation anche questa per me: ho allenato giocatori forti nel Chelsea, con lui si va al top mondiale. Ha tutti i record che si possono vere nel calcio mondiale, mi piacerebbe fargliene battere un altro così da poter aver inciso su uno di questi.”
SARRI – “Io parlai di querela su chi mi dava alla Juve perché era una notizia infondata. Io penso che ho vissuto tre anni in cui mi svegliavo la mattina con il pensiero di battere la Juventus, visto che noi eravamo l’alternativa più credibile. Io dovevo creare tutte le situazioni per battere la Juventus. Lo rifarei, ho dato il 110%. Poi è chiaro che è un’avversità sportiva, che quando finisce, finisce. Ora darò tutto per questa società, quello che ho fatto posso averlo fatto con mezzi o modi sbagliati ma è intellettualmente apprezzabile. Se un avversario è disposto a tutto per sconfiggermi lo posso odiare ma lo devo apprezzare alla fine.”
SARRI – “I giocatori fanno dichiarazioni per vivere bene nell’ambiente, poi nei messaggi personali ci sono cose diverse. A Napoli ne sono uscito per scelta inconsapevole mia ma consapevole della società Ho scelto l’estero per il rispetto ma sono tornato in Italia perchè mi voleva una società improntate. Nella vita ho rispettato tutti, ho sempre dato il mio 110% e lo farò anche questi colori. Potrà essere non sufficiente magari ma è quello che posso dare. Io mi sento di aver rispettato tutti.”
PARATICI – “C0nta vincere. Siamo qui per questo, non c’è una ricetta per farlo, abbiamo fatto una scelta pensando che la spinta propulsiva data in questi anni da Allegri potesse affievolirsi un po’, quindi abbiamo preso questa decisione dettata non dal gioco o dai risultati ma per dare uno shock.”
SARRI – “I club sono fatti da persone, ho visto tutti molto uniti tra di loro, compatti e questo è un qualcosa per me di importante, perchè il rapporto con le persone ti fa bene, vedere persone che vanno per la stessa strada ti fa sentire bene. Mi è bastato poco per capire che sono un gruppo forte per mentalità, determinazione e unione. Mi piacerebbe far fare il record di gol a Ronaldo.”
SARRI – “Arrivo con scetticismo come ovunque. Sempre avuto tifosi scettici all’inizio. Vengo dall’altra parte, è giusto che un questa fase ci sia scetticismo. Poi ci sta un solo modo per toglierlo che è vincere e convincere. Dovremo andare in campo, divertirci e fare spettacolo.
Sebastiano Vernazza per la Gazzetta dello Sport il 21 giugno 2019. Attenzione, metamorfosi in atto. La Juve ha cominciato a smontare lo stereotipo di Maurizio Sarri comandante rivoluzionario, «Che Guevara» del pallone che voleva condurre Napoli e i napoletani alla conquista del Palazzo. L' altra sera l' arrivo a Caselle con volo privato e abbigliamento casual, però firmato, e i maliziosi hanno fatto notare come il porta abiti che aveva nelle mani fosse di marca, Allegri per la precisione. Ieri, nella prima conferenza allo Stadium, un Sarri vestito alla perfezione, moderato nei toni e forbito nel parlare, anche se per tre volte ha ceduto alla tentazione della parolaccia. «Juventinizzazione» in corso. Sarri si è presentato in divisa sociale: giacca e cravatta blu, camicia bianca, la J di Juve all' altezza del cuore. Al polso sinistro un Rolex, l' orologio di chi ha fatto fortuna. «Comunisti col Rolex» cantano Fedez e J-Ax: citazione scontata, ma è impossibile resistere. Sarri aveva il volto pulito, fresco di rasatura, e il capello corto, d'ordinanza nella casa reale di Torino. I «barbudos» erano altri: il direttore sportivo Fabio Paratici alla sua destra e il capo della comunicazione Claudio Albanese alla sua sinistra, il presidente Andrea Agnelli nella foto conclusiva. Sarri rasato è una costante del primo giorno: senza un filo di barba, ma con la sola camicia per la presentazione nel 2012 a Empoli; in giacca e camicia, però senza cravatta, a Ischia nel 2015 per il debutto al Napoli; in completo a Londra un anno fa per la prima al Chelsea. Escalation di carriera e di accuratezza, più si sale più si è costretti a indossare i panni del potere. Il dilemma sul look da panchina - tuta o giacca e cravatta? - sarà argomento di discussione: «Nel contratto mi sono impegnato a indossare la divisa sociale nelle occasioni di rappresentanza. Per quanto riguarda il campo, parleremo e vedremo». Il nuovo allenatore della Juve ama leggere e preferisce gli autori americani maledetti e anti-sistema. Per esempio John Fante, con il personaggio cult delle sue opere, Arturo Bandini, che in fondo è un simil-Sarri a caccia di successo e riscatto nella Los Angeles del primo Novecento. Oppure Charles Bukowski, il re della letteratura tutta sesso, alcol e sigarette. Ne consegue che Sarri parli bene - chi legge sa maneggiare la sintassi - e che faccia uso di parolacce perché i libri di Bukowski, per quanto godibili, dispensano volgarità. Ieri sembrava che Sarri ce l' avesse fatta a ripulirsi dal vizio che fa tanto verismo e uomo del popolo. Ha ceduto verso il 45° minuto, quando gli è scappato un «rincoglionimento», seguito da un altro vocabolo poco elegante, «cazzeggio». E verso la fine, quando si scusava per un episodio passato, il gesto offensivo ai tifosi della Juve, non ha potuto esimersi dallo spiegare che dieci stupidi gli urlavano «terrone di merda». Tre parolacce in un 80' di conferenza, un ruolino accettabile, dati i precedenti. E poi è giusto pensare positivo, sottolineare la ricchezza del linguaggio. Sarri ha pronunciato vocaboli ed espressioni di livello superiore al parlato medio di un allenatore italiano. Ha detto «fardello», «emozionale», «avversità», «romanzarci», «nell' economia dei risultati», «squadra frivola», «sciabola», «l' irrisolvibile è sempre il non detto». Gli vanno riconosciute padronanza della lingua e ricercatezza. Si è rivolto con il " «tu» a ogni giornalista: un modo per accorciare le distanze e per offrire e chiedere schiettezza. Non ha mai alzato il volume della voce, ha scelto i toni bassi, ha sorriso il giusto. Pacatezza e preparazione: si aspettava le domande insidiose e ha fornito risposte rapide, pronte, perché pensate in anticipo. Qua e là è sembrato di percepire qualche imbarazzo negli sguardi. A tratti teneva gli occhi bassi, come se il «vecchio» Sarri che resiste in lui, il Masaniello napoletano, riaffiorasse e gli chiedesse conto: «Che ci facciamo qui?». Momenti, attimi fuggenti, il nuovo Sarri l' ha avuta vinta sull' altro. L' impatto è stato morbido e fermo allo stesso tempo, ma come sempre alla Juve giudice unico sarà il campo, con i risultati. Tuta o non tuta.
Mario Sconcerti per il “Corriere della sera” il 21 giugno 2019. È stata molto interessante la prima volta di Sarri alla Juve. Fra le sue mani il calcio sembra sempre una cosa seria, qualcosa tra il filosofico e il popolare ma sempre molto pensata, arrivata da lontano. Le polemiche sulla tuta o i problemi di tradimento, chiedo scusa, ma m' interessano poco, da qualunque parte vengano, così come le frasi di Sarri quando non era alla Juventus. Un buon generale deve rispettare il nemico, ma senza dimenticare di detestarlo. Non esiste solo l' amore a dare forza, anche la rabbia aiuta. A volte viene da pensare che il pubblico, i tifosi, siano rimasti indietro rispetto alla complessità del calcio, come un figlio che diventa troppo importante per il padre, lui parla di sé e l' altro non capisce cosa dice. Sarri alla Juve oggi non è un esperimento, è una necessità. Perché il pubblico è ormai televisivo e globale, e quel pubblico vuole vedere bel gioco, vuole che la squadra sia stimata per la sua diversità non per vincere la Coppa Italia. Come andrà non lo so, certo è questo della nuova Juve un gran cozzare di mondi. Ma ci sono anche ottime ragioni perché le cose vadano bene. Non si può fare un peso della diversità se è quella che si è cercato. È chiaro che va presa come un premio. Sarri ha un vantaggio: ha, tranne Ronaldo, tanti mezzi grandi giocatori: Dybala, Bernardeschi, Douglas Costa, Rugani, Bentancur, il vecchio Higuain, Mandzukic, perfino Pjanic. Tutti quasi fuoriclasse che hanno vinto molto rimanendo però a 20 centimetri dalla storia vera. È quei 20 centimetri che Sarri andrà a cercare, gli stessi che i giocatori vorranno portargli. Perché Sarri è per loro la grande occasione di scollinare il loro ultimo limite. Quando Sarri dice che Pjanic deve toccare 150 palloni a partita, è quel confine che cerca, racconta la strada che pretende. Quando dice che Bernardeschi deve trovare un ruolo e chiudercisi dentro, è la sua differenza che porta. E nell' aria si avverte già una competenza non migliore ma diversa rispetto al passato, quel po' di nuovo senza il quale vincere era diventato quasi soffocante .
Romolo Buffoni per “il Messaggero” il 21 giugno 2019. La classe operaia va in paradiso. L'allenatore con la tuta approdando alla Juventus compie il tragitto netto: raggiunge il gradino più alto del calcio italiano dopo essere partito da quello più basso. Non c'è altro modo per raccontare la carriera di Sarri cominciata sulla panchina dello Stia, Seconda categoria toscana. Era il 1990, curiosamente l'anno in cui la Juve decise di affidarsi al calcio-champagne di Gigi Maifredi. Bollicine che evaporarono subito. Non bisogna però eccedere col romanticismo. Il Sarri elegantissimo visto ieri all'Allianz Stadium, non è più l'ex bancario che fra un estratto conto e l'altro disegnava soluzioni tattiche per vincere l'Eccellenza toscana. Non è nemmeno quello che portò l'Empoli in serie A esaltando bomber Maccarone e le geometrie di Valdifiori, o il Sarri che con il Napoli dei nani Insigne-Mertens-Callejon ha rischiato di interrompere il dominio juventino. Il segreto del tecnico toscano è stato proprio quello di adattare il sarrismo alle realtà nelle quali si è calato. È successo anche a Londra dove, pur non uscendo praticamente mai da Cobham dove c'è il centro sportivo del Chelsea, si è adeguato a ritmi e stile della Premier League. Nessuno lo ha mai sentito lamentarsi dei calendari, come invece fece a Napoli: «La Juve ha gare abbastanza abbordabili. Penso sia stato un errore mastodontico fatto dalla Lega, in alcune gare si poteva giocare in contemporanea o fare giocare prima noi...». E le frasi anti-Juve sono quelle che, oggi, gli rinfacciano i suoi ex tifosi e infastidiscono quelli nuovi: «Per ottenere un rigore bisogna avere la maglia a righe»; «Io alla Juve? Ci sono gli estremi per una querela»; «Tifare Juventus è un difetto», tanto per citarne alcune. Ma Sarri cambierà ancora. In tuta o in giacca e cravatta, non sarà più quello che diede del «finocchio» a Roberto Mancini o quello greve e volgare che insolentì una giornalista. Sa che lo aspettano tutti al varco. «Sta sempre in tuta, urla e bestemmia - ha detto il presidente del Napoli De Laurentiis -, vorrei proprio capire come si adeguerà allo stile della sua nuova squadra. Sarà bello vedere Ancelotti batterlo». Napoli che, ieri, sulla sua pagina Facebook ha dedicato al suo ex allenatore il video di auguri raccolti fra i vicoli del centro. C'è chi gli augura di superare i 91 punti-record totalizzati con Insigne e compagni ma di arrivare secondo e chi, più perfidamente, auspica la sua vittoria in Europa League (il che significherebbe il fallimento in Champions). Giacca o tuta? Chissà. Sicuramente in panchina Sarri porterà con sé un corno anti malocchio.
Vittorio Zambardino per Il Napolista il 21 giugno 2019.
L’abiura. Caro Bugiardo: l’abiura è durata un’ora e quindici, diciamo un’ora se togliamo le poche frasi dedicate alle cose tecniche: ai giocatori della Juventus, agli schemi di gioco, ai necessari omaggi al predecessore e i ripetuti continui atti di umiltà (e di umiliazione) nei confronti della nuova proprietà. È stata nella forma dell’abiura – studiata, calibrata, una vera conferenza stampa dei nostri giorni, dove non c’era nemmeno una parola lasciata al caso, nemmeno le due volgarità pronunciate – che è andata la presentazione dell’allenatore della Juventus. Sottotesto: ecco cos’ero, ecco che cosa non sarò più, lo giuro. Geniale la forma retorica scelta: l’attacco ai tifosi del Napoli, al Napoli, a Napoli. Come dite? Che avete sentito solo frasi d’amore e apprezzamenti? Ed è proprio quello l’attacco. Per poter costruire la sua nuova vita di allenatore della Juventus, Maurizio Sarri ha rappresentato se stesso come ha fatto negli ultimi due anni. Ha chiamato in scena il personaggio del comandante prima di buttarlo nella spazzatura. Si è pubblicamente dato fuoco, avvolto in quel vestito blu con la J, che gli cadeva così bene nella sua eleganza triste da funzionario – un ruolo naturale. Come le vittime dello stalinismo, per citare un periodo storico caro ai suoi talebani col fondo tinta, che rievocavano davanti ai tribunali le loro malefatte da nemici dello Stato e del Popolo.
Come con Higuain. E in che è consistito questo attacco? Qui gli uomini comunicazione della Juventus hanno fatto il loro capolavoro, già sperimentato con Higuain tre anni fa. Parla degli altri, distogli l’attenzione da noi. Per aprire ferite e contraddizione nel campo altrui, puntando i riflettori sull’avversario, in modo che da questa parte, la loro, non si vedessero l’affanno della soluzione last minute, la fatica di una lunga inquietudine, i rifiuti incassati da Guardiola. Bisognerà imparare a leggere queste logiche teatrali della Juventus. È comunicazione del nostro tempo, è roba seria. E quindi tutto il campionario: i napoletani lo ameranno se lo applaudiranno ma lo ameranno anche se lo fischieranno, perché quell’amore non si sradica – poveretto, si sente san Gennaro o Maradona. “Da bambino ero tifoso del Napoli.” “Ringrazio De Laurentiis perché mi ha dato la possibilità di allenare la squadra che amo”. “Il nostro sogno di due anni fa è stato una stagione stupenda.” E soprattutto, proprio in apertura della conferenza la Grande Bugia. “Mi stavo chiedendo se rimanere, quando a maggio hanno annunciato Ancelotti.” Caro Bugiardo, hai la faccia marrone come il bronzo, e questa bugia la dici perché sai che la gente dimentica, che la memoria mediatica è corta, che nessuno riuscirà a ricordare che con gli inglesi parlavi da dicembre e avevi chiuso ad aprile.
Andrà a inginocchiarsi a CR7. Ma qui preghiamo gli studenti di comunicazione di soffermarsi su questa tecnica raffinata. Il cuore, l’amore per l’altro. Tecnica raffinata ma antica come l’inganno: quella di un uomo che presenta il suo nuovo amore cantando le lodi di quello precedente. Ma voi gli credereste? Noi no. E questa è stata la conferenza. Perché per il resto ha tenuto a dire che non ha schemi precostituiti. Che andrà in Grecia ad inginocchiarsi al vero leader della squadra (autorevole, l’uomo), che rispetterà il potere del club sul mercato e sui giocatori che ci sono – ha perfino balbettato quando qualche giornalista gli ha fatto notare che dimenticava nomi importanti. Ha anche rivelato quello che a Napoli sappiamo bene: che costruisce le squadre intorno ad alcuni. A proposito, ha rinnegato Higuain, ma il gallo non ha cantato. Si vede che la maestria di questa spettacolo avrà frastornato anche il pollaio. Ora tocca ai napoletani: giudicare quest’uomo per quello che è, l’allenatore del maggiore club a noi avverso, che si serve del passato e dei loro sentimenti per manipolarli come li ha manipolati quando era qui. O se abboccare ancora una volta alla recita del Caro Bugiardo. Qualcuno che mangia l’esca ci sarà certamente. Ma lasciatecelo dire, è stata davvero una recita al limite della decenza umana. In quanto alla professionalità è andato bene. “Il calcio è menzogna” diceva uno più leale di lui.
· Il Giramondo Stramaccioni.
Stramaccioni, l’allenatore il cui addio all’Esteghlal ha creato sommosse in Iran: «Pronto a tornare». Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 da Roberto De Ponti su Corriere.it.
Stramaccioni, dica la verità: se lo sarebbe mai aspettato che un giorno ci sarebbero stati disordini di piazza per convincere i proprietari del suo club a trattenerla?
«Confesso: nemmeno nelle mie più sfrenate fantasie».
Fino a pochi mesi fa, Andrea Stramaccioni da Roma, classe 1976, enfant prodige del calcio italiano, nemmeno sapeva che in Iran la passione per il calcio potesse arrivare a tanto. Anzi, nemmeno lo conosceva, il calcio iraniano.
«È vero. Quando arrivò l’offerta dell’Esteghlal la prima cosa che pensai fu: l’Iran?!?».
E come l’hanno scoperta, da quelle parti?
«Ali Khatir, ex membro della Fifa, che aveva seguito l’Europa League ai tempi dell’Inter, si è ricordato di me».
Ha accettato l’offerta senza ripensamenti?
«Non sono ipocrita: la verità è che ho scelto quando ho capito che in Italia non c’era posto per me».
Quindi com’è andata? Ha detto a sua moglie «tesoro, il prossimo anno andrei ad allenare in Iran…»?
«Sì, più o meno sì».
E lei come l’ha presa?
«Dalila è una donna straordinaria, mi ha sempre seguito e ha fatto sempre sentire i miei figli come a casa. Non finirò mai di ringraziarla... e con l’hijab sta molto bene!».
L’Iran è oggi l’ultima tappa di una carriera ben poco tradizionale.
«Diciamo che non mi sono fatto mancare niente».
Giovane promessa, arriva in prima squadra nel Bologna a 18 anni. Debutta in Coppa Italia, all’ultimo minuto si distrugge un ginocchio. Era la sua prima partita da professionista, sarà anche l’ultima.
Che cosa sarebbe successo se quel giorno non si fosse infortunato?
«Bella domanda... Ho smesso di giocare a 23 anni dopo il terzo intervento al ginocchio, ero andato via di casa a 14 per fare il calciatore. Forse sarei diventato un buon giocatore, forse no. All’epoca pensavo solo che non avrei mai più giocato».
Invece è diventato un ragazzo prodigio della panchina. E ha scoperto l’invidia di alcuni colleghi...
«Se qualche allenatore più anziano mi ha criticato perché non mi ritiene bravo o all’altezza, accetto e rispetto le opinioni di tutti. Ma se mi dicono che “non ho fatto gavetta” mi viene da ridere, perché a differenza della maggior parte di chi allena in serie A o B non ho mai giocato da professionista, non ho parenti o amici che hanno vissuto il calcio a grandi livelli, ho due genitori insegnanti, ho iniziato ad allenare a 23 anni sui campi di terra di periferia in una squadra giovanile dilettante che neanche esiste più, si chiamava Az Sport e a volte facevamo fatica ad arrivare a 11 giocatori... Insomma, mettiamoci d’accordo su cosa sia questa benedetta gavetta».
Poi è arrivata la chiamata di Massimo Moratti.
«La persona a cui devo tutto. Solo chi non ha mai parlato di calcio con Massimo Moratti non può capire il suo livello di competenza».
Si è mai chiesto se la panchina dell’Inter non sia arrivata troppo presto? Non ha avuto paura di bruciarsi, subentrando a Ranieri? (risata)
«Avrei mai potuto dire di no a Moratti? Non scherziamo... Come diceva Totò, “mi sarei sputato in faccia per tutta la vita”».
Il giovane Stramaccioni aveva la presunzione di poter vincere subito con l’Inter?
«Il giovane Stramaccioni era un giovane inesperto allenatore che aveva avuto la fortuna di trovarsi in uno spogliatoio di campioni incredibili, Zanetti, Milito, Cambiasso, Samuel, Stankovic, Sneijder, Chivu, Lucio, Maicon, Julio Cesar... serve che continui? Furono loro che indirettamente mi riconfermarono per la stagione seguente, il resto sono chiacchiere».
Otto vittorie consecutive, come Trapattoni, Simoni e Ranieri, il 3-1 in casa della Juventus di Conte. E poi che cosa è successo? «Me lo sono chiesto spesso. Mi sono dato tre risposte: uno, l’incredibile serie di infortuni che ha colpito la squadra da gennaio ci ha penalizzati; due, l’imminente cessione della società a Thohir ha destabilizzato il club; tre, la mia inesperienza mi portò a commettere diversi errori».
Si raccontava di una sua leggendaria lite con Cassano.
«Accadde di fronte a diverse persone, quindi sì, inutile negarlo. Sono cose che capitano in uno spogliatoio ma oggi non lo rifarei».
Dopo l’Inter, l’Udinese.
«Partimmo benissimo ma quando a gennaio eravamo praticamente già salvi la società decise di vendere Muriel. La squadra cominciò a non avere più fame. A fine anno mi sono confrontato con Pozzo e l’Udinese ha deciso di puntare su un altro tecnico. Resto però l’unico dopo Guidolin ad aver iniziato e finito una stagione all’Udinese».
Poi l’estero. Il Panathinaikos, lo Sparta Praga, Dopo l’Udinese, il Panathinaikos. E l’Esteghlal. Stramaccioni l’esploratore.
«Una cosa generazionale».
La fuga dei giovani dall’Italia. Parliamone.
«Al Pana prima stagione alla grande, partiamo con una penalizzazione e arriviamo secondi. Seconda stagione cominciata meglio della prima, qualificazione ai gironi di Europa League e primo posto. Poi arriva il crac, stipendi non pagati e squadra smembrata. Fine del progetto».
Sparta Praga.
«È l’unica avventura negativa. Una squadra e una tifoseria storicamente nazionalistica affrontava un cambiamento epocale: in un colpo solo allenatore, staff e 12 calciatori stranieri. Fu troppo».
Ha mai avuto paura di diventare un allenatore buono per le squadre più strane in giro per il mondo ma dimenticato dal calcio italiano?
«Io sono felicissimo di quello che sono. Ho collezionato più di 100 panchine in Italia, più di 200 panchine in tutto il mondo. Ho avuto la fortuna di fare Europa League e Champions League. Ringrazio Dio ogni giorno per quello che ho: potrei smettere domani e sarei felice».
E poi è arrivato l’Iran. Ci tornerebbe?
«Anche subito». Insomma, non era tranquillissimo da quelle parti. Ha detto che aveva paura a uscire di casa...
«Si riferisce all’episodio del taxi? Certo, sentirsi sempre controllato non è il massimo. Quando il tassista che mi stava riportando a casa è stato chiamato al telefono per fargli cambiare strada non è stato un bel momento...».
Che cosa è accaduto esattamente con l’Esteghlal?
«Purtroppo c’erano irregolarità tecniche dei pagamenti, e non parlo di un ritardo ma della forma. E questa situazione era conosciuta dal management fin dall’inizio. Sicuramente alla base ci sono le difficoltà dovute alle sanzioni imposte all’Iran a livello politico. Non era legalmente più possibile andare avanti».
Che peso ha la politica sullo sport in Iran?
«La nostra è una squadra gestita al 100 per cento dal governo e il presidente e il board sono frutto di scelte politiche. Glielo chiedo io: secondo lei la politica ha un peso nella nostra squadra?».
Sembrerebbe. Che cosa si porterà in Italia dall’Iran?
«Un’esperienza unica, in una terra affascinante e piena di storia. Molto diversa da come viene descritta. I segni dell’Impero Persiano, Persepolis, la culla della civiltà, Shiraz, Isfahan sono solo alcune delle meraviglie persiane. E l’accoglienza della gente per lo straniero della gente è qualcosa di incredibile».
Ha lasciato dietro di sé disordini di piazza...
«...e proprio per questo spero di tornare a essere l’allenatore di questi fantastici tifosi scesi in piazza per me».
«Abbiamo pagato, Stramaccioni può tornare»: l’ha annunciato il nuovo board del suo club. Tutto è bene quel che finisce bene? «Le risponderò quando tutto sarà finito bene».
ASCESA E CADUTA DI MISTER STRAMACCIONI. Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 14 giugno 2019. Dura la vita dell' allenatore. E uno dice: «Sei scemo? Guadagnano milioni». E anche questo è vero. Ma dura resta dura. Cioè, prendete Gattuso: un anno a sentirsi dare del pirla, dell' incapace e alla fine si ritrova fuori dalla Champions per un misero punto e certo non per colpa sua. E Allegri? Vince lo scudetto, lo rivince, lo rivince, lo rivince, lo rivince, ci mette sopra anche 4 Coppe Italia, 2 Supercoppe italiane, 2 finali di Champions e il commento dell' esperto medio è: «Mmm... poco». Poco? Ma siete matti? Gli esempi si sprecano e, in generale, non deve essere semplice vivere un anno qua e due là, ma questo non è un pezzo nato con l' idea di filosofeggiare sulla figura del tecnico, semmai per raccontare la storia di uno di loro: Stramaccioni Andrea da Roma, neo mister dell' Esteghlal, club iraniano. Stramaccioni Andrea da Roma si ritrova un bel giorno sulla panchina dell' Inter senza un vero perché. Guida la Primavera, i "grandi" stanno facendo abbastanza male e l' allora presidente Moratti decide di mandare affanzum mister Claudio Ranieri per scommettere su questo ragazzo di soli 36 anni. È il 26 marzo 2012. Il ragazzo porta casa un onorevole 6º posto in classifica con 58 punti e la vittoria nel derby con il Milan (4-2). Viene prontamente confermato e molti dicono a Moratti «non fare pirlate», ma lui è convinto e molti di noi pure (il qui scrivente è reo confesso). La stagione va in questo modo. Prima parte: vittorie di fila a raffica, successo a domicilio con la Juve per 1-3 (prima sconfitta dei bianconeri in campionato dopo 49 gare, prima "caduta" in serie A allo Juventus Stadium, frizzi e lazzi). Seconda parte: 19 punti totali nel girone di ritorno, 9° posto finale con 54 punti, 16 sconfitte, esonero (24 maggio, al suo posto arriva Mazzarri). Terza parte: bocciato a Coverciano per troppe assenze (5 luglio 2013) e non prende il patentino, il 25 settembre lo acchiappa con 110 e lode. E inizia il «calvario». Dopo un anno di attesa trova casa a Udine, là dove i tecnici resistono una ma anche due ere geologiche. Lui, col fido Stankovic al fianco, regge una sola stagione (16º posto e soli 41 punti). È il 2015 e a novembre il giovanotto finisce in Grecia al Panathinaikos, mica pizza e fichi. Non va malissimo: 3° posto finale ma sconfitta ai playoff che qualificano alla Champions. Gli amici greci (una faccia, una razza) gli danno fiducia salvo poi rompersi le balle l' 1 dicembre 2016 dopo il ko in Coppa di Grecia contro l' Ofi Creta, club di seconda divisione. Altro giro, altra corsa: il 28 maggio 2017 finisce allo Sparta Praga con un contratto biennale, ma l' esonero arriva meno di un anno dopo: è il 6 marzo 2018. Il giro del mondo si interrompe, non definitivamente. Ieri il non più ragazzo (ma ha ancora "solo" 43 anni) si è accordato con l' Esteghlal (contratto biennale), squadra di Teheran titolatissima, vincitrice di 2 AFC Champions League, 7 Persian Gulf Cup e 6 Hazfi Cup. Un giorno, nel 2013, Strama disse: «Conte ha spiegato che in futuro potrebbe allenare Milan o Inter perché è un professionista? A me riesce difficile immaginarmi sulla panchina della Juventus, del resto sono ancora troppo giovane...». Dura la vita del tecnico (e buona fortuna, Andrea).
· Arrigo Sacchi: «Vendevo scarpe».
“CHE STRESS LA NAZIONALE, MI SENTIVO UN EUNUCO IN UN HAREM DI BELLE DONNE”. Massimo M. Veronese per “il Giornale” il 16 giugno 2019. Per Chicco Evani, che è stato suo giocatore e suo scudiero, era così avanti che quando guardava indietro vedeva il futuro. Per i romantici che tifano per l' eroe solitario era invece il Diavolo e non solo perché lo allenava. Arrigo Sacchi non è soltanto il padre del calcio di oggi e il creatore di quella che l' Uefa ha battezzato come la squadra di calcio più forte di tutti i tempi (da qui il libro scritto con Luigi Garlando La coppa degli Immortali), ma anche un magnifico anti italiano, amico intimo del lavoro e del merito, amante della bellezza e nemico del furbetto del quartierino, in campo e fuori, per questo come da copione, amato e odiato. Un Rocky italiano: l' anonimo ragioniere di provincia senza passato che arriva sul tetto del mondo.
Con la forza della volontà e la tenacia dei sogni. Arrigo, le spiace non essere stato un cavallo?
«Un cavallo... ?!».
Lo ha detto lei. A chi sosteneva che per essere un buon allenatore bisognava prima essere stato calciatore. Mentre lei...
«Dissi: per fare il fantino non c' è bisogno di essere stati un cavallo. E mai come adesso mi sento di poterlo confermare».
Ecco. Le è mai spiaciuto non essere stato un calciatore, quello che tutti i bambini sognano?
«Ma io ho giocato a calcio...».
Sì, ma nel Baracca Lugo.
«E mi sono ritirato a 19 anni. Ho finito la mia carriera quando gli altri di solito la cominciano».
Vede?
«Ho visto che non ero bravo e ho lasciato perdere. Ma dire che non ho giocato non è vero».
Lei però, il Profeta dell' attacco, giocava in difesa.
«In realtà ho cominciato come ala destra, poi sono passato mediano destro, poi terzino, poi fuori».
Ah, ecco...
«Guardi, una regressione totale».
Ma è vero che nella vita voleva fare l' insegnante?
«Avevo lo spirito dell' insegnante ma non volevo farlo».
E cosa voleva fare?
«Avevo le idee chiarissime: mio padre aveva un calzaturificio e io studiavo ragioneria. Il mio destino doveva essere la fabbrica».
Natale Bianchedi, suo amico e collaboratore diceva: Arrigo da ragazzo aveva una Porsche, una foresta di capelli e la testardaggine di sempre. Ma fare il playboy non era il suo mestiere...
«La foresta di capelli non l' ho mai avuta e di donne non ho mai parlato. La Porsche però l' avevo».
Sua moglie Giovanna, a cui il calcio non è mai piaciuto, diceva che alla domenica lei saltava le partite per stare con lei.
«Vero. Ma perché quando ci siamo fidanzati non ero ancora nel mondo del calcio. Ci siamo conosciuti e sposati in cinque mesi».
È vero che tifava per l' Inter e leggeva il manifesto?
«Leggevo il manifesto, l' Unità, ma anche tutti gli altri giornali. E l' unica Gazzetta dello sport che arrivava in paese era per la mia famiglia».
Gianni Mura la definì un cattolico di sinistra.
«Non ero schierato ma non ho mai sopportato le ingiustizie. Mi sono sempre sentito dalla parte degli ultimi, dei vinti dalla vita».
L' Inter invece?
«All' inizio ero interista, ma non mi piaceva come giocava. Preferivo il calcio olandese, l' Ajax di Cruijff: mi chiedevo perché non potessimo anche noi italiani giocare in quel modo bello e rivoluzionario».
Il milanista di famiglia era suo fratello Gilberto...
«Quando un incidente d' auto se lo portò via aveva 27 anni e io 23. Tante volte ho pensato, quando abbiamo vinto coppe e scudetti, quanto sarebbe stato felice, per me e per il suo Milan».
Anni fa l' hanno premiata come cristiano dell' anno.
«Sono cattolico e credente. Prego ogni sera perché non ci siano guerre nel mondo, prego per un mondo migliore, prego perché mi dia la forza di fare del bene. Purtroppo non siamo all' altezza delle nostre preghiere, io per primo. Non siamo generosi come dovremmo».
È vero che sempre da ragazzo organizzava cineforum tipo Corazzata Potemkin?
«La Corazzata Potemkin, M - il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, la Dolce la vita. Vedevo due film al giorno. Andavo a Bologna e passavo le mie giornate al cinema».
E che le piaceva Kim Novak...
«Ah, bellissima donna. Bionda, algida, misteriosa».
Dopo i mondiali americani di calcio le offrirono veramente di fare un film a Hollywood?
«Come no. Dissi a mia moglie: se c' è Sharon Stone però ci vado...».
Ma non era Kim Basinger?
«Può anche essere...».
Che personaggio avreste dovuto interpretare: l' Ethan Hunt di Mission impossible, il capitano Ben Allison degli Implacabili...
«Veramente, nel film avrei dovuto fare l' allenatore...».
Ah, ma allora è un' ossessione.
«Pavese diceva non c' è arte senza ossessione. Io dicevo ai miei giocatori: non so se c' è arte in quello che faccio, ma l' ossessione c' è di sicuro».
Com' è finito a fare l' allenatore?
«Facevo il dirigente del Fusignano, mi ero sposato, lavoravo con il mio babbo. Avevo 27 anni e mi sono detto: perché non giocare ancora un po'? Ma l' allenatore che doveva arrivare non arrivò mai e Natale Bianchedi, il direttore sportivo mi disse: Perché non lo fai tu?».
Per puro caso, quindi?
«Ero scettico, invece quella era l' occasione che stavo aspettando».
Come ha deciso di cambiare vita?
«Avevo trent' anni, ero sposato da quattro, ero già padre. Tornai a casa e dissi a mia moglie: ho deciso. Lascio l' ufficio e faccio solo l' allenatore. La squadra era l' Alfonsine, mi pagavano 250mila lire, lo stipendio di un operaio».
Lei disse: la mia Romagna è una terra di autodidatti e di pionieri che mi fa venire in mente il West.
Sente di somigliarle?
«Io in realtà, come diceva Brera, sono un mezzosangue. Mio padre era di Mandello del Lario, la romagnola era mamma. Sono nato qui perché lei non ha mai voluto spostarsi da Fusignano. Sono double face».
È vero che una volta lasciò fuori un suo amico dalla squadra e che questo provocò una rottura tra le vostre due famiglie?
«Verissimo. Ma le scelte sono scelte. Avevo in squadra un portiere che aveva tredici anni più di me. Non era facile imporsi».
E vero che ha cominciato perdendo sei partite di fila?
«Non ricordo se fossero proprio sei comunque erano tante».
E perché non l' hanno esonerata?
«Perché non costavo nulla. E alla società davo pure qualche soldo. Io non sono mai stato esonerato, sono sempre stato io ad andare via».
Come in Nazionale. È vero che disse: è un' esperienza che con il senno di poi non farei più?
«No, questo non è vero. Le esperienze sono tutte importanti e questa è stata una grande esperienza ma difficile. Allenare una nazionale non è come allenare un club, non lavori tutti i giorni con i tuoi giocatori: la sensazione era quella di un eunuco in un harem di belle donne».
Sostituì Baggio e lui le diede del matto. Com' è finita poi?
«Con Roby nessun problema, abbiamo fatto uno spot pubblicitario insieme subito dopo il mondiale. Ma mi faccia dire».
Dica.
«L' allenatore deve prendere delle decisioni. Baggio era il Pallone d' oro e forse pensava che io fossi il suo allenatore ma io ero l' allenatore dell' Italia, non il suo. E se ho un pregio che è anche un difetto è che sono una persona onesta».
Lo sostituirebbe di nuovo?
«Giocavamo in dieci contro undici, faceva un caldo tremendo, ci volevano fisici fuori dal normale. E vincemmo uno a zero con gol di Baggio. Dino però...».
Cosa le disse Roby Baggio?
«Mi chiese: avresti sostituito anche Maradona? Gli risposi che Maradona non lo avevo mai allenato ma Gullit e Van Basten sì, e avevo sostituito entrambi. Non erano certo meno campioni di Diego».
Il calcio somiglia all' Italia?
«In Italia il calcio è esattamente lo specchio della vita e della storia del nostro Paese. Ho fatto fatica a fare correre le mie squadre perché è dai tempi dei romani che noi corriamo all' indietro. L' unica volta che abbiamo vinto una guerra è perché abbiamo giocato in contropiede. Lì persi due zii, uno aveva 19 anni, l' altro 22: li mandavano allo sbaraglio».
E nella seconda guerra mondiale?
«Stessa cosa, sempre quell' idea di essere più furbi degli altri, di poter approfittare delle situazioni. Mussolini sapeva benissimo che non eravamo pronti per combattere una guerra, i generali lo avevano informato. E lui: ma non avete capito che tra tre mesi è finito tutto e chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto? Guardi, le racconto un episodio mio personale».
Racconti.
«Ero un bambino, avevo 11 anni e il mio babbo mi portava in giro per l' Europa a trovare i nostri clienti. In Germania mi accorgo che i nostri fanno i lavori più umili, camerieri, operai, minatori. Si spaccavano la schiena, lavoravano duro. E i tedeschi viaggiavano in Volvo e Mercedes. Dissi: papà, ma noi siamo i furbi e loro sono i crucchi? Perché lì la furbizia non pagava veramente nulla. E da allora che io sto sempre molto attento ai furbi: mai amato questo tipo di italiano».
Si sente un italiano atipico?
«Io ho sempre voluto bene all' Italia anche se ne conosco i pregi e i molti difetti. Non sopportavo che Brera dicesse che non potevamo competere con inglesi o tedeschi perché noi mangiavamo polenta e pasta e loro carne. Pensavo: ma come? Custodiamo la bellezza del pianeta, abbiamo avuto campioni della fatica come Pamich e Dordoni e non possiamo competere con gli altri? È questione di testa non di fisico: io non ho mai pensato che il calcio nascesse dai piedi, ma dal cervello».
Cosa non le piace dell' italiano?
«Abbiamo questa brutta abitudine di volere prendere sempre una scorciatoia. Invece per arrivare ci vuole impegno, costanza, lavoro. Così invece riduciamo il tutto al niente».
L' Italia è anche un Paese che non fa squadra?
«Faccio convention alle aziende da vent' anni e lo vedo. È un fatto culturale: è un Paese che non gioca insieme, che non ha un obiettivo comune, dove ognuno gioca per sé. Pensi che siamo penultimi nel mondo per le iscrizioni all' università e nel calcio è uguale. Quando ho fatto il supercorso nel 1978 durava un anno. Oggi sa quanto dura?».
Proprio no...
«Trentadue giorni e le presenze sono facoltative per cui molti non ci vanno neanche. Uno schiaffo alla cultura: senza cultura ci può essere solo ignoranza e quando c' è ignoranza si ha paura di tutto e di tutti. Soprattutto del cambiamento».
Per questo forse si è trovato subito in sintonia con Berlusconi.
«Berlusconi ha una grandezza naturale e io gli devo molto, soprattutto il fatto di avere sempre creduto in me quando avevo tutti contro. Con lui il primo anno firmai in bianco: dissi a lui e a Galliani, o siete dei geni o siete dei folli in ogni caso vi devo venire incontro. Siamo andati oltre la missione: volevamo diventare la squadra più forte del mondo, siamo diventati la squadra più forte di tutti i tempi».
Berlusconi la voleva persino ministro dello Sport...
«Quando partimmo per il mondiale era consuetudine che la nazionale prima di partire andasse dal premier. Ci davamo ancora del lei, adesso ci diamo del tu. Avevo fatto sei finali internazionali e le avevo vinte tutte. Mi disse: se vince anche questa la faccio ministro dello Sport. Gli risposi: ma se non esiste nemmeno il ministero dello Sport?».
E lui?
«Be', lo creiamo».
Bastava tirare dentro un rigore ed era fatta.
«Dissi: Dottore se la mia è un' impresa difficile la sua è impossibile. Perché l' italiano ha il senso della nazione ma non quello dello Stato...».
Antonello Piroso per “la Verità” il 20 luglio 2019. Nel 1989 il Milan di Silvio Berlusconi - che nella stagione precedente, l' anno I di Arrigo Sacchi in panchina, aveva rivinto lo scudetto dopo nove anni e la Supercoppa italiana - conquista Coppa dei Campioni (dopo vent' anni esatti), Supercoppa Uefa e Coppa Intercontinentale. Tripletta bissata l' anno dopo. E pensare che, dopo la prima seduta di allenamento con il nuovo mister, il terzino Billy Costacurta aveva concluso: «Questo dura due mesi». Si sbagliava. Lui come tanti altri. Perché «questo» - cioè Sacchi - per dirla anni dopo con un altro giocatore, Chicco Evani: «Era così avanti che se si voltava indietro, vedeva il futuro». Ecco perché va letto La Coppa degli Immortali, libro scritto da Sacchi (con Luigi Garlando, giornalista della Gazzetta dello Sport) per ricostruire la leggenda della compagine che l' Uefa arrivò a definire «la più forte di tutti i tempi», e non solo per via dei tre olandesi, Ruud Gullit, Marco Van Basten e Frank Rijkaard. E con una finale, vinta per 4 a 0 contro lo Steaua di Bucarest, che farà scrivere a L' Equipe: «Dopo questa partita il calcio non potrà più essere lo stesso».
Non male, per un «signor Nessuno» di Fusignano, in quel di Ravenna. Prima di avvicinarsi al calcio, è vero che collaborava al cineforum del paese?
«Sì, la prima pellicola che proiettammo fu La Corazzata Potëmkin».
Bella mattonata. Condivide lo sfogone di Paolo Villaggio versione Fantozzi: «Una cagata pazzesca"?
«Diciamo che non mi piacque molto».
Con Berlusconi vi sentivate anche due volte al giorno, e all' epoca non c' erano i cellulari. Ha mai interferito nelle sue decisioni?
«Mai. Era estremamente rispettoso dei ruoli. E mi difese quando all' inizio i risultati non arrivavano. Convocò i giocatori: "Sacchi gode della nostra piena fiducia; chi come noi si fida, bene, resta; chi non si fida, può anche andarsene". Solo una volta violò la sacralità dello spogliatoio: portò in visita prima di un incontro Bobo Craxi e Roberto Formigoni. Ma poi si scusò».
Be', sull' argentino Claudio Borghi avete discusso un bel po', alla fine la spuntò lei che voleva Rijkaard.
«Misi sul piatto le dimissioni. Non come provocazione: per coerenza. Borghi non aveva nessuno dei valori che avevo predicato agli altri, che figura avrei fatto con la squadra? Berlusconi rilanciò: "Ok, prendo un altro allenatore, ma lei rimane come amministratore delegato". Replicai che non ero sicuro di saper fare bene il mio mestiere, dopo 15 anni, figuriamoci quello di dirigente. Fedele Confalonieri commentò: "Mai visto Berlusconi incassare così tanti no in una volta sola"».
La tattica senza strategia è perdente. Sun Tzu. Da lei evocato. Definisca la tattica.
«È l' attesa dell' errore dell' avversario per approfittarne. Noi italiani interpretiamo il calcio come la vita: pensiamo che la furbizia sia un valore, che le conoscenze contino più della conoscenza, che il privilegio sia il diritto di chi può. Siamo un popolo servile che corre sempre in aiuto del potente, per tacere della corruzione e della disonestà. Diceva Winston Churchill: "Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre". Del resto, nei tempi moderni l' unico conflitto vinto è la prima guerra mondiale. Come? Con il catenaccio sul Piave».
Io ricordo la frase attribuita a Benito Mussolini: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile». Secondo lei lo ha imparato anche Berlusconi?
«Berlusconi è stato un innovatore in tutto. Da politico gli imputo solo un errore: non aver mollato quando ha capito che non avrebbe mai potuto realizzare i cambiamenti che aveva in mente e servivano al Paese».
Tornando al calcio: il vizio italico è quello di fare catenaccio per poi ripartire in contropiede. Le invece teorizzava il «calcio totale» della nazionale olandese di Johan Cruijff.
«Ha presente la formazione a testuggine di Giulio Cesare? Ecco. Difendersi correndo in avanti, muovendosi come un sol uomo con un meccanismo a orologeria, giocando a zona in sincronia, tenendo la palla lontano dalla tua porta ma vicino a quella avversaria. Pretendevo undici giocatori in costante posizione attiva, con o senza palla, portiere compreso. Il pressing così concepito e realizzato aumenta l' autostima. E mina quella dell' avversario. Quando un supertifoso come Diego Abatantuono venne a giocare a Milanello, fu messo in mezzo e sottoposto al trattamento: "Ora so come si sente una pallina da flipper"».
Il talento del campione non serve?
«Nella misura in cui lo mette al servizio del collettivo. Per me un giocatore è grande a queste condizioni: gioca con la squadra, per la squadra, a tutto campo e a tutto tempo. Cruijff lo era».
Zlatan Ibrahimovic invece no?
«Mi chiama Pep Guardiola e mi chiede cosa penso del possibile arrivo di Ibra al Barcellona. Rispondo che indubbiamente è un calciatore di peso, ma con quelli che per me sono quattro difetti: individualismo, protagonismo, egocentrismo, avidità».
Per questo, durante un collegamento tv, Ibra ha battibeccato con lei: deve averlo saputo. Gullit invece ha fatto proprio il verbo sacchiano. Non senza qualche defaillance. Una volta lo accusò di ragionare «più col cazzo che con la testa».
«Piaceva alle donne, e gli piacevano le donne. Quando Berlusconi chiese alla squadra, per vincere lo scudetto, il sacrificio di un mese di astinenza sessuale, lui seraficamente replicò: "Presidente, io con le palle piene non riesco a correre". Quella volta dovevamo partire per Avellino. La moglie ci chiede notizie visto che non ha dormito a casa. In aeroporto non si presenta all'imbarco, lo trovano addormentato in sala d'aspetto. Quando arriviamo, mi chiudo in camera con lui e gli faccio uno shampoo: "Ti sei visto allo specchio? Non ti vergogni? Sembri un fantasma, è la prima volta che vedo uno di colore diventare bianco". In campo era come se non ci fosse. Due settimane dopo, nel derby, la sua prestazione fu semplicemente esaltante. Chiese di parlarmi: "Ad Avellino ho sbagliato e le chiedo scusa. Ma in futuro non metta più in mezzo il colore della mia pelle". Aveva ragione.
C' è razzismo nel calcio?
«C' è mancanza di cultura, di rispetto per l' avversario, c' è maleducazione. Dovremmo andare allo stadio come si va a teatro. Invece qual è lo slogan più scandito? "Devi morire". Siamo rimasti ai tempi del Colosseo e al pollice verso».
Dopo una partita con il Pisa, il presidente Romeo Anconetani disse, riferendosi a Gullit: «Un mostro in tutto. Ma anche noi abbiamo fenomeni del genere».
«I giornalisti non potevano sapere che non alludeva al calcio. Aveva visto Gullit nudo negli spogliatoi. Anconetani aveva in squadra Paul Elliott, giocava con i bermuda da ciclista sotto i calzoncini».
Non vedo il nesso.
«Mandai Silvano Ramaccioni (il team manager, ndr) a investigare: usava i bermuda perché non c' erano mutande abbastanza grandi per, diciamo così, contenerne la virilità».
Anche del portiere Sebastiano Rossi si magnificavano doti «extracalcistiche».
«Nel' 82 vinsi lo scudetto Primavera allenando la giovanile del Cesena. In quel caso fu il presidente della squadra, Dino Manuzzi, a rimanere colpito davanti a Rossi che si stava rivestendo: "Ostia, che usel!"».
Con questi due aneddoti lei ha ammazzato la mia, di autostima. Calcio e omosessualità: un tabù di cui è tabù parlare?
«Guardi, io non ho mai fatto il poliziotto dei miei calciatori: se li facevo giocare, è perché mi fidavo. E se mi fidavo, non andavo certo a controllare se facevano o meno sesso prima del match, o con chi. Quando, allenando una squadra (l'anticipo: non era il Milan), mi fu sussurrato che di uno dei ragazzi si diceva fosse gay, osservai che, visto come rendeva in campo, avrei voluto lo fossero anche gli altri».
Chi sono gli eredi di Sacchi?
«Non mi faccia passare per presuntuoso. Certo, non penso abbia torto Costacurta: "Mister, ci hanno imitato in tutto il mondo, ma non in Italia". Vedo però che gli strateghi, rispetto ai tattici, sono in aumento: penso a Maurizio Sarri, Gian Piero Gasperini, Marco Giampaolo (oggi allenatore del Milan, che avrei portato al Parma quando ero lì come direttore tecnico agli inizi degli anni 2000), Roberto De Zerbi. Cercano la bellezza del gioco e un calcio di dominio. Anche Roberto Mancini sta costruendo una Nazionale giovane e ambiziosa che attacca con coraggio e non si ferma al risultato».
Perché il nostro calcio a livello internazionale è messo così male?
«Perché innanzi tutto i successi si costruiscono con le idee, i valori e il lavoro. Mi lasci dire: con lo stile. I fatturati c' entrano relativamente. Nel 1989 c' erano tre squadre italiane in finale nelle tre coppe europee. Due le vincemmo. Dall' inizio di questo secolo, tolte le tre Champions (due di Carlo Ancelotti con il Milan, una di Josè Mourinho con l' Inter), non c' è altro, mentre la Spagna ha portato a casa 18 trofei».
La Juve ha investito tanto. Mi chiedo come si concilierà il sarrismo, figlio del sacchismo, con lo stile Juve forgiato dal motto dell' Avvocato, Gianni Agnelli: «Vincere non è la cosa più importante. Ma è l' unica cosa che conta».
«Sto scrivendo un articolo proprio su questo. Se il presidente Andrea Agnelli si è orientato così, qualche ragionamento deve essere stato fatto. Nel libro mi permetto un consiglio non richiesto: per aprire un ciclo vincente in Europa, la Juve deve fare un passo avanti per unire merito, bellezza, forza e vittoria».
Quando - tra cent' anni - verrà meno, sulla sua tomba che epitaffio ci sarà?
«Ha passato la vita a migliorarsi e a migliorare gli altri».
Ci è sempre riuscito?
«Di sicuro ci ho sempre provato».
Arrigo Sacchi: «Vendevo scarpe, al calcio sono arrivato grazie a un bibliotecario». Pubblicato domenica, 2 giugno 2019 da Gaia Piccardi su Corriere.it. Metà Anni Sessanta, provincia di Ravenna. L’Arrigo figlio di Augusto Sacchi e Lucia Montanari frequenta la quinta ragioneria. «Un giorno, all’improvviso, papà viene ricoverato in ospedale con un grave problema al fegato. E’ accomandatario e socio dell’Iper, calzaturificio a Fusignano». Al primo bivio della vita Sacchi svolta deciso: «Non ci penso su due volte. Interrompo la scuola per entrare in fabbrica: lo faccio per senso del dovere, certo, ma anche perché so che a papà farà piacere». Come il capitale umano che allenerà in un futuro di cui ancora non sospetta l’esistenza, Arrigo prende le scarpe di petto. «Ho una certa dimestichezza con la contabilità, ma divento responsabile senza una preparazione specifica. Il grande esempio da seguire è mio padre: ex calciatore di Gallaratese e Spal, lombardo del Nord nato a Mandello del Lario, così nordista che i milanesi per lui sono terroni. Ha fatto la guerra sugli aerei siluranti ed è stato fortunato: è uno dei pochi ad essere tornato a casa». Quando Augusto rientra in fabbrica, trova una sorpresa: Arrigo ne ha comprata un’altra e, quando il capofamiglia torna al suo posto di comando, va a dirigerla. «Si tratta dell’Iperflex, sempre scarpe: in Romagna non abbiamo grande fantasia!». Nel frattempo, il giovane Sacchi assolve gli obblighi di leva. «Mi spediscono nell’ufficio dell’Ospedale militare di Torino. E’ vicino al vecchio stadio, vado spesso a vedere allenamenti e partite. Il Colonnello è un grande tifoso della Juve: mi lascia uscire a patto che poi gli faccia il resoconto degli incontri». Come chiedere allo sposo di andare a nozze. Tornato a Fusignano, Arrigo scopre che c’è un problema. Di abbondanza, ma pur sempre una grana: «I nostri due calzaturifici si fanno concorrenza. Allora propongo a papà di aprire noi stessi un’agenzia di vendite. Ma io ho un animo stanziale: detesto viaggiare. Mio fratello Gilberto, invece, ha un’empatia straordinaria: fa amicizia con tutti». L’agenzia apre il primo ottobre. L’8 ottobre, a due chilometri da casa, Gilberto esce in curva e muore a 27 anni. Un contropiede micidiale. Il secondo bivio della vita è vicino, nascosto dietro una curva a gomito. «Scomparso Gilberto, chiudo l’agenzia o ci vado io? Ho 21 anni, scelgo la seconda strada. Mi ci tuffo con il solito impegno però ogni volta che devo partire è un dispiacere enorme. Cerco di abbreviare i viaggi ma il 90% delle scarpe lo vendiamo in Europa: sono costretto ad andare in Germania quasi tutte le settimane. Una volta vado e torno da Francoforte in giornata, mi presento puntuale a cena da mamma che trasecola: e tu come fai a essere già qui? A 11 anni, in viaggio con mio padre, avevo avuto una visione: in Germania i lavori più umili li facevano i turchi, gli italiani, i portoghesi mentre i tedeschi giravano in Mercedes. Mi viene il dubbio che la furbizia sia un valore. Mi appunto quel pensiero mentalmente. Mi tornerà utile: nella mia carriera di allenatore lo rispolvererò sempre». A 25 anni l’Arrigo sposa la Giovanna. «E le mie giornate diventano più ordinate. Il bibliotecario del paese, Alfredo Belletti, uomo di cultura e intelligenza infinite, è anche il direttore del Fusignano Calcio, che lotta per non retrocedere dalla seconda categoria. Dai Sacchi, dacci una mano, vieni a giocare, mi dice. Perché bisogna sapere che da ragazzo ho anche giocato difensore; male ma ho giocato. Torno in campo e ci salviamo. L’anno dopo Belletti mi chiede di allenare. E’ il 1973. Per tre anni lavoro e alleno». Fusignano, Alfonsine («dove percepisco il primo stipendio da tecnico»), Bellaria, Cesena. Arriva il momento di riunire moglie e padre. «Devo parlarvi, dico loro. Ho capito che vivrò una volta sola e vorrei fare quello che più mi piace: vi comunico che smetto di lavorare». Seguono il Rimini, il supercorso a Coverciano (grazie a Italo Allodi, un mentore), Parma e lo sbarco sul pianeta Milan, illuminato dall’intuizione di un certo Silvio Berlusconi. Il resto è storia. Campionato, Supercoppa, due Coppe Campioni, due Uefa, due Intercontinentali. Lo scorso marzo France Football ha stilato la classifica dei migliori allenatori nella storia del calcio: dopo Rinus Michels e Alex Ferguson, c’è l’ex rappresentante di scarpe.
· Antonio Conte e la stella in panchina.
Inter, per Conte il secondo round: «Porto qualcuno fuori giri? Non mi snaturo». Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. Deciso Antonio Conte, 49 anni, è da poco più di quattro mesi all’Inter. I nerazzurri sono secondi in classifica, ma hanno perso l’ultima sfida in Champions contro il Borussia Dortmund (Getty Images)Dopo la bufera continua a soffiare un vento piuttosto freddo in casa Inter. La forma è più morbida, la sostanza resta. Antonio Conte non arretra, conferma. Il pensiero ispiratore è uno. «Sono stato chiamato per cambiare le cose. Dobbiamo alzare i giri se vogliamo riportare l’Inter a essere protagonista. Se dovessi accorgermi che non può essere fatto diventerebbe per me difficile. Ma io non posso snaturarmi». La sfuriata seguita alla sconfitta di Dortmund non è caduta nel vuoto. A ispirare il tecnico è la voglia di migliorare l’ambiente Inter, anche nella mentalità. «Non era uno sfogo, ma una critica costruttiva, una strategia. Nella costruzione della squadra a livello numerico siamo stati superficiali. I dirigenti sono i primi a riconoscere certi errori. A me vivacchiare non piace. Posso trasferirlo nella maniera giusta o sbagliata, ma il concetto è questo». Parole da cui traspare una sola idea: Conte vuole vincere, chi non lo segue non può stare all’Inter. «Non posso accontentarmi, non è la mia natura. Se porto qualcuno a giri a cui non è abituato a lavorare mi dispiace, ma io sono stato chiamato per questo». Ribadito un pensiero già chiaro, Antonio Conte guarda avanti, a come affrontare una strada tortuosa da qui a gennaio, quando arriveranno rinforzi. Sabato sera a San Siro si affaccia il Verona, reduce da due successi consecutivi, di Ivan Juric. Il tecnico croato, contestato per aver negato i cori contro Mario Balotelli, si è scusato e forte della miglior difesa del campionato (insieme alla Juve) punta a sfruttare il momento di emergenza dei nerazzurri: mancherà Sensi. oltre ai vari Politano, Gagliardini, D’Ambrosio e Sanchez. Il discorso di Conte però non deve alimentare false speranze negli avversari. Chi pensa a una scollatura tra l’allenatore e la dirigenza sbaglia. Il rapporto con Beppe Marotta è forte e solido, come pure quello con la squadra. Lo spogliatoio vede nell’ex c.t. l’uomo capace di guidare il gruppo alla vittoria e i calciatori sono pronti a dare l’anima per il tecnico. Se però si viaggia sempre con l’acceleratore pigiato, la possibilità di slittare esiste. «La delusione per la sconfitta con il Borussia può lasciare strascichi, anche perché ora le percentuali di passare il turno sono molto esigue», ammette il tecnico. La sconfitta in Germania non ha però scalfito la voglia interista di dare la caccia alla Juve, di sorpassarla magari già sabato in attesa dello scontro di domenica sera tra i bianconeri e il Milan. «Preoccupato? Mi fido molto di questo gruppo, i ragazzi stanno facendo cose straordinarie», sottolinea Conte lanciato all’inseguimento di un altro record: segnare in tutte le prime dodici partite di campionato, un en plein riuscito in nerazzurro solo a Gigi Simoni nel 1997-98. Se davanti l’attacco gira al massimo e Romelu Lukaku può eguagliare il primato di Stefano Nyers (stagione 1948-49) di almeno dieci reti nelle prime 12 giornate, i problemi l’Inter li sta evidenziato in difesa. Troppe le reti subite e quasi sempre allo stesso modo, con la difesa schierata. Una tendenza accentuata nelle ultime nove partite: solo una volta i nerazzurri hanno tenuto la porta inviolata, incassando ben 15 reti. «Dobbiamo andare alla ricerca dell’eccellenza, solo uniti e compatti possiamo cambiare la storia», ringhia Conte. Tutti insieme, come vuole lui.
Alessandro Grandesso per gazzetta.it il 22 novembre 2019. Uno spirito libero, non un “leccaculo”. Si definisce così Antonio Conte, allenatore dell’Inter che quest’anno sfida la Juventus per lo scudetto. Una battaglia, come spiega il tecnico nell’intervista al magazine dell’Equipe, dove alla fine solo uno rimarrà in piedi: “E faccio di tutto perché sia la mia squadra”. Ma Conte sa anche che il suo modo totalizzante di interpretare il mestiere, spingendolo a dare consigli ai giocatori persino per i rapporti sessuali, lo porterà a chiudere prima la carriera, anche per restare più vicino ai suoi familiari. “La competizione – spiega Conte - è una battaglia e quando vai a combattere non c’è nessuna ragione per ridere o essere contento. Sono molto concentrato sul fatto che alla fine ne debba restare solo uno in piedi e faccio di tutto perché sia la mia squadra. E’ il mio modo di essere e mi porterà a chiudere presto la carriera, perché vivo il mestiere in modo troppo totale”. Fin dagli inizi in panchina: “Mi ero imposto un grande obiettivo, fin da subito: allenare un gran club entro tre o quattro anni, altrimenti mi sarei fermato. Comunque deve valerne la pena. Mi chiedo spesso se sia giusto passare tanto tempo senza la mia famiglia. Puoi fare molte cose nel calcio, ma l’unica per non sacrificare la famiglia, è proprio l’allenatore”. Un allenatore padre padrone, verrebbe da dire, visto che Conte si spinge fino a condizionare la vita sessuale dei suoi giocatori: “In periodo di competizione, il rapporto non deve durare a lungo, bisogna fare il minor sforzo possibile, quindi restando sotto la partner”.
Conte e i consigli sul sesso: «Rapporti brevi. E restate sotto». Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. In fondo è una questione di posizioni. In campo e anche fuori. L’intervista di Conte all’ Équipe fa discutere. Dice Antonio ai francesi, parlando della vita sessuale dei suoi giocatori: «In periodo di competizioni il rapporto non deve durare a lungo, bisogna fare il minor sforzo possibile, quindi è meglio rimanere sotto la partner». C’è chi la considera una battuta, magari fuori luogo. La verità è che Conte vuole controllare tutto: la tattica in campo, l’ alimentazione a tavola, la vita dei suoi atleti nel tempo libero. I dettagli fanno la differenza, tanto da spingere l’ allenatore lungo un confine pericoloso anche se scherzoso: «Consiglio di farlo con la propria moglie così non si è costretti a una prestazione eccezionale...». Sui social è cresciuto in fretta il partito degli indignati. Altri la prendono con un sorriso. Conte pensa al suo lavoro come a una battaglia «e quando vai a combattere non c’ è nessuna ragione per ridere o essere contento. Sono molto concentrato sul fatto che alla fine solo uno possa restare in piedi». Basta guardare la sua faccia stravolta quando a rimanere in piedi non è la sua squadra. Conte è un integralista, nato alla scuola della Juve, in cui vincere è l’ unica cosa che conta. «È il mio modo di essere e mi porterà a chiudere presto la mia carriera». L’ora dell’ allenamento viene annunciata sul gruppo whatsapp sempre all’ ultimo momento e la dedizione deve essere totale da quando un giocatore apre gli occhi la mattina sino alla sera. Ognuno ha i suoi metodi. Quelli di Conte sono questi. Anche quando scherza. I risultati parlano per lui. Sulle posizioni consigliate in amore la squadra, ne siamo certi, la prenderà sul ridere. A Appiano Gentile si fa fatica ma l’atmosfera è serena. Il sistema Conte è coinvolgente anche se totalizzante. Un suo ex giocatore, che vuole rimanere anonimo, un po’ di tempo fa ha confessato: «Antonio è il migliore del mondo ma non puoi resistergli più di due o tre stagioni». Anche lui pensa la stessa cosa: «Volevo allenare un grande club entro tre o quattro anni, altrimenti avrei smesso. Mi chiedo se sia giusto passare così tanto tempo senza la mia famiglia». Si definisce uno spirito libero e non un «leccaculo». Ora ha in testa un’idea meravigliosa: riportare lo scudetto all’ Inter dopo dieci anni. E per riuscirci è pronto a tutto, anche ai consigli sessuali.
Fabrizio Biasin per “Libero Quotidiano” il 23 novembre 2019. Partiamo dal virgolettato che è certamente cosa buona e giusta: «In periodo di competizione, il rapporto (sessuale ndr) non deve durare a lungo, bisogna fare il minor sforzo possibile, quindi restando sotto la partner». E ancora: «Consiglio di farlo con la propria moglie così non si è costretti a fare una prestazione eccezionale». Parole e musica di Rocco Siffr... no, perdonateci, di Antonio Conte, allenatore cazzutissimo (nel senso di «spietato» o «attento persino alle virgole»). Parla così il tecnico dell' Inter e lo fa nientemeno che nell' edizione settimanale de L' Equipe, mica pizza e fichi. Capite bene che qui siamo oltre il campo, oltre la tattica, oltre il calciomercato, qui l' ex ct si infila bello sereno sotto le lenzuola dei suoi giocatori e lancia chiari messaggi: trombate pure, ma col freno a mano tirato e comunque mettendo in pratica una sorta di «melina da materasso». Ora, viene facile fare ironia e, infatti, da ieri l' universo virtuale si è sbizzarrito: c' è la foto di Conte che caccia Icardi perché sorpreso a fare zumba con Wanda in posizione non consentita; c' è chi semplicemente pubblica le foto delle gentili consorti dei giocatori nerazzurri e si domanda «riusciranno i virgulti a rispettare le consegne?». Perché sì, cioè, in periodo di MeToo e affini rischiamo di essere tacciati di «scarsa sensibilità», ma qui signori miei non stiamo parlando di semplici figliuole, semmai di irresistibili valchirie dall' ormone firccicarello. E chi glielo dice a Miss Martinez (Agustina Gandolfo) che le tocca il minimo sindacale? Lautaro? «Ciao amore, dopodomani c' ho la Champions, stasera andiamo di sveltina in "posizione Conte", prendere o lasciare». E quella, ovviamente, lascia. E Miss Skriniar (Barbora Hroncekova)? Milan: «Senti, Barbora, non so come dirtelo...». Barbora: «No, guarda Milan, io la "Conte" stasera non la reggo, piuttosto guardiamo Adrian e tanti saluti». E quello, Milan, giustamente ci resta male. Son problemi, ma con l' uomo di Lecce non si scherza. Fu lui ai tempi della Nazionale a condizionare il viaggio di nozze di Mattia Destro. Questo il virgolettato tratto da Metodo Conte del giornalista Alessandro Alciato: «Ditegli che potrà andare a sposarsi, però gli sarà concesso di trascorrere a casa solo la prima notte di nozze. Il giorno dopo la cerimonia lo voglio a Coverciano ad allenarsi e possibilmente in forma». Una iena. E se pensate di fregarlo avete fatto male i conti, perché Antonio capisce al primo scatto se avete rispettato le consegne o avete sgarrato anche solo con una «missionaria». Fine, anzi no. Tra le altre cose, nell' intervista, Conte dice: «La competizione è battaglia e quando vai a combattere non c' è nessuna ragione per ridere o essere contento» e «non sono un leccaculo». E in un pezzo del genere è meglio chiarire che si tratta di «senso figurato».
Fabrizio Biasin per “Libero Quotidiano” il 29 novembre 2019. Partiamo dal virgolettato che è certamente cosa buona e giusta: «In periodo di competizione, il rapporto (sessuale ndr) non deve durare a lungo, bisogna fare il minor sforzo possibile, quindi restando sotto la partner». E ancora: «Consiglio di farlo con la propria moglie così non si è costretti a fare una prestazione eccezionale». Parole e musica di Rocco Siffr... no, perdonateci, di Antonio Conte, allenatore cazzutissimo (nel senso di «spietato» o «attento persino alle virgole»). Parla così il tecnico dell' Inter e lo fa nientemeno che nell' edizione settimanale de L' Equipe, mica pizza e fichi. Capite bene che qui siamo oltre il campo, oltre la tattica, oltre il calciomercato, qui l' ex ct si infila bello sereno sotto le lenzuola dei suoi giocatori e lancia chiari messaggi: trombate pure, ma col freno a mano tirato e comunque mettendo in pratica una sorta di «melina da materasso». Ora, viene facile fare ironia e, infatti, da ieri l' universo virtuale si è sbizzarrito: c' è la foto di Conte che caccia Icardi perché sorpreso a fare zumba con Wanda in posizione non consentita; c' è chi semplicemente pubblica le foto delle gentili consorti dei giocatori nerazzurri e si domanda «riusciranno i virgulti a rispettare le consegne?». Perché sì, cioè, in periodo di MeToo e affini rischiamo di essere tacciati di «scarsa sensibilità», ma qui signori miei non stiamo parlando di semplici figliuole, semmai di irresistibili valchirie dall' ormone firccicarello. E chi glielo dice a Miss Martinez (Agustina Gandolfo) che le tocca il minimo sindacale? Lautaro? «Ciao amore, dopodomani c' ho la Champions, stasera andiamo di sveltina in "posizione Conte", prendere o lasciare». E quella, ovviamente, lascia. E Miss Skriniar (Barbora Hroncekova)? Milan: «Senti, Barbora, non so come dirtelo...». Barbora: «No, guarda Milan, io la "Conte" stasera non la reggo, piuttosto guardiamo Adrian e tanti saluti». E quello, Milan, giustamente ci resta male. Son problemi, ma con l' uomo di Lecce non si scherza. Fu lui ai tempi della Nazionale a condizionare il viaggio di nozze di Mattia Destro. Questo il virgolettato tratto da Metodo Conte del giornalista Alessandro Alciato: «Ditegli che potrà andare a sposarsi, però gli sarà concesso di trascorrere a casa solo la prima notte di nozze. Il giorno dopo la cerimonia lo voglio a Coverciano ad allenarsi e possibilmente in forma». Una iena. E se pensate di fregarlo avete fatto male i conti, perché Antonio capisce al primo scatto se avete rispettato le consegne o avete sgarrato anche solo con una «missionaria». Fine, anzi no. Tra le altre cose, nell' intervista, Conte dice: «La competizione è battaglia e quando vai a combattere non c' è nessuna ragione per ridere o essere contento» e «non sono un leccaculo». E in un pezzo del genere è meglio chiarire che si tratta di «senso figurato».
Inter: Conte, una vita da incontentabile: dieci anni di sfoghi e polemiche. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. Lo sfogo di Antonio Conte dopo la sconfitta in Champions contro il Borussia Dortmund ha fatto discutere ed è già diventato un pezzo di repertorio nella carriera dell’allenatore dell’Inter. «Mi sono stufato di dire sempre le stesse cose, spero che queste partite facciano capire certe cose a chi di dovere. Venisse qualche dirigente a dire qualcosa, a inizio stagione potevamo programmare molto meglio».
Il tecnico leccese spesso ha usato toni forti, ha acceso polemiche incandescenti ed è stato protagonista di rotture traumatiche. Quella con la Juve nel 2014, per esempio. Ripercorriamo, con l’aiuto della newsletter Slalom, le fasi più importanti della vita di Conte «l’incontentabile».
Bari 2009: non arrivano i rinforzi e Conte lascia. «Volevo giocare in A con le mie idee, sostenere la mia idea di calcio. Ho preferito la risoluzione consensuale. Non c’era più la condivisione del progetto tecnico, sul quale ci eravamo trovati d’accordo solo tre settimane fa. Avevo chiesto dieci nuovi elementi alla nostra portata come Alvarez e Carobbio. Dovendo giocare nella massima serie, da allenatore, il mio dovere era mettere il cuore da parte e ragionare a mente fredda nelle scelte».
Siena 2011: «Abbiamo recuperato giocatori morti». «Nonostante la società abbia deciso giustamente di abbassare il tetto ingaggi, questa squadra se la sta giocando. Abbiamo ripreso giocatori morti per il Siena, giocatori che non voleva nessuno in questa città».
Juventus 2014, l’addio. «Non si può andare con 10 euro in un ristorante da 100». È la frase che porta alla rottura con la Juventus pronunciata nell’estate del 2014. Il tecnico criticava il mercato bianconero ritenendo irraggiungibile il gap con le più importanti squadre europee.
Dopo Inter-Parma (2-2). «Fare giocare sempre gli stessi è difficile. Faremo due o tre cambi, non potremo farne di più».
Monica Serra per “la Stampa” il 21 novembre 2019. Non ha idea di chi possa avergli inviato la lettera carica di minacce. Non riconosce la scrittura, né il contenuto gli fa venire in mente chi possa aver messo nero su bianco quelle parole piene di odio, recapitate al quartier generale del club nerazzurro. L' unico sospetto del tecnico dell' Inter Antonio Conte, messo sotto "vigilanza" dalla Prefettura, è che a scrivere sia stato il tifoso di una squadra avversaria, arrabbiato per i buoni risultati dell' Inter in campionato. Lo ha detto ieri ai carabinieri del Nucleo investigativo, nel corso di un ascolto che si è svolto negli uffici della sede del club, in viale Liberazione. Un colloquio voluto da Alberto Nobili, capo dell' antiterrorismo milanese, che ha aperto un fascicolo contro ignoti per minacce aggravate e detenzione di munizioni.
Impronte digitali. L' ex ct della Nazionale non si è mostrato allarmato per la missiva, scritta in stampatello con una penna nera, in cui l' autore stesso dice che non vale la pena analizzare il foglio alla ricerca di impronte digitali perché certamente non ne ha lasciate. Chi scrive fa riferimenti espliciti ai familiari dell' allenatore, figlia e genitori compresi, con tanto di nomi e cognomi, e dice a Conte che non sarebbe mai dovuto andare ad allenare l' Inter. Usa un italiano colto, con verbi e punteggiatura al posto giusto, e questo fa pensare a qualcuno con un grado di istruzione medio-alto. Le minacce e gli "avvertimenti" sono al plurale: «Sappiamo dove vivi... Sappiamo chi è tua figlia». Informazioni precise, che connotano una buona conoscenza della vita privata dell' allenatore, ma che non destano grandi preoccupazioni, perché sono reperibili da chiunque sul web.
Luoghi sensibili. Non c' è alcun riferimento, però, che faccia pensare a gruppi di tifo organizzato o a qualche altra categoria di persone. L' autore non si identifica, non rivendica. E, proprio per questo, la pista più battuta dai carabinieri, al comando dei colonnelli Michele Miulli e Cataldo Pantaleo, è che il mittente possa invece essere proprio un tifoso interista, arrabbiato perché l' ex allenatore della Juventus siede oggi sulla panchina nerazzurra. Nella busta c' era anche una cartuccia calibro 8, un pallino di quelli utilizzati per la caccia. Prima ancora che l' allenatore potesse vederla, la società l' ha segnalata ai carabinieri. E per Conte è scattata la «vigilanza generica radiocollegata», il più basso livello di sorveglianza previsto per un personaggio pubblico, con volanti e radiomobile che pattugliano di frequente i "luoghi sensibili": la sede del club e la casa del tecnico, che ieri, per la prima volta, ha letto - almeno ufficialmente - la missiva. E poi ha deciso di presentare querela.
Interisti divisi su Conte. Mandorlini: «Presuntuoso»; Mazzola: «Errori suoi»; Boninsegna: «No, ha ragione». Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. Interisti divisi dopo il furioso sfogo di Antonio Conte a seguito dell’amara sconfitta di Dortmund. Il collega Andrea Mandorlini, ex bandiera nerazzurra dello scudetto dei record, attacca l’allenatore per esempio sulle critiche di inesperienza a Barella o Sensi: «Mi è sembrato inopportuno chiamarli in causa dicendo che sono inesperti ma cosa pretendeva che arrivassero da Sassuolo e Cagliari e avessero vinto 10 campionati e 2 coppe? Ci vuole tempo e calma per costruire una squadra vincente». Insomma, per Mandorlini: «Conte è stato presuntuoso - spiega all’agenzia Adnkronos - la sua uscita è stata assolutamente fuori luogo, tra l’altro dopo una partita in cui vinceva 2-0 e ha perso 3-2 magari qualche errore oltre alla società l’avrà fatto anche l’allenatore». Sulla stessa lunghezza d’onda anche un’altra bandiera, Sandro Mazzola, che pure spera che qualcosa a gennaio avvenga: «Sono rimasto davvero stupito dalle parole di Conte, secondo me ha sbagliato. In questi casi non si dovrebbe mai parlare alla stampa ma affrontare il problema a microfoni spenti. Ma al di là dei modi sbagliati, io penso che qualcosa nel mercato di gennaio vada fatto: serve un centrocampista e magari un’alternativa a Lukaku in attacco ma solo se di qualità». A difendere Conte pensa, però, Bonimba, il bomber per eccellenza, Roberto Boninsegna: «Ha assolutamente ragione, non si affrontano partite del genere senza ricambi. L’Inter deve andare sul mercato. Faccio un esempio: l’unica punta è Lukaku: se si fa male lui? Nel frattempo la Juventus ha tre o quattro punte. Credo che il tecnico abbia assolutamente ragione a criticare la società». Diviso anche il mondo dei tifosi, degli opinionisti e dei giornalisti. Il politico Ignazio La Russa ritiene che non sia un dramma, uno sfogo, «ma poteva risparmiarsi la frase sui dirigenti (l’invito ad affrontare le telecamere, ndr). Ma l’Inter in effetti non ha ricambi, a gennaio possiamo migliorare e l’anno prossimo puntare più in alto». Giuseppe Cruciani si sfoga invece via Twitter: «Ma Conte non sapeva a settembre di avere la rosa corta?», mentre Sandro Piccinini via social è sarcastico: «Conte sta lavorando benissimo, ma non era facile in un solo colpo sputtanare la società e criticare la qualità dell’organico. Per molto meno a Icardi tolsero la fascia, a lui cosa succederà? La ferrea disciplina di Marotta come si applicherà? Tarallucci e vino?».
Moratti: "Conte? Bravo, ma con un DNA pessimo". "Conte è bravo, si vede che è bravo, la squadra gioca in maniera diversa. Ha però un DNA pessimo", dice Moratti in un video pubblicato dalla Gazzetta di Modena l’8 agosto 2019.
Paolo Ziliani per “il Fatto quotidiano” il 28 ottobre 2019. Nei giorni scorsi, parlando all' assemblea dei soci della Juventus, il presidente Andrea Agnelli se n'è uscito in modo inatteso con un' intemerata nei confronti dell'ex allenatore Antonio Conte riaprendo un capitolo a dir poco scabroso. "Pensiamo - ha testualmente detto - a quella che è stata la gestione sul calcio scommesse di tesserati Juventus nel 2012 per fatti commessi comunque quando erano in altre società. Abbiamo Fabio (Paratici, n.d.r.) che potrebbe scrivere un libro sulla gestione della prima squadra senza l'allenatore per sei mesi in panchina. Solo Fabio è detentore di quelli che sono gli aneddoti di quei sei mesi dietro vetri e balconate. Io spesso mi sono domandato, noi spesso anche con Pavel (Nedved, n.d.r.) e con Fabio, ci siamo domandati: quale altra società sarebbe stata in grado di gestire sei mesi senza il primo allenatore in panchina?". Considerando che la Juventus, sia in sede di processo sportivo sia in sede di processo penale, spacciò a lungo Antonio Conte per l'Enzo Tortora della situazione ("Non risulta che Antonio Conte faccia parte di questo quadro preoccupante - disse Agnelli in una conferenza stampa indetta ad hoc il 28 maggio 2012, con l'allenatore al suo fianco -; dai fatti che abbiamo avuto modo di leggere il ruolo che sarebbe attribuito ad Antonio è vicino all' insignificante. La Juventus società ed io personalmente sono al fianco di Antonio che è e sarà il nostro allenatore"), delle due l'una: o Conte era una vergine illibata e allora non si capisce perché oggi, dopo averlo difeso con spiegamento di forze nelle aule dei tribunali, Agnelli torni ad esibirne pubblicamente i panni sporchi; o Conte aveva davvero le mani nella marmellata (come pare, essendo stato squalificato) e allora si deduce che la Juventus ha un codice etico double-face, sei pulito se vesti la maglia bianconera (i "fatti commessi in altre società" di cui parla Agnelli, allora erano fandonie) e hai la rogna non appena ti accasi altrove, specie se lo fai in casa dell' odiato nemico. Agnelli dice che Paratici "potrebbe scrivere un libro sulla gestione della prima squadra per sei mesi senza l'allenatore in panchina". Noi nel nostro piccolo qualche fatterello l'abbiamo raccontato: come quello del 23 ottobre 2012 quando Conte, in tribuna perché squalificato, chiese a Paratici di ordinare via sms ad Alessio le sostituzioni da effettuare nel match di Champions Nordsjelland-Juventus 1-1 infrangendo il regolamento. Paratici si sbagliò e inviò gli sms sul telefono di un agente sportivo, Gianluca Fiorini; "Hai sbagliato persona", lo avvisò quest' ultimo. Il giorno dopo Fiorini venne chiamato da Paratici che lo scongiurò di non raccontare nulla: Conte avrebbe rischiato una nuova squalifica. Poi successe che Paratici e Fiorini litigarono: l'agente inviò alla Procura Figc e alla Procura Coni un esposto in cui documentava l'invio degli sms proibiti ma il Palazzo nemmeno gli rispose; così come restò in silenzio quando Fiorini chiese l'autorizzazione ad adire le vie legali nei confronti di Marotta (che invece gli fece causa violando bellamente la clausola compromissoria col tacito assenso del Palazzo). "Quale altra società sarebbe stata in grado di gestire sei mesi senza allenatore in panchina?", chiede oggi Agnelli. Siamo d'accordo: solo la Juve. Senza allenatore in panchina ma con molti santi in paradiso, naturalmente.
Antonio Conte, la stella è in panchina e la trama pare scritta da Shakespeare. Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da Beppe Severgnini su Corriere.it. Manhattan, Forrest Gump, La La Land e Caos calmo. Cos’hanno in comune questi film? Cosa unisce, a teatro, Aspettando Godot eThe Zoo Story? Qual è il legame tra Old Friendsdi Simon & Garfunkel e Aqualungdei Jethro Tull? Una panchina. La panchina è interessante. Un micropalcoscenico che non occorre allestire: sta già lì, e aspetta. La panchina offre una sospensione consentita, un riposo che non sa di pigrizia. La panchina è un generatore automatico di riflessioni più o meno profonde (da «Pioverà?» a «Cosa faccio della mia vita?»). La panchina è il luogo delle attese. La panchina è poetica. E i tifosi di calcio lo hanno capito bene. È vero che gli allenatori contemporanei stanno spesso in piedi — troppo, probabilmente — e le panchine, oggi, sono dotate di sedili che sembrano rubati da un’auto sportiva. Ma il luogo è entrato nella psicologia collettiva e nel linguaggio, dal lavoro alla politica: stare in panchina (Fico), alzarsi dalla panchina (Di Battista), accomodarsi in panchina (Di Maio?). Per i calciatori, la panchina è una destinazione provvisoria, quasi mai gradita (a parte i portieri di riserva, che ci trasferiscono la residenza). Per gli allenatori è invece il simbolo, il ponte di comando: lì soffrono, si sbracciano, danno ordini che nessuno sente, se non i bordocampisti nelle telecronache. Gli allenatori in panchina costituiscono uno spettacolo nello spettacolo. Attori protagonisti ai margini della scena. Una contraddizione che il calcio ignora, con successo. Sulla panchina dell’Inter è arrivato un interprete di talento, Antonio Conte. Un bravo allenatore che ora deve dimostrare d’essere un grande allenatore. L’occasione è irripetibile, la trama, perfetta: l’eroe deve portare sul trono la beneamata (di Milano), spodestando la vecchia signora potente (di Torino), che un tempo era la sua padrona. Se Shakespeare avesse giocato a calcio, avrebbe scritto qualcosa del genere. Ma l’Inter, si sa, è un’espressione artistica (la Juventus è un processo industriale, il Milan una nostalgia popolare, il Napoli una forma religiosa). La panchina nerazzurra consente virtuosismi e provoca cadute: quanti ne abbiamo visti, di questi e di quelle. Là sopra è passato di tutto, come in un teatro.
Antonio Conte — Tony sarebbe più adatto al set e al palcoscenico — è un nome di richiamo: il pubblico, non solo quello interista, ha già acquistato i biglietti mentali, prima di procurarsi quelli dello stadio. Che sia passato dalla Juventus, e l’abbia aiutata a vincere, è irrilevante: vale anche per Jo Marotta, che lo ha voluto a Milano. Steven Zhang, che è un giovanotto intelligente, lo sa benissimo. Allenatori come Arsène Wenger e Alex Ferguson — una vita all’Arsenal e al Manchester United, rispettivamente — sono eccezioni: tutti gli altri vanno dove li porta il cuore, che nei professionisti non è mai troppo distante dal portafoglio. L’importante è che s’impegnino, portino risultati e interpretino bene la parte. Che siano buoni attori, in sostanza. E queste qualità, a Tony Conte, non mancano. Provate a immaginare Carlo Ancelotti che cerca di scalare la panchina, come l’orso Baloo a caccia di un favo di miele sulla roccia. Pensate a un euforico Roberto Mancini che si butta sul centravanti e rimedia una ferita lacero-contusa. O a Gasperini, irritato per un contropiede fallito, che tira una cannonata al pallone scivolato in fallo laterale. Non ci riuscite? Certo. Perché queste cose non le ha fatte né Ancelotti, né Mancini, né Gasperini. Le ha fatte Conte in due partite degli Europei, tre anni fa. L’allenatore spagnolo Vicente del Bosque sembrava una mummia, annoiata dal passaggio dell’ennesima scolaresca al museo egizio. Tony Conte, a pochi metri di distanza, prendeva la pioggia, metteva il cappello, toglieva il cappello, si sbracciava, alzava gli occhi al cielo, correva avanti e indietro nell’area tecnica come un criceto allarmato. Uno spettacolo nello spettacolo. L’allenatore spesso rappresenta la parte razionale del calcio: una figura paterna, un cuscinetto tra l’irruenza giovanile dei giocatori, l’isteria di noi tifosi, gli eccessi di alcuni presidenti. Misurato nella vittoria, contenuto nella sconfitta, costituisce una garanzia e una sicurezza. Ma Tony Conte non è un padre: è uno zio irascibile e, a suo modo, irresistibile. Forse l’interessato non è soddisfatto di queste esibizioni, magari se ne vergogna un po’. A partita finita, durante le interviste, cerca di apparire diverso, ma lo sforzo è evidente. La tempesta emotiva viene fuori da ogni smorfia, da ogni sguardo, dai cambi di tono, dalla scelta dei vocaboli. «Questi ragazzi hanno qualcosa dentro», «Io insegno calcio», «Impresa titanica». Conte è incontentabile, incontenibile e — oggi — incontestabile: una gioia per i titolisti, una manna per Maurizio Crozza. Tony Conte era così a Siena, a Bari e a Torino. Era così in Nazionale. Vedremo se gli anni di Londra lo hanno cambiato. L’Inghilterra rimane addosso in ogni professione, compresa quella dell’allenatore (pensate a Vialli, Zola, Ancelotti, Ranieri). Ma confesso: fatico a immaginare Conte flemmatico e britannico, al di fuori delle occasioni ufficiali. In fondo, il suo addio al Chelsea è stato pirotecnico, come alcune relazioni nel biennio londinese (David Luiz e Diego Costa, che Conte in conferenza-stampa liquidò con una risata fino alle lacrime). Vedrete: sul palcoscenico nerazzurro non andrà in scena una commedia sonnolenta, ma uno spettacolo avvincente. Noi aspettiamo Godot. Dal 2010, ormai.
Antonio Conte, tutte le frasi da allenatore dell'Inter. Scatenato in panchina e senza filtri (o quasi) davanti alle telecamere. Ecco la raccolta di citazioni famose del suo periodo nerazzurro. Giovanni Capuano il 16 settembre 2019 su Panorama. Antonio Conte è diventato ufficialmente allenatore dell'Inter il 31 maggio 2019. Lo ha voluto Beppe Marotta, che con lui ha lavorato con profitto alla Juventus, mettendo fine così al regno di Spalletti durato due stagioni. Conte si è calato in fretta nella nuova avventura, con la stessa forza fisica e dialettica che lo hanno sempre contraddistinto nelle sue precedenti esperienze professionali. Il suo è un approccio totale alla panchina, che vive in maniera intensa partendo dalle conferenze stampa e dalla preparazione maniacale dell'approccio ad ambiente e impagni sportivi. Ecco una collezione delle sue citazioni o frasi da non cancellare nel periodo interista:
31 maggio 2019 (nel video in cui l'Inter annuncia il suo arrivo): "Finalmente si ricomincia. Di motivi ne ho tanti, anche troppi. E di sfide davanti a me altrettante, ma non vedo l'ora. Perché proprio io? Perché condividiamo la stessa ambizione, il coraggio, la fame e la determinazione. Ora tocca a me. Ci sono, Inter".
31 maggio 2019 (a Steven Zhang in un video ufficiale Inter): "Mister sei pronto per la pazza Inter? No, niente pazzie. Basta pazza Inter".
7 luglio 2019 (conferenza stampa di presentazione): "Devo avere la percezione di avere anche solo l'1% di possibilità di poter vincere. A me piace lavorare su quell'1%, anche se l'altro 99% significa aver perso".
7 luglio 2019 (alla conferenza di presentazione rispondendo a Marotta seduto al suo fianco): "Io il top player dell'Inter? Ringrazio il direttore Marotta, ma i veri top player dobbiamo averli in campo".
19 luglio 2019 (a Singapore prima del debutto amichevole contro il Manchester United): "Mercato? Siamo in ritardo, diamoci una mossa e come dico sempre 'Chi ha tempo non aspetti tempo'".
23 luglio 2019 (a Nanchino prima di Inter-Juventus amichevole): "Io all'Inter? Non sono mai stato vicino alla Juventus, non ho mai ricevuto una telefonata".
25 agosto 2019 (vigilia di Inter-Lecce, prima di campionato): "Quello che posso dire è che la rincorsa è iniziata".
26 agosto 2019 (dopo Inter-Lecce 4-0): "Non dobbiamo essere scintilla, dobbiamo diventare dinamite".
14 settembre 2019 (Inter prima in classifica): "Sono contento, ma conosco il vostro giochino: so che ci state sollevando perché volete dare la mazzata quando qualcosa andrà storto".
16 settembre 2019 (vigilia di Inter-Slavia Praga, debutto in Champions): "Io non sono un allenatore da Champions? Io ho sempre partecipato con creature appena nate, gli altri con creature già belle solide. Questa è la differenza ai sapientoni".
Claudio De Carli per il Giornale il 29 luglio 2019. L'allenatore dell'Inter mercoledì compie cinquant'anni. Proprio nei giorni in cui entra nel vivo la grande sfida della sua carriera sulla panchina interista. Da simbolo del 5 maggio con la maglia della Juventus e poi guida tecnica che ha riportato alla vittoria dello scudetto la Signora dopo Calciopoli, a condottiero dei nerazzurri nel tentativo di far dimenticare Josè Mourinho.
«In panchina si divincola come un pagliaccio». Gliel'ha tirata lì Mourinho quando stavano in Premier, uno al Chelsea e l'altro allo United. Adesso Antonio Conte è qui a Milano, addirittura all' Inter e gli tocca fare l'antiMou anche se gli dà fastidio, non ne ha voglia. Ma il confronto è inevitabile, il passato da cancellare è lo Special One, mica Stramaccioni o Pioli, con tutto il rispetto. Alla presentazione del 7 luglio ha detto che qui si sta perdendo la passione e vuole riportarla, una delle conferenze meno banali degli ultimi anni, si è dato l'uno per cento di possibilità di vincere ma ha aggiunto che se lo giocherà fino all' ultimo, lo spremerà, era un avviso ai ragazzi, sono in tanti, gioca chi suda. Non lo dice e basta, non tollera pause, finge di accettare gli errori ma poi se il traduttore sbaglia e non capisce niente, si gira e gli ruggisce in faccia fino a farlo cadere dalla sedia. È successo per davvero, conferenza stampa di vigilia con il Newcastle. Ha fatto scrivere gli inglesi per una settimana ma per evitare di trovarselo davanti all' improvviso, titolavano «Simpatico siparietto fra Conte e il traduttore». Erano i suoi ultimi giorni al Chelsea, conosceva già la fine dopo una Premier e una FA Cup, non era pericoloso ma era meglio girargli al largo. Come in campo, giocava in mezzo con una corazza rudimentale, nel tempo poi ha affinato anche la tecnica, vicecampione del mondo a Pasadena nel 1994, una carriolata di trofei con i nemici e la fascia di capitano. Uno sul quale potevi puntare a occhi chiusi. Adesso maschera e dice che ha poche certezze, parte con la difesa a tre perché dietro ci sono i veri giganti e ha menzionato anche D' Ambrosio, Ranocchia e Bastoni, giusto per far credere che sono uno più bravo dell' altro: «Ma poi magari cambio, e non sarebbe la prima volta che lo faccio». È la punta di una squadra che ha guadagnato ancora l'ingresso in Champions ma la sta svestendo, ha fatto capire che è arrivata fin lì due volte di fila ma poi è troppo poco, cerca di più e mentre diceva queste cose non si è mai girato verso il dg Marotta che gli stava al fianco: «Conosco i suoi pregi, e anche i suoi difetti. Tutti li abbiamo, anche lui», e gli è scappato l'unico sorriso in quasi 50 minuti. Loro si conoscono, due fra i più odiati fino a poco tempo fa, impensabile da digerire per i bauscia puri, poi perfino il sindaco Sala ha detto che magari saranno proprio due juventini a riportare in alto l'Inter, una specie di investitura, e dietro c'era la fila dei tifosi allineati e coperti a strizzare gli occhi e stringere i pugni. Conte lo batti, nessuno è invincibile, ma se ci riesci hai fatto un' impresa, è stata così tutta la sua vita nel calcio, e la gente ci crede, è questa la prima vera notizia in una squadra che si trascina questa maledetta nomea di pazza, da puntare ma senza giocarci sopra molto, potrebbe uscire con il Psv, con la Lazio ai rigori o con l'Eintracht, e farlo davanti alla sua gente, nel suo stadio. Conte lo sa, era in campo a Udine in quell'incredibile 5 maggio del 2002 quando l'Inter gli regalò lo scudetto all' ultima giornata... Praticamente la sua ultima stagione vera e per chiudere in bellezza ha scelto proprio l' Inter, 4 aprile 2004, a San Siro poi, 3-2 per lui naturalmente. Difficile da digerire per gli interisti uno così? Sì, difficile, se non fosse che si porta dietro l'esatto opposto della grande contraddizione bauscia, lui dove è andato ha vinto senza guardare in faccia nessuno, ha tirato giù la testa e ha pedalato, come gli piace dire. A Lecce è diventato professionista, pagato 200mila lire più 8 palloni, di cui tre sgonfi precisa, poi è tornato da quelle parti ma sulla panchina del Bari e ha rischiato grosso. Una sera al Memorial in onore di Francesco Renna, peraltro suo cugino, vince il torneo di calcetto a Spiaggiabella vicino Lecce e tre energumeni armati di bastoni lo inseguono fino a casa per prenderlo a mazzate, salvato dagli amici e dalla Digos. Poi allena il Siena e alla vigilia della sfida col Modena salta sulla sedia: «Stiamo andando in serie A con un gruppo di giocatori che non voleva nessuno, ringraziate il cielo che ci sono qua io. Gufi statevene a casa». A Siena gli succede di tutto. Il 26 luglio 2012, nell'ambito del terzo filone dell'inchiesta sul calcio scommesse, la Procura Federale lo accusa di omessa denuncia per le partite contro Novara e Albinoleffe. Gli rifilano 1 anno e 3 mesi. Patteggia, diventano 4 mesi, finito? Magari! Gli piazzano anche una denuncia per frode sportiva, brutta storia che finisce il 16 maggio di tre anni fa quando il Gup lo assolve definitivamente per non aver commesso il fatto. Una vita in equilibrio fra la gloria e la vergogna con risvolti gossip. Un giorno un fan di Cesare Ragazzi ha rivelato che c'era un nazionale che aveva in testa qualcosa e una sera il dottor Galliani lo ha invitato a togliersi quel parrucchino: «Sono stato mezzo pelato, poi completamente pelato ma adesso ho i miei capelli e ci convivo benissimo, il look è importante per un calciatore». L'ultimo gladiatore, testa, cuore e gambe, forse tre anni potrebbero essere pochi per riuscirci ma chi può dirlo. Gira la voce che l' Inter stia inseguendo lo stile Juventus, cosa che manda in bestia, pare invece che sia più il progetto De Laurentiis a piacerle, un grande allenatore come Ancelotti e zero acquisti esplosivi nel primo anno, per ora ci siamo, anche se Conte si aspetta il botto subito, sembra che si guardi attorno e si chieda dov' è che stiamo andando, dov'è il progetto? Per ora di certo c' è l'esclusione di Mauro Icardi, primo giocatore al mondo sul mercato per eccessiva esposizione mediatica della moglie. Conte si è coperto molto bene: «La società è stata chiara, e l' allenatore deve fare corpo unico». È uno che se vuole prende Icardi per un orecchio e gli dice tu adesso fai questo e quest' altro altrimenti ti spedisco a calci a Rosario a riabbracciare i tuoi cento delinquenti e poi stai fuori e resta fuori, perché se non rimani fuori ti faccio fuori. Se vinci, tutti zitti. In tanti si aspettavano questa mossa da Conte, uno che si fa come dice o va via e si porta via il pallone, ma gli hanno frullato il cervello per benino, Icardi è out. Lui ha chiesto: chi lo ha deciso? La curva? Zero risposte. Una cosa è certa, se l'Inter non vince neppure con lui può chiudere baracca e burattini per un po', adesso fa 50 anni e si aspetta il regalo, magari Josè lo chiama e gli fa gli auguri. Giusto per ricordargli che prima lì c' era lui.
· Calcio: Ritiri ed Ammutinamenti.
Antonio Giordano per corrieredellosport.it il 20 novembre 2019. Il Napoli non è più in silenzio stampa, almeno così sembra, perché Edoardo De Laurentiis, vice presidente e figlio di Aurelio, ha parlato e lo ha fatto a Villa d’Angelo, alla presentazione di 4-4-2, la fiera del calcio, manifestazione che si terrà a giugno. In sala, c’erano anche Montervino e Calaiò, due bandiere del passato, ai quali dal palco De Laurentiis junior si è rivolto. «Montervino e Calaio, sono due esempi del rispetto per la maglia, gente che amava la città e il club. Ragazzi con le palle. Una volta, dopo quattro settimane di ritiro, Montervino, all’epoca capitano, chiamò mio padre e gli disse: presidente, che dice? Possiamo tornare a casa? Ecco, capitani come lui dovrebbero esserci in tutti gli spogliatoi del calcio italiano». Un attacco agli ammutinati di oggi: in pieno silenzio stampa.
Napoli, supermulte per i «ribelli». De Laurentiis sceglie la linea dura. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. C’è il campo e c’è il timore fondato di una battaglia legale; c’è il Milan dietro l’angolo ma anche una scadenza che pesa come un macigno sui giocatori del Napoli protagonisti, il 5 novembre scorso, di una rivolta storica. Lunedì sarà il termine ultimo perché gli ammutinati della notte contro il Salisburgo ricevano la raccomandata, l’avviso della multa per aver rifiutato il ritiro imposto dal club. Arriverà, senza alcuno sconto. Aurelio De Laurentiis ha deciso per la linea dura: ai calciatori verranno contestate più infrazioni e, rispetto alle singole responsabilità, le sanzioni varieranno dal 25 al 50 per cento sullo stipendio lordo mensile. Una stangata che evidentemente colpirà non soltanto le tasche ma rischia di incidere sul morale e sull’umore di una squadra chiamata a raddrizzare una stagione finora molto al di sotto delle aspettative. Ma per la società sarà probabilmente questo il punto da cui ripartire, azzerando divisioni e polemiche. Prendendo ciascuno coscienza delle proprie responsabilità. Le sanzioni seguiranno un criterio di gradualità, in base alle disposizioni dell’articolo 11 dell’accordo collettivo: più pesanti per i calciatori individuati come protagonisti della sommossa e colpevoli, per il club, di un numero maggiore di infrazioni. Nel ventre dello stadio San Paolo accadde ciò che nella storia del calcio professionistico non si era mai verificato. L’inosservanza, il rifiuto del ritiro, ma anche diverbi accesi nello spogliatoio, atteggiamenti irriverenti e inopportuni sui quali il presidente De Laurentiis non ha mai inteso soprassedere. E allora, da Los Angeles (il presidente rientrerà proprio lunedì) ha coordinato le mosse legali con i suoi avvocati. La stangata non arriva inaspettata: i giocatori pure hanno consultato i rispettivi avvocati e la vicenda seguirà il suo iter davanti al collegio arbitrale, ciascuno potrà evidentemente opporsi entro quindici giorni dal momento in cui riceverà la raccomandata. La squadra nei giorni successivi la rivolta, obbligata peraltro al silenzio stampa, ha provato a rimediare, con segnali di scuse e anche di pace, intuendo evidentemente la gravità di quanto successo il 5 novembre al San Paolo. De Laurentiis è stato però irremovibile, soprattutto rispetto al danno di immagine ricevuto. Accetterà le scuse ma ha scelto di dare un segnale duro. Sabato sera c’è il Milan e sarà un’altra battaglia. Ancelotti ha provato a recuperare serenità, cercando di ricompattare la squadra in vista di un impegno sul campo delicatissimo. Il Napoli è settimo in classifica e deve recuperare terreno, non c’è distrazione che tenga. Prima c’è San Siro, poi verranno le sanzioni. E non è soltanto un ordine temporale, piuttosto la priorità di un allenatore che vuole andare oltre la crisi di risultati, ha bisogno di invertire la rotta. E soprattutto la necessità di ritrovare la qualità del suo gruppo.
Da ilnapolista.it il 25 novembre 2019. Oggi è il giorno delle 24 raccomandate ai rivoltosi. Lettere contenenti le multe stabilite dalla società, per tutti tranne Malcuit che la sera dell’ammutinamento non c’era. L’ufficio legale del Napoli le ha redatte in modo personalizzato e le ha già spedite. 2 milioni e mezzo di penali (25% dello stipendio) con importi che vanno dai 225mila euro di Koulibaly ai 22mila di Gaetano. Poi c’è la questione danno di immagine che probabilmente la società deciderà di cavalcare. De Laurentiis ha deciso tutto la settimana scorsa in una conference call. Ha scelto di intervenire con durezza “per non mostrarsi debole e semmai per sottolinear la capacità di resistere dinnanzi a qualsiasi prova di forza, anche la più (pre)potente, illegale nella sostanza e inelegante nella forma”.
Occorre ricomporre la frattura velocemente, scrive il quotidiano sportivo, perché? “San Siro ha ribadito la labilità psicologica del Napoli, piombato in una crisi d’identità che ha natura innanzitutto psicologica e poi anche tecnica e tattica”. Liverpool rappresenterà uno spartiacque. Si può spalancare un nuovo orizzonte o si può verificare una spaccatura ancora più grande, “può clamorosamente far vacillare la fiducia in Ancelotti e schiudere scenari insospettabili, può trascinare sull’orlo di una voragine o può infine indurre a trovare un varco per riavvicinarsi”.
Oggi De Laurentiis atterrerà in Italia. Ha parlato con Grassani, Chiavelli, Giuntoli e più volte con Ancelotti. Scrive il quotidiano: “Ha indicato una strategia di carattere giuridico, ne ha riservata un’altra, umana e personale, per rimettere insieme i cocci del Napoli, ora che campionato, Champions e coppa Italia richiedono la presenza “attiva” d’una squadra invece svuotata di energia mentale e d’allegria confinata in questo limbo che sa d’inferno e che dunque nega la felicità”.
Il tempo delle mediazioni non è finito. “Le telefonate e i messaggi dei calciatori sono rimasti inevasi, ma la mediazione di Ancelotti e Giuntoli non si è esaurita e il faccia a faccia tra De Laurentiis e il Napoli è un appuntamento da fissare. Prima che scoppi il pallone”.
Antonio Giordano per corrieredellosport.it il 25 novembre 2019. È così: ventiquattro lettere raccomandate, con ricevuta di ritorno, non si compilano dalla sera alla mattina, soprattutto se non sono tutte eguali. Vanno “personalizzate”, ognuna ha una voce simile eppure diversa, e comunque c’è stato bisogno d’un po’ di tempo: venti giorni, praticamente, perché il “reato” - l’ammutinamento - non cadesse in prescrizione. Ma il 25 novembre è arrivato, l’ufficio legale ha provveduto a redigerle, del 5 novembre scorso è rimasto certo quel retrogusto amarissimo e la resa dei conti può dirsi avviata: da stamani, non avendo i calciatori né la pec né una mail, e dovendo comunque fare in modo che la squadra possa almeno apparentemente starsene tranquilla a Liverpool, comincerà un altro lungo viaggio, prima attraverso le poste e poi in quel tortuoso percorso che prevede altre tappe d’una storiaccia più unica che rara, in cui il Napoli si schiererà contro se stesso, e cioè la squadra (tutta, tranne Malcuit che, poverino, ha un ginocchio da recuperare e quella notte lui non c’era).
Multe, ecco le cifre! Sarà un “bagno” di soldi, due milioni e mezzo e forse qualcosa in più, una richiesta in linea con ciò che consente l’articolo 11 dell’accordo collettivo (inadempimenti e clausole penali) al comma 3: «La multa consiste in una penalità contrattuale il cui importo è proporzionato alla gravità dell’inadempimento e non può superare il 25% della retribuzione mensile lorda».
Il danno d'immagine. E si passerà, così, quasi senza accorgersene, dai 225mila euro di Koulibaly ai 22mila di Gaetano, ritrovandosi in quel labirinto in cui sarà necessario intrufolarsi, tra le decisioni del Collegio di Disciplina, l’opzione di “cavalcare” eventualmente anche gli effetti dei danni d’immagine, e gli appelli che presenteranno gli avvocati per tentar di mitigare una pena che a quel punto, se dovessero essere individuati gli ispiratori della rivolta, diventerebbe graduale.
Antonio Giordano per corrieredellosport.it il 26 novembre 2019. Meglio non negarsi nulla, arricchire d’un altro capitolo questo noir in salsa partenopea, inserirci “leciti sospetti” e continuare così, anche da soli, a tinteggiar di “giallo” l’atmosfera cupa d’un microcosmo del quale s’avvertono i disagi ma anche i “veleni”. E poi, l’ha detto chi ne ha viste di cotte e anche di crude, «a pensar male del prossimo si fa peccato, ma spesso s’indovina», e comunque si resta nell’ambiguità d’una scelta che rimane lì, sospesa nell’aria, a scatenare perplessità, interrogandosi nel silenzio che avvolge chiunque, Insigne compreso, mentre sta per essere diffusa la lista dei convocati nella quale lo scugnizzo non c’è. Lorenzo Insigne non è un calciatore qualsiasi, in questo Napoli: è il talento allo stato puro a cui aggrapparsi, eventualmente, tra le pieghe d’una partita sporca; ma è anche il capitano, dunque il rappresentante non certo simbolico d’un gruppo che in lui si rivede e lo eleva a totem, a guida o semplicemente a riferimento, perché quella legittima investitura non è vuota di significati. Però la sua partita, la condivisione di questo stato di crisi, Insigne lo vivrà lontano dal Napoli, per colpa di un gomito che gli duole ancora e che gli impedisce di volare su Liverpool, in una serata ch’è densa di valori, che rappresenta uno spartiacque, che può indirizzare in un orizzonte o semmai in quello opposto. Ed è chiaro che il confine tra una tesi e quell’esatta contraria è labilissimo, però non appartiene certo alla libera interpretazione riassumere la cronaca: le casacchine di un allenamento che ha carattere “indiziario” sono state consegnate, inducono a pensare che quel Napoli lì, quello che ha tracce di restaurazione nello schieramento e anche nell'atteggiamento tattico, non comprenda Insigne, perché lui non c’è, e che dunque quelle fitte che il capitano sabato sera aveva avvertito a San Siro, ma che domenica parevano sparite a Castel Volturno, siano ricomparse proprio quando la soglia del suo dolore ha subito una metamorfosi, abbassandosi immediatamente, trascinandolo fuori da una vigilia che invece appartiene esclusivamente agli altri e che verrà attraversata assieme, nel Titanic (l'albergo di un anno fa, che però non spinge all'ironia) dal Napoli privo di colui il quale dovrebbe esserne il leader.
Da ilnapolista.it il 26 novembre 2019. Repubblica: Insigne abbandona la nave azzurra. Il capitano ha ritenuto di non potere essere in alcun modo utile alla causa, nemmeno come supporto psicologico per i suoi disorientati compagni di squadra. Insigne non ci sarà a Liverpool, il suo nome non è tra i convocati di Carlo Ancelotti per la sfida Champions che vale la qualificazione agli ottavi. Come scrive Repubblica. Il capitano non metterà nemmeno piede sulla “nave” azzurra in partenza oggi per Liverpool: l’ha addirittura abbandonata ancora prima di salirci, arrendendosi con largo anticipo ai postumi della contusione al gomito subita sabato pomeriggio a San Siro. Le strade di Insigne e del Napoli si separano, chissà se per una gara o se per più tempo nonostante il momento di drammatica difficoltà sportiva in cui rischia di affondare il Napoli, domani sera (ore 21). L’attaccante della Nazionale ha ritenuto di non potere essere evidentemente in alcun modo utile alla causa, nemmeno come supporto psicologico per i suoi disorientati compagni di squadra.
Napoli: ritiro sospeso dopo l’ammutinamento, ma De Laurentiis vuole fare causa ai suoi giocatori. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Monica Scozzafava. Sul tappeto rinnovi e malesseri verso Ancelotti e il patron, per questo dopo il Salisburgo gli azzurri si sono ribellati tornando a casa. (Ansa) Rivolta, rivoluzione o ammutinamento. Le definizioni per quello che è accaduto martedì sera nel ventre del San Paolo si sono sprecate. Qualunque sia la più appropriata conta fino a un certo punto. Sta di fatto però che siamo di fronte a una situazione che non ha precedenti nel calcio che conta. Un primato che non rende giustizia a una città che da trent’anni aspetta invece di arrivare prima sul podio sportivo e che soprattutto rimette in discussione i rapporti all’interno del club e gli obiettivi di stagione. La squadra decide di interrompere autonomamente il ritiro ordinato dal presidente De Laurentiis, saranno ora i legali a stabilire i torti e le ragioni. Il vaso di Pandora viene scoperchiato al termine della sfida di Champions con il Salisburgo, ed è una storia molto tesa da tutti contro tutti. Levata di scudi dei giocatori contro Aurelio De Laurentiis. Dito puntato verso l’allenatore, «reo» di non tutelarli abbastanza. Lo scenario, inedito, colloca Ancelotti nel suo ufficio ad assistere da lontano all’ammutinamento della squadra, pronto a sfilarsi dalla protesta: lascia lo stadio con il suo staff e torna in ritiro. De Laurentiis è già andato in albergo, resta in contatto con i dirigenti e decide la strategia: ritiro sospeso e «tutela legale, disciplinare e di immagine del club» e, soprattutto, «decisione sui ritiri futuri affidata esclusivamente ad Ancelotti». Al tecnico la patata bollente di gestire la polveriera Napoli, con l’inevitabile conseguenza che sarà lui (da solo) a rispondere di prestazioni e risultati. Torniamo alla notte tra martedì e mercoledì: mezz'ora di follia nello stadio in cui ci sono tv di mezza Europa ad aspettare le interviste del dopopartita e il rumore della rivolta irrompe come un fulmine, spazza via il risultato del campo e tutti i calcoli sulla qualificazione Champions. Le pareti sono spesse ma le voci di dentro arrivano nitide. Prima litigano il vicepresidente Edo De Laurentiis e due giocatori, la tensione sale e volano pugni contro il muro. Squadra decisa a tutto pur di non assecondare il patron, lo comunica al figlio ed è quasi una rissa. Battaglia di principio, diranno poi i calciatori. Hanno saputo del ritiro dai media, ascoltato i rimbrotti del presidente attraverso la radio ufficiale del club. C’è dell’altro evidentemente: le attese infinite dei rinnovi del contratto, c’è chi voleva andar via e invece è rimasto per scelta del club. Molti altri non tollerano le ingerenze nelle questioni di spogliatoio. Rischiano adesso una multa salatissima, De Laurentiis ha consultato i suoi legali e valuterà ogni azione per tutelarsi. Ancelotti, invece, è rimasto alla finestra, consapevole naturalmente che certe cose non accadono per caso e, soprattutto, all’improvviso. Il cielo non è sereno da settimane e le frizioni nello spogliatoio, ancor prima della decisione del ritiro, erano frequenti. Costanti. Gli screzi con Insigne, le esclusioni tecniche di giocatori funzionali al progetto come Ghoulam. La squadra mal sopporta la composizione familiare dello staff tecnico: suo figlio Davide, 30 anni, in panchina con lui e suo genero Mino Fulco. Si ripropone l’accusa di nepotismo, che Ancelotti aveva dovuto subire anche al Real Madrid e che fu la causa della rottura con il Bayern di Monaco. Tanta brace tenuta sotto la cenere fino all’irruzione presidenziale: il ritiro ha fatto saltare il banco.
Maurizio Zaccone e Paolo Ziliani per il Fatto Quotidiano il 6 dicembre 2019. Se vi dicessero che un presidente di un club di calcio ha le chiavi d' accesso degli account social del suo allenatore dove può scrivere quello che vuole facendo finta che a farlo sia l' allenatore, e che la cosa è stata messa addirittura a contratto, proposta, accettata e controfirmata, voi ci credereste? No? Allora non avete mai letto il contratto che lega Carlo Ancelotti al Napoli di Aurelio De Laurentiis. Tra le pieghe di un documento puoi trovare dettagli, clausole, vincoli che ti dicono molto sulla natura dei "legami"; e bisogna dire che quelli che legano Ancelotti al Napoli e a De Laurentiis sono particolarmente interessanti. Il primo mito da sfatare, per cominciare, è quello relativo al suo compenso: non i 6,5 milioni netti più volte favoleggiati ma 3.593.725 per i primi due anni che salgono a 3.993.725 il terzo anno. A questi vanno aggiunti una serie di premi per gli obiettivi raggiunti: 500.000 lo scudetto, 150.000 l' accesso in Champions, dove se Ancelotti supera il girone e passa agli ottavi ha un premio di 200.000 euro. La Champions vinta vale 1 milione.
Separazione. In un momento così delicato del rapporto tra Ancelotti e De Laurentiis, ad alto rischio divorzio, è importante capire come questo potrebbe avvenire. Ebbene, la società può recedere dal contratto versando ad Ancelotti una penale e senza dover corrispondere più nulla per il periodo successivo. La penale era di 750.000 euro se esercitata entro il 31/05/2019, oggi, se esercitata entro il 31/05/2020, è di 500.000.
Aziendalismo. Messi nero su bianco, gli obblighi sono tanti e ben dettagliati. Innanzitutto l' allenatore "non ha diritto di interferire nelle scelte gestionali e aziendali della Società". Ancora: "L' Allenatore si impegna a condividere e redigere con la Società ogni comunicato e/o espressione del proprio pensiero diffusa su qualsivoglia mass media". L' impegno a rispettare le strategie di comunicazione della Società e a non rivelarne dettagli compare più volte e la violazione determina una penale di euro 100.000 per ciascun inadempimento.
Sull' attenti. Sul chiacchieratissimo ritiro dei calciatori leggiamo: "Tutte le decisioni in merito all' organizzazione di "ritiri pre-partita" della Prima Squadra, e quindi relativamente alla durata degli stessi, dovranno essere oggetto di preventiva condivisione tra l' Allenatore e la Società, che, in caso di disaccordo, potrà legittimamente disattendere la volontà dell' Allenatore". Traducendo, decide la Società.
Cessione diritti pubblicitari. Per la cessione dei diritti d' immagine la Società conferisce ad Ancelotti un compenso pari a euro 406.275,00 netti l'anno. L' allenatore si impegna ovviamente a presenziare a eventi, spot, foto, interviste e tutto quello che è necessario al club. Obblighi dettagliati minuziosamente, fino ad alcuni quantomeno curiosi, come quello di utilizzare l' auto fornita dal club per tutti gli spostamenti, di non cederla a terzi, di non portarla in officine non autorizzate, per non parlare della benzina, i lavaggi e persino "i rabbocchi di lubrificanti e degli altri fluidi necessari" che sono a carico dell' allenatore; dettagli fondamentali, per il presidente. L' allenatore si impegna inoltre "a custodire con diligenza gli indumenti ed i materiali forniti dal club e deve rifonderne il valore se smarriti o deteriorati per colpa sua". Occhio a non sporcare le camicie, dunque.
Hacker. Poi viene il bello: "Il Club ha il diritto di accedere al sito Internet e/o alla/e piattaforma/e 'social' (e/o alle relative pagine e/o account) dell' Allenatore, INSERENDO ESPRESSE COMUNICAZIONI ANCHE A NOME DELL ' ALLENATORE, il quale con la sottoscrizione del presente Contratto dà espresso mandato al club ad effettuare tali inserimenti () impegnandosi a fornire al club le chiavi di accesso (sito, account ecc.)". In sostanza, quando Ancelotti parla a mezzo social nessuno sa se sta parlando lui o De Laurentiis; buono a sapersi, anche se a noi pare orribile. Tra l' altro, se l' allenatore violasse uno di questi accordi sarebbe obbligato a "corrispondere al club a titolo di penale una somma pari al corrispettivo previsto in relazione alla stagione sportiva in corso". Quella che vi abbiamo offerto è solo una sintesi del vasto numero di impegni che De Laurentiis ha deciso di proporre e Ancelotti di sottoscrivere: dettagli che dicono molto sulla natura dei "legami" e sull' umanità degli attori coinvolti. Se sia più paradossale l' accondiscendenza (eufemismo) di Ancelotti o più sfacciata la ribalderia di De Laurentiis nel proporli non sapremmo; forse la verità sta nel mezzo. In fondo i contratti, come i matrimoni, si fanno in due.
Da liberoquotidiano.it il 6 dicembre 2019. Milly Carlucci oggi, venerdì 6 dicembre, al Corriere della Sera parla della famosa diffida (di qualche mese fa) arrivata dai suoi legali ad Amici Celebrities. Il suo avvocato, in quella circostanza, ha diffidato Maria De Filippi e i suoi autori a non utilizzare nel talent elementi riconducibili a Ballando con le stelle. Una diffida che mesi fa ha fatto molto discutere. E a tal proposito Milly Carlucci ha finalmente voluto fare chiarezza una volta per tutte: “Mediaset", dichiara la conduttrice Rai, "aveva fatto un accordo in cui si impegnava a non usare più gli elementi di Ballando nei suoi programmi tv… Non è polemica, è rispetto delle cose scritte. E riguarda Mediaset, non Maria…”. L’accordo, con tutta probabilità, sarà stato sicuramente siglato nel momento in cui Mediaset ha perso la causa contro la Carlucci per il "caso" Baila. La conduttrice ha poi dichiarato che quella diffida sarebbe dovuta restare assolutamente una cosa privata tra avvocati non un attacco frontale a Maria De Filippi. Ma la notizia ovviamente è rimbalzata ovunque.
Chiara Maffioletti per corriere.it il 6 dicembre 2019. (…) Spesso le donne vengono descritte per antagonismi: prenda lei e De Filippi...«Quello è folclore. L' Italia vive di Guelfi e Ghibellini, di Coppi e Bartali. Il derby del sabato sera, tutto sommato, ha illuminato entrambe le reti». Di recente c' è stata la diffida per «Amici Celebrities» che copia «Ballando»...«È stata una cosa equivocata. Mediaset aveva fatto un accordo - evitando milioni di danni - in cui si impegnava a non usare più gli elementi di Ballando . Uno di quelli costitutivi è un maestro che insegna a ballare a un famoso. Se firmi una documento, un senso c' è. Non è polemica, è rispetto delle cose scritte. E riguarda Mediaset, non Maria».
Da corrieredellosport.it il 6 novembre 2019. La giornata in casa Napoli può essere cruciale per il presente ma anche per il futuro. Dopo la bufera scoppiata nella notte di Champions con la decisione unilaterale della squadra di non tornare con il pullman a Castel Volturno e dunque di non proseguire il ritiro imposto dal presidente Aurelio De Laurentiis, è arrivata la presa di posizione della società, attraverso un comunicato ufficiale.
Il comunicato integrale del Napoli. Ecco il testo del comunicato del Napoli: "La Società comunica che, con riferimento ai comportamenti posti in essere dai calciatori della propria prima squadra nella serata di ieri, martedì 5 novembre 2019, procederà a tutelare i propri diritti economici, patrimoniali, di immagine e disciplinari in ogni competente sede. Si precisa inoltre di aver affidato la responsabilità decisionale in ordine alla effettuazione di giornate di ritiro da parte della prima squadra all’allenatore della stessa Carlo Ancelotti. Infine comunica di aver determinato il silenzio stampa fino a data da definire".
Esonero Ancelotti, un'ipotesi mai esistita. Nel pomeriggio in città sono circolate anche alcune voci su un possibile esonero imminente di Ancelotti, ipotesi mai considerata dalla società: il presidente De Laurentiis ha piena fiducia nell'allenatore e lo ha voluto ribadire nel comunicato affidandogli di fatto pieni poteri sulla gestione della squadra.
Napoli, allenamento e poi tutti a casa. La squadra si è allenata regolarmente nella mattinata a Castel Volturno e ha poi lasciato il centro sportivo al termine della seduta disertando ancora una volta il ritiro imposto dalla società. E’ però da escludere qualsiasi ipotesi di dimissioni di Carlo Ancelotti che dunque proseguirà la sua esperienza al Napoli. Smentite le voci provenienti dall’Argentina che volevano addirittura Ancelotti sulla panchina del Boca da gennaio, un’ipotesi da scartare nel modo più assoluto. Nel frattempo la squadra tornerà ad allenarsi domani, quando Insigne e compagni andranno al San Paolo per prendere parte alla sessione pomeridiana in programma alle 15.30 aperta agli abbonati.
Da corrieredellosport.it il 6 novembre 2019. Dopo la prima nota, la Società Sportiva Calcio Napoli ha da poco diramato un secondo comunicato ufficiale, volto a far chiarezza sul tema ritiro dopo "l'ammutinamento" dei calciatori nel post-gara col Salisburgo: "Con riferimento alle notizie apparse oggi e negli ultimi giorni relative al ritiro della prima squadra, la Società rileva con sorpresa come alcuni organi di stampa lo abbiano erroneamente qualificato 'ritiro punitivo'. Il Presidente De Laurentiis – lunedì 4 novembre u.s. - aveva dichiarato a Radio Kiss Kiss in modo chiaro e inequivocabile: 'Questo è un ritiro costruttivo e non punitivo'. Un ritiro, espressione della complessa modalità di allenamento, destinato a far ritrovare al gruppo dei calciatori la concentrazione e le necessarie motivazioni alla vigilia di due gare importanti e delicate".
Angelo Carotenuto per “la Repubblica” il 13 dicembre 2019. Se sei Preziosi o Zamparini, più ne mangi e più ne vuoi. Hai appena sbranato il cinquantesimo allenatore e già prepari il barbecue al numero 51. Ma se sei Aurelio De Laurentiis, uomo di spettacolo, più della quantità conta allora il modo, conta la spettacolare maniera di disfarsi degli uomini che fino a pochi istanti prima erano li mejo. S' è perso il conto delle volte in cui aveva trovato "il nostro Ferguson". Con gli allenatori parte per le nozze d' argento e non arriva alla prima comunione. Confonde un grande ciclo con un ciclone. Si regala matrimoni sfarzosi e consuma divorzi eclatanti. Vive di amori e disamori a ciclo continuo. Chiamava Reja "il mio Clint Eastwood", finché un giorno presero il West sul serio e si misero le mani addosso. Vedeva Mazzarri "come giocatore di poker in un mio film", ma alla mano successiva non gradì il bluff e lo accusò di essere andato a letto con un' altra (l'Inter). Più integralista di Zeman, De Laurentiis ha questo schema cui non rinuncia mai. Il nuovo allenatore deve negare il precedente, così che i dispari siano simili tra loro in opposizione ai pari. È orgoglio. Serve a dimostrare che il Napoli c'est moi, come disse al tipo che gli chiedeva di comprare un centravanti: "Sono io il vostro Cavani". Del resto la sua è tra le aziende più virtuose di Napoli. Lui lo sa e lo fa pesare, spingendosi in certi passaggi fino al disprezzo per la città, venendone sinceramente ricambiato. De Laurentiis sa spiegare a un editore come si fa un giornale e a un avvocato come si scrive un contratto. Ma ogni volta che ha tentato il volo in un'altra dimensione, alla fine è tornato indietro spaventato, preferendo anche lui il borgo a un orizzonte. Per dimostrare all' italianista Mazzarri che c'era vita dopo di lui, chiamò il cittadino del mondo Rafa Benítez. Quello se ne va galattico al Real? Lui lo rinnega con la decrescita felice, il calcio artigianale di un 55enne di provincia e poca Serie A dentro le scarpe. Ma il giorno che lo vede andare via di schiena, senza che gli abbia mai detto di sì a un aperitivo in barca, gli fa capire cosa ne pensa rifacendosi una vita e passeggiando in piazzetta a Capri con il cosmopolita Carletto. Per questo meccanismo di eterna contrapposizione, dopo il Leader Calmo non poteva che arrivare un Ringhio. De Laurentiis in fondo è un uomo che si annoia. Gli vengono bene i primi appuntamenti, quando ti può raccontare delle sere a cena con Sharon Stone oppure - alla Manuel Fantoni - che Richard Burton una volta gli ha vomitato sulla moquette.
Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2019. L' Inter va fuori ed è corretto così. Non è stata fortunata, ma non si possono perdere tre partite su sei. Non è la gara di ieri che la elimina, è questa regolarità del male, una disuguaglianza abbastanza netta rispetto agli avversari europei. L' Inter ha caratteristiche che contro avversari tecnici la costringono alla difficoltà. È successo con la Juventus, due volte col Barcellona, ma è successo anche con la Roma pochi giorni fa. Non è un incidente di percorso, è la prova di una qualità diversa, l' Inter non è ancora a quest' altezza. Non ha sufficiente qualità di gioco per fermare il palleggio dei buoni avversari. La forza dell' Inter è comunque nella qualità degli attaccanti. Lautaro ha giocato ieri una partita eccezionale, senza un errore e contro un avversario al suo livello, Todibo. Credo non ci siano attaccanti migliori alla sua età, Ansu Fati è bravissimo in generale, ma non è ancora paragonabile. Rispetto alla stagione scorsa Lautaro è cresciuto tanto, ha una pericolosità costante, un' arte di uscire vincente dal contatto con gli avversari che prima non aveva. E trova subito il tiro cattivo. L'Inter è una squadra ancora piena di spigoli che in Italia però basta e avanza. Ha due attaccanti che escono da qualunque schema, hanno un rapporto con il gol che quasi non dipende dalla squadra. Forse farà bene anche essere usciti dalla Champions, non era la strada giusta. Meglio giocare in Italia e fare esperienza internazionale con l' Europa League. Il Napoli esce trionfando ma va ricordato che il suo secondo posto non è stato una sorpresa. Il girone era buono, la vera impresa del Salisburgo è stato segnare tre gol a Liverpool, dove poi ne ha subiti quattro. Ancelotti sarà il primo allenatore che salta poche ore dopo aver passato il turno. Non bisogna giudicare con buon senso né con i soli risultati la sua storia. È successo a Napoli qualcosa di eccezionale, tutta la squadra è ancora multata per milioni di euro, sono volate negli spogliatoi offese e forse più tra dirigenza e giocatori. Una situazione che non aveva più niente di tecnico e non era legata a un risultato. Mi dispiace per Ancelotti che è un uomo corretto e anche troppo onesto. Ma si è trovato da solo a non parlare di calcio, a subire le psicologie avide dei giocatori. E come a Monaco non ce l' ha fatta.
Massimiliano Gallo per ilnapolista.it l'11 dicembre 2019. È finita la diversità di Aurelio De Laurentiis. Da questa notte può finalmente essere considerato un figlio di Napoli. Uno che ragiona come ragiona Napoli. Ha posto fine alla lunga crisi della squadra con l’esonero di Carlo Ancelotti. Nella sera in cui il Napoli, per la terza volta nella sua storia, ha raggiunto gli ottavi di finale di Champions. Mentre la tanto strombazzata Inter è stata eliminata dal Barcellona baby. De Laurentiis ha preso il progetto Ancelotti e lo ha buttato via. Ha scelto la soluzione più semplice, quella più breve: promessa ai giocatori per le multe e via il tecnico che aveva idee tattiche – e forse non solo quelle – che non piacevano al gruppo, in particolare ad alcuni senatori. Da stasera c’è una novità. Dobbiamo amaramente constatare che tra i nostalgici del periodo sarrita c’è anche Aurelio De Laurentiis. Che ci ha provato, a modo suo, a cambiare pagina. Poi, come si dice in un gergo che il presidente ben conosce, non gli ha retto la pompa. Ci vuole coraggio. Troppo. È un processo simile alla “Costruzione di un amore” di Fossati. E bisogna saper attraversare il deserto. Non è roba da De Laurentiis, ahinoi. Forse ci eravamo illusi. Forse le persone cambiano. Forse non possiamo comprendere le paure di chi guida un’azienda che probabilmente è cresciuta troppo. Fatto sta che non possiamo non riflettere sulla considerazione che De Laurentiis passerà alla storia come il presidente che tra Insigne e Ancelotti ha scelto Insigne. Ha provato a tenere vecchio e nuovo. Ha voluto, o ha fatto finta di volere, imboccare una strada nuova senza abbandonare completamente la vecchia. Con De Laurentiis presidente, Arrigo Sacchi sarebbe stato esonerato. Questa è la cruda realtà. Molto probabilmente a questo punto viene da pensare che il presidente non si sia mai fidato fino in fondo di Carlo Ancelotti. Forse ne ha avuto paura. Il Napoli non si è comportato con Ancelotti come ha fatto l’Inter con Conte. Non ha obbedito alle indicazioni dell’allenatore che peraltro all’Inter ha ripagato i vertici societari attaccando loro spesso e volentieri. De Laurentiis non ha voluto abbandonare il suo certo per l’incerto. Non ha tenuto fede agli impegni di maggio. Ha lasciato appese molte, troppe, situazioni contrattuali. E non ha ceduto chi andava ceduto. Si fa molta fatica a comprendere la ratio dei comportamenti di De Laurentiis se non si tiene in considerazione la paura. De Laurentiis non è un coraggioso e in questa occasione lo ha dimostrato in maniera fin troppo evidente. Ma è un difetto che non gli si può imputare, come ha spiegato Alessandro Manzoni. Resta un grandissimo presidente, ha portato il Napoli in una dimensione sconosciuta. Purtroppo sconosciuta anche a lui. Ha i suoi limiti ben definiti, come tutti noi del resto. Probabilmente abbiamo preferito proiettare su di lui processi che magari noi stessi non siamo riusciti a compiere. Resta la grande incognita sui cinquanta giorni che hanno sconvolto il Napoli. Cinquanta giorni che a scorrerli – come un film – hanno avuto De Laurentiis assoluto protagonista. Ha cominciato a picconare la sua creatura e non si è più fermato. Almeno fino all’esonero di Ancelotti. Ha provato sistematicamente a distruggere il giocattolo. Non ci addentriamo in considerazioni dietrologiche. Restano cinquanta giorni strani. In cui De Laurentiis, di solito lucido, non ha mai compiuto una – diciamo una – scelta costruttiva. Ha solo distrutto. Sistematicamente e senza sosta. E alla fine si è spaventato. Più di tutti. E ha compiuto la scelta che considera la più efficace nel minor tempo possibile. E che nel breve potrebbe anche funzionare. Una scelta tattica. Non strategica. Adesso De Laurentiis una strategia non ce l’ha. Si è aggrappato al gruppo di calciatori cui nonostante tutto è affezionato. E al gruppo che ritiene più influente. Chissà che non abbia sbagliato anche questa valutazione. Si è messo nelle loro mani. Ha ingaggiato – o sta per ingaggiare – un allenatore disposto a giocare come vogliono loro. E qui, sommessamente, da non sarristi chiediamo: ma allora non valeva la pena tenersi l’originale? La speranza è che non commetta lo stesso errore commesso da Ancelotti: l’errore di sopravvalutarli. Come probabilmente abbiamo fatto noi con lui.
Ancelotti, tutti gli esoneri della carriera. Una dei tecnici migliori d'Europa e gli incidenti con Milan, Chelsea, Real Madrid e Bayern Monaco prima dello strappo con il Napoli. Giovanni Capuano il 10 dicembre 2019 su Panorama. Se è vero che la grandezza di un allenatore non si misura dai suoi insuccessi, Carlo Ancelotti può dormire tranquillo. Resta e resterà un tecnico record anche dopo l'esonero deciso dal presidente del Napoli De Laurentiis e comunicato poche ore dopo il successo al San Paolo contro il Genk che ha sancito la qualificazione agli ottavi di finale della Champions League. Neanche la tripletta di Milik ha cambiato il finale di una storia già scritta, con Gattuso che siederà sulla panchina che è stata per un anno (e poco più) di Ancelotti. Le righe del commiato addolciscono appena la pillola di uno strappo che arriva a coronamento di una stagione disastrosa nei risultati e nei rapporti dentro e fuori lo spogliatoio. Quello deciso da ADL è il sesto epilogo prematuro e amaro per Ancelotti. Una costante che nulla toglie alla sua grandezza professionale, anche se le ultime stagioni sono state spesso puntellate di problemi e polemiche. Quello che ha attraversato al Napoli assomiglia sinistramente agli ultimi mesi a Monaco di Baviera, con lo spogliatoio in rivolta, i big schierati contro di lui e la società a non fare schermo. Ecco il racconto della carriera di Ancelotti condensato nelle tappe concluse con un esonero o una mancata conferma. Una via Crucis solo virtuale, considerata la quantità di titoli portati a Reggiolo.
Una carriera tra successi ed esoneri. Eppure la carriera di Ancelotti non è fatta solo di trionfi e applausi. Spesso si è dovuto misurare con la realtà dell'esonero o della rescissione di contratto, formula elegante per dire che un allenatore viene allontanato dalla propria squadra. E soprattutto gli inizi della sua avventura in panchina sono stati complicati.
Alla Juventus di Moggi-Bettega-Giraudo non gli bastarono due secondi posti con punteggi elevati per ottenere il prolungamento della sua esperienza alla terza stagione. Era arrivato contestato dai tifosi e se ne andò con appiccicata l'etichetta del magnifico perdente e con una promessa di rinnovo (144 punti in due campionati) non rispettata. Non un esonero, ma quasi.
Al Milan, subentrato in corsa alla meteora Terim nel novembre 2001, ha cancellato l'etichetta ma non si è salvato da un finale burrascoso, bersaglio delle critiche di Berlusconi e difeso strenuamente da Galliani. Otto lunghi anni con rescissione consensuale al termine dell'ennesima stagione tormentata e in anticipo rispetto alla conclusione del contratto.
Esonero anche dal Chelsea, pur portato a conquistare la Premier League al primo colpo nel 2010. A Londrà bastò un secondo posto con eliminazione ai quarti di finale della Champions League per far dire stop ad Abramovich (maggio 2011). Altro giro e altra serie di trionfi al Psg (ma anche un clamoroso campionato lasciato al Montpellier) e altra chiusura di rapporto lasciandosi senza troppi rimpianti.
Poi il Real Madrid cui regalò la Decima Champions League della storia nella finale derby di Lisbona contro l'Atletico, vittoria che gli valse la conferma da esonero sicuro, e l'addio solo un anno più tardi cacciato dal presidente Florentino Perez per non aver vinto nulla, colpa imperdonabile al Bernabeu e dintorni.
Infine il Bayern Monaco, preso dalle mani di Guardiola e riportato a vincere la Bundesliga che per i bavaresi rappresenta poco più di un optional. Dissidi interni allo spogliatoio gli sono stati fatali. Fine della storia, prima dell'addio precoce con il Napoli che aveva sposato nella convizione di poter diventare il Ferguson di De Laurentiis.
Ma.Ni. per “la Gazzetta dello sport” il 7 novembre 2019. La frase di Aurelio De Laurentiis è datata, ma rende bene l'idea. Il presidente del Napoli la pronunciò anni fa, quando il Pocho Lavezzi - idolo di Napoli all' epoca - cominciò a far le bizze chiedendo di andare via. «Se non rispettano gli accordi, sai i sequestri di beni che farei con i legali. Sappiate che mio zio Dino fece sequestrare la villa a un certo Federico Fellini». Questo perché sia chiaro ai giocatori che osso duro si ritrovano di fronte. Martedì notte è successo qualcosa che è un punto di non ritorno, ma che non è fulmine a ciel sereno. E come in ogni matrimonio le colpe non sono mai solo da una parte. È stata quella scaturita all'ingresso nello spogliatoio di Edo De Laurentiis, vice presidente, il figlio del patron, che alla fine della partita col Salisburgo ha annunciato che il ritiro sarebbe continuato. I giocatori, già in subbuglio dal lunedì, quando avevano appreso da alcuni organi di stampa e non dal club della scelta, si sono scatenati. Il capitano Lorenzo Insigne ha parlato a nome della squadra, ma mantenendo un contegno: «Dì a tuo padre che noi in ritiro non ci torniamo». E poi i senatori del gruppo - da Mertens a Callejon - non hanno esitato a spingere gli altri compagni a una scelta di rottura. Il più duro di tutti è stato Allan che ha avuto momenti di nervosismo urlando in faccia al vicepresidente frasi anche volgari e irriguardose («i tuoi soldi mettiteli...»). Si è temuto un contatto fisico e c' è voluta tutta la pazienza di Ancelotti (che per questo motivo ha disertato la conferenza stampa) e del d.s. Cristiano Giuntoli per riportare la calma. Per capire come si sia arrivato a tanto bisogna riavvolgere il nastro. Il presidente De Laurentiis è sempre stato uno diretto, anche troppo, ma quando vieni additato ai tifosi ecco che scatta qualcosa nell' orgoglio della persona. Prendete Callejon e Mertens - due che avranno pur sbagliato qualche prestazione, ma da anni garantiscono un elevato rendimento - sentirsi apostrofati come mercenari («andate pure in Cina a fare una vita di merda») non fa bene. O lo stesso Insigne spesso bacchettato negli atteggiamenti, lui che da napoletano soffre quando le cose vanno male. O ancora lo stesso Allan che, a proposito della trattativa col PSG dello scorso gennaio, è convinto che non tutta la verità gli sia stata detta. Questo non giustifica nessuno, ma serve per capire lo scenario. Che ora si complica perché De Laurentiis la sua guerra legale la porterà avanti chiedendo multe salate per gli ammutinati del San Paolo. I quali si stanno organizzando con i propri legali per rispondere punto su punto, tirando anche fuori frasi lesive della propria onorabilità. Peccato che qui si dovrebbe parlare di calcio. Di un' attività che dovrebbe scatenare gioie e passioni. Invece da ieri bocche cucite e porte chiuse ai media, anche oggi pomeriggio allo stadio di Fuorigrotta, dove la squadra si allenerà di fronte ai propri tifosi (abbonati). E noi che pensavamo che il Muro di Berlino fosse crollato trent' anni fa insieme a una sottocultura negazionista.
Lavezzi, lo "scugnizzo" che amava Napoli e giocava alla play con il boss. Ciro Cuozzo 27 Novembre 2019 su Il Riformista. L’ex attaccate del Napoli Ezequiel Lavezzi ha annunciato il suo ritiro dal calcio giocato all’età di 34 anni. Lo ha dichiarato al termine della partita giocate con il club cinese Hebei CFFC, nell’ultima giornata del campionato cinese. “Questa partita la ricorderò per sempre perché è l’ultima della mia carriera. Voglio godermi i miei figli, la mia famiglia. E’ il momento giusto per prendere questa decisione”, ha detto Lavezzi autore anche dell’unico gol della sua squadra. L’attaccante argentino lascia la Cina dopo 3 anni e mezzo e 35 gol segnati. Con la maglia del Napoli dal 2007 al 2012, il Pocho è stato uno degli idoli dei tifosi collezionando 188 presenze, 48 gol e una Coppa Italia vinta. Poi il passaggio per 30 milioni di euro al Psg dove in quattro stagioni ha vinto tre campionati oltre a diverse coppe nazionali (161 presenze e 35 reti il bilancio statistico). Con la Nazionale dell’Argentina è sceso in campo 51 volte, con 9 gol, arrivando secondo ai Mondiali del 2014. Nel 2008 fu tra i protagonisti della selezione albiceleste che conquistò l’oro olimpico a Pechino.
LA FALSA PARTENZA IN ITALIA – Lavezzi viene acquistato nell’agosto del 2004 dal Genoa che versò nelle casse dell’Estudiantes Buenos Aires un milione di euro. Impegnato in Serie B, il club ligure decide così di lasciarlo per un anno in prestito al San Lorenzo, nella massima serie argentina, dove realizza 9 gol in 29 presenze. Nell’estate del 2005, scaduti i termini del prestito, torna al Genoa in vista della stagione 2005-2006 da disputare nella Serie A appena riconquistata per affiancarsi in attacco ai connazionali Diego Milito e Lucas Rimoldi.
Lavezzi sceglie la maglia numero 77 e viene presentato ai giornalisti a Genova il 12 giugno 2005 e successivamente ai tifosi il 16 luglio, in un carosello allo stadio Luigi Ferraris al cospetto di 20.000 presenti.Effettua la preparazione estiva in ritiro con la squadra agli ordini di Francesco Guidolin, ma con la maglia rossoblu disputa solamente tre amichevoli estive prima che un illecito sportivo releghi il club ligure in Serie C1. Il 2 agosto 2005, anche a causa del mancato ambientamento in terra italiana,[la società ligure asseconda il suo desiderio di tornare in Argentina cedendolo a titolo definitivo al San Lorenzo per 1 milione e 200 000 euro. Con il San Lorenzo conquista il torneo di Clausura 2007. Poi l’approdo a Napoli e la consacrazione nel calcio europeo.
SCUGNIZZO NAPOLETANO – Lavezzi a Napoli è stato un idolo, uno dei primi giocatori a far ricordare (in alcune giocate e con le dovute proporzioni) Diego Armano Maradona. Velocità, imprevedibilità e quella ‘garra’ tutta sudamericana che esaltava il pubblico del San Paolo. Era uno degli ultimi a mollare in campo. Le sue lacrime dopo la vittoria della Coppa Italia nel 2012 contro la Juve all’Olimpico di Roma resteranno per sempre impresse nella memoria dei tifosi partenopei. Il Pocho piangeva perché sapeva che sarebbe andato via.
LA RAMANZINA DEL CAPO ULTRAS – Lavezzi amava Napoli. Viveva la città in modo viscerale. Arrivò con un look discutibile nel giorno della presentazione insieme alla bandiera Marek Hamsik. Poi col tempo è stato letteralmente adottato dai napoletani. Un affetto che il Pocho ha sempre ricambiato, forse con quella eccessiva generosità e un pizzico di ingenuità che l’ha poi portato a frequentare amicizie pericolose. A spiegare la vita mondana dell’argentino, nei mesi scorsi, è stato l’ex capo ultrà della Curva A, Gennaro De Tommaso, meglio conosciuto come ‘Genny ‘a carogna’, passato agli onori della cronaca per la tragica finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014 tra Napoli e Fiorentina, quando a Roma venne ferito a colpi d’arma da fuoco un tifoso azzurro, Ciro Esposito, morto dopo oltre 50 giorni di agonia. In qualità di capo ultras, De Tommaso fu protagonista di un confronto prima del fischio d’inizio con il capitano del Napoli Marek Hamsik. Le immagini fecero il giro del web e nei giorni successivi i principali media si concentrarono su Genny ‘a carogna, lasciando in secondo piano l’agguato teso ai tifosi del Napoli che vide un ex capo ultras della Roma, Daniele De Santis (detto ‘Gastone’), poi condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per omicidio volontario. De Tommaso, poi arrestato per vicende legate allo spaccio internazionale di stupefacenti, è diventato collaboratore di giustizia nei mesi scorsi e nel corso dei primi interrogatori con l’Antimafia ha ricostruito i rapporti gli stessi tifosi organizzati avevano con la società Calcio Napoli. De Tommaso ha ricordato la ‘ramanzina’ fatta a Lavezzi dopo averlo incontrato in una discoteca pericolosa: “Litigai con Lavezzi e il portiere Navarro, perché da vero tifoso ultras non vedevo di buon occhio il fatto che frequentavano una discoteca dove girava droga. Per questo litigio fui chiamato da Antonio Lo Russo di Miano, che era come un fratello per Lavezzi. Il Lo Russo mi minacciò fuori al bar, sulla via principale di Miano, dicendomi di lasciar stare Lavezzi, il quale ci faceva divertire giocando a calcio. Io, pur consapevole di chi fosse il Lo Russo, gli risposi che ragionavo diversamente da lui, perché ero un tifoso. Il giorno dopo raccontai tutto a Pierpaolo Marino, gli spiegai il fatto della discoteca, e fu lui a portarmi da Lavezzi, lì a Castelvolturno. Mi portò negli spogliatoi, al cospetto di Lavezzi, si fece la doccia, poi andammo nell’hotel Holiday Inn, sempre a Castelvolturno…Gli spiegai "guarda, che se l’ho fatto, l’ho fatto per te. Perché quella discoteca è una discoteca che non ti appartiene". Gli feci capire la situazione e dopo diventammo amici”.
LA PLAY STATION COL BOSS – Nella sua esperienza napoletana non sono mancate le amicizie pericolose. Le indagini degli ultimi anni hanno fatto emergere il suo rapporto con Antonio Lo Russo, a capo dell’omonimo clan dei "Capitoni", arrestato nel 2014 a Nizza dopo quattro anni di latitanza, iniziata qualche settimana dopo aver assistito a bordo campo all’ultima di quattro gare del Napoli con un pass da giardiniere. Nel corso di un processo dove venne ascoltato come testimone, Lavezzi dichiarò di aver ospitato il boss nella sua villa di Posillipo dove giocavano spesso alla play station. Con ‘Tonino’ Lo Russo l’argentino comunicava con un telefono “dedicato”, intestato ad altri soggetti, soprattutto dopo il blitz del 2010 che diede inizio alla latitanza del boss. Lo stesso Lo Russo dal 2016 ha deciso di passare a collaborare con lo Stato ottenendo sconti di pena ‘grazia’ alla ricostruzione di numerosi omicidi e attività illecite che il suo clan, con roccaforte a Miano (periferia nord di Napoli), realizzò in quegli anni grazie anche alla collaborazione con gli Scissionisti di Secondigliano.
STRISCIONI PRO POCHO – Nel corso di un’audizione antimafia l’11 aprile 2017, il magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, Enrica Parascandolo, ricostruì i rapporti di amicizia o di mera conoscenza che i giocatori azzurri avevano con persone legate alla criminalità organizzata. Nello specifico sottolineò che “Lavezzi chiese a Lo Russo di far esporre uno striscione nelle curve per chiedere la permanenza a Napoli. Antonio Lo Russo racconta come Lavezzi avesse interesse che la tifoseria esponesse uno striscione e si rivolse al lui per ottenere l’esposizione in entrambe le curve. In cambio ottenne che il Pocho non sarebbe mai andato a giocare in squadre italiane come Juve o Inter, cosa che poi è realmente accaduta”.
P.T. per “il Messaggero” il 7 novembre 2019. Insorgono un attimo dopo aver capito che sarebbero tornati da dove era partiti, quattro ore prima, ovvero a Castel Volturno. In ritiro prolungato. Nonostante il pari che per la squadra ha il sapore del pass agli ottavi di finale di Champions. Se lo sono promesso nel pomeriggio Mertens, Callejon, Allan, Insigne, Koulibaly e company. E così hanno fatto: quando il ds Giuntoli ha spiegato che il bus li aspettava nel parcheggio del San Paolo, Mertens è stato il primo ad alzare la voce e a protestare. Ma sapeva benissimo di non essere da solo. E infatti tutti gli altri si sono uniti senza perdere un secondo. Allan interviene, e il brasiliano alza i toni con il direttore sportivo. «Noi ce ne andiamo a casa, dillo pure al presidente». Un pandemonio. Che ascoltano tutti, perché non è possibile non udire quello che sta succedendo. Aurelio De Laurentiis evita di scendere, si limita a un saluto frettoloso a Lozano e poi se ne va dallo stadio. Anche lui blindato dal silenzio. Quello che succede lo sa subito dopo, quando per primo si stupisce per l'assenza di Ancelotti alle conferenze della Uefa (ci sono multe in arrivo di quasi 50 mila euro). Il tecnico spiega: «Cosa vado a dire dopo tutto quello che sta succedendo?». Gli animi sono surriscaldati, un gruppetto resta chiuso nello spogliatoio e continua a discutere. Nessuna marcia indietro. Quando escono, ognuno per conto proprio, misurano le parole con il lanternino. «Non è giusto, diamo il massimo, per noi questo è un provvedimento punitivo che non accettiamo», il monologo dello spogliatoio azzurro. La squadra è certa di avere Ancelotti dalla propria parte. De Laurentiis è invece sicuro che il ritiro sia «per finalità costruttive» e non «punitive» (lo scrive il Napoli anche in un secondo comunicato diffuso nel pomeriggio di ieri) e che stia quasi facendo un favore al suo allenatore. È certo che sia la cosa giusta da fare. I calciatori sono infastiditi dal fatto di aver appreso la notizia dai giornali. De Laurentiis fa sapere che se deve fare marcia indietro, deve essere Ancelotti a chiederlo e non i calciatori (a cui negli ultimi giorni ha pure accordato i premi per la Champions). Ma il tecnico non fa nulla. Ovvero, non ha problemi a schierarsi e a mettere la faccia ma traccia una linea netta tra sé, i suoi compiti e tutto il resto del mondo.
Franco Ordine per “il Giornale” il 7 novembre 2019. Avvocato Cantamessa, a Napoli è scoppiata una fastidiosa grana tra società e squadra: cosa raccontano i sacri testi del diritto sportivo?
«A leggere l'Accordo Collettivo, il sostantivo ritiro viene utilizzato in un solo articolo, il 7.3, nel quale però si fa soltanto obbligo alle società di provvedere al trasporto dei propri tesserati in occasione di viaggi e ritiri».
Fine della discussione, quindi?
«No, la discussione continua invece. Perché c'è un successivo articolo, il 10.1, che impone ai calciatori di rispettare tutte quelle decisioni della società utili al conseguimento del risultato agonistico. In linea di principio, quindi, anche il ritiro può finire nella categoria dei provvedimenti atti a ottenere il miglior risultato agonistico».
Non ci sono eccezioni a questa regola?
«L'eccezione è costituita dall'intento del provvedimento stesso. Qualora, infatti, risultasse di natura punitiva, non sarebbe legittimo, perché una sanzione quale quella non è prevista».
Il presidente De Laurentiis, nella dichiarazione resa alla stampa, aveva specificato che «non si tratta di una punizione ma di un aiuto offerto a squadra e allenatore».
«Verissimo. E su questo punto si apre la discussione. Perché non basta che sia reso pubblico dal club l'intento non punitivo. Bisogna anche che i calciatori non lo vivano come una punizione e che in concreto non lo sia».
In sintesi si tratta di una materia non ben definita e quindi in grado di provocare più interpretazioni diverse.
Scusi avvocato Cantamessa, lei è un esperto di diritto sportivo, è stato dirigente del Milan berlusconiano e ora del Monza: in questi casi così complicati, come se ne esce?
«Se vuole una mia considerazione finale, nata dalla conoscenza personale, considerazione che badi bene - non vuole essere un consiglio, posso chiudere sostenendo che c'è una sola persona in grado di disinnescare questo caso spinoso trasformandolo in una grande ricarica motivazionale per tutto lo spogliatoio. È Carlo Ancelotti».
Napoli, i giocatori non rispettano il ritiro imposto dal presidente e vanno a casa. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Monica Scozzafava. In un comunicato De Laurentiis affida di fatto al tecnico tutta la responsabilità della gestione dei giocatori e si dice pronto a tutelarsi in ogni sede. La decisione dei giocatori del Napoli di non rispettare il ritiro imposto dalla società è clamorosa e non ha precedenti. Ammutinamento, di questo si è trattato, al termine della sfida di Champions contro il Salisburgo: la decisione presa autonomamente dalla squadra di non salire sul pullman per rientrare, come era previsto, a Castel Volturno, avrà inevitabilmente conseguenze. Tutti a casa, ieri sera, dalle loro famiglie mentre Ancelotti lasciava il San Paolo con il suo staff e si dirigeva verso l’hotel del campo sportivo. Lui in ritiro ci è andato, tutelando evidentemente la sua posizione rispetto al club. Per i giocatori è prevista una multa, ma non sarà soltanto la sanzione ad agitare ulteriormente le acque in casa Napoli. L’allenatore del Napoli ha evitato le telecamere, non ha fatto conferenza stampa: sarebbe stato imbarazzante dover spiegare la violazione da parte dei suoi giocatori di una decisione societaria ( che da subito non aveva trovato d’accordo neanche lui) e rispondere a domande sulla lunga riunione nello spogliatoio al fischio finale della partita. La squadra aveva già deciso di chiedere al presidente De Laurentiis l’interruzione del ritiro, lo ha fatto e ha ricevuto un secco rifiuto. Non c’è stata trattativa, i senatori hanno così parlato con l’allenatore e sono andati via. La gara che doveva distendere gli animi dopo giorni di polemiche e di contrasti è stata invece il preludio a uno scenario inedito che avrà inevitabilmente conseguenze. Il ritiro era stato imposto da De Laurentiis all’indomani della sconfitta con la Roma, il presidente aveva imputato ai giocatori «scarsa concentrazione». Ancelotti non aveva impiegato tempo a sottolineare pubblicamente il suo di disappunto. La squadra si era ribellata, ma alla vigilia di una partita importante non aveva opposto particolari resistenze. Il «rompete le righe» autonomo è arrivato subito dopo il pareggio con il Salisburgo che non ha regalato il pass per gli ottavi ma neanche ha complicato i piani per la qualificazione. Risultato sportivo passato in second’ordine però nella notte più lunga del Napoli dell’era De Laurentiis che ha aperto uno squarcio profondo nei rapporti tra la squadra, l’allenatore e il proprietario del club. La giornata promette evidentemente ulteriori sviluppi. Aurelio De Laurentiis non farà sconti, la decisone della squadra è stata vissuta come un affronto. La posizione dell’allenatore? Non facile, Ancelotti si era messo di traverso subito e il «non sono d’accordo» pronunciato dopo l’annuncio del ritiro potrebbe adesso avere un peso.
Marco Azzi per repubblica.it il 6 novembre 2019. Alla fine sono volati gli stracci, in una delle notti più buie e tempestose della storia recente del Napoli. In campo tutto sommato i conti erano ritornati, visto che il pareggio contro il Salisburgo è stato comunque un passo avanti quasi cruciale verso la qualificazione agli ottavi della Champions League. Ma nel dopo partita allo stadio San Paolo è scoppiato ugualmente il caos, in casa azzurra. Il primo segnale è stato il gran rifiuto da parte di Carlo Ancelotti, che ha preferito non presenziare alla conferenza stampa organizzata dall'Uefa (multa molto salata in arrivo, per il club) e s'è dileguato in silenzio dallo stadio. La reale gravità di quello che stava succedendo, però, s'è capita in maniera più nitida nei minuti successivi, quando tutti i giocatori hanno deciso con un clamoroso ammutinamento di non salire sul pullman che avrebbe dovuto riportarli a Castel Volturno. Un vero e proprio schiaffo ad Aurelio De Laurentiis, che aveva invece previsto per la squadra il ritiro punitivo fino a domenica, a prescindere dall'esito dell'attesa sfida internazionale di ieri sera. Il presidente era già andato via ed è stato informato dei clamorosi sviluppi dal figlio Edoardo, affrontato negli spogliatoi con toni aspri dai leader del gruppo, guidati dal capitano Insigne. “Noi torniamo a casa nostra, dillo pure a tuo padre...”. Così ha deciso la squadra, nonostante il tentativo di mediazione di Ancelotti, che si era detto a sua volta molto contrario al ritiro punitivo ordinato da De Laurentiis. Il tecnico alla fine è stato l'unico a dormire comunque nella sede di Castel Volturno e ha dato appuntamento ai calciatori per stamattina (quando è in programma la ripresa degli allenamenti), nella speranza che la notte abbia portato consiglio. Ora però il pallino passa nelle mani del presidente, la cui leadership è stata clamorosamente sconfessata da Insigne e compagni, che rischiano come minimo di essere multati in maniera pesante dal club. Il Napoli è dunque sull'orlo di una “guerra civile” sportiva, quasi senza precedenti a questi livelli. Ma una via d'uscita dovrà essere trovata, con dietro l'angolo la sfida di sabato sera al San Paolo contro il Genoa. Intanto è quasi un miracolo, in un clima simile, che gli azzurri non abbiamo compromesso il loro cammino in Champions League. Chissà che cosa sarebbe successo senza il gran gol di Lozano.
Pino Taormina per “il Mattino” il 6 novembre 2019. Muto, in silenzio. La crepa è profonda, molto più di quello che Ancelotti ha voluto far credere l'altro giorno. Una spaccatura netta, con gran parte della squadra che ieri sera è tornata a casa, senza andare a Castel Volturno, così come era invece nel programma iniziale. Le voci di dentro parlano di una specie di ammutinamento, di sicuro una decisione unilaterale del gruppo che non era stata autorizzata inizialmente né dal club né da Ancelotti. La squadra sperava in un dietrofront dopo il pari in Champions ma quando ha capito che non sarebbe arrivato, avrebbe puntato i piedi. Sicuramente, una presa di posizione non gradita dal tecnico di Reggiolo che per questo ha deciso di disertare le conferenza stampa del dopo partita, pur sapendo che il silenzio lo farà andare incontro a pesanti multe da parte dell' Uefa. Insomma, qualcosa che somiglia molto a una marcia indietro unilaterale, davanti alla scelta di imporre una clausura prolungata come se fosse una punizione. E che la squadra non ha digerito, non ha compreso, e non ha accettato. Fin dal primo istante, quando in tanti si chiedevano il motivo di una simile scelta. Chissà, ma è solo una speranza, solo una incomprensione tra il club e i calciatori. Di sicuro, il bus è partito vuoto dal San Paolo e solo ben oltre la mezzanotte la società ha fatto sapere, attraverso Sky, che si tratta di una decisione del club di sospendere il ritiro. Solo un modo per gettare acqua sul fuoco, perché ormai è pieno caos almeno per quanto riguarda la comunicazione. È una baraonda di voci, ma l' impressione è che la sospensione del ritiro sia partita inizialmente dai calciatori e poi accettata (costretta ad essere accettata) dal club. Ancelotti, però, ha preso l' auto e si è diretto a Castel Volturno, assieme al resto dello staff, col figlio Davide al suo fianco. Scene incredibili, a dimostrazione di un momento assai delicato che vive il Napoli. Di certo, ci sono stati attimi di grande tensione all' interno dello spogliatoio, dopo l' 1-1 in campo con il Salisburgo. Tra chi voleva tornare nel quartier generale già in nottata e chi chiedeva di rientrare in mattinata. Sono stati minuti concitati, ma la squadra alla fine ha preso la via delle rispettive abitazioni. Ancelotti no. Ha passato la notte nel ritiro. Difficile capire cosa sia successo, nei minuti successivi la fine della gara. Da chi sia arrivato l' ordine di non rientrare: certo, tra i calciatori c' è stata tensione. E allora Ancelotti ha deciso di andare via anche lui, senza sapere cosa avrebbero fatto gli altri. Ma certo, questa mattina sarà un momento chiave per capire il futuro del Napoli. Stavolta, il Salisburgo non fa mettere le ali ad Ancelotti. Ce ne vorrebbero di litri della famosa bibita energetica taurina per rimettere su il morale del tecnico del Napoli. La Champions è il suo orticello di casa, il luogo dove si trova più a suo agio. Ma il mezzo passo falso di ieri sera rinvia il discorso qualificazione. Una notte stralunata: tante occasioni create, ma anche tanta ansia in difesa. No, non era facile: e l' occasione gettata al vento, quella di poter festeggiare gli ottavi con due giornate di anticipo, speriamo che agli azzurri non resti sullo stomaco. La matematica non è un' opinione: ma in ogni caso ora servono tre punti, che arrivino da Liverpool o dall' ultimo incontro con il Genk poco importa. Ammesso che il Salisburgo vinca in Belgio e poi in casa col Liverpool. Non sono state ore semplici, le sue. Il ritiro lo ha avvicinato alla squadra e gli ha fatto togliere di dosso quell' etichetta di «aziendalista» che lo accompagna dal primo giorno in azzurro. De Laurentiis era sugli spalti, probabilmente oggi sarà a Castel Volturno. Dopo il pareggio la squadra ha tentato di spiegare di volere un ritiro più soft, magari solo da giovedì. Argomento che tornerà sul tavolo questa mattina. Ancelotti non rinuncia alle one to one: è stanco, amareggiato, deluso. Le critiche degli ultimi giorni lo hanno turbato. Infine la sommossa di ieri notte.
Napoli, il comunicato del club: ''Tuteleremo i nostri diritti in ogni sede''. Arriva il comunicato del club partenopeo: ''Tuteleremo i nostri diritti, ogni decisione su un prossimo eventuale ritiro toccherà ad Ancelotti''. Antonio Prisco, Mercoled' 06/11/2019, su Il Giornale. ''Tuteleremo i nostri diritti economici, patrimoniali e di immagine in ogni sede'' non si è fatta attendere la risposta del Napoli dopo l'ammutinamento dei suoi calciatori dopo la gara col Salisburgo. E' arrivata la reazione del club partenopeo a quanto accaduto ieri con la scelta dei calciatori di interrompere il ritiro, imposto dalla società. Il club di Aurelio De Laurentiis prenderà provvedimenti duri contro i giocatori, ma ordina anche il silenzio stampa ed affida la responsabilità dei giorni di ritiro all'allenatore Carlo Ancelotti: "La Società comunica che, con riferimento ai comportamenti posti in essere dai calciatori della propria prima squadra nella serata di ieri, martedì 5 novembre 2019, procederà a tutelare i propri diritti economici, patrimoniali, di immagine e disciplinari in ogni competente sede. Si precisa inoltre di aver affidato la responsabilità decisionale in ordine alla effettuazione di giornate di ritiro da parte della prima squadra all’allenatore della stessa Carlo Ancelotti. Infine comunica di aver determinato il silenzio stampa fino a data da definire". Una scelta ponderata quella di De Laurentiis, deluso ed amareggiato dal comportamento della squadra. Al triplice fischio del match contro il Salisburgo i senatori avrebbero chiesto di poter andare a casa, ma la società ha tenuto il pugno fermo comunicando alla squadra che il ritiro sarebbe continuato. A questo punto la clamorosa decisione: il pullman che attendeva fuori dal San Paolo i giocatori con meta Castel Volturno è rimasto vuoto e gli azzurri sono tornati autonomamente nelle rispettive case, a parte tecnico e staff che sono tornati in ritiro. Insomma un vero e proprio ammutinamento. L'avvocato Edoardo Chiacchio, esperto di diritto sportivo a Radio Marte ha analizzato la situazione da un punto di vista normativo: "Dinanzi a delle disposizioni di una società che coinvolgono l’aspetto contrattuale, il calciatore in quanto dipendente è tenuto ad osservarle. Quindi, se la società dispone di andare in ritiro, la squadra è tenuta ad andare in ritiro e se non lo fa viola il contratto e si espone a delle conseguenze. La società ha la possibilità di azionare le procedura con la multa fino al 5% dello stipendio. Il calciatore può sostituirsi in questo procedimento azionato dalla società ed esporre tutte le sue ragioni, poi ci sarà un contenzioso deciso dal collegio arbitrale. La posizione dei calciatori del Napoli è aggravata dal fatto che staff tecnico e medico ieri sera siano andati a Castel Volturno". Intanto stamattina il Napoli è tornato ad allenarsi a Castel Volturno, per l'allenamento in vista del Genoa, presente anche la dirigenza nella figura del ds Cristiano Giuntoli. Ancelotti, che a differenza della squadra era rientrato a Castel Volturno per dormire, è uscito dal centro sportivo dopo pranzo assieme al figlio Davide. Dopo l'allenamento la squadra non è rimasta in ritiro e tutti i giocatori sono rientrati a casa.
Napoli, De Laurentiis contro la squadra: "Tuteleremo i nostri diritti in ogni sede. Sul ritiro decide Ancelotti". Il club azzurro ha emesso un duro comunicato contro i giocatori, che dopo il pareggio contro il Salisburgo si erano rifiutati di rientrare in ritiro come aveva deciso il patron. Annunciato anche il silenzio stampa. Marco Azzi il 06 novembre 2019 su La Repubblica. La reazione di Aurelio De Laurentiis si è fatta attendere fino al primo pomeriggio ed è arrivata dopo una lunga pausa di riflessione, utilizzata dal presidente del Napoli anche per confrontarsi con i suoi avvocati. Ma non c'è stato evidentemente margine nemmeno per cercare una tregua, visto che il club azzurro è uscito alla fine allo scoperto con una nota durissima. "La società comunica che, con riferimento ai comportamenti posti in essere dai calciatori della propria prima squadra nella serata di ieri, martedì 5 novembre 2019, procederà a tutelare i propri diritti economici, patrimoniali, di immagine e disciplinari in ogni competente sede - si legge -. Si precisa inoltre di aver affidato la responsabilità decisionale in ordine alla effettuazione di giornate di ritiro da parte della prima squadra all’allenatore della stessa Carlo Ancelotti. Infine comunica di aver determinato il silenzio stampa fino a data da definire". Avrà dunque delle conseguenze durissime l'ammutinamento dei giocatori del Napoli, che dopo il pareggio contro il Salisburgo si erano rifiutati di rimanere in clausura punitiva fino a domenica mattina, come invece aveva intimato De Laurentiis. Alle porte c'è una clamorosa e inedita battaglia legale, con il presidente che proverà a far pagare a tutta la squadra il grave atto di insubordinazione. Resta invece in sella per il momento Ancelotti, rassicurato da De Laurentiis nel corso di una lunga telefonata. Ma il presidente si aspetta che anche il tecnico prenda una posizione chiara (e intransigente) nei confronti della squadra, attesa dall'anticipo di sabato sera al San Paolo contro il Genoa. Il Napoli - che per domani alle 15:30 ha confermato l'allenamento al San Paolo aperto agli abbonati - è una polveriera, la vera resa dei conti potrebbe essere solo rinviata di qualche giorno, con la sosta alle porte.
Bianchi e l’ammutinamento contro di lui: «Certe cose succedono solo a Napoli». Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Monica Scozzafava. In un comunicato De Laurentiis affida di fatto al tecnico tutta la responsabilità della gestione dei giocatori e si dice pronto a tutelarsi in ogni sede. L’ammutinamento dei giocatori in casa Napoli ha del clamoroso. Non soltanto per come si è sviluppata la ribellione al ritiro imposto dal presidente De Laurentiis, ma anche perché è difficile, anche andando a ritroso nel tempo, trovare nel calcio una situazione uguale. Qualche similitudine c’è con la vicenda, che pure destò scalpore, che coinvolse Ottavio Bianchi, allenatore del primo scudetto dei partenopei.I giocatori (stagione 1988-89) si ribellarono e liquidarono il tecnico con un comunicato. Maradona, all’epoca dei fatti era in Argentina, i capi popolo furono Nando De Napoli, Claudio Garella e Bruno Giordano, coordinati dall’asso argentino con il quale l’allenatore aveva scontri continui. Oggi Ottavio Bianchi sorride, ma ricorda di aver vissuto la pagina più amara della sua storia di allenatore.
Bianchi, è successo ancora. Sempre a Napoli ma stavolta i giocatori si sono ribellati al presidente.
«Non so bene cosa sia accaduto, mi racconti lei». Resoconto veloce della notte di follia vissuta dopo la sfida di Champions al San Paolo. Bianchi torna a sorridere: «Mi sa che queste cose succedano solo a Napoli», sdrammatizza ma non troppo.
Ancelotti stavolta è con la squadra.
«A prescindere da chi sta con chi, sono situazioni spiacevoli che fanno male all’ambiente. Mi auguro che da parte di tutti ci sia buon senso nel gestire una crepa che potrebbe avere conseguenze su tutta la stagione».
Lei all’epoca cosa fece?
«Ricordo che dopo quel comunicato contro di me, vennero a Napoli tutte le televisioni del mondo. Cercai di mantenere la calma e dissi ai giornalisti che non era successo nulla. Andai a fare colazione e continuai poi ad allenare per altri due anni».
De Laurentiis ha percepito la ribellione della squadra come un affronto. Si aspetta decisioni drastiche?
«Non conosco il presidente, né i giocatori. È difficile parlare dal di fuori. Ma in un lavoro di gruppo, com’è quello del calcio, non può prevalere l’interesse o la rabbia del singolo. Mi auguro che ci si metta tutti a disposizione della squadra, ciascuno con i propri ruoli. I dirigenti facciano i dirigenti, l’allenatore continui il suo lavoro sul campo. Sarebbe un peccato perdere quanto di buono stanno facendo il club e i giocatori negli ultimi anni».
Lei pretese rispetto e sostegno da parte della società?
«Devo ripetermi, sono situazioni diverse. Di uguale dovrebbe esserci soltanto il rispetto delle regole da parte di tutti. Mettersi a condannare non serve. Io non lo feci e tornai a fare il mio mestiere».
Quell’anno lo scudetto, che era alla portata, sfuggì.
«L’anno successivo mi sembra che vincemmo la coppa Uefa, però!».
Andò così, resta quello l’unico grande trofeo internazionale conquistato dal Napoli.
"Punitivo o migliorativo, ecco perché il ritiro divide". «Ma per il club può essere un atto per ottenere più risultati e gli atleti hanno l'obbligo di rispettarlo...» Franco Ordine, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale.
Avvocato Cantamessa, a Napoli è scoppiata una fastidiosa grana tra società e squadra: cosa raccontano i sacri testi del diritto sportivo?
«A leggere l'Accordo Collettivo, il sostantivo ritiro viene utilizzato in un solo articolo, il 7.3, nel quale però si fa soltanto obbligo alle società di provvedere al trasporto dei propri tesserati in occasione di viaggi e ritiri».
Fine della discussione, quindi?
«No, la discussione continua invece. Perché c'è un successivo articolo, il 10.1, che impone ai calciatori di rispettare tutte quelle decisioni della società utili al conseguimento del risultato agonistico. In linea di principio, quindi, anche il ritiro può finire nella categoria dei provvedimenti atti a ottenere il miglior risultato agonistico».
Non ci sono eccezioni a questa regola?
«L'eccezione è costituita dall'intento del provvedimento stesso. Qualora, infatti, risultasse di natura punitiva, non sarebbe legittimo, perché una sanzione quale quella non è prevista».
Il presidente De Laurentiis, nella dichiarazione resa alla stampa, aveva specificato che «non si tratta di una punizione ma di un aiuto offerto a squadra e allenatore».
«Verissimo. E su questo punto si apre la discussione. Perché non basta che sia reso pubblico dal club l'intento non punitivo. Bisogna anche che i calciatori non lo vivano come una punizione e che in concreto non lo sia».
In sintesi si tratta di una materia non ben definita e quindi in grado di provocare più interpretazioni diverse.
«Esatto».
Scusi avvocato Cantamessa, lei è un esperto di diritto sportivo, è stato dirigente del Milan berlusconiano e ora del Monza: in questi casi così complicati, come se ne esce?
«Se vuole una mia considerazione finale, nata dalla conoscenza personale, considerazione che badi bene - non vuole essere un consiglio, posso chiudere sostenendo che c'è una sola persona in grado di disinnescare questo caso spinoso trasformandolo in una grande ricarica motivazionale per tutto lo spogliatoio. È Carlo Ancelotti».
Caso Napoli, cosa rischiano i calciatori dopo la ribellione. Il club fa causa all'intera rosa per il rifiuto di andare in ritiro. Multa sicura, ma sarà guerra legale. Giovanni Capuano il 6 novembre 2019 su Panorama. L'ammutinamento dei calciatori del Napoli dopo la partita contro il Salisburgo, il rifiuto di tornare in ritiro poi reiterato anche il giorno successivo al termine dell'allenamento, rappresentano una prima volta in assoluto per un club di primo livello. Non si ricorda un atto di rottura così forte da parte della rosa verso una società, né nei modi né tantomeno nei termini. Il Napoli ha scelto la strada dell'azione legale nei confronti dei responsabili, ovvero di tutti i giocatori ma non dello staff tecnico di Carlo Ancelotti che si è dissociato, tornando con i mezzi propri nella sede del ritiro.
Il comunicato del Napoli contro i giocatori. De Laurentiis ha dettato un comunicato durissimo per annunciare azioni legali contro l'intera rosa. Poche righe che segnano una dichiarazione di guerra in risposta al rifiuto dei calciatori. "La Società comunica che, con riferimento ai comportamenti posti in essere dai calciatori della propria prima squadra nella serata di ieri, martedì 5 novembre 2019, procederà a tutelare i propri diritti economici, patrimoniali, di immagine e disciplinari in ogni competente sede" si legge. E ancora, sulla gestione delle prossime giornate: "Precisa di aver affidato la responsabilità decisionale in ordine alla effettuazione di giornate di ritiro da parte della prima squadra all’allenatore della stessa Carlo Ancelotti. Infine comunica di aver determinato il silenzio stampa fino a data da definire".
Cosa rischiano i calciatori ribelli. Il rifiuto di presentarsi in ritiro rappresenta chiaramente una violazione degli obblighi contrattuali da parte dei calciatori che sono inquadrati come lavoratori subordinati, seppure con contratti a termine e status che spesso ricorda più quello dei liberi professionisti. Essendo dipendenti del club, hanno l'obbligo di seguire le indicazioni dello stesso per la gestione del loro rapporto professionale, dalla convocazione per allenamenti e partite al rispetto di un ritiro disposto dalla società. Non facendolo si espongono a una serie di conseguenze che vanno dal richiamo (scritto o verbale) alla multa, passando per l'esclusione dagli allenamenti.
E' chiaro che nel caso del Napoli, essendosi ammutinati tutti, è difficile immaginare un provvedimento di sospensione dall'attività sportiva. Più probabile il ricorso alla multa che può raggiungere il 5% dello stipendio mensile del calciatore e che non può essere irrogata direttamente dal club ma deve essere proposta al Collegio arbitrale della Lega Serie A e sottoposta a contenzioso nel quale anche l'atleta ha modo di difendersi. Il comunicato del Napoli lascia, però, intendere anche altro e cioé la volontà di rivalersi anche per difendere i diritti di immagine e patrimoniali. Cosa significa in concreto? La notizia del caos partenopeo ha fatto il giro del mondo non contribuendo a migliorare l'immagine del club. Possibile che De Laurentiis voglia andare fino in fondo per capire se esistono margini per colpire ulteriormente i suoi calciatori in un braccio di ferro che rischia di condizionare pesantemente la stagione del Napoli.
Maurizio Crosetti per la Repubblica il 7 novembre 2019. Dopo la rottura con Ancelotti, De Laurentiis affiderà la guida del Napoli a Boldi e De Sica. “Anche se faccio più ridere io”, ha detto il presidente.
Maurizio Nicita per gazzetta.it il 7 novembre 2019. La contestazione alla squadra del Napoli da parte dei gruppi ultrà è iniziata poco dopo le 14. Un gruppo di un centinaio di tifosi organizzati si è messo davanti l’ingresso degli spogliatoi, nei pressi della Curva B, contestando i calciatori all’urlo di mercenari ed esponendo uno striscione con la scritta “Rispetto”. La squadra nel pomeriggio si allenerà al San Paolo con ingresso riservato ai soli abbonati.
Giancarlo Padovan per calciomercato.com l'8 novembre 2019. La prima e, forse, unica volta in cui Carlo Ancelotti non ha fatto l’aziendalista fino in fondo, a Napoli è scoppiato il caos. Aveva detto di essere contrario alla decisione della società a proposito del ritiro da attuare subito dopo la partita di Champions con il Salisburgo e i giocatori, che altro non cercavano se non una sponda, si sono precipitati giù dal pullman scappando nelle loro confortevoli case. Aurelio De Laurentiis non poteva gradire e, quindi, con perfidia pari all’abilità ha messo l’allenatore spalle al muro. Adesso decida lui se il ritiro è o non è da fare. Anzi, decida lui anche sui prossimi ritiri e, se ne è capace, pure su tutto il resto. L’irritazione del presidente del Napoli è alle stelle. Ad una classifica deficitaria (meno undici dalla vetta) si è aggiunto un allenatore che sta perdendo carisma e immagine di fronte ad una ciurma di ammutinati. Cosa vuole dimostrare De Laurentiis? Semplicemente che Ancelotti, buonista della prima ora, ha perso il controllo dello spogliatoio e la fiducia della società. Se non fosse così, perché in queste ore, si rincorrono i nomi di Luciano Spalletti, Massimiliano Allegri e Gennaro Gattuso per la sua sostituzione in panchina? E’ chiaro a tutti, infatti, che De Laurentiis non è stato sconfessato solo dai suoi giocatori, ma anche dall’allenatore che con loro si è schierato. E poco importa - anzi, importa nulla - che il tecnico ed il suo staff in ritiro ci siamo formalmente andati. Se avessero avuto autorevolezza o anche solo autoritarismo, avrebbero trascinato in albergo anche la squadra che, invece, al momento, è ingovernata e ingovernabile. De Laurentiis, poi, è anche un vendicativo e il dispetto per l’affronto subìto, qualcuno lo dovrà far pagare. Non basta comminare multe e, forse, andare per avvocati a proposito del danno di immagine. Bisogna che un responsabile, presto o tardi, venga trovato e che la vendetta sia più feroce possibile. Del resto, come il presidente sa, non si era mai visto un ammutinamento così massiccio, fragoroso e ostentato. Impossibile che le conseguenze siano pacifiche e tutto rientri con le nuove responsabilità attribuite ad Ancelotti. La rottura va oltre le apparenze e il rapporto è minato con troppe componenti. La contestazione dei tifosi alla squadra, per esempio, se l’aspettavano in pochi. E nessuno, credo, pensasse che, di fatto, i tifosi si schierassero con De Laurentiis, il presidente perennemente contestato sia che parli di stadio, sia che parli di obiettivi. Lo scenario è cambiato sorprendentemente. Da una parte ci sono i giocatori, dall’altra la società con il pubblico pagante e meno adorante. In mezzo Ancelotti chiamato alla sua prova più difficile per quanto riguarda la gestione dei rapporti interni. Se, infatti, ha molto sorpreso il rifiuto di presentarsi in conferenza stampa dopo il Salisburgo (l’Uefa gli comminerà una multa), ancor più oscure sono le ragioni per cui un allenatore così navigato si sia fatto trascinare dalla corrente contestatrice. E’ vero che anche lui, come tutti noi, sa che il ritiro è un provvedimento sbagliato, inutile e perfino controproducente. Ma è altrettanto vero che il capo di un gruppo di lavoro, cui è stato ordinato di intraprenderlo, non può prendere pubblicamente le distanze dal suo presidente. In privato può dissentire, arrabbiarsi e anche alzare la voce. Ma con la squadra deve dimostrarsi assertivo e consenziente. Non sarebbe stato un ipocrita, ma un equilibratore tra istanze opposte. E’ pagato tanto anche per questo.
Da corrieredellosport.it il 9 novembre 2019. Dopo la paura di ieri per la rapina in casa, è arrivato il duro sfogo della moglie di Allan, Thais, che attraverso i social ha espresso tutta la sua rabbia per quello che è successo a lei e alla sua famiglia: "Credo che adesso si stia davvero esagerando e io non ne posso più, prima mio marito viene attaccato non per quello che fa in campo, ma per presunte accuse create ad arte da chi vuole distorcere la verità... e poi io vengo ogni giorno insultata sui social con parole dispettose.. questa settimana anche mentre faccio la spesa. Ieri sera si aggiunge questa paura enorme! Gente che entra nascosta in casa nostra in pieno giorno, con me da sola a casa, poi mettendo caos sporcando tutto nella stanza dei bambini, la nostra intimità violata... Miei figli che piangevano terrorizzati! Da quando siamo arrivati a Napoli siamo stati accolti benissimo, ma ora la gente non puo’ usare notizie false per fare cosi a una famiglia con bambini, questo non è calcio questo non è tifo..."
Rapina a casa di Allan: la ricostruzione. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, sconosciuti si sono introdotti ieri al secondo piano della villetta dove il centrocampista del Napoli vive con la famiglia a Pozzuoli. Ecco la ricostruzione della rapina. Allan, insieme con la moglie e i due bambini, era in un altro lato della casa. Non convocato da Ancelotti per un infortunio, questa sera il brasiliano non sarà in campo contro il Genoa.
Da corrieredellosport.it l'8 novembre 2019. Dopo la protesta di ieri dei tifosi del Napoli all’esterno dello stadio San Paolo prima dell'allenamento del pomeriggio della squadra di Ancelotti, ci sono state nuove forme di protesta contro i giocatori e la loro scelta di non prendere parte al ritiro imposto dalla società. Quest’oggi la città si è svegliata ritrovandosi tappezzata di numerosi striscioni apparsi in diversi quartieri con la stessa scritta firmata dalla Curva A: “Avete scelto una brutta strada… rispettate chi questa maglia la ama e paga!”. Dopo il pari contro il Salisburgo e l’ammutinamento dei giocatori l’atmosfera in casa Napoli è tesissima. Un folto gruppo di ultras ieri pomeriggio ha protestato davanti alla rampa di accesso al San Paolo e si è poi spostato lungo il perimetro dello stadio, sorvegliato da un imponente schieramento di forze dell'ordine. I calciatori sono arrivati ognuno a bordo della propria auto o con dei taxi, entrando direttamente allo stadio senza fermarsi. Fischi e urla di contestazione ai calciatori, in particolare a Insigne, Mertens e Callejon. Ad ogni loro tocco di palla i tifosi hanno urlato “Vai via, vai via”. I circa 200 (su diecimila) abbonati hanno assistito all’allenamento del San Paolo. I giocatori azzurri sono entrati in campo iniziando subito l’allenamento senza rivolgere alcun saluto a tutti i tifosi che li fischiavano.
Oggi si torna in ritiro. Intanto stasera la squadra tornerà in ritiro a Castel Volturno in vista della sfida con il Genoa di sabato alle 20.45 al San Paolo. Una decisione presa evidentemente dal tecnico Ancelotti, a cui il presidente De Laurentiis ha affidato pieni poteri di gestione, d'accordo con la squadra. Gli azzurri andranno a caccia di una vittoria che manca dalla grande notte di Champions a Salisburgo.
Monica Scozzafava per il Corriere della Sera l'8 novembre 2019. C' è un rumore che ai calciatori fa sempre molto male: quello dei fischi, che arriva alla testa e ferisce l' anima. Se trecento tifosi (su diecimila abbonati del Napoli a cui è stato permesso di assistere all' allenamento al San Paolo) decidono che quello deve essere il trattamento, si mettono d' impegno e si fanno sentire per un' ora. Fischi alternati a cori contro ciascuno dei «senatori» azzurri, quelli che per la piazza sono diventati «mercenari». È stato questo lo sfondo della protesta messa in atto ieri pomeriggio allo stadio di Fuorigrotta, un colpo ben assestato e scaturito dal polverone sollevato dalla rivolta dei calciatori contro il ritiro imposto dal presidente De Laurentiis. Che ha sancito un' altra frattura, quella fra tifosi e squadra. Al presidente non è stato certo riservato un trattamento di favore, ma «devi avere rispetto» o «vinci sempre solo tu», sono refrain ricorrenti sugli spalti, è storia di ogni partita. Ed è cominciata così, davanti allo stadio dove gli ultrà (un centinaio), a cui non era consentito entrare, hanno messo in atto il repertorio solito di striscioni e proteste contro la proprietà del club. L' atto di dolore all' interno è stato paradossalmente meno scenografico ma più forte. A Insigne, il capitano accusato di essere il promotore dell' ammutinamento di martedì sera, è stato urlato: «Devi togliere la fascia», ad Allan: «torna a lavorare». Tirati in ballo i cicchetti delle serate al bar e delle sale da ballo. La voce del dissenso ha chiuso l' allenamento pomeridiano con «Ci vediamo in discoteca». Mertens è l' unico a strappare qualche applauso, quando va sotto gli spalti e tende la mano. All' apparenza sembra che il «no» al ritiro, abbia quasi messo d' accordo società e tifosi. In realtà per questi ultimi i «nemici» passano a due, aspettando il risultato della prossima partita al San Paolo, domani contro il Genoa. Unico ad essere risparmiato, Carlo Ancelotti. Che ha diretto l' allenamento con la calma apparente del leader e non ha mai alzato gli occhi verso gli spalti. Ancora una volta ha ottemperato alle disposizioni del club, che aveva previsto la giornata a «porte aperte», prima che Napoli diventasse una polveriera. Ha deciso, però, che la squadra stasera tornerà in ritiro. Stavolta senza ordini, ma per ritrovare serenità alla vigilia di una gara delicata. Per sancire un patto: «Risolviamola insieme, usciamone vincitori». L'allenatore continua a dispensare serenità, nasconde probabilmente alla squadra l' amarezza e la tristezza per una situazione inaspettata. Non si lascia lambire dal vento della protesta, sceglie la calma. Medita sul presente, quello che conta. Il futuro sa che potrebbe essere lontano da Napoli, ma l' esito di questa stagione è diventato il punto per cui battersi, a dispetto delle critiche e delle accuse. In questa fase Aurelio De Laurentiis è alla finestra, ha deciso di multare i suoi calciatori (come da regolamento detraendo il 5 per cento sullo stipendio lordo) e valuta se imputare loro anche il danno di immagine. La squadra mantiene la sua posizione di intransigenza verso il club, ma non c' è un capo che detta la linea. Tutti leader, nessun leader: è nata così la rivolta più grande di tutti i tempi.Dalla forza e anche dall' incoscienza di un gruppo che all' improvviso si è spinto irragionevolmente oltre.
Napoli, le parole del figlio di De Laurentiis dietro la rivolta dei giocatori? Il retroscena. Libero Quotidiano l'11 Novembre 2019. I calciatori del Napoli sono pronti a dire la loro sui motivi del rifiuto di andare in ritiro dopo la partita di Champions contro il Salisburgo e spiegare il perché hanno disobbedito alla richiesta del presidente Aurelio De Laurentiis. "La squadra", scrive Carlo Tarallo su Dagospia, "dirà cosa è successo ammettendo le proprie responsabilità e chiedendo scusa ai tifosi per aver disertato il ritiro, ma spiegherà anche il proprio punto di vista su quanto accaduto. Chiarirà innanzitutto una cosa: nessun dissidio si registra, al di là di fisiologiche discussioni prettamente tattiche, con l’allenatore Carlo Ancelotti e il suo staff". "Al centro della insofferenza della squadra, ci sarebbero gli atteggiamenti del vicepresidente del Napoli, Edoardo De Laurentiis, il figlio del patron Aurelio. Sarebbero state alcune sue frasi, particolarmente taglienti, a scatenare la “rivolta”, con Allan protagonista del botta e risposta al vetriolo con il dirigente azzurro". Ovviamente andranno via tutti i big: Mertens, Allan e Callejon con ogni probabilità a gennaio; Insigne, Zielinski e Koulibaly a fine stagione, conclude Dagospia.
Da ansa.it l'11 novembre 2019. Quarantotto ore dopo l'intrusione in casa Allan, un altro episodio di criminalità ai danni di un calciatore del Napoli: come riporta La Repubblica di oggi, ignoti ieri mattina hanno danneggiato l'auto del centrocampista polacco Piotr Zielinski, portando via lo stereo e il navigatore, dopo avere infranto il finestrino dal lato passeggero. Ad accorgersi dell'effrazione è stata la moglie del calciatore, Laura, che era uscita con la macchina, una Smart, per andare a passeggio col cane della coppia sulla spiaggia di Varcaturo, poco distante dalla loro dimora. Al termine della passeggiata - tornando verso l'auto - l'amara sorpresa per la signora che, impaurita, è stata raggiunta dal marito. Allo stato non risulta sia stata formulata denuncia dell'episodio alle forze dell'ordine.
Carlo Tarallo per Dagospia l'11 novembre 2019. La polveriera Napoli è sul punto di esplodere. La “strana” effrazione a casa di Allan, sulla quale indaga la Digos, segnale che gli investigatori non escludono per nulla che sia collegata al ruolo del centrocampista brasiliano nella “rivolta” contro la società, sfociata nel rifiuto di andare in ritiro martedì scorso al termine della gara di Champions League contro il Salisburgo, e l’episodio di questa mattina, con l’auto di Laura Slowiak, la moglie di Piotr Zielinski, presa di mira dai ladri, avrebbero convinto i giocatori del Napoli della necessità di convocare una conferenza stampa per spiegare i motivi della loro presa di posizione ed evitare che possano ripetersi altri episodi di violenza. Non è ancora chiaro se all’incontro con la stampa parteciperebbe tutta la squadra o solo una rappresentanza, quello che è certo è che tra i calciatori, e soprattutto i loro familiari, si respira molta paura. La squadra dirà cosa è successo negli spogliatoi, martedì scorso, sia tra il primo e il secondo tempo che al termine della partita, ammettendo le proprie responsabilità e chiedendo scusa ai tifosi per aver disertato il ritiro, ma spiegherà anche il proprio punto di vista su quanto accaduto. Chiarirà innanzitutto una cosa: nessun dissidio si registra, al di là di fisiologiche discussioni prettamente tattiche, con l’allenatore Carlo Ancelotti e il suo staff. Al centro della insofferenza della squadra, ci sarebbero gli atteggiamenti del vicepresidente del Napoli, Edoardo De Laurentiis, il figlio del patron Aurelio. Sarebbero state alcune sue frasi, particolarmente taglienti, a scatenare la “rivolta”, con Allan protagonista del botta e risposta al vetriolo con il dirigente azzurro. Lorenzo Insigne, il capitano del Napoli, avrebbe in quei minuti convulsi garantito ad Ancelotti che ogni scelta della squadra sarebbe avvenuta esclusivamente per segnalare il disagio nei confronti dei comportamenti del vicepresidente. Ancelotti avrebbe manifestato l’intenzione di dimettersi, ma sarebbe stato frenato dallo staff. La tensione tra il vicepresidente azzurro e la squadra andrebbe avanti da mesi. I giocatori del Napoli vogliono fare chiarezza su quanto è accaduto, sperando che la violenza della contestazione nei loro confronti possa placarsi. Ovviamente, andranno via tutti i big: Mertens, Allan e Callejon con ogni probabilità a gennaio; Insigne, Zielinski e Koulibaly a fine stagione.
Furto nell’auto di Zielinsky (48 ore dopo quello a casa di Allan). L’ipotesi di un segnale. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 su Corriere.iti da Fulvio Bufi. I timori di un legame con le tifoserie dopo le contestazioni ai calciatori. Due giorni fa era stata svaligiata la casa di Allan. Non è tanto la gravità degli episodi che stanno accadendo a fare paura, quanto il loro possibile significato. Un tentativo di furto in appartamento a Napoli non è una cosa rara. E ancora più frequente è che venga rubato qualcosa da un’auto lasciata in sosta dove non c’è grande movimento di passanti. Però se la casa e l’auto appartengono a calciatori del Napoli o alle loro mogli, e se quei calciatori sono al centro di una contestazione diventata all’improvviso incandescente, allora il discorso cambia. Più che fatti di microcriminalità quei furti — tentati o riusciti — possono diventare messaggi. Ed è questo che vuole capire il pool reati da stadio della Procura di Napoli, coordinato dal procuratore aggiunto Sergio Amato, al quale il capo dell’ufficio, Giovanni Melillo, ha affidato il coordinamento delle indagini sull’effrazione avvenuta la scorsa settimana in casa del centrocampista brasiliano del Napoli Allan, e sul furto dell’impianto stereo e del navigatore dalla Smart della moglie di un altro centrocampista azzurro, il polacco Piotr Zielinski. L’altra mattina la signora Laura aveva portato il suo labrador a correre sulla spiaggia di Varcaturo, non lontano dal quartier generale del Napoli a Castel Volturno. Quando è tornata alla sua auto ha trovato il finestrino destro sfondato e l’interno visibilmente danneggiato. Può essere stata opera di comunissimi ladri, ma la coincidenza, con il clima che si respira intorno alla squadra resta inquietante, tanto più se le coincidenze sono due. Che ci siano gruppi di tifosi mobilitati contro i calciatori dopo la decisione dell’intera squadra di boicottare il ritiro deciso dalla società, è chiaro dalla scorsa settimana. Il cosiddetto ammutinamento c’è stato una settimana fa, dopo il pareggio in Champions con il Salisburgo. Due giorni più tardi i giocatori sono stati accolti al San Paolo, dove era in programma un pressoché inedito allenamento aperto al pubblico, da striscioni e cori ostili, e altri striscioni sono comparsi poi in vari punti della città. Chi, per attività investigativa, conosce le dinamiche delle curve non si sorprende: ormai il rapporto tra calciatori e certi gruppi ultrà è diretto. Non necessariamente di amicizia o di frequentazione, ma attraverso i social. E in momenti di crisi ci vuole un attimo a passare dal messaggio virtuale a quello reale, anche minaccioso. Ciò che in parte sorprende, invece, è che chi oggi attacca i giocatori, insultandoli in allenamento e fischiandoli in partita, abbia preso a farlo non quando il Napoli ha iniziato a deludere dimostrandosi inadeguato alla corsa scudetto (e cioè almeno da quattro giornate di campionato), ma quando la squadra ha disobbedito agli ordini del presidente De Laurentiis. Sorprende perché tra il padrone del Napoli e certi tifosi non è mai corso buon sangue, e le critiche più pesanti sono sempre state contro di lui. Ora, seppure restando sempre distanti, si ritrovano dalla stessa parte: quella di chi contesta le scelte dei giocatori.
Monica Scozzafava per il “Corriere della sera” il 12 novembre 2019. Quando sono le donne ad avere paura, la soglia di allarme si innalza, prelude a un punto di non ritorno. Al diavolo le ribellioni dei giocatori, il tifo è andato oltre: ha turbato le lady del calcio, le signore belle e ricche che tutti invidiano. Trema Thais Marques, moglie di Allan, incinta al settimo mese, che ha scoperto i ladri che rovistavano nella camera dei suoi bambini. Li ha messi in fuga, poi è crollata. Si è trasferita in un albergo e medita di tornare in Brasile. La strategia del terrore è nelle strade di Napoli. E così anche un ragazzino che aspetta per un autografo è un potenziale pericolo. Laura Slowiak, la signora Zielinski ha trovato la sua auto danneggiata, ora vuole andare via. La «capitana» Genny Insigne ha lasciato la sua casa con vista sul Golfo, per trasferirsi dai genitori. Suo marito è stato bersaglio di insulti e fischi. Il cuore di tutte spinge alla fuga, e ora anche la ragione.
Mimmo Malfitano per la Gazzetta dello Sport il 13 novembre 2019. La questione, adesso, è nelle mani della Procura napoletana. C' è il sospetto che dietro il tentativo di furto in casa Allan e quello riuscito, invece, ai danni della moglie di Piotr Zielinski (asportato dalla sua Smart il blocco radio-navigatore satellitare, dopo aver sfondato il finestrino), ci possa essere un denominatore comune, ovvero, la mano di qualche delinquente legato al tifo napoletano. Il coordinamento dell' inchiesta è stato affidato al procuratore aggiunto, Sergio Amato, del pool specializzato in reati collegati a manifestazioni sportive, che ha delegato gli approfondimenti ai pm Stefano Capuano e Danilo De Simone. Non è escluso che dopo aver letto gli atti, gli inquirenti possano valutare la possibilità di ascoltare le vittime. In pratica, si suppone che quanto accaduto ai due giocatori possa, in qualche modo, essere collegato agli eventi che hanno caratterizzato l' ultima settimana del Napoli. Sette giorni che, difficilmente, l' ambiente riuscirà a dimenticare in fretta: troppe le tensioni vissute, che vanno dall' insubordinazione contro il provvedimento del ritiro imposto da Aurelio De Laurentiis, alla prestazione poco convincente contro il Genoa per chiudere la settimana con i due episodi di cronaca nera. In tutti i casi, nulla potrà mai giustificare questi atti di violenza e di violazione dell' intimità dei giocatori. Insigne e compagni stanno vivendo giorni difficili, quelli più fortunati, compresi il capitano, sono lontani, impegnati con le rispettive nazionali: ne sono 13 quelli in giro per il mondo. A Castel Volturno si sono presentati, ieri pomeriggio, tutti gli altri per riprendere gli allenamenti dopo due giorni di riposo concessi dall' allenatore. Ad accoglierli c' era Carlo Ancelotti, anche lui scosso per quanto successo a Allan e Zielinski. Una riguarda il tentativo di furto in casa Allan. Dall' informativa dei carabinieri della compagnia di Pozzuoli, s' è appreso che nel corso dei sopralluoghi, sono state rilevate alcune impronte di scarpe sulle lenzuola dei lettini dei due bambini del calciatore. Si è saputo pure che la moglie del giocatore non era in casa, dove era presente, invece, la tata insieme ai due figli della coppia brasiliana, che non ha udito alcun rumore sospetto. L' informativa ha confermato che i ladri si sono introdotti in casa attraverso la cameretta dei bambini e hanno provato a più riprese a forzare la cassaforte. Probabilmente, qualche rumore proveniente dal piano inferiore li avrà convinti a mollare e a darsi alla fuga. Sono giorni difficili per le signore del Napoli. Dopo le vicende Allan e Zielinski, la paura s' è diffusa tra le compagne dei calciatori. Laura Slowiak, moglie di Zielinski, è volata in Polonia insieme col marito che ha risposto alla convocazione della nazionale. Da sola non è voluta restare nella villa di Varcaturo, località a nord di Napoli, dove fino a qualche mese fa ha vissuto pure Arek Milik. Anche l' attaccante polacco fu rapinato, nell' ottobre 2018, all' esterno della propria abitazione, di rientro da un partita, da due malviventi che l' attendevano a bordo di una moto di grossa cilindrata. In quell' occasione, il giocatore era insieme alla compagna e uno dei due rapinatori lo costrinse a sfilarsi il Rolex che portava al polso. Poco meno di un minuto, poi via di corsa nelle stradine buie. In attesa che la tensioni sia allenti un po' e che si possa ritornare alla normalità, Thais Allan, incinta del terzo figlio, ha deciso di trasferirsi in albergo dove si sente più protetta. Una situazione che crea imbarazzo, oltre alla vergogna per come sta evolvendo la questione. Giocatori impauriti, ostaggi di una delinquenza che non conosce ostacoli. Nemmeno più la presenza di bambini riesce a frenare l' istinto criminale. Genny Insigne, con i suoi due bambini, ha lasciato la casa sulla collina di Posillipo per tornare a casa dei genitori, a Frattamaggiore, vicino a Napoli. «Voglio precisare che non ho paura di vivere nella mia città. Vado sempre a trovare i miei genitori. Nessun caso, dunque», ha dichiarato la signora Insigne al Napolimagazine. Può darsi, ma l' impressione è che Genny abbia riempito qualche valigia e si è trasferita dai genitori in attesa che il marito ritorni dalla nazionale. Incredibile, ma vero. Tutto quanto accaduto negli ultimi sette giorni avrà sicuramente delle conseguenze drastiche. Un esempio è proprio quello di Piotr Zielinski. Il centrocampista della nazionale polacca, in questo periodo, sta discutendo il rinnovo del contratto. Dopo l' episodio malavitoso subito dalla moglie, pare che non sia più disposto a restare e a fine stagione potrebbe chiedere, addirittura, di essere ceduto. Un' ipotesi inquietante, che renderà ancora più complicato il mercato prossimo: quanti giocatori saranno disposti a trasferirsi in una città dove nessuno potrà mai garantire loro la sicurezza? Il futuro del Napoli già si annuncia in salita.
Arnaldo Capezzuto per ladomenicasettimanale.it il 17 novembre 2019. Carta igienica con il volto di Lorenzo Insigne. Accade a Napoli e l’iniziativa trova molti acquirenti. Accanto ai rotoli dedicati alla Juventus ora c’è anche il capitano azzurro. Per i tifosi partenopei il fatto che un grande Lorenzo Insigne abbia trascinato l’Italia verso la decima vittoria consecutiva contro la Bosnia, non si significa niente. Un record nella storia della nazionale per l’allenatore Roberto Mancini mentre per il calciatore azzurro forse solo una magra consolazione. Il capitano del Napoli è nella bufera. I tifosi sono inferociti con lui tanto da fischiarlo nel corso degli allenamenti e in campo. Addirittura si era diffusa la voce, poi prontamente smentita, che addirittura la moglie avesse lasciato la città per ragioni di sicurezza. I tifosi del Napoli accusano Lorenzigno di non comportarsi bene e di essere stato l’istigatore della rivolta dello spogliatoio contro la società e l’allenatore che ha sancito l’abbandono della squadra del ritiro di Castel Volturno. In nazionale però Insigne dimostra di essere un campione mentre con il Napoli appare svogliato, deconcentrato e di non volersi adattare al gioco di Carlo Ancelotti. I tifosi azzurri sono stanchi e sembrano ormai disaffezionati al loro capitano a tal punto da dedicargli la famosa carta igienica. Proprio così, sui rotoli alla stregua dei tanto odiati juventini è comparso il volto di Lorenzo Insigne. Un brutto segnale. Significa che l’amore tra i sostenitori del Napoli e Lorenzo Insigne sia davvero finito.
"Educazione" all'italiana. Il bestiario della serie A dal Napoli a Conte e CR7. Critiche ai datori di lavoro, ammutinamenti, capricci, parolacce. Si salvano Gotti e Udinese. Domenico Latagliata, Mercoledì 13/11/2019 su Il Giornale. Giorni surreali. Quelli vissuti dal calcio italiano. Che un po' matto lo è sempre stato, ma che ultimamente sembra avere perso quel po' di bussola che era rimasta. È successo un po' di tutto, in effetti. Senza un esempio positivo che fosse uno, a ben vedere. Scene isteriche, ribellioni, ammutinamenti, aggressioni e via di questo passo. Un mondo nevrotico, sull'orlo di una crisi di nervi. E magari già oltre. Con Ronaldo - numero uno o due del mondo: cosa cambia? - a dare il cattivo esempio uscendo dal campo senza rispettare l'allenatore: pessimo messaggio, da qualunque lato lo si guardi, lanciato ai milioni di fans che lo seguono e lo idolatrano. Tra questi, milioni di ragazzini e adolescenti: i quali magari nei prossimi giorni saranno tentati dall'imitarne non un gesto tecnico, ma la maleducazione ostentata da parte di chi ieri, in attesa di scendere in campo per le gare valide per la qualificazione agi Europei, si è allenato regolarmente con il Portogallo. Non che, in quanto a bon ton, avesse fatto meglio pochi giorni prima Antonio Conte, sfogatosi platealmente davanti ai microfoni accusando il proprio (munifico) datore di lavoro: in una qualunque azienda del mondo reale sarebbe stato messo alla porta. Nel calcio, no. Insomma: beato lui, lautamente pagato (11 milioni l'anno) e nemmeno rimproverato in pubblico da Marotta. E c'è stato parecchio altro. I buu razzisti contro Balotelli, per esempio: impossibile dimenticarli, così come sono state pessime le reazioni giustificative del sindaco di Verona e di alcuni politici di spicco. Risultato: le solite frasi fatte, una squalifica parziale della curva del Bentegodi e nulla di davvero concreto all'orizzonte. Tra qualche giorno/settimana, saremo di nuovo punto e a capo. Sono stati anche i giorni della sceneggiata napoletana: il padre padrone De Laurentiis spedisce tutti in ritiro, Ancelotti risponde «obbedisco, ma non condivido», i suoi giocatori prima lo seguono e poi - dopo la partita di Champions - se ne tornano a casa con aria strafottente. Di lì in avanti, altra escalation di comportamenti decisamente non oxfordiani: insulti social alla moglie di Allan, ladri nell'abitazione, bambini spaventati (e ci mancherebbe), furto con scasso all'auto di Zielinski e clima a dir poco teso. Al punto che, con i mariti in giro per il mondo causa nazionali, alcune mogli dei calciatori hanno preferito lasciare le rispettive abitazioni per rifugiarsi altrove. Mentre il Daily Mail scrive che la famiglia Al-Thani sarebbe pronta a investire 560 milioni per acquistare la maggioranza del club (per ora nessuna apertura di ADL). In un panorama del genere, va registrato anche il «no grazie» di Luca Gotti. Pronunciato quasi sottovoce. Comunque con classe. Via Tudor, l'Udinese gli ha chiesto di prenderne il posto abbandonando il posto di vice: lui ha accettato temporaneamente, battendo il Genoa in trasferta e pareggiando in casa contro la Spal. I Pozzo gli hanno proposto di arrivare fino a fine stagione, lui continua a pensare che sarebbe meglio tornare nell'ombra: contro la Samp, però, la panchina sarà ancora sua. «Obbedisco», ha risposto educatamente. Almeno lui.
Icardi il punto di svolta: i giocatori del Napoli, Conte e Ancelotti adesso sono aziende e non più dipendenti. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Mario Sconcerti. In qualsiasi azienda sarebbero stati licenziati per il feroce sfogo e aver rifiutato il ritiro, ma il calcio segue altre logiche. Sono molto gravi per forma e sostanza i due casi Conte e Napoli, ma prima di entrare nello specifico bisogna passare da un’evidenza generale. Entrambe sono prosecuzioni del caso Icardi, nel senso che stanno rapidamente cambiando lo status di un tesserato del grande calcio. Non più lavoratore subordinato come dice la legge 91 del 1981, ma ormai aziende altre che si attribuiscono gli stessi diritti dell’azienda madre. Quando l’Inter in pieno litigio con Icardi accettò la mediazione di una figura esterna, un avvocato, sancì il diritto a un dialogo alla pari. Lì è cominciato un altro calcio, quasi completamente da riscrivere e fuori dalle leggi sportive. Non torneremo più indietro, quello che adesso ci sembra grottesco ci è già passato sotto il naso decine di volte e non ce ne siamo accorti perché per noi il calcio è solo passione, non vogliamo ragioni come la vita. Ma oggi sta diventando difficile, cioè punibile, perfino tenere in panchina un giocatore o anche solo cambiargli ruolo perché lo danneggi nella sua valutazione di mercato. Non escludo affatto che l’aria a Napoli sia diventata irrespirabile proprio per i continui esperimenti di Ancelotti in un momento in cui sono sette-otto i contratti in scadenza. Se non giochi nel tuo ruolo ci sono più possibilità che giochi male. Non si possono chiedere aumenti quando si rende meno. La disponibilità ha un prezzo, perfino mantenersi sani lo ha. Ma se sono disponibile a tutto, mi infortuno più facilmente. E valgo meno. Sono regole inaccettabili che nel calcio fanno giurisprudenza. Cosa avrebbe da dire il codice civile? A chi darebbe ragione? I ritiri sono evidenti violazione di qualunque privacy. Se sbaglio hai il diritto di punirmi ma non puoi farmi prigioniero. D’altra parte una multa di 20 mila euro per ritardi agli allenamenti è un prezzo normale. È tutto così evidente, così primitivo, paradossale, che i primi «no» al sistema stanno facendo cadere tutto. A Conte oggi si perdona ogni eccesso perché è un grande allenatore, ma a Dortmund ha letteralmente fatto un’assemblea contro la propria società. Durissima e scomposta. Chiunque di noi in qualunque azienda sarebbe stato oggi pesantemente ripreso se non licenziato. Siamo vicini alla giusta causa. Una rivolta isterica consumata senza una spiegazione sulla partita persa, un parere su come l’Inter abbia potuto prendere tre volte lo stesso gol in 20 minuti. Forse per Conte la pressione di una città aperta ed esigente come Milano è troppa. Forse è troppo che l’Inter non vince e Conte non regge la sua voglia. Ma siamo oltre la crisi di nervi. Qui la società non ha il diritto di intervenire, ha il dovere. Altrimenti fa un danno a se stessa, alla squadra e a qualunque gestione futura.
· Ancelotti 60.
Ancelotti 60. Da profilo facebook di Marino Bartoletti il 10 giugno 2019. Oggi compie 60 anni un uomo vero, un grandissimo giocatore, uno straordinario allenatore. E certamente un amico! Mi fa un po’ sorridere chi critica Carlo Ancelotti: quasi sempre dal basso della propria inadeguatezza (ignoranza? Frustrazione? Invidia?) nel pretendere di ergersi a suo giudice. Me lo fece conoscere Cesare Maldini un secolo fa, quando lo lanciò - giovanissimo - in un primo piccolo Parma dei miracoli (il centravanti era Ariedo Braida, il portiere Lamberto Boranga). Il resto è storia (e gloria) nota: ed è tutto su Wikipedia! Non voglio parlare delle cose “viste” (e inconfutabili). Ma ricordare, per esempio, che se le ginocchia non l’avessero tradito sarebbe stato Campione del Mondo nel 1982 avendolo Enzo Bearzot, che lo stimava moltissimo, fatto esordire (prima partita primo gol) nel Mundialito di due anni prima. Che a parte i due successivi Mondiali nei quali sarebbe poi stato convocato come calciatore, la sua storia azzurra ebbe un “senso” preziosissimo quando fu vice del suo maestro Arrigo Sacchi in USA ’94, spesso aiutandolo - col buon senso - a contenere qualche eccesso ideologico (e Dio solo sa quando gli sarebbe stato utile ai successivi Europei del ’96). Ha vinto tutto. Ma proprio tutto! Non con la Juventus, che pure gli aveva dato una grande opportunità. Venne accolto da tifosi scellerati con l’epiteto di “porco” (per l’esattezza con lo striscione “Un maiale non può allenare”!). Lui rispose - da orgoglioso figlio di contadini - che il maiale è “un animale nobilissimo” Per andare al Napoli e accettare la più originale e forse coraggiosa delle sfide probabilmente ha detto di no alla Nazionale .E’ uno spacciatore di serenità. Auguri “Bimbo”.
Ivan Zazzaroni per Corriere dello Sport il 10 giugno 2019. Con FaceTime mi mostra una parte della villa. Lui è a Vancouver, io a Roma. Lui nel suo paradiso privato sull’Oceano Pacifico, io nell’infernale temperatura della capitale. Mariann, la moglie, toglie le foglie cadute lungo il bordo piscina. Protagonisti della videochiamata sono soprattutto i loro due cani. Le sette del mattino nella Columbia Britannica, le quattro del pomeriggio in Italia, Carlo Ancelotti è sveglio da un’ora, è il suo ultimo giorno da cinquantanovenne. «Mi sento alla grande, qui mi restauro. Bici, piscina, lunghe camminate. Riesci a vedere quella striscia di terra laggiù in fondo? Quella è Vancouver, siamo a un quarto d’ora di macchina. Sì, sto alla grande - ripete -, a tavola mi trattengo, ho imparato a farlo, me lo sono imposto il secondo anno a Londra quando stabilii il record del peso, e non si trattava di un lancio».
Spiegati meglio, anche se temo di aver capito.
«La bilancia segnò 101 chili e settecento, luglio 2010. Adesso sono 87, non seguo un regime, rinuncio. Togliendo una quindicina di chili sono riuscito a evitare almeno temporaneamente le protesi alle ginocchia. Hanno resistito a sei interventi, crociati, menisco, uno strazio. Quando mi alzo dal letto le sento scrocchiare paurosamente. Tipico dei calciatori della mia epoca e di quelle precedenti. Anche Capello ha le protesi, e Ottavio Bianchi. Carichi pesanti, balzi, zero prevenzione, ti pagavano soltanto se giocavi e allora scendevi in campo anche quando avresti fatto meglio a restare a letto».
Sei uno che guarda sempre avanti, che si aggiorna costantemente, tuttavia i sessanta sono un traguardo che autorizza qualche bilancio.
«Non li amo, i bilanci, conservo i ricordi, le mie figure fondamentali».
Da chi partiamo?
«Da Liedholm, che si prese cura di me, mi aveva voluto lui, mi insegnò un sacco di cose, anche a stare al mondo. Prima di lui Giorgio Visconti, il mio allenatore negli allievi del Parma, e Bruno Mora. I suoi racconti uno spettacolo, diciamo che fuori dal campo era un discoletto, ma sul campo un maestro, mi insegnò a muovermi, a fare delle scelte. Mi raccontò anche che per giocare titolare menò di brutto un compagno di squadra in allenamento, e lo ruppe. Visconti era stato un buon centrocampista nel Bologna. Tra i giocatori mi viene in mente Mongardi, ex dell’Atalanta, della Spal. Tutta gente alla quale devo tanto. Fino ad Arrigo, il numero uno. Righe ci ha aperto gli occhi, è stato un innovatore, in particolare nella preparazione. Non mollava mai e ancora oggi non molla, è sempre prodigo di consigli, dopo ogni partita arriva la sua telefonata. “Carlo, l’esterno stava un po’ troppo largo”. Ma l’esterno era Ronaldo, Arrigo, lascialo largo, lascialo stare dov’è. Per lui non esiste Ronaldo o un altro, un esterno è un esterno e deve rispettare il copione»…(...) Fino a dicembre la squadra è andata benissimo, se in Champions non avessimo trovato il Liverpool nel girone saremmo passati tranquillamente. Alla ripresa qualcuno è calato e solo nella fase finale ci siamo ritrovati. Il primo anno è stato di transizione. Ora la fionda è tirata e pronta a colpire...
Come giudichi l’atteggiamento di numerosi tifosi del Napoli che considerano un tradimento il passaggio di Sarri alla Juve?
«Il legame tra Sarri e i napoletani è stato molto forte, così come la sua adesione al progetto e alla napoletanità. È comprensibile che qualcuno lo viva male, ma Sarri è un professionista e a volte il mestiere ti porta a fare scelte che disorientano».
· Trapattoni ne fa 80.
"NON DIRE GATTO SE…"! I GLORIOSI 80 ANNI DI TRAPATTONI: “NON HO RIMPIANTI, VIVO ANCORA DI SOGNI” di Gaia Piccardi e Daniele Dallera per il Corriere della Sera il 17 marzo 2019.
Viale dei Tigli, Cusano Milanino. Al campanello del Trap, alla vigilia dei suoi gloriosi 80 anni, risponde un giovanotto con gli stessi occhi chiari e vivaci.
«Sono Riccardo, il nipote di Giovanni». È a lui, figlio della figlia Alessandra, che l' uomo dei mondi ha affidato le relazioni pubbliche in questa stagione della vita in cui ha scelto di fare il nonno. Le risposte di Giovanni Trapattoni per interposto nipote sono, per questo motivo, ancora più belle e preziose.
Un voto ai suoi 80 anni, caro Trap?
«Quando arriverò ai 90 ve lo potrò dire! A parte le battute, mi ritengo fortunato per la vita che ho vissuto, sia in campo che fuori dal campo. Non potevo sperare di meglio».
La vittoria più emozionante di tutte?
«Ogni trofeo ha portato con sé emozioni fortissime e uniche. Tutt' ora, quando li riguardo, ritorno indietro con la memoria a quelle bellissime esperienze. Più che la singola vittoria, però, oggi mi emoziona l' insieme di quello che è stata la mia carriera, sconfitte comprese».
Quella che brucia di più?
«Italia-Corea del Sud 1-2, Mondiale 2002, con il celebre arbitraggio di Byron Moreno. Non ce la meritavamo».
L' acqua santa in panchina potè poco in Corea: lei che da sempre è molto cattolico, che rapporto ha oggi, a 80 anni, con Dio?
«Lo stesso che avevo in passato: vado ogni domenica a Messa con mia moglie e ringrazio ogni giorno per la salute e la fortuna che mi sono state concesse».
Dal settembre 2013, chiuso con l' Irlanda, non ha più allenato: perché?
«Perché le proposte che mi arrivavano erano da Paesi molto lontani e mia moglie non era d' accordo».
A proposito: ci racconta il primo incontro con Paola Miceli, all' Olimpiade 1960?
«Tutto iniziò con un bicchiere di vino nella cantina dei nonni di Paola. Fu amore a prima vista, ma eravamo giovani e timidi e ci volle l' aiuto dei miei compagni per farci coraggio. 59 anni fa! L' inizio di una splendida avventura. Devo dire che il tempo, di fianco a quella bellissima ragazza, è volato».
La più grande virtù della signora Paola?
«La pazienza di avermi sopportato e supportato in ogni mio spostamento. Senza di lei non avrei raggiunto la maggior parte dei miei successi».
Paola è stata la sua vice più valida, quindi.
«Direi proprio di sì. È lei che mi ha sempre tenuto con i piedi per terra».
L' avvocato Gianni Agnelli alla Juve era solito chiamare all' alba: qual è la telefonata, tra tante, che ricorda con più vividezza?
«Era il 1993 e in quella telefonata l' Avvocato mi annunciava il suo ritiro e il passaggio del testimone al fratello Umberto. Quel messaggio indicava la fine del ciclo che avevamo costruito insieme ad Agnelli e Boniperti. Era ora di farsi da parte».
La terribile notte dell' Heysel, 29 maggio 1985: potendo tornare indietro, avrebbe fatto qualcosa di diverso?
«Credo che ognuno di noi, potendo tornare indietro, avrebbe cercato di impedire la tragedia prima che accadesse.Tuttavia, con il senno del poi non si risolvono queste cose.
Si riaprono soltanto le ferite.
Ogni commento è superfluo di fronte al dramma».
Come passa le giornate oggi il Trap?
«Mi godo finalmente un po' di tranquillità con mia moglie e i miei familiari. Passo il tempo come tanti altri nonni e ne sono orgoglioso».
Riesce ancora ad emettere quei fischi potentissimi con due dita in bocca?
«Come no! Potete controllare su Instagram. Quando i miei nipoti mi chiedono di fischiare, si tappano le orecchie!».
Grazie all' aiuto di Riccardo si muove con talento anche sui social.
«Lascio giudicare i lettori. Io penso sia molto bello il fatto di poter essere in contatto diretto con così tante persone che ti ricordano con affetto.Devo dire grazie a mio nipote Riccardo per avermi fatto scoprire questo mondo. In questo caso lui è il professionista e la mente creativa, mentre io sono il discepolo che apprende. Spero che possa trovare un ambiente lavorativo che sappia valorizzare le sue idee».
Un uomo non è vecchio finché i rimpianti non sostituiscono i sogni: lei vive di rimpianti o sogna ancora?
«Non ho nessun rimpianto. Sono in pace con il mio passato e con i miei errori. Non mi sono mai tirato indietro nell' assumermi le mie responsabilità. Anche se ho 80 anni, guardo avanti e sogno ancora.
Ritengo di poter ancora dare un mio contributo».
La famosa marcatura che annullò la leggenda Pelè: verità o mitologia?
«Nell' amichevole del '63 Italia-Brasile 3-0 Pelè non era sicuramente al top della forma. Quando invece lo incontrai nella partita Milan-Santos per la Coppa Intercontinentale, la storia fu diversa: Pelè era un giocatore di un' altra categoria rispetto a me».
Il mestiere dell' allenatore, 40 anni tra Italia, Germania, Portogallo, Austria e Irlanda: il bello e il brutto?
«Il bello è quando riesci ad ottenere il massimo con i tuoi ragazzi. Il brutto le sconfitte che ritieni immeritate».
Cristiano Ronaldo o Leo Messi, il meglio del calcio moderno: chi sceglie?
«Semplice, non scelgo. Sono entrambi fuoriclasse».
Se guarda i giovani, è preoccupato per il loro futuro?
«Come potrei non esserlo?
Basta aprire il giornale o accendere la televisione per capirlo. Mi preoccupa il fatto che in Italia stiamo deludendo le speranze dei ragazzi, per non parlare dell' impatto dei problemi ambientali che dovranno affrontare... Confido in una svolta e nelle loro potenzialità».
È l' anno della Champions alla Juve, finalmente?
«Me lo auguro! Sarebbe un modo per ridare fiducia a tutto il calcio italiano».
Tra 100 anni come vorrebbe essere ricordato nella storia del calcio e d' Italia, carissimo indimenticabile Trap?
«Vorrei essere ricordato per la persona che sono stato, con tutti i miei pregi e difetti. Mi auguro di esser riuscito a trasmettere dei sani valori».
Luca Taidelli per la Gazzetta dello Sport il 17 marzo 2019. Ottant' anni nel giorno del «suo» derby. Un segno del destino per Giovanni Trapattoni, uno dei più grandi allenatori di un Paese in cui ognuno si crede allenatore. Visto che la moglie ha minacciato di chiuderlo in casa e buttare la chiave in caso di nuove velleità da panchina, il Trap si è reinventato teenager e, complice il nipote Riccardo, ora si lancia sui social. Non allena dal settembre 2013 e da tre anni ha smesso anche di fare il commentatore tecnico, eppure il pallone è sempre l' ombelico del suo mondo: «Passo il tempo con la mia famiglia, porto a spasso Sveva, la mia ultima nipotina di 3 anni, e guardo le partite da spettatore. Da quando sono sui social poi sono tornato in contatto con svariati miei ex calciatori. Sono diventato un loro follower e mi diverto a seguire i loro post e le loro storie. Quella multimediale è un' esperienza inaspettata alla mia età. Ho imparato che i social sono estremamente veloci e non perdonano gli errori, ma dall' altro lato mi permettono di raccontare una parte della mia vita e delle mie esperienze. Mi emoziono spesso quando leggo i messaggi di affetto che ricevo. E poi ammetto che mi diverte molto passare il tempo con mio nipote per girare i video, scattare le foto e preparare i post. Mi fa sentire un attore. Quel che è certo è che senza di lui, "giovanni_iltrap" (il suo profilo Instagram, ndr.) non sarebbe mai apparso». Dalla scena su Strunz al «non dire gatto se non ce l' hai nel sacco»,Trap di fatto è un precursore degli influencer. «Non esageriamo anche perché non è mai stata una mia intenzione. Oggi però mi piacerebbe riuscire a trasmettere dei valori alle giovani generazioni. E comunque a 80 anni ricevo ancora proposte di questo tipo perché mi vedono come un team leader spontaneo e convincente». E chissà come si sarebbe adeguato ai tempi. I telefonini per esempio hanno invaso gli spogliatoi... «Chiuderei tutti i cellulari nel cassetto, sequestrati - tuona il Trap -! Giocare a certi livelli comporta una soglia di concentrazione altissima. Nessuna distrazione!» Ottant' anni di vita e 56 di carriera valgono mille ricordi. Difficile distillare i più belli e quelli più dolorosi: «L' onore più grande è quello di aver rappresentato l' Italia sia in campo sia in panchina. E poi tutte le vittorie ottenute con le squadre che ho allenato, in patria e all' estero. La sconfitta che fa ancora male? Italia-Corea del Sud, ottavo di finale del Mondiale 2002, rimane un bel sassolino nella scarpa.... Certo, anche quell' eliminazione quando ero c.t. dell' Irlanda nello spareggio per il Mondiale 2010 per un gol di mano di Henry non è stata facile da digerire. Se l' ho perdonato? Si, non sono il tipo che porta rancore verso qualcuno». Eppure se ci fosse stata la Var la storia avrebbe preso un altro corso... «Col senno di poi tutto è più facile. Quel gol l' avrebbero annullato e saremmo andati al Mondiale. Di sicuro la Var rende più giustizia al gioco del calcio. Ed è inutile continuare a lamentarsi del progresso tecnologico nello sport». Veniamo al calcio giocato. Trap si aspettava la rimonta della Juve con l' Atletico? «In ogni gara di Champions tutto può succedere. Ero fiducioso, la squadra è stata bravissima a gestire la situazione. A questo punto ogni gara ha il sapore della finale. Senza sottovalutare l' Ajax». Ronaldo martedì scorso è sembrato un marziano, ma Giovanni da Cusano Milanino ne ha viste troppe per metterlo su un podio all time: «Lui è un fuoriclasse e come tale lo colloco insieme a tutti i grandi campioni del passato. Lo stesso vale per Messi. La Juve in Italia ha creato un monopolio e non è facile prevedere chi e quando potrà interromperlo». Di certo anche quest' anno non ci riusciranno Inter e Milan, che però stasera si giocano una bella fetta di Champions in un derby che il Trap ha vissuto da protagonista ben 33 volte. «Quelli che ricordo con più piacere sono, da giocatore, il primo, del 24 febbraio 1963, finito 1-1. Mazzola segnò dopo soli 13 secondi, poi Rocco mi mise a marcarlo a uomo e feci il mio dovere. Quell' anno è stato il migliore della mia carriera: a maggio marcai Pelé in Nazionale ed Eusebio nella Coppa dei Campioni, vinta battendo 2-1 il Benfica. Da allenatore invece quello dell' 11 dicembre 1988: 1-0 con gol di Serena nella stagione dello scudetto nerazzurro dei record». E questo Milan-Inter invece come lo vede? «Interessante e imprevedibile, anche se il Milan sembra più solido e l' Inter, oltre all' effetto Icardi, potrebbe pagare l' impegno di giovedì scorso in Europa. Sono felice che il derby coincida con il mio ottantesimo compleanno. Tiferò per entrambe perché tutte e due hanno fatto parte del mio passato e sono nel mio cuore. I due tecnici? Stimo entrambi. Non ti siedi su quelle panchine per caso. Gattuso ha grinta e dovrà essere bravo a trasmettere ai suoi lo spirito dei derby affrontati da giocatore. Spalletti saprà toccare i tasti giusti dopo l' eliminazione dall' Europa». Soprattutto, non dire derby finché non l' hai nel sacco.
· Quando gli allenatori "marcano visita".
Quando gli allenatori "marcano visita". Giorgio Coluccia per “il Giornale” il 21 agosto 2019. L' ignoto è il peggior nemico dell' allenatore. Se poi l' ignoto è una malattia, più o meno grave, che si presenta all' improvviso, devi batterla a tutti i costi. Gli urlacci dalla panchina non bastano, quell' avversario non lo studi su una lavagnetta. Non sai nemmeno quanti gol di svantaggio devi recuperare. Di certo in campo ci vanno i giocatori, chiamati a una doppia vittoria, per la gloria di squadra, ma anche per il loro condottiero impegnato in una battaglia personale. Sabato ricomincia la Serie A e due squadre saranno temporaneamente orfane dei loro tecnici. Il Bologna, di scena a Verona senza Sinisa Mihajlovic (in ospedale per sconfiggere la leucemia) e la Juve, a Parma priva di Maurizio Sarri, colpito da polmonite. Ci vorranno almeno due settimane e potrebbe saltare pure il match contro il suo Napoli alla seconda giornata, è quanto fin qui emerso. Ci sono anche queste avversità, come se la vita dell' allenatore, ben remunerata s' intende, non riservasse già tante trappole. È sempre il primo a pagare per tutti, deve fallire il meno possibile e anche quando vince non ha poi tanto da festeggiare perché la partita più importante rimane la prossima. Uno spietato circolo vizioso che a inizio anni Duemila costrinse un guru come Arrigo Sacchi a troncare la carriera. Era sopraffatto non da un male, bensì da un malessere, da un cortocircuito partito dalla testa e contagioso per tutto il corpo. Era stress eccessivo, descritto dall' ex tecnico come «un tarlo, quel tarlo del perfezionista che prima lo senti come alleato, ma poi diventa nemico». Ed è stato un allenatore in battaglia anche John Kirwan, ala degli All Blacks ed ex ct dell' Italrugby, chiamato a scacciare via il tormento della depressione, un abisso profondo raccontato da lui stesso nella toccante biografia «Gli All Blacks non piangono»: è finita con un successo, perché «vinci quando sfrutti la malattia per migliorarti. E io ora sono un uomo e un coach migliore». Un allenatore è sempre acceso, si ferma solo quando è costretto, ossia licenziato. Se c' è una malattia questa diventa solo uno stimolo in più, come scritto due giorni fa nella lettera in cui David Blatt ha annunciato di essere affetto da sclerosi multipla progressiva. Ma non lascerà il basket, continuerà a essere sul parquet alla guida dei greci dell' Olympiacos. Alla stregua di Oscar Tabarez, il ct dell' Uruguay ex di Cagliari e Milan, da diversi anni alle prese con la sindrome di Guillain-Barrè. Dirige gli allenamenti su una sedia a motore, in panchina ci va con la stampella, quella che durante il Mondiale di un anno fa lasciò cadere di colpo per esultare al gol decisivo di Gimenez contro l' Egitto. Un urlo di liberazione, simile a quello dei giocatori del Siviglia che due stagioni fa in Europa League rimontarono il Liverpool da 0-3 a 3-3. Gli spagnoli sfoderarono un secondo tempo epico, dopo che all' intervallo il tecnico Toto Berizzo aveva ricordato ai suoi della propria battaglia: «Ho un cancro alla prostata, fatelo per me». È questione di antidoto, un mix di motivazioni e impulsi. Perché dietro a ogni sportivo c' è pur sempre un uomo.
· Quei grandi allenatori che a volte ritornano.
Quei grandi allenatori che a volte ritornano. Ma non sempre le storie finiscono in gloria. Pubblicato lunedì, 11 marzo 2019 da Corriere.it. L’Avvocato Gianni Agnelli le bollava come «minestre riscaldate», però di ritorni vincenti, ad alti livelli, ce ne sono stati tanti, come pure di flop. Per Zinedine Zidane, che ha messo in fila tre Champions consecutive, eguagliare se stesso sarà un’impresa quasi impossibile, ma ricominciare ad amarsi dopo un divorzio può riservare soddisfazioni. La stella polare è il tedesco Joseph Heynckes, ex allenatore del Bayern Monaco. Non un nome entrato nell’immaginario dei tifosi, ma il 73enne tecnico tedesco un posto nell’olimpo del pallone l’ha guadagnato vincendo due Champions, una proprio con il Real e l’altra con i bavaresi. Al Bayern, tra andate e ritorni, è passato quattro volte. Ha vinto alla prima esperienza, ha stravinto alla terza, centrando il Triplete, ha trionfato pure prima di ritirarsi. Tornando al Real Madrid, Zidane ha bruciato José Mourinho speranzoso di risedersi sulla panchina del Bernabeu. Lo «Specialone» un felice ritorno di fiamma l’ha avuto con il Chelsea, prima di finire esonerato. Con i londinesi aveva messo in bacheca due Double (campionato e Coppa d’Inghilterra), richiamato ha di nuovo centrato il titolo. Andò bene anche a Marcello Lippi, in due momenti diversi alla Juve. Certo la prima volta è stata indimenticabile, con una collezione di scudetti e la Champions League, il massimo. Il Lippi-bis però non fu meno proficuo, portò altri scudetti (tra cui quello del 5 maggio) e risfiorò la Champions, persa in finale con il Milan. Ai rossoneri invece non parlate di ritorni, è andata male pure con tecnici leggendari. Il primo a crollare è stato Arrigo Sacchi. Dopo aver cambiato il mondo del calcio, aver riportato lo scudetto al Milan e avergli consegnato due Coppe dei Campioni, ritentò l’avventura a metà anni novanta: il risultato fu un deludente 11° posto. Finì triturato dal Milan anche un altro totem del calcio italiano, Fabio Capello. Per tre anni la sua fu una squadra imbattibile, frantumò record, vinse una Coppa Campioni. Dopo una stagione al Real fu richiamato da Silvio Berlusconi, le seconde nozze naufragarono in un 10° posto. Nessuna soddisfazione nella seconda avventura all’Inter per il c.t. della Nazionale, Roberto Mancini. Era stato lui a riconsegnare ai nerazzurri lo scudetto, dopo tanti anni. Richiamato al capezzale, il primo anno non centrò la qualificazione alle coppe, la stagione successiva finì quarto. Pure un mito come Giovanni Trapattoni, quando verso la fine degli anni 90 tornò alla Juve con cui aveva vinto tutto un decennio prima, chiuse con un triste 10° posto. Riamarsi non è poi così semplice, neanche per chi ha vissuto storie indimenticabili.
· Calcio, da Simeone a Mazzone: quando l'esultanza degli allenatori è una provocazione.
Atletico Madrid-Juventus, Capello contro Bonucci: ''Si è buttato per terra con una carezzina'', scrive Repubblica Tv il 22 febbraio 2019. Intervistato su Sky Sport al termine della partita Atletico Madrid-Juventus, terminata con la sconfitta dei bianconeri per 2-0, Fabio Capello ha attaccato Bonucci: ''Ha ricevuto una carezza e si è subito buttato a terra. In Italia siamo abituati troppo bene, appena ti fischiano fallo. Non c'era nulla e l'arbitro gli ha detto di tirarsi su''. Anche sui social decine di tweet hanno puntato il dito contro il difensore.
Champions League, Simeone e il gestaccio dopo il gol dell'Atletico, scrive Repubblica Tv il 22 febbraio 2019. L'esultanza scatenata dell'allenatore dell'Atletico Madrid dopo il gol dell'1-0 di Gimenez. Il gestaccio ha fatto in pochi minuti il giro del web. Atletico e Juventus si stavano affrontando per il match di andata degli ottavi di finale di Champions League, finito con un 2-0 per la squadra di Simeone.
Calcio, da Simeone a Mazzone: quando l'esultanza degli allenatori è una provocazione, scrive Repubblica Tv il 21 febbraio 2019. Quello di Diego Pablo Simeone durante Atletico Madrid - Juventus non è l'unico gestaccio che un allenatore rivolge verso il pubblico. Dalla storica 'corsa' di Carlo Mazzone durante Brescia-Atalanta alle provocazioni di José Mourinho, ecco alcuni fra i casi più eclatanti in cui un allenatore esce fuori dalle righe per festeggiare.
Francesco Persili per Dagospia il 22 Febbraio 2019. Come il pugno di Freddie Mercury che squarcia il cielo di Wembley. Il gesto da rocker di Simeone che si agguanta il pacco e lo esibisce al delirio del Wanda Metropolitano è più di un manifesto. “Non ce l’avevo con la Juve ma l’ho fatto per mostrare ai nostri tifosi che abbiamo i cogl… “E’ il “Cholismo” che si fa carne, spirito, orgasmo. Una sintesi iconica che brucia di passione feroce, cappotti sbagliati, sforzi non negoziabili (“successo viene prima di sudore solo sul dizionario”) e entusiasmo sbattuta in faccia a chi arriccia il nasino e piega la boccuccia in una smorfia di disgusto. È l’autografo di un’anima, non l’esultanza di un troglodita o un’esibizione di sessismo. L'argentino si era prodotto nella stessa scenetta dopo la vittoria a Bologna per 2-3 della Lazio, nell’anno dello scudetto biancoceleste e aveva replicato qualche mese più tardi al termine del famoso derby in cui Castroman segnò il gol del pareggio al 90esimo minuto. È la summa di un pensiero (verticale) che si nutre di adrenalina e carisma, sofferenza (ché “nelle difficoltà si diventa migliori”) e senso di appartenenza. Senza scomodare i tempi del Grande Torino con Valentino Mazzola che si tira su le maniche e dà simbolicamente inizio al quarto d’ora granata e a una riscossa che trascende l’aspetto sportivo, si possono richiamare le pose sciamaniche di Mourinho che mandò in sollucchero Moratti e gli interisti tutti con il gesto delle manette, lo sceriffo Capello che dà la caccia ai tifosi sul prato dell’Olimpico nel giorno del terzo scudetto della Roma, il lancio dello scarpino di Sir Alex Ferguson, il sangue di Conte per eccesso di esultanza, le testate di Radice e quelle di Spalletti (al tavolino), il lancio del cappotto di Allegri: ogni grande allenatore è un mattatore ed esprime se stesso nei gesti. Gattuso giustifica il Cholo: “Quando uno è sanguigno, può capitare”. Ancelotti che ai tempi del Real contro i materassai di Madrid vinse la “Decima” concede: “L’Atletico? Spero che possa un giorno vincere la Champions. Era un avversario tosto e continua ad esserlo”. Una squadra a immagine e somiglianza del suo allenatore. Ecco perché nel caso di Simeone, in quella strizzata di palle c’è di più, il senso profondo di una filosofia di gioco e di vita. Coraje y corazon y huevos. Coraggio, cuore e palle. Ma non solo. Organizzazione tattica evoluta (“L’Atletico fa giocare male gli avversari”, secondo il commentatore di “Sky Sport” Lele Adani) e totale indisponibilità a darsi per vinti. “Il cholismo è tutto per l’Atletico Madrid”, spiega il presidente del club Enrique Cerezo. Un canone estetico, una educazione sentimentale. La storia chi parte con i sfavori del pronostico e si trova a sovvertire una gerarchia, un destino, un finale già scritto. Con il fuoco negli occhi, lo spirito indomito e sempre lo stesso cappotto sbagliato.
Giampiero Timossi per il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2019. Evviva il «cholismo», abbasso il sessismo. Diego Simeone (detto El Cholo) è un uomo adulto di 48 anni che allena l'Atletico. Grazie alla sua idea di calcio ha strapazzato due sere fa, a Madrid, il collega Allegri e la Juventus di Ronaldo. Questo è solo (grande) calcio. Poi è bastato un istante per commettere un errore imperdonabile. Dopo il gol dell'1-0, Simeone si è rivolto al suo pubblico con un gesto che è sicuramente meno elegante del look dell'allenatore, molto «Scarface». L'abbigliamento non importa, al massimo una questione di stile. La mano portata sui genitali è sostanza, volgarità. Soprattutto dopo aver ascoltato la giustificazione dell'argentino: «Non è un gesto bello, però me lo sentivo e comunque mi scuso. L' avevo già fatto da giocatore, durante un Lazio-Bologna. L'ho ripetuto per far vedere ai nostri tifosi che abbiamo gli attributi». Sessismo, appunto. La definizione è chiara: tendenza a valutare la capacità o l'attività delle persone in base al sesso ovvero ad attuare una discriminazione sessuale. Enrique Cerezo, presidente dell'Atletico, era troppo felice per essere lucido: «Il "cholismo" è tutto l'Atletico Madrid. Quel gesto è dovuto a un momento di grande tensione, lo comprendo e non lo condanno». Il figlio, Giovanni Simeone (detto il «Cholito»), 24 anni, attaccante della Fiorentina, ha sorvolato sull' argomento genitali del genitore: «Ho sentito papà, è contento non solo per la vittoria sulla Juve, ma anche per aver rinnovato il contratto con l'Atletico». È il trionfo del «cholismo». La sconfitta dei social è invece nelle minacce inviate via Instagram da alcuni pseudo-tifosi della Juve alla piccola Valentina, la figlia del «Cholo» nata l'11 febbraio: anche qui non è questione di stile, ma pura vergogna. Dalla realtà virtuale a quella del campo, chiude Rino Gattuso, allenatore del Milan: «Il gesto non è bello, ma quando uno è sanguigno e vive le partite in un certo modo...». Se uno vive in un certo modo, può cambiare. Almeno se sbaglia. Niente errori, invece per il gioco espresso dall' Atletico: i dogmi del «cholismo» sono stati rispettati alle perfezione. Questo rende ancora più inspiegabile la sorpresa di Allegri. Eppure Simeone non si fida: «Un gol a Torino lo facciamo, poi si vedrà, ma ora abbiamo anche noi il nostro cinquanta per cento». Il «Comandante Cho» mette a punto il piano della battaglia (verso la) finale: 12 marzo, Allianz Stadium, Juve-Atletico, dentro o fuori. Con o senza Simeone, che presto saprà se quel gesto gli costerà una squalifica. Intanto i pensieri restano al Wanda Metropolitano: «Il gol di Morata era valido, mi ha detto di essersi solo protetto con la mano, perché se Chiellini lo avesse colpito gli avrebbe rotto un piede». Due gol e due mani di troppo.
Fabrizio Bocca per repubblica.it il 22 Febbraio 2019. Penso che Diego Simeone sia un grande allenatore, un leader come nessun altro. Un vincente, un motivatore unico al mondo e col passare degli anni anche più evoluto del Jurassic Football che gli veniva sempre rinfacciato. Però uno che festeggia in quel modo così volgare un gol fatto dai suoi giocatori è anche un troglodita maleducato che dovrebbe essere squalificato pesantemente.
· Thohir lascia l'Inter con un capolavoro.
Thohir lascia l'Inter con un capolavoro. L'indonesiano cede il 31,05% al fondo Lion Rock Capital per 150 milioni, scrive Luca Talotta, Sabato 26/01/2019, su "Il Giornale". Lavorare nel calcio, uscirne e guadagnarci anche dei soldi. Il sogno di tutti i presidenti, che spesso si ritrovano a dover gestire perdite e rimanere aggrappati ai lauti introiti dei diritti tv. Ma c'è anche chi, invece, abbandona il dio pallone da vincente; da ieri Erick Thohir non è più legato all'Inter, avendo venduto il restante 31,05% delle quote al fondo LionRock Capital (fondo di private equity che ha anche una partecipazione diretta in Suning Sport). Per centocinquanta milioni. E lui, Thohir, gongola. Perché il primo presidente asiatico del calcio italiano, che si presentò inneggiando a Ventola e De Boer, se ne esce da trionfatore. Non sul campo, visto che dal suo arrivo nel 2013 la bacheca nerazzurra non si è arricchita; e nemmeno per la stima ricevuta dai colleghi (celebre la frase di Ferrero che lo definì «filippino»), ma di certo per il rigonfiarsi del suo conto corrente. Il giusto premio, però, per il suo operato. Perché forse in pochi si ricordano che dal suo sbarco in nerazzurro le cose sono notevolmente cambiate: acquistò la società da Moratti sborsando 75 milioni di euro per il 70% delle quote ma accollandosene altri 180 di debiti, per una valutazione complessiva intorno ai 350. Erano tempi in cui i ricavi viaggiavano sui 160 milioni annui, contro i 288 dell'ultimo bilancio: in cinque anni l'Inter, grazie al «filippino» e a Suning, ha raddoppiato il giro d'affari ed è tornata in Champions. Ma è stato proprio Thohir a trovare la famiglia Zhang e a rivendergli, abilmente, dopo due anni e mezzo il pacchetto di maggioranza con una plusvalenza da 28 milioni di euro, garantiti dalla vendita del 68% per 120 milioni. Per molti resterà solo un approfittatore, uno che voleva far soldi con il calcio: ma la sua gestione dell'Inter è stata necessaria e intelligente, con tanti saluti da parte di Suning che, si spera, avrà appreso la lezione del tycoon indonesiano.
· Palermo calcio, Zamparini ai domiciliari.
Palermo calcio, Zamparini ai domiciliari: "Palermitani, vergognatevi". Respinto il ricorso dalla Cassazione: per l'ex patron del Palermo calcio la misura cautelare è adesso eseguibile, scrivono Francesco Patanè e Valerio Tripi il 25 gennaio 2019 su "La Repubblica". L'ex patron del Palermo Maurizio Zamparini verrà messo in custodia cautelare agli arresti domiciliari. Lo ha deciso la Corte di cassazione che ha respinto il ricorso dei suoi legali sul pronunciamento del Tribunale del riesame di Palermo, che aveva disposto i domiciliari. Per l'imprenditore friulano è indagato dalla procura di Palermo per falso in bilancio e altri reati tributari. Per i giudici della Suprema corte Zamparini è in grado di commettere ancora comportamenti delittuosi pur non avendo formalmente alcun ruolo all'interno del club di via del Fante. "Questa resterà una storia di vergogna per una città che così ha corrisposto la passione e l'amore che ho dato assieme ai miei soldi regalati e profusi per i rosanero". Lo dice all'Ansa Maurizio Zamparini dopo che la Cassazione ha confermato per lui gli arresti domiciliari nell'ambito delle indagini sulla gestione del Palermo calcio. "Questo è il mio unico pensiero - dice l'ex patron rosanero - Con molta compassione verso chi mi ha fatto e sta facendo male". L’udienza era iniziata ieri intorno alle 10, poi dopo due ore i giudici sono passati a esaminare altri quattordici ricorsi, ma solamente quattro erano quelli sul tavolo che riguardavano la vicenda della gestione societaria del Palermo. Quello respinto era l’unico ricorso presentato dalla difesa di Zamparini, gli altri tre sul tavolo della Cassazione ieri riguardavano quelli presentati dai sostituti procuratori Andrea Fusco, Dario Scaletta, Francesca Dessì e dall'aggiunto Salvatore De Luca sul milione di euro sequestrato e poi restituito al Palermo, sul provvedimento di sequestro accolto e poi respinto in appello delle azioni per un valore di 99 mila euro a Zamparini e quello che contro l’esclusione del reato di autoriciclaggio fra quelli contestati all’imprenditore friulano. L'inchiesta che ha portato all'arresto di Zamparini è coordinata dai pm Dario Scaletta e Francesca Dessì, dall'aggiunto Salvo de Luca e dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. La decisione della Cassazione chiude una lunga vicenda giudiziaria: la richiesta di domiciliari fatta dai pm venne respinta dal gip che, pur riconoscendo che ci fossero a carico dell'ex presidente del Palermo gli indizi di colpevolezza, sostenne che non vi fossero le esigenze cautelari per l'arresto. Una decisione condizionata dalla scelta di Zamparini di lasciare le cariche ricoperte nella società rosanero. Il provvedimento del gip fu ribaltato al Riesame, contro i domiciliari ha fatto ricorso in Cassazione l'imprenditore friulano che oggi ha perso la sua partita. Le indagini, avviate quasi due anni fa coinvolgono anche il figlio di Zamparini, la segretaria Alessandra Bonometti, cinque professionisti e l'ex presidente della società calcistica Giovanni Giammarva accusati, a vario titolo, di false comunicazioni sociali, ostacolo alle funzioni di vigilanza della Co.Vi.So.C., sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Il Palermo fino al 2018 avrebbe ottenuto le certificazioni sui bilanci grazie a comunicazioni inesatte. Di questo risponderebbe Giammarva, che, per la procura, avrebbe ostacolato l'esercizio delle funzioni dell'autorità pubblica di vigilanza. Ipotesi che il Riesame sembra accogliere. Alla U.s. città di Palermo S.p.a., persona giuridica, è stato contestato l'illecito amministrativo che deriva dal reato di autoriciclaggio che sarebbe stato commesso da Zamparini. Nell'ipotesi della Procura Zamparini si sarebbe sistematicamente servito della Mepal S.r.l., società nata per la commercializzazione dei prodotti rosanero di cui era l'amministratore di fatto, come di una sorte di 'cassaforte', per mettere al riparo le disponibilità correnti della società dalle procedure esecutive dell'Erario, nei cui confronti il club era esposto per milioni di euro fino al 2017. Per rendere possibili tali spostamenti di denaro, sarebbero stati simulati dei finanziamenti verso la Mepal S.r.l. La Mepal è stata ceduta per 40 milioni a una società con sede in Lussemburgo, la Alyssa, che, per i pm, sarebbe comunque sempre riconducibile a Zamparini. Secondo la Procura il valore del marchio sarebbe stato nettamente inferiore e la sopravvalutazione avrebbe consentito di creare una sorta di riserva monetaria poi reimpiegata per ripianare il bilancio in rosso di 27 milioni di euro della Us Città di Palermo. Secondo l'accusa, peraltro, l'operazione di cessione sarebbe stata fittizia visto che la Alyssa di fatto era della famiglia Zamparini. Contestualmente all'indagine penale, la Procura ha chiesto il fallimento della società Us Città di Palermo. L' istanza è stata respinta dai giudici fallimentari. Nei mesi scorsi parallelamente all'inchiesta principale a Caltanissetta è stata aperta un'indagine a carico, tra gli altri, di Giammarva e del giudice fallimentare di Palermo Giuseppe Sidoti che era nel collegio che respinse l'istanza di fallimento del Palermo-Calcio. Entrambi gli indagati sono stati interdetti dalle loro funzioni e sono accusati di corruzione per aver pilotato il processo che ha evitato il crack della società rosanero. La Suprema corte oltre che sulla custodia cautelare di Zamparini, si è pronunciata su altri tre ricorsi presentati tutti dalla procura di Palermo. I giudici hanno ritenuto inammissibili quelli relativi al dissequestro del milione di euro restituito dal Riesame al Palermo e ai 100 mila euro in azioni ridate a Zamparini sempre dal Riesame. Il terzo ricorso riguarda l'ipotesi di reato di autoriciclaggio, fatta cadere dal punto di vista delle misure cautelari in sede di Riesame. Anche questo ricorso è stato rigettato. Gli ultimi due pronunciamenti della Cassazione sono in programma il 14 marzo quando la corte sarà chiamata a decidere se sequestrare 50 milioni di euro al club di via del Fante.
Zamparini ha detto stop. Il Palermo agli inglesi gli allenatori respirano. Il presidente delle 59 panchine e delle tante plusvalenze vende per l'ennesima volta, scrive Roberto Perrone, Domenica 02/12/2018, su Il Giornale. Scusate la domanda prima della notizia: è la volta buona? Maurizio Zamparini, classe 1941, nato a Palmanova, imprenditore, re dei centri commerciali, creati, sviluppati e poi ceduti, avrebbe mollato il Palermo. Il condizionale è d'obbligo perché il vulcanico mangia-allenatori minaccia di terminare il suo rapporto con la società siciliana, acquistata da Franco Sensi il 21 luglio 2002, dal lontano 2010. Per protesta, allora, denunciando gli ennesimi torti arbitrali. Nel 2017 c'era anche riuscito, ma l'ex Iena Paul Baccaglini è durato da marzo a luglio. «Con un nodo in gola» scrive il proprietario «ho firmato la mia uscita dalla società». Il nuovo padrone sarebbe un fondo - e cosa se no? - britannico che ha sborsato il prezzo simbolico di 10 euro. Inoltre è stata ceduta la Mepal, che possiede il marchio, «con impegno al pagamento a saldo del credito residuo del Palermo di 22.800.000 che entreranno nelle casse sociali per un garanzia serena di gestione economica». Accettiamo, con beneficio d'inventario, l'addio di Zamparini. Un presidente dell'altro mondo, in tutti i sensi pure ufologico: in un suo terreno a Merlana di Bagnaria Arsa, il paese delle sue radici, nel 2010, comparvero misteriose forme geometriche di 50 metri di diametro, ben visibili dall'alto, i crop circles apparsi negli anni un po' in tutto il pianeta. Per la gente di buon senso opera di burloni, per tanti altri segnali alieni da decifrare. E un po' alieno, nel calcio italiano, è stato anche Maurizio Zamparini, in equilibrio tra ribellismo contro i poteri forti, che non si negano a nessuno, e tremendismo esistenziale. Sposato due volte, si è spostato dal Friuli nel Varesotto, a Vergiate, dove ha sede il suo gruppo. Un irrequieto, facile all'ira, espressa con quella sua voce aspra. Sovente usata per licenziare i dipendenti. Un orco delle panchine, Zamparini: in trent'anni ne ha avute 59 diverse, 29 al Palermo; 45 volte le ha divorate. Il record nella stagione 2015-16: 8 cambi, ma solo 7 allenatori. Quasi tutti cacciati senza aver visto le partite. Allo stadio andava poco, spesso, durante i novanta minuti si faceva portare in giro per la città dall'autista. Ha tentato un'avventura politica, senza replicare le straordinarie plusvalenze del Palermo: Toni, Amauri, Pastore, Cavani, Dybala, Sirigu, Darmian, Barzagli, Grosso, Balzaretti, un red carpet del pallone al Barbera. Ma la città non l'ha mai amato, finendo per odiarlo. E lui ha ricambiato. Per Zamparini non è mai esistita, la città è la squadra. Non quello che c'è attorno.
· Razzismo: così il calcio italiano si sta ribellando.
L’incompetente. Il razzismo nel calcio è la metafora dell'Italia. Masse passivo-aggressive che giustificano tutto in nome di una fede, veritiera o no, incattiviti contro i "tizi di colore" che si permettono di guadagnare come i bianchi. Con capi stupidi e spesso pure disonesti. E se qualcuno racconta l'odio, il colpevole diventa lui. Luca Bottura il 06 dicembre 2019 su L'Espresso. L’amministratore delegato della Lega Calcio, per l’occasione più Lega che Calcio, l’ha spiegato chiaramente: se negli stadi si sentono i buu razzisti, spegniamo i microfoni. Sembra la versione alla pummarola del celebre motteggio brechtiano («Se i politici non rappresentano più gli elettori, cambiamo elettori») e forse lo è, anche se il latore dell’affermazione, pronunciata davanti ai colleghi in una sorta di patto dell’albumina tra maschi, in quei consessi dove si gioca a chi la fa più lontano ma si mira comunque nella medesima direzione, ha spiegato, e forse non aveva tutti i torti, che l’enormità andava contestualizzata. Che lui ne faceva una questione di immagine. Di contaminazione da non estendere. Tipo mettere la mascherina antisettica a un corpo pronto per l’inumazione. Ma contestualizziamola, sì. Infiliamola nella corrente del fiume inquinato che attraversa questo Paese che non è che non abbia bisogno di eroi, li schifa proprio. E nel quale certe logiche familistiche, di difesa dello status quo, dell’impossibilità di vedersi da fuori, dell’accettare i propri limiti non già cavillandoli, come ammoniva Confucio, per superarne gli effetti, per migliorarsi, ma esaltandoli, rivendicandoli, rotolandocisi dentro, con un vaghissimo senso dell’opportunità riservato solo a chi sta oltreconfine. Così, De Siervo si è detto preoccupato dei cori razzisti perché sennò chissà all’estero cosa pensano. Così, Salvini fa la faccia meno dura solo quando passa la frontiera. E allora tronca, sopisce, rassicura, cerca di dimostrare agli odiati eurocrati che non è come sembra, che certi specchietti per le allodole valgono solo da noi, ché si sa come siamo fatti, ma dove serve il vestito buono…Ecco: come siamo fatti? Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti gli stadi. Dove masse passivo-aggressive giustificano tutto in nome di una fede, veritiera o no, talvolta prezzolati da presidenti furbastri, odiano la parte opposta senza una ragione specifica, festeggiano non già la rete, il successo, ma la caduta avversaria, non capiscono nulla o quasi di quel che stanno guardando, odiano chi glielo racconta, violentano il proprio ruolo - la passione - a beneficio di un tifo ottuso e vendicativo. Con capi stupidi, ignoranti, spesso pure disonesti. Comunque, quasi sempre, incattiviti contro i tizi di colore che si permettono, non sia mai, di guadagnare come i bianchi. Rubano loro il lavoro. Ma come cazzo si permettono. Siamo tutti Nino Manfredi in Pane e cioccolata, con la differenza che lì la vessazione era reale, il razzismo era subito, e il gesto dell’ombrello alla rete azzurra, in mezzo ai crucchi attoniti, pareva una vendetta onesta, giusta, inevitabile. Oggi lo riserviamo ai più deboli. Ed è come se in quella partita avesse vinto la Svizzera, e tutti avessero mostrato il medio al povero italiano. Vi sembra forse una scena decente? Ecco: siamo lì. E chi può, paga il biglietto per uscire.
Razzismo, i club di serie A scendono in campo: "Non facciamo abbastanza, ora basta". Lettera aperta sottoscritta dalle 20 società del massimo campionato per combattere il problema negli stadi: "Questi insulti motivo di frustrazione e vergogna. Non possiamo più restare passivi e aspettare che tutto questo svanisca: occorrono nuove leggi e regolamenti più severi". De Siervo: "Pronti a guidare lotta dentro e fuori stadi". La Repubblica il 29 novembre 2019. Una lettera aperta "a chi ama il calcio italiano" per dire basta, per lanciare un messaggio forte. I 20 club di serie A, dopo un confronto con Lega, Figc ed esperti internazionali, hanno deciso di rimboccarsi le maniche e schierarsi attivamente contro il razzismo, sottoscrivendo un documento con cui si impegnano "pubblicamente a fare meglio", chiedendo "una efficace policy contro il razzismo, con nuove leggi e regolamenti", senza più tempo da perdere.
I club: "Insulti razzisti motivo di vergogna per tutti noi". Una lettera che inizia con un'ammissione di colpa. "Dobbiamo riconoscere che abbiamo un serio problema con il razzismo negli stadi italiani e che non l'abbiamo combattuto a sufficienza nel corso di questi anni - si legge nel documento pubblicato dalle società sui rispettivi siti - Anche in questa stagione, le immagini del nostro calcio, in cui alcuni giocatori sono stati vittime di insulti razzisti, hanno fatto il giro del mondo, scatenando ovunque dibattito. E' motivo di frustrazione e vergogna per tutti noi. Nel calcio, così come nella vita, nessuno dovrebbe mai subire insulti di natura razzista. Non possiamo più restare passivi e aspettare che tutto questo svanisca".
"Non abbiamo più tempo da perdere". Quindi l'impegno fattivo, messo nero su bianco. "Su spinta degli stessi club, nelle ultime settimane, è stato avviato un confronto costruttivo con Lega Serie A, Figc ed esperti internazionali su come affrontare e sradicare questo problema dal mondo del calcio. Noi, i club che sottoscrivono questa lettera, siamo uniti dal desiderio di seri cambiamenti e la Lega Serie A ha dichiarato la sua intenzione di guidare questo percorso attraverso una solida e completa politica anti-razzismo in Serie A, con nuove leggi e regolamenti più severi, assieme a un piano di sensibilizzazione mirato per tutti coloro che sono coinvolti in questo sport riguardo al flagello del razzismo. Non abbiamo più tempo da perdere - si legge ancora - Dobbiamo agire uniti con rapidità e determinazione, e così faremo di qui in avanti. Ora più che mai il contributo e il sostegno di tutti voi, tifosi dei nostri club e del calcio italiano, sarà fondamentale in questo sforzo di vitale importanza. In fede, Atalanta, Bologna, Brescia, Cagliari, Fiorentina, Genoa, Hellas Verona, Inter Milan, Juventus, Lazio, Lecce, AC Milan, Napoli, Parma, AS Roma, Sampdoria, Sassuolo, Spal, Torino, Udinese".
De Siervo: "Pronti a guidare lotta dentro e fuori stadi". "Il nostro processo di costruzione di una cultura inclusiva reale e concreta è iniziato e ora necessita del sostegno di tutti gli attori coinvolti per consentirci di compiere i passi necessari con coerenza e determinazione. La Lega Serie A sta lavorando sodo su questo argomento ed è pronta a guidare la lotta al razzismo all'interno e all'esterno degli stadi". Sono le parole dell'amministratore delegato Luigi De Siervo, in aggiunta alla lettera aperta sottoscritta dai 20 club del massimo campionato. "Qualsiasi azione, qualsiasi sforzo sarebbe nulla senza il coinvolgimento, il supporto, la responsabilizzazione di ogni singolo stakeholder - prosegue De Siervo - Siamo pronti a guidare questa campagna, animata da uno straordinario spirito di coesione, coinvolgendo tutti i club ma anche tutti i leader nella lotta al razzismo e alle discriminazioni. Leadership, unità, azione. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno adesso. Sarà una lunga strada, ma sarà sicuramente più facile da percorrere se cammineremo tutti insieme, come una squadra. We Are One Team".
Il caso Balotelli e gli ultimi episodi in serie A. In effetti sono sempre più frequenti negli stadi italiani gli episodi di offese a un giocatore per il colore della pelle. Per limitarsi a quelli più recenti, in questa stagione, il più eclatante è stato a inizio novembre allo stadio Bentegodi di Verona nei confronti di Mario Balotelli, con la reazione dell'interessato scagliando il pallone in curva e dicendo basta, per poi uscire dal terreno, trattenuto a fatica da compagni e avversari. In precedenza i "buuu" razzisti avevano preso di mira durante la partita tra Atalanta e Fiorentina il terzino viola Dalbert Henrique (22 settembre), una settimana prima in Verona-Milan il bersaglio era stato il rossonero Franck Kessié, originario della Costa d'Avorio, mentre l'1 settembre scorso l'attaccante belga dell'Inter, Romelu Lukaku, aveva ricevuto lo stesso trattamento da alcuni sostenitori del Cagliari. Senza trascurare i tanti insulti di natura razziale che affollano web e social network.
Serie A, l'audio rubato di De Siervo: "Cori razzisti? Spegniamo i microfoni così non si sentono". L'ad della Lega di A, registrato mentre propone la sua soluzione contro i "buu", si difende: "Ma quale censura. Per raccontare al meglio la bellezza del calcio, la linea è di non indugiare sui brutti episodi che capitano ogni domenica". Marco Mensurati il 3 dicembre 2019 su La Repubblica. L'ultima coltellata alle spalle, nella guerra in corso ai vertici del calcio italiano, è un "audio rubato" nel quale si sente l'amministratore delegato della Lega Calcio Luigi De Siervo ammettere di aver dato disposizione di spegnere i microfoni direzionali delle curve per evitare che i telespettatori sentano a casa i "buu" razzisti. La conversazione - sulla base della quale la procura della Figc sta valutando l'opportunità di aprire un'inchiesta - è stata registrata con un telefonino durante il consiglio di Lega il 23 settembre scorso. Nella sala, oltre a De Siervo, erano presenti l'allora presidente della Lega Gaetano Micciché, Luca Percassi dell'Atalanta, Alessandro Antonello dell'Inter, Paolo Scaroni del Milan, Stefano Campoccia dell'Udinese e il segretario verbalizzante Ruggero Stincardini. Contattato da Repubblica per verificare la genuinità dell'audio, De Siervo ne ammette l'originalità, preannuncia querela, e rimanda al mittente l'accusa di voler nascondere sotto il tappeto la tematica spinosa dei buu razzisti: "Nell'audio si sente solo una frazione del ragionamento. Che era molto più ampio. Stavamo parlando di produzione televisiva. E si partiva dal presupposto che noi non siamo giornalisti che dobbiamo scovare le notizie, noi produciamo uno spettacolo e lo valorizziamo. A controllare la regolarità dello svolgimento della gara e documentare a fini legali e sportivi ciò che capita dentro lo stadio ci pensano già gli organi preposti: la polizia, gli ispettori di Lega e Federazione e, non ultimi, gli arbitri. Noi stavamo ragionando di come le riprese tv possono raccontare al meglio la bellezza del calcio. Lo facciamo continuamente. E la linea è evitare di indugiare sui brutti episodi che ogni domenica capitano". In proposito, spiega ancora De Siervo, sono state date precise istruzioni ai registi. "Per dire, abbiamo 'squalificato' per due giornate il regista che a Cagliari aveva indugiato per 40 secondi, durante un controllo Var, sulla curva del Cagliari che in quel lasso di tempo aveva fatto di tutto. Allo stesso modo abbiamo fermato un altro regista che aveva inquadrato per troppo tempo un omaggio dei tifosi interisti a Diabolik". La censura di De Siervo va, dunque, contestualizzata: "Ma quale censura. Stavamo parlando di come valorizzare un prodotto. Eravamo reduci da un articolone del New York Times che indicava l'Italia come la nuova frontiera del razzismo nel calcio. E io ho suggerito di gestire in maniera più precisa il direzionamento dei microfoni. Capita spesso infatti che da casa si sentano dettagli che allo stadio nemmeno si percepiscono".
De Siervo e la frase rubata sui cori razzisti: «C’è chi vuole male alla Lega». Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 da Corriere.it. «Ho un’idea di chi vuole male alla Lega ma non ci facciamo intimidire». Luigi De Siervo, dopo l’audio pubblicato sul sito web di Repubblica relativo alla seduta del Consiglio del 23 settembre scorso quando l’a.d. disse «Faccio spegnere i microfoni in curva così non si sentono i buu», convoca d’urgenza una conferenza stampa in via Rosellini. «I club mi hanno eletto e mi danno fiducia. Altrimenti esiste lo strumento della revoca con maggioranza qualificata. Ma nessuno può farsi intimidire da audio rubati o lettere anonime. Vogliono decapitare la Lega in vista del bando sui diritti». L’amministratore delegato della Confindustria del pallone tenta di rispondere agli attacchi, spiegando il senso della propria dichiarazione rubata: «Questa è una casa di vetro, è tutto trasparente. Se ci avverranno altri fatti per destabilizzare durante il bando cercherò di chiarirli tempestivamente. Parliamo di un audio rubato durante il Consiglio di 15 secondi. Era stato verbalizzato di aver affrontato il tema delle bombe carta e striscioni razzisti, con la ferma volontà di condannare ogni connivenza per impedire ogni iniziativa. Parlavo della scelta strategica della Lega di dare il mandato alle telecamere per non inquadrare i violenti e chi urla. Non è nostra intenzione di bloccare nulla. Ci sono le forze dell’ordine, gli ispettori federali e della Lega e gli arbitri che hanno facoltà di comminare sanzioni o sospensioni». Poi ancora: «Le tv documentano lo spettacolo: noi lavoriamo da anni per non inquadrare zone vuote dello stadio o striscioni allusivi. Ho già fatto l’esempio della sospensione del regista che alla prima giornata indugiava sul pubblico che si era scatenato mentre il Var decideva. Oppure quando fu sospeso il regista del derby di Roma che aveva ripreso una curva mentre inneggiava a un criminale morto settimana precedente. La mia idea è di non puntare i microfoni nella direzione della parte più facinorosa dello stadio». De Siervo ricorda il momento storico in cui avvenne il consiglio. «Eravamo sotto attacco in quel periodo. Il presidente Gianni Infantino durante il premio “The Best” aveva detto di vergognarsi di essere italiano». Quindi l’approfondimento: «Il sonoro compromette lo sviluppo del nostro prodotto. Abbiamo fatto decine di iniziative che stanno entrando in essere: lavoriamo con la polizia e con sistemi tecnici sofisticati per individuare le persone e comminare con il club il non gradimento, ovvero una sorta di daspo. Il nostro obiettivo è evitare di trasformare in eroi determinati ragazzi. C’è il rischio di emulazione». I sospetti proliferano per la volontà dell’a.d. di non far mettere a verbale la frase incriminata. «Non l’ho fatta verbalizzare quando Stincardini me lo ha chiesto perché i nostri resoconti sono sintetici». Quindi De Siervo rivela di aver chiamato Gravina e Cicala per informarli dell’accaduto. «Quando ho telefonato al presidente federale ho saputo che un mese e mezzo fa in forma anonima aveva ricevuto l’audio e poi a distanza di tempo ancora una volta. È stato consegnato alla procura federale che non ha dato seguito». Perciò De Siervo prenderà le misure necessarie: «Ho dato mandato al professor Lonato di depositare querela per illegittima diffusione dell’audio. Riguarderà anche l’audio trafugato relativo all’elezione di Miccichè. Ma il caso che mi riguarda è ancor più grave: là tutti sapevano di essere registrati. Qui è avvenuto in maniera capziosa». De Siervo però non si perde d’animo: «Questi attacchi rafforzano il calcio, vedere quanto interesse c’è usando i media o la procura federale fa male ma dà il senso per chi sta qui su quali sono gli interessi esterni. Ora si serrano le fila: ha cominciato a suonare il cellulare, siamo compatti.Di certo ci sarà imbarazzo in consiglio, qualcuno ha fatto il passo più lungo della gamba». Resta da capire se l’a.d. muterà i propri comportamenti alla vigilia della delicatissima partita dei diritti televisivi. «Il mio atteggiamento non cambierà, siamo professionisti. C’è chi vuole cambiare in corsa le regole del gioco, ma c’è un’assemblea che decide. Continuiamo a lavorare nella stessa maniera. C’è il bando, con le linee guida, i pacchetti, e la consultazione delle autorità. Poi vedremo se ci sarà interesse di Mediapro dopo le modifiche in commissione alla loro proposta. Infine l’ipotesi del canale tematico a prescindere da Mediapro».
Dagospia il 4 dicembre 2019. Da Circo Massimo. "Nessun complotto. Questa è una porcheria assoluta, un tentativo goffo di mettere in difficoltà me non in quanto persona fisica ma in quanto primo amministratore delegato della Lega Calcio". Il giorno dopo la pubblicazione dell'audio rubato in cui ammette di aver chiesto ai registi di "spegnere i microfoni in caso di cori razzisti", l'ad della Lega Serie A Luigi De Siervo passa al contrattacco in un'intervista a Circo Massimo, su Radio Capital: "Nessuno sa che le squadre hanno deciso di dotarsi di una governance diversa in cui i presidenti delle squadre contano di meno perché viene scelto un management per un tempo limitato che ha la responsabilità di gestire le cose, come è successo in Inghilterra, in Francia e in Germania, dove i diritti sono esplosi", spiega il manager, "L'obiettivo è cercare di far recuperare al calcio italiano il gap con le altre leghe, e questa cosa avviene solo con il meccanismo della professionalizzazione. C'è una frangia di persone che ritiene che questo processo non sia così salutare per loro e per i loro interessi: è un atteggiamento legittimo in un mondo democratico, ma ci sono processi democratici che portano a elezioni o a revoche degli organi. E invece si fa uscire un audio che con lettere anonime è girato per due mesi nella pancia della FIGC". Per De Siervo "è evidente il tentativo di destabilizzare in vista di un'asta che cambierà gli equilibri della paytv in Italia nei prossimi anni. In questo momento c'è un commissariamento, il giorno dopo il commissariamento della Lega esce su Repubblica un audio che era stato tenuto in un cassetto per due mesi. Non vi sembra strano? Nessuno parla di complotti, ma c'è un disegno, un gruppo di persone a margine del nostro mondo sta cercando di cambiare gli equilibri. Ripeto: legittimamente, è un mondo democratico. Bisogna solo che chi riceve determinati input possa essere aiutato a leggerne la provenienza".
Roberto De Ponti per il “Corriere della sera” il 4 dicembre 2019. La frase è infelice, su questo non ci piove. Così come è stata riportata, dà l' impressione della polvere nascosta sotto il tappeto. Così come è stata riportata, appunto. Perché poi c' è il contesto. Il contesto dice che evidentemente si stava parlando di come vendere il prodotto serie A all' estero, e proporlo come il campionato dei razzisti non è esattamente una grande pubblicità. La Nba, per esempio, tende a oscurare le risse perché non le ritiene molto edificanti. Ma il punto non è neppure questo. Il punto è: la frase è uscita come uno spiffero dalle riunioni di Lega perché qualcuno voleva far notare quanto cinico e politicamente scorretto fosse il nostro calcio? Oppure, molto più banalmente, è solo un attacco a un personaggio coinvolto suo malgrado in una guerra di bande? Per capirci: l'obiettivo è la moralizzazione del sistema, oppure la caccia a una poltrona già occupata? In una guerra senza quartiere, una registrazione anonima non risolve certo i problemi, ma avvelena ancora di più una situazione già velenosa di suo. È difficile parlare di moralizzazione quando il metodo è quello del corvo, che registra conversazioni e le utilizza secondo convenienza. Situazione imbarazzante per i presidenti, perché qualcuno di loro ha tradito un fragile patto di fiducia (fiducia?). Non il clima migliore per lavorare per il bene del calcio.
Emiliano Bernardini e Salvatore Riggio per “il Messaggero” il 4 dicembre 2019. Nel condominio più rissoso d'Italia, la Lega serie A, si gioca una partita velenosa senza esclusione di colpi. L'ultimo ha toccato l'ad della Lega di A, Luigi De Siervo. Un audio rubato durante il consiglio di Lega il 23 settembre in cui si sente l'amministratore delegato, mentre si rivolge al presidente del Milan Paolo Scaroni, affermare di aver dato disposizione di spegnere i microfoni direzionali posizionati sotto le curve per evitare che i telespettatori possano sentire da casa i buu razzisti. Una frase che ha alzato immediatamente un polverone all'interno di una Lega che si ritrova senza il presidente, Gaetano Micciché, dimessosi il 19 novembre. De Siervo ha convocato una conferenza stampa per replicare con durezza: «L'obiettivo non è silenziare i razzisti. Anzi. È andarli a prendere uno per uno, punirli severamente. Dal 2015 diamo mandato alle tv di non inquadrare i violenti. La televisione non deve sanzionarli, tocca alle autorità. La tv deve mandare in onda uno spettacolo, non dare visibilità a dieci o cento cretini». Tra l'altro la Procura non punisce i razzisti usando gli audio della tv. L'ad ha fatto sapere di aver sporto querela gridando al complotto: «È un audio rubato. L'imbarazzo non lo devo provare io, ma chi l'ha rubato». Mentre la Procura federale della Figc ha aperto, come atto dovuto, un fascicolo d'indagine (richiesto anche il file audio), è scattata la caccia al colpevole. «Gravina era a conoscenza di questa registrazione da un mese» rimarca l'ad della Lega. Insieme a lui quella mattina negli uffici di via Rosellini a Milano c'erano l'allora presidente Gaetano Micciché, Luca Percassi dell'Atalanta, Alessandro Antonello dell'Inter, Paolo Scaroni del Milan, Stefano Campoccia dell'Udinese (arrivò a consiglio iniziato), il segretario verbalizzante Ruggero Stincardini e il presidente del collegio dei Revisori, Giovanni Barbara. Le idee sembra averle chiare l'ad della Lega che fa capire di sapere anche il motivo: «C'è qualcuno che vuole il male della Lega. Ma noi non ci facciamo intimidire. L'obiettivo è pensare di riuscire a decapitare la Lega in prossimità del bando sui diritti tv». Sulla questione è intervenuto anche il presidente della Figc, Gravina: «Chi pensa, che la Federcalcio stia tramando qualcosa non ha capito niente. Nella Lega di A c'è un conflitto interno sotto il profilo degli interessi. Abbiamo l'esigenza di avere una Lega di A fortissima perché una Lega indebolita, senza leadership, indebolisce tutto il mondo del calcio e la federazione». Episodi non certo casuali quelli capitati a Micciché e De Siervo in pochi giorni, proprio mentre si sta entrando nel vivo di una nuova battaglia sui diritti televisivi. Ma c'è anche una guerra tutta interna alla Lega sull'approvazione del bilancio. Annullato il Consiglio in programma oggi che avrebbe dovuto approvarlo. Vertice spostato al 9 dicembre. L'ultima data utile è il 27 altrimenti si configurerebbe una di quelle situazione che potrebbero portare al commissario straordinario. Intanto tra oggi e domani arriverà quello ad acta per le elezioni, Mario Cicala.
Squalificato il portiere insultato perché nero: ha lasciato il campo. Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it. Ci sono degli sviluppi di giustizia sportiva e giudiziari nella vicenda del portiere dell’Agazzanese Saidou Daffe Omar, 38 anni, senegalese di origine, cittadino italiano e parmense di adozione, insultato da uno spettatore che sabato — aggrappato alla recinzione durante il derby di Eccellenza emiliana Bagnolese-Agazzanese — che per quattro volte gli ha gridato «negro di m...». Saidou (che è un tecnico federale e insegna al Centro Figc di Parma) è stato squalificato per una giornata. Più esasperato che sconfortato, il portiere, a un certo punto aveva deciso di lasciare il campo dirigendosi direttamente verso gli spogliatoi. Comportamento valso il cartellino rosso mostrato dall’arbitro. Ma subito dopo Daffe Omar è stato seguito, per solidarietà, dai suoi compagni di squadra: l’Agazzanese — che giocava fuori casa — e per la quale, per questo motivo, è stata decisa la sconfitta a tavolino, oltre a punto di penalizzazione. Per la Bagnolese è stata invece decisa la «messa in prova»: vale a dire che il giudice sportivo ha deciso che per una partita il suo stadio — il «Fratelli Campari»— resti senza pubblico. Ma la sanzione è stata sospesa: la società è sottoposta a un periodo di prova della durata di un anno». Una sorta di «diffida» che in caso di recidiva farebbe scattare la squalifica del campo. Intanto è stato identificato dai carabinieri di Bagnolo in Piano il responsabile degli insulti razzisti. Si tratta di un 45enne residente nel Modenese. Per lui sono state attivate le procedure per il Daspo. Negli spogliatoi il portiere aveva ricevuto la solidarietà anche da parte dei giocatori della Bagnolese. A Corriere.it il portiere —presidente di un’associazione di volontariato che si occupa di raccolta fondi e aiuti da destinare ai piccoli calciatori in Senegal — ha detto che sugli «spalti si respira un brutto clima e per questo non voglio che la mia compagna e i miei figli vengano a vedermi giocare. Non voglio che assistano a brutte scene».
Gianni Mura per “la Repubblica” il 26 novembre 2019. Cellino, presidente del Brescia, si aggiunge alla lista dei maldestri, o dei poco sensibili, o degli avventati, o degli ignoranti, o dei razzisti in pectore. Dire che il problema di Balotelli è che è nero e sta faticando a sbiancarsi e poi farla passare per una battuta sdrammatizzante, che intendeva sostenere il calciatore, è una discreta arrampicata di sesto grado. Però la sua battuta sdrammatizzante, che raggiunge l' effetto opposto, una verità la contiene. Il problema di Balotelli è avere la pelle nera, di essere italiano, di essere un calciatore molto seguito mediaticamente, di avere indossato la maglia della Nazionale in un Paese in cui pochi o molti, parlo solo degli stadi perché i social tracimano di schifezze, gli rinfacciano il colore della pelle e per questo lo bersagliano di cori, non lo riconoscono come italiano "vero", e nemmeno il diritto di ribellarsi (col carattere che ha, con quello che guadagna, e via divagando). Un altro presidente di Serie A, Lotito della Lazio, tempo va aveva sostenuto che il verso della scimmia nei nostri stadi si fa anche ai giocatori "con la pelle normale". Primo: non è affatto vero. Lo si intona solo per i giocatori di pelle nera, si chiama comunemente "verso della scimmia" e, nella testa dei razzisti, serve a offenderli, sperando che reagiscano, e a farli sentire animali o comunque di razza inferiore. Secondo: la pelle normale per Lotito dovrebbe essere quella bianca, ma uno che sfodera citazioni in latino ogni due per tre dovrebbe avere quel minimo di cultura sufficiente a sapere che in quasi tutta l' Africa la pelle normale è nera. Tant' è che si chiama Africa nera. A parole (escludendo quelle citate) il nostro calcio si sta battendo con grande impegno contro il razzismo, e sarebbe uno schieramento senza zona neutra: o stai di qua o stai di là. Nei fatti, il grande impegno non si vede, le punizioni esemplari nemmeno. L' argomento è molto serio, anche fuori dagli stadi, dove aumentano i casi di micro e macro-razzismo, e richiederebbe un' analisi realistica della situazione e un minor ricorso alle battute. Ma una va ricordata. "Io razzista? Sarà lui che è negro". Questa, un po' all'Altan, è di Beppe Viola, fine anni 70. Battuta che in pochissime parole ricostruisce la mentalità autoassolutoria del razzista che allarga le braccia: "Sarà mica colpa mia se lui ha la pelle nera". No, è colpa sua, facciamoglielo capire con le buone, ammesso che esistano, o con le cattive (meglio). In Europa c' è un' emergenza razzismo, ma il nostro calcio, a partire dai vertici, continua a buttare la polvere sotto il tappeto, a minimizzare, a fare battute. Se c' è in corso una battaglia, questo è il modo più sicuro per perderla.
La svolta (finalmente) del calcio: addio alla responsabilità oggettiva. I club chiamati a dotarsi di strumenti per prevenire e punire violenza e razzismo. Se lo fanno, ecco un sistema di attenuanti contro gli ultras. Giovanni Capuano l'1 ottobre 2019 su Panorama. Sono serviti mesi di inchiesta da parte della Digos di Torino, intercettazioni e la prova del ricatto degli ultras a un club per arrivare alla svolta. Tardiva, forse, perché da tempo il calcio invocava un intervento deciso sul pilastro della resposanbilità oggettiva che da sempre ha addossato alle società il peso del comportamento dei propri tifosi. Non sarà più così e l'Italia fa da apripista per una rivoluzione destinata a cambiare i rapporti dentro e intorno agli stadi. La Figc ha deciso quella che il suo presidente Gabriele Gravina ha definito una "svolta epocale". Stop al meccanismo automatico della responsabilità oggettiva per far partire un sistema in cui la responsabilità torna personale. Il modello è quello recentemente applicato da Roma, Juventus e Sampdoria e cioé l'identificazione di chi si macchia di comportamenti non accettabili e il suo bando dagli stadi. Senza che il club risponda delle azioni dei colpevoli.
Una battaglia combattuta per anni. "Non abbiamo intaccato il principio base, ma se una società adotta e applica in concreto il modello virtuoso non ha più nulla da temere e non si parla più di responsabilità oggettiva - è il ragionamento della Figc -. Se invece qualche club non ha voglia di dare un nome e un cognome alla responsabilità, allora questa torna oggettiva". Tradotto in soldoni, se le società dimostreranno in concreto di aver applicato modelli organizzativi adeguati prima, durante e soprattutto dopo, ecco che il Giudice sportivo non erogherà più sanzioni amministrative, chiusure di settori o stadi. Una grande chiamata alla responsabilità da parte di tutti, perchè la riforma su cui si dibatteva da tempo e che tanti club chiedevano a gran voce anche in sedi istituzionali come la Commissione Antimafia, concede attenuanti ma chiede in cambio azioni concrete. E, soprattutto, toglie un altro spazio di ricatto ed azione al mondo ultras che da mesi ha alzato il livello della sfida al sistema calcio in Italia. Non ci saranno più alibi o zone d'ombra: chi non si adegua difficilmente potrà sostenere di essere stato mosso da pressioni esterne rese ancora più forti da giri di vite che in passato hanno creato più danni che reso benefici come il tentativo di stroncare il razzismo da stadio arrivando anche a penalizzazioni del risultato sportivo.
Come evitare la responsabilità oggettiva. La Figc è intervenuta sul Codice di Giustizia sportiva lavorando sui modelli organizzativi, di gestione e di controllo che le società sono chiamate ad adottare. In particolare viene chiesto di mettere in atto misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività sportiva in condizioni di legalità e sicurezza, prevenendo le situazioni di rischio. I club dovranno adottare il codice etico e adeguare i meccanismi di controllo. E' il punto centrale, quello che chiama ad investire sui sistemi di monitoraggio di quanto accade sugli spalti, le famose telecamere (anche a controllo facciale) che costano qualche centinaio di migliaio di euro per gli impianti più grandi ma che consentono un controllo capillare del pubblico per identificare chi si rende responsabile di comportamenti non leciti. Ci sarà poi necessità di un sistema disciplinare interno, non interventi palliativi, che porti alla sanzione di chi viene identificato e al suo allontanamento dallo stadio. E, per chiudere, la nomina di un organismo di garanzia, indipendente e professionalmente preparato, che vigili sull'osservanza del modello.
Daspo decennali e razzisti banditi: così il calcio italiano si sta ribellando. Dalla denuncia della Juventus alla Roma che espelle un tifoso per un post. Finalmente si applicano le leggi (e si evidenzia il silenzio degli altri). Giovanni Capuano il 27 settembre 2019 su Panorama. Per cercare un'immagine efficace che rappresenti cosa sta succedendo nel calcio italiano in questo autunno, sembra di essersi addormentati da noi e risvegliati la mattina dopo in Inghilterra. Uno, due, tre piccoli segnali che, insieme alla maxi inchiesta che ha decapitato i gruppi ultras della Juventus, danno il segno di un innalzamento deciso della qualità nella lotta al razzismo e ai comportamenti illeciti da stadio. Davvero una bella sorpresa in un momento in cui il mondo ci guarda e ci giudica male, quasi sempre a ragione. E' vero che silenzi e ammiccamenti permangono e risultano ancor meno sopportabili, però vedere club che si ribellano e un sistema che cerca di dotarsi di anticorpi rappresenta una meravigliosa novità.
La nuova vita della curva Juventus. L'inchiesta che ha portato agli arresti dodici capi ultras della Juventus, ricostruendone legami e attività estorsive, ha avuto un paio di code da non sottovalutare. Il debutto degli steward nella curva bianconera, presidio a garanzia del ritorno della legalità e del controllo del territorio, e i daspo anche decennali per i 38 tifosi coinvolti nell'indagine. Mai prima di oggi si era andati con mano così pesante cancellando per un lungo arco temporale la testa pensante di una tifoseria. Dal giorno del blitz i responsabili delle forze dell'ordine insistono sul concetto che l'operazione possa essere ripetuta anche altrove, provando a svegliare le coscienze dei club. Un messaggio potentissimo e che deve essere raccolto per provare a spezzare una volta per tutti legami incestuosi tenuti in vita per troppo tempo.
Colpirne uno per educarne cento. E poi ci sono i piccoli, grandi, gesti quotidiani che stanno abbattendo il muro della complicità silenziosa. Ha aperto la strada la Juventus in primavera, consegnando alla polizia le prove fotografiche e digitali per arrivare all'identificazione dell'autore del gesto dell'aeroplano nei confronti dei tifosi del Torino. Daspato e bandito dallo Stadium su iniziativa del club. Poi è stata la volta della Sampdoria che si è messa a disposizione della Digos per individuare un emulo del collega bianconero: fuori per due anni. Infine la Roma che ha aperto una nuova strada: sgradimento a vita a un tifoso (?) che si era esibito sui social in insulti a sfondo razzista contro Juan Jesus. Non sono comportamenti eroici, ma l'applicazione di norme che esistono da due anni e che consentono alle società di decidere chi accettare e chi no in casa propria. Ovviamente con riscontri che rendano il provvedimento non impugnabile. Per mesi i club hanno fatto finta che non si potesse fare nulla, protetti dal muro di chi insiste a dire che deve essere lo Stato a muoversi.
Il che è vero, se si tratta di risolvere la macro questione di controllo del territorio (e l'inchiesta di Torino dimostra quale sia la strada maestra), mentre non regge se si tratta di dotarsi di una tecnologia adeguata e della volontà di colpire chi infanga il sistema facendo il giro del mondo con la propria immagine. Lo slogan è: "Si può fare". La conclusione è che si deve fare, unica strada per arrivare alla salvezza del nostro calcio che non può più tollerare violenti e razzisti nei propri stadi. Prima se ne renderanno conto e si adegueranno quelli che ancora minimizzano e negano, meglio sarà per tutti. Il processo è irreversibile, chi non lo capisce è bene che venga additato e marginalizzato.
Paolo Ziliani per “il Fatto quotidiano” il 30 settembre 2019. Sbaglia chi fa buu a un giocatore di colore, ma sbaglia ancora di più uno che guadagna tre milioni e si lascia cadere in area, magari anche contento di prendere il rigore se l' arbitro non va a vedere al Var". All' indomani del duro j' accuse all' Italia razzista del calcio pronunciato alla Scala dal presidente Fifa Gianni Infantino, a uscirsene con questa bella pensata è stato Giovanni Malagò, presidente del CONI , il numero uno dello sport italiano. Più che una gaffe, l' ennesimo lapsus freudiano che svela la vera natura dei dirigenti del carrozzone italico. Uno dice: vabbè, guardiamo il bicchiere mezzo pieno, abbiamo dirigenti che parlano di banane (Tavecchio) e minimizzano i cori della scimmia (Malagò) ma parliamo di uomini tutti d' un pezzo: se dicono una cosa la fanno, se fanno una promessa la mantengono. Come no. Sono passati sei anni e forse nessuno se lo ricorda. Ma il 18 marzo 2013, alle sette della sera, l' agenzia Ansa invadeva le redazioni di giornali e siti web battendo la seguente notizia: "Il CONI comunica che, al fine di evitare strumentalizzazioni su favori e privilegi riservati ai Parlamentari della Repubblica, ha deciso di non rilasciare più la concessione della tessera riservata ad onorevoli e senatori per l' accesso alle manifestazioni sportive che si svolgono sul territorio nazionale". Firmato Malagò, presidente del CONI da nemmeno un mese. Erano i tempi della montante rivolta popolare anti-casta, il M5S aveva denunciato il Comune di Milano per i 14.000 biglietti omaggiati a politici e vip per le partite di Inter e Milan (con Matteo Salvini presente a babbo morto a tutti i derby e i match-clou del Milan, come da lista resa pubblica da Marco Cappato) e Malagò cavalcava l' onda indossando i panni del grande moralizzatore. È arrivato il Robin Hood che toglierà ai ricchi per dare ai poveri, pensò qualcuno. Beh, sapete in cosa consistette la svolta etica di Malagò? Niente più tessere, ma biglietti omaggio. Partita per partita. Sempre alle stesse facce illustri e potenti. Solo lo scorso anno Malagò ne distribuì 8856 per vedere la Roma e 7930 per vedere la Lazio. Secondo il quotidiano La Verità, "facendo una media al ribasso e assegnando a ogni tagliando un valore di 150 euro, nell' ultimo campionato il CONI ha avuto disposizione 2,5 milioni di euro di biglietti da donare agli amici e agli amici degli amici". Con i politici Gasparri e Cicchitto primatisti dello scrocco e la solita variopinta fauna al seguito: ex prefetti (Achille Serra), magistrati della Corte dei Conti (Antonella Menna, Marco Villani), attori (Claudio Amendola, Claudia Gerini), presentatori tv (Giovanni Floris, quello che a DiMartedì commissiona inchieste sui privilegi degli altri). Ora a Malagò hanno tolto la dotazione. E piange e strepita. Malagò. Quello che nell' 81 si laureò con 110 e lode all' Università La Sapienza di Roma, nell' 85 fu indagato per aver falsificato statini di esami mai sostenuti (Economia e Politica, 30 e lode; Diritto Privato, 30; Diritto Commerciale, 30), nel '93 condannato a un anno e 10 mesi e nel '99, in appello, prescritto. Con laurea annullata, però, perchè i professori disconobbero le firme, falsificate, sugli statini. La faccia di Malagò, alla Sapienza, loro non l' avevano mai vista. L' Europa chiede ora a Malagò e allo sport italiano il rispetto delle regole civili. Campa cavallo.
Da Corriere.it il 2 ottobre 2019. «Si deve rispondere dei comportamenti che si mette in campo. Se una società ha messo in campo i comportamenti giusti, perché deve rispondere in termini oggettivi di quanto fa un tifoso che sugli spalti disattende i comportamenti del vivere civile? Non è che mi scelgo i tifosi, purtroppo me li trovo... Non sempre il buu corrisponde ad un atto razzista. Una volta si faceva buu a persone di pelle normale, bianca, per scoraggiarli». Lo ha detto il presidente della Lazio, Claudio Lotito, al termine del consiglio federale della Figc.
Il razzismo secondo Malagò: "Più sbagliato simulare che fare i buu razzisti". Scivolone del numero uno del Coni su un tema delicato. L'immagine dell'Italia all'estero e una lotta che non si riesce a fare senza distinguo. Giovanni Capuano il 25 settembre 2019 su Panorama. Il presidente del Coni e numero uno dello sport italiano, Giovanni Malagò, è riuscito nell'impresa di teorizzare che i buu razzisti negli stadi sono sbagliati, ma meno di un calciatore che simula per ingannare l'arbitro e prendersi un calcio di rigore. Un'uscita quanto meno infelice in un momento storico in cui il razzismo sta tornando a occupare gli stadi italiani e gli occhi del mondo sono concentrati sul (poco) che si fa per cercare di combattere il fenomeno. Malagò ha pronunciato la frase nel corso di un'intervista in diretta a 24 Mattino su Radio 24, parlando di Conte e del suo sfogo contro i giornalisti fomentatori d'odio. Per spiegare che tutte le componenti del mondo del calcio devono fare "un salto di livello", si è lasciato andare in un paragone che detto in un bar sarebbe grave, ma in bocca al responsabile di tutto il movimento sportivo del nostro Paese suona ancor più sinistro e inaccettabile. “Non è una frase salomonica, ma chiunque a partire dai dirigenti, dai calciatori, come quello che fa un fallo, che platealmente fa finta di ricevere un fallo - ha detto Malagò -. Quella è una cosa gravissima, che esempio si dà? E’ sbagliato quello che fa bu a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato che uno che guadagna 3 milioni di euro si lasci cadere in area e magari è contento di prendere il rigore, o magari che l'arbitro non va a vedere il Var che non c'era”. Ha ragione. Non è una frase salomonica, è semplicemente una frase inascoltabile. Una gaffe, come minimo, oppure un distinguo come troppo spesso i personaggi dello sport si trovano a fare quando si tocca un tema così delicato. Malagò ha anche detto di volere la tolleranza zero e ha invocato pene esemplari sul modello di altri paesi che erano "messi peggio di noi". Un cortocircuito surreale per un dirigente che non si rende conto che, in un paese con tolleranza zero e pene esemplari, il primo a finire sotto scacco sarebbe l'autore della frase di cui sopra. Che, per inciso, è la persona che dovrebbe dall'alto del suo ruolo dare il segno forte della lotta alla piaga del razzismo, senza nemmeno immaginarsi di poterlo diluire dentro una battuta mettendolo a paragone con i simulatori da area di rigore.
AGGIORNAMENTO - Dopo qualche ora Malagò è tornato sul tema per precisare la sua frase. Ha detto: "Nel mondo dello sport e, nel caso specifico del calcio, ognuno deve fare la propria parte. Se un giocatore si butta in area e fa finta di niente sbaglia: non dico che questo comportamento sia peggiore di chi fa cori razzisti, ma ogni attore protagonista deve fare la sua parte nel modo eticamente migliore. Uno degli elementi che porta alcuni tifosi a esprimersi in modo sbagliato, becero, volgare, villano e con atteggiamenti razzisti è la mancanza di credibilità del sistema. La credibilità è fatta da tutti gli attori protagonisti: i dirigenti, gli allenatori, i giocatori, gli atleti e anche i media. Se un dirigente si vende una partita fa danni incalcolabili perchè toglie credibilità al sistema. Se un giornalista dà voce a una cosa palesemente falsa alimenta un certo tipo di ragionamenti che creano problemi. Se un allenatore non si comporta bene sbaglia, così come sbaglia un giocatore che simula. Non dico che c'è una cosa peggiore dei buu razzisti, ma solo che ognuno deve fare la sua parte nel modo eticamente migliore". La riportiamo tutta perché contiene un passaggio inquietante. In pratica il capo dello sport italiano, invece di chiedere scusa per quanto detto qualche ora prima in diretta, ha teorizzato che uno degli elementi scatenanti il razzismo negli stadi è la "mancanza di credibilità del sistema". Ovvero (anche) le simulazioni. E per fortuna che ci ha pensato su...
· Questo calcio "sessista" e la saggezza della Morace.
Questo calcio "sessista" e la saggezza della Morace. Tony Damascelli, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. Per fortuna ci ha pensato una donna. Al secolo Carolina Morace, che conosce il calcio, avendolo giocato, frequentato, studiato, capito, insegnato. Per fortuna ha detto poche ma intelligenti parole a chiudere una vicenda buffa immediatamente strumentalizzata e sventolata da chi non ha altro per la testa se non la propaganda del nulla. Riassunto, il direttore sportivo della Roma, Petrachi Gianluca, preso da furori, nel dopo partita tumultuoso contro il Cagliari, ha parlato e sparlato di tutto e ha osato dire che, a proposito di un fallo di gioco, «il calcio non è da signorine».
Non l'avesse mai pensato e poi pronunciato. La casta del metoo ha alzato il polverone, la frase è sessista, le parole offendono le donne, l'immagine è omofoba. Che palle! Petrachi ha detto altre cose, gravi e pesanti, insinuando complotti e affini, ritenendo, la sua squadra, perseguitata dagli arbitri. Ma l'accenno alle signorine appartiene a un linguaggio antico, normalissimo, banale ma effettivo ed efficace, come la stessa Morace ha chiarito, ribadendo che lei, come responsabile tecnico di alcune squadre femminili, ha rivolto alle sue calciatrici, molli nel gioco e nel comportamento, lo stesso rimprovero. Roba ordinaria, senza doppi sensi, senza offesa al genere, direi anche infantile. Ma ormai sono saltate le marcature, bisogna stare attenti a usare certi termini. La domanda sorge spontanea: come la mettiamo con il gioco maschio? Alle reduci dalla partita di domenica sera, a San Siro, segnalo una frase di Gianni Brera che così spiegava la differenza tra le due squadre, da sempre rivali: «L'Inter è una squadra femmina, quindi passionale, volubile, e pertanto all'opposto del pragmatismo che caratterizza la Juventus». In confronto, Petrachi è un dilettante.
Petrachi: «Calcio non per ballerine». Bertolini: «Parole dell’altro secolo». Morace: «Ma lo dico anche io». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Il pareggio con il Cagliari e l’arbitraggio hanno portato a diverse reazioni stizzite in casa Roma. Tra queste, quella del ds Gianluca Petrachi, che ha parlato del calcio come di un «gioco maschio, non un gioco da ballerine. Altrimenti ci mettiamo lo chignon e le scarpine di danza classica e andiamo a fare quello». La sua frase ha portato a diverse reazioni., inclusa quella della c.t. della Nazionale femminile Milena Bertolini: «È una frase che risale al 1909 e l’ha pronunciata Guido Ara. Sono passati 110 anni e credo che dovremmo andare avanti. È un modo di pensare un po’ primitivo ma, nel frattempo, la società si è evoluta, anche se quello di Petrachi è il pensiero medio degli italiani verso le donne che fanno calcio». Sulla stessa lunghezza d’onda il difensore della Juventus e capitano della Nazionale Sara Gama: « Petrachi ha fatto un’uscita infelice in un tempo ampiamente sbagliato, glielo stanno facendo notare tutti. Il linguaggio plasma la realtà, questo linguaggio forse non corrisponde a quello che lui pensa. Il linguaggio è importante e dimostra che, per quanto cerchiamo di progredire, per il cambio culturale serve tempo». Non la pensa così, invece, l’ex c.t. ed ex allenatrice della Viterbese tra gli uomini e del Milan femminile Carolina Morace. In un’intervista all’Adnkronos spiega: «È una cosa che direi anche io se le mie calciatrici giocassero in punta di piedi, non la trovo una cosa offensiva, nella maniera più assoluta. Anche io alle mie giocatrici in alcune circostanze potrei dire che non siamo né signorine né ballerine».
Da gazzetta.it l'8 ottobre 2019. "Il calcio è un gioco maschio, non è uno sport per ballerine, non è la danza classica". Il d.s. romanista Gianluca Petrachi ha pronunciato queste parole al termine di Roma-Cagliari, protestando per la decisione dell'arbitro Massa di annullare il gol di Kalinic, che sarebbe valso il 2-1 (spinta dello stesso Kalinic su Pisacane, poi finito in ospedale per l'impatto col portiere Olsen in uscita). Il pensiero di Petrachi non è passato inosservato e ha scatenato una scia di polemiche. Oggi sulla questione prendono posizione anche Milena Bertolini e Sara Gama, rispettivamente c.t. e capitana della Nazionale femminile. "La frase ' il calcio non è uno sport per signorine' l'ha pronunciata Guido Ara. Sono passati 110 anni e credo che dovremmo andare avanti. È un modo di pensare un po' primitivo ma, nel frattempo, la società si è evoluta - commenta la Bertolini alla vigilia del quarto impegno delle azzurre nelle qualificazioni a Euro 2021 (domani ore 17.30 a Palermo, diretta Rai 2) -. Quello di Petrachi è il pensiero medio degli italiani verso le donne che fanno calcio". Il c.t. continua: "Bisogna capire cosa volesse dire con quella frase. Se intendeva che le donne sono più fragili, non sono determinate e non hanno forza, allora Petrachi non ha la conoscenza esatta di cosa significhi essere donna e fare calcio per una donna. Credo anzi che nel modo più assoluto il calcio sia uno sport per donne. Lo abbiamo dimostrato ai Mondiali, nei quali si sono visti grande aggressività, contrasti, temperamento e niente piagnistei. Quando si parla si deve stare attenti, le parole sono importanti e danno significato ai nostri pensieri. Se il pensiero di Petrachi è quello che sembra non lo condivido". Poi è la volta di Sara Gama: "Petrachi ha fatto un'uscita molto infelice, glielo stanno facendo notare tutti. Il linguaggio plasma la realtà, questo linguaggio forse non corrisponde a quello che lui pensa. Il linguaggio è importante e dimostra che, per quanto cerchiamo di progredire, per il cambio culturale serve tempo. Le parole di Petrachi dicono che non riusciamo a levarci queste cose di dosso e ogni retropensiero. È un'uscita ampiamente infelice in un tempo ampiamente sbagliato".
Chiara Zucchelli per gazzetta.it l'8 ottobre 2019. Nella tarda serata arriva la precisazione targata Gianluca Petrachi, finito nell’occhio del ciclone dopo la dichiarazione “Il calcio è un gioco maschio, non è uno sport per ballerine, non è la danza classica”. Il pensiero di Petrachi non è passato inosservato e ha scatenato una scia di polemiche. “Intendo scusarmi se qualcuno si è sentito offeso dalle parole che ho utilizzato - dice il direttore sportivo della Roma all’Ansa -. Non era affatto mia intenzione insinuare che il calcio sia uno sport solo per uomini e non adatto alle donne. Ero molto arrabbiato perché non era stato convalidato un gol che ritenevo assolutamente regolare e volevo sottolineare quanto il calcio sia - ed è sempre stato - uno sport fisico e di contatto. Il calcio è di tutti e alla Roma siamo molto orgogliosi della nostra squadra femminile e di promuovere il calcio femminile”.
Da gazzetta.it l'8 ottobre 2019. (…) Contro il Cagliari la Roma aveva fuori, oltre al capitano, anche Mkhitaryan, Perotti, Under, Cetin, Zappacosta e Pellegrini e di questi, forse, solo il turco e l’armeno rientreranno dopo la sosta. Diawara dovrà aspettare almeno un mese (“è andato tutto bene, ci vediamo presto”, ha scritto su Instagram), Dzeko potrebbe giocare con la maschera: “Fate qualcosa”, è il mantra della gente. C’è chi se la prende con il terreno di Trigoria: “E’ quello che non va bene, anche se rifate i campi”, chi tira in ballo la superstizione (“c’è una maledizione al Bernardini dove una volta sorgeva una chiesa mai sconsacrata”) e chi, invece, dà ragione a Fonseca: “Si gioca troppo, più si andrà avanti più sarà peggio”.
MA PERCHÉ ALLO STADIO SI PUÒ FERMARE UNA PARTITA PER UN CORO RAZZISTA, MA NON PER UNO SESSISTA? Claudia Mura per Milleunadonna.it il 7 ottobre 2019. Allo stadio esistono discriminazioni di serie A e altre di serie B. Quelle su base razziale appartengono alla massima serie calcistica, quelle in base al sesso sono invece da serie cadetta. Se qualcuno si azzarda a gridare un “buh buh” all’indirizzo di un giocatore di colore, scattano subito, e giustamente, le sanzioni previste per i cori razzisti. Ma se un’intera curva grida “fuori le tette” a una conduttrice televisiva o altri insulti irripetibili nei confronti di una procuratrice calcistica, non solo non si parla di sanzioni disciplinari ma neanche si intravvede un barlume di indignazione.
L’ultimo caso. Il confronto è presto fatto, basta pensare all’ultimo caso di razzismo da stadio: la partita di Serie A Atalanta-Fiorentina di una settimana fa, sospesa per tre minuti per i cori razzisti dei tifosi bergamaschi contro il viola Dalbert. Il terzino brasiliano ha chiesto all’arbitro di intervenire dopo essere stato vittima di insulti a sfondo razziale e ha ottenuto la sospensione della gara fino a che il comportamento ingiurioso non ha avuto fine. In questa occasione il presidente della Fifa Infantino ha commentato: "In Italia situazione grave" e la condanna del comportamento dei tifosi dell’Atalanta è stata pressoché unanime.
Sessismo “non pervenuto”. L’ultimo caso di sessismo da stadio è di domenica scorsa: Diletta Leotta ha fatto il suo ingresso a bordo campo del San Paolo all’inizio di Napoli-Brescia ed è stata accolta dal coro di un’intera curva che la invitava a mostrare il seno. Reazioni pervenute in favore della conduttrice di Dazn? Nessuna. Non solo a nessuno è venuto in mente di sospendere la gara, e sia: non esiste neppure un regolamento in tal senso, ma non si registra nemmeno la più pallida indignazione. Allora la domanda è: perché il razzismo sì e il sessismo no? Si tratta comunque di un coro discriminatorio e non è certo la prima volta che accade. C’è un “ottimo” precedente che si è verificato nel campo del Cagliari durante la gara con l’Inter del primo di settembre. Un incontro emblematico perché in una sola partita c’è stato razzismo, presunto, e sessismo invece conclamato.
Gli indecenti cori contro Wanda Nara. Mentre il giocatore nerazzurro ha chiesto l’intervento dell’arbitro per cori razzisti provenienti dalla tifoseria sarda, nessuno ha detto niente per i cori ingiuriosi rivolti dalla curva interista nei confronti della moglie e agente dell’ex nerazzurro Icardi. Contro Wanda Nara è stato detto di tutto, insulti tanto volgari e a sfondo sessuale che non possono essere qui ripetuti ma, ancora una volta, nessuna indignazione generale. La nostra è stata una delle poche testate a segnalare il pessimo episodio.
Il caso Lukaku. Per i cori contro Lukaku è stato aperto, giustamente, un procedimento di verifica che non ha poi dato esiti negativi per il Cagliari. Nel comunicato ufficiale pubblicato sul sito della Lega, il giudice sportivo ha scritto che i versi da scimmia rivolti a Lukaku, ripresi allo stadio e segnalati anche dalla Questura di Cagliari, «non sono stati intesi dal personale di servizio, né in vero dai collaboratori della Procura federale, come discriminatori». Per le urla contro Wanda Nara non si è fatto nulla semplicemente perché il comportamento non viene ritenuto sanzionabile né discutibile.
La reazione di Diletta Leotta. Lo dimostra la stessa reazione di Diletta Leotta rispetto ai cori napoletani: “fuori le tette”. La conduttrice ha fatto buon viso a cattivo gioco e non se l’è presa più di tanto, ha solo mostrato il pollice verso. Gesto interpretabile in più di un modo: da “non ve le faccio vedere”, a “brutti maiali fate schifo”. Quale delle due versioni appartenga alla diretta interessata non è dato saperlo, ciò che viene da pensare è che, se pure Leotta di fosse adirata e avesse gridato al sessismo, così come i giocatori di colore gridano - giustamente - al razzismo, non avrebbe avuto lo stesso supporto. E sono propensa a credere che se avesse reagito esprimendo indignazione, si sarebbe presa pure altri insulti, magari simili a quelli riservati a Wanda Nara.
La sottocultura maschilista da stadio. Perché uno degli effetti degli attacchi sessisti è questo: se sei la sola a indignarti ci fai pure la figura della stupida o, quantomeno, di quella che ha scarso senso dell’umorismo. Perché, in fondo, ridevano tutti mentre la curva gridava “Fuori le tette”, come se fosse una battuta spiritosa, mero folklore. Qualcosa che induce ogni tifoso a dare di gomito al proprio vicino di posto. A meno che il vicino di seggiola non sia sua moglie o sua figlia. E si ha un bel dire che gli stadi italiani debbano poter ospitare le famiglie: papà, mamma, figlie e figli.
Promozione, l'allenatore contro l'arbitro donna: ''In cucina o a fare le pulizie'', scrive il 2 aprile 2019 Repubblica Tv. Marcello Bazzurri, allenatore della Casa del Diavolo (campionato umbro di Promozione) si è espresso così contro l'arbitro Ilaria Possanzini, dopo che la sua squadra è stata sconfitta per 4-2 dalla San Marco Juventina. L'episodio è avvenuto a pochi giorni di distanza dagli insulti di Sergio Vessicchio, giornalista e telecronista per l'emittente CanaleCinqueTv, alla guardalinee Annalisa Moccia. ''Volevo scusarmi - ha spiegato poi l'allenatore Bazzurri - le cose che ho detto sono frutto di una reazione a caldo, non ho nulla contro il popolo femminile del calcio, seguo anche il calcio femminile, fanno le cose come devono essere fatte''. L'arbitro insultato ha invece commentato così l'accaduto: "Non saranno questi brutti episodi a escludere le donne dal calcio. Domenica riscendo in campo e basta".
"Vabbè, ma parliamo di calcio?". Quello femminile, per il conduttore tv Criscitiello, non lo è, scrive il 29 marzo 2019 Repubblica tv. Un estratto video che, nelle intenzioni della pagina Twitter dell'As Roma, voleva essere un plauso alla squadra femminile dell'Inter neopromossa in Serie A, si è trasformato in un caso. Nel video Michele Criscitiello, il Ceo di Sport Italia e conduttore del programma tv da cui provengono le immagini, introduce uno degli ospiti: Roberto Scarpini, giornalista di Inter Channel. Quest'ultimo ne approfitta per complimentarsi con la squadra femminile nerazzurra che ha vinto il campionato di Serie B e che, quindi, ha guadagnato il passaggio in A. Criscitiello sembra voler sminuire l'impresa, affermando: "Vabbè, ma parliamo di calcio?". Come a voler dire che quello femminile non meriti di essere definito tale. E' questa l'impressione che hanno avuto gli utenti di Twitter che hanno commentato il video. "E ride anche, dopo la battuta felice" scrive qualcuno. 'Vergognati' e 'scandaloso' vengono ripetuti più volte tra i commenti. Solo qualche giorno fa, un altro episodio di sessismo nel mondo del calcio in tv: Sergio Vessicchio, telecronista di una tv locale, ha insultato una guardalinee commentando così il suo operato in una partita di Eccellenza tra Agropoli e Sant'Angelo: "E' uno schifo vedere le donne venire a fare gli arbitri in un campionato in cui le società spendono centinaia di migliaia di euro".
"Uno schifo vedere le donne arbitro". Ed è bufera sul giornalista. Sta facendo il giro del web il video in cui un telecronista sportivo campano, Sergio Vessicchio, all'inizio di una partita di dilettanti dichiara: "È uno schifo, una cosa inguardabile vedere una donna su un campo di calcio". Ma alla fine chiede scusa, scrive Roberto Bordi, Lunedì 25/03/2019 su Il Giornale. Nel 2017, in Germania, un arbitro donna aveva fatto la sua comparsa per la prima volta in uno stadio di Bundesliga, il massimo campionato tedesco di calcio. Molto tempo prima, nel 2003, la nostra Cristina Cini aveva esordito come guardalinee in Serie A (Juventus-Chievo). Poi ci sono le altre decine di donne - tra arbitri e assistenti - che tutte le domeniche, in ogni parte del globo, scendono in campo permettendo che lo spettacolo del gioco più bello del mondo abbia inizio. Ma lo stereotipo della donna che deve stare lontana dal mondo del calcio resiste, vedi il recente scandalo provocato dall'ex giocatore Fulvio Collovati ("Le donne non parlino di tattica"). Ma quanto successo domenica pomeriggio sulle tribune di uno stadio di periferia della Campania non ha precedenti. Sergio Vessicchio, giornalista dell'emittente CanaleCinqueTv, all'inizio della telecronaca della partita tra Agropoli e Sant'Agnello si è lasciato scappare una serie di vergognosi insulti sessisti nei confronti della guardalinee, Annalisa Moccia della sezione di Nola. "Pregherei la regia di inquadrare l’assistente donna che è una cosa inguardabile. È uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri in un campionato dove le società spendono centinaia di migliaia di euro, è una barzelletta della Federazione una cosa del genere", ha detto il giornalista ancora prima che la partita avesse inizio. Per poi continuare: "Eccola qui, la vedete: una cosa impresentabile". Parole inaccettabili che hanno suscitato l'indignazione di tutti: colleghi, giornalisti e appassionati. Tutti insieme nel chiedere la testa di Vessicchio. Travolto da decine di messaggi di protesta, l'Ordine dei Giornalisti della Campania ha comunicato: "Il giornalista di Agropoli che ha deriso in diretta durante una partita di calcio una donna assistente dell’arbitro è stato sospeso dall’Ordine dei giornalisti della Campania per precedenti atti grazie all’ottimo lavoro del nostro Consiglio di disciplina. Ora su mio impulso scatta un ulteriore procedimento disciplinare per recidiva", il comunicato del presidente dell'Odg Campania, Ottavio Lucarelli. Nonostante le critiche ricevute da tutta Italia, Vessicchio tira dritto e su Twitter scrive un post destinato a rinfocolare ulteriormente gli animi: "Ritengo personalmente che far #arbitrare le #donne nel #calcio sia sbagliato per molti motivi, quindi confermo il mio pensiero. Perchè tutti questi squallidi moralisti non fanno una battaglia per farle giocare insieme ai maschi? La vera discriminazione è questa". Ritengo personalmente che far #arbitrare le #donne nel #calcio sia sbagliato per molti motivi, quindi confermo il mio pensiero. Perchè tutti questi squallidi moralisti non fanno una battaglia per farle giocare insieme ai maschi? La vera discriminazione è questa. Poi, finalmente, le scuse. "Ho sbagliato e ho fatto una stupidaggine. Mi sono espresso male; non sono sessista e farei governare il mondo alle donne. Ero in diretta e non potevo subito riparare. Mi sono accorto subito di aver detto una cavolata e ne pagherò le conseguenze", ha detto a Radio Crc, aggiungendo che "Le donne arbitro sono statisticamente meglio degli uomini. Non volevo creare nessun pandemonio. Non sono razzista, sono per l'integrazione a 360 gradi. Ho attaccato il sistema e la Federazione, ho sbagliato i modi nell'esprimere il mio pensiero".
Striscia pizzica il telecronista Vessicchio: "Non sono sessista". Sergio Vessicchio, telecronista che aveva rivolto parole poco piacevoli nei confronti di un'assistente arbitrale donna, è stato intervistato a Striscia la notizia: "Ho sbagliato e chiesto scusa", scrive Luca Sablone, Mercoledì 27/03/2019, su Il Giornale. Rajae Bezzaz - inviata di Striscia la notizia - ha intercettato e intervistato Sergio Vessicchio, il telecronista che si è scagliato contro l’assistente arbitrale Annalisa Moccia durante il match di Eccellenza Campania tra Agropoli e Sant’Agnello: "Prego la regia di seguire l’assistente donna. È una cosa inguardabile! È uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri in un campionato dove le società spendono centinaia di migliaia di euro...". Il giornalista dell’emittente locale CanaleCinqueTv ha ammesso: "Ho sbagliato e ho chiesto scusa alla donna". Ma tiene a ribadire la propria convinzione: "La mia idea è fissa e bloccata: le donne devono arbitrare le donne, gli uomini devono arbitrare gli uomini". E quando Rajae gli fa notare che il suo comportamento potrebbe assumere sfumature sessiste, Vessicchio replica: "Non mi accusi di sessismo perché non gliela faccio passare. Il sessista è Marcello Nicchi (presidente Aia, ndr) che non le fa arbitrare in Serie A. Vada da Nicchi". Il telecronista conclude: "Si deve dimettere il presidente. Le manda al macello e al massacro sui campi di periferia".
Il Vessicchio in me. Pubblicato da Massimo Gramellini martedì, 26 marzo 2019 su Corriere.it. Il telecronista di una tv locale Sergio Vessicchio ha gridato in diretta che una donna guardalinee è uno schifo, una barzelletta, una cosa inguardabile e impresentabile. Non gli si può neanche riconoscere l’attenuante assai in voga della «tempesta emotiva», perché quelle parole non gli sono uscite sull’onda di una decisione arbitrale contestata, ma prima che la partita avesse inizio, mentre l’assistente Annalisa Moccia stava ancora controllando che nelle reti delle porte non ci fossero buchi. I suoi erano insulti a prescindere. Insulti sulla fiducia. Sarebbe facile prendere le distanze da Vessicchio. Facile e autoassolutorio. Lui è il simbolo spudorato di qualcosa che riguarda anche me. Quel diavoletto reazionario sempre pronto a spuntare, appena una donna pretende di spiegare il fuorigioco, o un maschio si illumina parlando di pannolini. Ogni novità va a sbattere contro uno stereotipo che a torto viene chiamato buon senso, mentre spesso è solo senso comune. Chi lo pronuncia non pensa mai che lo stereotipo possa ferire un’anima e svalutare un sogno (chissà quanto avrà faticato la guardalinee per arrivare lì). I pregiudizi di genere sono pietre scagliate contro l’individuo e la sua libertà. Alla vigilia del congresso di Verona sulla famiglia, dove il telecronista campano sembrerebbe un cavernicolo, verrebbe da parafrasare Giorgio Gaber: non mi preoccupa Vessicchio in sé, ma Vessicchio in me.
Vessicchio: “Arbitro donna? L’ho resa famosa! Ha la protuberanza, non può stare in campo con 22 maschi”. Vessicchio ha rilasciato nuove dichiarazioni ai microfoni de La Zanzara, trasmissione di Radio 24, scrive il 27/03/19 la Redazione di IamNaples.it. Il giornalista Sergio Vessicchio, che tanto ha fatto parlare di sé in questi giorni per le frasi sugli arbitri donna, ha rilasciato nuove dichiarazioni ai microfoni de La Zanzara, trasmissione di Radio 24: “Una donna non può stare con 22 maschi in campo. Hanno travisato solamente una frase detta in quel modo. E quindi sono finito nel tritacarne. Le donne nel calcio maschile non le sopporto. Questo lo confermo. La signorina non l’ho offesa. Ho detto che è uno schifo che la Figc mandi sui campi di calcio uomini e donne, una promiscuità inaccettabile. Lo confermo questo”. Vessicchio ha aggiunto: “Impresentabile è il fatto che una donna non può entrare tra 22 maschi. Non può starci assolutamente. Se venite qui ti accorgi di che pericoli corre. Innanzitutto sono vessate, malmenate, insultate. Il capo degli arbitri Nicchi si dovrebbe dimettere. Se ne deve andare, perché voi non sapete cosa succede in Campania. Le donne non vanno ad arbitrare Juventus-Fiorentina, quella è la discriminazione. Le donne stanno con le donne e gli uomini con gli uomini. Per me è un principio basilare. E le donne sono anche migliori, sono superiori, arbitrano meglio. Mentre la classe arbitrale italiana è uno schifo. d Annalisa Moccia, comunque mando anche i fiori, chiedo scusa se si è offesa ma non ho mai detto che lei è uno schifo. Contro lei non ho nulla. Ma se l’avete vista con tutti quei maschi, era inguardabile, con le protuberanze femminee, la coda di cavallo, in un campo di calcio. Ma stiamo scherzando?! Non vestono scollate? Si, ma la protuberanza si vede. E poi in mezzo al campo non ha quello stile di maschio, non ha la forza, non ha la presenza. E’ fuori luogo, sono impresentabili sotto quest’aspetto. Quindi fiori alla Moccia, l’ho fatta diventare famosa, dai”.
IL MORSO DELL’ASPESI. Da “il Venerdì - la Repubblica” l'8 aprile 2019. Non ho mai visto una partita di calcio e neppure mio marito ne ha una grande passione: cioè non è un tifoso, non va allo stadio da anni per orrore degli striscioni e degli insulti e, proprio se restiamo in casa, guarda le partite: non ha una squadra del cuore, forse perché abitando noi a Siena abbiamo tutti e due nel cuore una contrada, ognuno la sua, immagini gli scontri in famiglia. Però siamo rimasti di sasso insieme leggendo di quel telecronista sportivo che si è ammattito per la presenza in campo di un' arbitra donna: io non so se sia una novità o no, ma esistono ancora persone che pensano che certi mestieri sono privilegio maschile, come un tempo il medico o il magistrato? Oggi le donne sono anche generali e primi ministri: soltanto il sacerdozio è ancora loro proibito, e su questo, avendone voglia, ci sarebbe da discutere.
Risposta di Natalia Aspesi. Forse lo stadio è rimasto l'ultimo tempio davvero maschile, dove il maschio esprime la sua primordialità, la sua violenza, la sua guerra. Ovvio che non mancano le tifose, come abbondano le calciatrici, le prime hanno il diritto a essere una costola dei maschi di casa, le seconde di giocare tra loro in un clima che forse gli uomini sentono come domestico, conventuale, non loro. Un'altra cosa insomma. Ma la villanata del povero telecronista offeso dall'invasore femmina è più che un insulto, è un grido di disperazione per aver perso anche l' ultimo spazio interdetto a un genere che nei secoli di spazi non ne aveva ed era un servizio come un altro, sesso, prole, lavoro domestico. Questo è un momento particolare, che ovviamente passerà. Ma nella frustrazione generale, le donne stanno tornando a essere un fastidio, una usurpazione di diritti. Si guardi attorno, la guerra contro le donne è ricominciata, e non solo negli stadi.
Costacurta: "Wanda? Se fosse stata mia moglie l'avrei cacciata di casa". Costacurta ha espresso il suo pensiero su Wanda Nara: "Se fosse mia moglie, le proibirei di dire quelle cose ai miei compagni, sennò la caccio fuori di casa". Sandro Piccinini lo bacchetta: "Queste parole sanno di sessismo e maschilismo", scrive Marco Gentile, Lunedì 18/02/2019, su Il Giornale. Domenica nera per due ex calciatori come Fulvio Collovati e Billy Costacurta che sono stati accusati di sessismo per alcune frasi, molto dure, durante le loro ospitate a "Quelli che il calcio" e a "Sky Calcio Club". Collovati ha avuto un'uscita infelice nei confronti di Sara Piccinini, moglie di Federico Peluso difensore del Sassuolo ed ex di Atalanta e Juventus. La consorte del difensore neroverde stava cercando di motivare la pesante sconfitta della squadra di De Zerbi sul campo dell'Empoli con l'ex di Inter e Milan che è uscito fuori con questa "battuta": "Le donne non possono parlare di tattica, ne capiscono solo gli uomini". Alessandro Costacurta, invece, di solito sempre educato e pacato ha espresso un suo giudizio sulla querelle legata a Wanda Nara e Mauro Icardi. L'ex giocatore del Milan, riferendosi a Wanda, ha sentenziato: "Se fosse mia moglie, le proibirei di dire quelle cose ai miei compagni, sennò la caccio fuori di casa". Ad accusarlo di sessismo e maschilismo l'ospite di serata, l'ex telecronista di Mediaset Sandro Piccinini che ha ripreso Billy per le sue parole espresse sulla signora Icardi. Queste parole sono state recepite anche da pubblico a casa e dagli utenti sui social che non hanno gradito le parole dell'ex icona del Milan.
La condizione della donna nel nostro calcio, scrive Nello Mascia su Il Napolista il 18 Febbraio 2019. La vicenda Wanda Nara, il primitivo Costacurta, l’imbarazzante Insigne, il cafone Collovati. Per fortuna, la madre di Zaniolo ha fatto un passo indietro. Nel deserto di noia di un campionato finito, via alle soubrette e all’avanspettacolo. Invade la scena questa signora che vuole tutto e tutto vuol fare.
Sempre alla disperata ricerca di riflettori e di primi piani, figuriamoci se la signora si perdeva l’occasione della scena madre con lacrime in diretta tv. L’importante è apparire. Al diavolo gli sconquassi che potrebbero minare la carriera dell’amato consorte, incapace, tra l’altro, a quanto pare, di arginarne gli impeti imprudenti di una vanità irrefrenabile. Molto interessanti i commenti a margine. Come quello del magnifico Billy in versione Uomo della Clava: “Io vado da mia moglie e le dico: tu non dici quelle cose dei miei compagni! Altrimenti ti caccio di casa”.
In questo Festival di cafonaggine fa sicuramente di meglio il prode Fulvio. Il quale riserva a Sara Piccinini, moglie del calciatore del Sassuolo, Federico Peluso la seguente elegante espressione: “Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco”.
Mesti palcoscenici di mediocrità. Ai quali non si sottrae – purtroppo – il nostro Pibe di Fratta. Protagonista in settimana di un imbarazzantissimo scherzo organizzato dalla moglie per “giocare” – diciamo così – sulla proverbiale gelosia di lui. Se ne è molto parlato. E l’immagine che vien fuori del Pibe è – ancora purtroppo – non quella del ragazzo innamorato un po’ sempliciotto, ma piuttosto di un maschio dinosauro molto ottuso, molto reazionario e molto autoritario.
Da questo polverone che mischia il sessismo al calcio, l’odore puro dell’erba allo spettacolo per fortuna per ora si scansa la signora Francesca Costa madre giustamente ammirata del golden boy Nicolò Zaniolo. La quale – fra una caduta di stile e un’altra – pare abbia assicurato di non avere fra i suoi obbiettivi immediati una partecipazione all’Isola. Effetti collaterali della mancanza di calcio. Ma di campionato si dovrà pur sempre dire.
La partita più difficile si gioca a Bergamo. La spunta Ringhio che non sarà un genio, ma gli va riconosciuto il merito di aver saputo lavorare sulle teste dei suoi ragazzi. Soprattutto il turco. E poi il monumentale Bakayoko muro davanti alla difesa. Poi lì in mezzo impazza l’irrefrenabile Pistolero che di questi tempi come tocca il pallone fa goal. Nel campionatino per l’Europa sembrano proprio i rossoneri quelli più vivi e motivati. Tutto sommato vivi e motivati appaiono anche i cugini dell’altra sponda del Naviglio. Che dimostrano sul campo come si può vincere anche senza Maurito. Si può vincere se c’è un Perisic almeno decente, se c’è un Lautaro desideroso di esserci, e se c’è un Ninja decisivo come raramente si era visto da queste parti. Si può vincere soprattutto se torna il culo proverbiale del Parapet.
Collovati, Insigne, Costacurta e gli autogol della nazionale maschilista, scrive il 19 febbraio 2019 Claudio Paglieri su Il Secolo XIX. Il politically correct, diciamo la verità, aveva scocciato: anni e anni, anzi decenni, di lenta avanzata, come la goccia che scava la roccia, per spiegarci cosa si può e non si può dire; o addirittura cosa si può e non si può pensare. Ma il politically scorrect sembra riguadagnare posizioni con irrisoria facilità: in pochi mesi ha spazzato via le difese avversarie e segna gol a ripetizione. Prendiamo per esempio Fulvio Collovati, che domenica a Quelli che il calcio, su Rai 2, dopo un intervento della moglie di Peluso (calciatore del Sassuolo) ha detto seriamente la seguente cosa: «Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco». La donna può parlare di calcio, leggere i risultati della giornata, magari anche fare un commento da tifosa; ma quando si entra in un discorso serio, quello tattico appunto, è meglio che stia zitta. Perché di tattica le donne non capiscono niente, come di fisica, matematica e parcheggi. Collovati è stato travolto dalle critiche: «Mentalità primitiva», ha detto la ct della Nazionale femminile Milena Bertolini. Ma intanto il gol lo aveva segnato. Perché in tanti lo hanno difeso, a partire da sua moglie Caterina: «Parlare di calcio certo, ma la tattica è altra cosa (…) saluti dalla moglie di un uomo che rispetta le donne più di molti altri». E in effetti, guardando gli altri e quello che hanno mostrato in tv nei giorni scorsi, c’è quasi da darle ragione. Vogliamo parlare di Lorenzo Insigne, attaccante del Napoli? Le Iene di Italia 1 coinvolgono la moglie in uno scherzo, facendo credere a lui che un regista la stia chiamando per un provino. E Insigne come reagisce? Fa scenate di gelosia, le controlla il cellulare, la fa dormire sul divano per punizione, arriva quasi ad aggredire l’attore che dovrebbe girare con lei. Poi lo scherzo viene svelato, sai le risate, un altro bel gol per la squadra maschile. Alla mente tornano chissà perché le pagine di Elena Ferrante e delle mogli napoletane maltrattate negli Anni Settanta. Per fortuna non siamo a quei livelli, ma tornare indietro è un attimo. Anche Billy Costacurta, come Collovati altro ex difensore rossonero, si è distinto su Sky con la sua specialità, il colpo di testa: a proposito di Wanda Nara, moglie e procuratrice di Icardi accusata di volere sempre più soldi e di avere spaccato la squadra, ha detto che «se fosse mia moglie, le proibirei di dire quelle cose ai miei compagni, la caccio fuori di casa» (video in cima alla pagina). Tre a zero, ma non è mica finita. I maschi hanno una tattica migliore, come ci ha appena spiegato Collovati, le femmine non si sanno difendere e quelli delle Iene poi ci hanno preso gusto. Così anche la “doppia intervista” al giovane romanista Zaniolo e alla mamma Francesca, colpevole di farsi troppi selfie, diventa occasione per domande piene di doppi sensi che fanno arrabbiare il figlio. Il mondo del calcio si scandalizza giustamente per l’umiliazione inflitta ai ragazzini del Pro Piacenza, mandati in campo in Serie C a subire 20 gol, ma anche il poker dei giorni scorsi non è stato uno spettacolo esemplare. Chi chiede a gran voce di stoppare i cori razzisti dovrebbe dare un minimo di buon esempio. Invece le donne nel calcio restano «quattro lesbiche» (copyright dell’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Belloli), delle oche che non capiscono il 4-4-2, delle Milf o delle cacciatrici di soldi. In serata, poi, è intervenuto il Var. Collovati deve essersi rivisto al ralenty e ha porto le sue scuse: «Frasi inopportune, non era mia intenzione offendere nessuno». Era un autogol. Ma ormai i maschi avevano i tre punti in tasca.
Il Corsera contro il maschilismo di Collovati e Costacurta, scrive il Napolista il 19 Febbraio 2019. Il quotidiano di via Solferino accusa i due opinionisti. La ct della Nazionale femminile: «Frasi che denotano una mentalità primitiva». “Wilma, dammi la clava”. Comincia così l’articolo che il Corriere della Sera dedica alla questione femminile nel calcio. E si sofferma sulle dichiarazioni in tv di Fulvio Collovati («Quando sento una donna parlare di tattica, mi si rivolta lo stomaco») e Billy Costacurta («Se mia moglie avesse detto quelle cose ai miei compagni, io le avrei detto: tu non lo dici, sennò ti caccio fuori di casa»). Stavolta il Corriere della Sera non fa apprezzamenti sull’Edipo irrisolto di Icardi, e si schiera senza ambiguità. Le donne possono parlare di gol, risultati, sostituzioni, forse persino di Var; ma non di tattica. E possono pilotare jet, osservare per prime una particella compatibile con il bosone di Higgs, volare su un razzo interplanetario sulla stazione internazionale orbitante; ma non fare le agenti del pallone (senza schierarsi eccessiva- mente con Wanda, che l’ha combinata grossa…). Viene poi riportata una dichiarazione della ct della Nazionale di calcio femminile che si è qualificata ai Mondiali, Milena Bertolini: «Un’uscita così – il riferimento è a Collovati – la associo a una mentalità primitiva, come nelle migrazioni barbariche quando le donne avevano come unico compito occuparsi delle vivande. Qualche anno però è passato: hanno inventato il frigorifero. Ma c’è chi è rimasto indietro».
I Moralizzatori, sempre con il ditino alzato. La Repubblica non è da meno.
Il machismo nel pallone, la carica degli ex calciatori contro Wanda Nara: ''Fuori dallo spogliatoio''. Costacurta, Marocchi, Collovati & C. Al centro della scena non ci sono Icardi e la scandalosa consorte quanto ormai la categoria dell'"ex calciatore maschio latino". Ex giocatori che adesso esercitano la professione di commentatore tv e si pavoneggiano a colpi di sessismo, scrive Fabrizio Bocca il 18 febbraio 2019 su La Repubblica. Alessandro Costacurta, Giancarlo Marocchi, Fulvio Collovati & C. Al centro della scena non ci sono più Mauro Icardi e la scandalosa consorte Wanda Nara quanto ormai la categoria dell' "ex calciatore maschio latino". Solitamente uno che fu campione - ma qualche volta anche normalissimi giocatori con bella presenza e parlata sciolta - che adesso esercitano la professione di commentatore tv, e si pavoneggiano con un po' di quel sano innato machismo del pallone, ricchissimo di concetti tipo: lo spogliatoio è sovrano, lo spogliatoio è sacro, lo spogliatoio comanda. E poi ancora le donne non capiscono nulla di pallone, le donne non si devono impicciare. Ci manca che stiano in cucina e siamo al completo. Insomma non vedeva l'ora la categoria dell'ex calciatore maschio latino ora commentatore tv di rovesciarsi sulla scandalosa Wanda Nara, la mangiatrice di calciatori, quella che si spoglia volentieri per un tweet, che va in tv a parlare di pallone, che osa esprimere giudizi. Parlare addirittura, che orrore, di tattica. Che si permette, la sfacciata, di fare l'agente di un grande calciatore come Maurito Icardi. Il binomio moglie+agente ha fatto boom, come se il calcio non fosse pieno di parenti maschi alfa che fanno l'interesse di figli, fratelli, nipoti, cugini nella maniera più intrusiva e insinuante possibile. Pure loro spaccano gli spogliatoi, anche se oggettivamente non possono permettersi di farsi fotografare in tanga. Tra parentesi la storia della coppia glamour e scandalosa, che esagera coi selfie chiappe all'aria, fa a pugni spesso anche una realtà quotidiana ben diversa. Mauro (26 anni domani) e Wanda (32) - pure 'sta storia di lei 6 anni più grande di lui mica va tanto bene, lo ha chiaramente plagiato... - gestiscono una famiglia con cinque bambini. Per cui la vita sfrenata della coppia ipertatuata e molto spogliata spesso è piena anche di feste di ragazzini, palloncini colorati, e prole da accompagnare magari alla scuola calcio. Con tanto di sassata alla macchina o pubblico ludibrio di fischi non appena a San Siro si rendono conto che i due reprobi sono in tribuna a vedere Inter-Samp. Insomma il mondo del calcio, come quello dello spettacolo, è fatto così, oggi anche ipersocial, senza più vita privata, tutto spudoratamente pubblico. Però poi ci vuole il maschio latino a tenerne le redini e dettare le regole, se no sai che casino, e tu femmina fermati sulla porta di questo benedetto invalicabile spogliatoio. Cioè precisiamo, se nello spogliatoio entra Mino Raiola - il più spudorato e intrusivo degli agenti di calcio - va bene, se Wanda Nara dice che a Mauro Icardi non gli arrivano più i palloni per fare gol apriti cielo. La Wandissima paga lo scotto e la gelosia anche di fare la commentatrice tv al pari e a fianco dei colleghi maschi: tutto fa show, anche se poi lei buca l'audience più di tutti, e a notte fonda della classica domenica del pallone stanno tutti alla tv a vedere Tiki Taka con Wanda in lacrime e Marotta al telefono in diretta che addirittura la consola e le tende la mano. L'Inter ormai è meglio dell'Isola dei Famosi. Guarda caso però il polpettone tv diventa velenoso quando la moglie di Maurito sta trattando il rinnovo del contratto del marito. Così mentre in questa ultima settimana si assisteva alla degradazione pubblica di Maurito Icardi e alla fustigazione della spudorata soubrette, l'ex calciatore maschio latino mostrava tutto il suo ego da gallo cedrone. Giancarlo Marocchi è stato chiarissimo e ha sentenziato da vero padrone e conoscitore del sacro recinto: "E' importante che la moglie esca dallo spogliatoio". Fulvio Collovati è stato quasi ingenuo e tenero nella sua affermazione, ferma alla società italiana anni 60: "Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco, non ce la faccio. Mia moglie Caterina non si è mai permessa di parlare di tattica con me". Praticamente un dinosauro, un maschilista tutto d'un pezzo - lo ammette lui stesso - niente affatto convinto di queste donne che si impicciano di tutto. Ci mancava, chi porta i pantaloni in questa casa? Preoccupante, ma francamente anche da ridere. Il peggio però lo ha raggiunto forse Alessandro Costacurta, uno quasi sempre politically correct, volto pulito del giocatore evoluto, ma nel calcio convintamente maschilista e sessista. "In questi casi io vado da mia moglie e le dico: non devi parlare dei miei compagni così. Altrimenti ti caccio di casa". Ecco, siamo venuti al punto: ti caccio di casa... Forza Martina (Colombari), non c'è più tempo da perdere, fallo anche tu per la Wandissima: se proprio deve essere guerra dei sessi allora mano al mattarello.
COSTACURTA E LA GAFFE SU WANDA NARA. Video “Mi scuso. Mia moglie Martina Colombari...” Costacurta si scaglia contro Wanda Nara in diretta tv ma commette una gaffe: “Fosse stata mia moglie l’avrei cacciata di casa”. Poi chiede scusa, scrive il 19.02.2019 Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario. Alessandro Costacurta non si è riconosciuto in quella frase su Wanda Nara che ha pronunciato durante Sky Calcio Club. «Criticavo il procuratore, indipendentemente dal genere sessuale. Tutto ruota intorno a quello», ha dichiarato l’ex difensore del Milan al Corriere della Sera. Ma la sua frase riferita a una moglie è apparsa a dir poco sgradevole. «Sono d’accordo. Ho sbagliato e mi scuso. Una frase così non si dovrebbe mai sentire». Il 52enne ha avuto comunque la sfortuna di inciampare in una giornata in cui montavano le polemiche su Collovati. «Quando ho sentito Fulvio dire che se una donna spiega la tattica del calcio gli si rivolta lo stomaco, mi sono cadute le braccia. Però, poi, sono finito sulla stessa barca». Costacurta ha rivelato anche cosa le ha detto sua moglie Martina Colombari quando lo ha visto: «Mi sa che hai fatto una cavolata, Billy!». Anche perché in Federazione ha lottato per il riconoscimento del calcio femminile. «Io le donne nel calcio le voglio. Il mio lavoro commissariale in Federcalcio lo dimostra. La Panico all’Under 15 l’ho proposta io. Non pretendo di essere all’avanguardia, ma nel mio piccolo qualcosa ho fatto…». (agg. di Silvana Palazzo)
Attacco in diretta tv da parte dell’ex difensore del Milan e della nazionale italiana, Billy Costacurta, nei confronti della moglie e procuratrice di Mauro Icardi, Wanda Nara. All’ex rossonero, opinionista di Sky Sport, non sono piaciute le dichiarazioni della showgirl argentina durante la puntata recente di Tiki Taka (programma di Italia 1 condotto da Pierluigi Pardo), che in lacrime ha sottolineato la volontà del numero 9 nerazzurro di rimanere all’Inter, nonostante le diatribe sorte negli ultimi giorni, leggasi la fascia di capitano toltagli, poi assegnata a Samir Handanovic, e la mancata partenza per Vienna nonostante convocazione. Un’uscita, quella di Tiki Taka, che non è appunto piaciuta a Billy Costacurta, che ospite come di consueto presso gli studi della televisione satellitare ha affermato: «Se mia moglie avesse detto queste cose io le avrei detto: ‘Tu non lo dici, altrimenti vai via di casa’. Manca di rispetto ai compagni di squadra».
Peccato però che tali dichiarazioni abbiano provocato non poca polemica, a cominciare dalla replica di Sandro Piccinini, storico giornalista sportivo Mediaset anch’egli in studio, che ha appunto ribattuto così a Costacurta: «Questo discorso non mi piace, lo trovo sessista e maschilista». Ma quello di Costacurta non è stato l’unico discorso definito dalla rete e da molti giornalisti, un po’ troppo “sessista”. Nel mirino anche le dichiarazioni di Giancarlo Marocchi, altro ex calciatore nonché altro opinionista di Sky Sport, che commentando la vicenda Nara-Icardi ha spiegato «E’ importante che la moglie esca dallo spogliatoio». Della stessa linea di pensiero, l’ex campione del mondo 1982 Fulvio Collovati, che dagli studi Rai ha invece affermato: «Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco, non ce la faccio. Mia moglie Caterina non si è mai permessa di parlare di tattica con me». Insomma, tutte dichiarazioni che a molti sono apparse un po’ troppo maschiliste e sessiste, un po’ come ha già spiegato da Piccinini del resto.
«Sì, ho tradito Billy». Martina Colombari si confessa nel suo libro "La vita è una", scrive l'08 aprile 2011 Stefania Leo su Lettera 43. La vita di Martina Colombari è una e ora è in un libro. Nella sua introduzione, l’autrice lo definisce «una pietra miliare della letteratura italiana», l’inizio di una prepotente escalation di sarcasmo messa su pagina con il placet del suo co-autore, il giornalista Luca Serafini. La Colombari ha un vantaggio rispetto alle colleghe showgirl e alle regine della passerella: un viso pulito e una natura semplicemente dirompente che piacciono a tutti. Le stesse cose che hanno convinto la giuria di Miss Italia a incoronarla regina di bellezza nel 1991.
L’ossessione per la linea e gli amici. La vita è una nasce dall’irresistibile esigenza di raccontare l’impegno di volontaria a Haiti, cosa di cui si parla non prima di pagina 107. L’introduzione all’argomento è però all’inizio del libro con questa frase: «Io sono l’unica italiana che quando va in missione umanitaria ingrassa».
UNA RAGAZZA NORMALE? L’ossessione per il suo aspetto fisico è un tema ricorrente e sviscerato a lungo in questa biografia. Questo basta a ricordare al lettore che non è sufficiente essere di origini romagnole, spigliate e casinare, sposate con lo stesso uomo da sempre per convincere chi legge di essere come tutti gli altri. Lei invece ci prova a raccontarsi come una ragazza normale, ci prova disperatamente. Racconta dei suoi amici in maniera molto dettagliata: è dura ricordare anche solo il primo dei nomi di tutti i suoi agenti a cui telefona quando è in crisi o quando ha qualcosa da raccontare o di cui gioire.
I dettagli più pruriginosi. Il libro si fa leggere come un settimanale patinato dal parrucchiere, se solo si ha la pazienza di saltare tutti i «non giudicatemi» e i «sono come tutti gli altri». Perché lei è Martina Colombari e il lettore è un uomo o una donna come tanti che ha bisogno di conoscere tutti i dettagli di una vita da favola e non di un’esistenza normale. Chi compra questo libro vuole farsi gli affari di Martina Colombari, avere la libertà di giudicarla e di scoprire i dettagli più pruriginosi della sua esistenza. Gli autori, ben consapevoli di questo, non lesinano episodi piccanti della vita della showgirl, passando in rassegna Alberto Tomba e Alessandro Costacurta, amanti compresi.
BILLY TRADITO. L’episodio chiave di questa biografia infarcita di allegre parolacce e aneddoti spesso inutili e lacrimevoli è proprio la confessione del flirt avuto con Valerio Morabito, figlio di un noto costruttore romano. Ed è qui che si vede il tocco di chi vive nel mondo dello spettacolo da due decadi: Martina confessa di aver tradito Billy. Lui lo apprende dal libro, s’infuria, poi perdona: la vita della Colombari passa dalla pagina mesta di un libro da 18 euro a migliaia di più chiassose pagine di giornale, tv e web. Perché ormai le star che fanno lodevole volontariato hanno riempito i tabloid, ma di tradimenti non ce n’è mai abbastanza.
La galanteria di Silvio Berlusconi. Nel suo libro la Colombari ha confessato di aver tradito il marito Costacurta con Valerio Morabito, figlio di un noto costruttore romano. Ma Billy l'ha perdonata. Non manca un interessante paragrafo su Berlusconi in cui Martina sposa l’opinione di tutti quelli che definiscono il premier un uomo sensibile al fascino femminile, ma soprattutto galante. Da moglie di un ex giocatore del Milan non c’è di che stupirsi. Sì, la vita è davvero una e visto che oggi tutti possono scrivere, perché mai una ragazza “come tante altre” che ha avuto tutto e anche di più dalla vita come Martina Colombari doveva privarsi del proprio personale ritratto biografico?
Martina Colombari: ho tradito Costacurta, scrive il 25 Febbraio 2011 Bergamo Sera. “Ho tradito Billy”. Parola di Martina Colombari a “Verissimo”, il programma tv di canale 5 condotto da Silvia Toffanin. La bellissima ex Miss Italia ha raccontato di aver tradito Billy Costacurta con Valerio Morabito durante il loro periodo di crisi, quando era fidanzata con il calciatore del Milan già da 7 anni. “Dopo sette anni di fidanzamento io e Billy abbiamo vissuto una crisi – ha confessato la Colombari nello studio tv di “Verissimo” -Ci siamo messi insieme che io avevo solo vent’anni e a 27 ero un po’ cambiata. Ci eravamo troppo abituati l’uno all’altra, troppo presi ognuno dal proprio lavoro e abbiamo perso il controllo della situazione. Io non sono stata tradita, ma ho tradito però sono stata perdonata. Anche se preferirei non sapere, se dovessi scoprirlo credo, comunque, che per amore lo supererei. La crisi ci è servita perché poi ci siamo addirittura sposati ed è nato, poco dopo, nostro figlio Achille”.
Fulvio Collovati, la moglie lo difende: “Il calcio sia commentato dai maschi, le donne restino un passo indietro”. Caterina ha voluto poi difendere il marito da chi lo ha accusato di sessismo con pesanti commenti sui social: "Questa gogna mediatica cui è stato sottoposto è di una cattiveria infinita", scrive Il Fatto Quotidiano il 19 Febbraio 2019. Dopo le polemiche nate dall’attacco rivolto a Wanda Naradel l’ex calciatore Fulvio Collovati a “Quelli che il calcio”, sulla vicenda è intervenuta la moglie Caterina che, in un’intervista ai microfoni di Rai Radio2, ha detto di condividere quanto detto dal marito e ha parlato anche del loro rapporto. “Di tattiche io e Fulvio non parliamo mai. Su questo io e Fulvio siamo d’accordo, le donne devono stare un passo indietro, lo dico ad alta voce – ha detto -. Lasciamo che il calcio resti commentato dai maschi, basta con questo politicamente corretto che ci distrugge”. “E anche i politici che si sono scagliati contro mio marito, si occupassero del perché le donne che vanno a denunciare un compagno violento o un marito violento vengono ammazzate dopo due minuti perché nessuno fa una legge in grado di mettere in galera subito gli uomini violenti”. Caterina ha voluto poi difendere il marito da chi lo ha accusato di sessismo con pesanti commenti sui social: “Fulvio Collovati, mio marito, è l’uomo più rispettoso che io abbia conosciuto al mondo, il rispetto gliel’ha insegnato sua madre quando era bambino, ha cresciuto due figlie, io gli sto accanto da 37 anni. E’ di una grande correttezza anche quando si pone in tv, questa gogna mediatica cui è stato sottoposto è di una cattiveria infinita”. Infine, una battuta anche sul caso Wanda Nara e Icardi da cui è partito tutto il dibattito: “La vicenda Wanda Nara è surreale, mi chiedo se lei voglia utilizzare il povero Icardi per arrivare chissà dove”.
Da I Lunatici Radio2 il 19 febbraio 2019. Caterina Collovati, moglie dell'ex calciatore Fulvio, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Caterina Collovati ha detto la sua sulle polemiche che hanno travolto il marito nelle ultime ore: "Di tattiche io e Fulvio non parliamo mai. Su questo io e Fulvio siamo d'accordo, le donne devono stare un passo indietro, lo dico ad alta voce. Io sono una che difende le donne, ne ho fatto la mia professione, tratto quasi ogni giorno dei diritti delle donne, ma lasciamo che il calcio resti commentato dai maschi, basta con questo politicamente corretto che ci distrugge. Il pensiero unico ci sta portando alla rovina, il pensiero del mondo unisex mi infastidisce. Vorrei che tutte queste femministe che si sono rivoltate contro mio marito si rivoltassero per ben altre motivazioni. E anche i politici che si sono scagliati contro mio marito, si occupassero del perché le donne che vanno a denunciare un compagno violento o un marito violento vengono ammazzate dopo due minuti perché nessuno fa una legge in grado di mettere in galera subito gli uomini violenti. Queste sono le cose che devono preoccupare noi donne, non una battuta pronunciata in un contesto goliardico e che sotto sotto profuma di verità. Fulvio Collovati, mio marito, è l'uomo più rispettoso che io abbia conosciuto al mondo, il rispetto gliel'ha insegnato sua madre quando era bambino, ha cresciuto due figlie, io gli sto accanto da 37 anni. E' di una grande correttezza anche quando si pone in tv, questa gogna mediatica cui è stato sottoposto è di una cattiveria infinita". Caterina Collovati è un fiume in piena: "Io trascinerò in tribunale quelli che mi hanno scritto sui social in privato delle cose inenarrabili, solo perché mi sono permessa di difendere mio marito. Questo è un Paese che attraverso queste sciocchezze perde di vista le problematiche importanti. C'è gente che mi sta dicendo le peggiori cose. Mio marito ha detto quello che pensano il novanta percento degli italiani, tutti abbiamo il diritto di parlare, di esprimerci, anche sul calcio, ma le femministe mi spieghino come mai non esistono allenatrici donne nel nostro Paese. Forse quella roba lì è un tantino complicata. Diciamolo. Io non ho paura di dire queste cose, ne parlo da donna vicino alle donne, dobbiamo continuare a lottare, ma per le cose serie. Non mi aspettavo tutto questo clamore, ritenevo gli italiani un po' più intelligenti sinceramente. Ognuno deve essere libero di esprimere un'opinione, o in questo Paese è diventato vietato parlare? Abbiamo ricevuto una valanga di insulti, ora le figlie, la famiglia di Collovati, come ci rimane? In quella trasmissione c'è un'atmosfera simpatica, forse l'espressione “mi ribalta lo stomaco” è stata un po' forte, ma è stata una cosa detta nell'ambito di scherzi che in quel programma si fanno per due ore e mezza. Noi donne se continuiamo a mettere l'accento su queste cose ci ghettizziamo". Su Wanda Nara: "Sarebbe da aprire un altro capitolo. Quanto le donne rovinano l'immagine del marito calciatore? La vicenda Wanda Nara è surreale, mi chiedo se lei voglia utilizzare il povero Icardi per arrivare chissà dove".
Simona Bertuzzi per “Libero quotidiano” 10 giugno 2019. Di cognome fa Cimmino ma si fa chiamare Collovati come il marito calciatore, e a qualcuno non è ancora andato giù. Un po' perché Caterina Cimmino, pardon Collovati, ha costruito la sua carriera su quell' uomo importante che nell' 82 vinse i mondiali di calcio. Un po' perché l' ex difensore e numero uno di squadre come Milan, Inter e Roma ha avuto l' ardire di dichiarare in tivù che le donne non capiscono un tubo di tattica. Insomma un ginepraio. In cui la nostra interlocutrice - tra parentesi giornalista, conduttrice, e opinionista tv - si è infilata con orgoglio e sregolatezza difendendo cognome e marito, e facendo incazzare metà del mondo femminile. Nello studio 4 di Telelombardia lei è la protagonista incontrastata. Tacco dodici, capello fluente, un volto bellissimo che ha preso in giro il tempo e si è salvato da qualunque ritocchino, «oddio l' idea di guardarmi un giorno allo specchio e non riconoscermi più mi terrorizza». Le sue mani seguono il flusso delle parole e si agitano e fremono alla maniera dei napoletani, la parlantina è tipica della laureata in legge aspirante avvocato che poi torna alle origini quando si incazza e sbotta d' un fiato «Gesù, Giuseppe, Maria». Con la sua trasmissione "Detto da voi" sveglia una buona parte di lombardi e passa con disinvoltura dai casi di stalking alle faccende pruriginose di tradimenti e letti senza scomporsi di un millimetro. Gli ascoltatori la inseguono ovunque vada e qualunque cosa faccia (oramai è una presenza fissa dalla D' Urso).
Chiariamo subito la faccenda del cognome.
«Un nome d' arte in verità. Nato dietro le quinte di una trasmissione tivù mentre attendevo che mio marito tornasse dall' allenamento e facesse l' ennesima intervista sportiva. Mi trovai a parlare col conduttore e lui apprezzò molto la mia parlantina spigliata. Disse "fai una trasmissione, ma fallo col tuo cognome da sposata"».
Qualcuno non l' ha mai perdonata però.
«Sui social ricevo ancora attacchi feroci, nonostante gli anni di esperienza e le trasmissioni fatte. Non è facile dimostrare di essere capaci di fare altro».
Ma lei la prende bene. Su instagram si presenta così: Caterina Collovati, moglie di, mamma, e giornalista con un pensiero forte e indipendente. Cosa le brucia di più, dica?
«Mi danno fastidio i commenti cattivi, le accuse buttate a casaccio solo per creare polemica o affondare l' interlocutore. Sono stufa di sentirmi dire che vado in tivù perché c' è mio marito».
Però l' ha aiutata. Dall' 82 è stata protagonista di molte trasmissioni sportive, Caccia al 13, il Processo del lunedì. Tornasse indietro rinuncerebbe al cognome di suo marito?
«Nemmeno per sogno, rappresenta più di metà della mia vita e ne vado fiera. E quando l' ho visto stampato sulla scheda elettorale alle ultime votazioni - ricorda la polemica che ne fece la sinistra? - beh ho provato un gran sollievo».
Ma ci capisce lei di calcio?
«Non sono una grande intenditrice».
Allora fa bene suo marito a dire che le donne di tattica non capiscono nulla.
«Un conto commentare una partita o intervistare qualcuno. Altra cosa parlare di tattica. O sei una calciatrice o rischi di toppare».
Quanto ci è rimasto male Collovati per il gran polverone sulla sua uscita in tv?
«Quella cosa l' ha distrutto. L' hanno attaccato in modo sgradevole e incomprensibile».
Più feroci le donne degli uomini?
«Le donne senza dubbio. La Parietti tremenda, la Gerini addirittura ha chiesto di introdurre un reato specifico per certe dichiarazioni».
Ma Sgarbi le ha dato 24 volte della capra.
«Eravamo in trasmissione e lui faceva i nomi di signore unite a uomini di spicco non per amore ma per interesse. Ho chiesto "com' è possibile che Sgarbi dica le peggiori cose sulle donne mentre se mio marito afferma che le signore capiscono poco di tattica calcistica ha il mondo contro?". Apriti cielo...».
Come è finita con Sgarbi?
«Mi ha scritto un sms di scuse a Pasqua: Cara Caterina non se la prenda, in tv siamo tutti fiction. Io gli ho risposto: sì, ma sempre con educazione. Buon capretto pasquale».
Ed è vero che siete tutti finzione in tv?
«Beh, ho fatto liti furibonde con Cecchi Paone e Cicciolina, e finita la trasmissione ci siamo salutati con gran cordialità».
Le chiederei chi è la donna più brava della tv ma mi sembra di intuire la risposta.
«La migliore è la D' Urso. Una professionista coi fiocchi capace di reggere 4 ore di diretta e fare ascolti record».
Come ha conosciuto suo marito?
«Abitavo a Gallarate e frequentavo il liceo classico. Lui giocava già nel Milan. Una sera organizzano una sfilata in un locale del paese, e Fulvio si presenta con Baresi per conoscere le modelle.Io ero lì come spettatrice ma lui mi notò subito.
Gli chiesi ingenuamente: "Di cosa ti occupi?" E lui: "Gioco a calcio". "Ah sìììììììì? Qui a Cassano?", tanto per dirle quanto ne capivo di calcio.
Fu amore subito, mi veniva a prendere a scuola col suo Bmw bianco e tutti i miei corteggiatori guardavano affranti la scena. Nell' 81 ci siamo sposati. La prima figlia è nata nell' 84. La seconda 10 anni dopo quando morì mio padre e mi accorsi da figlia unica quanto è importante un fratello con cui condividere il dolore».
Siete la coppia più longeva della tivù e la più felice. Collovati sui social le scrive frasi bellissime Ne leggo due: "appunti di felicità il vento, il mare e noi".
«Un grande amore, siamo affiatatissimi. Fulvio ha equilibrio, si fa scivolare addosso i problemi e condivide con me passioni e progetti».
E in casa suo marito com' è? Tifa Milan?
«È una domanda cui non ama rispondere. Diciamo che l' ho visto emozionato solo davanti al Genova quando rischiava la retrocessione in B».
Quanto è gelosa di lui?
«Oddio a 62 anni è ancora un bell'uomo e mi accorgo che le donne lo guardano con interesse. Ma adesso si danno per scontate tante cose».
Un tempo era diverso?
«Guai a chi si permetteva di guardarlo. Spiavo le lettere di tutte le ammiratrici. Ero forse l' unica moglie di calciatore che dava fastidio».
In che senso?
«Scordatevi Wanda Nara. Allora le mogli dei giocatori dovevano essere belle, svampite e in ombra. Io invece fomentavo le altre a seguire i mariti nelle trasferte».
Mi dica di Clementina e Celeste, le sue figlie. Hanno anche loro ambizioni televisive?
«Una è avvocato e l' altra è laureata in Bocconi. Non pensano alla tivù e mi seguono poco.Anzi quando alzo la voce in casa mi dicono: "Mamma, non sei in televisione!"».
Quando il salto sulle reti nazionali?
«Sulle reti nazionali vado da opinionista. Sto benissimo a Telelombardia e "Detto da voi" è un gioiellino tutto mio. Contatto gli ospiti, penso agli argomenti, affronto temi complessi, violenza sulle donne, bimbi maltrattati...».
Anche lei una paladina del metoo?
«Penso che fosse necessario un movimento in difesa della donne abusate e penso sia possibile denunciare dopo tanti anni, come ha fatto Asia Argento. Ma il Metoo ha senso per le donne normali. Le signore dello spettacolo hanno sempre una via di uscita e il modo di dire no».
Sarà capitato anche a lei di dire no.
«Una volta un grande direttore di giornale mi accompagnò a casa e mi propose un dopocena.Declinai imbarazzata la proposta e scesi dalla sua auto».
Dica la verità, la bellezza aiuta?
«Non nel mio caso. Non mi sono mai sentita bella. Forse sono solo migliorata invecchiando».
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 giugno 2019. Caro Dago, eccomi che accorro in difesa dei miei amici Fulvio e Caterina Collovati. Partiamo dall’inizio. Quando lessi della battutaccia pronunziata in Tv da Fulvio, e cioè che “le donne non capiscono di calcio” (una battutaccia che io non avrei mai pronunziato, seppure ami le battutacce) pensai che Fulvio aveva colto il bersaglio. Beninteso nell’essere la sua una battutaccia, una semplificazione all’estremo, uno schiamazzo sarcastico, un voler pungere con il sorriso sulle labbra. Quando ho incontrato Caterina in un set televisivo, le ho detto di salutarmi e abbracciarmi Fulvio, il campione della più bella serata della mia giovinezza, l’estate del 1982. In che senso Fulvio aveva le sue ragioni nel pronunciare quella battutaccia? Non certo nel fatto che il cento per cento delle donne non sono in grado “di capire” il calcio, una tale porcata da non doversi neppure prendere in discussione. Neppure un istante. Ilaria D’Amico sa raccontare e spiegare i romanzi del football con eleganza. L’attrice romana Cristiana Capotondi, che è stata più volte una mia coinquilina nei set televisivi Mediaset, in fatto di calcio ne sa una più del diavolo. La mia vecchia amica Emanuela Audisio scrive di calcio e di qualsiasi altro sport (su “Repubblica”) con una grazia narrativa degna di Ernest Hemingway. Potremmo continuare a lungo. Dov’è allora la verità che sta dentro la battutaccia di Fulvio? Che in effetti, almeno storicamente parlando e per quel che è di tre o quattro generazioni femminili, tra il calcio e la sensibilità femminile diffusa c’è stato come un muro impenetrabile. La comprova ce l’ho in casa. Con Michela posso ragionare e vivisezionare un film, una mostra di fotografie, un libro di letteratura americana, una serie televisiva, una canzone di Giorgio Gaber, un oggetto di design che porta la firma di Gaetano Pesce o Ettore Sottsass, gli abiti dello stilista giapponese Yoshij Yamamoto, il menu di un ristorante che predilige la “nouvelle cuisine”, ma mai mai mai ho potuto ragionare di quel che era successo in una partita della Juve. Mai. Non che io in privato parli sovente di calcio - lo faccio solo in pubblico, quando mi pagano - ma qualche volta ci vuole eccome. Dopo il 3-0 inflitto dalla Juve all’Atletico Madrid, dopo quel rigore provocato da una vertiginosa discesa offensiva di Bernardeschi, di ragionarne un tantino ne avevo voglia. L’ho fatto. Gli occhi e il volto di Michela esprimevano il vuoto assoluto. Non le arrivava niente, lei non vuole che le arrivi qualcosa. Le traversie del football non la interessano, punto e basta. E così, assolutamente così, era ed è stato di amiche mie coltissime e intelligentissime. Solo che quella mischia tra uomini, quei tackle furibondi, quei comparti difensivi che si muovono armonici a opporsi alle manovre avversarie, le sterzate di Messi quando supera in dribbling tre o quattro avversari, la fulmineità di un contropiede, le mirabilie geometriche dei calci di punizione di Platini o Mihajlovic, l’essenza stessa della competizione agonistica dove sono il gioco e i muscoli e la testa e la volontà di vincere, tutto ciò sbatte contro la muraglia della fortezza femminile. E del resto ci sono lì mille indizi a confermarlo. Uno su tutti. Nei set televisivi di ciascun canale televisivo dove si sta parlando di calcio, e a partire dal momento in cui Alba Parietti mise in mostra il meglio di sé stessa, c’è sempre una ragazza. Novantanove volte su cento è una ragazza che si siede, sfodera le cosce, accavalla le gambe un paio di volte, mai una volta che dai suoi occhi traluca un’emozione relativamente alle gran cose del calcio di cui stiamo discutendo. Mai. Fossi una donna mi sentirei offesa dalle comparsate di quelle fanciulle. Beninteso non che loro rappresentino tutta intera la metà del cielo. Solo una parte. Molto consistente. Ciao, Fulvio
"L'ONESTA' INTELLETTUALE NON E' IL SUO FORTE..." Lettera di Alba Parietti a Dagospia il 10 giugno 2019. L’età prende a qualcuno alle gambe ad altri la testa. Il successo di una donna in un settore maschile è ancora oggi fonte di frustrazioni di chi si è sempre dovuto barcamenare tra ospitate di gossip e raffinate dissertazioni filosofiche. Io arrivai a un successo in un programma di calcio, dopo 14 anni di gavetta, senza raccomandazioni, anzi, in una piccola televisione Telemontecarlo, che grazie a me e a una redazione sportiva straordinaria ma che fino ad allora non era stata valorizzata dal successo, e grazie a me e alla capacità dei redattori, divenne un fenomeno. Un caso. Galagoal divenne un cult e lo rimane, che Mughini lo voglia o no. Galagoal fu un grande successo e cambiò le sorti del calcio parlato in tv, fino ad allora considerato una messa cantata. Quasi vietata alle donne nonostante ci fossero ottime giornaliste sportive anche allora. Dalla Sbardella alla Ferrari e altre. Il grandissimo Vianello stesso, Fazio, la Ventura, la Gialappa’s, la D’Amico proseguirono su quella fortunata strada. Per me fu la consacrazione e per Telemontecarlo la svolta. Che fruttò denaro e cambiò le sorti di tutti noi. D’altronde dopo aver sentito Mughini, il 25 aprile dire che la liberazione non è stata merito dei partigiani e dei civili antifascisti ma solo degli americani, giusto per il gusto di umiliarmi, ho capito che l’onestà intellettuale non è il suo forte. Trovo queste affermazioni, sulle donne nel calcio, volgari e dette da una persona che vive nel vezzo di sentirsi un intellettuale decisamente meschine. Sulla Collovati non esprimo opinioni, non ne vale la pena.
CATERINA CIMMINO, MOGLIE DI COLLOVATI, SCRIVE A DAGOSPIA. Dagospia l'11 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Direttore, conoscendo la sua lealtà intellettuale, immagino voglia accogliere la mia replica nei confronti della signora Alba Parietti. Innanzitutto l’aggettivo “tremenda “da me usato per definire Alba Parietti, nell’intervista concessa al quotidiano Libero, si riferiva all’atteggiamento da lei mostrato in occasione della nota questione sul presunto sessismo di mio marito. In diretta tv, non ha esitato a definirmi isterica, dannosa per mio marito e noiosa. A mia domanda precisa, non ha mai spiegato quale tattica conoscesse all’epoca dei suoi programmi sul calcio. Oggi dice “non commento la Collovati, non ne vale la pena”, pensando di sminuire la mia figura? Fa benissimo tra me e lei c’è un abisso. L’unica cosa che ci accomuna è l’ignoranza sulla tattica calcistica. Cordialmente Caterina Collovati
Tiziana Lapelosa per Libero Quotidiano il 12 giugno 2019. Non ditelo a Fulvio Collovati. A meno che non lo abbia già saputo e si trovi già sdraiato a letto con le flebo. Se è vero, come lui stesso ha detto, che una «donna che parla di tattica» calcistica gli fa rivoltare lo stomaco, di sicuro, al campione del Mondo del 1982, gli si sarà rivoltato pure l' intestino nel vedere quattro donne commentare una partita di calcio. Nello specifico Inghilterra-Scozia, un "semi-derby" che si è giocato domenica scorsa, vinto dall' Inghilterra per 2 reti a 1. Due squadre che con Giappone e Argentina completano il Gruppo D del girone eliminatorio per aggiudicarsi gli ottavi di finale nel Mondiale di calcio femminile in corso in Francia. Quattro donne, dicevamo, e nessun uomo a parlare di fuorigioco, marcatura a "donna", difesa, tattiche e via così. Il gentil sesso che ha osato invadere in maniera così determinata un campo che gli uomini credono loro per diritto si è palesato sugli schermi della britannica tivù pubblica Bbc. Con sullo sfondo lo stadio di Nizza gremito di tifosi, Gabby Logan, ex ginnasta ritmica e un presente da giornalista sportiva a tutti gli effetti, è stata affiancata nella diretta per i suoi concittadini da tre ex calciatrici, l' inglese Alex Scott, la scozzese Gemma Fay e la statunitense Hope Solo. Quattro donne, dicevamo, a commentare i Mondiali di calcio femminile e nemmeno l' ombra di un uomo a far almeno da "velino" o messo lì a leggere i risultati come spesso capita alle figure femminili nelle trasmissioni sportive. Potevano mancare le proteste? Affatto, e forse per una volta gli uomini (almeno quelli interessati al pallone giocato al femminile) avranno capito cosa significa essere "fuori gioco". Le proteste, dicevamo. Diversi spettatori si sono lamentati per le "quote rosa", come ha riportato il quotidiano Sun. E fin qui ci sta. tutte contro tutte Ma a lamentarsi, e qua arriva il bello, è che lo schermo tutto rosa non è piaciuto nemmeno alla wag Rebekan Vardy, moglie dell' attaccante del Leicester Jamie Vardy, 366mila follower su Instagram e, da domenica scorsa, un' accusa di sessismo nemmeno tanto velata indirizzata alla Bbc. «Uhm... Che ne è stato della parità?», la sua osservazione affidata ad un tweet condiviso cinquemila volte e con 32mila commenti di approvazione e stupore. Ma come, proprio lei, donna, invece di applaudire si mette a criticare? si è chiesta la rete. Sarà «gelosa delle donne che lavorano», «che tweet ridicolo», si legge tra i commenti in cui c' è chi le fa notare che raccontare i Mondiali, in alcuni giorni, è toccato anche ai maschietti. Un po' irritata da tante accuse, la wag ha poi precisato di supportare le donne, ma che c' è molta ipocrisia, «gli uomini devono essere più coinvolti nel calcio femminile per portarlo dove deve e merita di stare».
Che noia che barba. Dove meriti di stare il calcio femminile non si sa e non ci riguarda. Soltanto non se ne può più di questa storia del sessismo: ci sono solo uomini ad occupare lo schermo e non va bene; ci sono solo donne e non va bene lo stesso. Anni e anni di lotta e di fatiche per dimostrare che anche il cervello femminile è in grado di parlare di calcio e, una volta che la vittoria si sintetizza sugli schermi, non di una tv qualunque ma della Bbc, ecco che c' è sempre qualcuno a rovinare la festa. Meglio due commentatori uomini e due commentatrici donne in nome della parità di genere? E perché non un commentatore trans, uno gay, uno(a) bisex o una lesbica? Il sessismo e il suo contrario hanno stancato. Anzi, spesso tutto si riduce ad una battaglia che si combatte soltanto a parole, come hanno dimostrato le ultime elezioni europee. Quelle stesse donne che parlano di parità, di femminismo e via così (ogni riferimento alla sinistra italiana è puramente "casuale") le donne non le hanno votate: 7 quelle elette nel Pd contro 12 uomini, 15 quelle elette nella Lega contro 14 uomini, 8 le donne del M5S contro 6 uomini eletti. Insomma, il top sarebbe che a parlare di calcio e di qualsiasi altro argomento in televisione e altrove siano delle persone competenti e nient' altro. Che siano maschi, femmine o quello che gli pare non fa differenza. La differenza la fa l' intelligenza e la competenza. Qualità che di sicuro hanno le "quattro" della Bbc.
Fulvio Collovati, stop di due turni a Quelli che il calcio: punito dalla Rai per le frasi sulle donne, scrive il 19 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Le scuse repentine di Fulvio Collovati dopo la frase contro le donne che parlano di tattica calcistica non bastano per salvare il posto del campione del mondo a Quelli che il calcio su Raidue. L'ad della Rai Fabrizio Salini avrebbe chiamato direttamente in vertici di Raidue, irritato per le parole di Collovati e le proteste che ne sono seguite. Al netto della telefonata, del fatto che ci sia stata oppure no, Viale Mazzini è passata all'azione: Collovati sospeso per due puntate di Quelli che il calcio. Punizione di stampo calcistico. Certo, le sue frasi sono stati infelici. Eppure pare un pizzico esagerato punire il commentatore per quanto detto in un contesto ben differente, per esempio, da quello di una tribuna politica: Quelli che il calcio è un delizioso regno del cazzeggio, al quale Collovati aveva preso parte con la leggerezza richiesta. Ma questo, i vertici Rai, sembrano non comprenderlo.
Collovati, Rai da cartellino rosso. Sospenderlo, fino al 9 marzo, come ha fatto la RAI, è il fascismo del politicamente corretto, scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Diciamola tutta: che Fulvio Collovati pensi che le donne non possano parlare di calcio è un'idiozia. Anche perché io, per esempio, di calcio non ne so niente, mentre conosco moltissime donne che ne sanno più di me, e io non le frequento, perché mi sembrano uomini. Ci sono donne che guardano partite di calcio, e mi fanno orrore. Quindi se Collovati pensa che le donne non possano parlare di calcio è di certo una posizione ai miei occhi sessista (non facendo io differenza tra il sessismo maschilista e quello femminista), e tuttavia sospenderlo, fino al 9 marzo, come ha fatto la RAI, è il fascismo del politicamente corretto. Perché mai non potrebbe pensarlo? E soprattutto perché dovremmo metterlo in punizione? Voglio dire: non viviamo forse in un paese in cui ogni giorno non facciamo che ripetere che le opinioni vanno rispettate? Bene, quella di Collovati era una sua opinione. E non solo non la rispettiamo, ma lo sospendiamo. Cioè lo puniamo per quello che pensa. Come un bambino che ha fatto una marachella. È singolare quanto il politicamente corretto dia forma a simili distorsioni. Se per esempio Collovati avesse detto che io non posso parlare di calcio in quanto non ne capisco niente sarebbe stato normale (e avrebbe avuto ragione), e nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Tuttavia se perfino avesse detto che un uomo, in generale, non può parlare di calcio (perché magari Collovati è più competente, di certo più di me), io non mi sarei risentito, perché non mi identifico in un genere sessuale, sono una persona, sono io, non mi offendo se parlano di uomini, mica sono un uomo. O meglio, sono un uomo ma rappresento me stesso, non tutti gli uomini, però se nomini una donna non sia mai, se parli di donne ogni donna è qualsiasi donna. Ma dirò di più: se chiunque, qualsiasi uomo, fosse accusato di non capirne di un tubo di qualcosa la cui pertinenza è generalmente attribuita al genere femminile, per esempio l'uncinetto, la biancheria intima, o la presidenza della Germania, nessuno si sarebbe scandalizzato. Io sì. Ma non in quanto uomo, perché per Collovati, se io parlassi di calcio, varrei quanto una donna. Tuttavia lasciategli dire quello pensa. Altrimenti lui sarà sessista, ma voi siete fascisti.
La stucchevole gogna mediatica su Collovati “sessista”, scrive Chiara Soldani il 19 Febbraio 2019 su Primato Nazionale. I guai (frivoli ma non troppo) del politicamente corretto. Da tempi immemori, al mondo del pallone vengono associate figure femminili tendenzialmente prive di competenza calcistica. Si tratta di un mutuo accordo, reciproco interesse: la trasmissione “esibisce” la bella ragazza di turno e la bella ragazza di turno diventa ben presto popolare. Senza meriti calcistici, bensì estetici: dura lex sed semper lex. Nella migliore delle ipotesi, la valletta del momento si fidanza pure col calciatore: un cliché intramontabile. Quindi, perché adirarsi tanto per le parole di Fulvio Collovati? Durante la trasmissione “Quelli che il calcio”, l’ex difensore ha avuto da ridire circa la telecronaca di due inviate poco avvezze alla materia calcistica: “Quando sento una donna, anche le mogli dei calciatori, parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Non ce la faccio! Se tu parli della partita, di come è andata e cose così, bene. Ma non puoi parlare di tattica perché la donna non capisce come un uomo, non c’è niente da fare”. Parole forti in tempi di sensibilità estrema, ridicola quanto a politically correct e misoginia più presunta che effettiva. Il commento di Collovati è stato senza dubbio sebbene semplicistico e omologante, ma il polverone scatenato dai censori moderni è stucchevole, per quanto prevedibile. L’Ad della Rai Fabrizio Salini, ha espresso totale disappunto riguardo le affermazioni dell’opinionista. Salini ha invitato a tenere sempre ben presente che “Rai è un servizio pubblico e che il contratto di servizio ricorda esplicitamente all’articolo 9 che la Rai si impegna a promuovere la formazione tra i propri dipendenti, operatori e collaboratori esterni affinché in tutte le trasmissioni siano utilizzati un linguaggio e delle immagini rispettosi, non discriminatori e non stereotipati nei confronti delle donne”. Per questo si sta valutando la sospensione di Collovati. Intanto, gogna mediatica per l’ex campione del mondo nel mondiale ’82: da Carolina Morace a Regina Baresi, “cinguettii” al vetriolo e conseguente dietrofront di Collovati. “Mi scuso – si legge nel suo Tweet – se le frasi pronunciate in chiusura di trasmissione a Quelli che il Calcio pure in un clima goliardico, abbiano urtato la sensibilità delle donne. Me ne dispiaccio ma non era mia intenzione offendere nessuno, chi mi conosce sa quanto io rispetti l’universo femminile”. Ora, c’è da chiedersi se il mea culpa sia stato un salvataggio provvidenziale in zona Cesarini. Al triplice fischio, l’ardua sentenza. Chiara Soldani
Paolo Ziliani per il Fatto Quotidiano il 22 febbraio 2019. Povera Eva. Cacciata dal Paradiso Terrestre non per aver rubato una mela, ma un pallone. E aver provato a giocarci, a parlarne. È quel che succede oggi nel Sacro Tempio di Eupalla (cit. Gianni Brera) di un paese chiamato Italia. Dove le donne sono ammesse a corte a patto di portare bellezza, sempre gradita all' utilizzatore finale, ma cacciate se la pretesa diventa altro: portare competenza, ad esempio. Nei giornali e in tv, ho lavorato nel mondo del calcio e dell'informazione calcistica per più di 40 anni. A Mediaset, negli anni di Controcampo condotto da Sandro Piccinini, scoprimmo un giorno la grande passione per il calcio di Natalia Estrada, l'ex moglie di Giorgio Mastrota, donna di spettacolo, spagnola. Era tifosa del Milan ma di calcio sapeva tutto; più di Vittorio Feltri e di Giampiero Mughini e non meno di Enrico Vanzina, i tre opinionisti della nostra prima stagione. Negli anni precedenti, quand' ero al Giorno ed ero sempre negli stadi, conobbi Licia Granello, giornalista di Repubblica, che sapeva di calcio (e non solo) più di molti inviati maschi che troneggiavano nelle tribune stampa. Scriveva benissimo, ma era una donna: un errore, per tutti. A Italia 1, per molti anni, a condurre gli studi post partita, con un piglio e una competenza che molti maschi si sognano, è stata Mikaela Calcagno: che se si fosse limitata a mostrarsi bella com' è, e a fare le boccucce alla Diletta Leotta, sarebbe ancora al suo posto. Invece Mikaela ha sempre voluto fare la giornalista. Una volta chiese a Mihajlovic perché aveva sostituito Bacca e non Honda (il Milan stava perdendo) e si sentì irridere: "Perché io sono allenatore e lei presentatrice"; una volta chiese ad Allegri che cosa non andasse nella Juve (che era 14ª) e si sentì dileggiare: "Secondo lei cosa manca? Basta vedere la classifica, mancano i punti", che è esattamente il motivo che rendeva pertinente la domanda. Poi arrivò Mancini. E poi Mikaela Calcagno praticamente sparì. "Cazzo guardi! Vai a cucinare!", si sentì dire in diretta da Ibrahimovic Vera Spadini, l'inviata di Sky che gli aveva chiesto di un suo presunto scontro con Allegri dopo il ko del Milan contro l'Arsenal. Oggi Vera Spadini lavora nel MotoGP. Titti Improta, giornalista della tv Canale 21 e figlia di Gianni Improta, mezzala del Napoli anni 70, un anno fa chiese a Maurizio Sarri: "Sono troppo dura se dico che questa sera lo scudetto è compromesso?". "Sei una donna, sei carina - le rispose Sarri - e non ti mando a fare in culo proprio per questi motivi". Il tutto in un boato di risate da caserma degno di un film di Pierino. "Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco" (Fulvio Collovati, Rai). "Se mia moglie avesse detto le cose che ha detto Wanda Nara, l'avrei cacciata di casa" (Billy Costacurta, Sky). Per la cronaca, Costacurta è l'ex sub-commissario Figc che tentò di far eleggere presidente del calcio femminile la moglie Martina Colombari, che conosce il calcio come Costacurta la letteratura medievale; Collovati è sposato con Caterina Cimmino che da 30 anni bazzica in una miriade di talk calcistici: chissà quanto Maalox, povero Fulvio. Le donne non sanno di calcio, dice. Di certo Carolina Morace, ex calciatrice, non ha mai detto in tv, come l'ex calciatore Massimo Mauro, che Lemina è meglio di Modric e che guardare una partita dell'Inter è peggio della dialisi; Emanuela Audisio, prima firma di Repubblica, non ha mai scritto, come ha fatto Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, che " CR7 nella Juve farebbe il tornante o la riserva" e che "Sturaro da terzino vale i grandi d' Europa". E Federica Lodi, che su Sky conduce Premier Show, non ha mai raccontato di un abbraccio fra Rashford e George Best, a differenza di Sandro Sabatini (Mediaset) che due anni fa, dopo Real-Bayern 4-2, descrisse un abbraccio tra CR7 e Alfredo Di Stefano, che era morto da tre anni. Ma così è, anche se non vi pare. Amen.
Le donne che parlano di calcio sono credibili? Scrive il 19 Febbraio 2019 Indiscreto. Dopo le frasi di Fulvio Collovati a Quelli che il calcio (“Quando sento le donne parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco”) uno dei luoghi comuni più amati dagli italiani è diventato un dibattito di attualità. Con interventi a sostegno di questa tesi, soprattutto di ex calciatori, da Costacurta a Marocchi, e contrari, soprattutto calciatrici e giornalisti. E le inevitabili scuse, per preservare una collaborazione si accetta qualsiasi umiliazione (basti pensare al caso Di Canio-Sky). Il luogo comune, che come tutti i luoghi comuni contiene indiscutibilmente una parte di verità (il 100%, nel caso degli uomini che guidano con il cappello), al di là delle battute da spogliatoio si basa su un assunto: tu donna non hai mai giocato a calcio, nemmeno in cortile, quindi potrai anche capire il fuorigioco ma non arriverai mai a cogliere le grandi finezze del calcio. A questo ragionamento ne aggiungeremmo un altro: tu donna che da piccola non sognavi di fare il calciatore non potrai mai essere emotivamente coinvolta nel calcio come me uomo. Questa ci sembra sia la materia del contendere. Si sta parlando chiaramente del calcio inteso come sport, non del tifo che spesso vede le donne più scatenate degli uomini. Il ‘Di qua o di là’ assume quindi un significato del tutto particolare, in un sito con il 99% di lettori di sesso maschile come Indiscreto, sia pure di target alto, mici e machi, provinciali e cosmopoliti, pirati e signori, eccetera. Questa non è la piattaforma Rousseau, qui si fa sul serio. E la domanda è seria e non generica. Tutti conosciamo donne che sanno di tattica calcistica (scusate, ci siamo gramellinizzati e abbiamo scritto una triste frase femminista, in realtà non ne conosciamo nessuna), o che perlomeno ne parlano, usciamo dalle eccezioni come possono essere le calciatrici o le giornaliste (no, le giornaliste magari no, per lo meno non più delle maestre d’asilo o delle commesse), la vera domanda è sulla loro credibilità: se anche incontrassimo una ragazza che ne sapesse più di Happel e Michels messi insieme la prenderemmo sul serio? Perché dovrebbe saperne di meno del collega o del tassista maschio che forte delle sue certezze da tivù locale spara quattro cazzate sui tagli di Gabbiadini e la garra charrua di Vecino? In estrema sintesi: al di là della competenza, che dipende dalle singole situazioni, le donne che parlano di calcio sono credibili?
Da Radio Cusano Campus il 19 febbraio 2019 su RadiocusanoCampus. Alba Parietti è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è Desta” condotta da Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, per commentare le parole dell’ex campione del Mondo Fulvio Collovati il quale ha dichiarato: “Quando sento una donna parlare di calcio mi si rivolta lo stomaco”. Sulla frase di Collovati. “Capisco che in un anno in cui la nazionale italiana femminile va ai mondiali di calcio e gli uomini no a qualcuno possono girare le scatole –ha affermato Alba Parietti-. Anche in questo abbiamo dimostrato di poter fare meglio degli uomini. A me dispiace per Collovati che conosco. Per dirla alla Fantozzi, ha detto una cagata pazzesca. Si è scusato dicendo che quelle frasi sono inopportune? Direi che è riduttivo. Con quelle affermazioni Collovati esclude una categoria, è come se avesse detto “tu stai zitta che non capisci un cazzo”. Capostipite delle donne nel calcio. “Io ho aperto alle donne le porte del calcio non perché fossi la più preparata sul tema ma perché ero la più brava a trattare con il mondo maschile, che è un mondo da bar sport. Gli uomini quando parlano di calcio perdono la testa, pensano che sia materia loro. Per parlare di una cosa non serve per forza averla praticata. È pieno di pippe che parlano in tv di calcio, con dei fisici assolutamente inadeguati”. Gli uomini soffrono le donne al comando. “Il problema è la cultura. Quando Collovati dice queste cose viene fuori un retaggio culturale che è proprio della maggior parte degli uomini italiani. Quello che ha detto Collovati lo pensa il 90% degli uomini italiani. Bisogna abituarsi a moderare le espressioni. Ad esempio, anche io penso che gli uomini valgono meno delle donne, però non lo dico. Gli uomini soffrono le donne al comando, non sopportano che abbiano tutte queste capacità”. Donne e calcio. “Carolina Morace era bravissima anche a rapportarsi con gli uomini di questo settore. Le donne sono brave a condurre, a fare le padrone di casa. Cito ad esempio Paola Ferrari, ha una preparazione incredibile così come Ilaria D’Amico. Ho un figlio che fa il commentatore sportivo, è molto bravo se non fosse che è psico - juventino, non vede oltre la Juventus. Pensate, volevo dargli il doppio cognome per proseguire la stirpe Parietti. Poi ho visto quello che fa in televisione con Crudeli, urlare come uno scalmanato, ed ho pensato che era meglio mantenesse solo il cognome Oppini. Anche il mio ex marito perde la testa durante la partita di calcio”. Galagoal e lo sgabello. “A Galagoal avevo ospite fissi Maradona, Pelè, Platini. Quando arrivai nella redazione non capivo nulla di calcio, nel giro di un mese mi istruì Paola Ferrari alla quale ricambiai il piacere facendole conoscere il suo futuro marito. La redazione di Telemontecarlo era super preparata. Non fu facile accettare il mio arrivo come simbolo di un programma che vinse la sfida contro la RAI, risollevando addirittura le sorti di Telemontecarlo stessa. In quegli anni arrivò la mia glorificazione. Vi dirò, ho voglia di tornare in tv nel mondo del calcio, voglio dare questa brutta notizia agli uomini”. “Lo sgabello lo inventò Riccardo Pereira. Lui mi disse: “Ti mettiamo su questo sgabello” e lui si inventò questa cosa, era geniale. A lui devo molto, ora sarà a Copacabana in spiaggia. Altri hanno provato a salire su quello sgabello, ma non ci sono riusciti”. Wanda Nara ed il peccato di vanità. “È innegabile che il fatto che lei è moglie e procuratrici di un calciatore crea un enorme conflitto di interessi. È moglie di un calciatore che ha, tra l’altro, una storia piuttosto chiacchierata. In più è la procuratrice e va in televisione a dire quelle cose con una certa leggerezza. A qualcosa dovrebbe rinunciare, in primis alla vanità. Per la vanità sono caduti in molti. I grandi imprenditori, cito ad esempio Briatore, ad un certo punto cadono su narcisismo e vanità. Esponendosi come fa lei mette in difficoltà il marito e la società”.
Estratto dell’articolo di Francesco Velluzzi per la Gazzetta dello Sport. Roberta Termali, ex compagna di Walter Zenga dal buen ritiro di Osimo da dove spera di tornare in tv, condivide l'opinione della Parietti: «La mia amica Paola Ferrari, Ilaria D' Amico, tante ragazze di Sky Sport sono preparate e sanno di calcio. Ho incontrato Fulvio e Caterina due settimane fa a Milano, non credo volesse intendere così. Non arriverei a parlare di sessismo». Ed eccola Paola Ferrari, la conduttrice Rai. «L'ho chiamato e l'ho sgridato. Ora mi deve un aperitivo. Fulvio lo vorrei sempre in studio con me. E io sono una donna che tende sempre a far parlare di tattica l'opinionista, l'esperto, ma così è troppo. Però gli voglio troppo bene e lo perdono».
Katia Serra, ex calciatrice, voce del calcio su Sky Sport: va giù duro «Ci si mette di mezzo il genere sbagliando. E' sessismo e superficialità. Chi esprime il pensiero in modo più profondo avrebbe esternato il concetto diversamente».
Chiude Rosella Sensi, ex presidente della Roma ed ex responsabile del dipartimento calcio femminile della Lega Dilettanti è critica: «Un' uscita infelice. Il ruolo che io ho ottenuto e che mi è stato attribuito da presidenti ed esperti mi conforta. Soprattutto, penso non si debba mai generalizzare». Ma ieri non è finita con Collovati.
L' ex difensore del Milan Billy Costacurta a Sky Sport, parlando di Wanda Nara, ha sentenziato: «Se mia moglie parla male dei miei compagni la caccio fuori di casa». C' è chi non ha gradito.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 20 febbraio 2019. Condivido Fulvio Collovati (“Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco”), non mi piace come l’ha detto. Talmente sciatto e cavernicolo che passa dalla parte del torto. Il concetto è sacrosanto, ma solo se lasci intendere l’indiscutibile omaggio alla donna che c’è dietro. Non puoi azzardarti a dire cose così se non conosci il modo di dirle. Vado più estremo. Una donna, ma diciamola femmina, che parla di calcio, non mi rivolta lo stomaco, smette di esistere l’attimo stesso in cui lo fa. Ma non perché sia inadeguata e blateri sfondoni, come insinua maldestro Collovati. Smette di esistere, al contrario, quanto più è adeguata, quando ne parla in modo credibile e ti sorprendi a pensare “Toh, è più brava di Beppe Bergomi”. Lì mi diventa insopportabile. Arrivo a detestarla, per quanto si sottrae al dovere estetico ed etico della differenza, precipitando nell’aberrazione della citazione maschile. Smette di esistere, la presunta femmina, appena piazza un microfono sotto il becco di un calciatore, figuriamoci se gli fa una domanda che più congrua non si può sul ruolo o sulla prestazione. Non potrei mai fare sesso e meno che mai amor cortese con una femmina che il calcio parlato lo fa di mestiere. Non ce la farei mai a baciare una, anche bellissima, che ha appena chiesto a Gattuso se ha applicato la tattica del fuorigioco o a Chiellini se marca a uomo nei calci d’angolo. Petrarca o Dante, per non dire Catullo o Roger Vadim, avrebbero mai dedicato un solo verso o un’immagine a una bordocampista? “Becero maschilismo” diranno, direte. Sbagliando di grosso. E non importa se a dirlo siano centinaia, migliaia o milioni (l’imbecillità ha più probabilità d’essere tale se sostenuta da numeri di massa). Rigettare la donna che discetta verosimilmente di calcio equivale ad esaltare quella inattendibile quando lo fa. O lo fa, ma solo per dimostrare che non gliene frega niente di farlo. Che è lì per caso. Per altro. Un buon esempio è Melissa Satta a “Tiki Taka”. O Diletta Leotta ovunque. Parlano di calcio, ma potrebbe essere botanica, cosmetica o astrofisica. Senza averne la più pallida nozione o lozione, ma felici solo di sedurre il mondo intero. Troppo donne. Irriducibili. Inattendibili. Il pallone arretra, si arrende, non ce la fa proprio a mascolinizzarle. Sono loro, casomai, a femminilizzarlo. Prendi Ilaria D’Amico. Per quanto si sforzi di stare alla pari nella mischia del maschio, dov’è che eccelle? Quando si lascia (raramente) scappare l’insensato, la frase che non ha capo né coda, il lampo di vanità (spesso), quando scivola, cioè, nella differenza. Il caso più entusiasmante di questi tempi è la famigerata Wanda. Nel suo caso, la femminilità alla massima potenza diventa minaccia. Wanda non si accontenta di sedurre il pallone. Lo pervade, lo erotizza in ogni sua fibra. Wanda è la perversione diabolica del femminile che non scimmiotta il maschile, ma lo assume come trucco, maschera, travestimento, per averlo ancora meglio ai suoi, suppongo bellissimi, piedi. Tutti Cappuccetto Rosso ai piedi di Wanda, tranne Marotta, che ha l’anima minerale di un funzionario del Politburo. E comunque, l’ha scritto Bukowski meglio di chiunque altro: “Dio, quando creo te distesa a letto, sapeva cosa stava facendo, era ubriaco e su di giri. E creò le montagne, il mare e il fuoco allo stesso tempo. Ha fatto qualche errore, ma quando creò te distesa a letto, fece tutto il Suo Sacro universo”. Non creò la donna al fianco di Caressa, Pardo o Piccinini.
Donne e calcio, Gattuso (Milan): "Mia moglie mi fa la formazione", scrive il 21 febbraio 2019 Repubblica tv. "Se parlo di tattica con mia moglie? È lei che mi fa la formazione". Rino Gattuso commenta con una battuta a una domanda sulla polemica per le frasi di Fulvio Collovati a “Quelli che il Calcio” ("Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco"). "Tre volte a settimana parlo con un coach che è molto preparato come Carolina Morace", ha detto Gattuso facendo riferimento all'allenatrice del Milan femminile. "Nel mondo in cui viviamo ci sono tantissime donne che ne capiscono e quando parlo con Carolina è sempre un confronto aperto e interessante".
Gennaro Gattuso prima di Milan-Empoli: "La formazione? La fa mia moglie", scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Alla vigilia della partita di San Siro contro l'Empoli, in conferenza stampa dà spettacolo Gennaro Gattuso: "Da parte mia c'è grande preoccupazione, non sarà per nulla facile - ha spiegato l'allenatore del Milan - Siamo a un bivio, dobbiamo dare continuità a quello che stiamo facendo, è lo step che dobbiamo superare". Dunque gli ricordano che il periodo negativo pare ormai superato e il mister risponde: "Non voglio i complimenti, devo ringraziare la squadra". Dunque, incalzato sulle scelte relative all'undici titolare, scherza: "La formazione la fa mia moglie". Insomma, bocca cucita. Per certo, però, Mancherà Suso, al cui posto dovrebbe giocare Paquetà, più avanzato: "In qualche occasioni sta già facendo l'esterno d'attacco, si scambia con Calhanoglu. Può fare la mezz'ala, la mezza punta, a tratti sta facendo anche l'attaccante esterno", ha concluso Gattuso.
Ilaria D'Amico sdottora di tattica nel dopo-Champions della Juve: Fabio Capello la zittisce così, scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Donne che parlano di tattica calcistica? L'argomento è adir poco all'ordine del giorno, dopo le "scivolate" di Collovati e Costacurta. Ma sentite come ieri sera Fabio Capello ha zittito Ilaria D'Amico subito dopo la sfida di Champions League persa per 0-2 dalla Juventus con l'Atletico Madrid. La moglie di Buffon stava dottamente disquisendo sul fatto che "per la Juve al ritorno sarà ancora più dura perchè l'Atletico è una squadra alla quale non frega nulla di giocare male". Capello, però, la zittiva così: «Non è vero, l’Atletico non gioca male». La D'Amico, però, teneva il punto parlando di “squadra rognosa” che non fa “un calcio super brillante” e a quel punto Capello ha mollato ogni freno inibitore: “No, no, non sono d’accordo con quello che dici, tecnicamente sono bravi, non buttano mai via il pallone, nello stretto quando li vai a pressare vengono fuori, l’Atletico è una grande squadra. Non si ottengono i risultati che ha ottenuto Simeone se non hai grandi giocatori, carattere, forza…In 3 passaggi vanno in porta. O vuoi sempre quelli col tiki-taka?”. Sdeng. La faccia di Ilariona la diceva tutta.
Perché sto con Collovati, scrive Tony Damascelli, Martedì 19/02/2019, su Il Giornale. Fulvio Collovati non è stato un difensore falloso. Sapeva usare la tecnica, il tempo giusto di intervento e l'eleganza, per opporsi a qualunque attaccante. La qual cosa lo ha portato, tra mille risultati, a conquistare un campionato del mondo. Stavolta ha scelto di entrare deciso sull'avversario. Ha detto che quando una donna parla di tattica calcistica questo gli procura (...) (...) il voltastomaco. Le parole hanno provocato una sollevazione tra presentatori e astanti a Quelli che il Calcio trasformando un'arena goliardica nel solito salottino della buona coscienza; erano evidenti gli affanni dei conduttori e della conduttrice, mentre Massimo Mauro sghignazzava pensandola come il collega ma portandosi astutamente la mano alla bocca. La polemica è proseguita sui social, Collovati (che si è scusato, «non volevo offendere nessuno») è stato accusato di essere sessista, la moglie Caterina lo ha difeso come nemmeno Bergomi e Scirea seppero fare in Spagna '82. E la Rai lo vuole sospendere. Ci mancava il #metoo sulle vicende di football, ci mancava la fibrillazione delle anime candide che, stranamente, non si agitano quando osservano donne platealmente (s)vestite che fanno cornice ai programmi di calcio, selfie-woman che nulla aggiungono ma molto attraggono, chiamate all'esibizione del loro corpo più che delle loro idee.
Ormai abbiamo superato, con il telepass del politicamente corretto, la dogana dell'intelligenza. Posso aggiungere un altro esempio: è severamente vietato pensare, dire e scrivere che Wanda Nara, moglie di Mauro Icardi, non sia capace di fare la procuratrice. Ogni censura o rimprovero viene interpretata come discriminazione, come volgare sessismo, come uso e abuso del genere femminile. Però, si può benissimo sostenere che Mino Raiola, procuratore di molti illustri calciatori, sia un semplice pizzaiolo, lestofante, camorrista, delinquente, tanto è un maschio. Fulvio Collovati ha espresso una opinione, per me condivisibile, perché certe questioni appartengono a un mondo storicamente maschile, così come non accetto che un uomo possa sapere quello che una donna provi come sofferenza e dramma nell'aborto. Non è discriminazione ma la consapevolezza che esistono discipline nelle quali competenza ed esperienza possano prevalere in un genere e non in un altro. Questo non esclude che possano esistere calciatrici più brave di certi mediocri calciatori. Comunque lancio un appello: cerco una donna capace di spiegarmi il Var. Gli uomini non ce la fanno. Compreso Collovati.
«Le donne non capiscono». Ma per i maschi saccenti Ronaldo era una riserva. La valanga di insulti, più o meno social, sta ancora tracimando ben oltre i protagonisti, ora che la nazionale femminile dà buona prova al Mondiale, con consensi di critica e di pubblico. Claudio Rizza il 14 giugno 2019 su Il Dubbio. L’assunto beffardamente ostile, il fiat lux anzi il fiat tenebrae, fu quello di Collovati, ex stopper dell’Inter e del Milan che fu: «Quando sento una donna, poi la moglie di un calciatore, parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Una donna non capisce come un uomo». La valanga di insulti, più o meno social, sta ancora tracimando ben oltre i protagonisti, ora che la nazionale femminile dà buona prova al Mondiale, con consensi di critica e di pubblico. Va detto che certo tifo maschilista è rimasto a Cartagine, e chi frequenta uno stadio lo sa: le tifose sanno anche non essere signore, più aggressive e sboccate dei maschi, certe doctoresse Jekill and Mrs Hide, che all’occorrenza menano come energumeni e, dunque, orgogliosamente in grado di analizzare un 4- 4- 2 e se Ranieri sia peggio di Di Francesco. Lo stereotipo della fidanzata/moglie che se ne frega dei 22 fessi che corrono dietro ad una palla è stato demolito da anni. Però gli haters maschilisti si scandalizzano e deprecano lo stop di tette al posto di quello di petto ( meccanicamente la cosa può essere facilmente contestata), sostengono che il calcio femminile sia di una noia mortale, e giù insulti. Che non siano alla bassezza si vede dal fatto che non sputino mai a terra né liberino il naso col turbo soffio. E poi è uno scandalo che, segnato il gol, nessuna si tolga la maglietta. Solo quei geni di Lercio sanno scherzarci: «Perché ti sei vestita come me? Partita di calcio femminile finisce il rissa». Non ci sono solo Collovati e Costacurta, innervositi dalle piroette della bonona Wanda Nara che usa il marito Icardi come un pupazzo. Anche Mughini non ha nascosto il suo razzismo intellettuale: «Non molte donne capiscono, io ne conosco due o tre, a parte la grandissima Emanuela Audisio, che di calcio se ne intendono davvero». La D’Amico è da anni che discetta su Sky, e casomai è meglio non divaghi: disse che Son, l’attaccante sudcoreano del Manchester United, «non viene da un regime democratico». Le ricordarono che la dittatura è in Corea del Nord, si attenesse alla tattica. I maschi intenditori sono maxi esperti anche in corbellerie sesquipedali. Non si salva nessuno. Mario Sconcerti, per esempio, è passato alla storia in vista della finale di Cardiff Real Madrid- Juve (4-1) quando sentenziò: «Alla Juve Ronaldo farebbe la riserva». Per non parlare delle previsioni di Caressa e dei suoi imitatori, procacciatori di superlativi assoluti nelle telecronache drogate, dove promuovono campioni che poi sbagliano gol da principianti. La coscia ormai corta della sinistra, Alba Parietti, nota: «Capisco che in un anno in cui la nazionale italiana femminile va ai mondiali di calcio e gli uomini no, a qualcuno possano girare le scatole». Tra i fenomeni maschilisti va assolutamente ricordato il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Belolli, che esclamò: «Basta dare soldi a queste quattro lesbiche». Negò di essere sessista. Tra il milione di twitterologi segnaliamo il seppur educato Davide: «Direi di smetterla con le battute sessiste su queste che non sanno neanche parcheggiare». Amen. Il boom di ascolti per la vittoria contro l’Australia ha inviperito la massa ipercritica degli uomini sapiens. Le donne se ne fregano. Ma c’è una Simona nel web, dal cuore nerazzurro, da segnalare: «Comunque le francesi in 36 minuti hanno fatto più cross decenti che tutti i terzini dell’Inter in questa stagione». Si vede che capisce poco, doveva aggiungere anche quelli del Milan.
Sessisti nel pallone. «Gridai al gol per un fallo laterale. Un uomo mi fulminò, era Andreotti». Antonella Rampino il 14 giugno 2019 su Il Dubbio. Ho sempre considerato lo sci quella cosa per cui ci si arrampica in cima a una montagna solo per poterne scendere, e il calcio quella cosa in cui ci sono 22 uomini che corrono appresso a una palla. Il calcio resta per me la più assurda delle passioni umane, ma confesso che ognintantonhomil dubbio che si tratti di una lacuna. Con la passione che ho per la politica mi sfuggono le metafore ardite, CR7 ha smesso di essere una sigla astrusa quando ho scoperto che si tratta del proprietario dei miei alberghi preferiti in Portogallo, e se non ho mai corso il rischio di Berlusconi al suo primo G7 ( no, l’Uruguay round non è un torneo calcistico sudamericano) son costretta a voltar pagina, cambiare bar e marciapiede o, peggio, ammutolire quando sento nominare cose e persone che riguardano quella roba lì. L’idea di Orwell che il calcio è una prosecuzione della guerra con altri mezzi – e dunque lo è anche della politica- mi affligge: che ci sia un pezzo di mondo che sfugge alla mia capacità e volontà di comprensione? Non è colpa mia. Ho avuto un trauma infantile: all’età di 12 anni venni portata da mio padre che non ne era frequentatore abituale allo stadio, per il semplice motivo che gli erano stati regalati due biglietti in Tribuna d’Onore all’Olimpico, addirittura per una partita della Roma. Io avevo con me un libro da leggere ( sorvolo sul titolo che è meglio: lettura inadatta a una dodicenne, infatti non capivo un accidenti). E a un certo punto, mentre sentivo che lo stadio si stava infervorando, persi la concentrazione, sollevai gli occhi dal libro, guardai lo sterminato campo verde, vidi una palla che veniva malmenata verso la porta e urlai con quanto fiato avevo in gola “goal!”. Non era un goal, ma il peggio fu che il signore anzianotto, bruttarello e con la gobba seduto giusto davanti a noi si voltò, mi guardò in tralice dagli occhiali a forma di schermo da televisore e sibilò “porta male!”. Era Giulio Andreotti, per fortuna: mio padre mi trascinò via, consenziente, nell’intervallo del primo tempo. E io decisi all’istante che di calcio non avrei più voluto saperne nulla. Una soglia di ignoranza consapevole deve essere consentita, a qualunque umano. Io ho sentito la mia vocazione prestissimo: avrei ignorato il calcio, e cercato strenuamente di conoscere tutto quel che potevo di tutto il resto dello scibile umano. Non sono sola. Quando c’è il derby, bellissime conversazioni con gli unici tre tassisti romani che si disinteressano del pallone come me ( e che sono dunque anche gli unici tre al lavoro). Selezione rapidissima al primo incontro, basta dire “non mi piace il calcio” ( una valida alternativa all’osservare se il convenuto ha i calzini lunghi o corti). Domeniche pomeriggio libere, anche da frastuoni, e così pure i mercoledì i lunedì etc. Quando ci sono i mondiali, andare negli Stati Uniti ( l’ho fatto), o farsi chessò un giro dell’Islanda in barca ( l’ho fatto). Tutto questo per dire che chi sostiene che “di calcio le donne non capiscono nulla” è delle donne che non ha mai capito un accidenti. E forse neanche di calcio: gente che crede ancora che si tratti di tattiche e strategie, e non di correre appresso a un pallone per tirar calci.
· Violenza di genere: due pesi e due misure.
Donna arbitro picchiata: l'Aia le ritira la tessera. Le Iene il 18 novembre 2019. Nicolò De Devitiis incontra Elena Proietti, l’arbitro donna aggredita mentre arbitrava una partita. Ricoverata in ospedale, accusa l'associazione di categoria di “sentirsi abbandonata” e le viene ritirata la tessera. Elena Proietti rende un pugno in faccia mentre arbitra nel 2014. “Ho perso i sensi e poi sono stata ricoverata in ospedale”, dice l’arbitro. Le conseguenze sono serie: cecità dell’occhio destro e sordità all’orecchio destro. Non solo: le tolgono anche la tessera dall’associazione degli arbitri. Ma perché lo hanno fatto? Con Nicolò De Devitiis andiamo a chiedere a Elena cos’è successo veramente. L’arbitro dichiara di non essere mai stata tutelata dall’associazione: “L’unica cosa che mi hanno chiesto mentre io ero ricoverata in ospedale è stato il referto di gara per il giudice sportivo". Risultato? L’Aia, l'Associazione italiana arbitri, le toglie la tessera.
Elena attacca l’associazione scrivendo anche sui social: “Ho cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica contro la violenza sugli arbitri”. Marcello Nicchi, presidente dell’Aia, sostiene invece: “Lei ha detto di non essere stata tutelata e questa è una bugia”. L’associazione le offre assistenza legale, le dà anche la possibilità di fare l’arbitro associativo, ma di tutto questo Elena non avrebbe parlato. Secondo il presidente quindi “l’associazione ha fatto quello che doveva fare”. Elena Proietti non è d’accordo: è stato un “accanirsi sulla sua persona”.
Arbitro donna aggredita nel 2014. L'Aia le ritira la tessera. Ma non si vergognano? Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2019. Esclusa la direttrice di gara che un anno fa attaccò l’Associazione arbitrale, accusandola di averla abbandonata. “Vicenda tragicomica”, commenta lei. La replica dell’ AIA: “Non credibile la sua versione. Il comportamento tenuto nell’intera vicenda dall’associata appare alquanto strumentale, dettato da fini personali e politici approfittando, nella circostanza, della discussione in atto relativamente ad un grave episodio di violenza accaduto nel corso di una gara del campionato di Promozione laziale”. Una decisione a dir poco “vergognosa” ed allucinante quella della Commissione disciplinare umbra dell’Associazione Italiana Arbitri nei confronti di Elena Proietti, attuale assessore allo sport di Terni: “niente più tessera dell’Aia” . La Proietti era stata aggredita nel 2014 durante la partita di Prima Categoria giocata fra le squadre del Real Quadrelli ed il Trevana. La Proietti allora direttrice di gara nel tentativo di mettere fine ad una rissa in campo, si beccò un pungo che le causò danni permanenti a un occhio e a un orecchio. Lo scorso novembre l’arbitro aveva attaccato pubblicamente l’Aia, accusando l’Associazione di averla abbandonata. La decisione della Commissione disciplinare, fu quella di punire l’arbitro umbro per “aver parlato ai media senza chiedere alcuna autorizzazione all’Aia“. La Proietti però non ci sta e replica: “Ecco l’epilogo di questa tragicomica vicenda – scrive l’assessore su Facebook – in cui chi subisce una violenza non né può neanche parlare né denunciare pubblicamente. Dopo 15 anni di onorato servizio mi viene ritirata la tessera perché ho cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica contro la violenza sugli arbitri. Ad maiora“. Il punto di vista della Commissione disciplinare invece è differente : “L’Aia fece quanto in suo potere per assistere la vittima. Non appare affatto credibile la versione dell’episodio fornita dall’associata ai mezzi di informazione” spiega la nota ufficiale. Per l’Associazione, Elena Proietti parlò ai media per farsi pubblicità: “Tenuto conto che le dichiarazioni sono state rilasciate a distanza di ben quattro anni dall’episodio – motiva la Commissione – il comportamento tenuto nell’intera vicenda dall’associata appare alquanto strumentale, dettato da fini personali e politici approfittando, nella circostanza, della discussione in atto relativamente ad un grave episodio di violenza accaduto nel corso di una gara del campionato di Promozione laziale“. Una giustificazione ridicola considerato che la Proietti si è candidata nelle liste di Fratelli d’ Italia in Umbria e non nel Lazio, e quindi non si comprende quale sarebbe stato lo scopo strumentale. Il nostro verdetto? L’AIA deve solo vergognarsi , come anche i magistrati che hanno archiviato per ben due volte la denuncia presentata dalla Proietti. Chissà come avrebbero giudicato, se il pugno in faccia se lo fosse beccato una loro collega-magistrato? Ai posteri la facile sentenza.
Da repubblica.it l'11 novembre 2019. Zaniolo è ormai uno dei giocatori simbolo della nuova Roma di Fonseca e forse anche per questo motivo che ultimamente è sempre più preso di mira delle tifoserie avversarie. L’ultimo episodio a Parma dove la formazione capitolina è uscita sconfitta per 2-0. Al centro dei cori della Curva Nord emiliana ci è finita la mamma del centrocampista giallorosso, Francesca Costa, già in passato protagonista di offese gratuite da parte degli ultras (“La mamma di Zaniolo è una pu…”. Il post e lo sfogo della mamma di Zaniolo – La mamma di Zaniolo, che era presente al Tardini, non ha gradito e come lei molti altri tifosi, tanto che sui social c’è stata una sorta di campagna solidale nei suoi confronti. La stessa Costa ha quotato uno dei tanti post: “Però poi il problema sono le squalifiche quando si canta ‘Napoletano di me…’, ‘Balotelli nero’, ‘Catanzarese zingaro!’ La mamma di Zaniolo e tutte le mamme hanno meno dignità rispetto ai napoletani, ai Catanzaresi e Balotelli”. Francesca Costa ha poi commentato: “La penso esattamente come te”.
Roma: insulti dalla curva del Parma, la rabbia social della mamma di Zaniolo. Dopo i cori offensivi dei tifosi della Lazio, anche a Parma un nuovo spiacevole episodio ha visto come protagonista Francesca Costa che sui social, quotando un post solidale da parte di un tifoso, ha chiesto rispetto. La Repubblica l'11 novembre 2019. Nicolò Zaniolo è ormai uno dei giocatori simbolo della nuova Roma di Fonseca e forse anche per questo motivo che ultimamente è sempre più preso di mira delle tifoserie avversarie. L’ultimo episodio a Parma dove la formazione capitolina è uscita sconfitta per 2-0. Al centro dei cori della Curva Nord emiliana ci è finita la mamma del centrocampista giallorosso, Francesca Costa, già in passato protagonista di offese gratuite da parte degli ultras (“La mamma di Zaniolo è una pu…”. Il post e lo sfogo della mamma di Zaniolo – La mamma di Zaniolo, che era presente al Tardini, non ha gradito e come lei molti altri tifosi, tanto che sui social c’è stata una sorta di campagna solidale nei suoi confronti. La stessa Costa ha quotato uno dei tanti post: “Però poi il problema sono le squalifiche quando si canta ‘Napoletano di me…’, ‘Balotelli nero’, ‘Catanzarese zingaro!’ La mamma di Zaniolo e tutte le mamme hanno meno dignità rispetto ai napoletani, ai Catanzaresi e Balotelli”. Francesca Costa ha poi commentato: “La penso esattamente come te”.
Zaniolo, la mamma: "Gli insulti sessisti sono come i cori razzisti, ma i peggiori sono i ragazzini". Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. Francesca Costa, mamma del giocatore della Roma Nicolò Zaniolo, ha parlato a Radio Capital degli insulti e dei cori sessisti che la bersagliano allo stadio e sui social. "Alcuni tifosi mi mandano in posta privata le storie in diretta su Instagram, mi taggano e io le pubblico perché voglio denunciarla questa cosa. Gli insulti sessisti li vedo nella stessa misura di quelli razzisti e di discriminazione territoriale. Sono soprattutto uomini adulti quelli che stanno allo stadio, ma chi mi scrive ha 14-15 anni e questi adolescenti mi scrivono le cose peggiori. Per fortuna ci sono anche episodi positivi: durante Roma-Napoli, nonostante i cori discriminatori dei romanisti, mi ha fatto piacere che molti tifosi napoletani mi abbiano avvicinata per fare i complimenti a Nicolò".
Arrestato il poliziotto della Postale "stalker" del calciatore Fabio Quagliarella. Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2019. Il poliziotto finito in carcere era finito a processo con le accuse di calunnia e atti persecutori nei confronti di una decina di vittime fra i quali diversi professionisti di Castellammare di Stabia, l’artista caprese Guido Lembo e il calciatore Fabio Quagliarella, in quel periodo della sua carriera tra Sampdoria, Udinese e Napoli, ed anche in Nazionale.
NAPOLI – I militari dell’ Arma dei Carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, nel tardo pomeriggio di ieri, affiancata dalla Polizia di Stato di Castellammare di Stabia ha dato esecuzione all’ordine per la carcerazione nei confronti di Raffaele Piccolo, di 54 anni, appartenente alla Polizia di Stato, e sospeso dal servizio, ritenuto responsabile di atti persecutori, calunnia e sostituzione di persona, il quale dovrà scontare la pena di 4 anni e 6 mesi.
I reati contestati al poliziotto finito in carcere, sono stati svolti in un arco di tempo intercorrente tra il 2006 ed il 2010, ai danni di numerosissimi imprenditori e professionisti, tra il calciatore ex Napoli Fabio Quagliarella e di Guido Lembo, gestore della taverna “Anema e Core” di Capri. Le lunghe indagini di polizia giudiziaria, condotte dalla squadra investigativa del Commissariato di Polizia di Castellammare di Stabia, coordinate dalla Procura di Torre Annunziata, hanno reso possibile di documentare le responsabilità del Piccolo – appartenente alla polizia e sospeso da tempo dal servizio – che per anni, fingendosi amico delle vittime, le ha perseguitate con lettere e messaggi anonimi contenenti false accuse di pedofilia e di collusioni con la criminalità organizzata. Fabio Quagliarella, costituitosi parte civile assistito dall’avvocato Gennaro Bartolino, nel corso della sua deposizione in aula presso il Tribunale di Torre Annunziata dichiarò che le lettere anonime inviate da Raffaele Piccolo alla società di De Laurentiis, furono uno dei motivi della sua cessione dal Napoli alla Juventus. Lo scorso 26 settembre la Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso dei legali di Raffaele Piccolo, poliziotto stabiese in servizio presso la Polizia Postale , dichiarando la prescrizione solo per un solo episodio. Gli ermellini della Suprema Corte hanno confermato la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione già emessa dai giudici di primo grado e dell’appello. Piccolo era finito a processo con le accuse di calunnia e atti persecutori nei confronti di una decina di vittime fra i quali diversi professionisti di Castellammare di Stabia, l’artista caprese Guido Lembo e il calciatore Fabio Quagliarella, in quel periodo della sua carriera tra Sampdoria, Udinese e Napoli, ed anche in Nazionale.
· Il Calcio e l’ideologia.
Da iltempo.it il 29 ottobre 2019. "Mio padre era armato solo di pane e frittata". Così Gabriele Paparelli, il figlio di Vincenzo, nel corso della trasmissione I Lunatici del weekend in onda su Rai Radio 2 e condotta da Pippo Lorusso e Roberta Paris. "Mio padre era un semplice tifoso, operaio di quegli anni, aveva un’officina meccanica, quindi era un semplice tifoso che non andava allo stadio a fare casino. Eravamo la classica famiglia italiana di quegli anni, papà adorava il suo lavoro e lavorava tutta la settimana, con una passione enorme per la Lazio. Per lui la domenica era una sorta di premio che si prendeva per poter andare a seguire la sua amata Lazio. Era un semplice operaio che stava mangiando un panino con la frittata accanto alla moglie, aspettando di vedere un derby. Purtroppo è accaduto quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare". Sul 28 ottobre 1979: "Quando il destino si accanisce non puoi scappare, quel giorno noi dovevamo andare al paese, siamo di Valmontone, capitava che andavamo tutti quanti per fare questi bellissimi megapranzi. C’era questo derby ma pioveva, allora papà decise di rinunciare alla partita e venire con noi al paese. Purtroppo è uscito un raggio di Sole e papà, laziale come era, ha preso subito la palla al balzo e decise di andare allo stadio. È andato tra le lacrime mie che volevo assolutamente andare con lui, avevo 8 anni ma ero abituato ad andare allo stadio con lui, andavamo tutta la famiglia. Invece mi disse che in quell’occasione sarebbe potuto essere pericoloso e che mi avrebbe portato la prossima volta. Non avevamo mai visto dei derby insieme, sempre partite abbastanza tranquille. Posso dire che quella volta mi ha salvato la vita. Viene il magone proprio perché non si riesce a concepire la violenza all’interno di uno stadio, quindi lì ci fu un cambiamento radicale nel mondo del tifo, degli ultrà, delle certezze che si sono perse all’improvviso per chiunque. Conosco tante persone che da quel giorno non sono più andate allo stadio, quindi è cambiato totalmente il mondo dello sport perché non è possibile che si muoia addirittura dentro lo stadio. Purtroppo non ho mai potuto “godermi” in santa pace la morte di mio padre, so che è una cosa forte però una persona nell’intimità cerca di sopperire i dolori e li tira fuori soltanto quando vuole. La perdita di un genitore è sempre un dolore forte, però poi sentire o leggere sui muri insulti rivolti a tuo padre, cori allo stadio, è diventato un incubo perché non siamo stati più padroni di vivere tranquillamente la morte di mio padre. Ogni giorno dovevamo combattere con una scritta, al punto che io giravo sempre con la mia bomboletta sotto al motorino per cancellarle perché se mia madre le vedeva era la fine della giornata. In questi anni durante le ricorrenze ho ricevuto anche tanto affetto, da Milano, Palermo, ho ricevuto tanti messaggi d’affetto e questo in qualche modo ti ridà la forza e ti ripaga il dolore che subisci. In primis i tifosi della Lazio, che per me sono diventati una seconda famiglia perché mi hanno sempre sostenuto da 40 anni a questa parte". E sulla figlia: "Vado pochissimo allo stadio, se posso farne a meno preferisco perché purtroppo si è sviluppata una certa fobia nei confronti dello stadio. Adesso però ho una bimba piccola che vuole andare allo stadio e sto cedendo, stiamo studiando una prossima partita tranquilla di pomeriggio e le ho fatto una mezza promessa che forse l’accompagno. Ancora è piccola per affrontare la storia del nonno, cerco sempre di tenerla fuori da questi discorsi. Lei è andata allo stadio con il nonno materno e ha visto una bandiera con il volto di mio padre, allora mi ha chiesto del perché nonno Vincenzo fosse sulla bandiera, come faccio a spiegarglielo? Lei non sa ancora come sono andate le cose. Le rispondo che era un tifoso speciale della Lazio, tutti quanti gli volevano bene e lo ricordano così perché era un grande tifoso. Ogni volta che inquadrano la Curva Nord lei va a cercare quella bandiera".
Da corrieredellosport.it il 29 ottobre 2019. Il 28 ottobre 1979 il calendario della Serie A prevede i derby di Milano e Roma. Alla vigilia l’attenzione è inevitabilmente più focalizzata su Inter-Milan, che oppone la capolista nerazzurra contro i campioni in carica rossoneri. Roma e Lazio sono più indietro in classifica: il Derby della Capitale non è ancora riuscito a ritagliarsi lo spazio mediatico conquistato solo negli anni successivi. Vincenzo Paparelli, 33 anni, di professione meccanico, è un uomo come tanti: marito, padre, tifoso della Lazio. È una domenica autunnale, piove. Una di quelle domeniche da dedicare alla famiglia. Poi, all’improvviso, esce uno sprazzo di sole e Vincenzo viene inesorabilmente attratto dall’idea di andare allo stadio a vedere il derby. Solita routine: si esce di casa, si arriva allo stadio, si entra, si trova un posto. E, nella lunga attesa che separa lui e la moglie dall’inizio della partita (in curva Nord non ci sono i posti numerati), dopo aver letto qualche pagina di giornale addenta il pasto frugale tipico dell’occasione: un panino con la frittata. Quelle attese erano fatte così: interminabilmente lunghe, noiosamente statiche, non ancora consumate dalla velocità zippata portata quarant’anni dopo dal mondo dominato dai cellulari. In quell’atmosfera quasi sospesa, impressionisticamente punteggiata da un boccone di cibo, una chiacchierata col vicino di posto occasionale e qualche sigaretta, dalla curva Sud parte un razzo che sorvola tutto il campo di gioco e chiude la sua traiettoria nel pieno viso di uno di quei tifosi che sta dribblando il tempo che lo separa dall’inizio della partita. Quel tifoso è proprio lui, Vincenzo Paparelli, che non ha nemmeno il tempo di capire che la partita della sua vita sta per finire così, diretta inflessibilmente da un arbitro che applica un regolamento incomprensibile. La scena è cruenta, il panico si diffonde velocemente. La moglie di Vincenzo,Wanda, prova disperatamente a estrarre dall’occhio del marito quell’oggetto incandescente, che la ustiona. La corsa all’ospedale è inutile e disperata, consumata tra paura, preghiere e dolore. Paparelli non ce la fa, lasciando la famiglia da sola a combattere la guerra della vita, fattasi all’improvviso terribilmente difficile. Quel giorno la tesi per la quale il mondo del calcio vive in un’isola felice, incontaminata dalle influenze della società, veniva clamorosamente sconfessata. Un atto scriteriato, che portava con se gli echi disordinati di un concetto improprio del tifo, risuonò violentemente dentro l’Olimpico di Roma, portando il clima che si respirava per le strade del Paese all’interno di uno stadio di calcio. In quegli anni l’Italia viveva i suoi tormenti dilaniata dalla lotta politica extraparlamentare che si consumava nella violenza spesso omicida degli anni di piombo. Vincenzo Paparelli morì in un luogo che avrebbe dovuto essere un sacrario della gioia di vivere proprio come giudici, politici, imprenditori e forze dell’ordine perivano nei luoghi dove quotidianamente si recavano per lavorare. Attività ordinarie potevano trasformarsi in tragedie senza la possibilità di poterle prevedere. “Quel razzo ha distrutto la mia famiglia” ha dichiarato recentemente al Corriere della Sera il figlio di Paparelli, Gabriele, la cui vita è stata segnata per sempre da quello sconvolgente episodio. Come sconvolgenti sono le scritte comparse negli anni successivi a Roma che, in un misto di stupidità e barbarie, rievocano quella morte: ”Leggere sui muri ‘10-100-1000 Paparelli’ è stata la maledizione della mia vita. Quando mi capita di vederle, corro a coprirle” il commento avvilito di Gabriele a quelle iscrizioni oscene. La cronaca esige che si parli anche di Giovanni Fiorillo, il diciottenne disoccupato che sparò quel razzo dalla curva Sud: rimase latitante per 14 mesi prima di costituirsi. Nel 1987 la Cassazione lo condannò definitivamente a sei anni e dieci mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale: aveva sempre giurato che quel giorno non aveva intenzione di uccidere nessuno. Ma dal 28 ottobre 1979 andare allo stadio non fu più la stessa cosa.
Lorenzo Nicolao per Corriere.it il 25 ottobre 2019. Il calcio torna a mescolarsi con l’estremismo e la politica. Ancora una volta i protagonisti sono sempre gli stessi. Alle 1700 di giovedì, una trentina di tifosi laziali per le strade di Glasgow che li avrebbero portati allo stadio del Celticper la partita di Europa League, hanno inneggiato Benito Mussolini facendo saluti romani, soprattutto nella centrale Buchanan Street, sotto gli occhi increduli dei negozianti scozzesi. Le immagini e i video sono stati registrati dallo Scottish Sun e mostrano inequivocabilmente il gesto del braccio teso.
Squalifica. A pochi giorni dall’ennesima squalifica della Curva Nord dell’Olimpico dopo i gesti fascisti dei tifosi laziali contro il Rennes, i sostenitori biancocelesti hanno voluto provocare i colleghi del Celtic, tradizionalmente di sinistra. La guerra ideologica fra tifoserie non si è limitata al prepartita, ma è continuata sugli spalti nel corso dei novanta minuti della partita che ha visto gli scozzesi rimontare la Lazio nella ripresa, dopo aver subito il gol di Lazzari al 40’ del primo tempo. Da anni gli ultras biancocelesti sono noti per le loro simpatie verso il fascismo, mai nascoste e spesso ostentate, tanto da costare loro diverse multe e sanzioni, anche da parte della Uefa, ormai sensibile soprattutto sul tema del razzismo.
Gli striscioni del Celtic. I sostenitori biancoverdi avevano però preparato per l’occasione diversi striscioni per sbeffeggiare i tifosi avversari. Se da una parte il video che immortalava i laziali fare il saluto romano è diventato virale sui social network, dall’altra la “Green Brigade”, dichiaratamente di estrema sinistra, ha evocato i fatti di Piazzale Loreto a Milano con un manifesto che ritraeva il Duce appeso a testa in giù, con la scritta “Follow your leader”, ovvero “Seguite il vostro capo”. Le tensioni sono proseguite anche a fine partita, con un continuo scambio di cori politici da parte di entrambi gli schieramenti, nonostante a Glasgow ci sia ormai estrema attenzione al tema del razzismo e della propaganda politica all’interno degli stadi. Nicolò d’Angelo, responsabile della sicurezza della Lazio, ha detto di essere stato fin troppo chiaro sul tema dell’estremismo, e di essersi raccomandato più volte con le frange più radicali del tifo biancoceleste. «A questo punto è possibile arrivino nuove sanzioni», ha detto, «Purtroppo c’è ancora una minoranza che è convinta sia normale fare il saluto romano e manifestare un pensiero marcatamente razzista. Tutto questo non possiamo considerarlo più tollerabile, per quanto la situazione sia stata sottovalutata e trascurata per anni». Insieme alla stessa Uefa, la società biancoceleste è decisa a combattere il fenomeno e ad allontanare le “mele marce” ma, come era già capitato in passato, era già stato deciso che la Curva Nord dello stadio Olimpico rimanesse chiusa il prossimo 7 novembre in occasione della partita di ritorno con il Celtic. Una ventina di tifosi laziali, colti in flagrante nel fare il saluto fascista, erano inoltre già stati identificati dalla Digos nel corso della partita contro il Rennes. Dopo i fatti di Glasgow, la squalifica rischia ora di essere estesa a tutto l’Olimpico, non solo alla curva, a danno della Lazio stessa e della maggioranza dei suoi tifosi, che nulla hanno a che fare con l’estremismo.
Mario Neri per nextquotidiano.it il 27 ottobre 2019. “Un gesto violento di "ducefobia", reato che ancora non esiste ma che propongo di inserire nel nostro ordinamento giudiziario”. Alessandra Mussolini ha dato spettacolo l’altroieri con l’AdnKronos parlando dello striscione esposto ieri allo stadio di Glasgow dai tifosi del Celtic, rivolto a quelli della Lazio, con l’effige di Benito Mussolini a testa in giù, chiaro richiamo alla fine del duce, e la scritta "Follow your leader", ovvero "Seguite il vostro leader", con riferimento all’impronta politica neofascista di alcune frange degli ultras biancocelesti. “Chi espone la foto o il disegno di mio nonno a testa in giù commette un atto di violenza, che andrebbe perseguito”, ha detto l’onorevole. Quanto alla politicizzazione delle curve, per la maggior parte sul versante dell’estrema destra e del neofascismo, per la nipote del duce “il tifo è di per sé estremista: sono ultras, no? Lo dice il nome stesso…”. Come si capisce benissimo, il reato di ducefobia è una boutade. Ma la Mussolini ha ottenuto il suo scopo. Per questo l’unico atteggiamento razionale nei suoi confronti è quello tenuto all’epoca da Jim Carrey dopo aver pubblicato la foto di Benito e Claretta a testa in giù a piazzale Loreto. La Mussolini si precipitò all’epoca a commentare con “sei un bastardo” e poi si mise a battagliare – in un inglese stentato – con una serie di utenti che le facevano notare come il nonno non fosse proprio uno stinco di santo e che forse se era finito in quel modo qualche cosa di male l’aveva fatto. Variety ha intercettato Carrey per chiedergli cosa volesse rispondere alla Mussolini. Il comico ha ammesso di non avere idea né dell’esistenza dell’europarlamentare italiana politicamente freelance (così nella bio su Twitter) né del fatto che fosse in politica. E si è detto piuttosto sconvolto dal fatto che continuasse «a stare dalla parte del male». Ma Carrey ritiene che se la Mussolini si è sentita offesa dalla vignetta e visto che continua a vedere le cose al contrario di come le vedono gli altri può sempre capovolgerla «così le sembrerà di vedere suo nonno che salta di gioia».
Da nextquotidiano.it il 27 ottobre 2019. Comincia a farsi intrigante la storia dei tifosi del Celtic Glasgow contro il fascismo: secondo quanto racconta Footbal News Hound gli ultras hanno esposto questo striscione oggi al Pittodrie Stadium di Aberdeen per rispondere ad Alessandra Mussolini che ieri aveva proposto di istituire il reato di Ducefobia per l’esposizione di foto e disegni che ritraevano Benito Mussolini appeso per i piedi. Durante la partita di Europa League tra Celtic e Lazio i fans del Celtic avevano esposto uno striscione con la scritta “Follow your leader” e un disegno del Duce a testa in giù in risposta ai cori fascisti e ai saluti romani dei supporter biancocelesti esposti in città prima del match. Gli ultras laziali cantavano uno dei loro cori da stadio, quel “Avanti ragazzi di Buda” scritto da Pier Francesco Pingitore (quello del Bagaglino) che piace tanto anche a Giorgia Meloni e che due giorni fa è stata intonata proprio dai deputati di Fratelli d’Italia alla Camera. i tifosi del Glasgow sono noti per essere antirazzisti e quindi schierati dalla parte opposta. Da qui l’esposizione dello striscione in curva durante la partita. Forse proprio in “onore” dei laziali hanno tradotto in italiano anche il nome di una delle loro firm, la Green Brigade, che per l’occasione è diventata “Brigate Verde”, inequivocabile il simbolo a corredo (che non è quello usuale della Green Brigade) della stella a cinque punte che richiama quello delle Brigate Rosse italiane. Per la cronaca la Lazio ha perso la partita per 2 a 1. Poi ieri Alessandra Mussolini, a colloquio con l’Adn Kronos, aveva proposto di istituire il reato di ducefobia: “Chi espone la foto o il disegno di mio nonno a testa in giù commette un atto di violenza, che andrebbe perseguito”, ha detto l’onorevole. Quanto alla politicizzazione delle curve, per la maggior parte sul versante dell’estrema destra e del neofascismo, per la nipote del duce “il tifo è di per sé estremista: sono ultras, no? Lo dice il nome stesso…”. E oggi è arrivata la risposta dei tifosi del Celtic, mentre la loro squadra ha vinto per 4 a 0.
· Il marcio nascosto di Calciopoli.
Da Corriere dello Sport il 30 settembre 2019. La settimana che porterà a Inter-Juventus si apre con nuova benzina sul fuoco tra bianconeri e nerazzurri. Nodo del contendere, l'annosa questione dello Scudetto 2005/06. La Juventus ha infatti presentato un nuovo ricorso al Collegio di Garanzia dello Sport, contro l'assegnazione all'Inter dello Scudetto del 2006 a seguito dei fatti di Calciopoli. Il club bianconero ha impugnato l'ultima sentenza, emessa dalla Corte federale di appello della Figc, che confermava l'assegnazione del titolo al club nerazzurro decisa nel luglio 2006 dall'allora commissario straordinario Guido Rossi. La Juventus adesso chiede, impugnando la suddetta sentenza, la non assegnazione di quel titolo.
Ricorso della Juventus, il testo: "Il Collegio di Garanzia dello Sport ha ricevuto un ricorso presentato dalla società Juventus Football Club S.p.A. contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), la società Football Club Internazionale Milano S.p.A. e il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) per l’impugnazione e la riforma della decisione della Corte Federale di Appello della FIGC, emessa a Sezioni Unite, in data 30 agosto 2019, prot. n. 2826/AM/ri, comunicata a mezzo PEC in data 30 agosto 2019, oltre che della decisione della medesima Corte, emessa a Sezioni Unite, il 3 settembre 2019, con errata corrige, comunicata a mezzo PEC il 3 settembre 2019, nonché per l’annullamento della delibera del Consiglio Federale della FIGC, in data 18 luglio 2011, n. 219/CF, pubblicata il 19 luglio 2011, di reiezione di un’istanza di revoca in autotutela, presentata dalla Juventus Football Club S.p.a., in data 10 maggio 2010, del provvedimento del Commissario Straordinario della FIGC, avv. Guido Rossi, il 26 luglio 2006, di assegnazione del titolo di Campione d’Italia per il Campionato Italiano di Calcio di Serie A, anni 2005 - 2006, alla società F.C. Internazionale Milano S.p.A.; dell’atto del Commissario Straordinario della FIGC, avv. Guido Rossi, in data 26 luglio 2006, di assegnazione del titolo di Campione d’Italia alla società F.C. Internazionale Milano S.p.A. per il Campionato di Calcio degli anni 2005 - 2006, pubblicato il 19 luglio 2011, nonché di tutti gli atti e provvedimenti amministrativi e sportivi, connessi, collegati, istruttori, endoprocedimentali e interni, conosciuti e non conoscibili.
La società Juventus chiede al Collegio di Garanzia, definitivamente pronunciando, contrariis reiectis:
- in via principale, di dichiarare inesistenti, nulle e/o di annullare le decisioni della Corte Federale di Appello della FIGC, emesse a Sezioni Unite, in data 30 agosto 2019, prot. n. 2826/AM/ri e in data 3 settembre 2019, prot. n. 3023/AM/ri, con errata corrige e, per l’effetto, di annullare: la delibera del Consiglio Federale della FIGC, in data 18 luglio 2011, n. 219/CF, pubblicata il 19 luglio 2011, di reiezione di un’istanza di revoca in autotutela, presentata dalla Juventus Football Club S.p.a., in data 10 maggio 2010, del provvedimento del Commissario Straordinario della FIGC, avv. Guido Rossi, in data 26 luglio 2006, di assegnazione del titolo di Campione d’Italia per il Campionato Italiano di Calcio di Serie A, anni 2005 - 2006, alla società F.C. Internazionale Milano S.p.A.;
l’atto del Commissario Straordinario della FIGC, avv. Guido Rossi, in data 26 luglio 2006, di assegnazione del titolo di Campione d’Italia alla società F.C. Internazionale Milano S.p.A. per il Campionato di Calcio degli anni 2005 - 2006, pubblicato in data 19 luglio 2011;
e, per l’effetto, di dichiarare non assegnato il titolo di Campione d’Italia per gli anni 2005 - 2006;
- in subordine, di rinviare all’organo di giustizia federale competente, enunciando il principio di diritto, ex art. 12 bis, comma 3, dello Statuto del CONI e artt. 54 ss. del Codice di Giustizia del CONI."
MA ADESSO PER LA JUVE GLI SCUDETTI VINTI RESTANO SEMPRE 37? Da il Messaggero il 7 maggio 2019. Il ricorso della Juventus è «inammissibile». Si esaurisce con la decisione di oggi del Collegio di Garanzia a sezione unite del Coni l'ultimo atto di Calciopoli sull'assegnazione d'ufficio all'Inter dello scudetto 2005/06. Una storia vecchia ormai di 13 anni ma che negli animi di juventini e interisti ancora resiste come un vessillo d'orgoglio. Eppure, su quel tricolore 2005/2006, revocato alla Juventus e assegnato d'ufficio all'Inter dall'allora commissario straordinario della Figc, Guido Rossi, per i bianconeri mancava ancora un passaggio. Una decisione che è rimasta congelata dal 2011, quando fu deciso di non revocare lo scudetto ai nerazzurri dall'allora consiglio federale della Figc presieduto da Giancarlo Abete e successivamente dal Tnas (oggi sostituito proprio dal Collegio di Garanzia) che si dichiarò non competente, nonostante la dura relazione dell'allora Pm federale, Stefano Palazzi, alla luce delle nuove intercettazioni che coinvolgevano anche Giacinto Facchetti, all'epoca dei fatti dirigente nerazzurro. Secondo l'avvocato della Juventus, Luigi Chiappero «non c'è nessun giudice sportivo che ha voluto decidere», mentre secondo l'Inter pesano le ripetute sentenze, penali, amministrative e sportive, che si sono seguite negli anni: «Si propone sempre lo stesso quesito senza tenere conto di quello che hanno detto in tutti questi anni tutti i giudici», le parole dell'avvocato Luisa Torchia. Oggi l'ultimo atto con cui il Collegio non soltanto dichiara inammissibile il ricorso dei bianconeri ma estromette inoltre il Coni «dal presente giudizio», condannando altresì la società bianconera al pagamento delle spese in favore del Comitato olimpico nazionale per 1.500 euro, oltre agli oneri accessori disponendo «l'integrale compensazione delle spese nei confronti delle altre parti».
Giampiero Mughini per Dagospia il 7 maggio 2019. Caro Dago, sì, sì, non c’è alcun dubbio che gli scudetti vinti sul campo dalla Juve nel suo secolo e passa di scorribande sul campo verde da football siano 37 e non uno di meno. Lo so, lo so, che quella porcata di Calciopoli - ossia una giuria messa in piedi da un ex membro del Consiglio di Amministrazione dell’Inter che assegna lo scudetto alla società nerazzurra, che in quel campionato era finita terza a 14 punti dalla Juve - è stata confermata dalle successive giurie che hanno giudicato “inammissibile” il ricorso presentato da Andrea Agnelli. Giurie che non hanno mai avuto il coraggio di “giudicare” autonomamente le vicende di quel torneo, e seppure fosse successivamente venuto fuori che un alto dirigente dell’Inter facesse ai designatori arbitrali le stesse identiche telefonate che faceva Luciano Moggi: ossia che fossero tenuti in gran conto gli interessi della squadra da lui rappresentata. Telefonate le une e le altre che io non giudico affatto illecite, fanno parte del gioco e dell’immenso business del calcio. Quelle telefonate sono costate alla Juve due scudetti stravinti sul campo - non ho mai incontrato un giocatore o un allenatore in carne ossa che dubitasse di questo mio ultimo giudizio -, la cacciata in serie B, la distruzione di una squadra di cui dieci giocatori su undici avevano disputato la finale del Mundial 2006, la distruzione di una società che non aveva più di che pagare gli stipendi di fine mese. Il giudice sportivo ha successivamente giudicato l’Inter altrettanto colpevole, solo che nel frattempo era arrivata la prescrizione. Sicché quello scudetto di merda e di cartone figura ancora nella bacheca della società nerazzurra, appestando gli scudetti vinti da una delle squadre più prestigiose del Novecento, la Grande Inter di Luisito Suarez e Mariolino Corso. Ho letto, riletto e studiato gli atti processuali di Calciopoli. Dalla prima pagina all’ultima. Non c’è un solo episodio, non c’è un solo gol, non c’è una sola partita, non c’è un solo arbitraggio di cui sia stata ravvisata l’illiceità in tutti e due i tornei stravinti dalla Juve di Fabio Capello. Quell’anno io mi guadagnavo il pane chiacchierando ogni domenica su quello che era avvenuto in campo. Il conduttore della trasmissione, l’adamantino Sandro Piccinini, non la finiva di dire a ogni puntata che quell’anno non c’erano mai stati episodi loschi pro-Juve (tipo l’abissale errore dell’arbitro che non diede il gol al milanista Muntari in un tutt’altro torneo). Quei due romanzi del football scorsero tranquilli tranquilli. La Juve in testa dalla prima partita all’ultima. Due scudetti vinti e stravinti. Chiedete a Capello, che è un uomo di onore, che cosa ne pensi. La condanna di Moggi è stata motivata nei termini seguenti. Con l’avere acquistato le famose schede telefoniche difficilissime da intercettare, lui ha predisposto un possibile “agguato” alla liceità del campionato. Di questo agguato non esiste alcuna prova che sia stato effettivamente tentato e attuato sotto forma di pressioni specifiche e colpevoli su qualche arbitro, tanto è vero che nessunissimo arbitro italiano è stato condannato perché essere supino ai voleri della Juve. Nessunissimo. Nessunissimo episodio. Nessunissimo gol. Niente di niente. Lo recita la sentenza della Cassazione pur nel confermare la condanna di primo grado al tribunale di Napoli.E a proposito di sentenze ce n’è una recente che assolve Moggi dall’aver infangato la memoria di Giacinto Facchetti per aver detto che anche lui telefonava e insisteva con i designatori arbitrali. Una sentenza di cui non ho visto traccia sui giornali. Pazienza. Epperò sì, gli scudetti vinti sul campo sono 37. Nella speranza che fra due anni diventino 39.
CALCIOPOLI NON FINISCE MAI. Arianna Ravelli per il "Corriere della sera" il 12 luglio 2019. C' è una vicenda legal-sportiva che sembra destinata a non finire mai: Calciopoli. Ieri, 13 anni dopo la retrocessione della Juventus e lo scudetto assegnato all' Inter dal commissario Guido Rossi, la società bianconera è tornata di fronte a un tribunale. Obiettivo finale: la revoca di quel titolo. Per essere più precisi, di fronte al Tribunale nazionale federale, la Juventus ha chiesto di sospendere il giudizio in attesa dell' esito di un altro ricorso, fino a ieri sconosciuto, presentato al Tar. Il Tfn ha invece rigettato l' istanza di sospensione e dichiarato inammissibile il ricorso della società bianconera. Un passo indietro. Dopo la pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite, che a dicembre aveva chiuso il procedimento di fronte alla giustizia ordinaria (facendo pensare alla fine definitiva della controversia), la Juventus aveva presentato due ricorsi paralleli davanti alla giustizia sportiva: uno al Collegio di garanzia del Coni e questo al Tribunale nazionale federale. Il Collegio di garanzia, a maggio, aveva dichiarato inammissibile il primo e la Juventus - è notizia di due giorni fa - ha impugnato tale decisione davanti al Tar. Ieri, al momento di discutere il secondo ricorso al Tribunale federale, il legale bianconero Luigi Chiappero ha quindi chiesto che si sospendesse il giudizio in attesa del Tar, ma l' avvocato Giancarlo Viglione, che assieme a Luigi Medugno rappresenta la Figc, si è opposto, sostenendo che è stato proprio il club bianconero a scegliere di percorrere due diversi canali, e comunque il Coni ha chiarito non esserci più spazi di impugnazione davanti alla giustizia sportiva. Stessa tesi è stata sostenuta dai legali dell' Inter. Il Tfn ha dato ragione a Figc e nerazzurri. Prossima tappa, chissà se l' ultima, il Tar.
Da repubblica.it il 12 luglio 2019. "Se mi aspettavo una decisione diversa? Basterebbe guardare la sentenza passata in giudicato della Corte d'appello di Milano in cui c'è scritto che Facchetti aveva chiesto a un arbitro di fargli vincere la partita di coppa Italia con il Cagliari. Se questo non fosse sufficiente, c'è la vicenda del falso passaporto di Recoba...". Luciano Moggi, ex direttore generale della Juventus radiato dalla Figc in seguito allo scandalo di Calciopoli, commenta così all'Adnkronos la decisione odierna del Tribunale federale nazionale della Figc che ha dichiarato inammissibile il ricorso del club bianconero contro l'assegnazione all'Inter dello scudetto 2006. "La Juventus queste cose non le ha mai fatte, non c'è nessuna nostra telefonata in cui chiedevamo all'arbitro di farci vincere le partite e la stessa sentenza di Napoli scagiona la Juventus. Mi devono spiegare come si fa a dire che l'Inter, in pratica, era una società immacolata che doveva prendere lo scudetto. Bastano due cose -ripete Moggi-: la sentenza di Milano e il passaporto di Recoba".
Scudetto 2006: la Corte d’appello respinge il ricorso della Juventus, resta all’Inter. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 su Corriere.it. La Corte federale d’appello della Federcalcio ha respinto il ricorso della Juventus contro «la reiezione dell’istanza di sospensione e la declaratoria dell’inammissibilità» pronunciate lo scorso luglio dal Tribunale federale nazionale. Al giudice di primo grado si era rivolto il club bianconero per ottenere l’annullamento della delibera con cui il Consiglio federale Figc, nel 2011, aveva dichiarato la mancanza di presupposti giuridici per la revoca dello scudetto 2006, quello di Calciopoli, all’Inter. Lo rende noto la Figc in una nota. La guerra infinita dei bianconeri, già passata per i tribunali ordinari fino alla Cassazione, dovrebbe quindi essersi chiusa oggi. A maggio i bianconeri si erano rivolti al Collegio di garanzia del Coni, che aveva dichiarato «inammissibile» il ricorso, e contemporaneamente agivano sul piano del Tribunale nazionale federale, che si era pronunciato a luglio. Adesso la parola fine dovrebbe essere quella della Corte.
Luciano Moggi, appello ai giudici: "Volete riabilitare il calcio? Togliete lo scudetto all'Inter". Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 6 Agosto 2019. Ancora la Juve contro l' Inter, non in campo ma in tribunale: giudice la Corte d' Appello Federale. I bianconeri chiedono che venga tolto ai nerazzurri quello scudetto che loro avevano vinto sul campo, ma che Guido Rossi revocò per assegnarlo all' Inter. Per chi ancora non lo sapesse, Guido Rossi era l' ex consigliere interista, che qualcuno mise alla guida della Figc probabilmente per mettere a punto un disegno ben preordinato. Era fin troppo evidente la cosa, tanto che un Giudice Sportivo in carica in Figc, l' avvocato Giuseppe Benedetto, dette le dimissioni dall' incarico così motivandole: «La sera voglio addormentarmi in pace con la mia coscienza». Silenzio assoluto invece dal Coni, forse perché il suo presidente Gianni Petrucci era stato l' artefice della nomina a commissario dell' avv. Rossi. Fu comunque portato avanti il disegno pur sapendo che avrebbero azzerato "quel calcio" che aveva portato in Italia il titolo mondiale nel 2006. Preferirono metterlo in mano a incompetenti che subirono umiliazioni nel 2010 e nel 2014 con l' eliminazione al primo turno dei Mondiali, oltre ad essere estromessi addirittura nel 2018. Una coltellata al cuore di questo sport.
UNA FORZATURA. Se ne accorse l' ex presidente della Corte Costituzionale, dottor Baldassarre: «Aver assegnato lo scudetto all' Inter è stata una forzatura. Accettare di mettere il tricolore sulle maglie un comportamento antisportivo, oltretutto perché nella vicenda intercettazioni la posizione dell' Inter è di estrema gravità». Se ne accorse il giornalista Enzo Biagi: «Una sentenza pazzesca , perché costruita sul nulla, pazzesca perché punisce chi era colpevole solo di vivere in un certo ambiente, il tutto condito da un processo che era una riedizione della Santa Inquisizione in chiave moderna. Sembra addirittura che per coprire altri scandali abbiano individuato in Luciano Moggi il cattivo da dare in pasto al popolino». La sentenza della Corte d' Appello di Milano del 2018, che vede perdente Gianfelice Facchetti, sembra addirittura certificare il pensiero di Biagi: «Non era il "sistema Moggi" a condizionare il campionato, ma il sistema generale diffuso nel calcio di quel tempo». Interessante e di vitale importanza il recente parere sulla vicenda di Carlo Porceddu, a quel tempo alla Corte d' Appello Federale: «Fu un errore gravissimo assegnare lo scudetto all' Inter». La sua analisi punta il dito accusatore sull' ex commissario della Figc Guido Rossi e su Moratti. Continua Porceddu: «La Corte Federale aveva limitato la sanzione alla Juve non revocandole lo scudetto del 2005/06 perché non esistevano elementi sufficienti a suffragio di un tale provvedimento . Ci pensò però il commissario Guido Rossi nominando un gruppo di amici suoi, chiamati "i tre saggi", che revocarono lo scudetto alla Juve per assegnarlo all' Inter, quale società esente da provvedimenti disciplinari».
PASSAPORTOPOLI. A contrastare questa tesi è lo stesso Porceddu parlando di Passaportopoli che coinvolse l' Inter e Recoba con la squalifica del giocatore e la condanna della Magistratura Ordinaria del ds nerazzurro. Per fare questo passaporto falso, erano stati trafugati documenti dalla Motorizzazione di Latina. Incredibile quindi come l' autore possa sedere adesso sulla panca della nostra nazionale. Porceddu sintetizza infine la situazione odierna: «Gli strascichi di quel momento del calcio sono ancora vivi e derivano dalla posizione dell' Inter archiviata per prescrizione mentre le intercettazioni documentavano i rapporti, non certamente commendevoli (lo dice la Corte D' Appello di Milano) tra la società nerazzurra e la classe arbitrale». Il riferimento era ovviamente a quando Facchetti chiese all' arbitro Bertini di poter vincere la semifinale di Coppa Italia Cagliari-Inter e a quanto scritto dal Procuratore Federale di allora, dr. Palazzi, che oltre ad elencare tante altre società del massimo campionato passibili di illeciti, sosteneva che l' Inter era la società che rischiava più di tutte per il comportamento illegale del suo presidente Giacinto Facchetti. Nell' elenco del procuratore non figurava la Juve perché esente da illeciti, ce lo racconta la sentenza del processo sportivo: «Campionato regolare, nessuna partita alterata». Tra l' altro il relatore del Tribunale Sportivo, prof. Serio, affermò che la sentenza era stata motivata anche dal sentimento popolare, allineandosi a quanto affermato da Biagi: «Un processo costruito sul nulla, su di un personaggio (Moggi) colpevole solo di vivere in un certo ambiente». Chissà se oggi la Corte D' Appello Federale avrà voglia di scrollarsi di dosso questo fardello: ridarebbe credibilità al calcio e alla giustizia sportiva stessa. Luciano Moggi
Luciano Moggi il 6 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": il marcio nascosto di Calciopoli: quelle intercettazioni "sfuggite" ad Auricchio. Nonostante siano in tanti a dire di non parlare più di Calciopoli, spunta sempre qualcuno che vuol tornare sul tema e magari farebbe bene a tacere. È il caso dell'ex maggiore dei carabinieri Attilio Auricchio, che dirigeva la caserma di via Inselci a Roma, da cui partì l'inchiesta di Calciopoli. L' accusa: le frequentazioni con il designatore che, secondo lui, avrebbero portato ad un condizionamento del campionato (frequentazioni ammesse per statuto dalla Figc purché non ci fossero di mezzo interessi propri con lesione degli interessi altrui). La Giustizia ordinaria è in contrasto evidente a questa norma, poiché gli investigatori, con a capo Auriccchio, avevano già stabilito a priori l'esistenza di un condizionamento del campionato da parte di Moggi, prendendo per oro colato le dichiarazioni di Baldini, allora ds della Roma. E per poter arrivare a tanto furono escluse dall' impianto accusatorio tutte le altre società, eccezione fatta per la Juve, appunto per dimostrare che solo chi vi scrive parlava con i designatori. Da qui il «reato a consumazione anticipata» allo scopo di punire dei comportamenti che nei fatti non rappresentavano nulla di illecito. Purtroppo ad Auricchio sono "sfuggite" alcune intercettazioni interessanti che ci raccontano invece chi, effettivamente, aveva il potere di condizionare il nostro torneo. Sentite cosa dice Galliani, allora presidente della Lega e anche vice presidente esecutivo del Milan, dopo la morte di Papa Wojtyla, in relazione alla partita sospesa in memoria del Pontefice e circa la data per poterla recuperare: «Moggi e Capello volevano giocare due giorni dopo la morte di Sua Santità, ma siccome, in qualità di Presidente della Lega, devo decidere io ho rimandato la gara con il Siena di una settimana... così potremo recuperare Kakà infortunato». Lo diceva a Meani, dirigente addetto agli arbitri del Milan e a Costacurta. E mentre il Presidente della Lega curava gli interessi del suo Milan, il presidente federale Carraro aveva a cuore sia il titolo di campione d' Italia che le retrocessioni. Ecco osa dice al designatore Bergamo il 26 settembre 2004 subito dopo il sorteggio: «...chi è stato sorteggiato per Inter-Juve?». Alla risposta «Rodomonti», Carraro replica: «telefonagli e digli che non faccia favori alla Juve, magari a quelli che stanno dietro in classifica» (l' Inter n.d.r.). La cosa si poteva anche ipotizzare come un gesto di carineria nei confronti di Moratti, se non avesse leso gli interessi della Juve e favorito indirettamente quelli del Milan (di cui lui era stato anche presidente) in lotta con la Juve per il primo posto. Non fu infatti espulso il portiere nerazzurro Toldo e Rodomonti poi confessò all' altro designatore Pairetto (evidentemente ignaro della tresca) di aver sbagliato. A proposito poi delle retrocessioni, interessante la telefonata tra Bergamo e un Carraro arrabbiato con il designatore perché preoccupato delle sorti della Lazio, in piena lotta retrocessione: «Ti avevo detto di dare una mano alla Lazio... evidentemente a te non danno retta (chi, gli arbitri? n.d.r.) e la prossima volta ci penso io direttamente. Comunque domenica la Lazio va a Milano e non possiamo far niente, dopo però va aiutata». «E non può retrocedere neppure la Fiorentina perché sarebbe un danno per il campionato». Tutte queste intercettazioni sono "sfuggite" evidentemente ad Auricchio il quale, anziché parlare del numero dei campionati vinti dalla Juve, potrebbe dire come si poteva condizionare il campionato avendo contro Figc, Lega, e designatore, considerando poi che gli arbitri vennero tutti assolti per non aver commesso il fatto, meno uno (De Santis) che nulla aveva a che vedere con la Juve. Anzi le dava contro. Luciano Moggi
Luciano Moggi per “Libero quotidiano” il 19 giugno 2019. Amici lettori, vedendo la mia firma avrete sicuramente pensato che questo articolo parlasse esclusivamente di calcio: rimarrete delusi, spero non me ne vogliate. Mio malgrado, pur non avendo la minima voglia di farlo, devo parlare di Calciopoli per denunciarne ancora una volta le anomalie e le persone incontrate in questo tortuoso percorso. Tra queste Giancarlo Abete, vice presidente della Federazione prima di Calciopoli, presidente poi in sostituzione del dimissionario Franco Carraro subito dopo il processo sportivo. Questo signore aveva sempre manifestato il desiderio di non parlare più di quello "scandalo", ma in questi ultimi giorni evidentemente non ne ha potuto fare a meno: «Il titolo mondiale della nostra nazionale, a Berlino nel 2006, ha rivalutato il nostro calcio dopo Calciopoli». Sarebbe facile rispondergli che successivamente, con lui a capo del calcio, l' Italia è stata eliminata dai mondiali al primo turno, sia nel 2010 che nel 2014, con ciò denotando la sua incapacità di sovrintendere a questo sport. Mentre la Nazionale che vinse nel 2006 era in gran parte formata da quei giocatori che giocavano nella Juventus, retrocessa per non «aver commesso il fatto» se è vero che la sentenza del tribunale sportivo così ci racconta: «Campionato regolare, nessuna partita alterata». Gli azzurri a Berlino, in finale, incontrarono la Francia, dove giocavano ben 4 juventini, che sommati ai 5 della nazionale italiana (con Lippi allenatore) facevano 9 giocatori bianconeri in finale. Tutti giocatori scelti dal sottoscritto il cui valore lo avevano già dimostrato nel nostro campionato e lo ribadirono nel mondo. Caro Abete, non è stata Calciopoli, che non doveva esistere, ad azzerare il calcio italiano di quel tempo, ma sono stati tutti coloro che, subentrati sulla spinta di Calciopoli, hanno dimostrato scarsa conoscenza della materia e, ad essere bravi, poca organizzazione. Dichiaravano di volere un calcio limpido, ma successe di tutto: Calcioscommesse compreso, e addirittura la mancata qualificazione ai Mondiali del 2018. A chiarire le cose in proposito ci viene in aiuto, guarda caso, proprio una sentenza, la 2166 della Corte di Appello di Milano, che assolveva il sottoscritto e condannava il figlio di Giacinto Facchetti, Gianfelice: «È noto a tutti come al tempo del procedimento c.d. Calciopoli fosse opinione comune che il problema non fosse ascrivibile esclusivamente al "c.d. sistema Moggi", ma si trattasse di modalità diffuse in quel mondo». A significare che non era lo strapotere di Moggi a condizionare il calcio e i suoi campionati. Secondo noi era piuttosto il presidente federale Carraro quando a novembre del 2004, prima di Inter-Juventus, telefonò al designatore Bergamo intimandogli di chiamare l' arbitro Rodomonti per dirgli di non fare favori alla Juve. O quando, sempre Carraro, richiamò in tono irato il designatore Bergamo, a riguardo delle retrocessioni: «La Lazio domenica va a giocare a Milano e non possiamo far niente (?), ma dopo deve essere aiutata perché non deve retrocedere. E neppure la Fiorentina perché sarebbe un danno per il nostro campionato». E infatti non retrocessero. E a proposito della Fiorentina, dei tuoi amici Della Valle, caro Abete, sono da ricordare anche le telefonate intercorse tra te e Mazzini. Si fa poi fatica a parlare del rigetto del ricorso della Juve che chiedeva la restituzione dello scudetto assegnato all' Inter. Ci domandiamo se è possibile che nessuno abbia preso buona nota della sentenza della Corte di Appello di Milano di cui sopra, dove il relatore riporta tra l' altro quanto dichiarato dal procuratore federale, dr. Palazzi: «L' Inter è la società che rischia più di tutte per il comportamento illegale del suo presidente Giacinto Facchetti». E comunque sarebbe bastato il passaporto falso di Recoba per dimostrare che l' Inter non era degna di avere quel titolo che la Juve aveva conquistato sul campo, e proprio con gli stessi giocatori che avevano dato all' Italia il titolo mondiale nel 2006 a Berlino.
Luciano Moggi il 7 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": la verità che nessun vuol ricordare sugli scudetti di Roma e Lazio. Abbiamo ritenuto opportuno far seguito a quanto scritto sabato per dare dimostrazione di come avessimo le istituzioni contro, la prova la forniscono due campionati: 1999-2000 vinto dalla Lazio e 2000-2001 vinto dalla Roma e la Supercoppa che si disputò a New York nel 2003. Nel 1999-2000 vinse il titolo la Lazio di Cragnotti, seconda la Juventus. Era l'anno del Giubileo. A determinare la sconfitta dei bianconeri fu il nubifragio di Perugia durante Perugia-Juventus, ma soprattutto i 74' minuti imposti da Collina (arbitro della partita) tra un tempo e l'altro. Quando l'arbitro viareggino ordinò di riprendere il gioco, il campo, intriso d' acqua, non garantiva certezze di integrità fisica per gli atleti. Eppure lui riuscì anche ad espellere Zambrotta, reo di essere scivolato in acqua... senza saper nuotare. La Juventus poteva ritirare la squadra trascorsi 45' in luogo dei 15' regolamentari, ma non lo fece per non essere tacciata da arrogante e perse partita e titolo. Alla fine della gara, ad uscire trionfanti furono Collina e il designatore Paolo Bergamo che si guardò bene dall' ordinare all' arbitro la sospensione della gara. Erano evidentemente felici di aver portato a termine la loro missione, d' altra parte avevano stabilito il record dei minuti d' intervallo, tra un tempo e l'altro. Riavemmo Collina negli States nel 2003, in campo a New York contro il Milan per la Supercoppa, e questa volta non per sorteggio, ma perché designato.
Rigore contro. Evidentemente Bergamo era affezionato all' arbitro di Viareggio che, anche in questa occasione, non si smentì: ci fischiò un rigore contro a due minuti dal termine del primo tempo supplementare.
E siccome a quel tempo esisteva il Golden Gol avremmo perso anche la Supercoppa alla fine di quel primo tempo se Trezeguet non avesse inventato una delle sue giocate a un minuto dal termine, pareggiando il rigore subito appena un minuto prima.
Caso Nakata. Vincemmo poi il titolo ai penalty, forse perché Collina non poteva sostituirsi al portiere milanista. Per notizia alle 8.30 di quella mattina, stavano a colazione Meani e Collina nell' albergo dove soggiornava la terna arbitrale e il dirigente addetto agli arbitri del Milan (Meani) che non poteva esserci, per regolamento, perché era la Juventus a giocare in casa. Nel 2000-2001 vinceva il titolo la Roma. La partita che decise l'assegnazione del titolo fu Juventus-Roma: se avesse vinto la squadra bianconera si portava a casa il titolo, in caso di pareggio sarebbe stata la Roma a fregiarsene. La Roma pareggiò, vinse il campionato e la Juve ancora seconda. Ma anche in questa circostanza una mossa, ad essere buoni da definire intempestiva ad essere maligni da definire vergognosa, permise alla Roma di utilizzare Nakata che fino a quel momento non era mai potuto scendere in campo perché extracomunitario. La legge fu cambiata in tutta fretta la settimana stessa di quella partita e chi la cambiò fu il commissario della Figc, Gianni Petrucci, che qualche anno prima aveva ricoperto la carica di direttore generale della Roma. E Nakata segnò un gol e fece l'assist per il secondo che determinò il pareggio. Che dire di più? Ci sembra proprio difficile poter affermare che le istituzioni, nonché il designatore (indagato come nostro sodale) fossero a disposizione della Juve. Ci hanno ritenuti poi così potenti da soggiogare i media al nostro volere. E pensare che i giornalisti ci avevano definiti "bugiardi" e non credevano, nei nostri racconti. Mentre, al contrario, ci risulta che dalle altre parti avessero un giornalista informatore, al quale in cambio fornivano aiuti per evitargli di pagare multe per violazione del codice stradale. È proprio strano e variegato il mondo in cui viviamo! Luciano Moggi
Luciano Moggi vuota il sacco: tutta la verità sulla retrocessione del Bologna, scrive Luciano Moggi il 27 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano". Siamo alla seconda giornata di ritorno e la situazione non cambia: la Juve sempre in fuga e gli altri ad inseguire. Il solo Napoli sta tenendo botta, anche se non riesce a diminuire il distacco che lo divide dalla capolista. E questa situazione va avanti ormai da tempo, costringendo i cronisti ad essere spesso ripetitivi. Meno male che ci sono il calciomercato e la sentenza della Corte d' Appello civile di Napoli, che riguarda la causa per danni intentata da Gazzoni. L'ex presidente del Bologna, infatti, vestitosi da vittima di Calciopoli, ha lasciato intendere che la sua squadra sia retrocessa per colpa della sconfitta casalinga subita ad opera della Juve in una partita a suo dire manipolata. Da chi e come non è dato però sapere, visto che l'arbitro di quella partita, Tiziano Pieri, è stato assolto in sede penale da qualsiasi addebito. Finge ovviamente di non sapere che la sua squadra in quel campionato è retrocessa perché di 38 partite ne ha vinte solo 9, pareggiandone 15 e perdendone 14; 33 i gol fatti, 36 quelli subiti. È il trend di chi deve lottare per salvarsi, soprattutto quando subisci più gol di quelli che fai. Glielo dice la sentenza. Da parte nostra potremmo suggerirgli di leggere qualche intercettazione del presidente Figc di quel tempo, Franco Carraro, quando intima al designatore: «Mi sembra che a te non diano più retta (chi? Gli arbitri? ndr), visto quello che è successo alla Lazio. Domenica la Lazio va a Milano e non si può far niente (cosa intende? ndr) ma dalla prossima settimana deve essere aiutata. E non può retrocedere la Fiorentina perché sarebbe un danno per il campionato». Indubbiamente qualcosa è sfuggito a Gazzoni. Resta il fatto che se avesse fatto una squadra migliore non sarebbe retrocesso. Può darsi che non sia stato in grado economicamente di sostenere il Bologna e quindi costretto a fare quello che non doveva... d' altra parte, se è stato condannato per bancarotta anche dal Tribunale di Bologna, un motivo ci sarà. Ci dispiace per il povero Gazzoni, ci corre comunque l'obbligo di dargli un consiglio: fa male a nascondere i propri errori addossandone la colpa a persone che nulla hanno a che vedere con le sue responsabilità. Dai tribunali passiamo al calcio giocato. Il Milan pareggia col Napoli (buon punto in chiave Champions), fra errori sotto porta da ambo le parti e l'atteso debutto di Piatek. A Gattuso l'ardua scelta se farlo giocare insieme a Cutrone (ma sarà difficile): comunque il polacco, almeno, ha lottato più di quel che faceva Higuain e si è fatto pericoloso tra le linee. La Juve sarà a Roma contro la Lazio per consolidare la vetta. I laziali non vorranno fare altri passi falsi dopo la sconfitta di Napoli, per non allontanarsi troppo dal quarto posto. Visto il cammino dei romani di Inzaghi, mai vincenti con le squadre di alta classifica e considerando l'ultima prestazione incolore, pensiamo che la Juve possa uscire dall' Olimpico quanto meno imbattuta, se non vincente. L' Inter a Torino si confronterà coi granata per dimenticare e far dimenticare ai propri tifosi la brutta prestazione casalinga con il Sassuolo. Anche se il terzo posto sembra acquisito, non esenta i nerazzurri dal dimostrare che quello di sabato è stato solo un incidente di percorso. Probabile un pareggio. La Roma è attesa a Bergamo da un'Atalanta in grande spolvero, con l'attacco migliore del campionato e uno Zapata abituato ormai a far gol a grappoli. Superati i cugini laziali e a ridosso del Milan, i giallorossi non possono permettersi passi falsi in ottica Champions. Noi comunque vediamo leggermente favoriti gli uomini di Gasperini. Ma suona l'allerta per tutti i pretendenti al quarto posto: occhio alla Sampdoria. Luciano Moggi
· Bruno Pizzul.
Dago spia il 13 ottobre 2019. ESTRATTI INTERVISTA DI PIERLUIGI DIACO A BRUNO PIZZUL -IO E TE DI NOTTE- RAI UNO.
DIACO: Si dice che hai amplificato il talento altrui (…) hai fatto il tuo mestiere mettendo da parte l’io…
PIZZUL: Non l’ho fatto volontariamente, però credo di poter dire di essere riuscito a fare il mio lavoro nel miglior modo possibile senza prendermi troppo sul serio, senza dare una dimensione eroica a quello che facevo. Ho avuto la fortuna di fare il telecronista di calcio, quindi di assumere un ruolo che mi ha dato tanta visibilità e via dicendo, però al tempo stesso un qualcosa del quale bisogna sì essere contenti ma al tempo stesso senza entrare troppo in superbia.
DIACO: Ad oggi qual è lo stato di salute del calcio italiano?
PIZZUL: domanda interessante… il calcio ha cambiato faccia in modo evidente in questi ultimi anni finendo per essere un pochino sacrificato a interessi che non sono strettamente di natura tecnica calcistica sportiva, ma sono piuttosto di carattere economico. Questo calcio che si è trasformato in qualcosa di piuttosto mercantile, attento al marketing… ci lascia un pochino perplessi. D’altra parte il fatto che ci sia una così grande esposizione economica da parte delle varie società e che al tempo stesso galoppi in modo frenetico anche l’indebitamento, è un qualcosa che non può non preoccuparci. Io so che il calcio è profondamente radicato nei costumi, nella passione popolare e che il calcio ha avuto una storia importante, non soltanto da noi ma anche all’estero, un fenomeno sociale molto spesso con implicazione di carattere politico… ma il calcio di oggi sta vivendo dei momenti che non possono non lasciarci un po’ perplessi.
DIACO: Hai cominciato la tua carriera vincendo un concorso a Radio Trieste, se non sbaglio…
PIZZUL: Ho cominciato con un primo concorso a Radio Trieste, ma era un concorso per programmisti, poi mi spostarono a un altro concorso in contemporanea per radio-telecronisti perché durante i colloqui era emerso che avevo giocato a calcio e che avevo predisposizioni di carattere sportivo e quindi venni dirottato in quell’altro concorso e alla fine – ti dirò con mia grande sorpresa – venni preso insieme ad altri 31 colleghi per un corso di preparazione professionale assieme a me c’era Bruno Vespa, Mariangela Buttiglione, Paolo Frajese, tantissimi altri bravi colleghi che ricordo con estremo piacere, ma per me è stato qualcosa di estremamente inatteso perché io non ci avevo mai pensato a fare questo tipo di lavoro. Anzi, quando da giovane giocavo a calcio avevo maturato una certa antipatia per la categoria dei giornalisti sportivi, che quando scrivevano delle mie prestazioni – probabilmente a giusta causa visto che le mie prestazioni e il talento erano inversamente proporzionali alla passione – picchiavano giù duro. Poi il destino ha voluto che diventassi raccontatore del calcio anziché giocatore e lì è stata una soddisfazione ma anche un dovere raccontare il calcio rispettando al massimo quello che i giocatori riuscivano a fare. Molti mi hanno accusato di essere troppo tenero coi giocatori, di non averli criticati a dovere, ma io avendo provato essendoci stato dentro ho sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti dei calciatori.
DIACO: (…) Bruno tu hai una voce che fa la differenza… è riconoscibilissima.
PIZZUL: Sì, molto riconoscibile. Ti dico la verità… quando sono stato a quel corso di preparazione professionale che ti dicevo prima non avevo mai sentito la mia mia voce. Sai, allora non è che ci fossero tanti registratori e cose del genere… e devo dire che rimasi malissimo perché non la riconobbi e mi pareva che fosse di tipo troppo nasale, poco adatta. Altri invece l’hanno trovata adattissima alla cronaca sportiva e li ringrazio.
Diaco propone a Pizzul una carrellata di foto riguardanti i grandi calciatori della nazionale italiana. Uno per decennio, dagli anni cinquanta ad oggi.
DIACO: ANNI 50 - GIAMPIERO BONIPERTI, CHE GIOCATORE è STATO?.
PIZZUL: è stato un giocare di straordinaria eleganza, di grande carattere. Lui è stato anche un pochino preso in giro, lo chiamavano “la Marisa” per questo suo aspetto delicato, questo suo modo di porsi estremamente gentile, ma era un giocatore di grandissima qualità, in campo si faceva rispettare anche giocando un calcio duro, quantunque lo ritenessero una signorinetta, è stato un grandissimo giocatore e un grande uomo.
DIACO: ANNI 60 – GIANNI RIVERA, CHE GIOCATORE è STATO?
PIZZUL: Il Golden boy, un ragazzo che ha colpito la fantasia di tutti, da giovanissimo dalla natia Alessandria arrivò al Milan e immediatamente catturò la fantasia di tutti i tifosi, non solo del Milan ma anche di tutto il calcio italiano e internazionale. Il suo alter ego era l’altro giocatore dell’Inter… a Milano come a Roma e in tutte le città che hanno due squadre, c’è sempre un profeta di una squadra e dell’altra e lui con Sandro Mazzola costituiva un duetto straordinario… bravo bravo bravo, è entrato nelle grazie di tutti.
DIACO: ANNI 70 – GIGI RIVA, UN COMMENTO.
PIZZUL: Beh Gigi Riva, quel grande inventore di neologismi che era Gianni Brera lo soprannominò “Rombo di tuono” a sottolinearne la vigoria fisica, la forza, la capacità di interpretare il calcio in maniera estremamente positiva sul piano della forza fisica, ma al tempo stesso con un sinistro veramente molto forte e anche lui un ragazzo che ha dimostrato un profondo attaccamento. Oggigiorno si dice sempre che non ci sono giocatori di bandiera. Ebbene lui è stato un giocatore bandiera perché messe le tende a Cagliari, da Cagliari non si è mai mosso quantunque fosse stato fatto oggetto di corte spietata da parte di tante squadre non solo italiane ma di tutto il mondo. Grande Gigi!
DIACO: ANNI 80 – GAETANO SCIREA, UN COMMENTO.
PIZZUL: Di Gaetano, a parte le qualità di calciatore, ho sempre amato e ammirato la compostezza di uomo, il suo senso del valore e il suo attaccamento a uno sport puro, uno sport veramente interpretato, vissuto nella giusta maniera. Mai una sbavatura, mai una parola fuori posto. Lui ha costituito una coppia ideale con un altro grande del calcio, Dino Zoff. Devo dire che sono due personaggi che hanno lasciato una traccia profonda nel calcio soprattutto per la serietà, per la compostezza e per il modo in cui hanno onorato la loro carriera di calciatori e di uomini.
DIACO: ANNI 90 – ROBERTO BAGGIO.
PIZZUL: Roberto Baggio è stato un altro che ha lasciato un segno profondo in tutti coloro che hanno avuto la possibilità di vederlo giocare perché era uno che trasmetteva quella gioia, la gioia di giocare a calcio e voleva che anche coloro che andavano a vedere la partita si divertissero. Lui è stato fra l’altro un giocatore che ha avuto una carriera costellata da tantissimi infortuni anche dolorosi e lui ha continuato a giocare pur afflitto da queste patologie, ma quando scendeva in campo dimostrava soltanto la gioia di giocare. Tutti lo hanno amato. Ci sono una fioritura di aneddoti nei suoi confronti… quando giocava a Bologna aveva come allenatore, un allenatore toscano, Ulivieri, che durante una partita lo lasciò fuori. Allora Ulivieri abitava in Toscana ancora con la mamma. Al termine della partita tornò a casa, suonò il campanello per farsi aprire la porta e la mamma gli disse: “chi non fa giocare Roberto Baggio in casa mia non entra!” e lo mandò a dormire in albergo.
DIACO: ANNI 2000 – L’IMMENSO, ESSENDO IO ROMANISTA, FRANCESCO TOTTI.
PIZZUL: Francesco è uno che ha rubato il cuore a tutti… È chiaro che i romanisti lo hanno eletto a giusta ragione come il loro uomo dalla storia infinita e via dicendo. Ma anche lui come tutti gli altri campioni di cui abbiamo parlato, è un calciatore che appartiene a tutti, non soltanto alla Roma. Ha lasciato anche lui una traccia veramente importante nel ricordo di tutti e questo suo modo di interpretare il calcio così sontuoso – direi – ha lasciato dentro di noi ricordi profondi. È stato un peccato che il distacco dalla Roma sia stato un pochino problematico, ma io sono sicuro che poi Totti e la Roma finiranno per riaccostare la loro storia. Bravo Francesco!
DIACO: ULTIMO DECENNIO – ANDREA PIRLO.
PIZZUL: Anche Pirlo è stato un giocatore al di sopra di qualsiasi valutazione che non sia piena di elogi e considerazione perché era un giocatore che ha stentato un pochettino a farsi valere, ma il modo in cui ha interpretato quel suo ruolo particolarissimo di regista difensivo, che adesso molti cercano di imitare, ma pochissimi riescono a farlo, è veramente un esempio. Anche perché poi come tutti gli altri è stato esemplare sul piano della correttezza e di interpretazione di un calcio vero, un calcio che piace alla gente.
· Ma Baggio è Baggio.
Alessandra Bocci per gazzetta.it il 14 ottobre 2019. Dalla A di amicizia alla S di Sacchi, passando per Lippi, Bologna, Mazzone, Guardiola, Pasadena e tanti altri argomenti. Roberto Baggio si è raccontato in pratica dalla "a" alla "z", appunto, dialogando con il direttore Andrea Monti sul palco del Teatro Sociale. Platea e palchi gremiti, code chilometriche sin dalla mattina per entrare: era annunciato come uno degli eventi clou del Festival di Trento e tale è stato. Perché Baggio è molto amato e molto poco intervistato. Pantaloni sportivi e T-shirt nera, Baggio ha riempito la scena con la sua personalità, schiva e insieme divertente. Ha scherzato con il pubblico, si è commosso spesso. "Io umile e intelligente? Mi riconosco l'umiltà, meno l'intelligenza", ha detto ridendo. Ma molte volte ha dovuto invece ingoiare le lacrime, quando per esempio ha ripercorso i tre giorni di guerriglia che accompagnarono il suo addio a Firenze. "Io non avrei voluto andarmene, eppure mi sentivo colpevole per quello che stava accadendo. Tanta gente è finita all'ospedale per quegli incidenti. Una magra consolazione è che alla fine questa cosa è uscita. Pontello l'ha ammesso, ma io mi sono portato un peso per tanti anni".
PASADENA E L'AMARO 2002 — Oltre al ginocchio martoriato, con 220 punti interni di sutura, e la necessità di allenarsi il triplo degli altri ogni giorni, ci sono state tante altre ferite nella sua carriera. Il rigore di Pasadena per esempio, e l'esclusione dal Mondiale 2002. "Per una volta farò la figura del presuntuoso: avrei meritato di essere convocato a quel Mondiale". Invece Trapattoni lo lasciò a casa, in un torneo con le rose allargate a 23, proprio perché la Fifa, si disse, sperava in questo modo di ritrovarsi in gara sia Baggio che Ronaldo. "È stata una delusione profonda, simile a quella di Pasadena, forse anche per questo ora vivo lontano dal calcio. Perché in me c'era tanta voglia di rivincita proprio dopo quel rigore sparato alto. Non ne ho mai tirato uno così in vita mia, forse uno alto, ma non così tanto sopra la traversa. A volte ancora prima di andare a dormire ci ripenso".
MAZZONE E GLI ALLENATORI — Altre ferite, magari più lievi, ma persistenti, sono i rapporti con gli allenatori, da Sacchi al sergente di ferro Lippi. "Ho avuto la fortuna di essere allenato da grandi tecnici, poi a volte i rapporti si sono incrinati per qualche piccolo screzio. Forse perché la gente mi voleva bene, c'era sempre tanto affetto intorno a me, e se giocavo bene parlavano di me, e se non giocavo criticavano perché non mi facevano giocare. Non so, forse era questo. Ma io non ho mai fatto niente per mettermi davanti agli altri, figuriamoci davanti a un allenatore. Ho sempre cercato di fare del mio meglio per la squadra". Poi, alla fine della storia, arriva il vecchio Mazzone, un allenatore risolto, dice Baggio. "Mi ha insegnato la semplicità, requisito che già avevo in me e forse per questo siamo entrati subito in sintonia".
CR7 E MESSI — Dal calcio del passato a quello del presente. "Cristiano Ronaldo, Messi? Tutti fenomeni. Dybala ha qualità incredibili, la Juve con Sarri ha preso un allenatore che a Napoli ha fatto giocare un bel calcio, ma ci vuole tempo. Neymar è divertente, come si fa a non definire fenomeni giocatori così. Mi piacerebbe giocare in questo calcio, quando vedo l'arbitro che tira la linea della barriera... pensate a quanti gol avrei potuto fare io e non soltanto io... pensate a Zico, Mihajlovic e tanti altri". Nel finale, sul palco compaiono alcuni amici, Javier Zanetti, Antonio Filippini, Toto Rondon, Fabrizio Ferron. "La vera grandezza di Baggio è la sua persona", dice Zanetti. E in teatro scattano altri applausi a scena aperta.
Baggio, lacrime ed emozioni. «Ripenso a quel rigore». Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 da Corriere.it. Le lacrime di Baggio. E mica solo le sue. Gli occhi lucidi in realtà li avevano in molti, ieri al teatro Sociale di Trento, dove è andato in scena il momento clou della terza giornata del Festival dello Sport. Un pomeriggio di enormi emozioni, senz’altro il più intimo fra quelli, già moltissimi, vissuti fin qua. Ma Baggio è Baggio. Gente in coda quattro ore prima. Per vederlo, per sentirlo. Lui che peraltro non ha mai amato parlare, che ha sempre preferito esprimersi col calcio, sul campo, più che con le parole. Da brividi il faccia a faccia con Andrea Monti, direttore della Gazzetta dello Sport. Riflessioni sulla vita, sullo sport, sulla famiglia, sul domani. Roby, commosso, si è dovuto fermare più volte. Troppa l’emozione. Come quando è stato accolto con un minuto di applausi. Un minuto vero, non per dire. Qualcosa di straordinario. Come Baggio. Che a quindici anni dal suo addio, e nonostante un mondo del calcio che produce campioni o presunti tali in quantità industriale, resta ancora nel cuore di tutti. Forse perché Baggio è stato, se non di tutti, di molti. Juventus, Milan, Inter, Bologna, Brescia: fra platea e palchi spuntavano tutte le maglie della sua vita. Compresa quella della Nazionale. L’azzurro gli ha riservato momenti splendidi, altri durissimi. Come il ricordo di quell’esclusione bruciante e immeritata dal Mondiale 2002, che è ancora vivo, vivissimo, nella sua mente. «Per una volta farò la figura del presuntuoso: avrei meritato di essere convocato. Giocare quel Mondiale è qualcosa che il calcio mi doveva, ma non è stato così. Forse è anche per questo che mi sono allontanato da questo sport e che non ho voglia di tornare» ha detto con gli occhi lucidi. Invece l’allora c.t. Trapattoni lo lasciò a casa. «Fu una delusione profonda, simile a quella di Pasadena. Perché in me c’era tanta voglia di rivincita proprio dopo quel rigore sparato alto. Non ne ho mai tirato uno così in vita mia, forse uno alto, ma non così tanto sopra la traversa. A volte ancora prima di andare a dormire ci ripenso». Non hai mai nascosto le sue fragilità, Baggio. Non lo faceva da giocatore, non lo fa ora. Come quando torna a raccontare l’estate del 1989, quella del suo celeberrimo e contentissimo passaggio dalla Fiorentina alla Juventus, con la guerriglia urbana a Firenze. «Ci voleva solo un po’ più di chiarezza da parte della società. Bastava dire che non rientravo più nei piani e che mi avevano già venduto. C’era il Mondiale alle porte, tutti parlavano di quel trasferimento e io stavo bene in città. Non me ne volevo andare. Purtroppo ci sono stati tre giorni di guerriglia perché i tifosi non accettavano questa decisione e io mi sentivo in parte colpevole di quello che accadeva. A distanza di tempo è venuto fuori che io ho subito quella situazione». Una confessione senza remore, quella del numero dieci. Gli esordi al Vicenza, gli anni alla Juve, l’Inter, il Milan, l’epoca di Bologna, la rinascita finale col Brescia, gli screzi con Lippi, l’amicizia. Gli allenatori. Come Mazzone, «che mi ha insegnato la semplicità». E poi gli infortuni alle ginocchia, il razzismo. La caccia: «Ci andavo con mio padre e mi ricorda lui. L’emozione non è solo lo sparo, ma tutto quello che c’è prima». Il denaro: «Gli va dato il giusto valore perché ci sono cose che non si possono comprare». Il buddismo, ovviamente: «Ho avuto la fortuna di trovare il mio maestro, Daisaku Ikeda, uno in cui rivedo mio padre, e devo a lui molto di quello che ho fatto». Infine, il futuro. Che però sembra sempre più lontano da quel calcio che non lo ha dimenticato. «Non so se ho voglia di tornarci. Quando ero in Figc il mio ruolo non aveva un grande peso e un grande significato. Speravo di lasciare un segno facendo un progetto indirizzato ai giovani che per me sono sul futuro. Non me n’è stata data l’occasione. Ora ho una vita semplice e senza pensieri. Mi piace così».
· Il Calcetto è per vecchietti.
IL CALCETTO. Dagospia il 18 ottobre 2019.
Giacomo Guidi. Chiedo scusa, ma vado per i 50, e nella mia infinita mediocrità, sono uno di quelli che ancora il giovedi' gioca a calcetto tra pensionati, inquartati, grassi, scionchi, calvi ed esodati. Eppure, capita che un match tra sciancati e adiposi possa ancora dare emozioni, qualcosa di cui parlare o ridere con gli stessi amici e colleghi. E' un male? Se non hai la tartaruga di CR7 e non giochi in Champions ti è negato dare un calcio ad un pallone? Si può dipingere senza essere Caravaggio o Magritte, si può scrivere senza essere Tolstoj, si può suonare la chitarra senza essere Gilmour, si puo' correre senza essere Bikila, e si può giocare a calcetto senza essere Messi. Mi piace giocare a tennis, e quando entro in campo mi pare di essere a Wimbledon o Parigi, almeno per quei 60 minuti. Si chiama poesia, romanticismo, stronzaggine, chiamatela come volete. So solo che è bellissimo e che non ci rinuncerei mai. E che il povero, mancato scienziato, Dal Buono tutto ciò non ha la più pallida idea di cosa sia.
Michele Stalteri. Il risentimento di Enrico dal Buono può essere dovuto solo al fatto che da piccolo sarà stato così scarso che finiva sempre in porta e da grande non sarà stato più convocato se non 15 minuti prima dell’inizio della partita quando il decimo paccava. Articolo inconcludente come l’ultima stagione del trono di spade. Non ho ancora capito perché la mia partita del martedì , la mia pancia e la caduta dei miei capelli siano la causa di un decadimento della civiltà . Battute buttate a cazzo e demagogia da tennis club . seguirò ogni tuo articolo per romperti le palle. Hai trovato un amico.
Lorenzo Innocenti. Credo che un articolo sulle scommesse sportive del sabato pomeriggio, con le automobili parcheggiate in doppia fila davanti alle ricevitorie, sarebbe stato assai più appropriato nel descrivere il fallimento sociale e civile...
Andrea Valdrè. Meglio il commercialista con la raggiunta sicurezza economica che gioca a calcetto (con il Rolex) che lo sfigato laureato in scienza delle merendine (ovviamente con reddito di cittadinanza) che non gioca perché si crede un "intellettuale".
Alessandro Bonicalzi. Nulla come un giornalista flaccido, che si danna per conseguire l’unica vittoria della settimana a prezzo delle diottrie, rende meglio l’idea del punto morto a cui è arrivata la Storia umana.
Enrico Dal Buono per rollingstone.it il 18 ottobre 2019. Il calcetto del giovedì (o di un’altra serata infrasettimanale) è il più convincente argomento a disposizione di reazionari e antiprogressisti. Nulla come questi dieci mammiferi flaccidi, che si dannano per conseguire l’unica vittoria della settimana a prezzo delle articolazioni, rende meglio l’idea del punto morto a cui è arrivata la Storia umana. Il pallone che rimbomba nella palestra quando viene colpito, il ritmo pateticamente lento di quei rimbombi: ecco come suona la disperante musica del benessere. Una volta raggiunta la sicurezza economica, una volta realizzato il proprio compito biologico di duplicatori di DNA, i quarantenni del ventunesimo secolo si trovano prigionieri di un giorno della marmotta in cui l’unica variabile rimasta – oltre alle fantasiose trovate delle malattie e della morte – è il punteggio di quella partitella. 13 a 9 può dare il tono emotivo a tutta la settimana. Per questo alcuni non riescono a rinunciare ad arroganze e scorrettezze nel corso di sessanta minuti al termine dei quali, comunque, nulla sarà cambiato. Non ci saranno premi partita né promozioni, interviste tv né favori delle tifose. Si zoppicherà fino a uno spogliatoio dove i phon da parete, pur incapaci di spostare una foglia secca, non indisporranno però quasi nessuno: le calvizie hanno preso ormai possesso di quelle teste meritevoli di 3mila e 200 euro al mese, lordi. Il disoccupato o così detto freelance arriva per primo, si cambia negli spogliatoi, abbozza figure di stretching con l’aiuto di una panchina o di una grondaia: potrà compensare le sfortune lavorative scongiurando gli strappi. Gli altri entrano direttamente in campo all’ultimo minuto, ancora in giacca ma con la cravatta già lenta, si scambiano giusto due parole, quelle importanti sono già state pronunciate su WhatsApp. Il tema centrale delle rapide conversazioni sono i turni in porta: chi tiene il tempo? Non quello col Rolex, che se lo sfila prima del gioco: quello col Casio, il povero, o quello con lo Swatch, l’alternativo (giustamente punito). Ma a questi ultimi viene concesso l’onore della gestione democratica della noia: cinque minuti tra i pali per uno, dovranno fingere di parare quando tutti sanno che l’unico obiettivo sarà proteggersi dalle pallonate in faccia o sui maroni. Non è irrilevante che questi calcetti si giochino durante la settimana: il weekend, da momento di trasgressione quale era in gioventù, si è trasformato in gabbia familiare con 48 sbarre da 60 minuti ciascuna: acquisti per la casa, festicciole dei figli, riparazioni e abluzioni. I pachidermi glabri hanno il permesso di razzolare sull’erba sintetica solo in un tempo altrimenti inutilizzabile se non per sparecchiare o per obnubilarsi alla tv: dalle 21 alle 22 del mercoledì o del giovedì. È come se il peso dell’esistenza adulta, incarnabile per comodità rappresentativa nella figura della moglie, li lasciasse correre al parco solo perché legati al suo lungo guinzaglio invisibile. Dopo la doccia, rigirandosi la fede attorno all’anulare, con gli addomi sformati che liberano gocce tiepide tra piastrelle splendenti (sono lontani i tempi del calcio a 11 e dei pavimenti screziati di erba e di fango), due occhi sono attraversati da un breve lampo di trasgressione: “Andiamo a farci una birra” – già che sono fuori, ottimizzano la libera uscita. “Stasera non posso”, qualcuno abbassa colpevolmente la testa: e gli altri lo guardano come ergastolani che compatiscano il compagno trascinato verso la cella d’isolamento. Ma c’è l’ex gloria di promozione o prima categoria, spesso un po’ più vecchio o più grasso degli altri, altrimenti non sarebbe lì, che deve dimostrare di essere campione fuori e dentro il campo: “Coraggio, in un’ora sei a casa”. E c’è pure il commercialista maligno, verosimilmente cornuto, quello che ruba un paio di metri per ogni rimessa laterale: “Analcolica, su”. In ogni caso tutti, chi non sa calciare che di punta e chi ancora azzarda pericolosi doppi passi, chi ha vinto 16 a 8 e chi ha perso per un autogol di ginocchio all’ultimo secondo, tutti hanno perso la guerra. La banalità di una vita vulnerabile soltanto al cancro e all’infarto li ha conquistati. “Però hai visto che filtrante ti ho fatto?!”.
· Roberto Mancini. Il Ct della Nazionale dei Record.
Roma, Zaniolo e Mancini scatenati alla cena di Natale: cantano "Bella Ciao" sul palco. Repubblica Tv il 18 Dicembre 2019. Niccolò Zaniolo e Gianluca Mancini hanno dato spettacolo durante la cena di Natale della Roma. I due calciatori sono saliti sul palco e hanno cantato "Bella Ciao", canzone emblema della lotta partigiana in Italia.
Riccardo Signori per “il Giornale” il 16 dicembre 2019. Via Montenapoleone a Milano, lusso e facce note, freddo da neve: Roberto Mancini passeggia tra un selfie e l' altro. Ct conosciuto e riconosciuto. Visti i sorrisi, anche apprezzato. È la rendita di un anno vissuto (calcisticamente) meravigliosamente.
Mancini, ha già conosciuto il miglior anno della sua vita?
«Perché mai sceglierne uno? Sono già felice di quello che ho avuto da giocatore e allenatore. Le cose che devono accadere, accadono. Bisogna solo indirizzarle. Ed io ho avuto la fortuna di fare quello che volevo».
Come sarà il prossimo anno?
«Questo è un caso particolare. Come ct sento sulle spalle il peso di tutta l' Italia sportiva e non. L'Italia non vince l' europeo di calcio da una vita. La speranza è che sia una estate molto bella».
Lei non si tira mai indietro: ha detto che spera di vincere europeo e mondiale...
«Perché no? Sognare costa niente».
A proposito di europeo, le sembra che l' Europa del pallone rispecchi l' Europa che stiamo vivendo?
«L'Europa del calcio forse è meglio. Le squadre giocano bene e divertono. E, dopo 50 anni, sarebbe bello ritrovare l' Italia campione d' Europa. Se guardo al resto spero che l' Europa metta in condizione gli Stati di vivere meglio e aiuti di più Paesi e persone in difficoltà».
Torniamo ai fatti del signor Roberto Mancini, figlio, calciatore, allenatore, genitore: faccia una classifica del migliore in campo.
«Direi: 1) figlio; 2) calciatore; 3) genitore; 4) allenatore».
Spiegazione?
«Figlio: ho avuto la fortuna di avere due genitori perbene. Sono riusciti a indicarmi la strada giusta, nonostante sia andato via da casa a 14 anni. Era difficile farcela. Calciatore: credo di aver fatto divertire ed essermi divertito. Genitore: nonostante il lavoro, spesso andavo via, e per quanto sia difficile essere genitori, credo di essere stato discreto fino ad oggi. Allenatore: ultimo in classifica perché quello che fai purtroppo non dipende più di tanto da te. L' allenatore ha meriti, ma dipende da altri per essere decisivo».
Quando dice calciatore, si avverte sempre un rimpianto...
«Vero, la cosa che mi spiace di più: non esserlo ancora. Vorrei tornare indietro e ricominciare a giocare calcio. È una delle cose più belle della vita: quello che un bimbo desidera da piccolo. Come dice il Papa: butta la palla in mezzo e arrivano i bambini. E se diventa un lavoro, sei fortunato perché è ciò che ami di più. Poi c' è la bellezza dei gesti tecnici: è un piacere giocare contro calciatori di grande livello».
Quindi, a Natale, nella letterina chiedeva...?
«Sempre un pallone di cuoio e le scarpe da calcio. Arrivavano sempre. E quando ho capito che babbo Natale era papà, andavo a frugare, qualche giorno prima, per vedere se i regali c' erano. Ma lui era bravo a nasconderli. Non vedevo l' ora di usarli».
Mamma Marianna e papà Aldo erano d' accordo sul suo futuro?
«Mamma è sempre stata la più severa, comandava lei. E si arrabbiò molto quando andai via: papà aveva fatto tutto di nascosto. Mi ha sempre appoggiato, voleva fare il calciatore da giovane. E quand' ero piccolo diceva: diventerà un giocatore».
Quindi contenti, ma con magone?
«Certo, andare via così giovane è stato difficile: per me e per loro. A settembre compii 14 anni, a novembre ero a Bologna: non che fosse così lontano, ma allora le distanze erano diverse. I genitori lavoravano. Vedo io con mio figlio che abita a Miami: è dura, ci vediamo una-due volte l' anno».
Da bambino quale è stata la peggior marachella?
«Quando rubavo 200-300 lire alla mamma per comprare le figurine dei calciatori: costavano 10 lire al pacchetto. Niente di più».
Sarebbe d' accordo anche il parroco della chiesa di Jesi?
«Il parroco che si chiamava don Roberto, guarda il caso, diventava matto perché usavamo il sagrato per le partite di pallone, mettendo le porte e ogni tanto qualche pallone sbatteva ovunque. Alla fine anche lui si è rassegnato».
Raccontandosi ha scritto: il numero 10 nel mio destino.
«È il numero dei grandi giocatori degli anni '70 quando ho cominciato a guardare calcio: c' era Pelè. Poi penso a Maradona e Platini. È destinato a giocatori di talento, estro. Ed io ho sempre avuto grande talento».
E ora come fa ad avere il 10 nel destino?
«Ora non dipende da me, sul campo decidono i giocatori. Però cerco di avere l' intuizione per impiegare l'uomo giusto, immaginare che uno possa farcela in un certo ruolo, magari pescare quello che può risolvere».
Da allenatore, ha il talento del 10 nel valutare i giocatori...
«Una qualità che mi è sempre appartenuta, anche quando consigliavo i presidenti. Magari non ci azzecco sempre, però capisco velocemente se un giocatore è bravo o meno, se potrebbe diventare qualcuno».
Con lei stava per azzeccarci il Milan. Invece?
«Fu una storia strana. I club mandavano in giro i talent scout. Una società di Jesi organizzò un provino per i ragazzi della zona. Il Milan inviò Tessari, l' uomo di fiducia di Liedholm.
Mi apprezzò, e il Milan spedì una richiesta per farmi arrivare a Milanello. Però indirizzò al Real Jesi, che aveva organizzato il provino. E non all' Aurora, la mia società. Nessuno ci disse niente. Qualche settimana più tardi andai a Bologna».
Un peccato?
«Una grande occasione mancata. Era una squadra di vertice. Ed io ho vissuto la carriera in club, Bologna, Sampdoria, Lazio, non di vertice. Ma se le cose devono accadere, accadono. A Genova ho avuto la fortuna di incontrare Mantovani: stare sotto di lui tanti anni è valso come vincere in club titolati. Solo chi lo ha conosciuto bene può dire quello che era».
Appunto, com' era?
«Fantastico! Avanti 30-40 anni rispetto ad altri. Capiva tutto in anticipo, aveva rispetto, sapeva trattare le persone. Ha creato qualcosa di irripetibile. Quella Samp è irripetibile e solo lui ci poteva riuscire. Mi ha preso a 17 anni e ha insegnato tanto: a quell' età fai errori ma sono cresciuto bene».
Pentito di qualche errore? Si è mai dato del pirla, come direbbe Mourinho?
«Me lo sono dato quando non ho chiesto scusa a Bearzot nel 1984 e quando ho detto no a Sacchi, che non volevo tornare in nazionale nel 1994. Alla fine ti penti sempre».
Ora con la nazionale gioca una sorta di rivincita?
«Mi spiace non aver vinto niente, per le qualità che avevo io. Ho giocato in una delle under 21 più forti che mai e, nel 1986 contro la Spagna, abbiamo perso ai rigori una finale irripetibile. Quella squadra poteva fare filotto, proseguire nel tempo: a volte non vince il migliore. Ora la speranza è di riprendere quella cosa che abbiamo lasciato».
Fra tante parole sentite su di lei, quale è rimasta in testa?
«Mantovani mi disse: spera di avere un figlio come te. È vero che mi voleva molto bene, ma non faceva sconti: ti diceva le cose in modo duro. Credo lo pensasse davvero».
Ce l' ha fatta?
«Non so, i miei figli sono tutti bravi».
Alla Samp, nel famoso club di Biancaneve e i 7 nani, lei si fece chiamare cucciolo. Perché?
«Ero il più giovane arrivato alla Sampdoria».
Quattro persone alle quali sarà sempre legato?
«Mantovani in assoluto, la persona più importante per tanti giovani della Samp; i 3-4 allenatori che ho avuto al Bologna. Era il momento più difficile per un ragazzo, mi hanno aiutato ad esprimermi e insegnato la vita: Burgnich che mi ha lanciato, Perani e Fogli che mi hanno preso, Bonini il meno conosciuto; infine penso ai miei compagni della Samp».
Oggi, come allenatore, è diventato zen?
«L' esperienza serve a far capire che le critiche sono parte delle regole del gioco. Devi essere in grado di accettarle. Devi trovarti pronto a tutto: assunto dalla squadra più grande o esonerato senza motivo, perché fai giocare male o bene. Ci sono cose che ti vanno male e non sai perché. E' anche la bellezza del calcio. Guardate il Napoli: come mai va così?».
La vita da ct è diversa?
«Devo stare attento a tenermi in forma fisicamente. Mangio un po' meno, mi alleno: gioco ogni giorno a paddle. Il periodo peggiore è fra dicembre e marzo, sono mesi lunghi, non posso allenare, stare con i giocatori: il divertimento è quello».
Comunque ha ottimi ricordi da allenatore di club?
«All' estero belle esperienze: devi adattarti alla mentalità, conosci giocatori di ogni tipo. Ho debuttato nella Lazio ed è stata una soddisfazione: quello che volevo dopo averci giocato. All'Inter ho vinto il primo scudetto. Ma il titolo con il Manchester City, dopo 44 anni di attesa, è stato bellissimo».
E dovesse scegliere un ricordo indelebile?
«Conquistare la Premier all' ultimo secondo ti rimane dentro. Ti mette i brividi, perdevi e in due minuti fai 3-2 e ribalti tutto. Non solo: quell' anno siamo andati a vincere a casa dello United 6-1. Zittiti i tifosi del Manchester che sfottevano quelli del City: abbiamo cambiato il corso della storia».
Quale rapporto ha con la religione?
«Sono cattolico praticante e prego perché il mondo torni ad essere migliore rispetto a com' è diventato. Il mondo è così bello, vario, grande che tutti potrebbero vivere in pace godendosi la bellezza dell' universo».
Una visione molto ottimista...
«La speranza è che torniamo ad essere più buoni perché di base lo siamo. Sono cresciuto in una parrocchia, ho visto miei compagni di infanzia finir male. È un attimo prendere la direzione sbagliata. Continuo a pensare che le persone per bene sono più di quelle che non lo sono».
Siamo buoni, ma col razzismo...
«I razzisti ci sono ovunque. E penso che l' italiano non sia razzista. Forse siamo diventati più duri di cuore, più ruvidi. E, allora, bisogna fare cose concrete per estromettere quelli che lo sono. Il calcio è sport e va trattato come tale: gli atleti si battono per divertire il pubblico e per divertirsi».
Appunto divertirsi: quali calciatori l' hanno ispirata?
«Bettega, perché tifavo Juve da piccolo. Platini perché era bravo, un numero 10, uno dei primi stranieri quando ho iniziato a giocare. Poi Maradona e Ronaldo dell' Inter. Mi dicono fosse grande Suarez ma non l' ho mai visto. Pure Rivera...».
Lei si diverte anche al mare. Ha un hobby per la nautica.
«Barca e mare significano libertà. Vado in Sardegna ed è l' unico posto dove trovo libertà e relax».
Invece che dire della nazionale da portare agli europei?
«Che andasse così bene non credevo. Credevo nel mio lavoro, speravo di metter insieme 21 giocatori. Non pensavo di trovarne così bravi, e molti di più, in breve tempo. Si è creata un' atmosfera: i più giovani volevano emergere e nessuno gli dava totale fiducia. Ora sarà difficile scegliere».
Per chi tiferà Mancini nel 2020?
«Per il Papa, per Mattarella. Per il Re di Giordania, perché la situazione è difficile. Però mi sembra una delle poche persone che cercano di mettere a posto le cose».
E nello sport?
«Per tutti gli italiani: tennis, golf, nuoto, atletica, paraolimpiadi. Mi ha fatto gran piacere vedere due club campioni del mondo della pallavolo, una è anche marchigiana».
Poi tiferà per la nazionale di calcio...
«Sono gli altri che dovranno fare tifo per noi. Mi piace questo europeo giramondo. Faticoso organizzarlo per l' Uefa ma sarà bello portare buon calcio in Paesi che, magari, non vedono spesso grandi nazionali. E, ripeto, a noi sognare costa niente. Solo se sogni puoi arrivare alla meta».
· Gli Immortali del Calcio.
Franco Baresi, il capitano dei capitani che portò il Milan sul tetto del mondo. Il più forte libero di sempre, impossibile strappargli il pallone e un sorriso: debuttò ragazzino e conquistò subito lo scudetto della Stella, andò in serie B, guidò il Milan alla vittoria in Europa e nel mondo, lasciò tra le lacrime. La sua maglia numero 6 fu ritirata per sempre. Massimo M. Veronese, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Il capitano dei capitani, il rossonero del secolo, il più forte libero di sempre. Tutta una vita con una maglia sola, tutta una vita con il Diavolo, la trafila nelle giovanili dopo la bocciatura, mai maledetta abbastanza dai nerazzurri, dell’Inter, la serie B per due volte fino al tetto del mondo, alla squadra più forte di tutti i tempi, al libero dei liberi e poi dietro la scrivania, sempre a casa sua. Impossibile strappargli un sorriso e rubargli un pallone: ha giocato duro anche contro il destino scoprendo che nulla poteva fermarlo. Solo Paolo Maldini ha giocato nel Milan più di lui, da quando, neanche diciottenne, Liedholm lo fa debuttare in coppa Italia con il Verona, prima di farne il perno della difesa del Milan della Stella, il suo primo anno e l’ultimo di Gianni Rivera. È il Braveheart rossonero, “il prototipo del milanista perfetto, un concentrato di classe, grinta e umiltà” a cui piace vivere dentro i suoi silenzi. È campione del mondo con l’Italia nel 1982, pur senza giocare una partita, è secondo negli Usa quando sbaglia un rigore contro il Brasile, dopo un recupero lampo da un infortunio, terzo a Italia Novanta, praticamente sempre sul podio come per il Pallone d’Oro, secondo solo a Van Basten ma primo avrebbe meritato di essere ogni anno. Lascia con un ultimo giro di campo che strappa il cuore ai tifosi, le lacrime che accompagnano un addio che non c’è mai stato, con San Siro che viene giù dagli applausi. 6 per sempre.
Giuseppe Rossi, aspetta l’occasione per tornare Pepito: «Ora sto bene (e parlo con le mie ginocchia)». Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 da Corriere.it. «La cosa peggiore da pensare è di essere perseguitato dalla sfortuna. È solo una scusa, perché se reagisci in maniera positiva, riesci a superare anche le circostanze più avverse». Giuseppe Rossi, l’ex enfant prodige del calcio italiano, caduto e rialzatosi in situazioni che avrebbero spinto molti alla depressione o al ritiro, ha trovato dentro di sé risorse inaspettate («non ho cercato appoggio nella fede e nemmeno nella psicanalisi: solo la mia famiglia mi ha fornito supporto») per superare tre infortuni gravi, cinque operazioni, più di mille giorni di stop. Il suo ultimo domicilio conosciuto è il Genoa, con cui si concluse il contratto nel giugno del 2018. Il 25 settembre dello stesso anno vennero pubblicati i risultati del test antidoping relativi alla gara con il Benevento del 12 maggio precedente: l’attaccante venne trovato positivo alla dorzolamide.
A questo punto ci si chiede: che fine ha fatto Pepito, il fenomeno prelevato 17enne dal Manchester United di sir Alex Ferguson?
«Vivo un momento difficile perché dopo l’esperienza a Genova dove non riuscii a sentirmi importante fui costretto ad affrontare il problema del doping. Il processo si protrasse per molto tempo e scemarono le trattative che si erano aperte nel frattempo. Ora mi alleno con il Villarreal: non capisco come non faccia parte di una squadra, eppure penso di essere bravino a giocare a calcio. Ho recuperato fisicamente e mentalmente, sono pronto a tornare il Pepito di prima».
Il momento più buio della sua carriera?
«In generale i giorni peggiori sono stati i due-tre successivi agli infortuni, quando ho dovuto telefonare a mia mamma per comunicarle di essermi fatto male. Di certo l’infortunio più traumatico fu quello riportato quando ero alla Fiorentina nel 2014. Ruppi il legamento crociato del ginocchio destro quando ero, in quella fase, capocannoniere del campionato e in zona Champions con la squadra. Mancavano tre-quattro mesi al Mondiale brasiliano, e quindici giorni prima seppi che ero fuori dalla lista dei convocati. Ma anche quello riportato quando ero al Villarreal nel 2011, quando mi procurai una lesione al crociato del ginocchio sinistro, mi tolse molto: pregiudicò l’Europeo».
Poi lo scorso anno, la batosta del doping.
«Ho pensato: “Perché capitano tutte a me?”. Fui in ballo per mesi con viaggi fra New York, dove vivevo, e Roma: alla fine il processo si concluse con una nota di biasimo. Fu tutto assurdo. L’unica salvezza era pensare di andare avanti».
Ai tempi del Manchester incontrò Cristiano Ronaldo. Già si intravedevano i prodromi del campionissimo?
«Era un ragazzo ambizioso, con il pensiero fisso di diventare il migliore. Ricordo che restava per ore in campo a tirare punizioni: lui è l’esempio vivente di come con il lavoro si possano compiere passi da gigante».
In quella squadra si misurò con delle leggende…
«Ferguson era il mio allenatore, considerava i giocatori come gioielli da proteggere. L’emozione maggiore fu incontrare Giggs, che avevo visto solo in tv o nella playstation. A gennaio di quest’anno ho chiesto di allenarmi ancora con lo United, con cui i rapporti sono rimasti ottimi».
E ha incontrato Lukaku. Che impressione le ha fatto?
«Fu una delle prime persone che venne a salutarmi. Parla italiano, abbiamo chiacchierato molto. Per quello che ha fatto in Nazionale e nei club sembra che abbia 40 anni, invece ne ha 26. E può ancora crescere moltissimo. Aveva l’ansia di dimostrare di essere lui il vero 9 della squadra, non Rashford».
Che rapporto ha con le sue ginocchia?
«Alcune volte parlo con loro. Dico che sono i miei amori e voglio loro molto bene».
Non ha un rapporto conflittuale con loro, visto che le hanno compromesso la carriera?
«No, non penso mai che mi abbiano tradito. Ci sono delle situazioni che accadono e non si possono fermare. Insieme abbiamo fatto tanti gol e tante belle giocate. Sono certo che ci ripeteremo, che ne faremo ancora».
Quindi la rivedremo in campo.
«Sono pronto a rialzarmi per l’ennesima volta. La mia priorità è restare in Italia, potenzialmente potrei dare una mano a ogni squadra. Purtroppo la mia immagine è offuscata dagli infortuni passati, ma poi le persone tornano anche da gravi incidenti. Guardate il percorso di Thiago Motta che dopo i guai al Barcellona e all’Atletico ha vinto con l’Inter e il Psg. La gente non sa che se stai bene di testa recuperi prima anche a livello fisico. Io avrò le ginocchia fragili, ma non la mente».
Da Buffon a Maldini: i 10 giocatori con più presenze in Serie A. Il portiere della Juventus raggiunge il record dell'ex capitano del Milan a quota 647. La galleria di chi ha il maggior numero di gettoni. Giovanni Capuano su Panorama il 18 dicembre 2019. Scendendo in campo contro la Sampdoria nell'anticipo della 17° giornata del campionato di Serie A, Gianluigi Buffon raggiunge Paolo Maldini in testa alla classifica dei giocatori con il maggior numero di presenze nella massima divisione italiana a girone unico. Sono 647 i gettoni dell'ex capitano rossonero e del portiere che ha scritto la storia della Juve e della Nazionale. Un record destinato ad essere battuto da Buffon, rientrato in Italia dopo l'anno al Psg anche con la prospettiva di scrivere il suo nome nell'albo degli immortali della Serie A. Ecco i dieci nomi che si trovano in testa alla classifica per presenze.
Gianluigi Buffon: 647 presenze * (con Sampdoria-Juventus del 18/12/2019) dal 1995 a oggi
Paolo Maldini: 647 presenze dal 1984 al 2009
Francesco Totti: 619 presenze dal 1992 al 2017
Javier Zanetti: 615 presenze dal 1995 al 2014
Gianluca Pagliuca: 592 presenze dal 1987 al 2007
Dino Zoff: 570 presenze dal 1961 al 1983
Pietro Vierchowod. 562 presenze dal 1980 al 2000
Roberto Mancini: 541 presenze dal 1981 al 2000
Silvio Piola: 537 presenze dal 1929 al 1954
Enrico Albertosi: 532 presenze dal 1958 al 1980
Non chiamateli vecchietti. Da Buffon a Palacio in A over 30 alla riscossa. Quelli che non mollano: CR7 alieno a 34, Gigi da record a 41. E tutti vogliono Ibra che ne ha 38. Sergio Arcobelli, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Quelli che non smettono mai. Da oltre vent'anni girano l'Italia e il mondo e da quel mondo non riescono a staccarsi. Il verde, del rettangolo da gioco, è il loro colore. Il verde è anche uno stato d'animo: quello della speranza. La speranza che il proprio fisico regga fino a fine stagione. Sono loro, i sempreverdi. Sempre lì, incollati allo sport e ancora decisivi. Altro che finiti! Fino a pochi giorni fa, qualcuno sentenziava: «Cristiano Ronaldo è alla frutta, non si regge in piedi, ormai segna solo su rigore». Come succede in questi casi, c'è solo un modo per evitare le critiche: rispondere sul campo. E CR7 lo ha fatto alla sua maniera, in barba ai quasi 35 anni (li compirà il 5 febbraio), spiccando il volo e colpendo il pallone di testa a due metri e cinquantasei da terra. Un alieno. Il gol, meraviglioso, uno dei più belli della carriera, decisivo per la vittoria di mercoledì sera a Marassi sulla Samp, è il quinto nelle ultime quattro gare di A (in totale è salito a 10). Cristiano, non lo scopriamo oggi, non è nuovo a prodezze del genere. Soltanto una cura del proprio fisico così maniacale poteva dargli la forza di salire lassù dove non osano gli altri calciatori. A dire il vero, la carica dei vecchietti della Serie A che hanno deciso di lasciare il segno nelle ultime giornate di campionato non è finita qui. D'altronde, siamo abituati al fatto che il nostro torneo non lasci notoriamente troppo spazio alle giovani leve, premiando più spesso gli atleti più attempati. L'anno scorso, per esempio, il 36enne Quagliarella, ora fermo ad appena tre gol, salì sul trono dei marcatori, sulle orme di Luca Toni, re a 38 anni nel 2015. Di recente, non sono mancate gesta memorabili dei meno giovani. Nella 16esima giornata, quella che si è conclusa domenica scorsa, ha brillato l'inossidabile Palacio, a segno contro l'Atalanta. Lui, el trenza, pur essendo in età di ritiro e pensione, a trentasette anni (saranno 38 candeline nello stesso giorno di CR7), è ancora vivo e vivace, come confermano i numeri: 5 reti in 16 presenze, dunque mai un'assenza. Era, invece, il primo gol quello segnato da Giampaolo Pazzini al rientro da un infortunio: entrato in corso d'opera, il Pazzo ha trasformato un delicato penalty (prima rete in A dopo due anni) contro un pararigori come Sirigu che ha avviato la rimonta da 0-3 a 3-3 contro il Toro. Non ha esultato, dopo aver segnato a quasi 35 primavere il classico gol dell'ex alla Fiorentina, lo spagnolo Borja Valero, tra i migliori dell'Inter nelle ultime uscite. Fresco di record è Gigi Buffon, il quale a 41 anni si gode il presente e non vuole portarsi troppo avanti con i pensieri. Altro portiere-saracinesca è Pegolo, che a 38 anni ha sbarrato la porta del Sassuolo agli attaccanti di Milan e Brescia. Questo, tra l'altro, mentre si attendono ancora novità sul 38enne Ibrahimovic. Comunque vada, quella dei vecchietti in auge sembra una tendenza confermata anche quest'anno.
Giuseppe Falcao per leggo.it il 12 dicembre 2019. Sono passati 35 anni da quella notte di maggio del 1984. Da allora generazioni di romanisti si fanno la stessa domanda su mio padre: «Perché Falcao non ha tirato il calcio di rigore contro il Liverpool?». La “soluzione” al mistero la fornisce Carlo, 58enne figlio di Nils Liedholm: «La verità è che Paulo non era bravo a tirarli».
Era all’Olimpico quella sera?
«Certo. Notai che i calciatori del Liverpool erano più tranquilli, si facevano le foto sotto la Curva Sud. La loro serenità mi preoccupò».
Nils Liedholm cosa le ha raccontato di quella partita?
«Non ne parlò mai».
Fu la sua delusione più grande?
«Certamente, insieme allo scudetto perso per il gol annullato a Turone».
Che pensava il Barone di quel gol annullato?
«Era un po’ rassegnato, sapeva che era molto difficile in un testa a testa con la Juve vincere lo scudetto».
Tra Nils Liedholm e Falcao, si racconta, ci fosse una sorta di simbiosi, è vero?
«Papà si rivedeva molto in Falcao come giocatore. E Falcao vedeva Nils come una sorta di padre».
E come era il rapporto tra suo padre e Agostino Di Bartolomei?
«Agostino aveva un carattere chiuso e mio padre ci mise un po’ per farlo aprire, poi però legarono molto, tanto che andarono insieme al Milan».
Lo scudetto della Roma fu la gioia più grande?
«Non solo. Era molto orgoglioso della salvezza raggiunta con il Monza in B: lo prese che era ultimo in classifica. E poi lo scudetto della stella con il Milan».
La scaramanzia del Barone e il suo legame con Maggi, detto il Mago ha generato leggende.
«Maggi era un amico di famiglia, era un pranoterapeuta. Ma papà fu vittima della sua stessa scaramanzia».
Perché?
«Negli anni 90 lo chiamò la Sampdoria per sostituire Boskov. Io lo accompagnai alla villa di Mantovani. Sembrava tutto fatto. La mattina dopo arrivò una telefonata del Presidente della Samp che gli comunicava che due giocatori si erano opposti al suo arrivo perché erano certi che la formazione l’avrebbe fatta il suo mago».
C’è un allenatore nel quale rivede papà?
«Carlo Ancelotti».
Viola-Liedholm, un connubio vincente.
«È stato il suo grande Presidente. Ma ebbe un ottimo rapporto anche con Franco Sensi».
A Milano ha avuto Silvio Berlusconi come presidente.
«Erano due persone diverse. Mio padre si riteneva calcisticamente molto preparato. Berlusconi pensava di saperne molto in ogni campo, anche nel calcio. Non erano compatibili, diciamo così».
Ogni anno si rinnova il premio dedicato a Nils Liedholm.
«Quest’anno abbiamo scelto Claudio Marchisio».
C’è un giocatore della Roma che potrebbe aspirare a questo riconoscimento.
«Si, Daniele De Rossi».
Ruud Gullit, il tulipano rosso e nero che portò il Milan nel calcio del futuro. Berlusconi lo soffiò alla Juventus, Sacchi lo fece perno del suo modo di giocare, i tifosi impazzivano per lui, le sue trecce diventarono una moda. Pallone d’Oro, simpatico, irresistibile e paladino dei diritti umani con Van Basten e Rijkaard creò un trio da leggenda. Massimo M. Veronese, Sabato 21/12/2019, su Il Giornale. Sembra venire da un pianeta diverso, un Predator con le trecce, un prototipo di campione mai visto prima. Bellissi- mo Boit del calcio, è la fantasia sposata al fisico, il reggae e Mandela. Una rivoluzione per un calcio ancora prigioniero di un modo di giocare antico. Segna una linea di confine, come Nordhal negli anni Cinquanta, è il perno di un terzetto che come il Gre-No-Li, olandesi questi, svedesi quelli, che cambia per sempre la storia del Milan. Ci sono degli incroci, come Sliding door, che segnano le vite anche delle squadre, e lui è uno di questi. Con il suo cambio di passo devastante e la legnata nei piedi crea il terrore tra i nemici come il Corsaro nero ma è l’entusiasmo, la risata, la felicità. Piace anche agli avversari, sempre grazie a lui a Van Basten e a Rijkaard l’Olanda riesce a vincere come non era mai successo nemmeno all’epoca di Crujiff. Berlusconi lo soffia alla Juventus, e sarà lui a restituire al Milan una vittoria in casa delle zebre dopo diciassette anni, la sua sfida con Maradona e il Napoli segna la fine degli anni Ottanta e la Gullitmania per il Milan diventa il sole di un’epoca nuova. Gli spalti si popolano di migliaia di cappellini con le trecce, per Boskov, che lo avrà alla Sampdoria, “è cervo che esce da foresta”, la demolizione del Real Madrid e la vittoria in Coppa Campioni con lo Steaua passano dai suo arrembaggi. Con Capello però non funziona: va via, poi torna, ma quando torna non è più lo stesso.
Ravanelli: «CR7, Dybala, Higuain? Mi spiace, ma nessuno sarà mai come me, Baggio e Vialli». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. «Quello che facevamo con Lippi oggi non sarebbe proponibile: i calciatori si lamenterebbero per l’eccessivo lavoro».
Lezioni di tridente, Fabrizio Ravanelli, lei ne dà ancora?
«Mi ha invitato la federcalcio belga, ne ho parlato davanti a 350 allenatori. Una bella esperienza».
Il succo del discorso qual è stato?
«Che il nostro era inimitabile, per il lavoro che veniva fatto. Né quello del Liverpool, Salah-Firmino-Mané, né Dybala-Higuian-Ronaldo possono avvicinarsi. Ma ogni versione ha le sue caratteristiche e i suoi punti di forza».
Quello lippiano quando nacque?
«Dopo una partita con il Brescia, in cui Baggio venne marcato fisso e l’allenatore decise di mettere un attaccante in più. Ma dovevamo essere i primi difensori con il pressing. Oggi non è più proponibile: i calciatori si lamenterebbero per l’eccessivo lavoro».
Domenica si gioca Juventus-Lazio, lei oltre agli altri trofei, ha vinto la Supercoppa con tutte e due le squadre. Sarri riproporrà il tridente dall’inizio come nelle ultime due partite?
«Potrebbe anche farlo. Ma molto dipende dalla volontà dei giocatori di sacrificarsi e dalla condizione: l’esempio di Eto’o nell’anno del Triplete interista è sempre valido».
Sembra però scettico sulla versione juventina?
«Credo che vada bene solo in determinate partite. Anche se Dybala è un altro rispetto all’anno scorso, Higuain come me è un sagittario orgoglioso che vuole dimostrare sempre qualcosa e Ronaldo non ha bisogno di altre parole, specie dopo il gol di Genova. A centrocampo però non vedo la qualità necessaria per supportarli».
La vittoria laziale di due settimane fa inciderà sulla preparazione della Supercoppa?
«Aiuterà i due allenatori a correggere qualcosa. La Juve ha avuto un ottimo approccio, ma non ha chiuso la partita e ha preso due gol evitabilissimi, non da Juve. E alla fine ha vinto la squadra più cinica e che difende meglio».
Di solito cinismo e difesa sono marchi di fabbrica juventini. È in atto un mutamento?
«Non credo. La versione di Sarri sta crescendo e si cresce anche attraverso certe sconfitte, come era stato anche per Allegri. Al di là della Supercoppa, la Juve lotterà su tutti i fronti fino all’ultimo».
Domenica ha più da perdere la squadra di Sarri?
«Tutto quello che non è una vittoria è percepito come una tragedia, soprattutto adesso che la Juve ha abituato troppo bene i suoi tifosi. Ma questo allenatore mi sembra una garanzia per continuare a vincere».
Che cos’ha di diverso la Juve rispetto alle altre?
«Se entri lì, sai che non puoi sbagliare una virgola. È la storia che lo dice».
La Lazio delle otto vittorie di fila la sorprende?
«No, perché è sempre stata costruita per la Champions. Magari non riempie la bocca a certe critiche, ma quali altri squadre hanno giocatori come Luis Alberto, Immobile, Milinkovic-Savic e Correa? Sono formidabili. Senza dimenticare che Lazzari è uno dei migliori esterni in circolazione e che Acerbi è cresciuto tantissimo: non è facile segnare a questa squadra».
Lotteranno per lo scudetto?«Sì, anche perché hanno quella fortuna che non guasta. L’uscita dall’Europa League è stata frutto di un po’ di superficialità, ma potrebbe anche diventare un vantaggio».
Lei oggi di che cosa si occupa?
«Giro molto come ambasciatore bianconero, specialmente in Oriente. La Juve guarda sempre lontano. L’apertura dell’ufficio a Hong Kong è solo l’ultimo esempio».Il primo giorno a Torino lo ricorda ancora?
«Altroché, firmai il contratto con Boniperti, assieme al mio povero padre e a mio fratello. Eravamo assieme anche a Perugia, nel 1976, quando i bianconeri persero lo scudetto all’ultima giornata per un gol di Renato Curi e io piansi per tutta la partita. La Juve mi ha reso una persona migliore sotto tutti i punti di vista».
Alla Lazio arrivo da campione affermato. Fu diverso?«È stato molto bello e giocare con tanti campioni fu facile. Quella era una squadra stratosferica e forse ha vinto anche meno di quello che avrebbe potuto».
Nella Supercoppa del 2000 contro l’Inter lei era infortunato, ci pensò Simone Inzaghi a segnare. Se lo aspettava allenatore di questo livello?
«Lui ha sempre vissuto per il pallone con una passione totale. Poi ha sfruttato la sua chance, quando sembrava fosse destinato ad andare alla Salernitana per fare posto a Bielsa. Si è ritrovato così in una società ben strutturata, con una squadra che lotta per la Champions: è stato molto fortunato».
Lei ha giocato fra gli altri anche con Deschamps, Conte, Simeone: erano già allenatori in campo?
«Con tutto il rispetto devo dire di no. Didier ad esempio ha fatto la storia della Francia e continuerà a farla perché è un vincente, ma allora non aveva quel carisma per trascinare la squadra e come lui anche Conte. Il punto di riferimento era uno come Vialli. O come Mihajlovic e Mancini alla Lazio».
Con Vialli torniamo al tridente?
«Torniamo a quando io giocavo in C col Perugia e lui era lì con l’Italia di Vicini. Mi regalò un paio di scarpe che custodisco ancora. È stato il mio idolo, il mio compagno di camera, il mio modello. E lo sarà sempre, anche per come sta gestendo questo difficile periodo. Ricomporre il binomio vincente con Mancini in Nazionale è stato bellissimo e aumenta ancora di più l’entusiasmo in vista dell’Europeo».
Mancini e Mihajlovic da cosa erano accomunati?
«Dalla trasparenza e dalla serietà. Pur avendo caratteri diversi erano due leader già in campo. Un professionista come Sinisa credo di non averlo mai visto. Un uomo vero, sincero, che dice sempre le cose in faccia. Mi ha insegnato molto e non sta smettendo di farlo anche adesso con la sua lotta alla malattia. Le punizioni come le calciava lui, però non sono riuscito mai a tirarle».
Cesare Maldini, il capitano della riscossa che regalò al libero la sua eleganza. Era implacabile come Clint Eastwood e elegante come Cary Grant, costruì nel dopoguerra una difesa che ha fatto storia partendo come terzino e finendo libero. Capitano del Milan campione a Wembley ha regalato al suo Milan un erede di nome Paolo. Massimo M. Veronese, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. Figlio unico di un capitano di Marina, lui che di marmocchi ne ha messi al mondo sei, triestino come Nereo Rocco e Fabio Cudicini, rione Savoia, non voleva fare il calciatore ma il meccanico dentista. Fortuna che papà Albino gli fece cambiare idea. Cesare l’imperatore è la linea di confine tra il difensore primitivo, tutto clava e rinvii dove capita capita è l’eleganza del libero moderno, torero più che toro, fioretto più che scimitarra. Era implacabile come Clint Eastwood ed elegante come Cary Grant, un danzatore dell’area che solo qualche volta inciampava. Quando arriva al Milan cambia tutto: è il Milan del Gre-No-Li, cioè di Gren, Nordahl e Liedholm, il trio svedese delle meraviglie, di Lorenzo Buffon, di Carletto Annovazzi “el negher” di Porta Romana, lo scudetto che torna dopo una vita, la Milano che si infiamma per il derby con l’Inter. Gran colpitore di testa, acrobata, fine palleggiatore. É il capitano del Milan Wembley, quello che vince la prima coppa dei Campioni, il mister, molti anni anni dopo, che infligge un 6-0 sull’Inter che ancora rimbomba, è il papà di Paolo, eredità di una leggenda e leggenda lui stesso. È stato vice di Enzo Bearzot al Mundial di Spagna vinto dall’Italia nel 1982, forse il miglior allenatore dell’under azzurra, vincente e amato come nessuno. Cosa volete di più? Diceva; “Noi Maldini siamo così; o facciamo qualcosa di eccezionale o non ci muoviamo nemmeno”. Era implacabile come Clint Eastwood e elegante come Cary Grant, costruì nel dopoguerra una difesa che ha fatto storia partendo come terzino e finendo libero. Capitano del Milan campione a Wembley ha regalato al suo Milan un erede di nome Paolo. Figlio unico di un capitano di Marina, lui che di marmocchi ne ha messi al mondo sei, triestino come Nereo Rocco e Fabio Cudicini, rione Savoia, non voleva fare il calciatore ma il meccanico dentista. Fortuna che papà Albino gli fece cambiare idea. Cesare l’imperatore è la linea di confine tra il difensore primitivo, tutto clava e rinvii dove capita capita è l’eleganza del libero moderno, torero più che toro, fioretto più che scimitarra. Era implacabile come Clint Eastwood ed elegante come Cary Grant, un danzatore dell’area che solo qualche volta inciampava. Quando arriva al Milan cambia tutto: è il Milan del Gre-No-Li, cioè di Gren, Nordahl e Liedholm, il trio svedese delle meraviglie, di Lorenzo Buffon, di Carletto Annovazzi “el negher” di Porta Romana, lo scudetto che torna dopo una vita, la Milano che si infiamma per il derby con l’Inter. Gran colpitore di testa, acrobata, fine palleggiatore. É il capitano del Milan Wembley, quello che vince la prima coppa dei Campioni, il mister, molti anni anni dopo, che infligge un 6-0 sull’Inter che ancora rimbomba, è il papà di Paolo, eredità di una leggenda e leggenda lui stesso. È stato vice di Enzo Bearzot al Mundial di Spagna vinto dall’Italia nel 1982, forse il miglior allenatore dell’under azzurra, vincente e amato come nessuno. Cosa volete di più? Diceva; “Noi Maldini siamo così; o facciamo qualcosa di eccezionale o non ci muoviamo nemmeno”.
Storia di Enzo Bearzot, il ct dell’Italia Mundial. Carmine Di Niro il 21 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ha guidato la Nazionale italiana più di qualsiasi altro commissario tecnico della storia, ben 104 volte dal 1977 al 1986, ma il suo nome sarà per sempre legato alla vittoria del Mundial spagnolo del 1982, con il 3 a 1 contro la Germania Ovest in finale. Il "Vecio" Enzo Bearzot, l’allenatore friuliano morto il 21 dicembre 2010 a 83 anni, nello stesso giorno di Vittorio Pozzo, il ct che vinse i due Mondiali prima di lui nel 1934 e 1938, ha lasciato nel cuore degli italiani ricordi indelebili. STORIA E PROTAGONISTI DEL MUNDIAL – In quell’estate rimasta alla storia guidò infatti una Nazionale infarcita di campioni, da Tardelli a Gentile, da Scirea a Cabrini, fino a Paolo Rossi e Zoff. Nomi che a loro volta sono diventate leggende dello sport più amato dagli italiani. Una cavalcata trionfale contro avversari fortissimi come Argentina, Brasile e Germania. L’Italia era arrivata in Spagna al centro di polemiche furenti per la convocazione di ‘Pablito’ Rossi dopo lo scandalo scommesse, tanto che lo stesso Bearzot di fatto ‘inventò’ il silenzio stampa. Il Mondiale spagnolo non iniziò nel migliore dei modi, con gli azzurri che passarono il girone con tre pareggi. Alle fasi finali però la Nazionale di Bearzot svolta e supera Argentina, Brasile, Polonia e in una finale rimasta nella storia la Germania Ovest con i gol di Rossi, Tardelli e Altobelli.
LO SCOPONE MONDIALE CON PERTINI – Bearzot resterà nell’immaginario collettivo per alcune immagini indelebili, come quella in cui è ritratto, assieme a Franco Causio, Dino Zoff e al presidente della Repubblica Sandro Pertini, mentre gioca a ‘scopone’ sul volo di ritorno dalla Spagna dopo la vittoria del Mundial.
L’ANEDDOTO DEL CT MANCINI – Ma tante sono anche le storie su Bearzot, sul suo carattere di ferro e il suo rapporto con i calciatori. Come quello con Roberto Mancini. L’attuale allenatore degli Azzurri in una intervista a GQ rispolvera un episodio del 1984 a New York, quando assieme ai suoi compagni di Nazionale passa la notte tra i locali di Manhattan. Al ritorno in albergo, alle 6 del mattino, viene convocato in sala colazione da Bearzot: “Subisco in silenzio il peggior cazziatone della mia vita – racconta Mancini – Me ne dice di tutti i colori, che non ha dormito per la preoccupazione, che mi sono comportato come un somaro, che non mi chiamerà mai più, nemmeno se segnerò 40 gol a campionato”.
Massimo M. Veronese per ''il Giornale'' il 17 dicembre 2019. La bomba gli arrivò addosso a pochi metri dal rifugio antiaereo dove si era riparato con la famiglia. Latisana, il suo paese, dove è tornato a vivere con la moglie Loredana dopo aver girato il mondo, fu martoriata da 84 bombardamenti aerei: uno di quegli ordigni polverizzò il ragazzo che stava davanti a lui. Da quel giorno non avrebbe avuto più paura di niente e di nessuno. Lorenzo Buffon è stato il portiere più grande che il Milan abbia avuto, il Milan che diventava il Grande Milan con il Gre-No-Li, l' Italia che usciva dalla guerra e entrava nel miracolo, il re del campi e del gossip, bello come un divo del cinema, forte come un gigante. A 90 anni da compiere giovedì è l' ultimo testimone di quel calcio. Fatto di pane, amore e fantasia.
Lorenzo, ma lei è sempre stato così alto?
«Ero uno e 90 a 12 anni. Ma ero un gigante buono anche da piccolo».
Che genitori erano i suoi?
«Rosa, mia mamma, era piccolina ma bellissima, l' omone era mio papà Alessandro. Si sono sposati in Francia dove vivevano. Figlio unico».
Ma era buono davvero?
«Facevo il chierichetto, frequentavo l' oratorio e disegnavo madonne».
Disegnava madonne?
«Santi, madonne, angeli. Se non fossi diventato portiere mi sarebbe piaciuto diventare pittore».
E come è finito in porta?
«Grazie alle madonne. Il prete della mia parrocchia, Don Giovanni, mi disse: visto che con quelle mani disegni madonne perché non le usi per salvare la squadra dell' oratorio?».
E funzionò?
«Benissimo. Diventai una specie di santino. Pensare che il mio ruolo all' inizio era ala sinistra».
La sua è una famiglia di portieri.
«Alessandro, mio padre, che era boemo, ha giocato nel Saint Etienne. E portiere era anche mio nonno».
E poi c' è Gigi Buffon
«Il nonno di Gigi, Luigi Gabriele, è mio cugino di secondo grado».
Peccato non ci sia stato un altro Buffon al Milan.
«A dire la verità non c' è stato perché il Milan non ha voluto».
Prego?
«Da osservatore del Milan portai Gigi a fare un provino. Aveva 13 anni.
Lo bocciarono e furono anche un po' maleducati. Peccato. Chissà che Milan con un altro Buffon in porta».
Donnarumma che le pare?
«Ah, bravissimo. Prima di un Udinese-Milan venne a trovarmi. Un pezzo di pane. Se resterà diventerà il più grande portiere del Milan di sempre. Meglio anche di me».
Curioso il suo debutto nel Milan.
«Avevo vent' anni ed ero il quarto portiere. Rossetti però era anziano, Soldan si era infortunato e Milanese aveva preso sei gol nel derby. Allora prima della partita con la Samp Liedholm, il capitano, mi prende da parte e mi dice tu domenica iocare».
È vero che prima del match le diedero un bicchierino di cognac?
«Non sapevo fosse cognac».
Più forte buffon o Ghezzi?
«La nostra rivalità era più mediatica che reale ma ha fatto bene a tutti e due. Come Bartali e Coppi».
Chi era Bartali e chi Coppi?
«Con Fausto andavo a caccia però glielo confessai: io sono tuo amico ma tifo per Bartali». E allora come la mettiamo?
«Giorgio è stato un grande portiere, ma io sono stato capitano dell' Italia, lui no. Io ero Coppi, lui Bartali».
La sua parata delle parate.
«Con il Torino. I tifosi mi buttavano il sale per esorcizzarmi. Mi tirano sul palo, respingo, la palla finisce dall' altra parte, arriva di piatto uno del Toro, tira a colpo sicuro, io volo sull' altro palo e lo prendo. Smisero di tirarmi sale: era tempo perso».
Lei aveva l' uscita pesante.
«I giornali inglesi scrissero di me: ecco finalmente un portiere che invece di subire le cariche le fa».
Anche il leggendario Zamora aveva un debole per lei.
«Dopo uno Spagna-Italia venne nello spogliatoio e mi disse: avrei voluto un figlio come te. Una delle soddisfazioni più grandi della mia vita».
Ma chi è il Maradona dei portieri?
«Lev Yashin, il portiere dell' Unione Sovietica. Una volta a una premiazione mi baciò sulla bocca. Da noi si usa, mi disse: va bene, ma ricordati che a me piacciono le donne».
Su questo non c' è dubbio. Lei era corteggiatissimo «Si, ma io sceglievo, non corteggiavo. Soprattutto bionde. Mia moglie Loredana è bionda. L' ho conquistata a Lignano dove aveva una pizzeria».
Lei però era anche il re del gossip. Il suo matrimonio con Edy Campagnoli, la valletta di Mike Bongiorno, riempì i rotocalchi.
«Edy, che si chiamava Edda, da ragazzina si metteva dietro la porta e io le dicevo: vai a scuola. Diceva che ero più bello dei divi del cinema».
E poi?
«Una sera noi del Milan andammo in tv. Lei consegnava i fiori ai capitani: le chiesi un appuntamento».
Eravate popolarissimi...
«Non potevamo neanche uscire di casa, Edy era la donna più famosa d' Italia. Dopo la rottura andai quattro mesi negli Usa per dimenticare: presi un' auto a nolo e via. New York, Chicago, Los Angeles, Las Vegas».
E pensare che facevano sorvegliare a lei i compagni di Nazionale.
«Ero il capitano, lo voleva il cittì. In ritiro trovai Lojacono in camera con Claudia Mori: feci finta di niente».
Rizzoli la voleva attore sul serio.
«Angelo, il mio presidente, ha insistito a lungo. Mi invitava nella sua villa di Ischia, c' erano i divi di Hollywood: William Holden, Frank Sinatra. Una sera mi dice: vai in cucina e facci un piatto friulano dei tuoi. Andai di nascosto al supermercato, presi dei barattoli di fagioli, poi cipolle da tagliare fine, un po' di spezie, un piatto che faceva mia mamma, e lo servii come se lo avesse cucinato uno chef. Si sono divorati tutto».
Dicono che lei portasse fortuna.
«Una sera al casinò di Saint Vincent ritrovo Rizzoli. Facciamo società, mi dice. E io: sì, tu metti i soldi e io metto i numeri. Ride, ma ci sta.
Gli dico: punta il 17. Esce. Mi regala un milione in fiches. Poi si sposta su un altro tavolo: vieni con me. Mi spiace, gli rispondo, devo scappare...».
Con Gipo Viani invece...
«Sono andato via dal Milan per colpa sua anche se ero portiere e capitano dell' Italia. Me ne ha fatte di tutti i colori, compreso lasciarmi in tribuna nella finale di coppa Campioni con il Real Madrid. Vinsero 3-2. Con me non sarebbe finita così...».
Però si vendicò...
«Una volta mi fece delle proposte indecenti e io... bam! L' ho steso. Arriva Rizzoli: che succede? E io: presidente, Gipo ha avuto un malore»
Amori, pugni, parate, divi. Alla fine cos' ha imparato dalla vita?
«Che c' è sempre da imparare. Anche a 90 anni».
· Francesca Schiavone ed il cancro.
Francesca Schiavone: «Ho avuto il cancro, fatto la chemio e lo ho sconfitto». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Gaia Piccardi. L’azzurra, campionessa del Roland Garros 2010, si racconta su Instagram: «Ho combattuto la battaglia e sto ancora respirando, ho vinto e voglio tornare in azione». Francesca Schiavone rivela di aver avuto un cancro e di averlo sconfitto. La vincitrice del Roland Garros 2010, e prima italiana a vincere in singolare un torneo dello Slam, si è confidata in un post su Instagram, dove di solito è molto attiva. «Dopo questo silenzio di 7-8 mesi dai social media e dal mondo voglio condividere con voi quello che mi è successo. Mi hanno diagnosticato un cancro, ho fatto chemioterapia, combattuto la battaglia e sto ancora respirando. Ho vinto e ora sono tornata in azione». Schiavone, 39 anni, ha anche confidato di voler ritornare presto in campo come coach.La milanese si era ritirata nel settembre dello scorso anno, durante gli Us Open, commentando: «Ho realizzato i miei sogni». Aveva iniziato la carriera nel 1998 consacrandosi come una delle tenniste italiane più forti di tutti i tempi: oltre al Roland Garros, è stata anche l’unica azzurra ad arrivare tra le prime cinque del mondo. La Leonessa, come è soprannominata da sempre, ha vinto 8 tornei, l’ultimo nel 2017 a Bogotà in Colombia, oltre ad essere stata nella strepitosa squadra azzurra che ha sollevato tre Fed Cup. Il momento più alto, come detto, a Parigi il 5 giugno del 2010, battendo l’australiana Samantha Stosur (la cronaca via sms di Gaia Piccardi).
Tennis, Schiavone confessa: "Ho vinto la battaglia contro il cancro". La rivelazione della Leonessa via Instagram: "E' stata la lotta più dura che abbia mai affrontato. Ho fatto la chemioterapia e la cosa più bella è che sono riuscita a vincere questa battaglia. Sono pronta ad affrontare nuovi progetti". La Repubblica il 13 dicembre 2019. Un video shock di 55 secondi sul suo profilo Instagram. Così Francesca Schiavone, 39 anni, la prima tennista italiana a trionfare in un torneo del Grande Slam (Roland Garros 2010), racconta di aver vinto la sua battaglia contro il tumore che le era stato diagnosticato sette mesi fa e del quale non aveva mai parlato prima.
Sorridente in video. Nel video, la Schiavone si mostra serena e annuncia di voler ritornare presto in campo come coach. Lo fa in italiano, scrivendo però un post in inglese, e spiegando che è stata "la lotta più dura in assoluto che ho mai affrontato - le parole della Leonessa - Ho fatto la chemioterapia e la cosa più bella è che sono riuscita a vincere questa battaglia. Quando me l'hanno detto qualche giorno fa, sono esplosa dalla felicità. E anche oggi vivo in felicità, la posso tagliare con un coltello". Francesca Schiavone guarda ora avanti. "Sono già pronta sia qui che qui - continua indicando testa e cuore - ad affrontare nuovi progetti che sto pensando, che avevo e non potevo fare. Ci rivedremo presto, felice di quello che sono oggi".
Una carriera da record. Nel corso della sua carriera, Francesca Schiavone ha vinto 8 tornei WTA in singolare e 7 in doppio. La vittoria nell'Open di Francia del 2010, battendo in finale l'australiana Samantha Stosur, l'ha resa la prima italiana a vincere un torneo del Grande Slam nel singolo. Nel 2011, inoltre, la tennista lombarda ha raggiunto il quarto posto nel ranking WTA, eguagliando il primato azzurro di Adriano Panatta. A settembre 2018, Schiavone ha annunciato in una conferenza a New York il ritiro dall'attività professionistica e la volontà di restare nel mondo del tennis nel ruolo di allenatrice.
· Le Ombre sull'alpinismo.
Daniele Nardi, ombre sull'alpinismo dopo il suo libro. Le Iene il 18 dicembre 2019. Daniele Nardi, l’alpinista morto durante la scalata del Nanga Parbat nel febbraio scorso, è uscito con un libro postumo, “La via perfetta”. E non sono mancate le polemiche per le sue rivelazioni choc su alcune spedizioni alpinistiche. Giulia Innocenzi ci racconta tutti gli aggiornamenti dopo il nostro servizio. Il libro di Daniele Nardi, l’alpinista morto nel marzo scorso mentre tentava di scalare il Nanga Parbat, sta riscuotendo un enorme successo. E ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’alpinismo, tanto che una prestigiosa casa di produzione internazionale vuole farne un film. Intanto nel mondo della montagna si è aperto un dibattito fra chi pratica un alpinismo pulito e chi invece usa tutti gli aiuti possibili per andare in vetta più facilmente. Se ne è occupato Corrado Augias su Repubblica: “Uno degli alpinisti più famosi del mondo vive in una camera ipobarica per acclimatarsi più facilmente. È Simone Moro”, scrive Augias. Cosa che c’entra anche con il libro di Nardi, che dell’alpinismo racconta quello che nessuno ha mai avuto il coraggio di dire. E cioè un alpinismo fatto di “cattiveria e di cinismo” e di episodi di “bullismo d’alta quota”. In particolare, a scaldare gli animi sono le rivelazioni che Nardi fa sulla scalata del Nanga Parbat del 2016. “Figlio di puttana! Bastardo! Questi non sono alpinisti sono merde!”, si sfoga Nardi. Perché dopo aver attrezzato la parete con le corde e i campi necessari per salire è stato buttato fuori dalla squadra. E il suo posto è stato preso proprio da Simone Moro, che così ha stabilito il suo record utilizzando le corde fissate dalla spedizione di Daniele. Daniele Nardi a gennaio di quest’anno ha tentato di nuovo la scalata del Nanga. Ed è morto durante l’impresa. Il suo corpo è ancora lì insieme a quello del suo compagno Tom Ballard. La famiglia ha fatto sapere che non potranno più essere recuperati. Ma grazie a questo libro Nardi si toglie qualche sassolino dalle scarpe rispetto all’alpinismo in cui, parole sue, “il passo per trasformarci in cannibali, pronti a uccidere per diventare i numeri uno, è breve”. E sui blog e i siti di montagna ora s’intravedono le ombre che stanno dietro tante imprese alpinistiche.
“La via perfetta. Nanga Parbat: sperone Mummery”, la solitudine di Daniele Nardi. Gian Luca Gasca il 26 Novembre 2019 su Montagna.tv. Daniele se ne sta solo, in mezzo alla neve, sulla copertina del suo libro postumo “La via perfetta. Nanga Parbat: sperone Mummery” (Einaudi, 2019) scritto insieme ad Alessandra Carati. È solo, nell’ambiente che più amava, con uno sguardo che sembra fonte di tanti interrogativi. Pare chiedersi quale sia la sua strada, il suo destino. Un destino infausto che se l’è portato via a soli 42 anni mentre inseguiva un sogno divenuto per molti ossessione. Ossessione, che termine brutto per definire l’idea di Nardi. Nel libro compare una sola volta, nella forma delle romantiche parole di Alda Merini: “Mi nacque un’ossessione e l’ossessione diventò poesia”. Non un malessere che ti porta via la ragione, ma un qualcosa che ti spinge a riflettere, a ricercare chi sei veramente scavando nel tuo profondo. Daniele, aiutato da Alessandra, lo fa nel suo libro. Ne esce il vero Daniele Nardi, la persona, con le sue forze e le sue debolezze. Con i suoi successi e con i fallimenti brucianti, quelli che ti segnano e che ti porti addosso tutta la vita. Voleva solo essere capito, traspare da ogni pagina. Voleva essere compreso e accettato dagli alpinisti del nord. Voleva che quel soprannome, “Romoletto”, affibbiatogli con simpatia al campo base del Gasherbrum II, venisse dimenticato. Voleva essere un alpinista e non più l’alpinista nato al di sotto del Po. La montagna di questo libro è diversa, non parla di tecnicismi, di ore di luce o di fatica muscolare. È una montagna interiore, una vetta da scalare per capirsi e conoscersi. Daniele era il manager di se stesso, difficilmente qualcun altro avrebbe potuto esserlo. Il suo carattere a tratti esuberante, a tratti complesso; spesso aperto e sincero, esce di pagina in pagina. Daniele si denuda al cospetto della montagna, il Nanga Parbat, che diventa psicologa crudele della sua anima. La piccozza e i ramponi ne scalfiscono solo la superficie, ma il cuore e la passione stanno dentro ben protetti da ghiaccio e roccia. Non si è mai indebolita quella fiamma che lo spingeva inverno dopo inverno alla ricerca della “via perfetta”, di quel tracciato che forse con un po’ di arroganza avrebbe voluto sbattere in faccia a chi lo additava come terrone, fanatico, suicida. In pochi sono riusciti a capirlo veramente e questo è stato il più grande dei suoi mali. In molti sono arrivati a pensare che sia andato sul Nanga alla ricerca di una scalata difficile ed estrema, per fare proselitismo. Follie dettate da chi non ha mai sperimentato l’ambizione sfrenata dell’alpinismo, di chi non si è mai rapportato con chi, per uno stupido quanto affascinante desiderio di conquistare l’inutile, si è dedicato per anni a progetti allora ritenuti estremi, impossibili. L’alpinismo, il non sport della montagna, dove non vigono regole se non quelle etiche (che purtroppo non sempre trovano compimento), è così difficile da comprendere che attribuire un significato alternativo alla domanda delle domande (Perché?) è spesso più facile che lasciarla insoluta. Daniele una risposta prova a darla nel testo, prova a raccontare come la montagna sia stata rifugio sicuro nei momenti più duri. Di come “le vie più incredibili, le linee più eleganti nascono da due battaglie, una tecnica e una interiore, dentro le nostre parti più oscure. Ognuno di noi nasconde una paura atavica, inconfessabile, che ci teniamo stretti. Una paura con la quale ci confrontiamo e lottiamo costantemente ogni giorno. È un’amica? Ci salva la vita? Oppure ci annienta e ci blocca sempre di più?”. Lassù, alle quote dove l’aria si fa rarefatta e una porzione della ragione può scivolare via per esplorare il proprio inconscio, si fa pace con se stessi. Daniele accarezzando lo sperone Mummery ha chiuso i conti i fantasmi del passato, riuscendo a riversare su carta la sua anima più vera e sincera. Un ragazzo che voleva solo farsi capire e che in pochi sono riusciti a comprendere nel suo profondo. Io per primo non l’ho saputo comprendere, forse non abbiamo saputo comprenderci, lasciando che l’amicizia si sfilacciasse innalzando muri di ideali che oggi non hanno alcun valore. Questo libro racconta di una grande passione, ma anche di una montagna che si spoglia di ideali per tornare a essere un’inutile mucchio di sassi.
“Il peso delle ombre”: racconti veri, fake news e comode bugie. Agostino Da Polenza il 7 Gennaio 2018 su Montagna.tv. Alessandro Gogna ama la montagna: la notizia è vera. Per questo riesce a scovare nel mondo dei montanari e ancor più in quello degli alpinisti delle particolarità e delle criticità che a volte rendono difficile questo amore. Questa volta da bibliofilo montano s’è incontrato con il libro “Il peso delle ombre”, GabrieleCapelli Editore, di Mario Casella, giornalista svizzero di carta stampata, radio e televisione, ma anche provetto alpinista. Vien da pensare, leggendo il libro, che la verità e l’oggettività siano materia poco frequentata sulle montagne: la complessità degli elementi interpretativi ambientali, la lunghezza della prestazione, che spesso si protrae continuativamente per giorni, l’incredibile quantità di stimoli e influenze psicologiche determinate dall’individuale condizione fisica, dallo stato di nutrizione, dalla mancanza di ossigeno, per dirne solo alcune, influenzano a tal punto la condizione psichica da proiettarci talvolta in realtà parallele, come studiato di recente da una ricerca scientifica sugli effetti psicotici dell’alpinismo d’alta quota. Insomma, in certi momenti non sappiamo cosa facciamo e se quel che ricordiamo è quel che abbiamo fatto. E così, giocoforza, ricostruiamo l’accaduto, spesso con ambiguità e, ovviamente, a nostro vantaggio. Ma è anche vero che la prova non è in assoluto richiesta in alpinismo e dunque l’impresa, la mancata impresa o il salvataggio, proprio o altrui, rimangono nella storia come fatti accaduti, criticati e a volte confutati con altri pezzi di storie alternative alla prima. Questo crea il caso e quelle che Casella definisce ombre, che ci si trascina appresso, qualunque sia stata la motivazione della storia raccontata dal protagonista, o della contro-storia raccontata dai suoi detrattori. Le conseguenze sulla vita dei protagonisti possono essere dolorose e deleterie, cambiano la percezione della credibilità da parte degli altri, sono un duro colpo all’autorevolezza, sia pure sportiva e alpinistica. Anche se a taluno pare non importi proprio e procede imperterrito verso… la cima. Una ricerca complessa quella di Casella che tocca, lui lo fa con grazia, uno dei nervi scoperti dall’alpinismo. La verità è importante, ma la sua ricerca, sostiene Casella, non può essere però ossessiva tanto da deformarne i contorni e a volte i contenuti. Resta il fatto che l’ambizione e l’esibizionismo sono indubbiamente, in dosaggi differenti secondo i casi e le persone, presenti nella storia dell’alpinismo e degli alpinisti, sempre, sia in senso positivo che deteriore. La competizione, altro elemento di stimolo al miglioramento anche qualitativo delle prestazioni, particolarmente nelle sue ricadute economiche, è talmente al ribasso e drogata dal rapporto tra professionisti ( guide e alpinisti sponsorizzati a vario titolo) e dilettanti ( accademici e amatori di vario pensiero e natura ideologica) da non consentire l’espandersi di un serio e credibile movimento professionale delle attività alpinistiche-sportive, che si fondi su un’oggettiva valutazione e riconoscimento della qualità delle attività stesse. Il terreno incerto e ambiguo nel quale l’alpinismo si agita contribuisce a creare non pochi “casi”, veri e/o falsi. Le storie nel libro di Casella sono 17, dal K2 di Walter Bonatti al Cerro Torre di Cesare Maestri, alle imprese di Cook in Alaska, all’Annapurna di Ueli Steck, ma anche la parete sud del Lhotse di Tomo Cesen e le ombre su Messner dopo il Nanga Parbat. Il tema dell’ossigeno e le storie di onestà ed umiltà delle donne di montagna attraverso le vicende di Henriette d’Angeville e di Edurne Pasaban. Sono tutte vere come le polemiche e le contro-verità che hanno suscitato. Del resto, ogni alpinista è stato certamente protagonista, come ogni uomo di mare, di caccia o pesca, di piccoli e grandi “casi”, volontari o no, di esagerazione e manipolazione della verità. Qualcuno ci ha perfino costruito pezzi della propria fama. Ma non è un fenomeno dei giorni nostri. Esilarante ed emblematico in tal senso il famoso “libretto” di Giuseppe Mazzotti, regalato in edizione anastatica allo scorso Film Festival di Trento e che titola: “La montagna presa in giro”, anno 1935. Casella conclude: “È stata per me una scalata carica di emozioni e a momenti fonte anche di inaspettate riflessioni che credo possano essere estese ad altri ambiti dell’attività umana: dal lavoro al tempo libero, dalla vita privata alla malattia. Sono temi che interpellano: la vita e la morte, l’amore per chi ti vuol bene; l’autostima e l’egoismo; la competizione e il rispetto degli altri”.
· Tania Cagnotto.
Tania Cagnotto: «Sono una mamma, credo fortemente nei vaccini». Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it da Isa Grossano. La campionessa di tuffi testimonial di M-Team, associazione che vuole informare sui rischi della malattia. Super mamma della piccola Maya e super testimonial di M-Team. Tania Cagnotto, la campionessa di tuffi, non si risparmia, così come quando è in vasca, a supporto della campagna di sensibilizzazione contro la meningite da meningococco, avviata dal Comitato Nazionale Liberi dalla Meningite . «Mi è sempre stata a cuore la salute dei bambini e questa esigenza è diventata più forte da quando ho avuto una figlia. Per questo mi batto, insieme ad altre donne note (nel gruppo c’è anche la food blogger Sonia Peronaci, creatrice di Giallo Zafferano, ndr) per far capire l’importanza della prevenzione della meningite B. Maya che ha un anno e mezzo, è già vaccinata». Tania, il cui obiettivo sono le prossime Olimpiadi di Tokyo 2020, è figlia d’arte, suo padre è Giorgio Cagnotto, ex tuffatore argento olimpico negli anni Settanta poi allenatore, sua madre Carmen Casteiner, anche lei campionessa italiana di tuffi. È presto per dire se anche la piccola Maya seguirà la tradizione familiare «certo è che in piscina è a suo agio» osserva Tania. «E comunque lei è il più grande “oro” della mia vita».
Quali valori le hanno trasmesso i genitori?
«Quelli importanti: la famiglia, l’onestà e il non arrendersi davanti alle prime difficoltà».
Perché ha aderito alla campagna M-team?
«Come atleta ho sempre cercato di rispettare e trasmettere i sani valori dello sport, di prevenire gli infortuni e di evitare i malanni. Ora, come mamma posso dare un contributo per promuovere il benessere dei più piccini. È anche un’occasione per conoscere più da vicino questa grave malattia. La meningite batterica è pericolosissima se colpisce i bambini piccoli, ma purtroppo non c’è ancora un’adeguata conoscenza da parte dei genitori».
Qual è il suo compito come testimonial?
«In particolare spiego l’importanza dell’attività sportiva per i bambini. Consiglio di farli stare molto tempo all’aria aperta e di lasciarli liberi di giocare. Permettere loro di sfogarsi fisicamente è fondamentale».
Che consiglio dà alle altre mamme?
«Di vaccinare i bimbi per proteggerli. Anch’io mi sono fatta mille domande, ho avuto qualche dubbio, ma mi sono resa conto che non avendo le necessarie conoscenze, dobbiamo affidarci al pediatra e seguire i suoi consigli. Per la mia Maya sto facendo tutte le vaccinazioni con la massima serenità».
Che tipo di mamma è?
«Rilassata, anche se talvolta mi lascio prendere dall’ansia e mi agito. Una volta Maya è caduta dal lettino, si è fatta un bel livido, e mi sono presa uno spavento fortissimo. Non sono, però, una di quelle mamme che controlla e sta sempre dietro ai figli a ogni movimento. Lascio che Maya faccia le sue scoperte e mi sono abituata ai suoi capitomboli».
Come si sta preparando per le gare di qualificazioni alle Olimpiadi di Tokyo 2020?
«Non avrei mai pensato di ritrovarmi in piscina a 34 anni (aveva annunciato il ritiro e poi è tornata sui suoi passi, ndr) ma sono cambiata. Sento meno pressioni e mi sto preparando meglio che posso. Del resto con una bambina, non posso allenarmi più che due o tre ore al giorno. Per fortuna posso lasciare la bimba a mia madre, nonna e nipotina sono molto unite. Ho scelto di non fare più le gare individuali e quindi la mole di lavoro si è dimezzata e posso avere più tempo da dedicare a Maya».
Allenarsi in coppia rispetto all’allenamento singolo che vantaggi ha?
«È più divertente e c’è sempre un sostegno, se un giorno sei in difficoltà la compagna ti aiuta, un’altra volta lo fai tu. È stata Francesca (Dallapè, sua partner ai Giochi di Rio de Janeiro dove hanno conquistato l’argento, ndr) ad insistere perché cambiassi idea e tornassimo sul trampolino. Quando me l’ha proposto ho tentennato, ma poi la nostalgia ha avuto il sopravvento. Il più felice è mio padre Giorgio che torna di nuovo a farmi da coach».
Segue un regime alimentare particolare?
«Sono spesso stressata, consumo molto e quindi devo mangiare abbastanza per non andare sottopeso. Tutti cibi ovviamente sani e molte verdure. Poi a star dietro a Maya si resta in forma naturalmente. Ma questo tutte le mamme con bimbi piccoli lo sanno».
· Valentino Rossi, i primi 40 anni del Dottore di Tavullia.
Valentino Rossi, i primi 40 anni del Dottore di Tavullia: gli amici, gli affari, i segreti, scrive il 6 Febbraio 2019 Tommaso Lorenzini su Libero Quotidiano. Distesa sulle colline romagnole, affacciata sulla riviera del divertimento, Tavullia è l'ombelico di un mondo tutto giallo, che con la Cina però non ha niente a che vedere. Qui di tarocchi non ce ne sono, c' è solo, ovunque (bandiere appese ai lampioni, cartelli, adesivi, insegne, perfino uno striscione gigante in piazza) un unico, originale e inimitabile Valentino Rossi che oggi in Malesia scende in pista con la Yamaha per i primi test della MotoGp 2019 (a caccia dell'agognato decimo titolo) e che, il 16 febbraio, compirà 40 anni. Una cifra tondissima e quasi sorprendente da cucire addosso a questo Peter Pan, che di strada ne ha fatta da quando, assieme agli amici, si sfidava con lo scooter sulla statale "Panoramica" fuggendo dai carabinieri. Oggi Rossi si è diviso in tre. Oltre ad essere un totem per nulla pensionato del motociclismo, è il boss della VR46, azienda di abbigliamento tecnico di grande successo, e ideatore assieme all' amico Uccio Salucci della VR46 Riders Academy: una scuola di moto e di vita per giovani piloti che ha già sfornato due campioni Mondiali Junior Moto3 (Dennis Foggia e Lorenzo Dalla Porta) e due iridati in Moto2 (Pecco Bagnaia e Franco Morbidelli). Mentre Elia Bartolini e Lorenzo Bartalesi sono i due giovanissimi che correranno il campionato italiano supportati dallo Sky VR46 Junior Team. Formalizzata nel 2014, l'Academy è la discendente della Cava, quella struttura dismessa dove Rossi, assieme agli amici fra i quali Marco Simoncelli, e pure col babbo Graziano, andava a girare con la moto da fuoristrada per allenarsi. Nel 2011 il trasferimento.
LUNA PARK E COLLEGE. Su un terreno appartenente a Graziano posto sulla destra di Tavullia (salendo dal mare) Vale ristruttura una vecchia casa colonica e si crea il suo parco giochi con tanto di camere, spogliatoi, sala da pranzo con camino e maxi schermo, base d' appoggio per un tracciato chiamato inizialmente "la Biscia" e ora noto a tutti come «il Ranch»: pista in terra battuta, moto di traverso e luogo di pellegrinaggio per i tifosi. Oggi, quel luna park è divenuto una sorta di college, un unicum riconosciuto anche dalla Federmoto. Antonio Di Girolamo è il factotum che si occupa della struttura: «Servono tre giorni per risistemare la pista quando girano», racconta. Perché qui si va forte. Rossi si è circondato di ragazzi in cui ha intravisto del talento da coltivare. Da tre anni gli allievi sono undici, scelti «a pelle da me e da Vale», spiega Uccio, «fra gente rimasta a piedi come Bagnaia o altri che ci stimolavano». Due giorni a settimana si allenano assieme. Il mercoledì il "differenziato", che può essere palestra, cross, minimoto o kart, il sabato tutti al Ranch. Cinque ore di giri cronometrati nella pista di 2,6 km (si fa in circa 2 minuti) poi l'Americana finale nei due ovali concentrici: a ogni giro ne vengono eliminati 2, fino al duello decisivo. Sempre a tutto gas, per vincere, perché l'adrenalina del Ranch è la stessa del Mondiale. Serve abituarsi. «È uno dei segreti del Dottore», commenta Uccio, che dell'Academy è responsabile assieme ad Alberto "Alby" Tebaldi e Carlo Casabianca, «circondarsi di giovani lo aiuta a restare competitivo. Vale ha già vissuto le situazioni che si presentano ai ragazzi, quindi sa come aiutarli». Tutti sono seguiti dal professor Fabrizio Angelini, ogni 15 giorni vengono fatte le analisi di sangue e saliva, controllato il peso e la nutrizione, che varia da pilota a pilota. «Ci stiamo organizzando per fare anche un piccolo ambulatorio», confida Uccio, che ha appena seguito gli ultimi aggiustamenti alle tute prima dei test, compresa quella di Valentino: «Una tuta non fatta su misura può creare dolori agli avambracci e compromettere l'annata».
DALLA PISTA AGLI AFFARI. Mentre a tutti viene proibito l'alcol nei weekend di gara: sia perché disidrata, sia perché dal giovedì a prima delle gare in ogni momento la Dorna può ordinare l'alcol test. E chi è positivo viene squalificato. Spenta la moto, attraversata Tavullia, Rossi si siede alla scrivania della VR46. Magliette, cappellini, felpe, accessori: un'azienda di abbigliamento a tutto tondo. Retail diretto, punti vendita itineranti in ogni circuito, e-commerce: la VR46 ha lavorato con la Juve, segue Ktm, Lamborghini, Monster Yamaha e molti piloti del Motomondiale (c'era anche Marquez, poi cacciato dopo i fatti del 2015). Nel 2013 la VR46 ha fatturato 9,6 milioni, nel 2017 20,4 e le previsioni per il 2018 sono 17,5. Tanto che secondo una stima l'azienda versa circa un milione di tasse all' anno al Comune di Tavullia. «Abbiamo 40 dipendenti, tutti ragazzi della zona», conferma l'ad Alby Tebaldi, ex capo-aerea di Finstral e uomo di fiducia di Rossi, conosciuto nelle scorribande sui passi appenninici per andare al Gp del Mugello, «nel 2009 Vale mi prese e mi disse: "E se facessimo da soli per il merchandising?" Ora siamo presenti in circa 50 Paesi ma la nostra forza è l'essere come una famiglia, anche se siamo diventati un modello di business. Siamo partiti in 6, tutti presi da aziende leader del settore, alla cena di Natale eravamo 90». Alessandra Colombo si occupa della grafica con un team di 4 persone, «Valentino valuta, dà consigli, ma non si intromette», spega Alby, «e viene spesso in azienda. L' articolo più venduto? Le sue t-shirt gialle ovviamente». Tommaso Lorenzini
Valentino Rossi, parla l'amico fraterno Uccio: "Biaggi o Marquez? Vi dico chi odia davvero", scrive il 6 Febbraio 2019 Tommaso Lorenzini su Libero Quotidiano. Alessio Salucci, Uccio per tutti, anche lei fra poco (il 19 aprile) compirà 40 anni come il suo "fratello" Valentino Rossi.
Il Dottore ha mai pensato di mollare tutto e ritirarsi su un'isola? «Ma va', a fare che? La vita inizia ora».
Però qualcuno sostiene che un pensierino a dire basta dovrebbe farlo.
«Prima di lui ce ne sono molti altri che dovrebbero pensare a ritirarsi. Io lo vedo molto in forma, l'anno scorso ha fatto terzo nel Mondiale sopra una Yamaha in enorme difficoltà tecnica. E poteva arrivare secondo, se non si fosse sdraiato in Malesia».
Magari si sposa e mette su famiglia prima di dire stop?
«Lui con figli? Chissà. Quando ho saputo che sarei diventato papà l'ho chiamato subito: "Pamela è incinta". E lui: "Perché?". Sto ridendo ancora».
Lei ha fiducia cieca in lui.
«Siamo coetanei e cresciuti insieme, basta uno sguardo per capirci. I nostri genitori si conoscevano prima che nascessimo, a Tavullia abbiamo costruito un gruppetto di cinque o sei amici.
È il nostro collante, un punto di forza sia per me sia per lui».
Come si diventa l'"assistente" di Rossi?
«A 17 anni lavoravo con mio padre, che aveva una ditta di generi alimentari, e avevo tempo per seguire Vale alle gare. Però è solo a fine 1996 che mi chiese di seguirlo davvero. Nel '97, il primo anno con lui, non mi pagava nemmeno, mica poteva permetterselo».
Lei sa di essere uno degli uomini più invidiati al mondo?
«Sì, e me ne vanto, ma non sono stato il primo. Schwantz aveva il suo Uccio, Biaggi pure, tutti prima di noi. Certo, io ho avuto culo».
C' è qualcosa che non sopporta di Valentino?
«È eternamente in ritardo. Una volta di ore, adesso siamo alle mezz' ore. Un paio di domeniche fa dovevamo andare a Milano per lavoro e lui è arrivato puntuale, mentre un altro amico è arrivato dopo: è stata la fine del mondo, ce la sta facendo pesare tutti i giorni».
Quando si è accorto che Rossi era Rossi?
«Nell' Europeo 1995. Un anno importante perché si è confrontato con quelli veri».
Dicevano che era raccomandato dal babbo...
«È vero che avere Graziano alle spalle è stato un vantaggio, però come fai a dire qualcosa a uno che alla terza gara vince e poi fa suo anche il campionato? All' Europeo ha chiuso terzo dietro solo agli ufficiali con un'Aprilia che non andava. Nel '96 vinse la prima gara nel Mondiale a Brno con l'Aprilia 125 standard di Sacchi e Pernat capì subito che era un fenomeno. Lui con quella moto faceva il mazzo a Perugini, Martinez, Aoki. L' anno dopo con la moto ufficiale vinse 11 gare e titolo».
Mai fatto pesare di essere "Valentino Rossi"?
«Mai, perché ha sempre voluto che chi lavora con lui sia coinvolto e ci sia fiducia reciproca. Quello che vedete in tv è lui. E proprio in televisione lo vedrei bene».
A condurre un programma?
«No, come concorrente di un quiz di motori. Sa tutto: il podio di quella gara di 30 anni fa, lo sponsor di quel pilota...»
E le sue, di gare?
«Prima di ogni Gp mangia la pasta col pomodoro. La fa fare senza cipolla, con poco sale, ma col Parmigiano e sempre alle 11.50, se corre alle 14».
Problemi ne ha avuti con Marquez...
«Intorno a Marc c' è finzione, un rapporto non paragonabile a quello con Biaggi. Con Max è una rivalità più sana, vera, da pane e mortadella, anche se si mandavano a fanculo».
E con Lorenzo?
«Lui è così e quelle persone mi piacciono, siamo stati tanti anni compagni di squadra. Certo, non sarebbe il primo che chiamerei per una pizza, ma è prendere o lasciare».
Con Simoncelli invece c'era grande feeling. Al Ranch c' è un disegno bellissimo.
«L' Academy è partita con lui. E stato il primo individuato, Vale ha detto "cazzo, che figo". Marco era intelligente, imparava alla svelta. Dopo l'incidente, la spinta emotiva per provarci con l'Academy ce l'ha data proprio il Sic da lassù». Tommaso Lorenzini
MA VALENTINO ROSSI SI DEVE RITIRARE? Paolo Lorenzi per Il Corriere della Sera l'1 luglio 2019.
L’ottimismo è la sua linfa vitale. I lividi del corpo e quelli dell’anima. Valentino Rossi oggi patisce di più quest’ultimi, dopo la terza caduta di fila in gara, una serie negativa che non si ripeteva dal 2011. Barcellona a parte (incidente provocato dallo strike di Lorenzo), le due scivolate al Mugello e ad Assen, le sue piste preferite, lasciano un segno profondo. Nell’anima più che sulla pelle. Ciò nonostante, a fine gara Valentino ha scovato nel buio di una giornata terribile, la luce di un piccolo miglioramento. Tecnico, certo, ma sufficiente a ridargli ottimismo: la sua linfa vitale. La capacità di vedere il bicchiere più pieno che vuoto anche nei momenti peggiori è sempre stata la sua forza. L’ha mantenuto al vertice dopo 20 anni di vittorie e duelli epici. Persino dopo il 2015, l’anno orribile dello scontro con Marquez e gli strascichi velenosi della Malesia, a un passo dal ritiro ha ritrovato la voglia di credere ancora. A quel decimo titolo che pare una chimera, ma che basta ad alimentare il sogno e a rabboccare il serbatoio di un’energia mentale che sembra inesauribile. L’eterno ragazzo di quarant’anni non ha ancora voglia d’invecchiare.
In attesa dalla svolta tecnica. C’è un motivo tecnico, alla base delle difficoltà di Rossi. La Yamaha subisce la potenza di Honda e Ducati sui circuiti veloci e nei lunghi rettilinei dove i motori a V le scappano via. Il bilanciamento e la guidabilità che hanno marcato la differenza negli anni migliori sembrano svaniti come d’incanto. Ma ai test estivi di Brno i giapponesi hanno promesso di portare una novità importante, l’embrione della M1 del prossimo anno. Una base su cui sviluppare la sfida del 2020. L’appuntamento di metà stagione con le novità di quella successiva un tempo era la norma, ma negli ultimi anni la consuetudine si è persa, a vantaggio di una difficile correzione in corso d’opera. Se dovesse rappresentare la svolta richiesta dai piloti, Rossi potrebbe trarne nuove motivazioni. Oggi più che mai il Dottore ha bisogno di crederci ancora. Per raccogliere le energie che servono ad affrontare un altro anno di gare (l’ultimo?), Rossi deve poter contare su una moto vincente, o quanto meno alla pari con la concorrenza. In Giappone hanno capito il momento, forse temono di perdere anzitempo il loro vessillo e stanno lavorando. Anche per loro è l’ultima occasione di tenersi stretto il pilota che più di ogni altro ne ha caratterizzato l’epoca moderna.
I problemi. La radiografia del momento no di Rossi ha evidenziato due fasi diverse e opposte. In gara, cadute a parte, Valentino sembra lo stesso di sempre: determinato, efficace, lucido. In prova pare invece l’ombra del campione conosciuto. Implacabile in gara, evanescente in qualifica. Due facce della stessa persona. Quest’anno Rossi è passato ben cinque volte dalla Q1 e soltanto in un caso è approdato alla Q2. Risultato: posizioni arretrate in griglia e gara di rimonta assicurata, con tutte le complicazioni del caso. Per evitare la tagliola della pre qualifica Valentino dovrebbe centrare ogni volta la top ten delle prove libere. Un tempo, forse, sarebbe stato un gioco e nessuno avrebbe messo in dubbio la sua capacità di soggiornare stabilmente nelle prime cinque posizioni. Talvolta vediamo invece un Rossi smarrito nelle fasi cruciali, in balia del momento, incapace di dominare la situazione con la sicurezza che gli apparteneva. Se il 46 non supererà questa fase, difficilmente potrà tornare a lottare per il podio. Le rimonte erano la sua specialità, ma nella Motogp di oggi paiono un’impresa. Anche per una leggenda come lui.
Si deve ritirare? Al termine di ogni gara priva di acuti, o dopo l’ennesima scivolata fatale, tifosi e non si pongono la solita domanda: “ma Rossi è finito?” Lui, il destinatario del quesito c’ha fatto l’abitudine e non se cura più. Come un disco incantato da una decina d’anni, diciamo dall’ultimo titolo del 2009, è come un suono sgradevole che tutt’al più gli scatena un motto d’ironia. Ogni grande campione conosce la risposta. Anche una leggenda come Rossi è consapevole dei suoi limiti fisici. Nessuno è immortale. Due anni senza vittorie sono l’indizio di un momento difficile, forse di una crisi, quanto passeggera lo sa soltanto l’interessato. Per risorgere servono forze mentali più che fisiche e questa risorsa a Rossi non difetta. Prima di “archiviarlo” velocemente, converrebbe aspettare ancora un po’. D’altro canto ciò che un tempo gli riusciva senza sforzo, oggi richiede un impegno assiduo e totale. La concorrenza cresce di gara in gara, i giovani avanzano e forse il tocco magico s’è perso definitivamente. Lui stesso ha descritto la sua carriera come una sequenza di periodi. Alla forza della gioventù, inevitabilmente passata, ha supplito con l’esperienza, l’allenamento continuo, il temperamento, sempre giovanile, quello sì. Quanto può durare? Solo chi gli è molto vicino può sondarne i patemi dell’anima, la tempesta di orgoglio e frustrazione in continuo conflitto. Soltanto se la motivazione non verrà meno, potremo vederlo riemergere dal tunnel dell’apatia dei risultati. Un’altra volta ancora.
Matteo Aglio per “la Stampa” il 3 luglio 2019. Nel 2003 a Brno Valentino, in una delle sue famose gag, si travestì da carcerato e dichiarò di «essere condannato a vincere». In quei tempi, non salire sul gradino più alto del podio ogni domenica era una piccola sconfitta e si parlava di crisi dopo una manciata di Gp andati storti. Sedici anni più tardi il Dottore non è ancora sceso dalla sua moto e, per certi aspetti, ora sembra condannato a correre: lo vuole lui per primo, ne ha bisogno il sistema MotoGp che non riesce ad emanciparsi da una figura a cui è legata a filo doppio. Rossi non fa il pilota ma è un pilota, significa che per lui respirare e sfrecciare a 300 km/h in equilibrio precario su due ruote sono concetti intercambiabili ed è il motivo per cui a 40 anni suonati non pensa ancora a smettere. È quello che piace ai tifosi che lo seguono a prescindere dai risultati in pista. L'influencer più veloce Valentino ha conquistato l'ultimo Mondiale 10 anni fa, la vittoria in gara manca da 2 e sta attraversando il suo momento peggiore in Yamaha (ad Assen per la terza volta consecutiva non ha visto la bandiera a scacchi e non gli capitava dal 2011, cioè dai tempi della Ducati). Tutto questo non basta a renderlo meno amato. Nel mondo virtuale su Facebook lo seguono in più di 13 milioni, oltre 7 su Twitter e 5 e mezzo su Instagram, numeri che gli permettono di doppiare tutti i suoi avversari e fare di lui l' influencer più veloce del mondo. Anche nei circuiti, in cui il colore giallo è dominante, non solo in Italia. Rossi è stato il primo pilota a riunire tante persone sotto una stessa bandiera, e può essere considerato la controparte a due ruote della Ferrari in F1. I numeri non mentono: in 15 dei 19 gran premi, il suo fan club collabora con i circuiti per realizzare tribune a lui dedicate e in un anno sono circa 71.200 i biglietti venduti per quei posti esclusivi. A settembre, a Misano, si raggiungerà il record di 18 mila persone, ma anche nel lontano Est non si scherza, con 10.800 posti (già tutti prenotati) in Malesia. Mettendo assieme questi tifosi, Valentino potrebbe organizzare un Gp solo per lui, senza contare gli altri appassionati sparsi nei circuiti. I dieci anni della VR46 Rossi non è solo una gallina dalle uova d' oro per gli organizzatori locali, ma anche un' azienda perfettamente strutturata. Nel 2009 fondò la VR46 per curare la sua immagine e il suo merchandising. In una decina di anni la sua crescita non vuole arrestarsi. Nel 2013 il fatturato era vicino agli 8 milioni di euro, nel 2014 aveva già raggiunto i 12 milioni e in quattro anni è praticamente raddoppiato, toccando quota 21.300.000 nel 2018. Molti piloti sono passati da Tavullia negli ultimi anni per essere seguiti dagli uomini del Dottore, anche Juventus e Lamborghini anno realizzato progetti con la VR46. Valentino non vincerà più a ripetizione come in passato, ma nel cuore degli appassionati non ha rivali. Ai piani alti della MotoGp devono prepararsi per tempo al suo addio, o il contraccolpo sarà terribile.
Da La Zanzara – Radio 24 il 13 giugno 2019. Ti danno del puttaniere, Carlo: “Non mi offendo, essere puttaniere è un’onorificenza, una medaglia”. Poi sbotta: “Sono arrivato adesso, per fare la tangenziale di Barcellona, la diagonale, ti sembra di andare sulla luna, porca troia. Meglio se andavo subito in un bordello, il posto c’è ed è consigliatissimo. Si chiama Felina, numero uno. Ce n’è uno a Valencia ed uno a Barcellona, tutte sudamericane. Guardatelo su internet e guarda che roba che c’è. Tutte venezuelane, colombiane…”. Carlo Pernat, manager famosissimo della MotoGp ed ex manager di Valentino Rossi e altri campioni delle moto, non si smentisce mai. A La Zanzara su Radio 24 fa l’elogio della prostituzione, di cui parla anche nel libro “Belìn, che paddock” pubblicato da Mondadori. “Che male c’è – dice – a chiamarla roba. Quando vai a comprare un libro, dici che compro un libro. E’ la stessa cosa. Ma, abbiate pazienza, siamo l’unico paese civile o forse incivile che non ha le case chiuse. Ma cosa siamo, deficienti? Vai in Austria e ci sono una serie di Babylon che fanno paura, bellissimo. Vai in Germania dove c’è la Merkel che dovrebbe essere quasi un santuario, ed è pieno di bordelli. Vieni in Spagna, è pieno di bordelli. Vai in Portogallo, che è un paese dove non si spende una mazza, che è ancora pieno di bordelli…Ma noi cosa siamo? Noi italiani facciamo guadagnare gli altri? Siamo fra i più grandi frequentatori di bordelli, e io sono nella top ten, e invece…Quando io vado a Zwelteg, dove c’è la F1 e le moto, c’è un bellissimo posto che si chiama Karisma ed è gestito da un italiano. Esportiamo le cose belle”. Ma è una vergogna gestire un bordello, dice Parenzo: “Una vergogna? Ma come che vergogna? Se non ci fossero i bordelli, sai quante guerre? Il mondo è pieno di seme ritenuto. Nel senso buono. Pensa un po’, se questi che non hanno approcci con le donne, sono timidi o brutti o grassi o pelati, non lo so, non avessero questo sfogo, sai quante guerre ci sarebbero? Ma stiamo scherzando? Il seme ritenuto può portare alla violenza. Se col seme ritenuto fai un boccione è un casino. E’ sempre meglio svuotare con una clessidra. C’è chi lo svuota piano, chi in altro modo. Ma devi svuotarlo, dai. Un mio amico diceva che del maiale si tiene tutto, lo sapete, no? Della maiala si tiene solo il numero di telefono”. Ma in Italia per la Corte Costituzionale la prostituzione non è mai libera e non è dignitosa: “E chi l’ha detto? L’ipocrisia è la cosa che rovina il mondo. E questa è ipocrisia vera e propria. Questi giudici sono ipocriti. Vi posso garantire che ho incontrato gente che lo fa anche volentieri. Poi che ci guadagnassero è un altro discorso. Gente che mantiene figli. E’ vero che buona parte sono ragazze madri. Però c’è una buona parte, un 70 per cento, che lo fanno per diletto. Spesso è una scelta che ti fa anche guadagnare di più, ma quale dignità violata”. E’ vero che ti sei fidanzato con alcune mignotte?: “Guardate che ci parlo, anzi, alcune sono anche amiche. Fidanzato è una parola grossa, le ho sempre tradite, io tradisco anche le troie. Non mi fidanzo, però le tradisco. Però alcune le ho portate anche in vacanza, ero invaghito che è la parola più giusta. Loro invece si invaghiscono molto di più della carta di credito rispetto all’uomo. Ho una carta di credito che se vado a vedere tutto il passato, ho uno Scottex di roba, ragazzi, avrei potuto comprare un appartamento”. “Ho fatto anche due conti – aggiunge - ed alla fine mi sono anche incazzato. Perché francamente sarei lì con le palle al sole, però non mi piace stare con le palle al sole. Ho speso quasi mezzo milione in mignotte ma non ho nessun rimorso, rifarei tutto quello che ho fatto, sono felice. Il mio motto è il tempo non passa, il tempo arriva. Quello che hai fatto ieri non conta un cazzo. Conta ciò che farai domani”. Sei mai stato fedele?: “Ho sempre tradito. Subito. Poi sono andato a sposarmi anche a Las Vegas. Il tradimento è anche qualcosa che fa andare avanti i rapporti, l’abbattimento di un rapporto è l’abitudine”. “Io – ripete - sono per le case chiuse, punto. Oggi chi è contro le case chiuse è ipocrita. Le case chiuse sono pulizia, legge, controlli, sanità, incasso per lo Stato. Sapete chi troviamo anche come sponsor? I preti. Anche loro ho incontrato nei bordelli. Andare a mignotte fa bene a mogli e fidanzate. Perché ci fai delle esperienze che con la moglie non hai. Ed alla moglie dici certe esperienze e le fai anche con lei”. Poi racconta un episodio: “Una volta c’era un giornalista, non ti posso far nome e cognome perché sarebbero botte da orbi, che mi ha pagato per scopare una mignotta mentre lui guardava in giacca e cravatta. Guardava e basta. In quel caso ho scopato gratis che per un buon genovese non è male. Alle femministe dico che ci sono anche uomini che fanno i prostituti. Per cui anche loro devono star zitte”. Cosa hai votato alle elezioni?: “Sono uno dei disgraziati che hanno votato CinqueStelle. Dico la verità, li ho votati per il cambiamento. Mi ero rotto le scatole un casino. Alle Europee sono andato a votare Salvini, dico la verità. Salvini mi dice sette cose su dieci che anche io penso. E’ abbastanza concreto. Poi è chiaro che se parliamo di cultura, il discorso è diverso. Il Pd è stato fortunato che ha cacciato via Renzi. Perché ogni volta che Renzi apre bocca, sono mille voti in meno. Ha fatto tante di quelle cretinate, stupidaggini, promesse che non ha mantenuto. Non era più credibile. Adesso il Pd farà fatica a venire su. Però un po’ di cultura ci vuole. Ma ci vogliono le decisioni. La democrazia è una bellissima cosa, ma non decide mai una sega di nessuno”.
· Formula Uno, Hamilton 6 volte campione del mondo.
Formula Uno, Hamilton campione del mondo. Gp Usa, vince Bottas. Il finlandese vince ad Austin, ma il britannico,secondo, trionfa per la sesta volta il titolo mondiale: "E' una sensazione travolgente". Le Ferrari: Leclerc quarto, Vettel ritirato. La Repubblica il 03 novembre 2019. Il britannico Lewis Hamilton si è laureato per la sesta volta campione del mondo di Formula 1. Il pilota della Mercedes si è piazzato al secondo posto nel Gp degli Stati Uniti, disputato sul circuito di Austin, alle spalle del compagno di scuderia Valtteri Bottas, che gli ha soffiato il successo a pochi giri dalla fine. Completa il podio texano l'olandese Max Verstappen, al volante di una Red Bull. Quarta, ma staccatissima, la Ferrari di Charles Leclerc. Ritirato, invece, Sebastian Vettel a causa di una rottura alla sospensione anteriore durante il corso dell'ottavo giro. In top-10, e dunque in zona punti, anche Alexander Albon, Daniel Ricciardo, Lando Norris, Carlos Sainz, Nico Hulkenberg e Daniil Kvyat. Hamilton quindi si conferma tra i più grandi di sempre: superato Juan Manuel Fangio al secondo posto in quanto a titoli mondiali, davanti c'è solo Michael Schumacher con sette sigilli. Un'ascesa costante, che coincide con il passaggio del britannico alla Mercedes, con la quale ha centrato quattro degli ultimi cinque campionati. La Ferrari invece prosegue il digiuno iridato, che dura ormai dal 2007, quando fu Kimi Raikkonen a portare il titolo piloti a Maranello. A Stoccarda, invece, possono brindare per l'ennesimo trionfo tutto argento, in un binomio perfetto con il talento sopraffino del driver inglese. "E' travolgente, è stata una gara difficile, ieri è stata una giornata complicata, Valterri ha fatto una gara fantastica, mi sono impegnato il più possibile, ringrazio il mio team, le persone in fabbrica e tutta la mia famiglia". Sono le prima parole da campione del mondo di Lewis Hamilton. "Mio padre mi ha insegnato quando avevo 6-7 anni a non mollare mai, ed ho spinto quanto potevo, volevo regalare una vittoria ma non sono bastate le gomme. Quanti titoli ancora posso vincere? Non so quanti campionati possono vincere ma mi sento fresco come una rosa. Grazie a tutti i tifosi inglesi e anche americani che mi hanno sostenuto con tutto il mio cuore". Male le Ferrari. Charles Leclerc quarto, alle spalle del rivale olandese della Red Bull Max Verstappen - che ha completato il podio - e Sebastian Vettel che si è ritirato, dopo essere partito in prima fila proprio al fianco di Bottas. La Ferrari di Vettel ha faticato fin dal via, il primo giro è stato addirittura disastroso. Un prologo ad handicap per il tedesco che non è riuscito a sfruttare la prima fila ed è stato staccato immediatamente da Bottas. Dopo soli 8 giri si è materializzato lo spettro del ritiro, anche se "il motore non c'entra", ha ammesso lo stesso ferrarista. E' stata la sospensione posteriore a tradirlo, facendogli anche correre un bel rischio: la gara di Vettel si è conclusa mestamente con il tedesco che è tornato a capo chino ai box, dopo avere adagiato la propria vettura. "Non ho una idea di ciò che non è andato. Una gomma non funzionava come previsto. Oggi abbiamo fatto molta fatica. Una power unit più vecchia non è l'ideale ma il gap non è stato per quello. Incubo Ungheria? Facevano fatica, almeno io. Non capisco perché il primo stint è andato così male", analizza invece Charles Leclerc. Il Gp texano ha vissuto sul duello tutto in casa Mercedes fra Bottas ed Hamilton che se le sono date come nemmeno fra due acerrimi avversari. L'ha spuntata il finlandese nel finale, ma per il britannico c'è stato spazio per un trionfo annunciato. Gli sarebbe bastato l'ottavo posto, ad Austin ha addirittura rischiato di vincere. Hamilton è partito dalla terza fila, dopo avere ottenuto il quinto tempo nelle qualifiche, ma ha scalato posizioni su posizioni e alla fine si è seduto sul trono del Gran premio, dal quale solo Bottas è riuscito a spodestarlo, conquistando la settima vittoria in carriera. A un certo punto, nel box Mercedes, hanno pure temuto che le due auto della stessa scuderia finissero in rotta di collisione. Hamilton ha dovuto però rallentare a causa delle gomme troppo usurate. Altrimenti avrebbe allungato le mani anche sul Gp degli Stati Uniti, riempiendo di significati ulteriori il proprio titolo mondiale.
Massimo Brizzi per gazzetta.it il 3 novembre 2019. Lewis 6 fortissimo. Anche se la gara la vince Bottas. Il GP di Austin incorona Lewis Hamilton campione del mondo di F.1: sesta volta in carriera, meglio di Juan Manuel Fangio e con il solo Michael Schumacher a tiro. Che l’inglese fosse in mezzo ai grandissimi della storia della F.1 già si sapeva, ma ora può guardarli tutti da una posizione più alta, proiettato a una scalata di cui non si intravede la fine. Il suggello arriva in Texas, dove Hamilton contende fino alla fine la vittoria di tappa al compagno, ma indossa un’altra maglia iridata, che nessuno riesce a sfilargli da tre anni di fila. Strategie differenti, in casa Mercedes, con Bottas che fa due soste, come Verstappen, brillante terzo con la stessa tattica, mentre Lewis una sola. Nella lotta a distanza, nel finale ha la meglio il finlandese, in grande spolvero in tutto il week end, a coronare lo champagne della grande festa Mercedes. La Ferrari incappa in una gara incolore, che rimette in discussione le recenti, brillanti, prestazioni: Leclerc è 4° 52 secondi, distacco imbarazzante anche considerando il tempo perso al primo pit stop per un problema con una pistola pneumatica, e mai in ritmo. Va peggio a Vettel, che deve addirittura ritirarsi con la sospensione posteriore destra k.o. dopo una manciata di giri e un avvio tribolato. Chiudono nei punti: 5° Albon; 6° un Ricciardo abbastanza vivace; 7° Norris; 8° Sainz; 9° Hulkenberg e 10° Kvyat. Bottas sfrutta bene il momento chiave della partenza: passa in testa alla prima curva, mentre alle sue spalle Verstappen brucia Vettel e il tedesco della Ferrari rimane invischiato in due battaglie. Prima con Hamilton, che lo passa con una mossa pregevole, poi con Leclerc, che lo supera dopo un duello duro, ravvicinato e con un leggero contatto. Seb denuncia in radio problemi alla sua rossa ed è solo il preludio del k.o. che arriva al 9° giro per un cedimento della sospensione posteriore destra. Nella giostra delle soste, Verstappen anticipa tutti (12° giro), Bottas lo segue immediatamente (13°), a parità di mescola (bianca), mentre Hamilton allunga lo stint (25° giro), sintomo di una strategia differente. Infatti, Bottas si ferma una seconda volta (36° giro) e nel finale cerca il recupero forte di gomme più veloci (gialle contro bianche) e fresche. La partita si gioca qui: sull’assalto del finlandese e la resistenza dell’inglese. Il distacco si riduce: 8”, 6”, 4”, 2” e duello a vista. Duro. Lewis prima regge, poi si inchina al compagno e deve guardarsi anche dall’arrivo di Verstappen, che gli finisce in scia. Festa, coriandoli, gloria e applausi per Hamilton: personaggio bizzarro, pilota straordinario, campione vero e degnissimo. Tutti in piedi!
Vincenzo Piegari per ansa.it il 3 novembre 2019. Dal primato di Fangio già alle spalle a quello dei sette titoli di Michael Schumacher ormai vicinissimo, il tutto in nome dell'ambiente e della filosofia vegana. La gioia per aver conquistato l'ennesimo titolo con la Mercedes, il sesto, è grande, ma sarà immensa solo quanto si realizzerà il vero obiettivo di Lewis Hamilton, ovvero restare nella storia della Formula 1 come e magari anche meglio di Re Schumi agguantandolo il prossimo anno a quota sette Mondiali per poi tentare il sorpasso nel 2021 quando, però, le regole tecniche del Circus saranno rinnovate. Dopo essere entrato nel club dei più grandi piloti (da Fangio a Prost, passando per Lauda e Senna) il primo pilota di colore del Circus è diventato il secondo driver di sempre per numero di titoli, dietro solo all'idolo dei ferraristi. Il quinto titolo mondiale vinto nelle ultime sei stagioni, il sesto della carriera, lo consacra definitivamente nell'Olimpo della regina della velocità. Il pilota più "cool" del circus - ha conservato la Mercedes sul gradino più alto, costringendo i team avversari più ambiziosi - dalla Ferrari alla Red Bull - ad un'altra annata di cocenti delusioni, se si esclude la seconda parte della stagione in cui la Rossa ha rialzato la testa grazie all'intraprendenza di Charles Leclerc trionfatore a Spa e a Monza di fronte al popolo della scuderia di Maranello. A 34 anni Hamilton, origini anglo-caraibiche, ha ormai superato tutte le insicurezze che, come egli stesso ha raccontato, avevano seguito la vittoria del primo titolo, nel 2008, al volante della McLaren. Talento innato, con l'esperienza ha affinato le qualità che ne hanno fatto il campione solido e determinato che è oggi: stile di guida aggressivo, ma non sconsiderato, tenacia ed abilità nei sorpassi, velocità fin dai primi turni delle qualifiche. Tredici stagioni ad alto livello - non è mai sceso più giù del quinto posto nella classifica piloti - gli hanno insegnato a lasciarsi scivolare addosso la pressione che circonda la prima guida di un team di Formula 1, specie se quello della Mercedes, marchio che rappresenta dal 2013. Quando indossa il casco ed abbassa la visiera chiude fuori il personaggio un po' rockstar, a volte all'apparenza quasi leggero per quella passione per i social che lo porta ad aggiornare praticamente in tempo reale i suoi profili social. Quest'anno, in particolare, si è fatto notare per la sua particolare attenzione per la salvaguardia dell'ambiente e la difesa a spada tratta della dieta vegana. L'estinzione umana è "sempre più probabile perché abusiamo delle nostre risorse", recitava un passaggio apocalittico di un post del campione. Niente di nuovo ai tempi della "Greta Generation", ma Hamilton come la stessa giovane svedese Thunberg sui social è stato attaccato pesantemente con l'accusa di predicare bene e razzolare male. Tanti i flirt attribuitigli dopo la fine della storia con la fidanzata "storica", la cantante Nicole Scherzinger. Ma i suoi veri "amori" sono Coco e Roscoe, due bulldog inglesi, inseparabili compagni e star del web al punto da avere un account personale su Instagram con oltre 140 mila follower. Oltre alla svolta vegana e all'impegno per la difesa dell'ambiente, Hamilton si è assunto anche il ruolo di ambasciatore dell'Unicef a sostegno dei minori colpiti dalla malnutrizione. Innumerevoli poi i riferimenti culturali, artistici e sportivi che non sempre i suoi fan riescono a cogliere. Tra le sue tante sfaccettature, nel 2017 Hamilton non fece mancare il sostegno alla protesta anti-Trump degli sportivi statunitensi.
Chi è Nicolas, il fratello di Hamilton pilota disabile. Lewis: «Mi ispira». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 da Corriere.it. Lewis Hamilton lo ha ripetuto più volte: una delle sue fonti d’ispirazione è il fratello minore (per parte di padre) Nicolas. Colpito da una paralisi celebrale dovuta a una nascita prematura, Nic, come tutti lo chiamano, ha lo stesso carattere combattivo del fratello maggiore e ha vinto altrettante sfide: nel 2007, quando Lewis si affacciava per la prima volta nel paddock della F1, il fratello era sempre con lui in pista, spesso costretto sulla carrozzina. Oggi, dopo anni di rieducazione motoria, palestra e piscina, Nic non la usa più e cammina da solo. Non è finita qui: è riuscito a diventare un pilota a sua volta. Corre, con una macchina adeguatamente modificata, nel campionato Turismo inglese, in passato ha corso in quello Europeo (con la SEAT León Supercopa da 300 Cv che conclude con un ottimo decimo posto assoluto) e nella Renault Clio Cup.Anche se Nic non è più una presenza fissa a ogni gara di Lewis, il legame tra i due fratelli è rimasto fortissimo. «Quando ero piccolo, chiedevo sempre a mio papà: dammi un fratello. Alla fine è arrivato e già questo mi ha reso felice. Nicolas è un ragazzo disabile, ma ho scoperto e capito che persone nelle sue condizioni hanno una personalità formidabile: cade e si rialza, cade e si rialza sempre. Con serenità. Confesso: mi insegna molto», ha confessato Lewis in un’intervista al Corriere della Sera. Nic, però, ci tiene a rivendicare la sua autonomia. Vive in un bilocale a Hertford e ci tiene a ripetere spesso di non prendere una lira da suo fratello, sei volte campione del mondo di F1, ma di essere riuscito a raccogliere sponsor da solo. «Molte persone credono che io chieda soldi in prestito a Lewis per correre, è facile giudicare da fuori — ha detto in un’intervista al Sun —. Siccome lui è multimilionario pensano mi dia 2 milioni per correre: non è così».
Lewis Hamilton è campione del mondo: i genitori separati, il fratello malato, nessuno è come lui in F1. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Giorgio Terruzzi. Gliene manca ora uno solo per raggiungere Schumacher. Lewis Hamilton, campione del mondo per la sesta volta. Nessuno come lui: Juan Manuel Fangio a quota cinque; Michael Schumacher a quota sette. Un primato che questo campione integro, estroverso, maturo e velocissimo ha in mente di eguagliare a brevissima e di superare prima di chiudere una carriera da libri di storia. Come Schumi, ha vinto con due squadre diverse (Benetton e Ferrari per Schumacher): un Mondiale con McLaren, nel 2008; ben cinque con Mercedes negli ultimi sei anni (una eccezione: Nico Rosberg, 2016). Come Schumi ha fatto brillare il proprio talento sin dai primi chilometri. Come Schumi proviene da una famiglia dai ridotti mezzi economici, il che innesca una fame strepitosa. Lewis, data di nascita 7 gennaio 1985; Stevenage, Inghilterra, madre britannica, Carmen; padre originario di Grenada, Anthony; è cresciuto con la percezione della fatica e della sofferenza: precoce separazione dei genitori, un fratello, Nicolas, gravemente malato. Per non parlare delle discriminazioni razziali. Abbastanza per fortificarlo nel carattere, un’operazione completata nell’anno dell’esordio in F.1 con McLaren – il team che l’aveva «adottato» — data la tempra del suo primo compagno di squadra, Fernando Alonso. È sempre stato un predatore, un fenomeno da qualifica. Nel tempo ha proposto una evoluzione strepitosa del proprio talento, imparando a ragionare, a rinunciare pur di ottenere, mantenendo uno stato di forma strepitoso lungo una intera stagione. Il tutto condito da una crescente abilità nella comunicazione, con puntualissimo e sapiente uso della rete. Ha interessi sparsi ovunque, nel mondo della musica e della moda soprattutto senza che tutto ciò possa distrarlo più di tanto dal proprio lavoro. Ha 34 anni, è in piena forma fisica, ha stretto con Mercedes un legame epocale (anche questa è una similitudine con quanto accaduto tra Schumacher e Ferrari) incrinato soltanto da Rosberg che resta l’unico compagno ad averlo messo in crisi. Un compito che comunque ha portato Nico al ritiro una volta conquistato il titolo iridato, certo di aver speso ogni risorsa per ottenerlo. Hamilton parla di ecologia, di ambiente, di alimentazione (è vegano), fa conti aperti con le contradizioni connesse ad un pilota di F.1 – non certo un mondo votato all’ecologia. Piace, sa di piacere, sa come attirarsi le simpatie della platea. Soprattutto vince. Ha messo a nudo Vettel, dato come antagonista certo nel recente passato. Ha capito che con gente tipo Verstappen e Leclerc potrebbe avere vita più difficile. Ma il problema, ormai, è tutto di chi vuole batterlo. E se un grande campione può permettersi di perdere, diventa, se possibile, ancora più forte.
· La vita spericolata di Raikkonen.
La vita spericolata di Raikkonen: «Nel 2013 ubriaco per 16 giorni di fila». Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Lorenzo Nicolao su Corriere.it. Kimi Raikkonen oppure Oscar Wilde? Le rivelazioni del pilota finlandese in un’intervista esclusiva per «Motorsport» sono quasi un elogio all’edonismo, sorprendenti se dette da quello che tutti chiamano «Iceman», un campione che solitamente non ama parlare con giornalisti. L’ex ferrarista, ora in forza all’Alfa Romeo Sauber, è un fiume di dichiarazioni sul suo modo di vivere la carriera e il comportamento fuori dalla pista, confermando quanto è stato scritto sul suo libro, una testimonianza dove il pilota non ha voluto nascondere nulla. «Sì, vi ripeto di essere stato ubriaco per sedici giorni di fila. Io non ricordo quel periodo del 2013, fra il Gp del Bahrain e quello di Barcellona, ma altri lo hanno fatto per me. Abbiamo girato l’Europa e abbiamo trascorso un periodo bellissimo. A mio parere è quasi normale, è giusto si faccia ciò che diverte di più. Bere e fumare ha certamente migliorato la mia vita». Raikkonen non ha problemi a parlarne, pure quando viene confrontata la sua condotta con quella di un perfezionista come Lewis Hamilton. «Ognuno ha un proprio metodo, non importa quale sia. Se ami la lettura devi leggere, se ami praticare sport devi farlo. Mi chiedete se è vero che fumavo. Sì, non me ne pento. Lo facevo anche sulla terrazza con il capo e nel motorhome. Una volta capitò anche ad Abu Dhabi e non mi hanno detto nulla. A dispetto di quanto dicono, non fumavo però durante le riunioni della Lotus». Dal 2013 molte cose sono cambiate, ha ricordato l’ultimo pilota che ha vinto in F1 con la Rossa (2007), ora quasi 40enne. «Con la famiglia ho dovuto mettere in primo piano altre priorità. Amo soprattutto dedicarmi ai miei figli Rianna e Robin, quando non sono in pista». Nel libro si parla anche del rapporto con loro e con la moglie Jenni Dahlman, sua connazionale sposata nel 2004, poi della sua esperienza in Formula Uno. «Non mi piace parlare con i giornalisti è vero, ma ho pensato fosse giusto pubblicare questo libro senza omissioni sulla mia vita professionale e privata, anche del mio periodo selvaggio. Vi confesso che è uno dei pochi libri che ho letto. Leggere mi ricorda molto la scuola, quando ne hai tanti e non ne finisci neanche uno. Ho provato il rally per guidare senza avere le pressioni dei media, ma poi si sa che la F1 è la classe regina sognata da qualsiasi pilota, così sono tornato». Dopo la Lotus il ritorno in Ferrari nel 2014, ma pochi sono stati i successi come in quel 2007, fino al passaggio in Alfa a fine 2018, dove in questa stagione sta continuando a mostrare le sue qualità da veterano dei circuiti. Infine una battuta su Ron Dennis, in passato più nemico che amico. «È vero, fu lui a chiamarmi “Iceman”, ma non perché il nostro rapporto fosse freddo. Abbiamo avuto sul lavoro tanto da discutere nei miei anni in McLaren, ma questo non ha mai condizionato la vita personale. Oggi se lo incontro ci parliamo tranquillamente».
· Schumacher family.
Roberto Valenti per "f1grandprix.motorionline.com" il 12 novembre 2019. Willi Weber, ex manager di Michael Schumacher, ha parlato delle condizioni dell’ex pilota, sottolineando come la famiglia non intenda far trapelare nulla al pubblico. Intervistato dal quotidiano Kolner Express, Willi Weber ha parlato delle condizioni fisiche di Michael Schumacher, sottolineando come lui non sappia assolutamente le reali condizioni di salute del campionissimo tedesco. A causa della privacy imposta da Corinna, infatti, l’ex manager del sette volte iridato non ha mai avuto la possibilità di andarlo trovare. Michael, ricordiamo, sta affrontando un lungo processo di riabilitazione dopo il danno cerebrale accusato sulle piste del Meribel e attualmente non si conoscono le sue reali condizioni di salute. Una situazione particolare, dovuta alla privacy imposta dalla famiglia, che sta creando un grandissimo chiacchierare. “So che Michael è gravemente ferito, ma sfortunatamente non ho notizie dei suoi progressi”, ha affermato l’ex manager del tedesco. “Mi piacerebbe stringergli la mano, magari sapere come sta, ma tutto questo è rifiutato da Corinna. Teme che capisca immediatamente la verità e che riveli tutto al pubblico”. Weber, tuttavia, non intende perdere la fiducia: “Credo fermamente nella guarigione di Michael. E’ un combattente e utilizzerà tutte le possibilità in suo possibile. Questa non può essere la fine. Prego per lui e sono convinto che prima o poi lo rivedrò”.
Schumacher, la moglie Corinna: ''Michael è nelle migliori mani possibili''. Corinna torna a parlare: ''Vi preghiamo di comprendere la volontà di Michael nel mantenere la privacy. E' nelle migliori mani possibili''. Antonio Prisco, Domenica 10/11/2019, su Il Giornale. ''Potete stare certi che Michael è nelle migliori mani possibili e che stiamo facendo di tutto per aiutarlo'' torna a parlare Corinna Betsch, moglie di Michael Schumacher. A quasi sei anni dal quel terribile del 29 dicembre 2013 che ha cambiato la vita del campione tedesco, la moglie Corinna rompe il silenzio e si confessa in un’intervista a She's Mercedes Magazine, tabloid in lingua tedesca della casa automobilistica di Stoccarda. E' un momento di gioia per la famiglia Schumacher. La figlia Gina Maria, impegnata a Verona nell'evento di reining Elementa Masters Premiere, ha letteralmente dominato la kermesse dominando in tutte le competizioni compresa quella di Freestyle in costume dove ha scelto di omaggiare Michael, indossando tuta e colori della Ferrari. Una passione quella della 22enne, eredita da mamma Corinna, anche lei campionessa di reining nonché una delle principali allevatrici a livello mondiale di cavalli. Corinna ha ricordato come, proprio grazie all’aiuto del marito che vent’anni fa, in occasione del decimo anniversario di matrimonio, le regalò un ranch con 40 cavalli, ha potuto realizzare uno dei suoi più grandi sogni: ''Quando avevo 30 anni desideravo moltissimo avere un cavallo e Michael venne con me a Dubai perché volevo comprare un purosangue arabo. Oggi mi rende felice vedere mia figlia poter fare ciò che ama e aver già raggiunto il successo. Ma non dimentico chi devo ringraziare di tutto questo, ovvero mio marito. Proprio Michael è stato il primo in famiglia ad aver compreso il grande talento della piccola: ''Mi disse che un giorno Gina Maria sarebbe stata più brava di me e la cosa allora non mi piacque molto. Io lavoravo giorno e notte con i cavalli cercando di capire tutto. Ma lui diceva che ero troppo carina e che Gina invece aveva più polso e carattere e questo mio marito l'aveva intravisto''. Intanto Schumy continua la riabilitazione, sul marito Corinna ha mantenuto la linea di sempre, confermando le poche informazioni ufficiali che in questi anni sono state fornite da lei e dall’addetta stampa del tedesco, Sabine Kehm: ''Potete stare certi che Michael è nelle migliori mani possibili e che stiamo facendo di tutto per aiutarlo. Vi preghiamo di comprendere che stiamo seguendo le volontà di Michael nel mantenere la privacy su un argomento così delicato come la sua salute''. Resta quindi l'assoluto riserbo sulle condizioni fisiche di Schumacher che nel terribile incidente sulle nevi di Meribel riportò un gravissimo trauma cranico, senza più comparire in pubblico. A conoscere le sue reali condizioni di salute si sa sono in pochissimi, solo familiari e qualche amico fidato che può andare a trovarlo, i quali hanno sempre assicurato: ''Michael è un combattente e non si arrende''. Schumacher al galoppo. Sembra Michael, stessa tuta rossa, stesso sorriso. E invece è Gina, la figlia 22enne del pluricampione del mondo di Formula Uno, da anni bloccato in un letto d'ospedale. Nel corso della 121esima edizione di Fieracavalli a Verona Gina Schumacher ha partecipato agli Elementa Masters Première, una gara di reining (il dressage della monta western) tra le più ricche al mondo. Poi in serata si esibita nel Freestyle, una prova in costume a ritmo di musica. E lì il colpo di scena: Gina è scesa in campo con la tuta da pilota della Ferrari, una tuta indossata anche dal cavallo, ed ha persino mimato un pit stop. Che in più portava anche un alettone, come fosse un vero bolide di Formula Uno. "È un omaggio a mio padre", ha spiegato l'amazzone, di solito restia a parlare del papà e delle sue condizioni di salute.
Chi è Gina Maria Schumacher, la figlia di Michael campionessa (mondiale) di equitazione. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Lorenza Cerbini. Gina Maria, 22anni, in sella a Libellicimo nella prova Freestyle Elementa Masters Premiere che si è svolta a Fieracavalli. Per anni, quando il padre era il pilota campione della Ferrari che vinceva Mondiali in serie, Gina Maria e il fratello Mick erano tenuti ben nascosti dalle attenzioni del pubblico: di loro bambini sono circolate sempre pochissime foto e i genitori, Michael Schumacher e Corinna, stavano ben attenti a proteggerne la privacy. Adesso che Michael vive da sei anni i postumi del terribile incidente sugli sci, avvenuto nel dicembre 2013 sulle Alpi francesi, sono i ragazzi che vegliano a difesa della privacy del padre, contribuendo, assieme alla madre, a mantenere vivo il ricordo del campione, sotto il segno dell’hashtag #keepfighting («continua a combattere»), senza però fornire particolari sul reale stato di salute di Schumi. Intanto Mick è diventato un personaggio pubblico, dato che ha scelto la strada più difficile: pilota con la Academy Ferrari, ora in Formula 2 e in attesa del grande salto in Formula 1 che prima o poi arriverà. Gina Maria Schumacher, 22 anni, primogenita, è meno nota del fratello, ma non certo meno competitiva: è diventata infatti campionessa (mondiale ed europea) di Reining, la disciplina dell’equitazione americana che si ispira al lavoro dei cowboy, passione che condivide con il fidanzato. Da bambina correva in kart ma poi da adolescente ha prevalso la passione per i cavalli, ereditata dalla mamma Corinna, amazzone di talento e allevatrice, a cui Gina Maria assomiglia molto. Sembra che prima del tragico incidente sugli sci anche Schumacher avesse cominciato a dedicarsi al Reining. È stata Corinna a contagiare tutta la famiglia, tanto che tanti anni fa aveva convinto Michael ad acquistare un ranch nel Texas. La disciplina, infatti, riprende alcuni movimenti dei cowboy. Gina Maria si è laureata nel 2017 campionessa del mondo e nel 2019 ha conquistato con la Germania il titolo europeo a squadre. Sabato sera, a Fieracavalli, a Verona, per rendere omaggio a Michael, si è esibita vestita con la tuta della Ferrari del padre e ha simulato anche un pit stop. È stata, questa, una delle poche manifestazioni pubbliche che riguardano il padre. Anche sui social, Gina Maria è molto discreta. Su Insagram, poco dopo l’incidente, aveva scritto solo: «C’è solo una felicità in questa vita, amare ed essere amati».
· Damiano Caruso e la mafia.
Damiano Caruso: “SAVIANO FA BUSINESS CON LA MAFIA, FALCONE CI È MORTO”. Da Il Napolista il 25 luglio 2019. L’Equipe dedica due pagine di intervista a Damiano Caruso, siciliano, gregario di Nibali. Il siciliano tocca vari temi, tra cui anche la mafia e il padre che ha fatto da scorta a Giovanni Falcone.
Il padre nella scorta di Falcone. “Mio padre è entrato in polizia dopo il servizio militare, non aveva lavoro e si è ritrovato a Palermo nel 1984 nella scorta del giudice Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, e aveva appena 19 anni”. “Me ne parla con orgoglio e fierezza, col sentimento di aver vissuto momenti storici. Falcone è stato il primo a combattere apertamente la mafia. All’epoca era diverso, bisogna avere una sacro coraggio, un grande senso del sacrificio per mettere la propria vita in gioco, come ha fatto mio padre per un altro, per un milione e e 200mila delle vecchie lire, gli attuali 600 euro”.
Saviano si fa bello ma vive di questo. “La mafia bisogna raccontarla ma Saviano fa business, nella Serie Gomorra lui talvolta romanza, si fa bello ma vive di questo. Lui odia la mafia e se ne nutre. Falcone, invece, ha pagato con la vita”.
La Sicilia. “Io vivo la vera Sicilia, Ragusa è a Sud, è una zona turistica, la mentalità è più aperta, io abito a 200 metri dalla villa del commissario Montalbano, quello della serie tv, mi è capitato di assistere a qualche ripresa”.
I siciliani. “Il siciliano si lamenta facilmente e non fa nulla per cambiare le cose, ma io non piango mai. Vivo in Sicilia e ne sono felice. Spesso mi dicono: sei cretino a rimanere là, dai la metà dei tuoi guadagni allo Stato ma io mi rifiuto di farmi cambiare dal denaro e se mia moglie Ornella non avesse supportato la mia scelta di fare il ciclista, le mie assenze, mi sarei accontentato di una vita più tranquilla. Sì guadagno, ma non potrei mai vivere in 20 metri quadrati a Montecarlo o a Lugano. Abbandonare la Sicilia equivale a condannarla. Quando vado all’aeroporto, sono sereno perché so che la mia famiglia è tranquilla dov’è”.
Mi manca una grande vittoria. “Mi manca una grande vittoria. Quest’anno, al Giro, avrei potuto vincere la tappa del Mortirolo. A Ponte di Legno ero più veloce di Ciccone e Hirt ma mi hanno chiesto di aspettare Nibali. Pioveva, ero congelato, ho aspettato, è il contratto. Se mi avessero considerato un po’ di più, avrei vinto. A forza di essere gregario, di sacrificarsi per la squadra, si perde il senso della vittoria”.
Sottovalutato. “Corro nell’ombra del gruppo, nel limbo, tra il paradiso e l’inferno. Non si parla mai di me, posso comprenderlo ma talvolta sono sottovalutato e mi piacerebbe che la stampa fosse più democratica”.
· Vincenzo Nibali.
Nibali, una vita a pedali: «Io marinaio che naviga in bicicletta». Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 su Corriere.it da A. Fulloni. «Mi sento un marinaio che naviga a pedali per 35 mila chilometri l’anno. In bici vedo il mondo sempre più soffocato dalla plastica. Sto con i ragazzi che manifestano per l’ambiente perché nessuno tranne loro sembra preoccuparsi del nostro destino». Tra un mese Vincenzo Nibali compirà 35 anni, il suo tachimetro segna quasi mezzo milione di chilometri, il curriculum è già quello del più forte ciclista italiano dei tempi moderni: ha vinto due Giri d’Italia, Tour e Vuelta salendo 11 volte sul podio. Ha conquistato la Milano-Sanremo, due Lombardia e 50 altre corse. Ora cambia squadra: dagli emiri del Bahrain agli americani della Trek-Segafredo.
Vincenzo, le sue preoccupazioni per lo stato dell’ambiente sono recenti?
«La bici è un osservatorio perfetto del traffico, dell’inquinamento: la situazione è drammatica. Trovi plastica ovunque. La politica dovrebbe imporre regole diverse ai produttori».
La politica per lei è…
«Importante. Non mi schiero, ma penso che un politico — come un atleta — non possa affrontare sfide decisive carico di odio per gli avversari e cercando la rissa. Sono per chi fa politica rispettando il prossimo e senza urlare».
Altro tema caldo, l’immigrazione.
«La mia Sicilia è terra di emigrati, io ho lasciato l’isola a 16 anni per fare il ciclista e mio nonno partì in nave per l’Australia dove lavorò cinque anni come muratore per costruire casa a Messina. Sono per accogliere chi scappa da guerra o fame, mi chiedo se per aiutare queste persone si debba far rischiare loro la vita sui barconi e perché l’Europa non ci dia una mano».
Torniamo indietro nel tempo: 15 febbraio 2005?
«Debutto da professionista al Trofeo Laigueglia, in Liguria, a 21 anni. Caddi malamente in discesa ma arrivai al traguardo. Sintesi della mia carriera: si cade ma ci si rialza».
11 aprile 2005.
«La prima Liegi-Bastogne-Liegi, una delle corse più belle e dure. Dietro di me c’era solo l’ambulanza. Arrivai ultimo a 17 minuti dal vincitore».
Una delle poche grandi corse che non ha vinto. Nel 2012 fu 2° dietro al kazako Maksim Iglinskij, che pochi mesi dopo si rivelò dopato.
«Non provo rancore. Non penso mai che un mio avversario possa essere dopato, anche se su di lui ci sono sospetti: non avrei la serenità per sfidarlo. Ha vinto, forse era pulito. Poi si è dopato e l’hanno cacciato. In questi casi c’è una cosa importante da fare».
Quale?
«Distinguere l’errore dalla persona e non criminalizzare nessuno. Danilo Di Luca, che è stato mio compagno di squadra, è un dopato recidivo che ha meritato una lunga squalifica. Ma era un uomo e un capitano generoso e resta un amico anche se si è fatto travolgere dalla smania di guadagnare. Rispetto a quando ho cominciato vedo meno gente predisposta al doping».
Le corse più dure della sua carriera?
«La Liegi del debutto, il Giro delle Fiandre 2018 e poi la tappa del Gardeccia del Giro 2011: 8 ore in bici, disumano».
Gli avversari più coriacei?
«Froome e Contador».
La salita più dura?
«Lo Zoncolan, in Friuli».
Il momento più difficile?
«Il 2018, quello della caduta al Tour de France provocata da un tifoso maldestro».
Sarebbe salito sul podio?
«Non è quello il punto. Col passare degli anni il corpo assorbe peggio le brutte cadute, la posizione in bici si modifica e fai fatica a trovare quell’equilibrio che ti garantisce di andare forte. Quando l’ho ritrovato ero felice».
In 15 anni lei ha corso in quattro squadre con filosofie totalmente diverse.«Ho cominciato con Fassa e Liquigas: tradizione, serietà e cultura italiana. Grande scuola. Poi l’Astana che mi ha lanciato con la vittoria al Tour e la Barhain che è stata un’apertura verso il mondo arabo. Ora la Trek Segafredo: un misto di Italia e Usa. Una bella sfida».
Sua figlia Emma ha già cinque anni.
«Novembre è il mese in cui stiamo più assieme: tra gare e ritiri passo oltre 200 notti fuori casa e io, lei e mia moglie ci vediamo solo via Whatsapp. È dura. Emma sta imparando le lettere dell’alfabeto e scriverle con lei su un foglio di carta è un’emozione che nemmeno immaginavo».
Cosa le manca della Sicilia da cui è partito a 16 anni.
«Il mare sullo sfondo».E delle sue corse di ragazzino tra Sicilia e Calabria?«Nulla, sono momenti di una vita che continua».I suoi idoli nello sport?«Non ne ho mai avuti».
Mai tifato?
«Di certo non per il calcio. Ho sempre seguito con interesse i motori. I duelli tra Rossi e Biaggi sono stati il massimo del mio tifare».
Cosa farà tra due o tre anni quando smetterà?
«Non lo so. Non il direttore sportivo: non ne ho né le qualità né il carattere. Piuttosto il manager. Un sogno segreto ce l’ho, ma non lo dico».
Domani disputerà il suo 12° Giro di Lombardia.
«Corsa meravigliosa: le strade, la gente, le “foglie morte” a bordo strada che si vedono per davvero».
Ha visto l’ultimo Mondiale, la sconfitta bruciante di Matteo Trentin nel finale.
«Purtroppo sì. Negli ultimi chilometri avrei scommesso qualunque cifra su Matteo. Ma il ciclismo è anche questo: perdi quando meno te l’aspetti, perdi quando sei o pensi di essere il più forte».
Quanto tempo ci vuole per digerire una batosta del genere?
«Molto tempo. Ma alla fine passa tutto».
Il prossimo anno l’attendono due grandi sfide: Mondiale e Olimpiade.
«E almeno altri 80/90 giorni di corsa con la maglia del club. Tra poco metteremo mano al calendario: non sarà facile con così tante gare».
In bici, purtroppo, si muore e ci si fa male, sempre più. Consiglierebbe a un ragazzo di fare il ciclista?
«Traffico, rotonde ma sopratutto disattenzione: l’abuso del telefono è spaventoso. Ai ragazzi dico: imparate con Bmx e mountain bike. Vi tenete lontano dai pericoli e sviluppate la tecnica».
· Mario Cipollini.
Lucca, l’ex moglie di Cipollini in aula: «Mi ha puntato la pistola alla tempia». Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Gasperetti. La testimonianza di Sabrina Landucci, sposata nel 1993, nel processo all’ex campione di ciclismo per stalking, lesioni e maltrattamenti. «Mi ha anche inseguito in auto». Un pistola puntata alla tempia, maltrattamenti, scenate, inseguimenti in auto stile film thriller, botte, insulti. Gli ultimi anni di quel matrimonio vip, tra Mario Cipollini, l’ex campione di ciclismo e Sabrina Landucci, sono stati un inferno. Almeno secondo la testimonianza che la signora ha reso nella seconda udienza del processo a Lucca che vede Cipollini imputato per stalking, lesioni e maltrattamenti in famiglia. Davanti al giudice Sabrina Landucci ha raccontato una serie episodi sconcertanti. Il più drammatico prima della separazione. «Eravamo nella nostra casa di Monte San Quirico, vicino a Lucca – ha raccontato la donna – e abbiamo avuto un ennesimo litigio. Mio marito era arrivato a casa all’alba e io avevo sospettato un tradimento. Quando gliel’ho detto lui mi ha picchiata e trascinata in camera. Poi mi ha puntato una pistola carica alla tempia». Sabrina Landucci ha raccontato di essere stata sotto la minaccia dell’arma per diverso tempo. «Non era neppure la prima volta perché mi aveva già rincorso una volta armato con la sua pistola», ha poi aggiunto. L’ex moglie di Cipollini ha poi spiegato che dopo le violenze, il marito si pentiva, si metteva a piangere e chiedeva scusa. Ma poi tutto tornava come prima. Gli atti persecutori non si sarebbero interrotti neppure dopo la separazione, sempre secondo la testimonianza della donna, e un giorno ci sarebbe stato anche un pericoloso inseguimento in auto. Il matrimonio Cipollini-Landucci venne celebrato nel 1993 con schiere di paparazzi e tv e sembrava un’unione perfetta. E invece nel 2005 arrivò la crisi fatale. Con il flirt super mediatico tra il campione di velocità e la modella Magda Gomes. Cipollini e la Landucci tentarono una riconciliazione, che però fallì.
Mario Cipollini, operato al cuore dopo i guai giudiziari. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 da Corriere.it. I guai giudiziari con l’ex moglie Sabrina Landucci potrebbero aver avuto un impatto sulla salute dell’ex campione di ciclismo Mario Cipollini. Come riporta infatti la Gazzetta dello Sport, il Re Leone è ricoverato nel reparto di cardiochirurgia all’ospedale Molinette di Ancona per accertamenti ed è stato sottoposto a una particolare coronarografia. Roberto Corsetti, il medico che lo segue, ha spiegato che nelle scorse settimane l’ex atleta, oggi 52enne, lo ha chiamato perché si sentiva affaticato sotto sforzo: «Abbiamo quindi svolto dei test con sotto la lente di ingrandimento due tipi di problemi: una aritmia che in forma leggera ha sempre avuto, ma che ora potrebbe essere mutata in una forma maggiore, e una possibile particolare alterazione, non seria, della morfologia cardiaca». Effettuate una angiotac e una coronarografia, cioè delle analisi dei vasi sanguigni e delle arterie coronariche. In seguito, come riporta Tuttobiciweb, sono stati effettuati due interventi di ablazione al cuore, uno lunedì sera e uno mercoledì mattina. In queste settimane a Lucca sono in corso le udienze nel processo per stalking, lesioni e maltrattamenti in famiglia a carico di Cipollini, accusato da Sabrina Landucci di averle puntato una pistola alla tempia durante una lite prima della separazione, e di avere dopo proseguito con atti persecutori culminati in un pericoloso inseguimento in atto. Il matrimonio tra il ciclista e la modella, celebrato nel 1993, era durato 12 anni.
· Saronni vs Moser.
Saronni, la verità di una spallata "Sono stato io a toccare Moser". Domani si corre il campionato italiano a Compiano, teatro 38 anni fa del litigio: dal contatto alla frase infelice di Beppe. Pier Augusto Stagi, Sabato 29/06/2019 su Il Giornale. Quel giorno fu sufficiente che i due si sfiorassero. La spalla di Giuseppe Saronni finisce per toccare lieve quella di Francesco Moser. Tra i due è già scoppiata da un pezzo la rivalità, troppo diversi per essere amici; troppo ambiziosi per non diventare acerrimi rivali. Quel giorno a Compiano, sulle strade tricolori della Val di Taro, se lo ricordano bene entrambi, più Beppe Saronni che è sempre stato pronto ad inzigare il trentino. È sufficiente un piccolo contatto, con la spalla. Quella di Moser che intercetta quella di Saronni e il Beppe nazionale che butta lì uno stizzito quanto provocatorio «ma se non sai più andare in bicicletta, stattene a casa». Lo sceriffo così era chiamato in gruppo Moser non la prende benissimo e gli giura battaglia: gliela farà pagare. «Ero stato io a toccarlo inavvertitamente ci racconta Saronni e oggi posso dire che non è stata una bella idea dirgli quello che gli ho detto. Non è stato né carino né tantomeno utile. L'ho caricato a molla e me l'ha giurata. Non l'ho più visto se non all'arrivo». Moser quel giorno finisce davvero per dominare la sfida tricolore sul traguardo di Compiano, dove domani Nibali, Aru, Trentin, Visconti e Ulissi si contenderanno il titolo di campione d'Italia. Alla fine, dopo trentotto anni - dicasi 38 - Giuseppe Saronni ammette di aver sbagliato. Quel 21 giugno del 1981 il campione di Parabiago se lo ricorda bene. «Ricordo bene anche quel circuito ci racconta Saronni, che domani tornerà su queste strade per seguire da vicino i ragazzi della UAE Emirates, Fabio Aru e Diego Ulissi su tutti -. Stavo bene, avevo una buonissima condizione e puntavo a quella maglia tricolore. Era un tracciato selettivo, quasi tutto in salita: diciannove giri, pari a 237 chilometri e 3800 metri di dislivello. Da battere tanti campioni del calibro di Moser, Argentin e Baronchelli. Ad un certo punto, quando i chilometri cominciano a farsi sentire, inavvertitamente la mia spalla tocca la sua e io pronuncio l'infelice frase. Franz la prende malissimo. Talmente male che parte rabbioso all'attacco. Se solo fossi stato meno impulsivo, non sarebbe finita in quel modo». Finisce con Francesco che supera allo sprint i suoi due compagni di fuga: Wladimiro Panizza, compagno di squadra di Saronni e Alfredo Chinetti. È un Saronni che dice di aver riposto le armi, ma non è così quando si parla di Moser. «La nostra rivalità? Bella, vera e autentica. Accusavo Vincenzo Torriani, l'organizzatore del Giro, di disegnare la corsa rosa per Francesco, ma oggi lo posso dire: quello che andava bene a lui era perfetto per me. Però sapevo come farlo innervosire, anche se ogni tanto non mi andava bene, proprio come quel giorno a Compiano». Uno dei ricordi più belli? Al Giro 1983, il secondo successo rosa per Saronni. «Tappa che finisce sui Colli di San Fermo, nella Bergamasca. Poco prima d'incominciare a salire, Francesco mi affianca e mi dice: Beppe, io mi fermo qui, mi ritiro. Ho capito che le corse a tappe non fanno per me. Complimenti. Insomma, riconosce la mia forza. Questa cosa mi colpì molto». Poi però arrivò il progetto della Enervit, quello che prevedeva l'assalto al record dell'ora e per Francesco ci fu una seconda giovinezza, che culminò nel 1984 con il primato dell'ora e la conquista di Sanremo e Giro d'Italia. «In verità l'Enervit venne prima da me e poi andò anche da Gregor Braun, ma chi sposò il progetto fu Francesco: anche in quell'occasione, rifiutando, mi sono trovato a fare il suo gioco». Ammette di aver fatto più volte il gioco di Moser, per questo gli chiediamo di fare anche le carte alla sfida tricolore di domani (226,9 km). Su un percorso molto simile a quello di 38 anni fa, domani si assegna ancora una maglia tricolore. Al via il campione uscente Elia Viviani, Matteo Trentin, Vincenzo Nibali, Fabio Aru, Diego Ulissi, Giovanni Visconti, Alberto Bettiol, Davide Ballerini, Fausto Masnada, Mattia Cattaneo, Alessandro De Marchi, Sonny Colbrelli, Giulio Ciccone, Giovanni Carboni e via elencando. «Del circuito duro, loro faranno solo dieci giri, contro i 19 che facemmo noi racconta Beppe -. Non voglio sembrare scortese, ma non c'è paragone. Quello di oggi è un tracciato severo, ma il nostro era impossibile. Chi vincerà? No, questa volta sto zitto: è meglio».
Francesco "perdona" l'amico-nemico "Esagerò, ma non è stata l'unica volta". «Aveva un modo di dire le cose che mi mandava in bestia: come al Giro '79». Pier Augusto Stagi, sabato 29/06/2019,su Il Giornale. Si ritroveranno domani, anche loro, a trentotto anni da quella famosa sfida tricolore. Beppe Saronni ammette d'aver sbagliato, Francesco se la ride compiaciuto. «Beh, è andata davvero così. Mi rispose talmente male che a me girarono letteralmente gli zebedei, e io gliela giurai. Beppe era un bel tipino: diceva le cose in un modo talmente sgradevole che a me mandava in bestia. Non l'ho mai sopportato. Sono contento che oggi ammetta di avere esagerato, e non è stato solo in quella circostanza». La rivalità prende corpo e forma al Giro ‘79. Quello rivelatore per Beppe Saronni, che strappa a sorpresa la maglia rosa a Francesco Moser nella cronoscalata di San Marino (8° tappa, ndr). «Lui andava molto forte, e per me fu davvero un brutto colpo ricorda il campione trentino -. Aveva appena 21 anni ma si comportava già come un veterano, con quel suo modo saccente di parlare, da primo della classe. Si lamentava perché io e la mia squadra non tiravamo. Ma se la maglia rosa era sulle sue spalle, la responsabilità della corsa era sua e della sua squadra». Francesco parla con passione, e mentre ricorda s'infervora come se tornasse a quei giorni, carichi di passione e antagonismo. Gli chiediamo di quella resa al Giro dell'83, poco prima di cominciare a scalare i colli di San Fermo. Francesco, in questo caso, fatica a ricordare... «È vero che lo affiancai per dirgli che mi ritiravo, perché non avevo una condizione accettabile, ma non ricordo assolutamente di aver detto che i Grandi Giri non erano fatti per me. Gli ho fatto i complimenti? Mah, forse. È probabile, anche se io non ricordo, ma se lo dice lui». Si ricorda però molto bene le loro sfide, che per anni sono state il sale del ciclismo degli Anni Settanta/Ottanta. «La nostra è stata davvero una rivalità molto sentita: vera e autentica, non costruita. Certo, da un punto di vista mediatico ci ha fatto del bene, e gli sportivi credo che si siano divertiti parecchio. Meno utile per noi dal punto di vista delle vittorie. Eravamo chiaramente i più forti e se solo ci fossimo messi d'accordo, avremmo vinto due volte di più di quello che abbiamo vinto. Invece, ci facevamo i dispetti. Piuttosto di far vincere lui, io facevo in modo che vincesse qualcun altro. Come al tricolore dell'85, sulle strade del Veneto, un percorso adattissimo a Beppe; io mandai all'attacco Claudio Corti, mio compagno di squadra, che poi conquistò la maglia tricolore». Oggi però si frequentano, e i loro ricordi sono spettacolo puro: un susseguirsi di aneddoti e frecciate, senza esclusioni di colpi, tra due vecchi e acerrimi rivali, che oggi possono essere considerati amici. «Ogni tanto ci s'incontra, e Beppe di tanto in tanto viene anche a casa mia. La mia più grande soddisfazione? Da qualche anno beve i miei vini. Pensi, glieli faccio anche pagare». E non finisce qui...
· La Maledizione del Tour.
LA MALEDIZIONE DEL TOUR. Pino Farinotti per “Libero Quotidiano” il 6 luglio 2019. Se racconti il Tour de France come puoi non dire «grandeur»? È un dato indiscutibile, perfettamente aderente alla Francia tout court. Dal 1903 a quest' anno siamo all' edizione 106. Il Tour è l' evento sportivo, annuale, più importate del mondo: le olimpiadi e i mondiali di calcio si celebrano ogni quattro anni. Il Tour è una massa enorme. È un romanzo d' appendice, una cronaca, un' acta diurna, ma anche un' enciclopedia e una tragedia. Ed è una grande pittura. Il fotogramma di Bartali che passa la borraccia a Coppi è l' immagine che rappresenta il ciclismo in assoluto. E fa parte del Tour de France del 1952. E poi, naturalmente, il Tour è una «nazione mobile». Raccontata dalla televisione con la massima qualità e gli investimenti maggiori, illustra le terre di Francia: le Alpi e i Pirenei, il Massiccio Centrale, la Normandia e la Riviera. Per concludersi sul circuito finale nella magica suggestione dei Champs-Élysées. Sì, la corsa, e lo spettacolo più grandi del mondo.
Nell' immensa storia del Tour scelgo un contesto e un momento, importanti: il 1938. A fine settembre si terrà la conferenza di Monaco. Parteciperanno le maggiori potenze: Francia, Inghilterra, Germania e Italia. Mussolini intende esserne protagonista e si organizza. Sensibilissimo all' immagine e alla propaganda si concentra su due eventi di enorme importanza e visibilità. I mondiali di calcio, che si disputeranno in Francia, e il Tour de France. Ed entra in scena Gino Bartali. Il Duce lo convoca a Palazzo Venezia e gli ordina di vincere il Tour. Gino non può che rispondere «farò del mio meglio». «No, deve vincere, del resto avrebbe già vinto lo scorso anno, se non avesse avuto quell' incidente». L' anno prima Bartali, in maglia gialla, era caduto in un torrente e aveva dovuto ritirarsi. Sì, avrebbe vinto. Uscendo dalla stanza il corridore incrocia un calciatore che sta entrando e che conosce, è Peppino Meazza, al quale verrà impartito l' ordine di vincere i mondiali. I due... eseguiranno. Il 19 giugno del 1938 l' Italia batte l' Ungheria 4 a 2 e diventa campione del mondo per la seconda volta. Mussolini troneggia circondato dai capi di stato europei. Non è finita. Il 31 luglio Bartali arriva a Parigi in maglia gialla. Mussolini è lì ad assistere. Il duce si è dunque apprestato una piattaforma formidabile. È leader di un Paese che domina nei due sport più popolari. Sarà l' eroe di Monaco con l' autorevolezza per favorire l' annessione dei Sudeti, parte della Cecoslovacchia ma di lingua tedesca, alla Germania. Un regalo fatto al suo amico Hitler che sembra soddisfatto e placato mentre sta già preparando l' attacco alla Polonia che poco più di un anno dopo scatenerà la seconda guerra mondiale.
Il regime, molto attento alla propaganda, aveva assunto come testimonial alcuni eroi dello sport, come Carnera, Meazza e Bartali, appunto. Ma il toscano non era un... affiliato. Si affrancò da quel ruolo, collaborando con la Resistenza: salvò centinaia di ebrei nascondendo documenti nel telaio della bicicletta. Non ne parlò mai, solo di recente, è notorio, la vicenda è emersa, e Bartali è stato nominato "Giusto fra le nazioni". Meglio che vincere i Tour.
Un segnale, pesante, che il Tour si addica a Bartali arriva dieci anni dopo la prima vittoria, nel 1948, ed è un altro segnale politico, di colore del tutto diverso. La vicenda è nota, è quando Bartali riceve, per telefono, da Andreotti, l' ordine di vincere il Tour per distrarre l' attenzione del popolo dall' attentato a Togliatti. E, ancora un volta, esegue. A 34 anni rivince la corsa oltre a 7 tappe.
Sopra, nelle definizioni, ho attribuito al Tour il lemma "tragedia". È proprio così. La maledizione di Tutankhamon è, al confronto, una banale superstizione. È un fatto che molti dei vincitori della corsa, anche fra i più importanti, siano morti giovani e... male. Ci sono state ricerche in quel senso. Una teoria accreditata è che quelle fatiche, a luglio, con sforzi estremi prodotti magari ai 40 gradi, probabilmente con l' aiuto di additivi - allora non c' era l' antidoping - possano aver compromesso alcuni equilibri e difese. Può essere. Ma ecco le storie. Gli italiani. Ottavio Bottecchia vinse il Tour nel 1924 e '25, da dominatore. Il 3 giugno del 1927 venne trovato agonizzante ai bordi di una strada vicino a Peonis, paese del Friuli. Morì pochi giorni dopo. E quella morte fu sempre un mistero. Si parlò di malore, di incidente, qualcuno rilevò anche la posizione politica di Bottecchia, che non si dichiarava fascista. Fausto Coppi, due tour vinti, morì, quarantenne, nel 1960. Per una malaria non curata. Ma forse gli anticorpi del campionissimo risentivano delle fatiche immani, e del resto, di una carriera ventennale. Gastone Nencini, vincitore nel 1960, è morto nel 1980, a soli 49 anni. Di cancro. Marco Pantani: la sua storia è recente e non è chiusa. Nel 1998 vinse Giro e Tour, roba per pochi.
L' anno dopo venne squalificato per doping. Di fatto non si riprese più. Cadde in depressione e il 14 febbraio del 2004 venne trovato morto nella stanza di un residence di Rimini. Causa della morte un' overdose di cocaina. Ma forse c' era dell' altro. Proseguo per cronologia. Petit-Breton: vinse il Tour nel 1907 e l' anno dopo. Nel 1917 si arruolò, morì il 20 dicembre di quell' anno, nelle Ardenne.
Hugo Koblet, lo svizzero bello che si pettinava prima di tagliare il traguardo, vinse il Tour nel 1951. Morì nel 1964, a 39 anni, schiantandosi contro un albero con la sua Alfa Romeo. la "nazione mobile" Louison Bobet: vinse 3 Tour consecutivi (1953-1955). Ebbe successo anche dopo le corse, come imprenditore. Morì nel 1983 a soli 58 anni, di infarto.
Jacques Anquetil, vincitore 5 volte, primatista. Gli piacevano le donne e la bella vita. Morì nel 1987, di tumore, aveva 53 anni. Louis Ocaña, hidalgo tormentato, tenne testa al cannibale Merckx, vinse il Tour nel 1973, dopo aver sfiorato altre vittorie sfumate per fortune o incidenti. Caduto in depressione per motivi di salute si sparò un colpo di pistola nel 1994. Aveva 49 anni. Laurent Fignon: vinse il Tour nel 1983 e nell' 84. Morì a 50 anni nel 2010, di tumore al pancreas.
Sì, storia triste e tragica, anche questa nel quadro della grandeur transalpina. Domani partirà il Tour. Sarà il solito spettacolo con tante vicende sportive e umane, e tutti gli scenari che sappiamo.
· Il Doping. Tutti dopati. Armostrog: anche senza si vince lo stesso.
Doping di Stato, la sentenza Wada: Olimpiadi e mondiali senza Russia per 4 anni. Alessandro Fioroni il 10 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La decisione della Wada: gli atleti russi non parteciperanno alle olimpiadi di Tokyo e a quelle invernali di Pechino atteso il ricorso. Quattro anni di esclusione «manomessi I dati». «Per troppo tempo il doping russo ha distolto l’attenzione dallo sport pulito e la sfacciata violazione da parte delle autorità russe delle condizioni poste per il reintegro della Rusada, approvate nel settembre 2018, esigeva una risposta forte», a parlare è Craig Reedie, presidente dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada) che spiega in questa maniera determinata la clamorosa decisione di una delle massime istituzioni sportive nel mondo. La Wada, riunita ieri a Losanna in Svizzera, ha comunicato di aver escluso, per i prossimi quattro anni, la Russia dalle competizioni olimpiche. A fortissimo rischio per gli atleti di Mosca sono così i Giochi di Tokio 2020, le Olimpiadi invernali di Pechino 2022. L’Agenzia ha ritenuto di dover procedere in questa maniera per una presunta recidività russa nel falsificare i dati dei controlli antidoping. Il provvedimento riguarda anche alti dirigenti dello sport russo e gli esponenti politici che potrebbero presenziare alle gare. In realtà la vicenda parte da lontano. La Rusada ( l’organizzazione russa per i controli antidoping) era stata già sanzionata nel 2015, in gergo tecnico era stata definita “non conforme”, a seguito di un rapporto della stessa Wada realizzato dall’avvocato dello sport Richard MacLaren nel quale veniva evidenziata una situazione allarmante nell’ambito dell’atletica russa con una sorta di doping “sponsorizzato “dallo Stato. Un’altra inchiesta dell’anno successivo, reso pubblico a luglio, precisava i termini delle accuse e se possibile rincarava la dose: la pratica del doping infatti avrebbe coinvolto una «vasta maggioranza» degli sport olimpici estivi e invernali. Nonostante tutto però nel 2018 la Rusada venne riammessa nel consesso dello sport mondiale dopo aver accettato di rendere noti i risultati delle sue analisi, realizzate nel laboratorio di Mosca, relative al periodo tra gennaio 2012 e agosto 2015. Sembrava una storia chiusa dunque ma ancora una volta le comunicazioni russe hanno omesso elementi fondamentali. Anche quest’anno infatti risulterebbero incoerenze e manipolazioni dei dati antidoping degli atleti. E’ scattata così una nuova inchiesta e alla fine sono state accolte le raccomandazioni del Comitato di revisione della conformità ( CRC), una vera e propria azione forense sulla base della quale si è deciso per l’esclusione dalle massime competizioni. Ora la Rusada ha 21 giorni di tempo per appellarsi contro la decisione presso il Tribunale arbitrale per lo sport ( Tas). Le decisioni di questo organismo sono inappellabili e le chance russe di ribaltare la situazioni appaiono ridotte al lumicino. Il ricorso dunque non sembra scontato e verrà approvato o meno dal consiglio di vigilanza della Rusada che si riunisce il prossimo 19 dicembre. Se infatti per il capo dell’Agenzia antidoping di Mosca, Yuri Ganus, non c’è «nessuna chance di vincere questo caso in tribunale», l’ex pattinatrice olimpica Svetlana Zhurova, ora deputata della Duma, è di tutt’altro avviso: «sono sicura al 100% che la Russia ricorrerà al Tas perché dobbiamo difendere i nostri atleti.» E sono proprio gli sportivi a subire le conseguenze più dirette non potendo gareggiare, anche se è stata lasciata una via di uscita. Coloro che riusciranno a dimostrare di non essere coinvolti nel “doping di Stato” russo potranno comunque partecipare sotto una bandiera neutrale. Apparentemente sembra un’incongruenza con la pretesa severità della Wada, ma è già successo. Nel 2018 infatti a Pyeongchangli, nel corso delle Olimpiadi invernali, 168 atleti russi furono costretti a rinunciare a inno e bandiera per un altro scandalo scoppiato dopo i Giochi di Sochi. Il medagliere fece registrare 13 ori. In ogni caso, anche se inevitabile, la sanzione decisa della Wada rimane pesantissima, anzi c’è chi, come la vicepresidente dell’Agenzia antidoping mondiale Linda Helleland, ritiene l’esclusione «non sufficiente» e reclama misure «che non possono essere annacquate». Un freno per un mercato, quello del doping, in continua evoluzione che costringe le autorità di controllo a un costante adeguamento delle norme. Dagli ambienti della Federclacio russa però è trapelata la notizia che non verranno annullate le partite dell’Europeo 2020 ne la finale di Campion’s League. Per Vyacheslav Koloskov «la decisione Wada non annullerà la decisione della UEFA: non ci sono motivi per farlo.»
Riccardo Crivelli per La Gazzetta dello Sport l'11 dicembre 2019. Impegnato a Parigi nei delicati colloqui con il neopresidente ucraino Zelensky, Vladimir Putin ha atteso un giorno per prendere posizione sul nervo scoperto della squalifica di quattro anni dello sport russo da tutte le competizioni maggiori. Il presidente sposa ovviamente in toto la linea dell' attacco politico alla nazione: «Ogni punizione dovrebbe essere individuale sulla base di ciò che ogni singola persona commette, non ci possono essere sanzioni collettive, lo sanno bene anche gli esperti della Wada. La decisione non ha nulla a che fare con lo sport, non c' è nessun intento di salvaguardare lo sport pulito. Noi faremo ricorso contro questa sentenza politica. La Wada ha violato la carta olimpica». Anche Yelena Isinbayeva, l'ex zarina del salto con l' asta, non usa giri di parole per esternare la sua rabbia: «Le sanzioni sono crudeli, ingiuste, atroci e assassine». Yelena, 37 anni, due ori olimpici e tre titoli mondiali, attualmente è anche membro Cio e dunque la sua voce fa più rumore: «Non capisco in che modo la Wada possa difendere i diritti degli atleti russi puliti chiedendo loro di gareggiare sotto la bandiera neutrale». Sulla decisione storica della Wada e del Cio è intervenuta con una lettera aperta sul sito Championat.com anche Mariya Lasitskene, Kucina da nubile, oro mondiale nel salto in alto a Pechino 2015 sotto i colori della Russia, oro mondiale a Londra 2017 e Doha 2019, ma assente ai Giochi di Rio (dove era favorita) a seguito del bando della federazione russa di atletica sempre per lo scandalo doping. I suoi strali, sotto forma di domande velenose, sono rivolti soprattutto ai dirigenti sportivi del suo Paese. La tre volte campionessa iridata si chiede perché «non ci sia stata una punizione delle persone principali responsabili di aver avvallato il doping», o ancora perché «i nostri atleti continuino a usare sistematicamente sostanze vietate, perché gli allenatori collegati al doping continuino a lavorare senza essere puniti e in che modo i nostri funzionari sportivi possano continuare a falsificare i documenti ufficiali». Mariya, cui i fan su Instagram hanno addirittura suggerito di cambiare nazionalità se le dovesse essere impedito in qualche modo di partecipare all' Olimpiade di Tokyo, sostiene anche che le tante commissioni create non hanno prodotto risultati e si chiede «che cosa hanno fatto per me il ministero dello sport e le commissioni olimpiche negli ultimi 4 anni? L' atletica leggera in Russia sta scomparendo, mi dite quali motivazioni si possono avere a gareggiare da neutrale? Io sono un' atleta russa e dovrei avere il diritto di partecipare liberamente alle competizioni con i colori russi». Intanto Jonathan Taylor, presidente del comitato Wada che ha suggerito la sanzione, ha comunicato che qualora la Russia si qualificasse per i Mondiali di calcio in Qatar del 2022, la Fifa si troverebbe costretta a modificare il proprio statuto che al momento non prevede la partecipazione di squadre neutrali, cioè non espresse formalmente dalla Federazione calcistica di un paese.
Doping Iannone, il giallo della carne dietro la positività all'anabolizzante. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Marco Bonarrigo e Daniele Sparisci su Corriere.it. Un ciclista positivo a un controllo antidoping non fa notizia, un motociclista sì. Andrea Iannone, 30 anni, abruzzese, forse il più grande talento inespresso delle due ruote italiane. Uno capace di riportare la Ducati a vincere nella MotoGp dopo anni di digiuno (nel 2016, in Austria), il punto più alto di una carriera condita da litigi e incomprensioni. Tatuaggi, anelli, «The Maniac» di soprannome («Perché sono un perfezionista»), notissimo anche alle cronache (rosa) per le relazioni con Belen Rodriguez prima e con l’influencer Giulia De Lellis oggi. La Federazione internazionale ha annunciato martedì la sospensione provvisoria della licenza all’atleta, non negativo a «uno steroide anabolizzante compreso nella sezione 1.1.a della lista Wada 2019» dopo il Gp di Sepang, in Malesia, dove Iannone è caduto nella gara vinta da Maverick Viñales. La categoria 1.1.a include oltre 20 sostanze assimilabili al testosterone e prevede una squalifica fino a due anni. La notizia è arrivata a Iannone mentre si trovava a Noale, nella sede dell’Aprilia, per il tradizionale brindisi di Natale. L’abruzzese è intervenuto sui social: «Sono tranquillo e ci tengo a tranquillizzare i miei tifosi e Aprilia Racing. Sono disponibile a qualunque controanalisi in una vicenda che mi sorprende, anche perché non ho ricevuto comunicazioni ufficiali. Negli anni e anche in questa stagione mi sono sottoposto a continui controlli, risultando sempre negativo. Ho massima fiducia nella conclusione positiva della vicenda». La sospensione della licenza gli impedisce di partecipare a ogni tipo di attività in pista, allenamenti compresi. I primi test della MotoGp sono previsti a febbraio proprio in Malesia: se Iannone dovesse insistere nel chiedere le controanalisi i tempi del procedimento potrebbero essere lunghi. Curiosamente, il motociclismo è uno degli sport con più positività all’antidoping del panorama sportivo: il 2,1% se si considerano tutte le discipline, il 2,6% nelle gare su pista. Ma questo è il primo caso nella MotoGp. I ciclisti si fermano all’1,2%. Quella di Iannone è anche la prima positività a uno steroide: nelle urine dei piloti di solito vengono rintracciati stimolanti. Gli steroidi servono a incrementare potenza e resistenza, ma l’utilità «professionale» in uno sport motoristico è molto dubbia, considerato lo svantaggioso aumento di peso. Dagli ambienti vicini a Iannone filtrano varie ipotesi. La più accreditata è quella di una possibile contaminazione della carne mangiata nel mese di soggiorno nel Sud-est asiatico, tra ottobre e novembre. Il rider dell’Aprilia, infatti, dopo il Gp della Thailandia (6 ottobre) ha deciso di non tornare in Europa, ed è rimasto in Asia in vista del «trittico» Giappone-Australia-Malesia. Nell’ipotesi di contaminazione alimentare, i precedenti non sono favorevoli a Iannone: la marciatrice messicana Guadalupe Gonzales e il lunghista americano Lawson, positivi al trenbolone (anche loro sostenevano di averlo ingerito accidentalmente), sono stati condannati. Altra ipotesi, quella dell’utilizzo di un farmaco per curare i problemi di cui da tempo Iannone soffre alla spalla. In due casi la Federazione ha condannato atleti positivi dopo aver consumato integratori contaminati acquistati su internet, ma la sanzione è stata ridotta solo per chi aveva ammesso l’acquisto. Attentissimo alla forma fisica, Iannone ama mostrare le foto in palestra dei suoi bicipiti ancora più degli scatti in sella. Da settembre si è separato dallo storico manager Carlo Pernat ed è seguito dal clan familiare, il padre Regalino e il fratello Angelo. «Gli voglio bene e spero che Andrea superi questa storia — dice Pernat, già spalla di Capirossi e Rossi — mi spiace solo che un motociclista del suo talento, uno dei migliori che ho avuto, non sia riuscito a sfruttarlo per problemi suoi». La fidanzata De Lellis ha affidato un messaggio di sostegno ai suoi 4 milioni di follower: «Chi ti conosce sa: non servono altre parole». Dopo le controanalisi, Iannone verrà processato dalla Federazione e potrà appellare la sentenza al Tas di Losanna. La stagione 2020 per lui rischia di essere compromessa, l’Aprilia non l’ha scaricato ma in caso di squalifica ha già pronta l’alternativa. Accanto all’altro titolare Aleix Espargarò, sotto contratto c’è la riserva Bradley Smith. Per Iannone adesso inizia il Gp della verità.
Doping, sesso e gelosia: inietta Epo alla mezzofondista a sua insaputa. Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Bonarrigo. Ophélie Claude-Boxberger, campionessa nazionale dei 1500 tradita dall’allenatore. Il movente? La gelosia per la relazione di lei con il medico della Nazional. Il dentifricio contaminato dal testoterone, le bistecche dal nadrolone. Il cognac che sintetizza miracolosamente nel sangue steroidi proibiti, certi rapporti sessuali che fanno apparire dal nulla la gonadotropina sintetica nel sangue. Roba vecchia: la vicenda di doping più rocambolesca della storia dello sport è stata appena scritta in Francia e ha come protagonista Ophélie Claude-Boxberger, campionessa nazionale dei 1500 metri e dei 3000 siepi. Testata a sorpresa il 18 settembre dall’agenzia antidoping, Ophélie è risultata positiva alla vecchia, micidiale Epo. Scandalo, non solo per l’ormone ma perché la Claude-Boxberger (31 anni) avrebbe da tempo fatto perdere la testa allo storico medico della nazionale di atletica Jean-Michel Serra (56 anni) che per lei ha lasciato moglie, figli e - dicono i maligni - anche la meticolosa cura con cui seguiva gli atleti. L’agenzia fruga nei suoi archivi e scopre che - un anno fa - il dottore aveva chiesto agli ispettori di «mollare un po’ la presa nei controlli antidoping» della ragazza per non minarne la già fragile psicologia. Insomma, il materiale scottante non manca: con una lettera aperta gli atleti della nazionale francese chiedono chiarezza sul fronte sanitario, considerata anche la telenovela della maratoneta Calvin, sfuggita agli ispettori in un suk marocchino. Venerdì, altro colpo di scena. La Gendarmerie arresta per 48 ore Ophélie e Alain Flaccus, 62 anni, compagno della madre. Flaccus ha un passato torbido: ex allenatore, venne radiato dalla federazione una decina di anni fa dopo che Ophélie l’aveva denunciato (ritirando poi la querela) per aggressione sessuale. Nel 2018 la madre avrebbe inviato la figlia ad riprenderlo come coach, mentore e all’occorrenza massaggiatore. «Lo perdonai - ha spiegato l’atleta - perché me lo chiese mamma, ma la ferita non si era cicatrizzata». Ai gendarmi Flaccus dichiara di aver iniettato Epo a Ophélie durante un massaggio dopo averla rilassata fino ad addormentarla. Il movente? Gelosia per l’amore tra la sua pupilla e il dottor Serra. Dopo aver visto la ragazza in carcere, l’uomo però si è pentito del gesto e ha vuotato il sacco. A casa di Flaccus i poliziotti hanno trovato - nemmeno troppo nascosta - altra Epo che l’ex coach dice di essersi procurato (classico) in un parcheggio da uno sconosciuto che parlava con un forte accento dell’est. «Alain mi ha tradito per la seconda volta» dice in lacrime la Boxemberger. Spiazzati, investigatori e agenzia antidoping non commentano. Se si tratti di colossale bufala o del complotto del secolo forse non lo sapremo mai.
Maxi operazione antidoping in Europa: 234 arresti, 1000 indagati, sequestrate 24 tonnellate di prodotti proibiti. Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Corriere.it. Il nome in codice è «Operazione Viribus». Si tratta, a detta di Europol, la rete di coordinamento delle polizie europee, della più grande azione giudiziaria contro il doping mai messa in atto nel Vecchio Continente. I numeri sono impressionanti: le operazioni si sono svolte in 33 nazioni diverse (incluse ramificazioni negli Stati Uniti e in Asia), le persone arrestate sono state 234 con legami dimostrati verso 17 diverse organizzazioni criminali, quelle identificate e segnalate all’autorità giudiziaria come consumatrici oltre mille. Oltre 24 le tonnellate di prodotti proibiti ritrovati e sequestrati durante le perquisizioni. A supporto dei sequestri e delle intercettazioni sono stati raccolti e avviati a controllo quasi 1.400 campioni di sangue e urina prelevate ad atleti. A fare da capofila e promotore dell’inchiesta è stato il Nucleo Antisofisticazioni (Nas) dei carabinieri italiani. «Questo è il risultato — ha dichiarato Günter Younger, direttore dell’intelligence dell’Agenzia Mondiale Antidoping (Wada) — di come una collaborazione tra diverse organizzazioni e vari Paesi può dare risultati concreti nel combattere un fenomeno di portata ormai internazionale». Nell’operazione sarebbe stata individuata una rete di spaccio e somministrazione legata a decine di laboratori clandestini mentre una parte importante dei prodotti è costituita da steroidi anabolizzanti. La stessa operazione ha consentito di individuare e sequestrare, nella provincia di Salerno, un laboratorio clandestino per la produzione di sostanze stupefacenti e dopanti. Infine, le attività antidoping nei confronti di atleti professionisti, effettuate «in e out-competition» hanno consentito di sottoporre a controllo oltre 600 atleti, dei quali 19 sono risultati positivi. Complessivamente, a livello europeo, l’Operazione «Viribus» ha permesso di disarticolare 17 gruppi criminali dediti al traffico internazionale di sostanze dopanti, individuare e sequestrare 9 laboratori clandestini per la produzione di sostanze illecite e farmaci contraffatti, avviare in tutta Europa circa mille indagini a carico di altrettante persone coinvolte, arrestare 234 persone e sottoporre a sequestro oltre 3,8 milioni di sostanze dopanti.
Salazar, il guru che testava i farmaci prima sui figli e poi faceva volare gli atleti. Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Bonarrigo. Nel dossier accuse pesanti al guru della corsa. Dopo i tre successi alla maratona di New York negli anni 80, è a capo del centro d'allenamento dell'azienda Usa. La mattina del 30 giugno 2009, Alberto Salazar, eroe dell’atletica americana, convoca i figli Alex e Tony al Nike Oregon Project di Portland, celebratissimo centro di ricerca e allenamento di cui è capo allenatore. Dopo averne massaggiato le gambe con Androgel, potente pomata al testosterone usata per curare l’ipogonadismo maschile, Salazar fa eseguire loro un test sui 5.000 metri. Sei giorni dopo, il suo braccio destro, l’endocrinologo Jeffrey Brown, scrive a Mark Parker, co-presidente di Nike: «Abbiamo i dati dell’esperimento con l’Androgel: c’è stato un aumento dei livelli di T/E. Ora va calcolata la quantità massima (di pomata, ndr) che potrebbe crearci dei problemi». Parker, attualmente Ceo dell’azienda, uno dei manager più pagati degli Usa, risponde al volo: «È importante determinare la soglia minima di ormone maschile che genera un test (antidoping) positivo». Se lo scandalo del doping russo è emerso grazie agli hacker di Fancy Bears, quello dell’atletica Usa è scritto nero su bianco nelle 134 scioccanti pagine dell’arbitrato «United States Antidoping Agency versus Alberto Salazar» che, lo scorso 30 settembre, ha portato alla squalifica di quattro anni del coach e guru che ha resuscitato il running americano e quello inglese, portando al successo Mo Farah e a medaglie olimpiche e mondiali decine di atleti. Il fascicolo — due anni di lavoro, 1.562 atti esaminati, 7 giorni di trascrizioni testimoniali di ex dipendenti del centro, spesso mobbizzati dalla dirigenza — mostra come Salazar — usando strutture e medici Nike — si dedicasse in maniera maniacale a esperimenti farmacologici per migliorare la prestazione tenendo informati i vertici dell’azienda dei risultati. Il testosterone - proibitissimo - era uno dei pallini del tre volte vincitore della maratona di New York: Salazar se lo fa prescrivere da anni pur non avendo, come accertano gli esperti Usada, necessità terapeutiche e non si fa scrupoli di usarlo con i figli, giustificandosi col fatto che «non erano tesserati come atleti». Altra ossessione di Salazar è la carnitina, aminoacido di per sé non dopante. Entusiasta degli effetti del prodotto – il coach incarica il dottor Brown di fare dei test somministrando mega flebo (queste sì vietate) ai suoi atleti. La gioia di Salazar per i risultati è incontenibile e ha ripercussioni insospettabili. Il 1 dicembre 2011 — dopo aver visto i referti di un’infusione su Steve Magness, un suo assistente usato come cavia — Salazar scrive una mail a Lance Armstrong, monarca (dopatissimo ma all’epoca ancora non smascherato) del ciclismo: «Lance, chiamami appena puoi. I test sono spettacolari. Se il solo atleta a cui lo dico, oltre a Galen Rupp (argento olimpico a Londra nei 10 mila metri, ndr). È incredibile, legale e naturale. All’Ironman impiegherai 16’ di meno». A ruota, altra mail a Mark Parker e Tom Clarke, responsabile Innovazione Avanzata di Nike: «Il mio assistente ha usato una sacca da un litro di soluzione salina con Lcarnitina e destrosio: la sostanza è penetrata nei suoi muscoli». Resosi conto del rischio di controlli, Salazar scrive ai suoi atleti: «Se interrogati dite che la carnitina vi è stata data per iniezione e in dose minime». Tutto registrato, tutto sanzionato: Salazar è stato cacciato dai Mondiali di Doha. Nike «supporta l’atleta nella decisione di appellare la sentenza». Le tappe:
Alberto Salazar, 61 anni, ha vinto tre maratone di New York tra il 1980 e il 1982.
Dal 2001 è «head coach» del Nike Oregon Project di Portland, centro di allenamento dell’azienda Usa.
È stato «consulente» della federazione inglese e allenatore di Mo Farah, 4 ori olimpici e 6 mondiali nel mezzofondo.
Salazar è sotto inchiesta per doping dal 2015, dopo le rivelazioni di alcuni suoi collaboratori.
Il coach è stato squalificato 4 anni per doping il 30 settembre e subito espulso dai mondiali di Doha.
Giovanni Evangelisti e quel salto truccato. «Denunciavo il doping e mi regalarono il bronzo». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. A 32 anni dalla medaglia-truffa ai Mondiali (da 7,90 a 8,38 metri), l’ex saltatore ricorda: «Ero uno dei pochi atleti puliti, l’uso di sostanze vietate era coperto». La passione per l’arte. In tutti gli anni Ottanta e per metà dei Novanta è stato l’italiano che faceva i salti più lunghi, il primo a superare gli otto metri, il primo nella sua specialità a salire sul podio di un’Olimpiade (Los Angeles 1984, bronzo) e il primo atleta di livello internazionale a laurearsi e diventare architetto, tra un allenamento, una gara, un record ritoccato... Una vita sportiva senza ombre. Carl Lewis, oro, abbraccia Giovanni Evangelisti, proclamato terzo, dopo la gara truccata a Mondiali di atletica di Roma (1987)Fino a quel giorno, 5 settembre 1987. Quando a Roma – in un Olimpico stracolmo - va in scena un giallo senza precedenti. Mondiali di atletica, salto in lungo. Carl Lewis, imperioso, è già volato a 8 metri e 67. Il sovietico poco meno. L’altro americano, Larry Myricks, si è fermato a 8.33. Irraggiungibile (o quasi) per il quarto, il nostro, Giovanni Evangelisti, 26 anni, campione dalle lunghe leve, che ora prende la rincorsa, accelera, stacca, si alza in volo e atterra attorno agli 8 metri. Il tabellone però - sorpresa, vivi applausi - si accende a una misura fantastica, insperata: 8 e 38! Vale la medaglia di bronzo! Ma lui non esulta, no. Le sue gambe le conosce bene, ha toccato terra un bel po’ prima. C’è qualcosa che puzza (molto) di combine e presto l’imbroglio verrà chiarito. Uno dei giudici di gara aveva spostato il prisma ottico e dato un calcetto alla sabbia per cancellare il segno.
Architetto Evangelisti, sono passati 32 anni da quella storiaccia. A volte le cose da lontano si vedono meglio: come andò davvero?
«Pensare a quel salto è come ricordare una vecchia morosa che non ha contato nulla. Le sensazioni di quei pochi attimi sono scomparse…»
I successivi calcoli le assegnarono 7,90 metri contro 8,38: un’enormità di meno.
«Ero contento, ma mi parve subito troppo. Però che dovevo fare? Io pensavo a saltare, non a fare il giudice».
Un paio di mesi dopo, grazie a Gianni Minà e alla prova tv, lo scandalo esplose.
«È passato tanto tempo e, grazie anche a una lettura storica, ho ben chiaro come andò. All’epoca in Italia il doping era parecchio diffuso e veniva coperto. Io mi arrabbiavo molto nel non vedere valorizzate le mie medaglie pulite. Quell’anno ai Mondiali indoor di Indianapolis mi diedero un nullo inesistente, su un salto corretto, con il quale avrei vinto...»
E quindi, quel 5 settembre 1987…
Sandro Donati, oggi allenatore del marciatore Alex Schwazer«Quando arrivarono i Mondiali di Roma a qualcuno venne l’idea di farmi un regalo, per compensare gli aiutini al doping che altri atleti italiani avevano avuto e continuavano ad avere. Pensarono: quello, poverino, merita anche lui qualcosa. Pensa che cagata. Senza dirmi niente, decisero di allungare il salto. L’intervento era concordato all’inizio, quando la gente era distratta, e infatti mi misero per primo. Ma io, carico com’ero, arrivai come una bomba sulla linea bianca e feci nullo. Così la falsificazione della misura, inserendo l’8.38, fu fatta all’ultimo salto, approfittando di una premiazione vicina, che creò confusione. La cosa era giunta anche alle orecchie di Sandro Donati, l’attuale allenatore di Alex Schwazer. Ma lui non mi disse nulla. Mi espose a una figuraccia tremenda, quando non c’entravo. Rinunciai ovviamente alla medaglia. Era il caso-atletica e diventò il caso-Evangelisti. Eravamo amici. Da allora non l’ho più visto».
Ma Donati ha sempre denunciato il doping.
«Certo, verissimo. Infatti io gli contesto soltanto il fatto di non avermi informato. Se avessi saputo cosa stavano tramando, non sarei mai andato in pedana. Io, qualche altro atleta e Donati facevamo la lotta al doping. Ecco perché la delusione fu doppia».
Chi si dopava nel mondo dell’atletica leggera?
«Accadeva in tutte le specialità. Nell’ambiente si sapeva benissimo chi assumeva sostanze. Anche nomi di primo piano, certo».
Come fu il ritorno alle gare, qualcosa si ruppe? L’anno seguente, alle Olimpiadi di Seul, ottenne comunque un buon quarto posto.
«Continuai ad allenarmi, ma l’accaduto mi diede molto fastidio: passai dall’essere ricordato come uno dei pochi atleti italiani puliti e vincenti a quello del salto di Roma».
Brutto risveglio per l’atleta sognatore, cresciuto sportivamente in provincia, a Padova, catapultato negli intrighi «romani».
«A dire il vero l’idea di atletica romantica per me era già finita da un pezzo. Mi ero accorto che molti baravano subito dopo essere entrato nel mondo agonistico, nel 1980».
Con le attuali tecnologie un salto «allungato» di mezzo metro potrebbe ripetersi?
«Penso di no... Però attenzione: il nullo è ancora a discrezione dei giudici».
Certo che lei è rimasto proprio scottato: si fida davvero poco!
Filippo Tortu, centometrista«Ma no, resto soddisfatto della mia carriera. Però non mi tappo gli occhi con ipocrisia. Mi si stringe il cuore quando vedo come è ridotta l’atletica. La Fidal viene gestita da persone che c’erano ai miei tempi e non hanno saputo riorganizzare il sistema. Nessun ricambio, nessuna autocritica, nessuna idea per rilanciare il settore. Aspettano nasca il talento di turno che gli risolva le cose, come ora Tortu, o Tamberi, per la velocità e il salto in alto. Ma non dimentichiamo che questi campioni non sono il frutto della federazione, ma dei rispettivi padri».
Nessuna speranza di ripresa?
«Faccio sempre questo esempio: una nazione come l’Italia con 60 milioni di abitanti se non fa assolutamente nulla ai Mondiali prende da 0 a 3 medaglie, perché qualcosa arriva sempre. Ma se la Fidal facesse qualcosa si arriverebbe almeno a 6. Invece, da anni, oscilliamo da zero titoli a 1. Quindi cosa ce ne facciamo della federazione?»
Lei si laureò nel 1989, nel pieno della carriera. Un modo per puntare su altro nella vita?
Giovanni Evangelisti oggi«Ho voluto laurearmi perché mi sarebbe piaciuto fare l’architetto. Io chiusi con l’agonismo cinque anni dopo, nel 1994, ed è stato brutto constatare che se ti dedichi a uno sport ad alto livello poi, quando esci a 33-35 anni, o ancora più avanti, come accadde oggi, è difficilissimo inserirsi nel mondo del lavoro. Non a caso quasi tutti gli atleti che hanno vinto molto non fanno il medico, l’avvocato, l’ingegnere... Nel 1993 chiesi un aiuto al Coni. L’allora presidente Mario Pescante mi ricevette due volte e promise di chiamarmi presto. Sto ancora aspettando la sua telefonata».
Vita privata?
«Ho due figli, Claudia e Nicola, di 22 e 20 anni, ai quali ho parlato della mia vita sportiva e dell’importanza della lealtà. Entrambi sono iscritti all’università. Il ragazzo salta anche lui, è bravo, sta sui 7,20. Però gli consiglio di studiare per crearsi un futuro più solido».
Ma lei l’architetto l’ha poi fatto o no?
«Certo, mi occupo di compravendite e di ristrutturazioni di immobili. Ho ancora un piede nello sport, al Cus Padova, dove alleno alcuni giovani, però le vere passioni nel frattempo sono diventate altre…»
Un Evangelisti inedito.
«Mi dedico all’arte, ho messo su un piccolo atelier. Mi è sempre piaciuta la pittura, dipingo paesaggi. E realizzo anche sculture. Opere astratte, secondo il mio gusto e stato d’animo, anche sulla base delle reminescenze tecniche dai tempi dell’università, con materiali come il legno, il rame, la pasta da dentista. E poi io e la mia famiglia ci divertiamo a viaggiare, a scoprire zone ancora poco turistiche. Africa, India e Sud America mi sono rimaste nel cuore. Ora sto partendo con un amico alpinista per la Patagonia e la devo salutare, stavo giusto preparando la valigia…»
Evangelisti e il salto-beffa ai Mondiali ‘87, parla il tecnico Donati: «Giovanni pulito, gara falsata». Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 da Corriere.it. Giovanni Evangelisti? Un atleta corretto, pulito. Il salto truccato ai Mondiali di Roma del 1987? L’intera gara, vinta dall’americano Carl Lewis con la super misura di 8,67 metri, fu falsata. Chi sapeva? Tanti. Anche l’allenatore di Giovanni, che subito dopo disse di non ricordare…Sandro Donati, figura storica dell’atletica leggera italiana e oggi allenatore del marciatore Alex Schwazer, interviene su una vicenda rimasta una macchia senza uguali per lo sport nazionale: la manipolazione della finale di salto in lungo avvenuta all’Olimpico 32 anni fa, ingannando migliaia di spettatori sugli spalti e l’Italia intera davanti al televisore. Quel 5 settembre 1987, con un intervento sul prisma ottico e un rapido calcetto alla sabbia per cancellare ogni traccia, il salto di Evangelisti fu «allungato» da 7.90 a 8.38 metri, misura che consentì all’italiano di «scippare» il terzo posto all’americano Larry Myricks. Sandro Donati, oggi allenatore di Alex Schwarzer, il 5 settembre 1987 era all’Olimpico, e il giorno dopo presentò denuncia ai carabinieriLo scandalo affiorò un paio di mesi dopo, grazie alla prova-tv messa in onda dalla Rai, e oggi sul caso è voluto tornare lo stesso Evangelisti, con un’intervista al Corriere («Denunciavo il doping, mi regalarono il bronzo») che ha messo in subbuglio il mondo sportivo. L’allenatore Donati, chiamato in causa dall’ex saltatore in lungo («sapeva della combine e non mi disse nulla»), ha replicato punto per punto, con uno scritto pubblicato da «Queen Atletica», partendo da una premessa: «Il racconto che si fa comunemente di ciò che accadde quel giorno nello stadio Olimpico di Roma è molto approssimativo: non fu truccato solo il salto incriminato di Giovanni, infatti, bensì l’intera gara. Lo si evince con chiarezza dalla discrepanza, spesso marcata, tra le misure assegnate ai suoi avversari (per sottrazione) e a lui stesso (per aggiunta) nei diversi salti e le misure rilevate dalla equipe dei biomeccanici cecoslovacchi che operava intorno alla pedana e misurava il salto con le proprie strumentazioni”. Dunque, l’intera gara fu falsata? Secondo le successive misurazioni, anche l’8.67 di Lewis fu modificato, al ribasso, di una decina di centimetri. Sandro Donati, da sempre in prima linea contro l’uso di sostanze dopanti, ha inoltre spiegato perché, pur avendo saputo dell’imminente imbroglio, prima della gara non avvertì Evangelisti. “L’interpretazione di Giovanni del salto incriminato è semplicistica anche per un altro fondamentale motivo: se lo avessi avvertito della progettata manipolazione Giovanni avrebbe reagito in qualche modo… Pertanto non l’avrebbero svolta e mi avrebbero accusato di calunnia. E’ assurdo far sapere a qualcuno, in questo caso ai responsabili della Fidal e del Gruppo Giudici Gare, che sai che sta per commettere un’azione illecita”. Evangelisti non ha perdonato all’amico di un tempo tale reticenza: “Se Donati mi avesse informato non mi sarei presentato in pedana. Mi ha esposto a una figuraccia tremenda”, ha ricordato al Corriere. In ogni caso l’allenatore ha parole di stima per l’ex atleta: “Mi rendo perfettamente conto che al curriculum splendido di un campione come lui è stata sovrapposta una vicenda colpa di altri e che lui ha in gran parte subito. Giovanni stesso mi fece presente il suo sconcerto nel trovarsi in quella situazione e del conseguente timore di vivere una vicenda più grande di lui e manovrata da altri”. Donati ricorda anche di aver presentato lui stesso un esposto sul salto incriminato, il giorno seguente, alla stazione dei carabinieri di Ponte Milvio, e che egli stesso ha pagato un prezzo ingiusto: “A Giovanni è rimasta attaccata un’etichetta estranea a lui e alla sua carriera di campione, all’epoca tra i pochi oppositori al doping, a me l’emarginazione ed il risentimento perenni della Fidal di allora e delle dirigenze Fidal successive”. Una ferita mai rimarginata, insomma. Donati conclude chiamando in causa polemicamente l’allora trainer del saltatore: “Ricordo che all’allenatore di Evangelisti, Dino Ponchio, dissi, allo Stadio dei Marmi, prima della gara, che Giovanni, in quel periodo afflitto da un forte mal di schiena, ‘avrebbe saltato 8,37, centimetro in più o centimetro in meno’. Siccome non ho mai posseduto virtù divinatorie, a gara completata Ponchio avrebbe dovuto ricordarsi con sbalordimento di quella frase”, pronunciata “davanti ai tecnici Plinio Castrucci e Federico Leporati, che la confermarono alla Gazzetta dello Sport”, e invece “disse di non ricordarla”.
DJ Cooper bara all'antidoping: squalificato perché...è incinto. L'americano ha sostituito le provette di urina con quelle di una sua amica e adesso arriva lo stop per ben due anni. Luca Sablone, Domenica 04/08/2019, su Il Giornale. Rimanere nella storia del basket non per un vissuto da campione o per un gesto straordinario, ma per essersi reso protagonista di una vicenda assurda. Obiettivo più che raggiunto da DJ Cooper, playmaker di 28 anni nato a Chicago. Dopo aver indossato la maglia di Paok, Panathinaikos, Aek, Enisey, Krasny il classe '90 è reduce da una stagione con il Monaco. Un background di tutto rispetto e di discreto livello. Peccato che però debba interrompersi, almeno per due anni.
La squalifica. Perché? Risulta incinto. Eh già, proprio così: lo statunitense ha eluso il test antidoping scambiando le provette di urina con quelle di una sua amica. Errore davvero fatale, soprattutto perché non ha considerato un particolare che avrebbe potuto mettere in evidenza la differenza di sesso: al controllo è stato trovato positivo al Ghc, un ormone prodotto dalla placenta e che rileva lo stato di gravidanza. La Fiba, federazione internazionale, lo ha squalificato per 24 mesi. Ma non solo: DJ Cooper dovrà anche pagare una multa e dovrà rinunciare alla possibilità di ottenere il passaporto bosniaco. Si tratta di una brutta notizia per il 28enne: tale fattore gli avrebbe consentito di allargare la carriera. Furbata non riuscita: la prossima volta, magari, conviene stare più attenti anche ai minimi particolari.
Mike Tyson, rivelazione shock: "Usavo l'urina dei miei figli per fregare i test anti doping". Libero Quotidiano l'8 Agosto 2019. Nuove rivelazioni dell’ex campione del mondo dei pesi massimi Mike Tyson. Ha raccontato come ha eluso, dopo alcuni match, i controlli antidoping, usando urina non sua: “Volevo usare l’urina di mia moglie, ma lei mi ha detto ‘quando avranno i risultati ti diranno che sei incinta. Così ho pensato che sarebbe stato meglio usare l’urina dei miei figli”.
Tyson ha poi spiegato che per il prelievo usava un pene finto, come aveva già rivelato in un’intervista del 2013; la novità però è nella tecnica che metteva in atto per non farsi scoprire dagli ispettori antidoping: “La maggior parte degli uomini, anche se sono gay, è a disagio quando mostri loro il tuo pene. Quindi mostravo il mio così si giravano e usavo quello falso”. Tyson, oggi 53enne, è stato in attività dal 1985 al 2005 collezionando 50 vittorie (44 per ko), 6 sconfitte e 2 no contest. Svariati i suoi titoli mondiali nei pesi massimi, tra il 1986 e il 1996, con le sigle Wbc, Wba e Ibf.
Lance Armstrong accusa: «Fossimo stati tutti puliti avrei vinto lo stesso, non cambierei nulla». Pubblicato mercoledì, 10 luglio 2019 da Corriere.it. «Il doping è stato un errore, ma non cambierei nulla nella mia carriera: sono orgoglioso di quello che io e le squadre nelle quali ho militato abbiamo fatto per vincere il Tour de France, dal punto di vista della preparazione, dell’alimentazione, dei materiali, della tattica. E se tutti fossimo stati puliti, avrei vinto lo stesso tanti Tour de France». Così Lance Armstrong, che oggi ha 47 anni, in un’intervista a NBC Sports. Il texano si è visto cancellare, in un colpo solo, ben sette vittorie nella Grande bloucle, dopo le indagini dell’Agenzia antidoping statunitense. «In quegli anni abbiamo lavorato più duramente di altri - le parole dell’ex corridore - abbiamo scelto le migliori tattiche, costruito la migliore delle squadre possibili, scelto il miglior manager, le migliori attrezzature, la migliore tecnologia: questa è storia e non può essere cancellata». «Io ho deciso di fare quello che ho fatto - aggiunge -. Sapevo a cosa andavo incontro, gareggiando in Europa, sapevo che non sarebbero bastati i pugni, ma sarebbero serviti i coltelli. Poi, sono apparse le pistole: a quel punto sono andato in un negozio di armi. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare per vincere: non era legale, non era la decisione migliore, ma non cambierei nulla». Armstrong ha ricordato anche il doping: «Era il 1991, forse in Italia, volevo vincere una corsa a tappe in Italia, non so nemmeno se erano prodotti vietati, certamente non erano rilevabili: se non ricordo male era cortisone. La prima volta in cui assunsi volontariamente una sostanza vietata fu nel 1993». Nello stesso anno, lo statunitense vinse il Mondiale su strada, a Oslo.
Doping, Armstrong: «Non cambierei nulla». Ma è stato il più forte dei dopati o il più dopato tra i forti? Pubblicato venerdì, 24 maggio 2019 da Corriere.it. Tutto si può dire di Lance Armstrong ma non che gli manchi la coerenza e anche il coraggio di riflettere su azioni e lezioni della sua storia : «In quegli anni abbiamo fatto quello che dovevamo fare per vincere. Non era legale ma non cambierei nulla, anche se ci sto rimettendo un mucchio di soldi e da eroe sono diventato il cattivo della situazione. È stato un errore, che ha portato a molti altri errori, al più grande scandalo nella storia dello sport. Ma ho imparato tanto». L’americano che ha conquistato sulla strada 7 Tour de France di fila, come nessuno ha mai fatto, salvo poi perderli tutti a causa delle inchiete sul doping, torna a parlare . E lo fa a modo suo, con la coerenza del cowboy. In un’intervista per la Nbcsn che andrà in onda la prossima settimana, il 47enne ex corridore texano ripercorre la sua carriera, a 20 anni esatti dal primo dei sette Tour de France vinti e poi cancellati alla luce delle sue confessioni sull’uso di doping. «Non cambierei nulla, non cambierei il modo in cui mi sono comportato — le parole di Armstrong, che non lasciano spazio a dubbi — . Soprattutto non cambierei quello che ho imparato: non avrei appreso tutte queste lezioni se non mi fossi comportato in quel modo, non avrebbero indagato su di me né mi avrebbero squalificato se non avessi fatto quello che ho fatto. Se mi fossi solo dopato e non avessi detto nulla, non sarebbe successo niente. Sono stato io a supplicarli di indagarmi, ho fatto da facile bersaglio». Tornando alla scelta del doping, Armstrong spiega che era una pratica così diffusa che era quasi impossibile farne a meno. «Sapevo che si sarebbe combattuto coi coltelli, non solo con i pugni. Ma un giorno la gente ha iniziato a tirare fuori pure le pistole. E a quel punto sono andato anch’io a comprarle, non volevo tornarmene a casa. Non voglio giustificarmi col fatto che tutti si dopavano o che non avremmo mai potuto vincere senza. È tutto vero ma alla fine è stata una mia decisione, sono stato io a decidere di fare quello che ho fatto. E non volevo tornarmene a casa, volevo stare lì». Resta da capire una cosa, sulla quale sarà difficile mettersi d’accordo: Armstrong era il più forte tra i dopati o il più dopato tra i forti? Perché «il più grande sistema di doping della storia» come fu definito dall’accusa, non era fatto né di pugni, né di coltelli o pistole. Ma di un arsenale senza precedenti, fatto di medicine proibite, dottori col chiodo fisso di ingannare gli avversari, galoppini del doping disposti a tutto. E anche di un rapporto morboso e proibito col governo ciclistico dell’epoca. Dimenticare tutto questo, come Armstrong fa con la sua consueta nonchalance, è sbagliato. Tra le tante lezioni imparate, questa ancora non c’è.
I CICLISTI? BESTIE DA DOPING. Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 9 maggio 2016. «Ho sperimentato l' inferno. Ho sbagliato. Mi considerano un appestato. Ma non mi pento di nulla, sono sereno, cammino a testa alta». Negli occhi di Danilo Di Luca, 40 anni, a tratti scorgi ancora quel lampo che gli valse la nomea di killer di Spoltore. Lo chiamavano così quando era un ciclista professionista perché se sentiva che quella era la sua gara, spesso vinceva. Scientifico e spietato, come un killer appunto. Poi il doping: una prima positività nel 2010, una seconda nel 2013, questa volta accompagnata da un non invidiabile primato: essere il primo ciclista italiano squalificato a vita. Di Luca ha barato, lo sa, lo ammette e non chiede sconti. Ma non chiede neanche scusa, anzi accusa quello che definisce «il Sistema». Lo ha fatto raccontando la sua vita a Alessandra Carati. Ne è nato un libro, Bestie da vittoria, edito da Piemme, da leggere dalla prima all' ultima riga tutto d' un fiato. Per farsi avvolgere e travolgere da un ambiente fatto di sacrifici, sofferenza, passione, schifo, trionfi, sudore, disfatte, amicizie, ipocrisie. E doping.
Danilo perché hai scritto questo libro?
«In fondo l' ho fatto per loro, i miei ex colleghi. È assurdo che vivano in un mondo che può far di loro ciò che vuole».
Non l' hai scritto per te stesso?
«Non ho niente da perdere, sono stato radiato, anche se ingiustamente. Sai cosa farei se fossi ipocrita?»
Cosa?
«I nomi. Mi hanno chiamato decine di volte dall' Uci (la Federazione internazionale) e dal Coni: "Danilo, vieni qui, fai i nomi e ti togliamo la radiazione". La maggior parte dei ciclisti trovati positivi lo ha fatto».
Perché tu no?
«Sono un uomo tutto di un pezzo. Ho sbagliato, pago, punto. La mia schiena è dritta».
È iniziato il Giro d' Italia: chi lo vince?
«Sono italiano, tifo Italia. Il nostro punto di riferimento è Nibali, quindi se vince lui mi fa piacere».
Quando tu affermasti che «il 90% dei ciclisti è dopato» Nibali commentò: «Di Luca è diventato un po' cerebroleso».
«Di questo dovrà rispondere. L'ho querelato».
A proposito di querele, è vero che ne hai ricevuta una?
«L' ha annunciata l' Accpi, l' Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani dopo una mia intervista alle Iene».
D' altronde hai detto che non si può arrivare tra i primi dieci al Giro se non si è dopati. Parole pesanti.
«È vero, ho detto anche questo. Guarda che a me dispiace per loro, i ciclisti. Vorrei scuoterli, ma anziché approfittare del mio libro perdono l' occasione per cambiare questo sport».
Temi questa querela?
«Molti degli iscritti all' Accpi hanno attraversato vicende simili alla mia e sono proprio curioso di ascoltare cosa diranno davanti a un giudice. Tra l' altro sono stato un loro iscritto per anni e non mi hanno mai difeso sia per i compensi che non ricevevo, sia per le vicissitudini avute».
Le vicissitudini si chiamano doping. Danilo, hai barato.
«Non mi pento di nulla».
Questo fa impressione.
«Ho scritto il libro per denunciare un sistema, scoperchiarlo. Chi sale in bici è una vittima. E possiamo allargare il discorso ad altre discipline. Quando si è professionisti, la vita è fatta di allenamenti, sacrifici, sforzi. E doping».
Lo denunci ora perché sei arrabbiato?
«Sicuramente sono anche arrabbiato per come mi hanno trattato le istituzioni, con la squalifica a vita, i colleghi, l'ambiente».
Ti vuoi vendicare?
«Assolutamente no. Voglio solo denunciare la vita assurda che fanno i ciclisti».
Che vita è?
«Sono bestie, come scrivo nel titolo».
Leggo: «Non avrei mai potuto non doparmi». Il doping non è una scelta consapevole, oltreché sbagliata?
«Nessuno ti obbliga, è vero, ma quando scegli di diventare professionista ti devi adeguare al sistema oppure non corri più. Da professionista mi sono trovato davanti a una sola scelta: doparmi».
Scelta ineluttabile?
«È così».
Cosa intendi per «sistema»?
«Quello per cui finché vinci sei un idolo, appena ti beccano positivo sei "una testa di cazzo, un figlio di puttana, uno che rovina la squadra". E diventi l' appestato».
Tutti mentono?
«Di base c' è molta ipocrisia. Che continua, infatti mi querelano».
Come fai a dire «non mi pento di nulla»?
«Sono caduto nell' inferno. Essere Danilo Di Luca, uno dei ciclisti più forti in Italia e nel mondo e sprofondare non è facile. Ma non mi pento perché ho fatto ciò che dovevo fare per stare nel sistema».
Lo rifaresti?
«No. Con l' esperienza di oggi starei molto più attento».
Denunci ora che sei radiato. Perché non farlo quando vincevi?
«Ah, certo, avrei potuto tagliarmi i coglioni. Zac. Correvo, vincevo, guadagnavo. Può essere una risposta da sbruffone ma non lo è. Se accetti di far parte di quel mondo e denunci dal di dentro, sei "morto"».
Nel libro racconti il momento dell' ultimo controllo, quello che ha portato alla radiazione. Confidi che quasi speravi ti beccassero per provare un senso di liberazione.
«Quel mondo non lo sentivo più mio. Nei primi anni Duemila ero felice di correre. Poi, dopo le vicissitudini sportive che racconto nel libro, e visto come mi hanno trattato, mi sono cadute le braccia. Alla fine correvo perché pagato».
Questo mi ricorda, senza fare paragoni tra le due vicende sportive, il senso di liberazione confidato dal marciatore Alex Schwazer quando fu beccato. A proposito, lui torna alle gare. È giusto?
«Certo, deve avere un' altra chance. Ha sbagliato, magari ha detto cose non vere, ma l' hanno massacrato. Se ha scontato la pena è giusto che torni».
Tamberi, saltatore azzurro, la pensa diversamente: «È una vergogna» ha detto. Così altri azzurri.
«Sono ipocriti».
Perché?
«Non capiscono che loro sono le vittime. Negli sport meno importanti, vale nel ciclismo come per l'atletica, i professionisti non hanno un sindacato, non hanno buoni avvocati, non hanno tutele. Il doping è uno strumento del potere».
Tu hai dichiarato di esserti dopato sempre ma senza esagerazione, con misura. Ma anche solo un po' di doping non fa male?
«Dico che mi sono dopato con misura nel senso che quando accetti di stare in quell' ambiente, poi decidi se doparti in modo scriteriato o no, e io non l' ho fatto. Ma il doping fa male, certo».
Lo ribadiamo a gran voce?
«Il doping fa male. Di più o di meno, ma fa male».
Per la verità nel libro tu scrivi che eravate «curati», non «dopati».
«Perché la cura racchiude tutto. Un atleta si cura se si allena bene, mangia sano, non fa tardi la sera, raggiunge il top della condizione e si dopa».
Il doping come cura?
«La cura dell' atleta è questo complesso di cose. Aggiungi le vitamine, i farmaci che non sono considerati doping. Tutto è cura. In questo "tutto" l' unica cosa negativa è il doping».
Hai iniziato a «curarti» da dilettante. Nel 2007 hai vinto il Giro d' Italia. Quindi eri dopato anche lì?
«Sono stato trovato positivo in carriera due volte. Tutte le altre volte ero dentro il sistema.
Facevo i controlli, ero negativo, mi sono attenuto alle regole».
Passiamo oltre. Racconti che i ciclisti si iniettano le sostanze più assurde senza pensare alla salute. Perché lo fanno?
«Per vincere».
La vittoria cos' è?
«Un' endorfina fondamentale. Ma io ti parlo del passato, credo che le cose ora siano migliorate».
Il nuovo doping è il motorino nascosto nelle bici?
«Ripensando ad alcune gare dei miei tempi e rivedendo i video penso che i motorini ci fossero anche allora. Questa pratica è molto peggio del doping perché col motorino vinci anche se sei un brocco».
In che senso?
«Il motorino aumenta del 40% la prestazione di un ciclista».
E il doping?
«Al massimo del 7%. Pensare che uno sia un campione solo grazie all' Epo è una follia».
Cosa pensi di Pantani?
«Lo hanno inculato. Al 300%».
Chi?
«Non rispondo non perché non voglio ma perché non lo so. C' erano troppi interessi dietro Pantani, qualcuno o più di uno non gli ha voluto bene».
Se scrivo «Pantani era dopato» sbaglio?
«Sbagli. Pantani è stato il più forte scalatore che il ciclismo di tutti i tempi abbia mai avuto. Come Armstrong, che ha confessato che nei suoi sette Tour de France vinti ha fatto uso di doping. Secondo te questo vuol dire che chiunque avesse assunto gli stessi farmaci avrebbe vinto come lui? Ma proprio per niente! Armstrong è stato un grande campione, senza doping non avrebbe vinto sette Tour, ma tre o quattro sì».
A un ragazzino di dieci anni diresti di fare ciclismo?
«Sì, perché è una delle scuole di vita più sane, vere, difficili e belle».
Sane?
«Sì, dico sane. La fatica e i sacrifici che fai in bicicletta, quando torni alla vita normale, ti aiuteranno. Purtroppo in tutto questo c' è il doping».
Consiglieresti il ciclismo anche a tuo figlio?
«Sì. E a un certo punto, se il mondo del ciclismo sarà ancora quello di oggi anche se spero di no, deciderà. Io potrò solo consigliarlo per non fargli fare gli stessi miei errori».
Non senti di avere tradito i tuoi tifosi?
«Alcuni forse, ma il vero tifoso non si sentirà mai tradito. Al vero tifoso piace anche il modo in cui ti esponi, anche se dici cose scomode. Chi invece non era mio tifoso prima, spero che oggi possa apprezzare la mia sincerità. Io mi sono messo a nudo. Non è facile, te lo garantisco».
Nessun ex compagno ti ha mai chiamato?
«Assolutamente no, tranne gli amici e i compagni abruzzesi».
Quando nel 2013 si scoprì la tua seconda positività i compagni ti aggredirono verbalmente a colazione e ti lasciarono letteralmente a piedi, in Trentino.
«Sono stato trattato come una bestia, per l' appunto. Io al posto loro non l' avrei mai fatto. Quando un mio collega è stato trovato positivo, pensa a Basso, io ho dichiarato: "Mi spiace per Ivan, spero che torni presto perché è uno di noi". Di fronte a domande scomode sono stato zitto. Oggi invece la maggior parte dei miei colleghi ti addita ancora di più. Sono proprio ipocriti».
Tua mamma era la tua prima tifosa. Come ha vissuto tutta questa vicenda?
«Lei è quella che ha sofferto più di tutti. Ha sempre temuto per la mia incolumità. Sa quanto amore provavo per questo sport e io so quanto amore provasse lei. Ma è sempre mia mamma. I genitori sono sempre con te anche se ti dicono "così non si fa"».
Qual è l' immagine che descrive meglio la tua carriera, se ti volti indietro?
«Il mio braccio che rotea tre volte nel cielo dopo la vittoria alla Liegi-Bastogne-Liegi nel 2007».
Che Di Luca vedi se guardi a domani?
«Un Di Luca sereno. Sto bene, sono più maturo. Costruisco biciclette, è la cosa che mi piace di più».
Comunicato Edizioni Piemme il 25 aprile 2017. «Ho scritto questo libro perché il pubblico capisca chi siamo veramente». L’autore di questo libro è un corridore di alto livello che ha preso parte con successo a tutti i grandi Giri - Francia, Italia, Spagna -, alle Olimpiadi e a tutte le classiche più importanti. Ha raccontato la sua storia ad Antoine Vayer, ex allenatore professionista, ora giornalista di spicco, già collaboratore di Le Monde e Libération, considerato uno dei più grandi conoscitori di questo mondo. Il motivo per cui il ciclista deve restare anonimo è facile: è ancora in attività e non vuole restare disoccupato. Perché quel che racconta non fa piacere a nessuno. Un girone infernale, così viene descritto il sistema del ciclismo professionistico. Il carrozzone festante delle gare, i tifosi lungo le strade e tutta l’epica che accompagna le tappe sono solo uno scenario, dietro cui si svolgono i veri giochi. I ciclisti, vittime e complici di questo sistema, sanno che la carriera ad alti livelli dura poco. Per questo la concorrenza è spietata e ogni atleta è disposto a qualunque sacrificio per restare al top. Compreso sacrificare la salute. Il doping è dato per scontato da tutti, ciclisti, manager, sponsor: gli stessi che, quando qualcuno viene beccato, gridano allo scandalo. Ne esce il ritratto di un mondo oscuro fatto di scommesse, compravendite, giri di soldi, egoismi, ipocrisie, invidie. E molta paura. Il ciclista mascherato è attualmente in attività. Ha preso parte alle principali corse a tappe – Giro d’Italia, Tour de France, Vuelta di Spagna –, a numerose classiche, come la Liegi-Bastogne-Liegi o il Giro delle Fiandre e ha rappresentato il suo paese alle Olimpiadi e ai campionati del mondo.
Alessandro Grandesso per “La Gazzetta dello Sport” pubblicato il 7 aprile 2016. Capì tutto dopo un Tour des Flandres. Una delle gare più belle e difficili. Dopo l’ennesima delusione. L’ennesimo ritiro, nonostante il sogno adolescenziale di piazzarsi tra i primi dieci o, chissà, di salire sul podio: “Ma quel giorno - racconta il protagonista di un libro destinato a scuotere il ciclismo -, capii che se volevo realizzare il mio sogno, dovevo essere un po’ meno clean”. Meno pulito. E quindi, accettare il sistema. Il doping e non solo: un mondo svelato in “Sono il Ciclista Segreto” (Ed. HugoSport), da oggi nelle librerie francesi. Libro confessione di un ciclista di vertice, ma anonimo perché in attività, scritto con Antoine Vayer, ex allenatore, tra il ’95 e il ’98, della Festina, oggi opinionista del quotidiano Le Monde. Un libro per raccontare anche come si vendono tappe, si falsano gare con scommesse, si eludono controlli, si evitano squalifiche, conoscendo le persone giuste. Ma con l’idea di contribuire alla catarsi di uno sport già martoriato dagli scandali. Magari annientando il cancro del doping. A cominciare da quello che gioca con le regole, al limite della legalità, con la scusa, per esempio, dell’utilizzo terapeutico dei corticoidi: «Prodotti che ti trasformano fisico e comportamento. Diventi secco, fibroso, ma con una potenza enorme”. Che non basta. Così si va oltre, con l’aiuto di noti medici complici. E il ciclista diventa un tossicomane. Come l’autore anonimo che un giorno rubò pure delle fialette dalla stanza d’ospedale della madre: «Per deformazione professionale». Tossicomania anche di prodotti legali, ma presi in dosi massicce: «Se le iniezioni sono fuori moda, ecco le pasticche di integratori alimentari: fino a 70 al giorno al Tour. E non è doping». Per non parlare del tabacco da masticare, vasodilatatore, in teoria vietato, «ma che lo specialista dello sprint si prende prima della volata: se mette mano alla tasca non è per avere l’alito fresco per la miss sul podio». Più tossico ancora l’antidolorifico Tramadol: «Catastrofe simbolica della nostra deriva. Pedali per ore, non senti nulla dall’anca in giù. Ecco spiegate le epidemie di cadute». E quando non ci si dopa, si falsano le gare, per soldi. I criterium sono farse: «Decide tutto l’organizzatore che paga: ordine di arrivo, tratti di attacco, miglior sprinter, record del giro, etc». E siccome il ciclista non guadagna come un calciatore, si vende pure le tappe, magari «minacciando il leader di non aiutarlo se non paga; (…) lo stesso che poi paga l’avversario per non superarlo». Tutto in gara, a colpi di decine di migliaia di euro: «Anche 100mila per una grande classica». E poi le scommesse, anche sui grandi tour, in diretta: «Nelle volate girano tanti soldi. Se li giocano i corridori e nelle auto i d.s., prima di trasmettere ordini via auricolare». Regna ovunque l’omertà, «una mafia», o meglio, il «Da Bici Code», scherza l’autore che così rimane anonimo, ma spiega come il “Movimento per un Ciclismo Credibile”, creato dai francesi per ridare credibilità alla disciplina, aiuti di fatto chi bara con notifiche di impraticabilità agonistica quindicinale, «il tempo di normalizzare i parametri sanguigni». Salvo se arriva l’SMS del medico federale, francese, per avvertire di un controllo imminente. O se la federazione, francese, decide di coprire un giovane positivo all’ormone femminile, all’ultimo Tour de France. Aiuti che il ciclista professionista capitalizza falsando anche il sistema di controllo dall’Ama: «Basta cambiare, scalandola di mezza giornata, l’ora di geolocalizzazione e guadagni il tempo per far sparire le tracce di microdosi». E magari usando pure le sacche di sangue ossigenato in alta montagna durante i ritiri. Normale in fondo che non ci siano più idoli credibili, secondo l’anonimo ciclista, «a meno che non si sia al corrente di nulla». E non si legga questo libro.
Riccardo Riccò: «Il doping è ovunque nel ciclismo, ed è sempre più pericoloso». È stato la grande promessa delle due ruote italiane, poi la squalifica, la vita a rischio per una trasfusione. Oggi fa il gelataio alle Canarie e si racconta, a partire da un Tour che arriva sugli Champs-Elysees tra mille polemiche Dario Falcini su rollingstone.it. il 29 luglio 2018. Solo col doping non vinci. Senza doping nemmeno. È una delle regoli più importanti del gruppo durante una corsa a tappe, per come è riportata in Cuore di Cobra, la biografia di Riccardo Riccò (Piemme edizioni, scritta con Dario Ricci). Emiliano, classe 1983, è stato una delle promesse più scintillanti del ciclismo italiano, prima di diventarne il grande appestato. Professionista dal 2006, due anni dopo, a 24 anni vince due tappe al Giro e altrettante, incredibili, al Tour de France: il suo scatto sul Col d’Aspin fa scomodare il paragone con Marco Pantani. Pochi giorni dopo è trovato positivo all’Epo e viene fermato. La sua carriera deraglia, fino al terribile 6 febbraio 2011, giorno in cui rischia la vita per una autotrasfusione di sangue che teneva in frigo. È squalificato dal Tribunale Nazionale Antidoping per 12 anni, una sentenza record. Teoricamente potrà tornare a gareggiare nel 2024, quando avrà quasi 40 anni. Riccò diventa presto l’appestato del nostro ciclismo, uno sport in cui tanti sbagliano, spesso sono beccati e, di norma, hanno un’altra chance. Non lui, ricoperto, anche per la gravità di ciò che ha fatto, di uno stigma senza precedenti. Oggi vive con la moglie a Tenerife, e accetta di parlare di se stesso e del suo libro, un atto di accusa feroce verso il sistema del professionismo su due ruote, in cui, secondo Riccò, tutti si dopano, e semplicemente va bene così. Una rivalsa nei confronti di un mondo che lo ha estromesso? Forse, non possiamo saperlo. Sicuramente una voce interessante e fuori dal giro, così come quella di Danilo De Luca, che ha fatto alcuni degli stessi suoi errori e ha subito un simile trattamento, raccontato in un altro bel libro, Bestie da vittoria. Con Riccò è l’occasione per parlare di un Tour de France semplicemente assurdo, che va a concludersi oggi con la vittoria di Thomas, tra proteste e lacrimogeni, incidenti spettacolari e molto pericolosi, polemiche di ogni sorta.
Cosa combina oggi Riccardo Riccò?
«Ho un bar gelateria a Palm-Mar, a Tenerife, dove mi sono trasferito da quattro anni. La mattina ogni giorno produco il mio gelato artigianale, italiano. Ormai siamo al terzo anno di attività: stare aperti così a lungo su quest’isola vuole dire che praticamente sei un superstellato».
Ma è vero che vendi gelato per i cani?
«È una specie di yogurt bianco, senza lattosio né zucchero, che non fa male intestino cani. Non sei il primo a stupirsene, l’altro giorno è venuta una tv spagnola a fare un servizio sui nostri prodotti. Un sacco di gente viene a prendere il gelato solo per il cane, e non lo mangiano loro».
Dall’Italia sei fuggito?
«Ma no, io amo l’Italia. Solo che, non potendo più correre in bici e non essendo capace a stare sotto padrone per via del mio carattere, dovevo aprire una attività mia. A livello lavorativo nel nostro Paese è un momento duro, qua la pressione fiscale è molto più bassa. Se hai la fortuna che l’attività parte, poi ci campi. Così ho ascoltato il consiglio di un amico, che si era trasferito a Tenerife e diceva che era un buon momento per gli investimenti. Un altro amico mi ha insegnato a fare il gelato, ed eccomi qua».
Vai ancora in bici?
«Nel tempo libero cerco di tenermi allenato. D’estate molto poco, però, perché per fortuna si lavora un sacco».
Stai seguendo il Tour? Che sta succedendo? Paiono tutti impazziti.
«Cerco di guardarlo sempre, e più o meno ci riesco. Sì, ci sono stati parecchi casini. Ma mi pare che in tutto il mondo succedono cose strane ultimamente (Ride). Qua alle Canarie dicono che il troppo caldo fa male, sarà quello…»
Che ne pensi di Froome, che era stato squalificato per doping e poi reintegrato. Fino al terzo posto.
«Non mi piace come corridore, stilisticamente mi fa schifo. Riconosco che ha fatto delle cose straordinarie, penso alla sua impresa quest’anno al Giro. C’è chi lo paragona a Armstrong, ma non regge. L’americano è sempre andato forte, da quando aveva 20 anni. Lui è saltato fuori dal nulla a 30 anni o giù di lì, e io non ci credo a queste storie. Finché lo lasciano correre, per l’amor di Dio, ha ragione lui».
Nel libro scrivi che non è umanamente possibile correre 200 chilometri al giorno, con ogni condizione meteo, per tre settimane. Il trucco c’è per forza.
«Confermo. Di certo non è possibile oggi vincere una grande corsa a tappe senza doping».
Il doping è anche colpa dell’organizzazione delle grandi corsi, dei loro tracciati massacranti?
«No, questa è una cazzata. I corridori lo prenderebbero anche se la corsa fosse tutta pianeggiante. Il doping c’è, punto, come la droga nella società».
Qua, però, fa parte del sistema, da quello che dici.
«Questo è un tema complesso. Il fatto è che c’è sempre una nuova sostanza, sempre più difficile da rilevare. Quando dicono che il doping è sempre un passo avanti rispetto all’antidoping, dicono una grande verità».
Sono passati 20 anni dal folle Tour vinto da Marco Pantani, con gli arresti tra gli atleti. Come sono cambiate le cose da allora?
«Sono già passati vent’anni, cazzo. E dieci da quando vinto io, boia se sono vecchio! Ai miei tempi posso dire che ne succedevano di tutti i colori, mentre a quelli di Pantani, paradossalmente, le cose andavano meglio, con il limite di 50 di ematocrito per tutti. Allora tutti usavano l’Epo, e in qualche modo erano alla pari. Ora c’è un ventaglio larghissimo di sostanze: chi usa la genetica va inevitabilmente molto più forte di uno che utilizza doping meno sofisticati. Non c’è paragone. Oggi chi ha più soldi e conoscenze migliori è troppo avvantaggiato, e questo crea squilibrio».
Il doping di oggi è meno pericoloso rispetto a quello per cui tu hai rischiato la vita?
«Oggi è molto più pericoloso. Usano sostanze in sperimentazione, non ancora sul mercato, di cui non si sanno gli effetti collaterali. Prima c’era un filo di competenza in più sulle sostanze, mi pare».
Che sostanze si usano oggi?
«So che vanno ancora tanto le trasfusioni, e poi ci sono sostanze sempre nuove. Ogni tanto qualcuno mi racconta, ma non mi ricordo nemmeno i nomi: non è più il mio lavoro».
Ci si dopa a tutti i livelli?
«Gli amatori sono i peggiori, perché non sono controllati. Sono delle mine vaganti, con il loro doping fai da te. So che dalla juniores qualche ragazzino inizia già a farne uso, e poi ci sono dilettanti, che sono alla sbaraglio. Paradossalmente c’è più doping nel dilettantismo che nel professionismo».
Che ricordi hai dei tuoi giorni di gloria al Tour?
«Ci penso spesso, a luglio viene quasi da sé farlo. La seconda tappa vinta nel 2008, una cosa incredibile. Una scarica di adrenalina pazzesca. Lo dico sempre a mia moglie: “Non si può descrivere quell’emozione, nessuna sostanza dà una botta così”».
Del giorno in cui stavi per morire, invece, cosa ricordi?
«Non ci penso. Anche se ora tu me lo hai appena fatto ricordare».
Davvero vuoi tornare a correre, a 40 anni?
«Mi piacerebbe tornare a correre il Tour, con la testa di adesso e l’allenamento di allora. Sono maturato, ora farei paura. Ma va bene, è andata così. Non demordo invece con l’idea di tornare dopo la squalifica e provare a giocarmi una classica, magari il Lombardia».
Pensi che troverai qualcuno disposto a farti correre, dopo tutto quello che è successo?
«Ho tante persone nel ciclismo che mi vogliono ancora bene. Sanno che allora ero un ragazzino, che non ha saputo gestire una onda enorme di fama improvvisa».
Mediaticamente sei stato ucciso.
«Sì, mi hanno bastonato abbastanza forte. Ultimamente, con Armstrong e altri casi, sono diventato uno dei tanti, mi sono liberato di un po’ di pressione. Penso di essere stato un po’ un capro espiatorio, quello sì».
Chi ti piace oggi nel ciclismo?
«Valverde mi è sempre piaciuto, anche quando correva contro di me. Nibali non mi emoziona, ma più passa il tempo e più lo apprezzo. Aru, anche se stilisticamente non lo amo, mi piace perché attacca, dà spettacolo».
Cosa rispondi a chi dice “non seguo più il ciclismo perché è tutto falso”?
«Qui a Tenerife abito in una colonia belga. Al tifoso belga, vero malato di ciclismo, non frega un cazzo del doping, quello italiano, invece, ti giudica sempre, poi fa le serate di cocaina. Coerenza zero».
Che gelato ci offri se veniamo a trovarti?
«Crema e banana, quelle delle Canarie sono strepitose».
· L’affaire Marco Pantani.
"MARCO PANTANI E’ STATO UCCISO". Da Le Iene l'8 ottobre 2019. Stasera a Le Iene su Italia1 a partire dalle 21.15 Alessandro De Giuseppe torna sulla morte del campione di ciclismo Marco Pantani, deceduto ufficialmente per un arresto cardiaco da abuso di droga e farmaci. Ma Fabio Miradossa, lo spacciatore che gli vendette l’ultima dose di cocaina e che parla per la prima volta, è sicuro: “Marco non è morto per questo, è stato ucciso”. Alessandro de Giuseppe torna ad occuparsi della misteriosa morte di Marco Pantani nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1 dalle 21.15. Il corpo del Pirata viene ritrovato senza vita il 14 febbraio 2004 nella sua stanza d’hotel al residence Le Rose di Rimini. Il campione di ciclismo, vincitore del Giro d’Italia e del Tour de France nel 1998, squalificato per livelli di ematocrito troppo alti rilevati nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999 (clicca qui per il servizio, sempre di Alessandro De Giuseppe, sui molti dubbi anche su questa storia), aveva 34 anni. La giustizia ha chiuso il caso parlando di morte per overdose da cocaina. Il decesso sarebbe la conseguenza di comportamenti ossessivi di Pantani, che dopo aver esagerato con la droga avrebbe sfasciato tutta la stanza facendosi del male da solo e poi sarebbe morto per un arresto cardiaco causato da un cocktail di cocaina e farmaci. Le Iene intervistano in esclusiva Fabio Miradossa, lo spacciatore di cocaina che vendeva la droga al Pirata e che gli avrebbe procurato anche l’ultima dose: quella che l’avrebbe portato alla morte. E Miradossa, che dopo essere uscito dal carcere non ha mai parlato con nessuno, ci racconta una storia completamente diversa quella ufficiale. “Marco non è morto per cocaina. Marco è stato ucciso. Magari chi l’ha ucciso non voleva farlo, ma è stato ucciso. Non so perché all’epoca giudici, polizia e carabinieri non siano andati a fondo. Hanno detto che Marco era in preda del delirio per gli stupefacenti, ma io sono convinto che Marco quando è stato ucciso, quando è stato ucciso, era lucido. Marco è stato al Touring, ha consumato lì e quando è ritornato allo Chalet (il Residence Le Rose, ndr.) Marco era lucido”. Guardate tutte le altre dichiarazioni esclusive fatte da Miradossa, dopo che anche il nostro Alessandro de Giuseppe è stato sentito in commissione Antimafia, alla quale ha riferito tutti gli elementi in suo possesso, nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1 dalle 21.15
GIALLO PANTANI. Lorenzo Vendemiale per “il Fatto quotidiano” il 12 maggio 2019. Marco Pantani non era solo quando morì il giorno di San Valentino del 2004 in una stanza del residence di Rimini "Le Rose". Questo è quello che, meno di un mese fa, hanno sostenuto i consulenti della famiglia Pantani - tra cui il generale Umberto Rapetto - davanti alla Commissione parlamentare antimafia e in una memoria di 56 pagine, consegnata in quell'occasione a deputati e senatori, e che Il Fatto ha potuto leggere integralmente. "Risulta evidente che non si sia suicidato, ma sia stato vittima di morte violenta e per opera di terzi, verosimilmente connessa ai molteplici interessi della criminalità organizzata nel campo delle scommesse illecite e nel traffico di stupefacenti". "Qualcuno era con lui quando la morte è arrivata, c' è il segno evidente che il corpo sia stato spostato", spiega Rapetto riferendosi ad alcune macchie di sangue fresco rinvenuta sul luogo. Quello che non torna Sono passati 15 anni da quando il "Pirata" fu trovato morto. I genitori non hanno mai accettato le verità processuali, che raccontano di un decesso per overdose (chiuso con un processo a tre spacciatori, di cui due hanno patteggiato, mentre l' ipotesi dell' omicidio è stata archiviata per richiesta del gip di Rimini e confermata dalla cassazione nel 2017). E oggi, assistiti dall' avvocato Antonio De Rensis, chiedono di riaprire ancora una volta il caso. Tante cose non sono mai state spiegate. I segni sul volto del ciclista, descritti come "microlesioni" ma impressionanti e poco compatibili con una caduta. Il presunto isolamento del campione nel residence, su cui si basa la tesi del suicidio: è stato dimostrato, però, che alla stanza di Pantani si poteva accedere anche passando dal garage, senza essere visti. E poi le stranezze nella stanza, a soqquadro ma senza alcun arredo rotto, una specie di "finto caos". I sanitari, primi a trovare il cadavere, ricordano distintamente di aver notato il lavandino del bagno divelto per terra, e nessuna traccia di droga; nel filmato girato dalla polizia due ore dopo, invece, il lavabo è di nuovo al suo posto, e al fianco del cadavere c' è un "bolo" di cocaina completamente bianco pur essendo al centro di una pozza di sangue. Sono questi gli elementi che spingono Rapetto a parlare di una "scena alterata in almeno due circostanze". Un' ipotesi che adesso sembra trovare conferma anche nella testimonianza inedita che verrà mostrata stasera nel corso della trasmissione tv Le Iene. Nel servizio di Alessandro De Giuseppe, per la prima volta parla un esperto di investigazioni elettroniche che ha lavorato come consulente per la procura di Rimini e che era in quella stanza del residence "Le Rose", insieme alla polizia, il giorno in cui fu ritrovato Pantani. L' uomo svelerebbe dei nuovi dettagli sul filmato girato dalla scientifica: mostrerebbe diversi elementi che non combacerebbero col racconto fornito dai primi soccorritori. "Mi portano la cassetta con tutto il nastro fuori. "L' hanno rovinata", mi dicono, era inutilizzabile.", spiega l' ex consulente della procura. Un tentativo di manomissione? "È evidente", conclude. Commissione Antimafia Perché i consulenti della famiglia Pantani siano arrivati fino in Antimafia lo spiega il senatore M5S Giovanni Endrizzi, coordinatore del gruppo sulle scommesse clandestine che curerà l' istruttoria. "Il nostro interesse non è strettamente sul suicidio: noi vogliamo capire se le mafie abbiano avuto un ruolo in questa vicenda, il resto verrà di riflesso". Tutto parte dal famoso controllo del 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, in cui Pantani fu trovato con un valore di ematocrito troppo alto (52%, oltre il limite di 50) e per questo escluso dal Giro d' Italia che si apprestava a conquistare. Una vittoria che, secondo l' ex bandito Renato Vallanzasca, sarebbe stata impedita dalla camorra, preoccupata dalle troppe scommesse sul suo successo. Si è parlato e indagato tanto su quella rivelazione, che sembra trovare riscontro anche in un' intercettazione dell' ex camorrista Rosario Tolomelli. Lo stesso vale per i valori sballati del ciclista: secondo i periti della difesa il sangue fu deplasmato, privato della sua parte liquida per far salire l' ematocrito. Un complotto, insomma. A riguardo, la sezione di Polizia giudiziaria ha messo per iscritto che "non è escluso che il campione di sangue prelevato a Marco Pantani a Madonna di Campiglio possa essere stato sottoposto ad una manipolazione". Ma nemmeno si è mai riuscito a provarlo: per questo anche il secondo fascicolo, aperto a Forlì, è stato archiviato nel 2016. Da Madonna di Campiglio, Pantani non si sarebbe più ripreso, scivolando nella depressione e nella droga, fino alla morte nel 2004. Nella memoria, i misteri "Macroscopiche lacune investigative e forme di trascuratezza marchiane", come le definisce la memoria, facendo riferimento ad esempio alla mancata rilevazione delle impronte nella stanza. "Con gli occhi del poi, poteva essere utile rilevarle", ammette Paolo Giovagnoli, procuratore che ha curato il secondo fascicolo sul decesso, nel documentario Giallo Pantani andato in onda su Nove. "Non è più possibile far finta di nulla: nuove testimonianze richiedono nuove indagini", l' appello dell' avvocato della famiglia, Antonio De Rensis. "Ripartiamo da questi elementi di contorno: da qui possiamo provare a capire cosa è successo in quella stanza quel giorno, chiediamo solo questo. Magari così scopriremo anche come è morto davvero Marco". E forse persino cosa è accaduto quella famosa mattina a Madonna di Campiglio, l' inizio della fine della storia, ancora irrisolta.
Marco Pantani, perché il caso della sua morte può riaprirsi, scrive il 13 Febbraio 2019 Tommaso Lorenzini su Libero Quotidiano. Domani saranno passati 15 anni dalla morte di Marco Pantani, avvenuta all' Hotel Le Rose di Rimini. Un caso avvolto ancora da punti oscuri, evidenziati da mamma Tonina e dal lavoro di molti professionisti fra i quali l'avvocato De Rensis, che la Procura di Rimini non ha mai chiarito. E ieri, un servizio delle Iene ha posto nuovi interrogativi su quella morte indicata come overdose di cocaina ma, dopo tre perizie, attribuita a un mix letale di droga e psicofarmaci. Tuttavia, la famiglia di Marco (foto del cadavere alla mano e trasmesse in tv) sostiene che fu picchiato e costretto a ingerire la sostanza. E dichiarazioni inedite, come quelle di Fabio Carlino (assolto in Cassazione dall' accusa di aver ceduto la dose di coca letale) e Elena Korovina (ultima amante del Pirata) potrebbero portare alla riapertura dell'inchiesta.
Pantani, le testimonianze raccolte da Le Iene riaprono il caso? Scrivono Le Iene il 12 febbraio 2019. Il corpo del campione di ciclismo Marco Pantani è stato trovato il 14 febbraio di 15 anni fa in una camera d’albergo a Rimini. Per la giustizia è morto da solo per un’overdose di cocaina. Alessandro De Giuseppe ha ascoltato in esclusiva le parole di tre testimoni che potrebbero far riaprire le indagini. La morte della leggenda del ciclismo Marco Pantani è una delle più grandi tragedie sportive italiane. Il 14 febbraio di 15 anni fa verso le 20.30, il suo cadavere è stato trovato in una camera d’albergo di Rimini, Marco aveva 34 anni. Stiamo parlando di uno dei più grandi ciclisti degli ultimi anni, vincitore di Giro d’Italia e Tour de France nel 1998 e fermato per i livelli di ematocrito troppo alti nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999, quando stava per vincere il suo secondo Giro. Pantani, prima di morire, stava attraversando un periodo terribile, fatto anche di depressione e uso di sostanze stupefacenti. “Marco non ero più il mio Marco, perché usava cocaina”, dice la madre Tonina al nostro Alessandro De Giuseppe. Restano dei dubbi sulla ricostruzione della sua ultima notte.
Primo, nel filmato fatto dalla scientifica il lavandino del bagno si vede chiaramente che è attaccato al muro, ma tre diversi testimoni entrati prima della polizia sostengono di averlo visto in terra.
Secondo, perché, sempre nel video della scientifica, accanto al corpo di Pantani si vede una grossa pallina di cocaina ma i soccorritori arrivati prima della polizia non la vedono.
Terzo, perché se la mattina Marco ha chiesto alla reception di chiamare i carabinieri perché delle persone gli davano fastidio, nessuno l’ha fatto?
Quarto, l’ex spacciatore che al tempo riforniva Pantani sostiene che il ciclista non avesse con se una dose di cocaina sufficiente a ucciderlo. Secondo lui l’unica spiegazione è che ne abbia presa dell’altra da qualche altra parte.
Quinto, le ferite sul corpo di Marco per l’avvocato della famiglia Pantani e secondo il primo del 118 ad arrivare sul posto non sarebbero state autoinflitte, come sostiene la magistratura.
Per i giudici c’è soprattutto una verità inoppugnabile che metterebbe a tacere ogni eventuale stranezza: Marco nella sua stanza all’Hotel le Rose di Rimini era solo e nessuno poteva entrare o uscire da lì senza essere visto e quindi solo lui può essere stato causa della sua morte. Questa verità potrebbe essere però messa in discussione. Per uscire ed entrare nell’hotel si poteva utilizzare anche una porta secondaria che dava sui garage, come vi abbiamo raccontato anche in un precedente servizio di Alessandro De Giuseppe. Non solo Marco poteva uscire dunque senza essere visto ma, secondo il titolare di un bar poco distante, Pantani il giorno prima sarebbe andato a prendere un caffè nel suo locale. La testimonianza più clamorosa è quella di un ragazzo che sostiene che Marco i giorni prima della morte avrebbe dormito in un altro hotel e chiacchierato con altre persone, tra cui una ragazza. Di questo nelle inchieste non risulta nulla, ma se fosse vero metterebbe in discussione la tesi che nei giorni prima della morte Marco fosse isolato e non avesse visto nessuno. C’è anche una prostituta che conferma questa versione, dicendo che una sua amica e collega, sarebbe stata con il ciclista il giorno della sua morte.
Marco Pantani, a 15 anni dalla morte si riaprono le indagini? Scrivono Le Iene il 12 febbraio 2019. La leggenda del ciclismo Marco Pantani è morto il 14 febbraio 2004 in circostanze che, nonostante il caso sia stato chiuso come morte da overdose di cocaina, sollevano ancora molti dubbi. A distanza di 15 anni, le testimonianze raccolte da Alessandro De Giuseppe potrebbero far riaprire il caso. Esattamente 15 anni fa, il 14 febbraio 2004, Marco Pantani viene trovato morto in una stanza dell’Hotel Le Rose di Rimini. Il campione di ciclismo, vincitore di Giro d’Italia e Tour de France nel 1998, squalificato per livelli di ematocrito troppo alti rilevati nelle analisi di Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999 (clicca qui per il servizio, sempre di Alessandro De Giuseppe, sui molti dubbi anche su questa storia). Aveva 34 anni. Nonostante la giustizia abbia chiuso il caso come morte per overdose da cocaina, a distanza di anni sono ancora molti i punti che non tornano nella dinamica che avvolge la sua morte. Abbiamo evidenziato questi dubbi nel servizio di Alessandro De Giuseppe di ottobre 2018. A cominciare dal lavandino del bagno, che nel filmato della scientifica è chiaramente attaccato al muro, ma che tre testimoni entrati prima della polizia dicono di aver visto a terra, fino alla pallina di coca accanto al corpo di Marco che i soccorritori affermano di non aver mai visto. E sono solo alcune delle incongruenze che gettano ombre sulla ricostruzione della morte del ciclista (clicca qui per leggere tutti i dubbi). Per la giustizia c’è però una verità inoppugnabile: Marco nella sua stanza d’hotel era solo e nessuno poteva entrare o uscire da lì senza essere visto. Quindi solo lui può essere stato la causa della sua morte. E’ proprio questa verità che potrebbe essere messa in discussione dalle testimonianze raccolte da Alessandro De Giuseppe nel servizio del 13 febbraio 2019. Non solo Marco poteva uscire ed entrare dall’hotel utilizzando una porta secondaria che dava sui garage (come vi abbiamo raccontato in un precedente servizio), ma, secondo il titolare di un bar poco distante, Pantani il giorno prima sarebbe andato a prendere un caffè nel suo locale. C’è inoltre la clamorosa testimonianza di un ragazzo secondo cui Marco i giorni prima della morte avrebbe dormito in un altro hotel e chiacchierato con altre persone, tra cui una ragazza. Di questo nelle inchieste non risulta nulla, ma se fosse vero metterebbe in discussione la tesi che nei giorni prima della morte Marco fosse isolato e non avesse visto nessuno. A confermare questa versione è anche una prostituta, che racconta alla Iena che una sua amica e collega sarebbe stata con il ciclista il giorno della sua morte. “Io voglio arrivare alla verità”, dice Tonina, la mamma di Marco, ad Alessandro De Giuseppe. “Sono 14 anni che lotto, ho speso un capitale ma non me ne frega niente. In onore di Marco voglio arrivare alla verità”.
"Il mio amico Pantani. Vi spiego perché lui vivrà per sempre". Cipollini ricorda il grande e sfortunato campione «Un giorno facemmo come Coppi e Bartali...», scrive Pier Augusto Stagi, Giovedì 14/02/2019, su Il Giornale. «Avevo vinto una tappa al Giro del Mediterraneo e per festeggiare quel successo, ma soprattutto la ricorrenza di San Valentino, ero a cena con l'allora mia moglie al ristorante Rampoldi di Montecarlo. Ad un tratto vedo entrare un amico italiano che si dirige verso di me scuro in volto e mi invita a seguirlo. Non proferisce parola, si limita a passarmi il suo blackberry e leggo le notifiche che scorrono: «Trovato morto in un residence Marco Pantani». In quel momento, in quel preciso istante, in me è calato il buio». Quindici anni sono passati da quella terribile sera nella quale Mario Cipollini ha saputo della morte di uno dei suoi più cari amici. «Cosa mi è rimasto di Marco? Tutto, ma solo le cose belle. Nel cuore mi sono rimasti solo frammenti felici di vita quotidiana, di zingarate pazzesche da Amici miei, al limite della follia». E i due di bischerate ne hanno fatte a iosa. «Tappa del Giro del 2003 (l'ultimo corso dal Pirata, 13°, ndr). In un tratto di strada tra l'Abruzzo e le Marche, io e Marco decidiamo di scambiarci le ruote. Lui vuole assolutamente provare le mie, molto più leggere e scorrevoli, così ad un certo punto, come due ragazzini, ci fermiamo a bordo strada e velocissimamente eseguiamo l'operazione. Nessuno si accorge di niente, ma quel giorno io ho visto negli occhi di Marco la felicità». Uno scambio che non divide l'Italia, ma rinsalda un'amicizia «Sarebbe potuto essere come il famoso scambio della borraccia tra Bartali e Coppi, solo che di questo gesto, non c'è un'immagine che una. Siamo stati due folli, ma almeno siamo stati bravi a non farci beccare da nessuno. E non sai poi le risate». Tante le risate, ma anche qualche rammarico. «Il più grosso? Non essere riuscito a coronare il sogno di correre con lui in squadra. Io avevo da poco conquistato il titolo mondiale a Zolder, ciclisticamente avevo raggiunto lo zenith, e potevo solo ritirarmi. Però mi era venuta l'idea di portare alla Domina Vacanze il Pirata. Ne parlai con lui, che si mostrò subito entusiasta. Diede mandato alla sua manager (Manuela Ronchi, ndr) di seguire la cosa, la quale s'interfacciò con il team manager della Domina Vincenzo Santoni e con Franco Cornacchia della Mercatone Uno che sarebbe dovuta entrare come sponsor nell'operazione, ma nonostante noi due fossimo assolutamente d'accordo su tutto, non se ne fece nulla». Non chiedetegli però perché non se ne fece nulla: Mario sull'argomento glissa con abilità. «Questo lo dovreste chiedere a loro, in particolare alla Ronchi. Di tutta quella vicenda mi è restata nel cuore solo una telefonata: restammo a parlare per quasi un'ora. Io ero seduto su un finestrone in avenue de Grande Bretagne, a Montecarlo. Io e Marco sognavamo entrambi ad occhi aperti, ma quel sogno rimase tale». Mario parla di Marco con dolcezza infinita, come si fa con chi ha lasciato un segno profondo del suo passaggio. «Un'immagine di noi? Io e lui in fondo al gruppo che parliamo come due ragazzini di donne, motori e caccia. Ci siamo conosciuti in una riserva, nei pressi di Pavia. Entrambi ospiti di un amico (Alcide Cerato, ndr): ci ritrovammo immediatamente a ridere e scherzare come vecchi amici». Oggi sono quindici anni senza il Pirata, mentre mamma Tonina insegue con tenacia la verità sulla morte del figlio. «E fa bene. Capisco il suo dolore, e rispetto tutto quello che fa». Se poi gli si chiede chi fosse Marco Pantani, Mario prende fiato, tira un lungo sospiro e con un filo di voce risponde: «Era l'emozione compressa in uno scatto. Un brivido infinito. Un soffio al cuore. L'amore per uno sport e un corridore che ha fatto girare la testa a tanti. Pantani è amore e passione. Lo è ancora adesso, perché Marco nei cuori di tutti noi non è mai davvero morto».
Marco Pantani: 15 anni fa moriva il "Pirata", scrive Edoardo Frittoli il 14 febbraio 2019 su Panorama. Il "Pirata" Marco Pantani aveva già vinto il Giro d'Italia nel 1998. Sarebbero bastati pochi giorni di quell'anno eccezionale per passare dalla maglia rosa alla maglia gialla. Prima della doppietta del ventottenne di Cesenatico, solamente i campionissimi della storia del ciclismo del calibro di Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche e Miguel Indurain erano riusciti a fare altrettanto. Non fu un Tour facile, quello di 20 anni fa. Non tanto per le difficoltà del percorso, quanto per gli effetti dell'esplosione dello scandalo doping. Tutto era cominciato l'8 luglio 1998, tre giorni prima dell'inizio del Tour, quando fu fermata alla frontiera tra Svizzera e Belgio un'ammiraglia della squadra francese Festina, per la quale correva uno dei favoriti di quell'anno, lo svizzero Alex Zulle. All'interno dell'auto i doganieri trovarono centinaia di dosi di farmaci dopanti, in particolare 235 dosi di eritropoietina (EPA). Il conducente, il massaggiatore Voel, fu condotto in carcere ed interrogato. Le sue dichiarazioni indicarono come colpevoli i dirigenti del team francese. Il direttore sportivo Bruno Roussel fu a sua volta arrestato in seguito ad ulteriori perquisizioni nella sede di Festina e nelle camere d'albergo dei corridori, che nel frattempo avevano iniziato il Tour partito quell'anno dall'Irlanda.
Il Pirata comincia in sordina. Nel clima teso che seguì lo scandalo Festina, erano previste le prime tappe del Tour 1998 che vedeva come favorito il vincitore dell'edizione dell'anno precedente, il tedesco Jan Ullrich (team Deutsche Telekom). Ed infatti Ullrich indossava la maglia gialla già alla settima tappa (la cronometro da Meyrignac-L'Eglise a Corrèze) dando al pirata (che non era un velocista) ben 4 minuti. Nel frattempo il connazionale Mario Cipollini aveva vinto due tappe di fila il 16 e 17 luglio, mentre Pantani seguiva a distanza attendendo le tappe a lui più congeniali, quelle di resistenza in salita.
La maglia gialla, la protesta, la vittoria. All'undicesima tappa, da Luchon a Plateau dei Beille sui Pirenei il campione di Cesenatico taglia il traguardo per primo e "mangia" più di due minuti al vantaggio del rivale Ullrich, vittima durante la gara di una foratura. Il 27 luglio Pantani vince tappa e maglia gialla, che non toglierà più fino al trionfo. Ancora una gara in montagna, questa volta da Grenoble a Les Deux Alpes dove il Pirata farà ricordare il mito di Fausto Coppi sotto una pioggia battente. Pantani parte in sordina poi a metà gara, già in quota, raggiunge il gruppo di Ullrich e saluta tutti. Al traguardo darà al tedesco oltre 8 minuti portando la sua Bianchi giallo-celeste a compiere l'impresa davanti a milioni di spettatori entusiasti. Gli sviluppi dello scandalo doping, che aveva portato alla squalifica del team Festina e del favorito Alex Zulle, porteranno a nuove perquisizioni e arresti nel vivo del Tour 1998. Per questo team e corridori, che si sentivano sottoposti ad un regime poliziesco, decisero di scioperare fermando la tappa n° 17 da Albertville ad Aix-Les Bains dove fu annunciata la volontà di diversi team di ritirarsi dalla competizione. Anche Marco Pantani aderiva pienamente alla protesta, togliendosi simbolicamente la maglia gialla di un Tour che presagiva già il trionfo e la doppietta stagionale. La camera d'albergo dello stesso Pantani era stata perquisita nei giorni precedenti in cerca di sostanze proibite. Su 189 partecipanti, solamente 96 arriveranno a Parigi per l'ultima tappa. Pantani manterrà il vantaggio e la maglia gialla fino all'ingresso trionfale sugli Champs-Elysées il 2 agosto 1998, concludendo il Tour con un tempo totale di 92 ore, 49 minuti e 46 secondi.
Dalla luce alle tenebre. La squalifica del 1999. Marco Pantani rompeva un digiuno che per i ciclisti italiani durava dal 1965 con l'ultimo trionfo di Felice Gimondi. La gloria folgorante del doppio successo del Pirata durerà poco, affievolita dal buio del doping. L'anno successivo ai trionfi in maglia rosa e gialla Pantani sarà squalificato dal Giro d'Italia per i valori troppo alti di ematocrito. Non sarà più in grado di recuperare nè di tornare alla gloria di quella stagione fino alla tragica fine, giunta il 14 febbraio 2004.
“QUANDO MORI’, PANTANI NON ERA SOLO”. Da il Fatto Quotidiano il 17 aprile 2019. “Qualcuno era con lui” quando Marco Pantani è morto il 14 febbraio 2004 nella camera da letto di in un appartamento al quinto piano del residence ‘Le Rose’ di Rimini. È la tesi che Umberto Rapetto, già generale di brigata della Guardia di finanza, ha esposto in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Il generale, scelto come consulente dalla famiglia del campione di ciclismo, ha fatto riferimento in particolare a “delle macchie di sangue” e a come, al momento del ritrovamento del cadavere, “era posto il braccio: non si può pensare che sia stato lo stesso ciclista a spostarlo“. Insieme all’avvocato Cocco hanno consegnato all’Antimafia un dossier di 56 pagine chiedendo di valutare l’opportunità di svolgere una nuova inchiesta sul caso. “Sono convinto che chi di dovere possa presentare alle procure locali queste nuove acquisizioni” che “possono rappresentare motivo di interesse“, ha detto il presidente M5s della Commissione, Nicola Morra. La tesi di fondo dei legali della famiglia Pantani è sempre la stessa e coinvolge il giro di scommesse legate alla criminalità organizzata sul vincitore del Giro d’Italia 1999, quando il Pirata da vincitore annunciato fu escluso perché risultò positivo a un controllo antidoping dopo l’arrivo a Madonna di Campiglio. Riguardo alla morte di Pantani e alla successiva indagine, quanto raccontato da Rapetto in audizione ripercorre le contraddizioni che le successive inchieste giornalistiche e le ultime rivelazioni de Le Iene avevano già fatto emergere.
Alla stanza di Pantani si poteva accedere “anche dal garage”. Innanzitutto quello che è successo nei giorni e nelle ore precedenti al ritrovamento del cadavere del ciclista. “Si dice che Marco Pantani era sempre stato in quella stanza e che era solo. Eppure andando a scavare alcuni giornalisti hanno scoperto che lui da quella stanza è uscito“, spiega il generale Rapetto, facendo notare che l’hotel in cui il campione alloggiava aveva “un garage, era un albergo usato forse anche per passare qualche ora in intimità” e che “l’accesso dal garage era fuori da qualunque controllo“. Un altro punto sul quale Rapetto ha sollevato l’attenzione dell’Antimafia è il fatto che il ciclista chiese più volte alla reception, il giorno della morte, di chiamare i carabinieri “perché ‘c’è qualcuno che dà fastidio‘”. Quel qualcuno, fa notare il generale, “potrebbe essere arrivato dal garage. Le Iene hanno sentito la ragazza all’ingresso dell’hotel e il proprietario: nessuno ricorda nulla né ha idea del perché non si sia dato luogo ad una richiesta di aiuto tanto insistente”. E ancora: nella stanza in cui Pantani è stato trovato morto è stato rinvenuto un bastone con cui è stato sfondato il controsoffitto, “come se qualcuno cercasse qualcosa. Poi c’è il lavandino smurato e un buco nel controsoffitto, ci sono anche le bocchette di areazione che sono state rimosse: qualcuno probabilmente è entrato, cercava qualcosa. Chi? Cosa cercava? Perché?”, si chiede Rapetto.
Le “macchie di sangue” e la “pallina bianca intonsa”. Il cadavere di Pantani fu ispezionata da un medico della Asl di Rimini quella sera del 14 febbraio di 15 anni fa. Secondo quanto risulta in atti giudiziari, il corpo era ”prono, sul pavimento, al lato destro del letto”. Presentava ”vistose macchie ipostatiche sul volto, sul torace e sulle gambe”. Il medico legale rilevò “lievi escoriazioni sul capo, uscita di sostanza ematica dalle narici”, conseguenza della ”probabile lesione del setto nasale”. Una “vistosa chiazza di sostanza presumibilmente ematica”, infine, fu rilevata “sul pavimento, in corrispondenza del volto del cadavere”. Rapetto nel corso della sua audizione si concentra anche su questi aspetti. In particolare appunto quelle “macchie di sangue” che sembrano indicare una spostamento del braccio. “Non si può pensare che sia stato lo stesso ciclista”, afferma il generale. Che inoltre pone l’attenzione sulla presenza di un “enorme grumo di sangue sul pavimento con al centro una pallina bianca, intonsa, perfettamente bianca”. “È uno dei grandi misteri – prosegue – nonostante sia stata nel sangue, la pallina non ne era stata intaccata”. Un’altra ambiguità sulla quale si sono soffermati Rapetto e l’avvocato Cocco riguarda i prelievi effettuati dal medico legale, il dottor Giuseppe Fortuni, dell’Università di Bologna. “Il dottore racconta che quando ha terminato le operazioni relative all’autopsia – dice il generale – si è sentito seguito (solo dopo ha capito che si trattava di giornalisti) e anziché portare il cuore e i campioni nella struttura ospedaliera se li è portati a casa, in una cantina che aveva un frigo idoneo per la conservazione dei prelievi. Certo, nelle procedure di gestione tutto questo suona inconsueto”. E ancora, “il dottor Fortuni escluse la morte per l’uso dei farmaci, che sarebbero solo una concausa, la concentrazione di antidepressivi era modesta. Un’altra perizia dice invece che ci sarebbe stata una overdose da psicofarmaci: delle due l’una“, osservano i consulenti della famiglia.
Il Giro del 1999 e il test antidoping: “Serve approfondimento”. La tesi del generale Rapetto e dell’avvocato Cocco è che la criminalità organizzata non poteva permettersi di pagare scommesse fin troppo scontate sul ciclismo grazie alle vittorie di Pantani. Nel dossier di 56 pagine viene citata tra l’altro una intercettazione in cui un ex detenuto dice di essersi avvicinato a Renato Vallanzasca e di avergli parlato del caso Pantani. Secondo il racconto dell’ex capo della banda della Comasina, in carcere qualcuno gli disse: “Hai qualche milione da buttare? Se sì, puntalo sul vincitore del Giro. Non so chi vincerà, ma sicuramente non sarà Pantani”. Il campione di Cesena “sapeva benissimo, lo diceva lui stesso, che tutti i prelievi per i test antidoping venivano fatti sui primi dieci. Non sarebbe mai stato così stupido da esporsi ad un rischio così grande”, dicono Rapetto e Cocco di fronte all’Antimafia. “Delle 10 provette – fanno notare i consulenti – una sola è stata trattata secondo procedura, le altre non risultavano conformi agli standard. Tutto questo merita comunque un approfondimento per capire se il ciclista era effettivamente dopato o no”. I risultati dei controlli antidoping, come detto, portarono all’esclusione del Pirata dal Giro d’Italia la mattina del 5 giugno 1999.
Il legale della famiglia: “Tesi ufficiale non più sostenibile”. “L’audizione di Rapetto davanti alla Commissione antimafia rappresenta un momento molto importante, fondamentale per cercare finalmente, con la giusta determinazione, la verità sulla morte di Marco Pantani”, afferma all’Adnkronos l’avvocato Antonio de Rensis, legale della famiglia del ciclista. “Riteniamo – osserva l’avvocato – che la Commissione saprà ricercare e approfondire i tanti elementi emersi in questi anni, che rendono ormai non più sostenibile la tesi ufficiale sulla morte del campione”. Il capogruppo M5S in Commissione Antimafia, Mario Michele Giarrusso, commenta: “Credo che la morte di Pantani ci costringa a indagare se per caso la caparbietà del ciclista, che aveva una capacità economica notevole e quindi poteva affidarsi a consulenti e avvocati per chiedere verità e giustizia, ne facesse una persona a rischio: si immetteva in una strada che lo portava a confliggere con gli interessi della criminalità. Questo è elemento e terreno di investigazione da portare avanti senza tesi preconcette per capire se tutto quel che andava fatto è stato fatto o se ci sono filoni per consentire di fare chiarezza”.
· Schwazer, una perizia dei Ris per provare la sua innocenza.
Schwazer, tribunale di Losanna respinge il ricorso: la squalifica resta. Secondo i giudici, non è dimostrata la "massima probabilità" della manipolazione delle urine usate per il controllo antidoping che portò alla squalifica di 8 anni, Antonio Prisco, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Il tribunale federale di Losanna ha respinto la richiesta di sospensione della squalifica del marciatore Alex Schwazer. Brutte notizie per Alex Schwazer, Il Tribunale federale svizzero di Losanna non ha concesso la misura cautelare, cioè la sospensione della squalifica che aveva richiesto il marciatore altoatesino. È quanto apprende l’Agi da fonti dello staff del campione olimpico della 50 km di marcia di Pechino 2008, squalificato per recidività al doping fino al 2024. Secondo i giudici, non è dimostrata la massima probabilità della manipolazione delle urine usate per il controllo antidoping che portò alla squalifica, come ipotizzato da Schwazer. Schwazer si era rivolto alla giustizia ordinaria svizzera e aveva chiesto la sospensione della squalifica di otto anni per doping inflittagli dal Tribunale arbitrale dello sport nell'agosto 2016, alla vigilia delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. La richiesta della sospensione era stata avanzata dopo quanto scritto dal gip di Bolzano, Walter Pelino, che indicava, allo stato degli atti, quale ipotesi più plausibile la manipolazione delle provette del controllo antidoping del primo gennaio 2016, quello che poi ha portato alla squalifica di Schwazer. Il Tribunale svizzero sostiene invece che ''non risulterebbe con estrema verosimiglianza fondata e cioè che non risulterebbe con assoluta certezza la relativa prova''. Arriva quindi l'ennesimo colpo di scena del più complicato caso giudiziario-politico di doping dello sport italiano, che da sempre divide ferocemente innocentisti e colpevolisti. Intanto il marciatore bolzanino a inizio novembre aveva lasciato la sua Racines ed era tornato a Roma ad allenarsi con il sogno in tasca di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Dietro la ferrea volontà di continuare la sua battaglia c’è la rabbiosa protesta contro le lentezze dell’indagine penale e la volontà di scoprire se la scioccante positività al testosterone del gennaio 2016 sia stata o meno provocata un complotto ordito dalla federazione internazionale di atletica leggera, da sempre sua nemica giurata. Niente Olimpiadi, quindi per l'altoatesino che sperava nella misura cautelare per annullare la squalifica per recidività al doping fino al 2024 e provare a partecipare a Tokyo 2020. In ogni caso il legale dell’altoatesino Gerhard Brandstaetter non intende gettare la spugna e dichiara: "Sulla base di questo verdetto Alex Schwazer porterà avanti con massima convinzione il procedimento davanti al Tribunale federale, con lo scopo di portare le prove necessarie per una sospensione della squalifica". Insomma almeno per il momento non è finita qui.
Doping, svolta nel caso Schwazer: via ai test sulle urine di altri 56 atleti. Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. Nelle prossime settimane – con modalità pratiche tutte da definire - 56 tra mezzofondisti, fondisti e marciatori italiani di sesso maschile «doneranno» al tribunale di Bolzano le loro urine per permettere (ai periti nominati dal magistrato) di capire se il loro ex collega Alex Schwazer si sia o meno dopato con degli steroidi nel dicembre del 2015, come ha certificato il celebre controllo a sorpresa del 1 gennaio 2016 che costò al campione olimpico di Pechino otto anni di squalifica. La richiesta – formulata alla Fidal lo scorso ottobre dal Gip di Bolzano Walter Pelino, che ha aperto contro Schwazer un procedimento penale - è stata accolta martedì dalla federazione di atletica che ha «consegnato a Pelino l’elenco di 56 atleti di alto livello che hanno aderito alla sperimentazione richiesta dall’autorità giudiziaria». La Fidal ha ringraziato «gli atleti e le loro società per avere aderito, in maniera sollecita e convinta, alla richiesta». La sperimentazione - che non ha precedenti giudiziari - dovrebbe chiarire se la densità del DNA nelle urine di un atleta di resistenza (sottoposto a grandi sforzi e abbondante sudorazione) possa presentare caratteristiche simili a quelle riscontrate nel campione di Schwazer (fatto che supporterebbe l’ipotesi di doping volontario dell’atleta) oppure se il profilo dell’ex marciatore altoatesino sia del tutto anomalo e quindi - forse - modificato artificialmente da ignoti dopo il controllo, supportando l’ipotesi del complotto sostenuta con decisione da Schwazer e dal suo collegio difensivo.
Fabio Tonacci per “la Repubblica” l'11 novembre 2019. Alex Schwazer ha ricominciato a marciare, ma se al termine di quest' ultima corsa ci sarà Tokyo o il niente non dipenderà solo dalle sue gambe. Tante cose si devono allineare nel verso giusto per rivederlo ai Giochi. C' è una squalifica per doping da scavalcare con un ricorso urgente al Tribunale federale di Losanna, per esempio. «Non ho l' ossessione delle Olimpiadi, è presto per parlarne...». Non lo dice, non lo vuol dire, compie esercizi di realismo, minimizza. Ma ci pensa, eccome se ci pensa. Anche adesso che lo raggiungiamo nel suo appartamento di Racines, impegnato nella raccolta dei giocattoli che la sua Ida, due anni e mezzo, ha sparso per la stanza. «Sto cercando di insegnarle che deve rimetterli al suo posto». Più facile vincere una 50 km con un sasso legato ai piedi, come sa chiunque abbia figli. E però anche Ida ha avuto un ruolo nella decisione di Alex. Come se questo padre di 35 anni non voglia lasciare niente di irrisolto, o di intentato, davanti agli occhi della sua famiglia. Ancora due mesi fa, a Bolzano, dopo l' udienza davanti al giudice Walter Pelino in cui è stata portata la perizia dei Ris sui campioni di urina che le sono valsi otto anni di squalifica per testosterone, lei diceva che non sarebbe mai tornato alle gare. Cosa è cambiato? «Nell' ordinanza di ottobre il gip cita per la prima volta l' ipotesi della manipolazione delle provette, e dice che le famose email hackerate (lo scambio di messaggi tra il capo dell' antidoping della Iaaf, la Federazione internazionale di atletica, e il laboratorio di Colonia, in cui si parla di complotto ai danni di Schwazer, ndr ) potrebbero essere autentiche. Quell' atto ci permette di fare ricorso al Tribunale federale di Losanna, per chiedere la sospensione della squalifica fino al termine delle indagini».
Quante speranze ci sono?
«Poche. Negli ultimi anni ha accettato 3-4 istanze, tutte le altre le hanno respinte».
Se anche vincesse il ricorso, dovrà sottoporsi ai test antidoping.
Se lei è vittima di un complotto, come può fidarsi ancora del sistema?
«Abbiamo trovato una soluzione. Si tratta di un controllo aggiuntivo, da parte nostra, su ogni campione che mi verrà prelevato. La Wada non l' accetterà mai, ma servirà per tutelarmi da eventuali manomissioni. Io comunque sono disponibile a sottopormi a qualsiasi test».
Punta a Tokyo 2020, insomma...
«A forza di prendere legnate, sono diventato realista e cauto. Se accettano il ricorso, ci provo. Altrimenti vado avanti con la mia vita. Per ora l' unico annuncio da fare è che ho ripreso a marciare, ma non è che faccio l' atleta a tempo pieno. Continuo a lavorare a Racines e mi alleno nel tempo libero».
Il prossimo anno avrà 36 anni.
Detta in modo brutale: non è vecchio per gareggiare ad alti livelli?
«Beh, Yohan Diniz ha vinto i mondiali del 2017 quando aveva 39 anni».
Un' eccezione.
«So che l' età non mi aiuta, perché dopo i 35 anni perdi lo 0,5 per cento ogni anno rispetto al rendimento ottimale, ma posso farcela».
Fisicamente come sta?
«In questi tre anni ho continuato ad allenarmi tutte le volte che ho potuto, anche durante la pausa pranzo: in media quattro volte a settimana, quasi sempre correndo e talvolta con la bici, con sessioni brevi di 45 minuti ad alta intensità. Un po' di tempo fa ho fatto delle prove e il mio tempo sui dieci km oscillava tra 31'40'' e 33 minuti. Dopo l' ordinanza del gip ho ripreso a marciare. Se poi a febbraio dovessi avere la buona notizia da Losanna, passerò a una preparazione specifica».
Sei mesi basteranno per preparare un' Olimpiade?
«Sì. Non dico che arriverò al massimo delle mie potenzialità, come nel 2016, ma neanche mi serve: mi basta raggiungere il 90 per cento per giocarmela con i migliori. Ho ancora un po' di margine, perché a livello fisiologico so di avere un vantaggio rispetto agli altri. All' Olimpiade posso fare bene».
Fare bene che vuol dire?
«Vincere una medaglia. Ma, ripeto, è presto per fare questi discorsi. Se il ricorso a Losanna va bene, bene; se va male, non succede niente. In questi tre anni sono stato fortunato: ho trovato una donna super che è diventata mia moglie, ho una figlia e un lavoro che mi piace».
Cosa fa?
«Alleno podisti amatori. Siccome non posso seguire i tesserati, lo faccio a titolo privato con i non tesserati. È un lavoro a tempo pieno: ho 4-5 atleti ogni giorno, sono in giro dalle 8 del mattino fino alle 6 di sera: un' ora e mezzo di allenamento a persona più gli spostamenti. E poi devo fare i programmi per tutti».
Quanti ne segue?
«Finora ho avuto più di 700 richieste di allenamento. Guadagno quello che mi serve per mantenere la mia famiglia. Né io né mia moglie, che ha uno studio di estetica, abbiamo hobby costosi, viviamo in un appartamento a Racines di 70 mq, una vacanza all' anno. Ho una vita tranquilla e mi va bene così».
Zero social network, tra l' altro.
«Facebook, Twitter, Instagram non fanno per me. Tutti si possono registrare e scrivere falsità o atteggiarsi da esperti. Non ho tempo da perdere, mi concentro sul concreto».
Il concreto è un' indagine a Bolzano in cui lei, al momento, è l' unico indagato per frode sportiva.
«La vera medaglia olimpica sarà dimostrare la mia innocenza in quel procedimento penale. È più importante di Tokyo 2020. Ormai questa lotta fa parte di me».
Il gip ha da poco disposto un supplemento di perizia, per verificare le ipotesi alternative alla manipolazione che spieghino quella concentrazione anomala di dna nelle sue provette. Cosa si aspetta?
«L' unica ipotesi possibile è la manipolazione, vedrete».
Nel 2012 è già cascato nell' uso di sostanze dopanti e lo ha confessato. Perché dovrebbe essere diverso questa volta?
«Perché dopo quell' episodio ho chiesto di allenarmi a Sandro Donati, la persona che più di ogni altra ha combattuto il doping. Gli ho dato carta bianca, sono andato a vivere a cento metri da lui a Roma. Ci hanno voluto incastrare, questa è la verità».
Chi?
«Non credo che la Iaaf o la Wada siano responsabili della manipolazione, non erano loro a voler far fuori me e Donati. Di sicuro però non si aspettavano che questa storia andasse così avanti, né che io, Donati e il nostro avvocato Brandstätter fossimo così agguerriti».
Il gip di Bolzano ipotizza un possibile movente del complotto: la sua testimonianza contro due medici della Fidal. La rifarebbe?
«Sì. Mi sono rovinato la vita ma è giusto che chi sbaglia paghi, altrimenti le cose non cambieranno mai. Ho testimoniato contro Fischetto che mi faceva avere lo spray per l' asma, e io non sono asmatico. Aveva un database con valori ematici che possono essere solo doping, è stato condannato in primo grado, eppure lavora ancora alla Iaaf».
Dove trova la forza per la sua battaglia?
«Lo faccio per mia figlia e per mia moglie. Mi metterebbe tristezza se mi vedessero come uno di quelli che si lascia andare, triste e scarico. Ho già perso i miei migliori anni a livello fisico perché mi sono lasciato andare. Non succederà più».
Se una volta arrivato a Tokyo non dovesse vincere, la gente potrebbe pensare che lei era un campione solo grazie al doping.
«Se non dovessi vincere, lo accetterei con un sorriso. Se uno è più bravo tanto di cappello. Questo è lo sport».
Alex Schwazer e il doping: tutto quello che c’è da sapere sul caso giudiziario-politico più intricato dello sport italiano. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. La notizia bomba quindi – l’ennesima di un caso che divide ferocemente innocentisti e colpevolisti - è che Alex Schwazer a inizio novembre ha lasciato la sua Racines ed è tornato a Roma ad allenarsi. Dietro al gesto clamoroso del marciatore bolzanino (35 anni, una figlia), squalificato per recidiva di doping fino al 2024, c’è la sua rabbiosa protesta contro le lentezze dell’indagine penale che vuole scoprire se la scioccante positività al testosterone del gennaio 2016 sia stata o meno provocata un complotto ordito dalla federazione internazionale di atletica leggera, nemica giurata sua (ne ha denunciato i medici) e del tecnico Sandro Donati che evidenzia da anni ignavia e incompetenza dei vertici. «Auspichiamo – spiegano Donati e l’avvocato Brandstaetter, legale del marciatore - saggezza e senso di responsabilità da parte di chi oggi dirige le istituzioni, affinché si spezzi la catena di brutti e gravemente illeciti accadimenti, rendendosi conto che a Schwazer è stata già, ingiustamente, impedita la partecipazione all’Olimpiade di Rio de Janeiro, dove avrebbe avuto chiarissime chance di conquistare medaglie e che le istituzioni interessate si assumerebbero una responsabilità ancora maggiore, se il loro comportamento conducesse ad impedire ad Alex di partecipare anche ai Giochi Olimpici di Tokio». Quello di Schwazer è di certo il più complicato caso giudiziario-politico di doping dello sport italiano. Riassumiamolo.
2007-2011: da Pechino a Carolina Kostner, il mondo è ai suoi piedi. Bolzanino, classe 1984, Schwazer sale agli onori della cronaca sportiva a 23 anni, ai Mondiali di atletica di Osaka 2007, vincendo a sorpresa il bronzo nella 50 chilometri di marcia. L’anno successivo il carabiniere – allenato a Saluzzo dal coach-guru Sandro Damilano – trionfa sulla stessa distanza alle Olimpiadi di Pechino, infliggendo un distacco record agli avversari: è il quarto oro italiano nella storia nella distanza più lunga del programma olimpico. Da lì alla fine del 2011 – in apparenza, ma questo lo scopriremo solo dopo – per Alex sono solo trionfi, sport pubblicitari e passerelle di prestigio: il fidanzamento glamour con la star del pattinaggio Carolina Kostner, il ruolo di testimonial della Ferrero, l’oro mondiale agli Europei di Daegu nella 20 chilometri. Alex è il ragazzo d’oro dello sport italiano.
2011-2010: i fantasmi e la caduta. In realtà la vita di Schwazer è popolata di fantasmi. Il marciatore ha problemi fisici e psicologici, e il terrore costante di non essere all’altezza degli avversari. interrompe il suo rapporto con Sandro Damilano e si rivolge in gran segreto al dottor Michele Ferrari, celebre guru del ciclismo squalificato a vita dall’agenzia mondiale antidoping. E alla vigilia dei Giochi di Londra 2012 (dove sarebbe stato la punta dell’Italia dell’atletica leggera) organizza un viaggio in Turchia per procurarsi eritropoietina e steroidi il cui utilizzo ha decifrato dopo un lungo lavoro di pianificazione su Internet. Sfuggito ripetutamente ai controlli non certo capillari della federazione (si allena all’estero, si nega quando arrivano agli ispettori) viene beccato positivo all’Epo il 30 luglio 2012. Squalificato per due anni, rompe il fidanzamento con Kostner che ha un po’ vigliaccamente coinvolto nella vicenda, patteggia una condanna penale di nove mesi e con le sue confessioni inguaia i medici federali Fischetto e Fiorella, accusati di favoreggiamento nei suoi confronti. Il processo penale contro di loro è in corso: sentenza d’appello il 10 dicembre, in primo grado i sanitari hanno beccato due anni di reclusione.
2015: Sandro Donati, l’angelo della redenzione. Sandro Donati – maestro dello sport, per curriculum e statura morale l’uomo più in vista dell’antidoping italiano – è il consulente della procura di Bolzano nel processo contro Schwazer. È a lui che si rivolge Alex, nel 2015, quando la sua squalifica sta per terminare. Una scelta clamorosa. L’atleta vuole un allenatore-garante che lo porti verso i Giochi di Rio 2016. Donati accetta il ruolo, ospita il ragazzo a Roma e lo sottopone a un protocollo di controlli extra-regolamento per certificarne la pulizia. I due lavorano durissimo sul piano dei carichi di allenamento e della tecnica: l’atleta fa grandi miglioramenti. L’operazione Donati crea polemiche e un velenoso (e spesso codardo) fronte di oppositori. Il tecnico romano è detestato a livello dirigenziale sia in Italia che all’estero: la sua intransigenza e i suoi «j’accuse» verso l’establishment (ha scritto due libri di grande successo) gli provocano decine di nemici. Di questo periodo va ricordata una data chiave. Il 15 dicembre 2015 Alex lascia Roma per Bolzano, dove testimonia al processo contro i medici della federazione internazionale. Lo stesso giorno la Iaaf (con un preavviso che non ha precedenti) ordina un controllo antidoping a sorpresa presso la sua casa di Racines per il 1 gennaio 2016.
Il terribile 2016. Il controllo antidoping del 1° gennaio 2016 si fa, alle 7 del mattino. Quello che succederà alle due provette di urina di Alex (prelevate dall’ispettore Dennis Jenkel) ha quasi dell’incredibile e richiederebbe un libro per essere raccontato nei dettagli. Una successione di fatti inspiegabili, di omissioni, di «alterazioni della catena di conservazione» e di reticenze surreali fanno sì che la notizia della positività sia comunicata solo nel giugno 2016, all’immediata vigilia dei Giochi, quando Alex ha già vinto la prova di Coppa del Mondo al rientro ed è il più serio candidato alla vittoria sia nella 20 che nella 50 chilometri. A posteriori, scopriremo (grazie a un gruppo di hacker russi) che i vertici medici della Iaaf temevano (e tremavano) per quello che poteva emergere dall’inchiesta scambiandosi freneticamente mail. I sospetti pesanti non sono serviti a nulla: a Rio, riunitosi in fretta e furia a poche ore dalla gara, il Tribunale di Arbitrato Sportivo di Losanna squalifica Alex (recidivo) per otto anni mettendo la parola fine alla sua carriera sportiva.
L’inafferrabile verità. Dal processo lampo di Rio de Janeiro sono passati oltre tre anni. Alex ha una bimba e si è inventato un lavoro (coach di atleti non tesserati) e l’unica ricerca della verità è quella del tribunale di Bolzano che vuole capire (Schwazer è indagato, il doping in Italia è reato penale) se l’atleta si sia dopato di sua volontà o se qualcuno l’abbia incastrato e per questo vada perseguito e punito. Riassumere i fatti è difficile. Il Gip ha ordinato numerose perizie per capire se l’urina di Alex del prelievo sia davvero la sua (lo è) e in alternativa se qualcuno l’abbia manipolata per farlo risultato positivo. Su questo una risposta ancora non c’è. Di sicuro l’ipotesi della contaminazione pre-prelievo (qualcuno che abbia fatto assumere testosterone ad Alex prima che arrivasse il controllo) è stata scartata. L’unica possibilità è che le urine siano state <inquinate> dal momento in cui l’ispettore le ha prese in consegna al controllo. Di stranezze, anomalie, comportamenti irrituali in quel controllo che è stato ricostruito nei minimi dettagli (a dispetto dell’ostilità e dei tentativi di ostruzione della federazione e dell’agenzia antidoping) ve ne sono a tonnellate. Ma nessuno è ancora riuscito a rispondere alla domanda chiave portando delle prove: come si sia potuti intervenire su un campione sigillato per doparlo senza alternarne il Dna. Per risolvere gli ultimi dubbi (una differenza di densità tra i vari flaconi) il magistrato ha chiesto un’ulteriore serie di prelievi a 50 atleti volontari.È davvero l’extrema ratio. Nella primavera 2020 ne sapremo di più. Difficile dire se la verità verrà fuori, di certo il caso Schwazer ha messo impietosamente a nudo la fragilità del sistema dei controlli e di chi se ne occupa.
Marco Bonarrigo per il Corriere della Sera il 10 novembre 2019. Il penultimo colpo di scena? Un mese fa, quando un giudice a Bolzano dispose una (inedita) raccolta delle urine di 50 atleti-cavia per confrontarle con quelle dell' indagato e valutare l'eventuale manipolazione dei flaconi del controllo antidoping che il 1 gennaio 2016 gli costò 8 anni di squalifica. Ieri l'ultimissimo: Alex Schwazer «è tornato ad allenarsi per tenere accesa una speranza di tornare alle gare» ha spiegato il mentore Sandro Donati aggiungendo che l' atleta «non intende provocare nessuno». L'indagine avanza a rilento, i magistrati non riescono a capire se qualcuno abbia giocato al marciatore (o a Donati) un brutto scherzo. Con pochi indizi e zero prove, spuntano le cavie. Ben che vada, l'ennesima perizia sarà pronta in primavera. Pure se emergessero elementi clamorosi, marciare in Giappone è improponibile per la «finestra» preventiva di sei mesi dei controlli antidoping sugli atleti al rientro agonistico, controlli cui l'atleta ieri si è dichiarato disponibile da subito. Inusuale anche il comunicato del legale di Schwazer, Gerhard Brandstaetter che diffida le istituzioni sportive «dall' assumersi la responsabilità di impedire all'atleta di partecipare anche ai Giochi di Tokyo». E Parigi 2024? La sanzione sarà comunque scontata, Schwazer avrà 40 anni ma la sua 50 chilometri (vinse l' oro 2008) fuori dal programma agonistico.
Caso Schwazer: il Gip di Bolzano chiede altre analisi e cerca «50 atleti cavia» da testare. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Bonarrigo. L’ordinanza dei Gip di Bolzano capovolge i ruoli nel processo per doping al marciatore, che per essere approfondito ha bisogno di 50 «cavie». Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, ha disposto mercoledì un ulteriore supplemento di perizia sul caso di doping che coinvolge l’ex marciatore altoatesino Alex Schwazer, positivo ad un controllo a sorpresa nel gennaio 2016 alla vigilia dei Giochi Olimpici di Rio. L’obbiettivo della perizia resta lo stesso: individuare eventuali tracce di manipolazione nei flaconi dei campioni di urina prelevati al marciatore il 1 gennaio 2016 nella sua casa di Racines. Il Gip (in 32 pagine argomentate con puntualità e precisione) ha chiesto ai periti del tribunale di effettuare ulteriori analisi «longitudinali» su atleti di resistenza (fino ad oggi sono stati testati solo soggetti «normali») per verificare un range di riferimento delle oscillazioni fisiologiche dei valori di testosterone. Pelino ritiene l’ipotesi di manipolazione prevalente rispetto al doping (il che fa pensare a un proscioglimento dell’atleta nel processo a suo carico) e sottolinea il comportamento anomalo e sospetto di federazione internazionale e agenzia antidoping anticipando una possibile rogatoria internazionale. A chiusura delle 34 pagine dell’ordinanza con cui dispone i supplementi di perizia , il Gip scrive «che per l’effettuazione delle analisi atte a verificare che l’anomala concentrazione di Dna sia dipesa dall’enorme sforzo compiuto dall’atleta è necessario reperire con la collaborazione della Federazione Italiana di Atletica Leggera almeno 50 atleti volontari di sesso maschile che pratichino attività di marcia o simili e prelevare un campione d’urina a ciascuno di essi». Richiesta finora mai avanzata nella pur variopinta storia italiana del doping.
Inchiesta doping Schwazer: quando la «parte lesa» diventa il principale sospettato. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 da Corriere.it. È decisamente interessante l’ordinanza di 34 pagine con cui il giudice per le indagini preliminari di Bolzano, Walter Pelino, mercoledì ha disposto un «ulteriore supplemento di perizia nel procedimento penale contro Schwazer Alex, nato a Vipiteno il 26/12/194» per violazione dell’articolo 9 comma 1 della legge antidoping 376/2000. Anomalo perché – nella sostanza e in molte sue parti – è un atto di accusa verso almeno due delle «persone offese» nel procedimento, la Federazione internazionale di atletica leggera (Iaaf) e l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) e perché chiede la collaborazione della terza (la Federazione italiana di atletica) per l’accertamento della verità. Anomala perché concepita e scritta (molto bene, considerato che si tratta di atto tecnico giudiziario) come una sorta di pamphlet e soprattutto perché che lascia intravedere un’inversione dei ruoli tra indagato («Sussiste un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’indagato») e parte lesa: il magistrato analizza punto per punto le famose mail tra Iaaf e Wada recuperate dagli hacker russi e giudica «plausibile anche se tutto da verificare» il movente di una possibile manipolazione delle urine per «punire» l’atleta e il suo tecnico, Sandro Donati, considerato che la richiesta di effettuare il famigerato controllo a sorpresa del 1 gennaio 2016 (con enorme anticipo rispetto alla prassi) viene effettuata nel giorno in cui Schwazer testimonia contro i vertici medici Iaaf che avrebbero «coperto» il suo primo caso di doping. Oltre a questo, la catena di anomalie, omissioni e reticenze puntualmente elencate dal magistrato (tutte note da tempo, per carità) bastano a gettare più di un’ombra sui comportamenti del governo dello sport e dell’antidoping di cui – scrive «è in gioco la stessa credibilità». Ma la parte più interessante (e inedita, soprattutto) arriva alla fine dell’ordinanza, quando il magistrato si sforza di cercare un modo per verificare la «non fisiologicità» dei campioni di urina dell’atleta recuperati nel laboratorio di Colonia e in particolare la grande differenza di densità del DNA in due aliquote dello stesso campione non spiegabile con gli studi scientifici a disposizione. Per stabilire uno «standard di riferimento» (cos’è normale e cosa no) i periti del Ris di Parma hanno prelevato campioni di urina da un centinaio di volontari, senza però ottenere risultati significativi. Il Gip Pelino invece chiede che «La Federazione italiana di atletica leggera collabori fornendo almeno 50 atleti volontari di sesso maschile che pratichino in maniera agonistica la marcia o attività sportiva che richiedano sforzi fisici similari e prelevare un campione di urina di ciascuno di essi». In pratica si domanda alla federazione (parte lesa nel procedimento) di reperire volontari che scagionino l’atleta indagato. Un qualcosa di mai visto nel pur variopinto panorama del doping italiano. Ciò che è certo è che la perizia non potrà essere consegnata prima della prossima estate, quando saranno trascorsi quattro anni e mezzo dai fatti: archiviazione dell’indagato (quasi scontata, a questo punto) o ulteriori indagini sono rimandate a data da destinarsi.
Doping, caso Schwazer: il gip dispone supplemento di perizia. "L'ipotesi della manipolazione rimane in campo". La difesa dell'ex marciatore, squalificato per recidiva fino al 2024, contesta la regolarità delle analisi che hanno portato alla sanzione. La Wada, agenzia antidoping mondiale, aveva invece garantito la validità del campione di urine. La Repubblica il 16 ottobre 2019. Parole e concetti forti sono contenuti nelle 34 pagine che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino ha formulato circa la vicenda del secondo presunto caso doping che vede coinvolto Alex Schwazer, attualmente squalificato per recidiva fino al 2024. Il giudice invierà copia dell'ordinanza che dispone un ulteriore supplemento di perizia alla Procura presso la Corte d'Appello di Colonia, città sede del laboratorio accreditato Wada dove tardivamente sono state consegnate le due provette (campione A e B) contenenti l'urina dell'ex marciatore azzurro. La richiesta è se l'autorità giudiziaria tedesca aveva condotto un'attività d'indagine nel 2017 quando è stata resa nota l'esistenza di messaggi di posta elettronica tra il legale della Iaaf, Ross Wenzel, il direttore del laboratorio di analisi di Colonia, Hans Geyer, ed il capo dell'antidoping della Iaaf, Thomas Capdevielle, nei quali era stata scritta la parola "complotto" (plot) contro Schwazer (abbreviato in AS). Secondo il giudice Pelino "l'ipotesi della manipolazione rimane in campo ed è l'unica che non richieda una sperimentazione per dimostrarne la fattibilità". Il gip nelle sue conclusioni sostiene che "se questa vertenza si chiudesse qui, su tutta la vicenda rimarrebbero profonde ombre che certamente non gioverebbero né all'indagato (Schwazer) né alla credibilità ed immagine delle istituzioni coinvolte". Le istituzioni sono la Iaaf, l'associazione delle federazioni internazionali di atletica leggera, la Wada, l'agenzia mondiale antidoping, ed il laboratorio di Colonia.
GIUSEPPE SCARPA e ROMOLO BUFFONI per il Messaggero il 17 ottobre 2019. Alex Schwazer si rimette in marcia. Non lui, ormai 34enne ed ex atleta, ma il caso relativo alla sua squalifica per doping. Ieri il gip di Bolzano titolare del procedimento penale a carico dell' ex atleta, ha disposto un ulteriore supplemento di perizia. Il giudice Walter Pelino nell' ordinanza, ai fini dell' incidente probatorio, chiede alla Fidal e alla Wada (convenute come parti lese assieme alla Iaaf) di produrre 50 campioni di urina di atleti uomini volontari «che pratichino attività agonistica in discipline quali la maratona, la marcia o simili, al fine di verificare se l' anomala concentrazione del Dna riscontrata nel campione prelevato a Schwazer l' 1/01/2016 possa essere dipesa dall' enorme sforzo fisico praticato dal marciatore». I 50 campioni anonimi richiesti alla Wada (l' agenzia mondiale antidoping), invece, devono riguardare «altrettanti soggetti risultati positivi al testosterone esogeno, provvedendo ad indicare la data del prelievo e la quantità di urina prelevata». Una richiesta singolare che, per l' avvocato Giorgio De Arcangelis che rappresenta la Fidal (Stefano Borrella e Guido Carlo Alleva del Foro di Milano rappresentano rispettivamente Wada e Iaaf) «non fa altro che confermare il dubbio del giudice circa la colpevolezza di Schwazer, il che da solo basterebbe per assolverlo».
LA VICENDA. I dubbi sono gli stessi, che questo caso si trascina fin dal giorno in cui esplose e che spinsero Sandro Donati, figura riconosciuta come di spicco nella lotta al doping, all' epoca dei fatti allenatore di Schwazer, a parlare di «complotto» ordito per smontare il programma di lavoro dell' atleta che con le sue prestazioni stava dimostrando di poter vincere in una disciplina dura come la 50 km di marcia senza l' ausilio di sostanze dopanti. Schwazer venne trovato positivo in due occasioni. La prima volta accadde alla vigilia delle Olimpiadi di Londra 2012 e il marciatore (oro ai Giochi di Pechino 2008 e portacolori dei Carabinieri), in lacrime, ammise l' uso di Epo: «Volevo essere più forte a Londra, ho fatto tutto da solo. Ho sbagliato. La mia carriera è finita». Al rientro, seguito da Donati, vinse la 50 km a squadre nel Mondiale del 2016 disputato a Roma, con conseguente qualificazione ai Giochi di Rio 2016. Ma in Brasile Alex non ci andò mai, perché il 22 giugno la Wada comunicò l' esito positivo al testosterone del controllo a sorpresa effettuato a Racines (paese di 4mila anime in provincia di Bolzano) il 1° gennaio dello stesso anno. Di questa seconda positività, però, Schwazer si disse sempre innocente ma il 10 agosto del 2016 il Tas lo squalificò per 8 anni cancellando tutti i risultati agonistici conseguiti nella stagione.
INCONGRUENZE. Nella sua tesi difensiva, espressa di volta in volta prima in sede di giustizia sportiva poi in quelle di giustizia ordinaria (che lo indaga per frode sportiva), Schwazer ha sempre sostenuto l' innocenza e la tesi della manipolazione della provetta. In particolare l' attenzione si è focalizzata sui tempi (controllo del 1° gennaio, comunicazione della positività il 22 giugno solo dopo la conquista delle Olimpiadi da parte del marciatore) e, soprattutto, sull' ipotesi manipolazione. I campioni di urina, controanalizzati su richiesta della procura nel marzo del 2018 ovvero a oltre due anni di distanza dal prelievo, evidenziarono quantità di Dna che i Ris definirono anomale, quindi non fisiologiche avvalorando la tesi della manipolazione. Sospetti alimentati dalle difficoltà avute dai Ris nell' ottenere le provette dal laboratorio di Colonia, dove sono tuttora conservate. I tempi di questo nuovo incidente probatorio non sono certi, visto che nell' ordinanza non sono imposti termini perentori nel reperire i campioni a Fidal e Wada.
Il giudice marcia con Schwazer "Complotto, ipotesi concreta". Per il gip Pelino la manipolazione delle provette si basa su indizi reali. C'è anche il movente. «Si deve scavare...» Luca Fazzo, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. E adesso a parlare di complotto non è più solo Alex Schwazer. Nero su bianco, il giudice chiamato a processare il marciatore di Vipiteno per frode sportiva, dopo la squalifica per doping del 2017, ribalta il processo: e mette sotto accusa gli accusatori di Alex, ovvero i colossi dell'atletica e dell'antidoping mondiale, la Iaaf e la Wada. L'ipotesi che i flaconi di urina dell'atleta siano stati manipolati per incastrarlo, e insieme alla sua distruggere la reputazione del suo allenatore Sandro Donati, entra di prepotenza nel processo. E il giudice ha ben chiaro in testa anche il possibile movente del complotto: «Quanto al movente ce n'è già uno plausibile anche se tutto da verificare. La richiesta di effettuare le analisi è partita il 16 dicembre 2015, giorno in cui Schwazer ha testimoniato contro i medici della Iaaf». Bisognava delegittimarlo, insomma: e la missione è stata raggiunta. «È un fatto che la sopravvenuta squalifica per doping abbia posto in pessima luce sia Schwazer come pure il suo allenatore, da sempre paladino dell'antidoping».
Un risultato che «poteva costituire un ottimo motivo per manipolare le provette». È un siluro contro i signori dello sport mondiale, il provvedimento con cui il giudice preliminare di Bolzano Walter Pelino scioglie i suoi dubbi al termine dell'udienza del 12 settembre scorso, quando - alla presenza sia di Schwazer che di Donati - gli avvocati sia dell'atleta che della Iaaf, della Wada e della Fidal si erano affrontati senza esclusione di colpi. In un processo per frode sportiva che sembrava avviato alla condanna dell'imputato, aveva fatto irruzione la perizia dei carabinieri del Ris di Parma, che dopo essersi fatti consegnare - dopo mille fatiche, ostruzionismi, trucchi - le provette custodite in Germania avevano scoperto nell'urina di Alex una anomalia inspiegabile: una concentrazione di Dna superiore di dieci volte (forse addirittura mille) a quelle di un campione normale. Il comandante dei Ris, Giampiero Lago, aveva indicato al giudice solo tre spiegazioni possibili. La prima, che un atleta sotto sforzo produca più Dna. La seconda, che un atleta dopato produca più Dna. La terza, la più inquietante di tutti, la manipolazione. «Bisogna scavare ancora», avevano chiesto i legali di Schwazer. Dopo oltre un mese di riflessione, Pelino decide: sì, bisogna scavare ancora. Per verificare le prime due ipotesi formulate da Lago, chiede alla Fidal e alla Wada di mettere a disposizione campioni anonimi di altri atleti iperallenati e di atleti dopati. Ma è la terza ipotesi, quella del complotto, l'unica che il giudice ritiene fin d'ora basata su indizi concreti. Primo tra tutti, i pasticci nella catena di custodia dei campioni prelevati a sorpresa ad Alex la mattina di Capodanno, e trasmessi ai laboratori con una indicazione precisa, il nome del paese di residenza del campione, Racines.
«La violazione dell'anonimato è stata sistematica e grave. L'occasione di effettuare una manipolazione vi era in ogni fase». E poi ci sono le stranezze incredibili che saltano fuori quando il giudice cerca di farsi consegnare i campioni: senza tappo, con misure che vanno e vengono. «Dove è finita la famosa precisione teutonica...», sbotta il giudice nell'ordinanza. E poi ci sono le mail, rubate da un hacker russo ai vertici della Iaaf e diffuse su Internet, dove il capo dell'antidoping Thomas Capdevielle parla esplicitamente di complotto contro AS. False, dicono i signori dell'atletica. Ma tutto depone per una autenticità delle mail.
Fabio Tonacci per repubblica.it il 14 settembre 2019. Di cosa si parla, quando si parla del “caso Schwazer”? Di pipì, essenzialmente. Di due provette (denominate A e B) contenenti l'urina dell'ex campione di marcia, prelevata in un controllo a sorpresa la mattina di Capodanno del 2016. Su quei pochi (anzi pochissimi, come vedremo) millilitri di pipì si sta giocando una partita che vale il presente, e forse anche il futuro, del sistema antidoping mondiale. Due sono gli esiti possibili. Il primo: Alex Schwazer non ha mai perso il vizio del doping, e pur di tornare a vincere un'Olimpiade dopo l'oro a Pechino e la squalifica del 2012, ha fatto segretamente uso di sostanze contenenti testosterone, tradendo così il suo allenatore Sandro Donati, noto per la sua intransigenza verso gli atleti dopati. Il secondo: Schwazer è stato incastrato, le provette sono state manipolate da qualcuno perché risultassero positive al test, e quel qualcuno si troverebbe nel laboratorio di Colonia dove l'urina di Schwazer è stata analizzata e conservata per due anni, prima di essere messa a disposizione della magistratura di Bolzano. Uno scenario esclude l'altro. O è bianco o e nero, spazio per il grigio non ce n'è. Eppure, l'ultima attesa perizia del colonnello del Ris di Parma Giampietro Lago, oggetto dell'incidente probatorio di giovedì davanti al gip bolzanino Walter Pellino, non riesce ancora a tirar fuori questa storia dalla zona grigia. Né a collocarla, con ragionevole certezza, in uno scenario o nell'altro.
Dunque, i fatti. Il 22 giugno 2016 la Wada (l'Agenzia mondiale dell'antidoping) comunicò alla Federazione di atletica italiana la positività al controllo di Capodanno, l'atleta venne squalificato per otto anni e la procura di Bolzano aprì un'indagine per frode sportiva. Unico indagato: Alex Schwazer. Che si dichiarò fin da subito innocente, presentando un esposto nel quale spiegò di essere vittima di un complotto. Non ci sono nomi in quell'esposto, solo circostanze da accertare. Il pm Giancarlo Bramante ha quindi aperto un secondo fascicolo, a carico di ignoti. I due filoni di inchiesta hanno viaggiato per mesi in parallelo e ora il pm (nel frattempo diventato procuratore capo) ha bisogno di stringere e arrivare a delle conclusioni. La prima perizia sulle urine di Schwazer infatti, non era bastata, per cui ne è stata disposta un'altra, discussa giovedì nel contraddittorio delle parti. Che sono, oltre all'indagato Schwazer, le parti lese: la Federazione internazionale di atletica (Iaaf), la Federazione italiana (Fidal) e la Wada. Ridotto all'osso, il punto attorno a cui ruota la questione riguarda la concentrazione di dna di Schwazer rinvenuto nelle due provette. Controanalizzate dai medici della procura nel marzo del 2018 - due anni e due mesi dopo il prelievo - hanno mostrato quantità “anomale” di dna: l'urina della provetta A ne aveva circa 350 picogrammi per microlitro, nella B lo stesso valore saliva a 1.200 picogrammi. Per il colonnello del Ris, il valore della provetta B “non è spiegabile fisiologicamente”, sulla base di tre assunti: 1) negli otto test comparativi fatti fare a Schwazer durante le indagini, la concentrazione di dna nelle urine in diverse ore della giornata non ha mai superato i 295 picogrammi; 2) secondo uno studio statistico effettuato per un anno su una cinquantina di soggetti, la concentrazione di dna nell'urina conservata diminuisce del 70 per cento dopo sei mesi e del 87 per cento dopo un anno; 3) il valore medio stimato sulla popolazione si attesta tra gli 80 e i 100 picogrammi. In parole povere, il dato dei 1.200 picogrammi, oltrettutto in un'urina vecchia di due anni, è anomalo, troppo alto. Per questo ha fatto scalpore il documento (incompleto), presentato a sorpresa a inizio udienza dai legali della Wada e relativo a un test antidoping di Schwazer, finora sconosciuto, del 27 giugno 2016: sostiene che il valore di dna, rilevato un anno dopo il prelievo, era addirittura di 14.000 picogrammi per microlitro. “Una cifra assurda”, è sbottato Lago. “Non è possibile!”. Secondo la scala da lui usata per la sua perizia, infatti, vorrebbe dire che “a urina fresca” Schwazer avrebbe dovuto avere più di 100.000 picogrammi di dna in un microlitro. Un alieno, in pratica. La mossa della Wada serviva a provare che Schwazer, per conformazione fisica, ha sempre avuto quantità elevatissime di dna nelle urine, ma il giudice Pellino si è mostrato molto perplesso e non si è pronunciato sull'ammissione del documento agli atti. Il colonnello Lago, dopo aver ricordato in aula l'ostracismo del laboratorio di Colonia che alla fine gli ha consegnato solo 10 ml di urina della provetta A e 6 ml della provetta B (la quantità doveva essere il doppio, almeno secondo le comunicazioni ufficiali della Wada ) per la prima volta, ha fatto quattro ipotesi sulle cause del valore sballato: una malattia avuta da Schwazer al momento del prelievo di Capodanno; l'effetto del superallenamento per le Olimpiadi; la possibile alterazione dovuta alla sostanza dopante; la manipolazione delle provette. Queste ultime due sono le più probabili. Ma la perizia - contestata duramente dal consulente tecnico della Iaaf Emiliano Giardina che ha sottolineato l'inattendibilità di un campione statistico ridotto, l'inesistenza di prove della manomissione dei tappi delle provette, e il fatto che nelle urine non sia stato rilevato dna di persone terze – secondo il pm Bramante non è ancora dirimente. L'avvocato di Schwazer, Gerhard Brandstaetter, ha chiesto al gip sia un supplemento di perizia, per ampliare la copertura dello studio statistico da uno a due anni, sia una rogatoria estera per accertare la autenticità di un carteggio interno alla Iaaf, svelato grazie a degli hacker russi, nel quale si fa riferimento a un presunto complotto ai danni di Schwazer. Il pm Bramante si è opposto alla rogatoria e il gip Walter Pellino si è preso tempo per decidere. Può disporre il supplemento di perizia, oppure stabilire che gli elementi raccolti siano già sufficienti e, quindi, che il fascicolo debba tornare nella disponibilità del pubblico ministero. Spetterà a Bramante decidere poi cosa fare: chiedere il rinvio a giudizio di Schwazer per frode sportiva, oppure archiviare l'accusa di doping e indagare sul complotto.
Schwazer, il giorno della verità: provette a processo «Fu una congiura infame». Il marciatore a Bolzano per l’incidente probatorio: la perizia del Ris mostra anomalie del Dna non spiegabili fisiologicamente. Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Giuseppe Toti su Corriere.it. «Hanno voluto colpire me e il professor Donati, hanno manomesso la provetta con la mia urina aggiungendo una parte con il testosterone per farmi risultare positivo». Alex Schwazer usa di nuovo la clava per ribadire la propria innocenza e la convinzione del complotto, alla vigilia dell’incidente probatorio di giovedì pomeriggio (ore 16.30) al tribunale di Bolzano davanti al gip Walter Pelino. Positivo a un controllo antidoping a sorpresa nel 2016, alla vigilia dell’Olimpiade di Rio de Janeiro che fu costretto a saltare, il marciatore altoatesino, medaglia d’oro ai Giochi di Pechino nel 2008, attende con ansia l’udienza nel corso della quale verrà discussa la perizia effettuata per il tribunale dai carabinieri del Ris di Parma. Il colonnello Giampietro Lago —, che firma il lavoro durato molto mesi ed effettuato su 100 soggetti (di diverse fasce di età) testati per valutare i parametri di concentrazione del Dna e confrontarli con i valori di Schwazer — ha evidenziato in modo chiaro delle anomalie clamorose, che non possono essere spiegate fisiologicamente. Il gip Pelino valuterà le risultanze alla presenza di tutte le parti (Iaaf e Wada oltre a Schwazer) e poi rimettere una decisione che potrebbe stravolgere tutta l’inchiesta, trasformando Schwazer da presunto colpevole a vittima. In quattro punti, soprattutto, il colonnello Lago sottolinea l’impossibilità di spiegare fisiologicamente le anomalie sui parametri di concentrazione del Dna. «(...)si può supportare fortemente l’ipotesi — si legge per esempio al punto 2 della perizia — l’ipotesi di un decadimento del Dna estratto dall’urina per effetto del congelamento del tempo». In sostanza, il valore di Dna di Schwazer analizzato nel 2018 avrebbe dovuto essere molto più basso rispetto all’analisi del 2016, invece è accaduto esattamente il contrario: un dato inverosimile. Non solo: nei soggetti giovani, come il marciatore, scrive ancora Lago al punto 3, «si ritiene scientificamente sostenibile attendersi dati mediamente e moderatamente più bassi rispetto a soggetti adulti-maturi». Quindi, inverosimile anche il fatto che il parametro elevato di Dna nel 2016 potesse essere causato dalla giovane età di Schwazer. Ancora: i carabinieri del Ris al punto 4 sostengono come la divisione delle urine in due provette (A e B) per effettuare le analisi non alteri i valori di Dna, mentre al punto 5 ribadiscono che al mattino il valore del Dna non è più alto rispetto al resto della giornata (Schwazer fu controllato all’alba dell’1 gennaio 2016). Per tutte queste ragioni vanno dunque escluse giustificazioni «fisiologiche»: ogni eventuale discordanza dovrà invece essere spiegata in altro modo. «Alex è stato vittima di una congiura infame, eliminato per vendetta», l’attacco del professor Sandro Donati, l’allenatore di Schwazer e memoria storica dell’antidoping italiano. «Sin dal primo momento sono stato sicuro della manipolazione delle urine, sicuro al 100%. Finalmente la verità sta venendo a galla».
Schwazer, una perizia dei Ris per provare la sua innocenza. Pubblicato sabato, 07 settembre 2019 da Giuseppe Toti su Corriere.it. Si annuncia esplosiva l’udienza di giovedì prossimo al tribunale di Bolzano per l’incidente probatorio nel processo doping ad Alex Schwazer. Secondo una clamorosa anticipazione pubblicata sabato dal quotidiano Tuttosport e firmata dal direttore Xavier Jacobelli, la perizia del Ris di Parma proverebbe la manipolazione delle provette analizzate a suo tempo dal laboratorio tedesco di Colonia. In realtà, dal lavoro dei carabinieri del colonnello Giampietro Lago, emergerebbero due elementi chiave, che potrebbero comunque dare alla vicenda un corso completamente nuovo e clamoroso. Da un lato, le anomalie nelle urine del marciatore altoatesino— risultato positivo al testosterone in un controllo a sorpresa a ridosso dei Giochi olimpici di Rio de Janeiro nel 2016 — non spiegabili fisiologicamente; dall’altro, l’abnorme concentrazione di Dna di Schwazer, quando — a distanza di anni — «degrada» repentinamente e drasticamente, presentando sempre valori molto più bassi. Anche in questo caso, per il Ris la spiegazione non può essere fisiologica e quindi rimanda ora al gip Walter Pelino ogni approfondimento e valutazione. La notizia intanto ha fatto il giro del mondo, proprio nel giorno delle nozze di Schwazer con la sua compagna Kathrin Freund, dalla quale ha avuto una bambina, Ida, due anni e mezzo fa. Schwazer, squalificato per 8 anni e costretto ad abbandonare l’atletica, e il suo allenatore Sandro Donati sono sempre stati convinti del complotto. D’altra parte, la catena degli avvenimenti che si susseguirono nei mesi precedenti la positività, hanno sempre suscitato interrogativi agghiaccianti. La decisione della Iaaf di predisporre un controllo a sorpresa per Schwazer l’1 gennaio 2016 un’ora dopo la deposizione del 15 dicembre 2015 al tribunale di Bolzano durante la quale il marciatore accusò i medici italiani Fischetto e Fiorella. La dicitura «Racines» (il piccolo paese di Schwazer) riportata sulle provette che rendeva immediatamente identificabile l’atleta controllato. Oppure i rifiuti e poi i tentativi maldestri del laboratorio di Colonia di ostacolare la raccolta delle provette da parte del Ris e tanto altro ancora. Stavolta, forse, ci siamo. Giovedì, forse, sapremo.
Caso Schwazer, l'udienza di Bolzano non scioglie i dubbi. Ma lui dice: "Siamo a buon punto". Davanti al gip gli esiti della perizia che ha trovato nelle provette Dna non compatibili con quelli dell'ex marciatore. Ora il magistrato dovrà decidere sulla richiesta dei legali dell'atleta di una rogatoria estera. Fabio Tonacci il 12 settembre 2019 su La Repubblica. Le analisi dell'urina di Alex Schwazer mostrano dei valori anomali. Ma il motivo è ancora tutto da dimostrare, oltre le ipotesi non si va. A voler essere sintetici, questo è l'esito dell'udienza durata cinque ore davanti al Giudice per le indagini preliminari di Bolzano: un lungo botta e risposta tra il comandante del Ris di Parma, Giampietro Lago che nella sua perizia ha evidenziato livelli di concentrazione di dna nelle provette “non compatibili fisiologicamente” con l'organismo dell'ex marciatore, e il perito della Wada (World antidoping agency, l'agenzia responsabile dei controlli che hanno portato alla squalifica di Schwazer), Emiliano Giardina. Quest'ultimo ha provato a smontare le conclusioni di Lago e, soprattutto, lo scenario che si aprirebbe nel caso venisse stabilita con ragionevole certezza la manomissione delle provette: quello del complotto ai danni dell'atleta italiano e del suo allenatore Sandro Donati, organizzato per impedirgli di partecipare alle Olimpiadi di Rio e di completare, così, il sogno della grande rivincita personale, dopo la prima squalifica per doping. L'udienza si è aperta con un colpo di scena dei legali della Wada, che hanno presentato un nuovo documento (incompleto, per la verità) relativo a un prelievo di urina di Schwazer del 27 giugno 2016, analizzato a Losanna nel 2017. Il valore della concentrazione di dna riscontrata in quell'occasione – sostiene la Wada – è di 14.000 picogrammi a microlitro, oltre cento volte quello considerato normale per una persona dell'età di Alex. Un dato che ha lasciato assai perplessi sia il giudice che il colonnello del Ris (“è fuori scala”) e che invece, nelle intenzioni dell'Agenzia antidoping, serve per dimostrare che l'italiano ha sempre avuto valori altissimi di dna nelle urine, dunque non ci sarebbe alcuna stranezza nel valore (1.200 picogrammi a microlitro) riportato nella perizia di Lago. Alla fine, l'avvocato difensore di Schwazer, Gherard Brandstaetter, ha chiesto al gip Walter Pellino due cose: un supplemento di perizia, per avere maggiori dati statistici sul comportamento della concentrazione di dna nelle urine durante il congelamento, e una rogatoria estera per accertare la autenticità di un carteggio interno alla Iaaf, svelato grazie a degli hacker russi, nel quale si fa riferimento a un presunto complotto ai danni di Schwazer. Il gip si è riservato di decidere. "Siamo ad un buon punto, però sicuramente non ci basta", è il commento di Schwazer a margine dell'incidente probatorio. “A livello scientifico noi vogliamo avere la certezza totale. Ci arriveremo. Non so se oggi o se ci vorranno altri mesi. Io ho la coscienza a posto altrimenti non sarei qui dopo tre anni. La mia vita va avanti a prescindere da questo processo, non sono qui per cambiare la mia vita, sono qui per dimostrare la mia innocenza”. Sandro Donati anche in questa udienza è rimasto a fianco di Alex. “Questa vicenda - dice - sarà un punto di riferimento dal quale inizierà una nuova discussione ed il sistema antidoping dovrà cambiare profondamente. Si tratta di un sistema medievale che non garantisce gli atleti. Se si arriva alla fine io chiederò il risarcimento. Io dirò tutto, se qualcuno non mi mette una pistola in bocca prima, spiegherò tutto”.
Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 13 settembre 2019. Quattro ore. Un lungo match senza esclusione di colpi. Da una parte le istituzioni sportive: Iaaf e Wada. Dall' altra l' atleta: Alex Schwazer. In mezzo la perizia del comandante del Ris, Giampietro Lago, che spiega, argomenta, risponde nell' udienza dell'«incidente probatorio». Alla fine del corpo a corpo giuridico-scientifico, il gip Walter Pelino ascolta le richieste delle parti e si riserva di decidere sulla richiesta della difesa di Schwazer di un'«estensione della perizia» per irrobustire ancora la tesi dell' anomalia e della «manipolazione», parola che per la prima volta Lago pronuncia fra le ipotesi possibili (le altre sono l' eventuale aumento per assunzione di doping o per il super allenamento, tesi però non supportate da altri controlli, e un' eventuale patologia). L'avvocato Gerhard Brandstaetter chiede anche una rogatoria internazionale per l' acquisizione delle famose mail scambiate fra consulenti e legali Iaaf, pubblicate dagli hacker di Fancy Bears, quelle in cui si cita a un certo punto la parola «plot», complotto, riferendola ad Alex Schwazer. Il gip prenderà una decisione che potrebbe arrivare fra due settimane. L' udienza si era aperta con un colpo di scena. La Wada ha presentato un documento relativo a un altro controllo su Schwazer (del 27 giugno 2016) in cui il laboratorio di Losanna certifica la presenza di livelli di Dna molto alti, addirittura di 14.000 picogrammi/millilitro. Un modo per dimostrare la regolarità dei livelli trovati dal perito nel controllo sulle due provette del 1° gennaio 2016. «Ma da dove viene tutto questo? - ha reagito Brandstaetter -. Un' analisi cominciata in agosto 2017 e di cui il perito, il giudice, le parti non sapevano niente. Questo è un boomerang, un autogol!». La Wada ha chiesto che venisse acquisito il documento e il Gip si è riservato di decidere. Ma sulla cifra dei 14.000, pure il perito si è mostrato molto scettico: «Possiamo stimare un valore 100.000 al momento in cui si è raccolta l'urina. Si tratta di un numero completamente fuori dalla realtà visto che i valori medi della popolazione sono fra 80 e 100». Il fatto è che la posta in gioco è altissima. Ci sono passaggi della storia che evidenziano diversi dubbi sulle garanzie per l' atleta nella procedura dei controlli antidoping. E forse è questo che preoccupa di più Iaaf e Wada, l' idea che il caso possa scardinare il sistema. Il tema centrale resta quello dei valori molto alti di concentrazione del Dna trovati, peraltro a distanza di due anni, nell' urina di Schwazer. L' analisi probabilistica della perizia illustrata da Lago parla di una marcata tendenza al «decadimento» dei valori: più passa il tempo e più i livelli si abbassano. «Del 70% dopo un anno e di quasi il 90% in un anno», spiega Lago. Nel caso di Schwazer, però, il dato è già molto alto e arriva quasi a 1200. Perché? Emiliano Giardina, perito della Iaaf, pressa Lago: «Quella è un' analisi probabilistica, ma nel 15% dei casi il valore non si abbassa, ma si alza.
Come fa a escludere che si possa verificare un caso del genere?». Lago giudica questa ipotesi «possibile ma assai improbabile». E il perito di Schwazer, Giorgio Portera, nota che i casi in cui si abbassa il livello di concentrazione sono quelli con valori bassi. La difesa dell' olimpionico cita poi i «nuovi» controlli su Schwazer, compiuti in questi dati dal perito, che danno, pure con «urina fresca», numeri molto inferiori a quelli registrati analizzando il campione della positività, quello raccolto il 1° gennaio del 2016. Lo scontro dilaga anche sull' interpretazione di un altro dato, quello della differenza fra campione «A» e campione «B», analisi e controanalisi, con la seconda provetta che ha il livello di 3,69 volte maggiore. Per Marco Consonni, consulente legale della Wada che ha commentato dopo la fine dell' udienza, «la questione della differente concentrazione del Dna nei due campioni di urina è una non questione. È noto e conforme alla letteratura scientifica che sono le ripetute attività di congelamento e scongelamento di apertura e chiusura dei flaconi che portano a un decadimento della concentrazione del Dna. Queste attività hanno interessato maggiormente il flacone A rispetto al flacone B che è dedicato ad altri fini. Il consulente tecnico ha analizzato solo i possibili effetti di congelamento nel tempo, ma non le operazioni ripetute di congelamento e scongelamento che hanno interessato solo residualmente il campione B. La tesi che questa differenza proverebbe una manipolazione è completamente da escludersi e le due consulenze tecniche hanno confermato che i campioni sono dell' atleta». Il riferimento è all' assenza di un secondo Dna, che Lago ha scritto come primo punto della perizia, pur non dichiarando impossibile l' ipotesi di un Dna «invisibile». E la difesa di Schwazer è andata all' attacco anche sull' esito degli esami compiuti da Lago, che ha diviso campioni A e B analizzando soggetti di diverse età, non riscontrando sostanziali differenze fra i risultati. Insomma, la storia continua. E la sensazione è che non finirà tanto presto.
Da la Gazzetta dello Sport il 13 settembre 2019. «Io credo nella giustizia, altrimenti non sarei qui», dice alla fine della serata di Bolzano Alex Schwazer, dopo un' udienza che dura come una delle "sue" cinquanta chilometri. «Posso aspettare, l' ho fatto per anni, non sarà qualche mese a cambiare. Io non sono qui per cambiare la mia vita, la mia vita va avanti a prescindere. Ma per dimostrare la mia innocenza. Certo, voi adesso tornate a casa e magari pensate ad altro, io domani avrò ancora questa storia in testa». La Wada ha prodotto un documento con la certificazione di un valore altissimo in un precedente controllo, quello effettuato il 27 giugno del 2016, proprio pochi giorni prima la dichiarazione della positività. «Senza garanzie, senza le parti presenti, senza periti del giudice. L' istituzione mi ha tolto due medaglie, per salvarsi si tira fuori di tutto. Ma io ho fiducia, più passa il tempo e più ci sono altri elementi. Non è stato trovato il secondo Dna? In due anni, lo si è detto, si può farlo sparire». Con lui, ancora una volta, c' è l' allenatore che ha creduto più di tutti alla sua seconda vita sportiva: «Senza Sandro Donati non saremmo qui a combattere per la verità». E proprio Donati va all' attacco. «Il documento della Wada? Nei controlli disposti dal perito del Gip su Schwazer, nelle ore mattutine, le stesse in cui fu effettuato il prelievo del primo gennaio, si è registrato un tasso di concentrazione del Dna di 3,5 o 6,5 picogrammi/millilitro. Nel documento portato da Losanna, si può stabilire - lo ha detto il perito - un valore a urina appena raccolta di 140.000 picogrammi/millilitro! Vi rendete conto della differenza». Donati rilancia ancora: «Se si arriva alla fine, io chiederò il risarcimento. E dirò e spiegherà tutto, tutto, se qualcuno non mi metterà una pistola in bocca prima».
Il giallo Schwazer sospeso tra manomissione e doping. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Giuseppe Toti, inviato a Bolzano, su Corriere.it. Dopo uno scontro durissimo tra le parti, il giudice ha deciso di prendere ancora tempoUlteriori approfondimenti e nuovi test per i carabinieri del Ris di Parma, rogatoria internazionale per investigare su altri soggetti eventualmente coinvolti nel giallo Schwazer. Su queste due richieste dovrà pronunciarsi nei prossimi giorni il gip del tribunale di Bolzano Walter Pelino: non sono bastate ieri quattro ore di incidente probatorio per decidere, caratterizzate da discussioni accese tra il colonnello Giampietro Lago e i periti e i legali del marciatore altoatesino - trovato positivo al testosterone durante un controllo antidoping a sorpresa nel 2016, alla vigilia delle Olimpiadi di Rio de Janeiro e poi squalificato per 8 anni - e quelli di Wada e Iaaf. Appare verosimile ritenere che si andrà verso un’estensione di diversi mesi dello studio sui 100 soggetti cominciato nel 2018 dal Ris e da cui è scaturita la perizia - chiesta dal gip Pelino - firmata e illustrata in aula dal colonnello Lago. Le conclusioni del lavoro hanno portato alla determinazione di gravi anomalie non spiegabili fisiologicamente nei valori del Dna di Schwazer, che hanno rafforzato il convincimento del complotto, maturato secondo la difesa attraverso la manipolazione delle provette (analizzate da laboratorio di Colonia), ma che sono state contestate in particolare dal perito della Iaaf, Emiliano Giardina. Il colonnello Lago ha ribadito che la densità del Dna diminuisce del 70% dopo sei mesi, ed è attesa una degradazione di circa l’87% dopo un anno. Nel caso di Schwazer, invece, è accaduto il contrario: i valori sono risultati clamorosamente più alti un anno dopo l’analisi (1200 picogrammi/millilitro nel 2016 contro 3,5 e 6,5 nei due controlli sempre al mattino effettuati poi dai Ris). Quattro le ipotesi avanzate dal colonnello per spiegare le anomalie: tre però ritenute molto poco probabili(dallo stress per il super allenamento a una patologia improvvisa alle sostanze dopanti che incidono sul valore del Dna) e la quarta - quello della manomissione delle provette, per la quale si stanno battendo Schwazer, il suo allenatore Sandro Donati, e lo staff di esperti che li assistono. Lago ha sottolineato anche l’esigenza di estendere ulteriormente la ricerca, per avere come riferimento un arco di tempo di due anni, lo stesso intercorso cioè tra l’analisi positiva dell’atleta del 2016 al primo esame delle urine di marzo 2018 effettuato dagli uomini del Ris. All’inizio dell’udienza il colpo di teatro dell’avvocato della Wada, risultato in effetti piuttosto imbarazzante: il legale ha presentato una dichiarazione del laboratorio di Losanna (ricevuta mercoledì scorso) relativa a un’analisi sulle urine di Schwazer cominciata ad agosto 2017 e da cui è saltato fuori un valore di Dna pari a 14 mila. Un valore assurdo: a «urina fresca», cioè nel 2016, il parametro avrebbe dovuto essere dieci volte più alto, ossia 140 mila. «Una cosa fuori dal mondo» ha chiosato il colonnello Lago. Il gip si è riservato di decidere anche se accogliere o meno questo documento di cui nessuno era a conoscenza e che è sembrato alla fine un boomerang per la Wada, come ha urlato più volte l’avvocato Gerhard Brandstaetter, legale di Schwazer. Un altro passaggio inquietante di una vicenda infinita: «Dirò tutto e spiegherò tutto, se qualcuno non mi metterà una pistola in bocca prima», le parole del professor Donati prima di lasciare l’aula.
«Caso Schwazer», servono altre analisi per provare (o meno) la manipolazione dei campioni di urina. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. Quasi quattro anni dopo il controllo incriminato (correva il 1 gennaio 2016) il «caso Schwazer» è ancora aperto, sia sul piano penale che su quello dell’accertamento della verità sui fatti. L’unica certezza è che l’olimpionico di marcia (Pechino 2008) sta scontando otto anni di squalifica per la positività al testosterone in quel controllo a sorpresa effettuato a Racines dagli ispettori della federazione internazionale di atletica. Nel processo penale in corso a Bolzano (il doping si configura come reato proprio in base alla legge 376/2000 ma anche come frode sportiva) si discute ancora della sorte e delle eventuali manipolazioni delle provette di urina del bolzanino. Giovedì in sede di incidente probatorio davanti al Gip di Bolzano è stata esaminata la perizia dei Ris di Parma sulla porzione di urine concessa (dopo estenuanti trattative) dal laboratori antidoping di Colonia. Stando ai periti nominati dal tribunale, quelle urine (che il test Dna attribuisce inequivocabilmente all’atleta) presenterebbero segni di manipolazione ed in particolare una differenza di concentrazione del Dna tra il campione A e quello B (in cui è stata suddivisa l’urina prodotta al controllo) non spiegabili fisiologicamente. i legali dell’agenzia mondiale antidoping e della federazione di atletica contestano un assunto che metterebbe in grave crisi tutto il sistema antidoping. Per questi motivo il gip di Bolzano dovrebbe chiedere un «approfondimento longitudinale» sui campioni e su altri prelevati in un arco di tempo più ampio che permetta di chiarire se queste variazioni di densità sono fisiologiche o meno, approfondimento che richiederà diversi mesi. «La mia sensazione - ha dichiarato Schwazer - è che siamo ad un buon punto però sicuramente non ci basta. A livello scientifico noi vogliamo avere la certezza totale. Ci arriveremo. Non so se arriverà oggi o ci vorranno altri mesi. Sono tre anni che aspetto, posso aspettare ancora sei o sette mesi. L’udienza di oggi è un passo decisivo perché viene presentata una perizia molto importante che mette nero su bianco che alcuni punti non sono spiegabili con la scienza. Poi deve decidere il giudice se basta o no, noi vogliamo la certezza totale, questo è il punto, e non molleremo».
Schwazer è innocente! Manomesse le provette. Una nuova perizia rivela: alterati i valori dei campioni. Il 12 settembre udienza a Bolzano. Xavier Jacobelli sabato 7 settembre 2019 su Tutto Sport. Alex Schwazer è innocente. Il campione di urina prelevato durante il controllo antidoping del 1° gennaio 2016, cui era stato sottoposto l’oro di Pechino 2008 nella 50 km di marcia è stato manomesso. L’ha accertato una nuova perizia: giovedì 12 settembre verrà presentata al Tribunale di Bolzano. Sarà questo il teatro del nuovo capitolo di un’incredibile, kafkiana vicenda di cui è vittima il marciatore altoatesino: per un doping che non c’era, egli è stato letteralmente eliminato poco prima che potesse gareggiare alle Olimpiadi di Rio 2016 nella competizione in cui era indicato come il grande favorito. In tutti questi anni, Schwazer sempre ha urlato al mondo la sua assoluta innocenza e, sempre, ha trovato uno strenuo avvocato in Sandro Donati, suo allenatore nonché uno dei più grandi tecnici dell’atletica italiana. Donati è un galantuomo coraggioso che ha sistematicamente denunciato scandali e truffe nello sport e da sempre si batte contro il doping. Il 22 agosto scorso, al 40° Meeting di Rimini, Donati ha dichiarato a tempi.it: «Io non sono mai sta to perdonato. Io sono considerato un traditore da quelle istituzioni corrotte che governano questo ambiente delinquenziale. Sono sicuro che con l’aiuto della magistratura emergerà tutto chiaramente». Ogni riferimento al Gip di Bolzano, dottor Walter Pelino che dopo la squalifica di Schwazer ha subito aperto un’approfondita inchiesta, non è puramente casuale.
GLI INDIZI E LE PROVE - Agatha Christie sostiene: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». E’ presumibile che l’avvocato Gerhard Brandstaetter, in prima linea nella tutela degli interessi del marciatore, di indizi ne squaderni a bizzeffe davanti al giudice di Bolzano. La positività rilevata dal laboratorio di Colonia sull’urina prelevata a Schwazer il 1° gennaio 2016 era stata motivata dall’accusa con la presenza di testosterone sintetico nel campione. La difesa di Schwazer sostiene che la catena di custodia si sia gravemente interrotta a Stoccarda perchè Alex risultasse positivo; poi, nel laboratorio di Colonia quando sono state fatte sparire le tracce di Dna estraneo; poi, ancora, reimmettendo il Dna di Schwazer prima di consegnarla al Ris di Parma. Ha raccontato Donati al Meeting di Rimini: «Quando Alex si presentò da me per ricominciare una nuova vita dopo avere scontato la squalifica per l’epo, fui sorpreso dalla richiesa. Mi convinse perché era disposto ad accettare tutte le mie condizioni (controlli a sorpresa, metodi di allenamento) e a mettersi in gioco totalmente. Anche quando gli ho chiesto di presentarsi davanti alla magistratura per denunciare due medici per vicende di doping, lo fece. Attenzione alle date: denunciò i due medici, poi inquisiti per favoreggiamento, di cui uno faceva parte della Iaaf, il 16 dicembre 2015: un’ora dopo, partì l’ordine di un controllo antidoping su di lui che venne effettuato 15 giorni più tardi».
CONTROLLI A TAPPETO - Schwazer è sempre stato controllato a sorpresa e a tappeto. I risultati sono sempre stati nella norma, sia prima sia dopo il 1° gennaio 2016. Inoltre, le analisi ematiche eseguite dal professor Benedetto Ronci, hanno evidenziato livelli dell’emoglobina e dei reticolociti sempre normali, in linea con il profilo di un atleta «totalmente immune dal doping». Ancora: come mai l’urina di Schwazer è stata inviata al laboratorio di Colonia con l’indicazione Racines? Racines, o meglio Calice di Racines è la località in provincia di Bolzano dove è nato Alex. Già che c’era, perché a Colonia tutti sapessero a chi appartenesse il campione, il compilatore dell’etichetta poteva aggiungere anche indirizzo e numero di telefono dell’atleta e magari anche il codice fiscale. C’è di più: nel report del 13 maggio 2016, il laboratorio di Colonia scrive «provenienza non nota», mentre sul verbale di accompagnamento della provetta sta scritto Racines. Last but not least: almeno sei persone diverse possedevano la chiave dell’ufficio della società incaricata di eseguire il prelievo, là custodito. Custodito?
Da L'Adige.it l'8 settembre 2019. Clamoroso: le analisi che hanno portato alla condanna di Alex Schwazer per doping sarebbero state «manomesse» ed i campioni biologici sarebbero «non compatibili con il suo DNA». La notizia - non ancora confermata ma ormai rilanciata da molti media internazionali - avrebbe del clamoroso, ma che al momento è stata pubblicata dal solo quotidiano Tuttosport, che la presenta come “esclusiva” avendo evidentemente avuto informazioni da fonti certe. L’articolo è a firma del direttore Xavier Jacobelli. Di fatto le conclusioni della lunghissima perizia dei Ris, attesa ancora dalla scorsa estate, sarebbero che la provetta con le urine di Alex Schwazer è stata manomessa. La perizia del Ris (Reparto Investigazioni Scientifiche) dei Carabinieri di Parma sarà presentata ufficialmente al Tribunale di Bolzano il prossimo giovedì 12 settembre e lì ne sapremo di più. L'inchiesta ad oggi ancora in corso a Bolzano dovrà far luce sulle accuse ma Alex Schwazer e il suo allenatore Sandro Donati, più volte in incontri pubblici, si erano detti più che fiduciosi che "con l'aiuto della magistratura emergerà tutto chiaramente". Oro a Pechino 2008, il marciatore di Vipiteno aveva ammesso in lacrime la sua prima positività (a Londra 2012), ma ha sempre proclamato la propria innocenza davanti alla seconda positività che gli ha negato i Giochi di Rio e Donati non esitava a parlare di "istituzioni corrotte" che "mascherano le loro colpe e le addossano a te. Questo e' un doping creato in laboratorio da persone spregiudicate per le quali l'essere umano non conta". Donati ha sempre fatto della lotta al doping la sua bandiera e proprio per questo Schwazer si era rivolto a lui per rimettersi in carreggiata. Poi, però, ecco la nuova positività, la denuncia presentata dall'atleta e l'ipotesi della manipolazione delle provette che non sarebbe stata ancora esclusa dagli inquirenti. "Mi sono accorto - conclude Donati - che la mia alleanza con Alex non era gradita all'ambiente dell'atletica e sono riemersi i dopatori di professione e le ostilità contro di me per le mie denunce alla giustizia ordinaria. Nulla era stato dimenticato e quell'ambiente non mi ha mai perdonato. Ma porterò a compimento questa storia mettendo in evidenza la verità". La notizia viene nel giorno del suo matrimonio: Alex Schwazer aspetta con fiducia novità sull’inchiesta che riguarda la sua annosa vicenda doping. Un’anticipazione dei risultati della perizia del Ris di Parma sul campione di urine, dalle quali risultava la positività del marciatore, pubblicata da Tuttosport farebbe emergere che le provette sarebbero state manomesse. E quindi Schwazer sarebbe innocente. Uno spiraglio che arriva proprio in occasione delle nozze celebrate oggi a Vipiteno tra l’olimpionico e Kathrin Freund. Interpellato dalla Rai a margine della cerimonia, l’avvocato Gerhard Brandstaetter, legale del marciatore, conferma: «Il Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri ha riscontrato nelle urine delle discordanze non compatibili con la fisiologia dell’atleta». Giovedì prossimo, in Tribunale a Bolzano, ci sarà la presentazione ufficiale della perizia. Il marciatore altoatesino si era dichiarato più volte estraneo al doping dopo la positività confessata alla vigilia delle Olimpiadi di Londra 2012, ma era stato squalificato proprio mentre si stava preparando per i Giochi di Rio 2016. La sua positività era stata rilevata dal laboratorio di Colonia. La difesa di Schwazer aveva sempre nutrito dubbi sul sistema di custodia della provetta. Se fosse vero che nelle urine vi sono delle «discordanze non compatibili con la fisiologia dell’atleta», allora le provette potrebbero essere state manomesse.
Attilio Bolzoni per la Repubblica l'8 settembre 2019. Non ci voleva molto a capirlo. Già tre anni fa, quando qualcuno e con l' inganno aveva deciso di distruggere la vita di un ragazzo italiano. Non ci voleva tanto a intuire chi fosse quella gente là, capibastone dell' atletica internazionale e miserabili figure affiorate dai bassifondi dello sport nostrano, gare comprate e vendute, offerte che non si potevano rifiutare come nel film "Il Padrino", coppe olimpioniche splendenti e trucchi da quattro soldi, corrotti e corruttori, tutta una trama che si è intrecciata intorno a una provetta che ha ballato per mezza Europa protetta dall'omertà di personaggi eccellenti ma anche decisamente poco raccomandabili. Una provetta piena di un' urina che è stata "manomessa" e riciclata, "stressata" e rimescolata, l' urina di Alex Schwazer che non è mai stata solo l' urina di Alex Schwazer. Se le anticipazioni sulla perizia dei carabinieri del Ris dovessero risultare vere (a questo punto nessuno ha motivo di dubitarne, comunque ne sapremo qualcosa di più giovedì prossimo quando il risultato delle analisi sarà consegnato ai magistrati di Bolzano) va in scena ufficialmente quella farsa e quella vergogna che è stata la crocifissione di un marciatore che - sospeso per doping e per lungo tempo dopo i giochi olimpici di Londra del 2012 - avrebbe probabilmente vinto una o addirittura due medaglie d' oro nel 2016 a Rio De Janeiro. Una trappola, anzi una doppia trappola. Una preparata con cura contro il "drogato" di Londra e un' altra tesa contro il suo allenatore Sandro Donati, una vita a combattere il doping in ogni angolo del mondo, una vita controvento nei gironi infernali dell' atletica più sporca. Gliel' hanno fatta pagare. È questo il senso di quella che noi di "Repubblica" nel 2016 abbiamo chiamato l'"Operazione Schwazer", un controllo improvviso all' alba di quel Capodanno fra le nevi di Racines, la pipì di Alex che ha seguito tortuosi percorsi fra Stoccarda e Colonia, una Cupola sportivo-mafiosa che ha fatto di tutto e di più per incastrare il marciatore italiano fino a quella burla del processo di Rio quando i giochi erano già iniziati e che ha definitivamente messo alla gogna Schwazer. Di misterioso in questa vicenda criminale (come altro potremmo definirla?) non c' è mai stato granché. È tutto avvenuto paradossalmente alla luce del sole anche se ogni dettaglio sembrava accuratamente nascosto, sicari e mandanti hanno un volto e un nome, basta ricostruire lo svolgimento dei fatti per metterli uno accanto all' altro, uno sotto o sopra l' altro. E anche il movente dell' omicidio sportivo del marciatore italiano è chiaro, chiarissimo. Se Alex Schwazer avesse conquistato a Rio le sue medaglie d' oro nei 20 e nei 50 chilometri, se dopo la lunga squalifica avesse dimostrato che dopo il doping si può vincere anche senza doping, un intero sistema fradicio avrebbe subito un contraccolpo micidiale. Non bisognava solo mettere nel mirino un marciatore che aveva scelto un' altra strada, bisognava cancellare un'"idea" di sport. Troppo pericoloso per i boss dell' atletica.
· Marcello Fiasconaro il re degli 800.
Marcello Fiasconaro il re degli 800: «Oggi i campioni sono ricchi e basta». Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. Milano, 27 giugno 1973: Marcello Fiasconaro, 23 anni, stacca il ceco Jozef Plachy e con il tempo di 1’43’‘7 migliora di 6 decimi il primato mondiale degli 800Erano gli anni che tenere i capelli sopra le orecchie voleva dire che anche la vita si poteva spettinare. Erano gli anni che le sale d’attesa si riempivano di gente che non eri tu. Tempi che ti importava di tutti e non ti interessavi di niente. Nascerci già una fortuna. Viverci, un viaggio dentro l’anima. Marcello Fiasconaro quegli anni li ha attraversati con l’incoscienza di chi non dà peso alle cose che passano. Un ragazzo che correva e veniva da un Paese che camminava con il freno a mano. Adesso dalla sua casa vede le otarie in posa per i turisti e potessero si farebbero anche i selfie. Hout Bay, la baia del legno come l’avevano chiamata i boeri. Un mondo a parte appoggiato alle spalle tornite di un’affascinante Cape Town. L’ultimo lembo di un’Africa che i Fiasconaro non avevano pianificato. E neanche si erano sognati una serata di luglio all’Arena di Milano di quelle che mezzo secolo fa è solo un pulviscolo nel tempo. Marcello ha appena compiuto settant’anni e parla l’italiano di chi l’ha imparato con le canzoni di Baglioni e Venditti. E ci linka l’aggettivo poetico anche quando sta raccontando delle scarpe che usava per correre. Una lingua rifiutata, accantonata, costretta a bagnomaria. A tenerla viva il papà Gregorio, perché la storia comincia con lui. Un baritono finito su un aereo a duellare sui cieli dell’Africa. La guerra non fa sconti, neanche con i cantanti della Scala. Gregorio è un siciliano di Genova che lavora a Milano. La globalizzazione cinquant’anni prima. Ma a stare appeso per aria sei vulnerabile per forza. È solo questione di tempo, di un proiettile più preciso o più fortunato. «Abbattuto in Kenya», ricorda il figlio March, «e finito con il paracadute sull’unico albero della zona». Catturato dagli inglesi e internato in un campo di prigionia. Lontano una vita dall’Italia. Dove le stagioni sono al contrario. E a Natale si va in spiaggia. Il Sudafrica dei soldati italiani non è un paradiso sotto l’Equatore ma neanche un inferno subsahariano. I campi di prigionia sono le fattorie nel veld per far sgobbare gli italiani a parametro zero. Qualcuno di loro pensa anche a un futuro in quel luogo meraviglioso dove basta buttare un seme per veder fiorire un campo. Non Gregorio. La fine della guerra lo vede ancora ferito. Il rientro è rimandato. Lo portano in ospedale. L’infermiera è decisamente carina. Anzi proprio bella. Un presagio di quella che sarà la vita da lì in avanti. Un mondo da ricostruire, un pianeta a misura di giovani. Lei si chiama Mabel Marie, è di origine belga. Faceva l’indossatrice, il cognome è di quelli che trovi sugli stemmi del Medioevo. La nobile dinastia dei Brabant. E la lingua degli afrikaner è una delle varianti del fiammingo. Lei e Gregorio si conoscono, si innamorano, si sposano. Marcello è figlio del Sudafrica. Anche se il cognome è italiano. Assorbe lo spirito sportivo degli anglosassoni, il rigore calvinista dei boeri, la voglia di spaccare il tartan della gente di colore. Ha i capelli lunghi e lo sguardo sveglio. Vita all’aria aperta e poco studio. Gioca a rugby come tutti da quelle parti. Quando si lancia è un treno che non fa soste. All’Italia non pensa. Non ha neanche il passaporto. Anche se il Sudafrica comincia ad andargli un po’ stretto. Sono gli anni duri dell’apartheid. Fino a quel momento il mondo ha voltato la faccia. E lasciato fare. Troppi interessi. I paladini della giustizia non trovano adepti. Il Sudafrica tiene in piedi equilibri precari. Ma negli anni Settanta la sensibilità del pianeta sbotta. A farne le spese ancora lo sport. Il bersaglio più semplice, il più visibile. Il Sudafrica vince una Coppa Davis perché gli avversari si rifiutano di scendere in campo. L’embargo diventa collettivo. Un’onta nazionale. Per gli Springboks, la mitica nazionale con la maglietta verdone e gialla e il simbolo della protesta, stop alle sfide con gli All Blacks neozelandesi. «Un giorno mi vide correre Carmelo Rado. Aveva gareggiato a Roma all’Olimpiade del 1960. Specialità, lancio del disco. Si era poi trasferito a Pretoria. Parlò con mio padre. E poi chiamò i dirigenti italiani della federazione di atletica. La segnalazione fu accolta con scetticismo. Un ragazzo sconosciuto in Africa che diceva di fare tempi che erano difficili da credere. Mi invitarono per un test. Pensavano di regalarmi una vacanza. Dovevo sfidare i tre migliori atleti azzurri sui 400 metri. Vinsi io, naturalmente...». Da quel giorno March è italiano. Anche se della nostra lingua sa solo «ciao, amore, bella». Non passa inosservato. Si infila di diritto nella foto insieme a George Best e Gigi Meroni. Il suo contraltare si chiama Pietro Mennea. Il campione del sacrificio. «Non beveva, non fumava, niente ragazze», ricorda March, «sempre isolato. Parlava solo con me. Già, ma io parlavo con tutti». Di Fiasconaro è più facile dire quello che non ha vinto. Colpa di uno stile troppo istintivo. Avesse potuto avrebbe corso a piedi nudi, come Abebe Bikila. La pista era letale per i suoi tendini. Lui ci metteva del suo. La disciplina non era il suo punto di forza. «Ma mi sono divertito. Per me lo sport era l’arte dell’incontro. Ho girato il mondo, stretto amicizie importanti. Che restano per sempre. Vedo gli atleti di adesso. Provo compassione. Anche per i grandi campioni. Usain Bolt e gli altri. Stritolati da una macchina che li ha resi ricchi e basta. Non ho rimpianti. Ma non posso scrivere un libro dei miei anni. Sarebbe a rischio censura...». Anni che si rompono un giorno d’estate del 1972. L’attentato di Monaco contro gli israeliani all’Olimpiade.
5 settembre 1972, un membro incappucciato del commando arabo che sequestrò i membri della squadra israeliana nei loro alloggi al Villaggio Olimpico di Monaco, sul balcone dell’edificio (la palazzina italiana era accanto a quella degli atleti israeliani). «La nostra palazzina era accanto alla loro. Si andava in ordine alfabetico: Israel e poi Italy. Quel giorno ho capito che lo sport aveva voltato pagina». Ma restava un’impresa da compiere. La più imprevedibile, la più inaspettata. La più grande. Il primato mondiale degli 800 metri. Uno quarantatrè e sette, il tempo recitato come un mantra. Una sera di giugno 1973 all’Arena di Milano. I filmati in bianco e nero, vederli fa bene al cuore. March che galoppa e stronca la resistenza del ceco Plachy. Un’occhiata prima dell’ultima curva e poi quasi a rallentare sulla linea del traguardo. Ogni volta gli chiedono di quella sera. Anche un nugolo di lettori del Corriere in un ristorante al Waterfront, Cape Town. Lui racconta come fosse la prima. La freschezza è sempre stata dalla sua parte.
· Potenza della Fede.
Federica Pellegrini: "Facevo paura perché politicamente scorretta, ora sento l’amore degli italiani". Divina? No, meravigliosamente terrena. Federica a cuore aperto racconta 20 anni di fatiche, di alti (molti) e bassi (pochi) però devastanti. La malattia, le crisi di panico, le resurrezioni, i rischi presi, l’emancipazione e tanta voglia di famiglia. Benny Casadei Lucchi, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. «Lo so che incuto soggezione. È così fin da piccola». Per un attimo, solo uno, Federica abbassa gli occhi e si guarda le mani. Gesto veloce. Impercettibile. Dita lunghe e affusolate. È come se cercasse conferme, è come se le sue mani, curate ed eleganti quando affrontano la vita, forti e devastanti quando artigliano l’acqua, l’aiutassero a raccontare. Le osserva e, «sì», ripete, «è proprio così, spesso mi accorgo di mettere in soggezione chi si avvicina. Non so come succeda, saranno le frasi che dico, sarà lo sguardo...». Serata in alta montagna, serata di luci soffuse, pianoforte in un angolo, tavolini bassi, musica sottovoce, sedie accoglienti, gambe accavallate, vestito bianco. Federica s’interrompe, si sporge un poco avanti accennando un sorriso, solo una virgola nel viso, «e ora dipende da te non farmi annoiare in questa intervista». Ecco come succede. Ecco come riesce a mettere in soggezione, a farsi odiare e amare, detestare e apprezzare. Neppure due ore prima pareva altro. Non indifesa, questo mai, però altro. Era stesa a terra nella palestra di Livigno, al centro di una stanza affollata di gente che le gironzolava attorno come se, lei, non avesse vinto sei mondiali ed ori e medaglie olimpiche e macinato record ancora imbattuti. Era in canotta, fuseaux, pelle lucida di sudore, per nulla Divina, quel soprannome che tutti noi, sbagliando, le abbiamo incollato addosso da troppi anni. Perché gli Dei oziano. Gli Dei sono parassiti nati fortunati. Gli Dei sono quattro perditempo privilegiati appollaiati su un monte. Federica, invece, da vent’anni si ammazza di fatica, Federica da diciassette anni è ai vertici mondiali del nuoto e negli sport fatti di fisico e sudore nessuno al mondo ha mai resistito in vetta così a lungo come lei. Per questo Federica è tutto tranne che divina. Di più: è assolutamente e fieramente e meravigliosamente terrena. Come stamane, quando ha schiaffeggiato per chilometri l’acqua perfetta e faticosa dei 2300 metri d’altitudine di questa ricca prigione in mezzo alle montagne. Come nel pomeriggio, mentre con la forza delle sole braccia lanciava una, due, dieci, venti volte quella palla di 10 chili verso Matteo, il suo allenatore, ritto in piedi pronto a ricevere e ributtarle addosso il macigno quasi volesse schiacciarla anziché allenarla. O come un attimo dopo, quando si è alzata per appendersi tipo Rambo a una spalliera e sollevarsi una, due, dieci, mille volte. «Vedo la reazione delle persone quando sono con me» riprende il filo, «ed è strana. Capirei se fosse l’imbarazzo di chiedere un autografo a una persona famosa; in fondo anch’io proverei soggezione ad andare da Cristiano Ronaldo e “scusa, mi fai una dedica?” Quella che noto negli occhi della gente è un’espressione di soggezione diversa. Non c’entra la notorietà, non so a cosa sia dovuta. C’è e basta».
Anche Fede ragazzina metteva un po’ a disagio gli altri con la sola presenza?
«Sì. Forse perché sono stata sempre una bambina molto diversa. Non mi piaceva uniformarmi agli altri, alle amiche e compagne tutte prese a seguire le regole e gli stili del momento. Loro mettevano i pantaloni a zampa e io quelli da uomo larghi. Andavano di moda gli occhiali grandi e allora io cercavo solo quelli piccoli. Ecco. Sì. Probabilmente iniziai allora a mettere in soggezione chi mi stava attorno».
Come si fa ad incutere soggezione e al tempo stesso piangere davanti a tutti come ti è accaduto spesso?
«Basta non aver paura di essere visti come si è veramente. E io non ho mai avuto questo timore. Sono sempre stata una persona che divide molto. Crescendo, ho cercato però di smussare gli angoli, anche se il carattere è rimasto quello. Proprio per questo non sono una persona che fino a qualche anno fa era amata dal 90 per cento degli italiani. Perché ho sempre detto quel che credevo fosse giusto per me. Un modo di fare, il mio, che magari molte volte è stato visto come politicamente scorretto».
Però adesso sei più amata, è cambiato il modo in cui la gente ti percepisce...
«Ma non sono cambiata io».
In che senso?
«Sono stati gli altri ad iniziare ad apprezzarmi. Forse perché prima ciò che dicevo veniva preso come l’opinione di un’atleta che agli occhi dei più veniva vista come una meteora, che poteva esserci oggi e sparire domani, una meteora forte, che vinceva, che sparava certe frasi, ma che in fondo pensavano si fosse solo montata la testa e al primo momento storto, sicuro, sarebbe sparita. I momenti down in effetti sono arrivati, ne ho vissuti diversi. Però non sono sparita. Eccomi qui. E allora, forse, proprio adesso che sono alla fine della mia corsa, il pubblico ha compreso il mio modo di essere in tutti questi anni, ha capito chi sono veramente. Credo, in questo, mi abbia anche aiutato Italia’s Got Talent. Nello sport mi vedevano incazzata o felice. In tv hanno scoperto Federica persona normale».
Quante versioni di te: timida, tenera, insicura, introversa, scontrosa, aggressiva, forte, decisa, affascinante, carismatica...
«Sono un po’ tutte queste cose. Diciamo che adesso la percezione è soprattutto positiva. Credo di essere vista come una grande atleta che ha fatto tanto, una donna forte che in passato ha avuto problemi che poi è riuscita a superare».
Fine corsa, hai detto. Le olimpiadi di Tokyo e poi davvero basta più?
«Sì, sì. E mi fa sorridere che la decisione di smettere venga sempre vissuta come uno scoop, come se non potesse essere vera. Se fosse per me, per l’amore che provo per il nuoto, andrei avanti altri venti anni. Però, visto che nel nuotare metto sempre il massimo, credo onestamente che dopo i 32 anni non sarò più pronta, di testa e di corpo, a dare quel che ho fin qui dato».
Si dice: cosa farà Fede dopo il ritiro? Ma cosa faremo noi dopo il tuo ritiro?
«Come farete senza il gossip su di me, eh...?»
Anche. A proposito: stasera facciamo gli originali: niente domande su morosi passati e futuri. Chissenefrega. Cosa farai, tanta tv?
Ride. «Non è detto. A parte l’impegno per la candidatura al Cio, che sarà una battaglia e nulla di certo, non ho in calendario altro. Francamente, ho anche una sicurezza economica che mi permette di non dover trovare subito qualcosa da fare. Anzi, grazie a quanto guadagnato in questi anni potrei decidere di fare solo la mamma. Non credo sia nella mia indole chiudermi in casa e pensare unicamente ai figli, ma siccome è qualcosa che non ho mai provato, chissà, magari finirà proprio così...»
Federica mamma.
«Certo, per me è un obiettivo. Non in senso sportivo. Non da raggiungere come fosse un primato; cioè, non è che adesso, dopo il ritiro, vado a cercare il primo che passa pur di avere un figlio. Deve essere una persona con cui costruire qualcosa di solido, voglio metter su una famiglia».
Tipo?
«Tipo la mia di origine, il mio babbo, Roberto, la mia mamma, Cinzia, mio fratello Alessandro. Per cui un’aspettativa di famiglia molto alta».
E l’aspettativa di figlio?
«Femmina. La prima mi piacerebbe femmina. Mia madre lo dice sempre: “Meglio iniziare dalla femmina”».
Cosa intendi per aspettativa molto alta di famiglia.
«Che sia un porto sicuro così come lo è da sempre la mia. Una famiglia dove approdare e rifugiarsi per gioire se c’è da festeggiare, dove piangere quando tutto va male. Una famiglia presente come sostegno, non necessariamente come presenza. Una famiglia che dal modo in cui rispondo “pronto” al telefono capisca esattamente come stanno andando le cose. Una famiglia non da Mulino Bianco, una famiglia però vera. Mia madre romantica ma con un carattere molto forte. Se ho preso a cuore i problemi delle donne, nella vita, nello sport, nel lavoro, è grazie a lei. Lei mi ha insegnato l’emancipazione. Donna elegante, tutta di un pezzo, sempre al suo posto però con le proprie idee, mai uno scalino sotto il mio babbo. Già, il babbo. Uomo d’altri tempi lui, di quegli uomini che purtroppo non esistono più, uomo di una generazione che si sta perdendo, uomo con i piedi piantati a terra pur essendo un ex paracadutista della Folgore, uomo per il quale il rispetto per la donna, la famiglia, il matrimonio vengono prima di tutto. E mio fratello? Un romantico. Ricordo dopo i Giochi di Rio, eravamo in vacanza tutti insieme e come sempre noi dormivamo in cameretta; all’improvviso mi sveglio spaventata, non ricordo l’incubo, ma ero scossa, terrorizzata. E lui, dall’altro letto, si tira su e calmo mi dice: “Ecco, prendi questo...”. Poi si alza e mi porta il rosario che teneva sotto il cuscino. “E ora dormi bene Fede”. Adesso quel rosario ce l’ho tatuato. È sempre con me».
Hai un incubo ricorrente?
«L’avevo. Arrivava nei momenti di grande pressione, io chiusa in una stanza, senza porte, l’acqua che sale, nessuna possibilità di salvarmi».
Dalla Fenice al rosario, entrambi li hai tatuati.
«2006 e 2019. È cambiato veramente il mio mondo fra questi due simboli sul corpo; c’è la vita, ci sono tredici anni di alti e bassi».
Hai detto dei tuoi cari. E tu come sei veramente, a parte voler essere diversa dagli altri?
«Molto razionale. Però, se mi innamoro, allora posso anche smettere di vedere le cose per come sono veramente e lasciarmi andare».
Testarda?
«Sì».
Fin da piccola?
«Sì, da sempre. È che vivo male le ingiustizie, e allora mi impunto. Mi succede perché ogni volta penso che dietro ci sia qualcosa di personale. Solo che a volte non è così».
E quindi?
«Quindi in questi anni ho lavorato molto su questo aspetto del mio carattere».
Da piccina volevi sempre e solo battere i maschietti, le rivali femmine neppure le consideravi.
«Mi sono sempre confrontata molto con i ragazzi. Intendo dire che non fu facile per una sedicenne che arriva, parlo della vecchia nazionale quando debuttai, e all’improvviso si ritrova ad allenarsi con gli uomini. Atleti che andavano forte, atleti che la battuta era all’ordine del giorno. Testarda e orgogliosa come sono io era inevitabile che erigessi subito uno scudo per proteggermi».
Prima hai accennato ai problemi da cui ti sei tirata fuori.
«La bulimia, gli attacchi di panico».
La bulimia, la tua esperienza può essere d’aiuto a tante ragazze... Colpa anche della pressione dei media negli anni subito successivi all’argento di Atene 2004?
«Non eravate voi il problema. Quel che scrivevate passava in secondo piano. Ero io. Non stavo bene con me stessa. Il mio corpo stava cambiando radicalmente, da longilinea avevo preso ad ingrassare, mi si gonfiava la faccia, avevo l’acne, non mi riconoscevo più in quel che vedevo allo specchio ma essendo molto osservatrice notavo lo sguardo della gente che si accorgeva di quanto fossi cambiata. In più avevo questa fame che mi portava via. Subito dopo averla soddisfatta mi sentivo in colpa. Per cui mi ero detta “io mangio, poi vomito e non assimilo”. Nella follia di tutto ciò, a me pareva estremamente razionale e logico agire così. Però mi stavo facendo del male».
E allenatori e famiglia, nessuno se ne accorgeva?
«No, gli allenatori no. E la famiglia era lontana. Per fortuna durò poco. Se ne accorsero le mie compagne di casa, all’epoca vivevamo a Milano, mattina scuola e pomeriggio allenamenti. Chiamarono i miei genitori».
Cosa successe?
«Intervennero. Mi portarono a casa. Ricordo un giorno in spiaggia, era inverno, con mio padre... Vedi, con mia mamma mi confido fin da bambina, i cambiamenti, i morosi, le cose di donne, con babbo no, babbo è geloso, guai. Però con lui c’è sempre stata questa cosa che al contatto fisico io esplodo. C’è fra noi una tempistica naturale, lui capisce perfettamente quando è il momento, non prima e non dopo, di abbracciarmi. Sono una persona che non si lascia mai andare facilmente, però è come se solo lui sapesse quando ho bisogno del via. Lui mi abbraccia, dà il via, e io esplodo. Quella volta mi prese in braccio».
Succede anche oggi?
«Certo. Logico, non sono più una ragazzina di 16-17 anni che vive e affronta gli squilibri interni della propria età aggravati, all’epoca, dal vivere il dopo medaglia, il dopo Atene, in cui sia io che la mia famiglia eravamo in balìa di un cambiamento e di un mondo a cui non eravamo preparati. Però, sì, può succedere anche oggi. Diciamo, adesso è più normale che torni a casa, che i miei guardandomi capiscano subito che qualcosa non va e che me li ritrovi la mattina dopo al risveglio in camera mia seduti ai piedi del letto che mi domandano: “Dai, adesso dicci?”»
Gli ultimi due ori mondiali di fila nei 200 stile, Budapest 2017 e, ancora più sorprendente, quello di luglio in Corea, a 31 anni, quindici anni dopo l’argento di Atene.
«Considero quei successi due medaglie molto femmine. Proprio così. Nei miei rapporti e amicizie sono sempre stata più maschile che femminile. Eppure, da diverso tempo ormai, sento sempre più l’affetto delle donne. Soprattutto, mi sento molto molto vicina a tutte loro. Anche perché vedo nella vita e nello sport la fatica in più che facciamo, a parità di talento e abilità professionali, rispetto agli uomini».
La violenza.
«Sono convinta che certi uomini agiscano così perché si sentono spodestati dal ruolo forte nella coppia, dalla centralità che credevano di avere per diritto. Ne parlavo l’altro giorno con mia nonna, “ai miei tempi l’uomo in casa non faceva nulla” stava dicendo mentre mia madre prendeva in giro il babbo che passava male l’aspirapolvere... La verità è che gli uomini hanno difficoltà a riconoscerci un ruolo pari al loro nella vita di tutti i giorni. Pensa al calcio femminile, al mondiale dell’estate scorsa, le battute si sprecavano, “ah come giocano male, ah ma vedi questa e quella” e giù a ridere. Io mi arrabbiavo e impuntavo, “ma che dite? È uno sport giovane praticato al femminile, ci vuole tempo...” Niente. Le battute in compagnia fioccavano lo stesso».
Ci sono sport che invece vengono percepiti come paritari: fra questi il nuoto.
«È vero. E sai perché? Perché gareggiamo insieme, stessi giorni, stesse ore, stessa manifestazione. Nello sci, in altri sport non succede».
Il volley ha pari dignità uomo-donna. Palazzetti pieni.
«Perché gli sport che possono essere riconosciuti da donna vanno bene, quelli da sempre visti come maschili, se praticati da noi provocano fastidio».
Federica oggi prima di una gara?
«Anni fa, soprattutto nei periodi difficili, mi sentivo molto insicura. Ora è diverso, ora ho paura ma non della competizione, temo solo di non sentirmi come vorrei una volta in acqua, ecco, questo. Per cui sto attenta ad ogni dettaglio... Che non è precisamente quel che dovrei fare. Dovrei invece liberare la testa. In questo è però fondamentale Matteo, il mio allenatore (Giunta, ndr). È una persona estremamente ancorata a terra, pressioni e stress non lo smuovono. Matteo ha una fermezza e una forza interiore che non avevo mai visto in nessun altro. Prima della gara è come se io fossi un mare in tempesta e lui lo scoglio a cui aggrapparmi».
Siete vicini di età, ha solo 5 anni in più, prima esperienza come allenatore. Tu potevi fare un buco nell’acqua e lui bruciarsi con la campionessa...
«Mi piace rischiare. Però lo conoscevo. Era il vice e preparatore atletico quando mi allenavo con Philippe Lucas. È stata una scommessa. Io venivo dalla scuola italiana basata sul chilometraggio, sul nuotare tanto, lui dalle metodologie applicate ai velocisti, soprattutto stranieri. Ma avevo intravisto qualcosa in lui. È un allenatore intelligente, come lo era Alberto Castagnetti, che personalizza l’allenamento sull’atleta. All’inizio, ai mondiali in vasca corta di Doha, era fine 2014, non andò bene. Dovevamo trovarci a metà strada. Lui ha avuto l’intelligenza di capirmi, io la voglia di avvicinarmi. Il ponte però lo costruì Bruna Rossi, la mia psicologa poi diventata anche la sua».
E sono arrivati due ori mondiali. Ha rischiato più lui con te, o tu con lui?
«Ho rischiato più io. Matteo avrebbe potuto bruciarsi, però alla fine sarebbe stato il giovane allenatore che non è riuscito ad allenare la campionessa. Io ero già Federica Pellegrini».
Ecco: questa cosa di dire quel che pensi senza filtri, “io sono...”. Lo facevi anche da ragazzina. È il motivo per cui non piacevi a tutti...
«Indipendentemente da come posso essere vista dal pubblico, io so che cosa ho fatto, chi sono, lo so bene, e quindi lo dico senza sbruffonerie. Poi, al di fuori, gli altri pensino come vogliono».
Dopo l’oro in Corea non ti sei detta, ok, sono in vetta, lascio da regina?
«No, la mia parte razionale mi dice che il quadriennio olimpico si chiude a Tokyo. Ovvio, la parte sognatrice spera di far bene anche lì, ma l’oro di Gwangju mi ha già dato sicurezze. Diciamo che l’olimpiade rappresenta solo qualcosa in più, magari una parata, magari un saluto a tutti».
E se invece un altro sogno si avverasse? Cambieresti idea?
«No. Dovrebbe proprio accadere qualcosa che mi stravolga la vita, nel senso che dovrei trovarmi in una fase personale di donna che non sa fare nient’altro che nuotare. Dovrei dunque essere una donna talmente insicura di tutto ciò che l’aspetta fuori da buttarmi di nuovo nell’unica cosa che mi dà sicurezza. Per cui no. Per non ritirarmi dovrebbe accadere qualcosa di straordinario. E di negativo».
Pellegrini, a Trento la Divina racconta le sue mille vittorie. «Il segreto? L’amore». Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 su Corriere.it da Carlos Passerini, inviato a Trento. La Divina. Per aprire il Festival dei Fenomeni, era difficile trovare di meglio. Federica Pellegrini, la regina del nuoto azzurro, è stata la madrina della cerimonia di inaugurazione della seconda edizione del Festival dello Sport, in scena da ieri e fino a domenica a Trento. Non c’era neanche un posto libero al teatro Sociale, ieri sera. Tutti per lei, tutti per Fede, molto più di un’atleta. Un modello. Un simbolo. Di stile. Dentro e fuori dalla vasca. Che ha parlato di sé e dei suoi sogni, dei suoi successi e dei suoi momenti difficili. Di quando da bambina aveva «paura di tenere la testa sotto l’acqua». Del suo vero amore: la sua cagnolina Vanessa, che l’ha raggiunta sul palco. Dell’ultimo pazzesco oro nei 200 stile libero a Gwangju 2019, il suo quarto Mondiale sul tetto del mondo: «È stato tutto stranissimo. Sono andata dalla psicologa a tutte le ore. Prima dell’allenamento, dopo, prima del riscaldamento, dopo. A dirle cosa? Ho paura». Ha parlato della sua vita, Federica, in acqua e non. Del segreto del suo successo. Di come si fa ad arrivare a 31 anni e mettere in fila le ragazzine. «Il segreto è metterci amore». Ma anche del suo piano B, cioè dei suoi progetti per quando uscirà definitivamente dalla piscina: «Il nuoto è uno sport troppo faticoso per farlo solo per passerella. Proprio perché sarà il mio ultimo anno, e tante persone non sanno il lavoro che c’è dietro un risultato sportivo, avrò modo di lavorare con una troupe che mi seguirà e preparare un docu-film che sarà pronto dopo l’Olimpiade 2020». A intervistarla Andrea Monti, direttore della Gazzetta dello Sport, che organizza la manifestazione insieme a Trentino Marketing, in collaborazione con il Comune e la Provincia. Intimo, commovente, il faccia a faccia col presidente del Coni, Giovanni Malagò, al quale Federica ha espresso «eterna gratitudine per aver creduto in me quando non tutti lo facevano». «Io per Federica provo un orgoglio vero» ha replicato Malagò. Uno dei molti momenti forti di una cerimonia non scontata. Durante la quale il pubblico ha tributato un applauso lungo un minuto a Eddy Merckx ed Edwin Moses, due delle tante leggende dello sport che fra oggi e domenica incontreranno il pubblico a Trento. Entusiasmo e applausi ritmati anche per la Nazionale di breakdance, esibitasi sul palco. Prima dell’entrata in scena della Divina, era toccato al vicedirettore vicario della rosea Gianni Valenti, intervistato da Diletta Leotta e Massimiliano Rosolino, illustrare ciò che sarà il Festival, del quale Valenti è direttore scientifico. «Ci piace alzare l’asticella, volevamo superarci, abbiamo voluto farlo con un tema ambizioso». Gli ha fatto eco Urbano Cairo, presidente di Rcs MediaGroup, che ha tagliato il nastro: «Un evento mondiale, spettacolo e campioni, qui è come vivere in un villaggio olimpico. Trento è una calamita». Cairo, che sarà presente anche domenica quando si parlerà del Grande Torino, ha anche chiarito che non intende scendere in politica: «No, va bene così». La prima giornata del Festival è volata via con tutti gli eventi sold out. Le moto di Dovizioso e Petrucci. Il mito interista Rummenigge. Il fenomeno pop del ciclismo, Sagan. Complici le previsioni meteo incoraggianti, l’impressione è che si continuerà così. In tutto saranno oltre 130 eventi, tutti gratuiti, tra incontri, mostre, workshop, camp per lo sport praticato. Con la città di Trento ad aprire piazze, teatri, saloni, palazzetti. Per accogliere un totale di più di 300 ospiti. Oggi tocca al Grande Milan degli immortali, alle 17, all’auditorium Santa Chiara: presenti Berlusconi, Sacchi, Galliani, Van Basten, Gullit, Ancelotti, Boban. Poi le leggende del basket slavo, Velasco e Panatta, Milano-Cortina 2026 e la Boxing Night, Tomba. Il Festival è partito.
Dagospia l'1 ottobre 2019. “Quanto ho nuotato in questi anni. Tanto, tantissimo…”. Federica Pellegrini tiene a battesimo la prima puntata della nuova stagione di “Che tempo che fa” e si racconta tra vasche, bracciate, medaglie, social, tv, vecchie e nuove passioni (i film horror e la cagnolina Vanessa "arrivata un anno fa"). La più grande atleta del nuoto azzurro chiuderà il cerchio olimpico a Tokyo dopo 15 anni da “Divina”. 51 medaglie internazionali: 14 ori europei, 7 ai mondiali, due medaglie olimpiche (un oro e un argento) e il record del mondo sui 200 stile libero che ancora nessuno è riuscito a polverizzare. “Sono vecchia insomma…Tutti mi chiedono di andare avanti. Ma cosa faccio? Vado avanti tutta la vita? Non posso. Intanto faccio la mia quinta Olimpiade. Voglio terminare la carriera stando lì davanti. Dopo i 32 anni non so se ancora fisicamente ci riuscirò…" La Pellegrini parla dell’oro mondiale conquistato lo scorso luglio in Corea del Sud: “Forse la gara più bella della mia vita perché è stata un po’ inaspettata. Mi sono trovata in uno stato di forma eccezionale, come ai mondiali di Roma del 2009. Non pensavo fosse più possibile, son passati dieci anni…”. L’ottava medaglia consecutiva in una competizione iridata non è stata come tutte le altre: “Non rivedo mai le gare, questa l’ho rivista un sacco di volte”. Scorrono le immagini della cavalcata che ha fatto emozionare lei e milioni di sportivi, Valentino Rossi e anche 'lo Squalo' Michael Phelps: “Lui ha vinto qualche medaglia in più…”. Premi il tasto stop, basta osservare il fotogramma della premiazione finale. Con lei ci sono la Sjoestrom che aveva 11 anni quando Federica ‘Baby Boom’ vinse l’argento ai Giochi di Atene del ’94 e la Titmus, classe 2000. Tre generazioni a confronto. E sempre lei, che se le lascia ancora tutte dietro. La campionessa sportiva lascia spazio all’influencer che passa da un post pro Greta su Twitter a una foto birichina su Instagram (“Ecco...ora me la tiro un po’ perché in questo video backstage mi sono sentita proprio figa”) e al severo giudice di “Italia’s got talent”: Ma non sono severa..”. Il presidente del Coni Malagò le ha aperte le porte del Cio (“La vorrei nel Comitato olimpico internazionale in rappresentanza degli atleti), lei intanto ha preso le misure con un discorso al Quirinale davanti a Mattarella: “Ero emozionatissima, mi tremava la voce…”. Ha chiesto al capo dello Stato di “proteggere” lo sport: “E’ stato un discorso fatto con il cuore. Se in questi anni gli italiani si riconoscono in qualcosa è negli sportivi che portano il tricolore. Tra tutte le cose che magari non funzionano in Italia lo sport è una di quelle che funziona meglio. Non credo sia il caso di rovinarla…”
Francesca Galici per il Giornale l'1 ottobre 2019. A 31 anni, Federica Pellegrini è ormai una donna pronta ad assumersi le sue responsabilità. Finora ha dedicato tutta, o quasi, la sua vita al nuoto ma anche per lei il momento di appendere il costume al chiodo è sempre più vicino. La Divina, come viene chiamata dai suoi tifosi, ha dichiarato che smetterà con l'agonismo dopo le Olimpiadi di Tokyo per dedicarsi alla sua famiglia. Intanto, pare che la Pellegrini si stia portando avanti con il lavoro, visto che da qualche tempo appare sempre più vicina a Matteo Giunta. Lui è il suo allenatore ma con Federica fanno sempre più spesso coppia fissa anche fuori dalla piscina, anche se ancora non hanno confermato il legame. Poche settimane fa i due sono stati fotografati insieme sul red carpet a un evento dedicato agli sportivi e il gossip ha iniziato a correre con ancora più impeto. Federica Pellegrini e Matteo Giunta sono molto belli insieme e tra loro sembra ci sia un affiatamento che va ben oltre il mero rapporto atleta/allenatore. Infatti, a poche ore di distanza dalla manifestazione, la presunta coppietta è stata paparazzata a cena in un locale poco distante. L'atmosfera del ristorante era molto intima e i due sono apparsi piuttosto legati, come dimostrano gli scatti pubblicati dal settimanale Chi. Tuttavia, Federica Pellegrini sembra andare con i piedi di piombo e non conferma questa nuova relazione, che arriva a distanza di molto tempo dalla rottura con Filippo Magnini. Intercettata da TgCom24 a un evento di moda, Federica è stata piuttosto vaga circa il suo coinvolgimento sentimentale con Matteo Giunta. “Si è parlato tanto, di fatto la foto allenatore/atleta l’hanno fatta tutti perché eravamo lì per una premiazione sportiva però si vede che noi eravamo molto belli”, dice la Divina senza smentire categoricamente il gossip. È molto più chiara quando si parla del suo desiderio di maternità: “Da donna quando smetterò di nuotare spero negli anni di mettere su famiglia però non è una novità, l’ho sempre ammesso, anche quando avevo 16 anni. Non è detto che smetta e poi il giorno dopo arrivi un bambino, pronto e impacchettato.”
Un oro chiamato amore. La leggenda di Fede umana solo nelle lacrime. Pellegrini al quarto titolo e all'ottava medaglia iridata di fila nei 200. «È l'ultimo mondiale...». Riccardo Signori, Giovedì 25/07/2019 su Il Giornale. Un amore di medaglia, una medaglia chiamata Amore. Federica Pellegrini si regala il titolo di questa ultima storia mondiale. Ci ha messo le lacrime, poi il sorriso e insieme l'incredulità. Ha chiamato il pubblico allo show salendo dall'acqua come una sirena. Araba fenice nel suo splendore. Dice: «Sono in estasi», con la naturalezza della campionessa che ha davvero fatto l'amore con la gara prediletta, 200 metri volati via, inseguendo una medaglia e ritrovandosi con un tempo (1'5422) che neppure la miglior vita agonistica le aveva regalato, se non gareggiando con i famosi e devianti costumoni. Le avversarie lasciate sul campo, in ogni senso. Lei meno imperiosa nei primi 100 metri rispetto alla semifinale, devastante nei 50 finali. La wonder woman Ledecky in tribuna a contare i secondi della Pellegrini, e non stiamo a dire: se ci fosse stata? Non c'era. L'australiana Titmus aggrappata alla sua scia e la regina Sjostroem ancora una volta a luna riversa, non è annata: tanto da star male al bordo della piscina con maschera ad ossigeno sulla faccia. Ieri Federica era un Amore di campionessa, nata e vissuta senza ombre che non fossero quelle del carattere. Eppure il tempo le ha reso giustizia anche nell'essere più simpatica: capelli meno spettinati di altre volte, serenità sul viso, tranquillità d'animo di una ragazza che ha scacciato diavoletti malevoli che intorpidiscono i muscoli e alimentano il malessere con se stessi e il mondo. E lì, sul podio di Gwangju, beata, ascolta l'inno, canta, batte le mani, si ripete come in un refrain: «Non ci si abitua mai». Quattro ori mondiali scanditi in 16 stagioni, in ognuno di essi si sono viste mano dei tecnici e caparbietà dell'atleta: otto podi di fila. Stavolta una scommessa vinta, dice lei. Stavolta potrebbe essere la campionessa di una medaglia nata per caso. Ma può essere un Amore nato per caso? Ammette che non ci credeva. «Sono arrivata in Corea quasi di passaggio». Due anni vagando tra i 100 metri ed altro, tenendo nel cassetto l'idea dei 200 sl dopo la meravigliosa storia di Budapest. Invece Federica ha riscoperto una magia restando aggrappata all'unico credo che l'abbia mai convinta. Pronuncia la parola «lavorare» con intensità e convinzione che farebbero piacere ad un Conte o a un Sarri, vista la fede calcistica. «A me è sempre piaciuto faticare». Una campionessa umana quando si fa prendere da una scarica di pianto e dice: «È l'ultimo mondiale: non potevo chiudere meglio. Piango perché sono contenta dell'oro. Non crediate! Con il nuoto ho vissuto emozioni forti, spero di ritrovarle in altri modi nella vita». Vincere e non mollare. C'è ancora Tokyo 2020. Ieri, poco dopo il successo, ha corso la staffetta mista con record italiano. La staffetta è trascinante, un altro amore: ne ha in programma diverse. Non vuole mollarle, forse meglio eliminare i 100 sl , dice lei. Gareggiare in gruppo la affranca un po' dal copione di ogni storia. «Ancor oggi, che sto per compiere 31 anni, mi lascio mangiare dalle tensioni: non dormi, ti tormenti». Non ci si abitua mai. Anche alla pensione (agonistica).
Stefano Arcobelli per la Gazzetta dello Sport il 26 luglio 2019. Nell'estasi del quarto trionfo mondiale, Federica Pellegrini s'è talmente piaciuta da non stancarsi nel rivedere il suo 1'54"22 nei 200 sl: «È la prima volta che riguardo una gara 40 volte e a caldo. Di solito non ci tengo tanto». Al punto da arrivare groggy alle batterie dei 100 sl, con meno di 4 ore di sonno e un crollo di adrenalina testimoniato dal 54"68 che le ha chiuso le porte della semifinale. «Ero lessa...ma ho una certa età».
Il delirio di messaggi?
«Sono strafelice per i complimenti di Phelps, sotto una sua foto: non mi aveva mai scritto, mi fa piacere, come quelli di Valentino. Valgono tanto».
Come si vive da icona?
«Piedi per terra e non montarti la testa, è difficile stare in alto a questi livelli. Ogni anno riparto da zero, c' è la gioia del lavoro che funziona. Dovrei godermela di più».
Gwangju più emozionante di Budapest?
«Gare diverse. Ieri (mercoledì, ndr) ho guardato il tempo più che la posizione perché non sapevo cosa sarebbe successo. Nel 2017 fu sofferta, più voluta».
S' è riaperto il cerchio dei 200.
«Non è stato facile. Fino al Settecolli dicevo a Matteo (il tecnico Giunta, ndr): "Fatico nella seconda parte, se non vedo qualcosa che mi entusiasmi non vado in Corea alla cieca". È stata una progressione, la molla è scattata a giugno».
Cosa le ha detto la Titmus?
«Sul podio c' erano 3 generazioni: io anni 80, la Sjöström anni 90 e Ariarne 2000. L' australiana mi ha detto "Quando hai vinto l' argento ad Atene avevo 3 anni". E io: "Grazie!"».
Quanto si è sorpresa?
«Tantissimo, pensavo di fare questo tempo a Tokyo: spero nel 2020 di non andare indietro.
Questa gara mi rispecchia in toto e tutto mi sembra sia venuto lineare e con calma».
Come gestirà la stagione olimpica?
«Mantenendo questa tranquillità e stando in bilico in un anno da panico generale».
Questo oro che posto occupa nel suo cuore?
«È ai primi posti. Tecnicamente viene subito dopo il record mondiale di Roma, per come stavo in acqua. È stata la finale dei 200 più veloce».
La medaglia dell' amore...
«Si sono scatenati col gossip, dico solo che sono serena e tranquilla. Penso di avere le persone giuste attorno a me. E si vede in acqua».
Come sono questi allenamenti diversi di Giunta?
«Molti erano scettici su Matteo, gli hanno messo i bastoni tra le ruote. Sono contenta per lui, in momenti come questi salgono tutti sul carro. Ma li abbiamo schedati».
Come l' ha rigenerata?
«È uno di quegli allenatori che Castagnetti avrebbe definito intelligente. C' è chi ha il suo metodo e chi capisce l' atleta e la modifica, come Matteo. Siamo cresciuti assieme, ha capito che non sono un' esordiente. Gli do feedback e lui si fida».
Malagò a Tokyo la candiderà al Cio.
«Bello, candidata presidente atleti? Posso votare pure io?».
Dove andrà in vacanza?
«Per ora ho solo prenotato un appartamento a Jesolo coi miei.
Non ho programmato altro».
È stata l' orgoglio delle calciatrici azzurre.
«Ho tifato per loro, so cosa vuol dire diventare grandi in uno sport maschile. Però gli stereotipi non mi piacciono».
Un po' come lei quando entrò in nazionale.
«Prima ero sola, ora sono felice di tutto: di aver chiuso il cerchio dei Mondiali in questo modo, stento a crederci».
Consigli alla Quadarella?
«È centrata e determinata. Non posso darle consigli sui 1500».
Un' Italia di punte d' oro.
«Restare fuori dalle medaglie sarebbe stato strano, aver chiuso così per me è importante anche per questo».
Federer, Valentino, Fede: cos' è la longevità?
«Beh, loro girano sulla quarantina... è vero che 30 anni nel nuoto sono tanti, e anche io pensavo dipendesse da adattamenti, recuperi. Di fatto bisogna trovare la chiave giusta. Il segreto sta lì. Ma non solo neanche io quale sia».
Che regalo si vorrà fare?
«Non so. Mi manca Vanessa (il suo cane, ndr .). Sul volo d' andata ero morta: era da mia mamma a Verona, io piangevo. Ho visto il film Dumbo: 2 ore in lacrime, non riuscivo a smettere».
Emiliano Bernardini per il Messaggero il 16 settembre 2019.
È lo stile libero che ha scelto lei o lei che ha scelto lo stile libero?
«Sono io che l’ho scelto. Consideri che da piccola facevo dorso e delfino».
Lei vive la vita modello stile libero?
«Direi proprio di sì».
Ci spieghi.
«Vuol dire affrontare la vita con la libertà di fare le proprie scelte senza sentirsi vincolati a qualcosa o a qualcuno».
E se le dico acqua?
«E’ il mio mondo».
Però ha paura del mare aperto...
«Ho paura quando non vedo il fondo. Posso trovarmi in un punto anche profondo 20 metri ma se vedo il fondo sono tranquilla. Altrimenti non mi tuffo nemmeno».
Diciamo così ha bisogno di toccare con mano l’obiettivo.
«Sono una che ha degli obiettivi e vuole raggiungerli quello è sicuro. Diciamo così: ho paura di quello che rappresenta l’ignoto».
Niente salti nel buio?
«Sono una che deve sempre tenere tutto sotto controllo».
Se non si fosse dedicata al nuoto cosa avrebbe fatto?
«Forse avrei fatto danza».
Quando ha capito che il nuoto sarebbe diventato la sua vita?
«Quando ho ottenuto il primo risultato veramente importante. Cioè nel 2004 quando a 14 anni durante i campionati italiani ho vinto i 100 stile con il primo tempo del mondo in quel momento. Lì ho veramente capito in che dimensione mi trovavo».
Lei è una che mette barriere?
«Non lo faccio a priori ma le metto con le persone. Nel senso che se qualcuno non mi piace a pelle non ho alcuna paura a farglielo capire. Così come non ho paura di chiudere per sempre con chi mi fa del male.
Perché il mondo mette barriere?
«Ha paura del diverso».
Secondo lei perché?
«Per ignoranza. Si ha paura di quello che non si conosce».
Le donne fanno paura?
«A tanti uomini. Però io credo che non siano le donne a far paura ma siano gli uomini ad aver paura dell’emancipazione delle donne».
I tabù sono barriere che mettono gli uomini?
«No, secondo me i tabù che hanno le persone sono abbastanza soggettivi».
Federica fa paura?
«Molto».
E la Pellegrini?
«Tantissimo».
Lei vota?
«Solitamente sì. Però ultimamente non ci sono andata ma solo per coincidenza: ero all’estero».
Se potesse dire una cosa a: Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti?
«Non voglio parlare di politica».
Se potesse dire una cosa al numero uno del Coni, Giovanni Malagò?
«Gli direi di continuare a far crescere lo sport come sta facendo».
E al presidente di Sport e Salute, Rocco Sabelli?
Ride, ndr.
Che rapporto ha con il suo passato?
«Molto interiore e riflessivo. Non rinnego niente e sono contenta delle scelte che ho fatto».
Esiste una Federica prima e una Federica dopo?
«Direi che c’è una Federica che è cresciuta e che ha imparato dal passato».
Rifarebbe ogni scelta?
«Sì, rifarei tutto».
Non c’è proprio nulla di cui è pentita?
«Sono convinta che le scelte che ho fatto prima mi hanno aiutato dopo. Ma se proprio devo scegliere una cosa che cambierei dico che avrei dovuto continuare a seguire Philippe Lucas (suo ex allenatore, ndr) l’anno delle Olimpiadi di Londra 2012».
È stata più volte tradita o sono di più le volte in cui ha tradito?
«Di sicuro quelle in cui sono stata tradita».
Cos’è l’amore?
«Un sentimento che ti porta a scegliere persone diverse indipendentemente dal periodo in cui ti trovi. Cresce con te».
Il sesso è importante?
«È fondamentale».
Quando è cambiato il rapporto con il suo corpo?
«Ultimamente. Negli ultimi due o tre anni sono arrivata ad avere una fisicità nella quale mi ritrovo al 100%».
La mente può aiutare a salvarsi dalla trappola del corpo?
«Per una donna credo che sia molto difficile. Penso che una donna sia più felice quando si ritrova nel corpo che vuole avere».
E la Pellegrini sexy sui social quando nasce?
«Da quando ho cominciato a piacermi».
Si è fatta un nuovo tatuaggio?
«Sì, un rosario. Me lo ha regalato mia mamma tempo fa e io l’ho sempre portato con me quando facevo i collegiali o le gare. Ce l’avevo sempre in valigia. Le ultime gare dei mondiali, invece, l’ho messo sotto il cuscino ed è stato come un lampo nelle testa. Mi sono detta se vinco questa volta lo porterò sempre con me. Ho vinto e quindi l’ho tatuato».
Un qualcosa di più scaramantico o più religioso?
«Religioso».
Come si nuotano i 200 stile nella vita?
«Come li nuoto io: in progressione».
Senza guardare nessuno?
«Se c’è qualcuno che sta davanti a te e ti sprona è meglio».
Un viaggio: dove, come e con chi?
«In Tibet perché non l’ho ancora visto. Penso sia un viaggio molto interiore da fare. Ci andrei da sola e con uno zaino in spalla».
Tre aggettivi per la Manadou, la Ledecky e la van Almsick.
«Laure è bellissima. Un’atleta bellissima in tutti i sensi. Katie è fortissima. Franziska è il mio idolo».
Visto che ormai si intende di talent, ci fa una hit di chi ci sarà dopo di lei?
«Quelle che ci sono ora. Le dico in ordine sparso: Simona, Margherita e Benedetta (Quadarella, Panziera e Pilato, ndr)»
In futuro più tv o più passerelle?
«Direi sicuramente la televisione perché fisicamente non sono una modella».
Tokyo 2020?
«Manca poco. È la destinazione finale. Spero sia una bella destinazione».
Agli Europei di Roma del 2022 ci sarà?
«Sì, da spettatrice».
Dopo l’Olimpiade basta con il nuoto?
«Magari continuerò da insegnante».
Se dico Luca, Filippo e Matteo?
«Matteo (Giunta, ndr) non c’entra ancora in questi nomi. Luca (Marin, ndr) e Filippo (Magnini, ndr) sono state storie importanti che ho avuto in passato. Matteo è attualmente è il mio allenatore».
E basta?
«Sì».
Pellegrini: libera di piacermi. «Ora mi va tutto ciò che faccio, è la chiave». Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Alessandro Bocci su Corriere.it. Una raffinata stratega capace di commuoversi per un film da bambini. Federica Pellegrini è un’atleta verticale. Il talento è un dono, ma lei lo ha curato come fosse un fiore, rispettandolo, senza mai abusarne, cercando casomai di sfruttarlo, tirandolo dalla sua parte di donna e campionessa. «La chiave di tutto è che mi piace ciò che faccio. Nelle ultime stagioni ho nuotato più per me che per gli altri e quest’anno avevo deciso di nuotare bene i duecento. Non sono venuta sino in Corea per fare il bagno...». Semplice, come lo è stato all’apparenza mettere dietro la rampante Titmus e l’eterna Sjoestroem nella finale perfetta. Fede è una ragazza libera, che prende di petto la vita e la vasca, sfidando regole e convenzioni, seguendo il cuore e l’istinto, ma in questi sedici anni trascorsi in piscina e in vetrina, sempre protagonista, tra picchi altissimi e brusche cadute, è cambiata parecchio. Alberto Castagnetti è stato il suo pigmalione, quasi un secondo padre, Matteo Giunta è allenatore e confidente, forse qualcosa di più se diamo retta all’immagine catturata dai fotografi dopo l’ultima vittoria, gli occhi di lei dentro quelli di lui alla fine di una giornata pazzesca, meravigliosa e sfinente, fatta di premiazioni, interviste e controlli antidoping. «Sul podio eravamo tre generazioni a confronto. La Titmus mi ha detto che quando ero all’Olimpiade di Atene lei aveva appena tre anni...». Ma non si sente vecchia, o superata. Ha lasciato la piscina a notte fonda, ha mangiato qualcosa ma lo stomaco era sottosopra dopo così tante emozioni, ha controllato il telefonino intasato di messaggi, di amici, famigliari, campioni come lei. Fede ne ha citati due, quello di Michael Phelps il cannibale della piscina e di Valentino Rossi. Ma le hanno scritto anche Flavia Pennetta e Christian Vieri, Elisa e Alessandro Cattelan. La prima telefonata l’ha fatta alla mamma, anche per chiedere notizie di Vanessa, il suo bulldog francese «che ho salutato in aeroporto quando sono partita. L’ho lasciata in braccio ai miei genitori e appena salita in aereo ho visto il film “Dumbo” e mi sono messa a piangere». Federica è così. Riesce sempre a sorprenderti. Ha dormito sì e no tre ore e giovedì mattina, nelle batterie dei 100 stile, a cui ha voluto partecipare, ha ottenuto solo il ventiduesimo tempo. «Colpa mia», si è affrettato a giustificarla Matteo Giunta, protettivo: «Dovevo capire che era stanca». Di testa, soprattutto. «Non ho mai avuto tanti dolori in vita mia, è come se avessi fatto un after», ha raccontato la regina. Ma la sua dimensione di campionessa non è certo offuscata da un cento nuotato male. «Ho rivisto la finale almeno quaranta volte e mi sono proprio piaciuta. Non credevo di andare così forte. Penso sia stato giusto arrivare a Gwangju solo tre giorni prima dell’inizio senza subire il fuso orario. La medaglia di Budapest è stata più sofferta e voluta perché pensavo di non poter tornare a quei livelli. E invece ci sono riuscita. E ho chiuso il cerchio Mondiale». Resta aperto quello delle Olimpiadi. L’ultimo anno da professionista, perché dopo Tokyo Federica appenderà il costume al chiodo. E chi la conosce, sostiene che stavolta non ci saranno ripensamenti. Ma l’ultima stagione dovrà essere perfetta. Tutto sarà studiato nei dettagli. Rispetto a qualche anno fa il cambiamento è radicale. Prima Pellegrini era una magnifica egoista, concentrata solo su se stessa e anche molto testarda. Adesso, e pare che questo sia il merito maggiore di Giunta, lavora in sintonia con il suo staff, una dozzina di persone tra parte tecnica e manageriale. Si confronta, accetta i consigli, è aperta al contributo. È diventata più morbida, forse perché più serena, in pace con se stessa. Vincere rimane la sua magnifica ossessione e ogni volta che si butta in acqua è come il primo giorno. Stesse sensazioni, stesse incertezze, anche lo stesso mal di pancia. Il suo avvicinamento a Tokyo è già programmato: qualche giorno di ferie ad agosto, mentre a settembre si dedicherà agli sponsor e registrerà le puntate della seconda edizione di Italia’s got talent, perché la televisione le piace parecchio e potrebbe essere il futuro insieme all’idea forte di mettere su famiglia «simile alla mia, che mi ha insegnato tanto». Da ottobre rotta sul Giappone. Qualcosa ha cambiato nel lavoro. Rispetto al passato dà più spazio agli esercizi complementari a secco, palestra e training. «E di sicuro disputerò meno meeting. Sarà una stagione piena di pressioni. Ma non è il momento giusto per pensarci. Ora forse lo posso dire: sono la più grande duecentista della storia. E mi voglio godere il momento». E con lei se lo gode tutta l’Italia che tifa Fede.
«È d’acciaio. Nuotare con lei? Sì, per conoscere la vergogna...» Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Corriere.it. Mara Maionchi risponde al telefono e nemmeno dice pronto. Ride. Lo fa con quella sua risata piena e contagiosa e non riesce a smettere. «Non so che farci, è come se avessi bevuto un litro di vino, io che sono astemia». Federica Pellegrini è stata (e quasi certamente sarà anche nella prossima edizione) la sua compagna di banco a Italia’s Got Talent (su Tv8).
Cosa prova oggi?
«Per lei ho un’ammirazione sconfinata. È una campionessa indefinibile, incredibile, una ragazza d’acciaio. Sono molto, molto emozionata. Fantastico».
Cosa ammira di lei?
«Io sono una poveraccia che si arrende al primo colpo, lei ha una tenacia, è una persona che quando si concentra... ma io questo video della sua vittoria adesso me lo riguardo per dieci giorni di fila. Adesso lo faccio vedere a tutti. Che regalo, una soddisfazione enorme. Sono gasata». E ride.
Rivede queste sue qualità anche quando fa televisione?
«Beh è una che quando si concentra fa spavento, è serissima, molto precisa. Anche quando fa i commenti mi piace moltissimo. E poi questo fatto che è una campionessa gigantesca non lo fa pesare mai, ma niente, proprio non ci fa caso».
La sua pare un’ammirazione sconfinata...
«È così. È un esempio, lo dico sempre e quando mi sente lei ride, ma dico a tutti che lei è la prova di quello che si può fare quando si ha forza di volontà. Certo nel suo caso c’è proprio un meccanismo a livello di intelletto che dopo si riflette sul corpo... controlla ogni singolo muscolo, anche come fa entrare le dita in acqua, va beh è una donna fuori dal normale».
Farete un bagno assieme per festeggiare?
«Nuotare assieme? Magari per conoscere la vergogna».
POTENZA DELLA FEDE: "A 16 ANNI ERO PIU' STRONZA, OGGI SONO SINGLE E STO BENE”. Da Circo Massimo - Radio Capital l 17 aprile 2019. Fuori dalla tv, dentro la vasca. Federica Pellegrini si racconta a Circo Massimo, su Radio Capital, dopo aver concluso la sua prima stagione da giudice di Italia's Got Talent ("Mi sono divertita tantissimo, mi ha insegnato tanto. Se ci riconfermano, lo rifarò") ed essere rientrata in vasca: "Ora sono nel pieno degli allenamenti, a Livigno: mattina in acqua e pomeriggio in palestra o ancora in acqua", spiega Pellegrini, che ha già in testa la road map dei prossimi mesi: "A maggio ci saranno tantissimi meeting italiani, poi a fine giugno il Settecolli di Roma e da lì a tre settimane si parte per i mondiali in Corea". La nuotatrice italiana viene da un'ottima prestazione agli assoluti: "Sono contenta perché non gareggiavo nei 200 in lunga da tanto tempo. Ho avuto buone sensazioni, ho ripreso la velocità che era mancata nell'ultimo periodo". Non ha ancora sciolto la riserva però sulla sua gara: "Non so ancora se farò i 200 in gare internazionali, proprio perché ci sarebbe un'aspettativa molto alta e non voglio arrivare a una gara così importante impreparata. Ho cominciato ad allenarmi di nuovo a gennaio, li farò solo se vedrò che sono veramente pronta per farli a livello mondiale e olimpico. L'obiettivo più grande è proprio la qualificazione a Tokyo 2020, che sarà agli assoluti del prossimo anno". I tempi, però, sono in linea con quelli delle concorrenti a livello mondiale, "ma la gara", avverte, "è una cosa diversa. Sulla carta ce ne sono tante che stanno andando molto veloci". E parlando di rivali, c'è Katie Ledecky, che ai mondiali di Budapest è arrivata seconda: "Ha il dente avvelenato? Non solo con me, perché ce ne sono parecchie che stanno andando molto più forte!". Federica ricorda i mondiali ungheresi come "la vittoria che mi ha dato più soddisfazione, proprio perché venivo dalla delusione più cocente, il quarto posto alle Olimpiadi di Rio". Con quell'oro, Pellegrini racconta di aver "concluso tutti i miei alti obiettivi. Dopodiché ho deciso comunque di andare avanti per cercare la qualifica alla quinta Olimpiade. Sono due anni in cui mi testo e continuo a mettermi in gioco, ma lo faccio con molta più leggerezza, mi diverto. Certo, non ho più vent'anni, ci sono le diciottenni che spingono e vengono su sempre più forti, ma anche riconfermarmi sui miei tempi è un grande traguardo". Nella vita privata la campionessa resta single ("e sto bene così") e conta i tatuaggi: "Sono undici, li ho fatti in momenti particolari della mia vita, soprattutto quelli non troppo felici. Li ho in zone che anche con il costume d'allenamento non si vedono, tutti sui fianchi, a livello del busto. E sono anche abbastanza grandi". "La femminilità per me è molto importante", racconta Federica, "essere femminile è un insegnamento che mi porto dietro da quando ero piccola grazie a mia madre, ci credo fermamente". Uscita dalla vasca farà la modella? "Non penso, con le mie spalle è difficile", scherza. La prima grande vittoria è stato l'argento olimpico ad Atene 2004: rispetto ad allora, Federica si vede "un po' meno stronza. Da ragazzina ero inquadratissima, anche molto spigolosa. Gli angoli ci sono ancora, ma sono un po' più smussati". In giro c'è un'erede? "A livello internazionale lo è stata forse la Ledecky, che ha cominciato prestissimo a vincere, ma lei non è propriamente una duecentista. A livello italiano ci sono stati grandi risultati, ma per quanto riguarda la mia gara la strada è ancora lunga... nei 200 stile un'altra Federica non è ancora nata".
· Benedetta Pilato: non ho l’età.
La nuotatrice tarantina Benedetta Pilato a 14 anni è argento nei 50 rana ai mondiali di nuoto. Il Corriere del Giorno il 28 Luglio 2019. La nuotatrice tarantina, nata nel gennaio 2005, la più giovane italiana mai qualificatasi a un Mondiale, spaventa la primatista del mondo King e conquista un meraviglioso podio in 30”00, a 16/100 dalla vincitrice. Terza la Efimova, quinta l’altra azzurra Carraro. Federica Pellegrini chiude la sua carriera ai Mondiali con il quarto posto nella 4×100 mista. Nel nuoto mondiale è nata una stella. Benedetta Pilato, italiana, pugliese, nata a Taranto 14 anni e mezzo, è la più giovane italiana mai qualificata per un Mondiale, conquista splendida medaglia d’argento in 30” netti nei 50 rana ai Mondiali di nuoto di Gwangju dietro la statunitense Lilly King, 29”84, mettendosi alle spalle la russa Efimova, una big della specialità, terza in 30”15. Quinta l’altra azzurra Martina Carraro, già bronzo nei 100, in 30”49. La nuotatrice tarantina dopo una partenza bruciante dell’americana, con un’azione scintillante e continua ha recuperato bracciata dopo bracciata, mettendo a serio rischio la vittoria della statunitense. Una rana lanciata con frequenze alte, potente, ed una “follia” lucida verso la gloria mondiale senza timidezza ma con sfrontatezza, forse solo al tocco ha pagato un po’ di inesperienza. Benedetta per gli amici Benny dopo l’impresa è estasiata piange e ride fra le lacrime “Non ci credo. Sono contentissima. Non posso dire altro se non che sto lavorando benissimo, adesso devo pensare ai Mondiali junior ma devo vivere questo momento. Non sono mai stata così tesa prima di una gara, ma penso che sia normale. Non ci pensavo proprio a una medaglia, vedendomi con il terzo tempo l’idea l’ho sfiorata, però non me l’aspettavo. Rendere la vita difficile alla King? Vabbé dai non esageriamo…però è bellissimo competere con gente che ha più esperienza”. La liceale tarantina, fresca campionessa europea juniores , non ha mai fatto un doppio allenamento in un giorno. Promossa alla seconda liceo di scienze applicate a Taranto, va in palestra tre volte alla settimana e ogni giorno fa 31 km all’andata e altrettanti al ritorno per nuotare al massimo 5 km nella piscina di Pulsano. La allena un trentenne, Vito D’Onghia, insieme ad un gruppo di 18 ragazzini da dove emerge subito la classe di Benny. Assediata di domande, la piccola si gode la favola con incredulità. Sa rispondere colpo su colpo come sfidare le specialiste della rana. “Sono una ragazza solare, non ho mai tempo per i social, io nuoto e studio. Non sono mai andata in discoteca, e i miei genitori mi dicono che da bambina non mi piaceva tanto l’acqua, forse avrei fatto la tuffatrice”. In camera non ha idoli, se non le sue foto. Sa il fatto suo quando risponde che “i ranisti sono una classe eletta”. “Non me l’aspettavo davvero – commenta – ma io non cambio, resto con i piedi per terra, devo ancora capire cosa ho fatto e se l’ho fatta è merito delle persone giuste che ci sono alle mie spalle”. Come tutti i talenti fatica ad assorbire i lavori aerobici: “Andare all’Olimpiade? Sì, ci arriverò“. Ora non svegliamola da questo meraviglioso sogno diventato realtà. Il coach dice di lei: “E’ una velocista pura fibra bianca”. Dopo l’oro del Settebello di pallanuoto per l’Italia è una grande gioia ai Mondiali. La Pilato, invece, conclude così: “Cosa ho pensato alla fine? Ho visto la luce su blocco, erano due pallini, ho iniziato a urlare… La King mi ha detto ‘tutto bene’. Mi stavo sentendo male. Sono sconvolta“.
Benedetta Pilato, il liceo con la media dell’8 e la vasca come casa: chi è la 14enne argento mondiale che ha fatto meglio di Fede Pellegrini. Nata a Taranto il 18 gennaio 2005, la vice campionessa mondiale dei 50 rana nuota da quando aveva 2 anni nella Fimco Sport di Pulsano, a pochi chilometri dal capoluogo jonico. È appena stata promossa alla seconda liceo a pieni voti e subito dopo la vittoria, invece di festeggiare, era già concentrata sui Mondiali juniores. E i genitori dicono: "Il risultato sportivo? Secondario, l'importante era godersi l'atmosfera". Andrea Tundo il 28 luglio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Ogni giorno avanti e indietro, da casa alla piscina, poi in vasca, e di nuovo verso casa. L’acqua e i libri, di pari passo, come vuole la sua famiglia. Ci è abituata, Benedetta Pilato, vice campionessa mondiale nei 50 rana a 14 anni e mezzo, nessuna precoce come lei, neanche Federica Pellegrini. Perché in piscina è sostanzialmente nata: nuota da quando ha 2 anni, ‘studia’ per diventare campionessa da quando ne aveva 4. Sempre la stessa vasca, quella della piscina Solaris di Pulsano, 15 chilometri da Taranto, dove Benedetta è nata e vive. La stanzetta divisa con il fratellino Alessandro, che subito dopo la vittoria, preso dall’emozione, ha detto di essere felice non solo per l’argento, ma anche perché “lei a volte mi dà molto fastidio” e il Mondiale l’ha tenuta lontana da casa per qualche tempo. Ma in casa, in realtà, adesso l’aspettano per festeggiare. Non solo la famiglia, ma anche Vito D’Onghia, il suo allenatore della Fimco Sport, l’uomo che la baby fenomena l’ha cresciuta. È rimasto a Taranto, lontano da lei nell’esperienza più importante della sua carriera tanto breve quanto già densa di vittorie, medaglie e record. È lui che ogni giorno la guida lungo i 5 chilometri in vasca, avanti e indietro, coordinando bracciate e gambate. Ci sperava, Vito, che la "sua" Benedetta piazzasse il risultato. Un po’ di credeva, dopo le prestazioni messe in fila negli ultimi mesi. A giugno, al Trofeo Sette Colli aveva stabilito il record italiano assoluto nei 50 rana, poi migliorato nelle batterie dei Mondiali in Corea. Agli Europei giovanili di nuoto a Kazan, poche settimane fa, aveva conquistato l’oro sempre nella vasca singola a rana e l’argento nella staffetta 4×100 mista femminile. A Gwangju era già un record la sua partecipazione. Mai un’italiana così giovane aveva nuotato in un Mondiale, neanche Federica Pellegrini. Proprio con lei, Benedetta aveva volato da Fiumicino fino alla Corea del Sud. “Goditela”, il consiglio della Divina che con la vittoria nei 200 metri stile libero dell’altro giorno è diventata leggenda. Quando per la prima volta Pellegrini era salita su un podio tanto importante, alle Olimpiadi di Atene 2004, Benedetta era nella pancia di mamma. Sarebbe nata qualche mese dopo, il 18 gennaio 2005. Adesso che Fede ha nuotato per l’ultima volta in un Mondiale, l’Italia inizia a sperare in una nuova giovanissima di talento. Anche se alle Olimpiadi di Tokyo 2020, i 50 rana non ci saranno e sulla distanza doppia, per adesso, Benedetta non viaggia altrettanto veloce. Ma la faccia pulita e l’innocenza di una 14enne che piange dopo l’arrivo, incredula per quanto ha appena realizzato, potrebbero comunque esserci. Basta ascoltare quella frase che racconta più dei risultati chi è Benedetta Pilato: “Adesso devo pensare ai Mondiali juniores”, sono state le sue prime parole ai microfoni Rai dopo l’argento alle spalle di Lilly King. E la festa per un argento storico, precoce, inaspettato? Ci sarà, certo, anche quella organizzata dal sindaco di Taranto: “Ha deciso di viziarci. Ci hai tenuto incollati alla tv e non ci hai deluso – ha detto Rinaldo Melucci – Ti aspettiamo per ringraziarti e festeggiarti. Sei l’orgoglio di tutti i tarantini”. Poi la 14enne tarantina con i capelli bicolore, frutto dell’iniziazione in squadra, tornerà a faticare. È abituata così: ogni giorno il liceo Scientifico, primo anno appena superato con la media dell’8, i chilometri in vasca e gli altri 15 per tornare a casa. Ora aspettano che rientri dal viaggio più lungo e dolce: “Il risultato sportivo era secondario, l’importante era godersi l’atmosfera“, sorride il papà. Lei, intanto, si è concessa solo un’esultanza: una stories su Instagram con dei calzini blu decorati con dei ghiacciolini colorati. “È proprio vero che portano fortuna”, ha scritto Benedetta. Ma c’è da giurarci: i meriti sono altrove.
Lo sport non ha età. Benny è solo l'ultimo fenomeno di precocità. La Pilato in compagnia di tanti fenomeni. È più facile imporsi negli sport individuali. Riccardo Signori, Martedì 30/07/2019 su Il Giornale. Non è mai stato il tempo di «Non ho l'età». No, nello sport proprio no. Non c'è stata età, ieri, oggi, non ci sarà domani: si trattasse di ragazzini e ragazzine dai 13 anni in su, ma anche di campioni fatti e finiti che dai 30 anni in avanti non mollano un centimetro (Pellegrini e Federer tanto per citare). Benedetta Pilato è l'ultima scoperta dal fascino indiscreto della gioventù, i suoi 14 anni la pongono già nella hall of fame: ha rispolverato il pianto di una bambina felice quanto le tuffatrici cinesi fanno filtrare da visi imperturbabili un sorriso delicato. Modi diversi di essere più umani e meno robot. I ragazzini prodigio hanno cibato le narrazioni: ginnastica, nuoto, tuffi pretendono gioventù acerba più di altri sport. Nadia Comaneci a 15 anni fece innamorare con i suoi volteggi; Simon Byles, gattona Usa di ultima generazione, si è fatta conoscere a 16; Vanessa Ferrari ha vinto un oro a 15 anni e 11 mesi. Le ragazze d'Italia sono state prevalentemente più precoci dei maschietti nel conquistare il mondo: Karolina Kostner e Isolde Kostner, Arianna Fontana, Novella Calligaris e Federica Pellegrini, come dire storia e passione. Fra i maschi Gianni Rivera, con i suoi 16 anni, era già prodigioso nel giocar calcio, ma attese i 19 anni per vincere la coppa dei Campioni. Il football è gioco di squadra: il talento squilla, talvolta non basta. Comunque Pelè fu campione del mondo a 17 anni e 249 giorni, Ronaldo nel gruppo vincente di Usa 1994 a 17 anni e 10 mesi, ultimo della serie Kilian M'Bappè campione mondiale con la Francia a 19 anni e 7 mesi. Ed è vero che di questi tempi la gioventù pallonara va più facilmente al potere. Più facile far colpo nello sport individuale: Boris Becker pareva un extraterrestre sull'erba di Wimbledon, più giovane vincitore della storia a 17 anni e 227 giorni; Ian Thorpe baby re del mondo (400 stile libero) a 15 anni. Loris Capirossi, all'esordio nel motomondiale, aveva 17 anni, età da motorini, ma fra le mani una bestia di moto (Honda 125): e ancora oggi è ricordato come il più giovane titolato. Prender pugni a 17 anni non è come dirlo: Wilfredo Benitez, splendido campione portoricano, divenne re dei welters jr. a 17 anni e 173 giorni, mentre Mike Tyson tolse a Floyd Patterson la palma del più giovane mondiale massimi a 20 anni e 4 mesi. Non è certamente facile essere bambini e campioni: Wu Xiang, una delle più grandi tuffatrici cinesi, venne portata via alla famiglia all'età di 12 anni, sottoposta ad un regime duro tanto da non farle nemmeno sapere, prima delle gare olimpiche, che la mamma stava male e i nonni erano morti. A Gwangju, le tuffatrici Chen Yuxi e Lu Wei hanno vinto da under 14, grazie al regolamento che permette di gareggiare a tredici anni, se nell'anno gli atleti compiono i fatidici quattordici. Uno studio spiega che per essere baby campioni servono determinazione, convinzione, regole: ovvero allenamento, riposo, alimentazione, integrazione, obiettivi da raggiungere. Può contare anche il segno zodiacale. Ariete porta risultati (Sara Simeoni lo è). Benedetta Pilato è nata Capricorno, tipico di personalità tenace, ambiziosa, disciplinata. Le fa compagnia Pep Guardiola, un vincente.
Giulia Zonca per “la Stampa” il 30 luglio 2019. La Nazionale esce a festeggiare nell'ultima sera dei mondiali e Benny resta in camera. Troppo piccola per il party di chiusura però Benedetta Pilato non dorme comunque. Parla con chi capita, telefona al tecnico rimasto a casa, condivide i video della medaglia: un argento flash sbucato fuori da 30 secondi di irresistibile rana.
Ha parlato con i sui genitori?
«Non ancora. Mia madre mi ha scritto "cosa combini Benny?", mio padre mi ha mandato complimenti che mi tengo stretta».
Lui era preoccupato del nuoto ad alto livello. E adesso?
«È disorientato e inseme contento per me».
Quattordici anni e subito sul podio. La rana però è nota per essere imprevedibile, tante bimbe spariscono.
«La rana è strana, dicono che sia un po' pazza e quindi è adatta a me, speriamo di non sparire ma non me ne preoccupo, colgo l' attimo. Quando ho iniziato, a 5 anni, mia madre prima mi ha portato a una lezione di danza. Non ero proprio io lì, in acqua sento una forza speciale».
Che cosa è lo sport per lei?
«Non tifo, non guardo niente in tv, non conosco il nome dei campioni... lo sport è l' argento che ho nello zaino».
E le Olimpiadi?
«Un sogno, ma faccio i 50 rana e non ci sono. Lavorerò sui 100 e se non dovessi fare il salto di qualità che serve in tempo per Tokyo vorrà dire che i miei Giochi saranno i prossimi».
Prima telefonata dopo l'argento?
«Al mio tecnico Vito D'Onghia che non era in Corea ma mi ha seguito lo stesso minuto per minuto. Mi ha detto che l' ho reso orgoglioso e che si è emozionato. Sento i brividi ogni volta che rivedo o ripenso a questi 50 metri magici».
Film preferito?
«"La vita è bella", l' ho visto in quinta elementare e poi altre due volte, mi commuovo di continuo».
Quanto sta sui social?
«Solo su Instagram, sono patita, mi piace mettere le storie di quel che succede, mi fa sentire in mezzo al mondo».
Segue i suoi amici o la gente famosa?
«Da quando sto in Nazionale i miei amici sono la gente famosa. Non mi aspettavo di integrarmi così bene e di divertirmi così tanto».
Ha iniziato a vincere medaglie prima di Federica Pellegrini.
«Il paragone vale solo sulla precocità, credo. Abbiamo tifato insieme in Corea, è stato bello. L' immagine che mi porto a casa non è il mio podio, è la tribuna con la squadra il giorno degli ori di Fede e Greg».
Che cosa ha rubacchiato da Pellegrini e Paltrinieri?
«Vorrei avere la stessa tranquillità. Fede ha detto che era tesissima prima dei 200 stile libero, ma non se ne è accorto nessuno».
Lei era tesa prima dei 50 rana?
«Un po', non molto. Ma avevo paura di sbagliare e un sacco di pensieri per la testa».
Si allena in provincia di Taranto, in una piscina da 25 metri. Orgoglio del Sud?
«C' erano tre pugliesi in questo Mondiale e mi fa piacere, ci sta che questa medaglia abbia aperto gli occhi a tanta gente, come dire "ci siamo anche noi", va bene.
Però Sud o Nord, il posto dove nasci non racconta chi sei. Non parlo dialetto, non sono religiosa, sono italiana e basta. E rappresentare il mio Paese con quell' argento è stato fantastico».
Ora cambierà qualcosa?
«I miei compagni di classe mi hanno scritto "si parla solo di te". Non voglio che cambi nulla, sono senza pressione e senza ansie: solare. Mi dicono sempre che so trascinare».
Ai Mondiali jr torna tra i ragazzi. Meglio la sua dimensione o le mancheranno i grandi?
«Alla fine, a Gwangju sembravamo un po' tutti bambini».
Già pronta per un tatuaggio che ricordi l' argento?
«No, sono troppo giovane: non sono ancora sicura di che cosa vorrò ricordare per tutta la vita».
Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 30 luglio 2019. Ciak, si nuota. Lo fanno poco più di un quinto degli italiani che praticano lo sport in modo «continuativo» e «occasionale». La percentuale cresce fra le donne, passando dal 21,1 della media generale al 26,8 per cento (dati Istat del 2015). Secondo un altro rilevamento, quello realizzato da Ipsos-StageUp nel 2016, i tuffi in piscina sono addirittura più avanti del calcio: 4.169.000 rispetto a 3.952.000 praticanti. Dati che danno l' idea di un movimento fortissimo, ormai da anni stabile su quei livelli percentuali. A livello, invece, di tesserati alla federazione, nel 2017 il nuoto è finito settimo a quota 163.307, quasi 10mila in più rispetto al 2016. Tutti questi numeri, però, non rendono giustizia ai grandi protagonisti della pratica natatoria in Italia: i bambini. Il nuoto è davvero il re dell' attività sportiva nell' età dell' asilo e della primaria. Sempre, secondo la stessa ricerca Ipsos, il 24 per cento di quei quattro milioni di nuotatori è concentrato nell' età fino a 11-12 anni. Più di un milione di bambini vanno in piscina, una cifra enorme. Che consente, evidentemente, di avere a disposizione un potenziale invidiabile per intercettare un talento. Anche se sui numeri siamo degli impianti siamo dietro: secondo una ricerca di Assopiscine, in Italia c'è una piscina pubblica ogni 19mila abitanti, in Germania siamo a una su 5.460. E il divario cresce fra gli impianti privati. Secondo una ricerca pubblicata da Nomisma e UniSalute nell' ottobre del 2018, nell' età della scuola elementare il 30 per cento dei bambini sceglie uno sport acquatico (nell' inchiesta era comunque possibile la risposta multipla). La piscina è un luogo che piace. Non soltanto in acqua, ma anche fuori: ai bambini, ma pure - soprattutto - ai loro genitori. Nella scuola primaria, il calcio è dietro. Quando, invece, si alza l' età (dalle medie alle superiori), il fascino delle bracciate perde colpi (scendiamo al 14 per cento), ma intanto si è consolidato un vivaio di grandi dimensioni che ha portato in alto il nostro nuoto fino ai giorni di Gwangju. Da Federica a Benedetta, passando per Simona.
· Magnini si ribella dopo la squalifica.
Magnini si ribella dopo la squalifica: «La procura sportiva si è accanita per far venire fuori il mio nome». Pubblicato venerdì, 24 maggio 2019 da Giuseppe Benedini su Corriere.it. «Non merito di vivere questa vergogna». Filippo Magnini è commosso, la squalifica di 4 anni per doping è confermata. Oggi a uno dei più grandi nuotatori della storia azzurra non resta che il Tas, ma lo aspetta un ulteriore sacrificio: «Sto valutando se impegnarmi in un altro ricorso. Economicamente sarebbe un impegno gravoso, ma farò di tutto perché la verità venga a galla». Il 14 maggio il Tribunale Nazionale Antidoping 2 ha convalidato la squalifica comminata a Magnini in primo grado per «tentato uso di sostanze dopanti», dando ragione alle tesi della Procura di Nado Italia. Un tentato utilizzo che, secondo il TNA, sarebbe confermato dal fatto che l’ex nuotatore si facesse assistere dal medico Guido Porcellini, il medico nutrizionista condannato in primo grado a 30 anni di squalifica per traffico di sostanze dopanti. «Sono stati i due anni più brutti della mia vita. Per due anni ho preferito tenere un profilo basso, facevo fatica a guardare le persone negli occhi. Sono riuscito ad andare avanti solo grazie alla mia famiglia e a Giorgia, la mia fidanzata». Filippo Magnini non ci sta, si oppone ad una sentenza che uno sportivo, con alle spalle oltre duecento controlli antidoping negativi, non riesce ad accettare. «Ho pensato subito che dietro questa vicenda ci fosse qualcosa che non andava, qualcosa di più grande, forse addirittura un disegno già scritto». Un’idea suffragata dall’assoluzione in appello di Michele Santucci, l’altro nuotatore coinvolto nell’inchiesta della Procura Sportiva il quale, secondo il TNA2, sarebbe innocente in quanto avrebbe «desistito dal tentativo di doping». «Sono contento per Michele – dice l’ex azzurro -, ma se fossi in lui non sarei felice di essere stato assolto con questa motivazione. Io non ho desistito dal fare niente, non mi è proprio mai venuta l’idea di doparmi». Una caccia alle streghe, secondo Magnini, che lo ha costretto a prendere delle precauzioni. «A Michele Santucci, durante le prime due ore di interrogatorio, è stato caldamente suggerito di dare tutta la colpa a me. Io ringrazio Michele per aver detto semplicemente la verità, senza aver ceduto alle pressioni subite. A Emiliano Farnetani, invece, il fisioterapista, gli inquirenti hanno detto più volte, quando le domande mi riguardavano: “Spero che lei sia molto ricco, noi non la faremo lavorare più”. Da qui noi abbiamo capito che qualcosa non andava – continua l’ex nuotatore azzurro - e abbiamo sentito la necessità di proteggerci, documentando tutto quello che accadeva a porte chiuse e abbiamo iniziato a registrare con i telefonini tutti gli interrogatori. Perché la giustizia sportiva ha agito così? Perché si è accanita negli interrogatori per ottenere da tutti il mio nome? Questa è una domanda alla quale non saprò mai rispondere». Troppe incongruenze dunque per l’ex capitano della nazionale di nuoto: «Stando alla giustizia ordinaria il fatto non sussiste, il pm non ha nemmeno informato la procura sportiva. E’ stata la procura sportiva a richiedere le carte per indagare». Magnini attacca poi la Procura sportiva, a suo parere non preparata. «Il problema più grande che ho riscontrato in tutta questa faccenda è stato dover combattere contro l’incompetenza delle persone che indagano sugli sportivi e che non sanno nulla di sport professionistico. Nella nostra relazione difensiva c’è tutto, passo dopo passo. Qui si discute delle due fiale che sono state trovate dentro la valigia del dottor Porcellini, il quale dichiara subito per suo uso personale. Invece no! Per la Procura e per chi mi ha giudicato sono per forza per me. Quando vengono requisite queste due fiale è il 10 giugno e le Olimpiadi sarebbero iniziate dopo la metà di luglio. La Procura, però, evidentemente non sa che se un atleta vuole doparsi deve smetterne l’utilizzo almeno venti giorni prima della competizione avendolo somministrato per tutti i mesi precedenti. Io mi rivolgo al Coni, che, a differenza della Federazione e dei miei colleghi atleti non si è mai esposto per uno sportivo che ha vinto due mondiali: voglio farvi capire nelle mani di chi sono i vostri atleti e chi ha il potere di giudicarli. Il modus operandi è quello di trascrivere con parole sbagliate le deposizioni delle persone chiamate a testimoniare».
· Le memorie di Adriano Panatta.
La sfida di Panatta: «Compro un circolo. Insegnerò a giocare il tennis di una volta». Pubblicato venerdì, 11 ottobre 2019 da Corriere.it. «Io sarò amministratore unico, l’amico Philippe Donnet mi aiuterà a fare i conti: in questo è più bravo di me. I bambini del nostro tennis vorrei diventassero più Roger Federer che Rafa Nadal. Almeno un po’ pof, pof, se possibile, insomma...». La vita ricomincia a 69 anni ristrutturando lo storico Sporting Club Zambon di via Medaglie d’Oro a Treviso, all’ombra del ciuffo morbido da eterno adolescente, con un meraviglioso avvenire alle spalle (Roma, Parigi e la Coppa Davis in un’unica, indimenticabile, stagione: correva il 1976), a 538 chilometri da dove tutto cominciò. Tc Parioli, Anni 50, le prime trasmissioni in bianco e nero della Rai, l’inaugurazione del tratto dell’Autostrada del Sole da Milano a Parma, gli Oscar a Federico Fellini, e Adriano Panatta detto Ascenzietto, figlio del custode. Da qualche anno vive in Veneto: «Per ragioni sentimentali». Posso scriverlo, Adriano? «Ma certo. Ho traslocato da Roma a Treviso per amore di Anna, la mia compagna. Donna bella, dolce e intelligente». Anna Bonamigo, avvocatessa trevigiana, detta Boba. La spesa al mercato di San Parisio, la carne alla macelleria Stecca di Borgo Cavour, a piedi al cinema Corso, Piazza dei Signori da solcare in bicicletta. Un’altra galassia rispetto all’anarchico gigantismo di Roma, che gli resta nel cuore. «Di Treviso mi piace tutto: qui sono finalmente riuscito a costruirmi una dimensione di normalità. E mi sento tranquillo nella mia vita». Lontano dalla Capitale, la panattitudine è un’aura da portare in giro con più leggerezza, ma il primo amore non si scorda mai. Il tennis. «L’iniziativa è mia. Il Tc Zambon, gravato da un pignoramento promosso dalle banche creditrici, era già andato all’asta quattro volte. Sempre deserta. Ormai sono stabile sul territorio, il tennis è un settore che conosco: ne ho parlato a Parigi con Philippe, amico carissimo e ad di Generali. Avrei l’intenzione... Ottimo, facciamo insieme, è stata la sua risposta». Una srl che porta le iniziali dei due nomi, A&P International, 550 mila euro di controvalore sottoscritto, un progetto da 2,5 milioni di investimento per riqualificare tutta l’area. Apertura a ottobre 2020. Panatta businessman, dopo volée al bacio, rovesci di velluto e veroniche satinate. «Ci avevo giocato, al Tc Zambon, cento anni fa quando ero giovane — racconta Panatta —. Un’istituzione della marca trevigiana. Dopo tante vicissitudini, ora siamo alla fase burocratica: il piano finanziario, la presentazione al Comune di Treviso, con il sindaco Conte abbiamo ottimi rapporti. Penseremo anche a un nuovo nome: a proposito, se ha un’idea...». Difficile immaginare che un tennis gestito da Adriano non porti il cognome Panatta. «Sarà un club all’antica, per soci adulti, bambini e nonni. E per le donne, che dalla palestra all’estetica avranno a disposizione un settore dedicato a loro. Non sarà un circolo mordi e fuggi. Piscina, ristorante, club house: chi viene resterà tutto il giorno. Ho in mente il modo di vivere il club dei miei tempi, dal Tc Parioli al Circolo Canottieri Aniene. E i maestri insegneranno il tennis che dico io: classico, non estremo, le impugnature improbabili dei poveri giocatori infelici saranno bandite, vietato il rovescio a due mani. Se non si divertono, i bambini il tennis lo abbandonano. Vorrei evitarlo. E sarò lì tutti i giorni, anche in campo. Meglio se di padel, però, così corro meno...». La partita a padel con Alessandro Di Battista è già negli annali: «L’ha conosciuto mio figlio Alessandro al parco, mentre facevano giocare i pupi. Ha chiesto di incontrarmi. Con una racchetta in mano mi sento più a mio agio». Un ritorno al passato per il più moderno dei nostri campioni. Bella sfida o pensione dorata, Adriano? «Che sia dorata è tutto da dimostrare! Nuova avventura, diciamo. Un impegno che mi piace prendere. Avevo voglia di un progetto, basta andare avanti e indietro per l’Italia. L’anno prossimo compirò 70 anni. Ormai si è fatta una certa».
Da Il Messaggero il 23 settembre 2019. Adriano Panatta è intervenuto nel corso della trasmissione I Lunatici del week end in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Andrea Santonastaso e Roberta Paris. Sulla Roma: “La Roma sta giocando bene, ha giocato bene sia in campionato che in coppa. Per cui è un momento positivo, non so bene per quale motivo. Io spero che lo sappia Fonseca, è una bella sorpresa però è abbastanza inspiegabile. Sembra molto sicuro di se, che è una dote se non si esagera. I calciatori quando vedono che il loro coach è abbastanza tranquillo e determinato è sempre una cosa positiva in tutti gli sport, gli atleti hanno anche bisogno di guardare fuori dal campo e serve qualcuno che gli dia una mano”. Panatta ha poi analizzato il tennis attuale: “Kyrgios è un cretino totale, perché uno che gioca bene a tennis come lui ed è così cretino è davvero un peccato. Lui non perde la testa, è proprio cretino. McEnroe invece è un grande paraculo, perché lui sfruttava la scena, faceva la scena di arrabbiarsi ma ne traeva sempre vantaggio”. Sui social:“Io mi chiedo perché una persona che fa politica debba comunicare con i social, sarebbe meglio che parlassero visto che stanno anche in televisione. Io non li uso tantissimo, ho un canale YouTube dove parlo di tennis. Questi, ad esempio, che stanno su Instagram che vogliono far sapere tutto quello che fanno, che mangiano la mattina, dove vanno. A parte i politici, ad esempio la Ferragni anche se si tratta di un business, chi se ne frega? Lei facesse quello che vuole, fortunatamente viviamo in un Paese libero, ma io non approvo. Perché devo fare sapere dove sono, dove vado e chi vedo? Mi sembrano tutti matti. Io non sono geloso che lei faccia i soldi, non mi è nemmeno antipatica anche perché non la conosco personalmente, lo trovo semplicemente un sistema allucinante. Poi lei almeno lo fa per i soldi, ma gli altri perché?”.
Maurizio Caverzan per “la Verità” il 21 ottobre 2019. Ripartire dalla provincia. Anche se si è uomini di mondo. Anzi, forse proprio per questo. Adriano Panatta ha girato il pianeta, è conosciuto e stimato ovunque. Eppure ha voglia di ricominciare da un maxicentro sportivo a Treviso, dove vive da qualche anno con la sua compagna, l' avvocato Anna Bonamigo. Il suo progetto imprenditoriale è decollato con l' asta pubblica nella quale ha rilevato il vecchio Tennis club di Bepi Zambon, pianificando un investimento di 3 milioni per il suo rilancio insieme con l' amico Philippe Donnet, ceo del gruppo Generali. E siccome, perdonate la nota personale, sono originario di Treviso e Bepi Zambon è stato il mio maestro di tennis, incontrare ora Panatta, idolo di gioventù, è chiudere un cerchio.
Dunque, si ricomincia a 69 anni?
«Inizio un' attività imprenditoriale che per tanti anni non ho preso in considerazione: avere una struttura sportiva e dirigerla. Da qualche tempo vivo a Treviso e questo è un modo per radicarmi di più nel territorio».
Lo chiamerà Tennis pof pof, dal celebre cameo nel film La profezia dell' armadillo?
(Ride). «No ci sto pensando. Ho ancora un po' di tempo per scegliere il nome».
Qual è stata la molla di questa decisione?
«Desideravo un' attività più stanziale, per non essere sempre in giro.Viene il momento in cui si ha voglia di fermarsi. A me piace molto lavorare e con gli anni alcune attività sono cambiate. Ma mi sento pieno di energie e ho trovato come partner una persona che mi tranquillizza in tutti i sensi. Philippe Donnet, ceo mondiale del gruppo Generali, è un grande amico, gli ho raccontato il mio progetto e la sua risposta è stata: "Se lo vuoi fare sto con te". È stata la molla decisiva».
L' occasione è venuta dall' asta del vecchio Tennis Zambon.
«È andata deserta quattro volte. Bepi Zambon lo conosco dalla fine degli anni Settanta, quando organizzò l' esibizione con Björn Borg al Palaverde. Un paio d' anni fa mi aveva detto: "C' è il mio circolo da rilanciare, facciamo una cordata". Ma in quel momento avevo altri interessi. Poi ho visto che è una struttura che, con adeguati investimenti, può diventare molto bella».
Sarà un circolo nel quale insegnerà il tennis di una volta: stanco del troppo agonismo e della poca armonia che si vedono oggi?
«Stanco di una certa esasperazione. Non approvo l' insegnamento ai bambini concepito in modo estremo, parlo di impugnature e impostazione tecnica. Un conto sono i professionisti, un altro i ragazzini. La mia idea è promuovere il tennis classico, non vecchio di mezzo secolo. Più Federer e meno Nadal. Oggi il gioco è improntato sulle grandi rotazioni, solo se uno è forte fisicamente e mentalmente può andare avanti. Ma chi ha imparato e praticato il tennis così esasperato, molto spesso con l' avanzare dell' età, smette».
Mentre il tennis più classico è compatibile anche con over 50 e 60?
«Ho tanti amici che giocavano con me a livello di club e, anche se non hanno fatto la mia carriera, ancora oggi si divertono e non fanno solo fatica. Questo è il concetto. Le scuole di tennis vengono concepite come fabbriche di campioni, ma ne nasce uno ogni morte di Papa. I genitori li iscrivono perché pratichino uno sport e si divertano. Poi, certo, se si vedono doti di un certo tipo, allora si può e si deve intervenire in modo più specifico».
È vero che vieterà il rovescio a due mani?
«Nessun divieto. Certo, io preferisco quello a una mano. E, se devo dirla tutta, mi pare che nel circuito i rovesci migliori siano quelli di Stan Wavrinka, Richard Gasquet, Grigor Dimitrov e ovviamente Federer. Ma se ci sarà qualche ragazzino che non riesce a portarlo, gli insegneremo tranquillamente il rovescio a due mani».
Allevare dei campioni non sarà il suo obiettivo?
«Non principalmente. Vorrei che questo circolo diventasse una casa dello sport per le famiglie, per i quarantenni e cinquantenni, per le donne. Ci saranno i campi da tennis, ma anche di paddle, una grande piscina, il centro benessere, la palestra, un ristorante vero, una club house molto accogliente dove ritrovarsi con gli amici, per incontri di lavoro o semplicemente per trascorrerci una giornata».
Il circolo tradizionale è adatto ai ritmi della società contemporanea? Nelle grandi città si prenota il campo con le app, si va, si gioca, ci si fa la doccia e saluti.
«A lei piace? A me no. Io penso a un posto dove ci si possa rilassare e interrompere quella velocità. Mentre i figli frequentano i corsi, le mamme potranno fare pilates, andare al centro estetico, bere un caffè e leggere il giornale».
Avrete anche attenzione all' aspetto educativo dello sport?
«Quello spetta innanzitutto ai genitori e alla scuola. Nel nostro piccolo faremo capire ai genitori e ai nonni che i ragazzini di 10 o 12 anni che cominciano a giocare benino non devono subito pensare alla prestazione e a diventare campioni. Intanto è importante praticare un' attività fisica e divertirsi, prima di crearsi false illusioni e inseguire la chimera del professionismo. Perché il 99% non diventano campioni, ma ingegneri, imprenditori, professori; e non c' è niente di male, anzi».
Una cittadina come Treviso è il posto giusto per un circolo tradizionale?
«Spero di sì».
Non le sta stretta?
«Per niente».
Roma non le manca per merito dell' amministrazione Raggi?
«Non mi manca perché ci vado quasi tutte le settimane. Certo, mi spiace vederla sporca, con le buche, in preda alla confusione del traffico. Con l' età non si ha più voglia, si è meno tolleranti Per Roma nutro un amore sconfinato, è talmente bella che ti fa dimenticare il peggio, ma non sempre. Stamattina sono uscito per andare in un ufficio pubblico, ho trovato persone gentili e in mezz' ora ero di ritorno. Avessi dovuto andare all' Eur sarebbe servita mezza giornata».
Il tennis è lo sport individuale più complesso, drammatico e totalizzante che esista?
«È l'unico sport nel quale sei totalmente solo perché non c' è l' allenatore in campo. Te la devi sbrigare, devi trovare le soluzioni, venir fuori da situazioni complesse. Sai quando cominci, ma non quando finisci, fino all' ultima palla può succedere di tutto, anche se stai sotto 6-0 5-0. Ci sono la tensione, la tenuta nervosa. Ho visto tanti ragazzini giocare benissimo, ma non riuscire a sfondare perché non abbastanza solidi mentalmente».
Oggi per eccellere servono più doti temperamentali che ai suoi tempi?
«Sul piano del talento non credo che le cose siano cambiate molto. I giocatori sono alti due metri e tirano il servizio a 240 all' ora anche con l' aiuto dei nuovi attrezzi. Noi avevamo le racchette di legno, adesso con quelle nuove fanno a cazzotti. Se guardo Federer mi diverto, con altri meno, lo scambio dura finché uno dei due sbaglia. Essendo la palla più veloce, si ha meno tempo per pensare e si va d' istinto».
L' Italia ha due giocatori a ridosso della top ten come Fabio Fognini e Matteo Berrettini.
«A Fognini mancano un po' di servizio e di tenuta mentale. Se sei in difficoltà, ma hai un servizio potente puoi venirne fuori. Su come gioca bene a tennis nessuno può dirgli niente, ha una mano eccelsa».
Berrettini?
«Ha cominciato da un anno a essere un giocatore forte, diamogli un po' di tempo. Ma ha tante doti, solidità mentale, sta bene in campo, è un giocatore moderno di due metri e con un gran dritto, è un ragazzo educato. Infine, Vincenzo Santopadre, il suo allenatore, sa come si fa».
Se Fognini avesse maggiore solidità mentale sarebbe ai primissimi posti mondiali?
«Chi gioca di talento esprime un tennis difficile per cui la tenuta mentale è più importante rispetto a un giocatore potente. Fognini deve inventare tennis a ogni colpo. È un po' quello che accadeva a me con Borg, per dare il massimo devi stare bene con la testa. Chi gioca sul ritmo e sulla regolarità ha un copione magari eccelso, ma più limitato. Non deve fare un ricamo ogni volta. Se mi passa il paragone, è la stessa differenza che c' è tra un programmatore informatico e un art director».
Le passo il paragone ma le faccio una provocazione.
«Facci pure, come diceva il grande Paolo Villaggio».
Questo circolo con il tennis classico è una cosa nostalgica e un po' vintage?
«No, assolutamente. È una scelta da imprenditore in un campo che credo di conoscere bene perché ci sono nato. E, dal punto di vista affettivo, mi consente di stabilirmi a Treviso e di stare un po' di più con la mia compagna».
Perché ha scartato l' idea di una scuola competitiva che allevi ragazzi vincenti?
«Perché non m' interessa».
Perché per lei la vittoria non è mai stata tutto?
«Questo è vero, non era tutto. Ma il vero motivo è che voglio creare un posto dove stiano bene anche gli adulti, senza troppi stress. E dove chi gioca a tennis abbia voglia di migliorarsi, ma senza paranoie. Gli adulti vorrebbero migliorare, ma poi col maestro si accontentano di palleggiare. Per esempio, nel golf non è così. Vorrei che anche chi ha cinquant' anni avesse ancora lo stimolo a imparare per battere il collega di lavoro. Mi piacerebbe che le persone arrivassero al circolo con il sorriso perché sanno di entrare in un posto accogliente e ne uscissero con un sorriso ancora più grande. Questa è la mia unica missione. Se poi ci sarà un ragazzino particolarmente dotato, credo che me ne accorgerò e a quel punto vedremo cosa fare».
La vittoria non era tutto perché privilegiava i gesti bianchi o perché anche la conquista di uno slam non la appagava pienamente?
«Quand' ero in campo la vittoria era tutto. Infatti, dicevano che non sorridevo mai, ero "il Cristo dei Parioli". Nessuno mi ha mai accusato di non lottare. Ma poi, ma quando avevo vinto, mi dicevo: beh, che avrò fatto mai?».
Ha avuto successo mondiale, popolarità, belle donne, è stato anche campione di motonautica: che cosa le manca per sconfiggere la noia?
«Sconfiggerla del tutto è impossibile. È la cosa che mi fa più paura. Questa nuova avventura è uno stimolo, c' è da pensare all' azienda. Va bene così».
MEMORIE DI ADRIANO. Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 5 agosto 2019. Nel 1976, mentre il nostro paese si trovava schiacciato tra terrorismo, brigate rosse e compromesso storico, c' era un giovane talento sportivo che stava per esplodere. Adriano Panatta era già tra i primi dieci giocatori al mondo e molto aveva vinto, mai però come in quell' anno in cui divenne icona dello sport oltre che della nostra società.
Panatta come è iniziato il 1976 sportivamente parlando?
«Non avevo iniziato in modo particolarmente brillante, i primi tornei li persi subito e in malo modo perché non mi sentivo in grande forma fisica».
Mentre dal punto di vista personale?
«Andava molto bene. Mi ero sposato l' anno prima con Rosaria (la mia ex moglie oggi) e avevo appena avuto Niccolò il mio primogenito».
Poi qualcosa cambio?
«Fu agli internazionali di Italia al Foro Italico sulla mia amata terra rossa. Il primo turno dovevo giocarlo con un australiano Kim Warwick un ottimo giocatore di doppio. Si giocava al meglio dei due set ed io tenevo molto agli Internazionali. Fu una partita incredibile perché all' inizio non mi sentivo in forma e persi il primo set e nel secondo dovetti rimontare ben 11 match ball. Ma riuscii a farlo e alla fine vinsi il torneo battendo in finale Guillermo Vilas, che nel 1974 e 1975 era il numero uno mondiale».
La vittoria agli Internazionali d' Italia le ridiede slancio in un anno fino a prima non entusiasmante, come festeggiò la vittoria?
«In nessun modo, partii immediatamente per Parigi perché dovevo giocare al Rolland Garros il torneo del grande slam. Ma anche a Parigi l' inizio fu disastroso e dovetti rimontare, con un tuffo sottorete, un match point contro un giocatore cecoslovacco».
Dopo però ci fu una ennesima cavalcata vittoriosa?
«Fu entusiasmante, battei in sequenza Bjorn Borg nei quarti di finale e poi Eddie Dibbs e Harold Solomon rispettivamente in semifinale e finale».
Ci fu un episodio in quella vittoria al Roland Garros che ricorda in modo particolare?
«Rischiai di non giocare la finale perché mi mancavano le scarpe da tennis».
In che senso?
«Lasciavo le scarpe da tennis nello spogliatoio perché si asciugassero e Bertolucci (per errore) le prese portandole via. Così mi accorsi che non potevo scendere in campo. Chiamai a Roma un mio amico che ne portò un paio a Fiumicino e le diede al comandante del primo volo su Parigi. Insomma, quelle scarpe mi arrivarono in campo a pochi minuti dalla finale con Solomon».
Sarà stato nervoso?
«Preoccupato sì. E dissi infatti una frase al mio avversario americano "come pensi di vincere così basso e brutto". Solomon non mi parlò per cinque anni».
E anche questo torneo fu messo nel suo palmares, passiamo al 1976 non era un anno socialmente tranquillo, come lo viveva lei da sportivo?
«Erano anni molto bui, io ero sempre in giro per il mondo ma appena tornavo in Italia percepivo e vivevo una tensione sociale che, forse, il nostro paese non aveva mai vissuto».
Mentre in Italia esisteva una tensione altissima la squadra di tennis (i famosi quattro moschettieri guidati da Nicola Pietrangeli) stava giocando la Coppa Davis arrivando fino alla finale da giocare con il Cile di Pinochet. Una partita molto discussa?
«La vera finale, sportivamente parlando, fu quella contro l' Australia giocata a Roma sulla terra rossa. Il Cile arrivò alla finale dopo aver vinto la semifinale per forfait contro l' ex URSS. Dovevamo andare in Cile a giocare e subito partì la polemica politica».
Cosa accadde?
«La sinistra italiana iniziò una campagna contro la nostra trasferta in Cile. Era quella la patria del dittatore Pinochet che aveva con un colpo di stato militare preso il potere della nazione sudamericana l' 11 settembre nel 1973. Inoltre l' Estadio National che era accanto al luogo dove noi dovevamo giocare la finale, era stato usato come vero e proprio campo di concentramento dove furono messi gli oppositori del regime».
Soltanto la politica entrò in polemica con la vostra trasferta in Cile?
«No, ci fu un movimento d' opinione guidato dagli intellettuali dell' epoca come Dario Fo, Franca Rame e Domenico Modugno che criticava ferocemente la possibilità di giocare quella sfida».
La politica cosa diceva?
«Nulla. Rimandava la scelta al CONI e il CONI alla Federazione tennis, ma nessuno decideva».
Voi giocatori?
«Noi volevamo andare anche perché sarebbe stata una sconfitta per tutto il mondo democratico fare vincere la Coppa Davis ad un paese guidato da un regime sanguinario».
Cosa sbloccò il tutto?
«Una lettera del PCI clandestino cileno che scrisse in merito alla opportunità di giocare quella finale. Così la federazione con l' assenso del CONI ci permise di andare a giocare».
Arrivati in Cile che clima c' era?
«Vedevamo poco perché eravamo scortati dell' albergo al campo da gioco ma una cosa ci stupì».
Cosa?
«Pensavamo ai fischi del pubblico cileno ed invece questo fu sempre educato e gentile. Mai uno sgarro».
In Italia invece l' avevano anche insultata con un coro?
«"Panatta milionario, Pinochet sanguinario" era questo, brutto e falso. Milionario cosa! Siccome giocavo al tennis Parioli a Roma mi diedero del miliardario quando in realtà iniziai a giocare a tennis in quel circolo perché mio papà ne era il custode. Inoltre la mia famiglia è sempre stata di sinistra, una sinistra progressista».
Era comunista?
«Comunista no, mai, così come mai fascista. Sono sempre stato anticomunista e antifascista. Mentre però il fascismo non l' avevo vissuto, il comunismo l' ho toccato con mano girando l' Europa in nazioni come Polonia, Cecoslovacchia».
Anticomunista, antifascista e quindi?
«Mio nonno era amico di Nenni diciamo che sono un socialista liberale».
In quella finale ci fu un episodio importante, quello delle magliette rosse. Come venne l' idea?
«Venne a me e Paolo (Bertolucci) che durante la sfida decisiva del doppio volevamo dare un segnale di vicinanza. Non lo dicemmo a nessuno e nessuno se ne accorse. Anni dopo venne fatto un film. Mi ricordo che eravamo anche preoccupati perché il nostro non era un gesto provocatorio ma un segno di vicinanza al popolo cileno. Il silenzio del mondo della informazione ci fece abbastanza impressione, così come il nostro ritorno in Italia».
Cosa accadde?
«Nessuno venne a salutarci come se nulla fosse accaduto. Questo è stato grazie al veleno che c' era stato nella scelta di giocare la finale. Ma tutto ciò fa parte della vita; riconoscere che la polemica non aveva senso non era semplice, ma per fortuna lo sport vince sempre sulle parole».
· Nicola Pietrangeli ed il funerale al Foro Italico.
Nicola Pietrangeli: «Il mio funerale sarà al Foro Italico. Venite numerosi, vi aspetto». Pubblicato sabato, 27 luglio 2019 da Margherita De Bac su Corriere.it. «Ogni sera gli rivolgo un saluto. Era un gatto fantastico, generoso compagno di vita per vent’anni. Non mi ha mai mollato finché ho dovuto sopprimerlo. Uno strazio terribile. Farlo cremare per tenerlo accanto a me è costato 700 euro. Avrei speso la metà se avessi aspettato che arrivassero altri gatti da unire a lui nel forno. Ma io volevo che le ceneri fossero sue e basta». Nicola Pietrangeli solleva delicatamente il coperchio della coppa più bella. Quella d’argento vinta a Montecarlo, regalata a lui per sempre dal principe Ranieri. Ne estrae i resti di Pupino, racchiusi in un sacchettino rosso. Abita all’ultimo piano di una palazzina in un comprensorio nel quartiere Balduina, arredato del suo passato tutto sport e viaggi. Al posto di Pupino c’è Pupina 2 che avanza sinuosa tra tappeti e bassi tavoloni ingombri di coppe e targhe.
Se la sua vita fosse un film come lo intitolerebbe?
«Nicola contro Pietrangeli e costerebbe un botto produrlo, c’è troppo da raccontare. Dentro di me c’era abbastanza atleta e abbastanza buon mascalzone. Un continuo contrasto. Dicono che se mi fossi allenato poco di più avrei vinto molto. Ma non mi sarei divertito».
Che bambino è stato Nicola?
«Sereno. Parlavo russo, la lingua di mamma, e francese. Mai sofferto la fame, mai mancato nulla anche a livello affettivo pur non andando d’accordo con papà Guido, colpevole di avermi messo la racchetta in mano. Quando siamo venuti a Roma da Tunisi non spiccicavo una parola di italiano. Andammo ad abitare in via delle Carrozze e subito diventai popolare per il pallone. Gli amici mi chiamavano Er Francia. Cenavo alle 8 e poi scendevo per la partita serale a piazza di Spagna. Giocavo a tennis sui campi del circolo Venturini e al Tennis Club Parioli, ma questa è storia nota, riportata in tutte le biografie».
E il Pietrangeli playboy? Leggenda?
«Ho avuto quattro storie che contano. Susanna, che poi ho sposato, non era bella. Di più. Sua madre non voleva che mi frequentasse perché sperava per la figlia in un uomo ricco. Io non lo ero, non lo sono mai stato. All’epoca giravo in tram e bus. Gli uomini morivano per lei, uno le regalò un brillante grosso come una casa che lei gli restituì. Voleva me. Mi sposai a 27 anni per amore e sottile ripicca nei confronti della madre arrampicatrice. Abbiamo avuto tre figli Marco, Giorgio e Filippo. Fedele io? No, ma per nulla al mondo avrei messo a rischio la famiglia».
E dopo Susanna?
«La storia del playboy è un po’ romanzata. Sì, è vero, amavo accompagnarmi a belle donne, però non lo facevo per interesse anche se ho avuto diverse occasioni per attaccare il sombrero con compagne ricchissime. A me i soldi non interessavano. Dopo Susanna, è arrivata Lorenza, indossatrice milanese. Non volevo sposarmi e mi lasciò. Sempre lasciato, io. Poi ecco Licia Colò. Cinque anni di splendida convivenza. Aveva 30 anni meno di me. Quando mi ha lasciato mi ha giurato che non lo faceva per un altro. Forse si è spaventata della mia età ed è comprensibile. Dicono che quando vuoi le belle devi mettere in conto che gli altri ne siano a caccia. Ho sofferto molto».
E ora Paola. Com’è l’amore dopo gli 80?
«C’è grande affetto. Devi essere paziente tu e lei. Oltre all’amore è necessaria tanta comprensione reciproca altrimenti non vai da nessuna parte. Non viviamo insieme, ma condividiamo parecchie cose, anche Pupina Due».
È vicino agli 86, ci pensa alla morte?
«Sì, ogni tanto. Spero di morire la notte e all’improvviso, mi spaventa la malattia. La mia è un’età per morire. Il mio funerale si terrà al campo centrale del Foro Italico, a me intitolato. Ho già chiesto il permesso al presidente del Coni, il mio amico Giovanni Malagò. C’è un ampio parcheggio e nessuno potrà accampare la scusa di non aver trovato posto per la macchina. In caso di pioggia si rimanda al giorno dopo e speriamo che all’Olimpico non giochi la Lazio altrimenti ci sarebbe confusione e magari qualcuno preferirebbe andare là. Io e il mio amico Remo Zenobi partecipiamo ai funerali solo se lo sentiamo, non per fare passerella come la metà della gente. Veniamo via 5 minuti prima per evitare le facce da circostanza. Al mio però venite tutti, vi voglio numerosi e restate fino alla fine».
Mai in politica, perché?
«Mai fregato niente, eppure giocavo a tennis con La Malfa e frequentavo Renato Altissimo. Ho fatto politica solo quando si trattò di spingere come capitano della squadra per andare a giocare la finale di Coppa Davis a Santiago del Cile nel 1976 dove c’era appena stata la repressione di Pinochet. Pensavo che l’Italia non avrebbe dovuto mancare. Vinsi io. Ci siamo imbarcati di nascosto, come delinquenti.Quando siamo tornati con la Coppa, a festeggiarci c’erano solo i poliziotti».
È lei il più grande tennista italiano della storia?
«Di gran lunga. Panatta, con più talento, è durato molto meno ai vertici. Ora il più forte è Fabio Fognini. Una volta mi incontra e mi fa, sfottendomi, ehi Nicola, ai tempi tuoi correvi quanto me? Io non correvo, gli rispondo. Facevo correre gli altri».
· Dino Meneghin.
«Le mie due vite sempre al massimo». Pubblicato domenica, 17 novembre 2019 su Corriere.it da Daniele Dallera e Flavio Vanetti. Si parte bene con Dino Meneghin, ci si sente comodi a parlare con lui, sa raccontare una vita da campione, da protagonista dello sport italiano, usando i toni giusti. E i modi, educati, disponibile con tutti. Ma lei Dino Meneghin si rende conto di essere considerato «un mito» del basket italiano, e non solo? «Massì, me lo dicono, spesso mi salutano facendomi sentire importante, è anche gratificante conoscere il giudizio della gente, il ricordo che ha di me, ma io non ho mai pensato, nemmeno quando giocavo, a tutta questa considerazione. Per un semplice motivo: ho fatto per tanti anni la cosa, giocare a basket, che più mi piaceva al mondo. Senza pensare di essere un esempio per gli altri». Senza questo peso ha vinto tutto, difatti martedì sera prima del match col Maccabi, l’Olimpia Milano griffata Armani ritirerà la sua maglia numero 11, una sensibilità, un riconoscimento, un premio, l’ennesima medaglia per Superdino: quella maglia non potrà essere indossata da nessun altro giocatore. È consegnata alla storia: verranno in tanti, i suoi compagni, compresi quelli di Varese, l’altra sua grande squadra insieme alla Nazionale e Trieste, i suoi allenatori, i suoi dirigenti, i suoi amici, a celebrarlo e a commuoversi con e per Dino.
Che sensazione le dà?
«È come mettere un punto alla mia carriera. Sì, lo considero il massimo riconoscimento, da parte di Milano, per la mia vita di giocatore. Poi ci scherzo su e potrei buttare lì... sì, ma adesso caro Dino togliti dalle scatole. No, no è un onore, il regalo, il gesto dell’Olimpia Milano lo metto alla pari del mio ingresso nell’Hall of fame americana».
Il suo bilancio?
«Estremamente positivo, non può essere diverso».
Cosa non rifarebbe?
«Ho un cruccio: quello di non essere stato più vicino a mio figlio Andrea. Il rapporto con lui poteva e doveva essere diverso. Ho pensato troppo a quello che facevo, all’allenamento, alla squadra, alla mia carriera. Con maggiore sacrificio avrei dovuto comportarmi in modo diverso».
Vogliamo parlare di un altro traguardo, dei suoi 70 anni?
«Anche no...», e giù una risata condita da una parolaccia.
Li compirà il 18 gennaio 2020.
«Vabbe’, se insistete...».
Le pesano?
«Non ho mai pensato al passare degli anni. Importante è stare bene e finora la salute fa giudizio. Sto attento, mi regolo nel mangiare, mia moglie Caterina, un medico, mi dosa i cioccolatini. Le cose vanno per il verso giusto, anche se il mio amico Marino Zanatta mi prende in giro, mi dice “attento Dino hai una certa età, se prendi la bici, metti su le rotelle”».
Con sua moglie, una vita insieme, dal 1984: Caterina chirurgo plastico, estetico, ospedale, studio; lei prima campione poi team manager all’Olimpia e in Nazionale, commissario e presidente federale, ora dirigente alla Federazione internazionale. Trentacinque anni di coppia, i problemi li lasciavate fuori casa?
«Tendenzialmente sì. Ho al mio fianco una donna intelligente, capace di sdrammatizzare e anch’io cerco di non farmi dominare dalle tensioni. Quando giocavo, lei sempre presente, costantemente vicina, ma mai invadente, mai una parola fuori posto, una critica all’allenatore, al compagno. Lei ed io rispettosi dei reciproci spazi».
Che vita fate?
«Si lavora, quanto al resto niente mondanità. Andiamo a teatro, prendiamo un palchetto, così non tolgo la visuale a nessuno... Ci godiamo le vacanze nella nostra casa nel Monferrato. Amici. Una vita piena, ma normale».
Anni fa lei ha rifiutato di correre per la presidenza della Federazione internazionale, preferendo un ruolo più defilato: ma perché?
«È una vita d’inferno, sempre in giro per il mondo. Io ho giocato tanto, dopo ho fatto il dirigente, sono stato ovunque, so cosa significa volare, prendere un aereo ogni tre giorni. È un ritmo che puoi tenere quando hai 40 anni, non a 60, appunto quando c’era quella possibilità».
Dino Meneghin, il campione, ha giocato ad altissimo livello fino a 44 anni. Un record: come ha fatto?
«Sono stato un precursore, ai miei tempi a 30 anni eri considerato già vecchio. Ecco Milano, grazie a Dan Peterson, mi ha allungato la carriera, regalandomi una seconda vita dopo quella di Varese».
Lei resta ancora adesso popolarissimo: non è grave per i suoi attuali colleghi?
«Credo di essere stato agevolato proprio dalla mia lunga carriera. Ho fatto parte di squadre, Varese, Milano e Nazionale che hanno vinto tantissimo, con compagni fortissimi. Era un po’ il boom del basket. Senza dimenticare che quando ho lasciato ho lavorato per Milano e la Nazionale».
Gallinari, Belinelli, Melli, Datome, Hackett, un gruppo di campioni che rischia di non vincere nulla con la Nazionale?
«Mi spiace, moltissimo, so quanto lavorino, quanto si impegnino e quindi come soffrano».
Lo segue il basket di adesso?
«Sì, ma non mi diverto più tanto. Non voglio esprimere un giudizio tecnico, ma la Nba, giocata sempre a un livello altissimo, dopo un po’ mi annoia. Pick and roll e tiro da 3, pick and roll e tiro da 3... io sono più per un gioco corale».
Pensa mai a quanto guadagnano i suoi colleghi di adesso? Hanno contratti milionari.
«Lo dicevo spesso a mio padre: “pa’ se tu mi avessi fatto una quindicina d’anni dopo, ci saremmo sistemati per sempre. Allargava le braccia pover’uomo».
Anche suo figlio Andrea Meneghin ha giocato da campione. Ma è vero che ci saranno altri Meneghin sotto canestro?
«Chissà, le due figlie di Andrea hanno cominciato a giocare... Poi, c’è mio pronipote, Mattia, il bambino di Bruno, figlio di mio fratello Renzo: è nel minibasket a Malnate. Facciamoli divertire...».
Proprio come il nonno e lo zio che a quasi 70 anni prende la vita sempre col sorriso.
· Messner, il Re degli Ottomila a quota 75.
Reinhold Messner e i 75 anni: «Non mi piace ricevere regali. Ora mi invento una nuova vita». Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. L’esploratore: «Se ho dei rimpianti? È troppo tardi per guardare indietro, io vivo adesso e guardo avanti». I record: «Non si misura quello che si fa». Fosse per lui non avrebbe festeggiato. «Organizzo le feste di compleanno solo per le cifre tonde, ogni dieci anni». Ma naturalmente non si è sottratto a quella preparata in suo onore a Castel Firmiano, nella sede centrale del Messner Mountain Museum, il «suo» circuito di sei musei dedicati alla montagna tra il Sudtirolo e il Bellunese. Il «re degli Ottomila» (che però non ama riferimenti ai record), l’alpinista che per primo nel mondo ha scalato tutte le quattordici cime oltre gli ottomila metri, si è arreso alle celebrazioni combinate dall’amico e collaboratore di sempre Loris Lombardini per i suoi 75 anni, senza rinunciare al carattere asciutto.
Reinhold Messner, qual è il regalo più bello ricevuto?
«A me piace il mondo dove non si fanno regali, non sono consumatore, ma ideatore».
Ci sarà pure qualcosa che le ha fatto piacere?
«Prima di venire a Castel Firmiano ero a Salisburgo e quando sono partito da lì mi hanno dato una piccola torta bellissima con una candela».
Cosa la rende felice?
«Sono felice se riesco a esprimermi con le mie azioni e a trasformare un sogno in realtà. Questo mi dà gioia».
Suo figlio Simon pratica alpinismo esplorativo. La rende orgoglioso?
«Lui arrampica da anni molto bene e mi fa molto piacere, ma ha deciso lui così e io sarei stato felice con qualsiasi altra attività. L’importante è che trovi la sua strada: vale per tutti i giovani».
Avrà ricevuto tantissimi auguri. Il più bello o quello inaspettato?
«Tutti gli auguri vanno bene. Questa festa non l’ho decisa io, la prossima la organizzerò per gli 80 anni. In questo caso sono ospite, invitato da signori che hanno fatto parte della mia vita».
La scalata dell’Everest, le traversate dell’Antartide e della Groenlandia, l’esperienza al Parlamento europeo, il Deserto del Gobi, la ricerca dello yeti, i musei della montagna. Quale attività le ha dato più gioia?
«Non sono stato solo un alpinista o un avventuriero, e il lavoro museale è stato possibile perché ho fatto altre attività prima di quella. Non si misura quello che si fa, l’alpinismo non è un fatto sportivo, ma culturale: è la tensione tra avventura umana e culturale, si esprime attraverso il racconto e non con il cronometro e il metro».
Nessuna esperienza occupa un posto speciale nei suoi ricordi?
«No, non domina nessuna. Ogni dieci anni ho deciso di cambiare vita e mi sono reinventato facendo attività totalmente diverse».
Ha dei rimpianti?
«È troppo tardi per guardare indietro, non provo niente: io vivo adesso e guardo avanti».
Sta già pensando alla nuova vita?
«Sì, ma finché non lo faccio non dico niente».
Messner, il Re degli Ottomila a quota 75: «Ogni dieci anni mi reinvento». Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 su Corriere.it da Silvia M. C. Senette. Martedì il compleanno di Reinhold Messner con i «fan». «Non cerco rischi inutili, ma se sono preparato vado a realizzare i miei sogni». Martedì, 17 settembre, Reinhold Messner compirà 75 anni. Un evento che sarà celebrato con una «chiacchierata» davanti al falò a Castel Firmiano per raccontare l’uomo e la leggenda. Che effetto le fa? «Mi piace, sarà una bella festa. E questa volta non la organizzo: l’ho fatto per i miei 50, 60 e 70 anni ma quest’anno sono stato invitato da aziende italiane, sponsor delle mie grandi spedizioni. Mi celebrano per essere sopravvissuto e io ringrazio di cuore».
Oggi come si vede?
«Sono rimasto quello che ero. Mi sono liberato da tutte le oppressioni che ci sono in questo Paese e nelle vallate dove sono nato, in val di Funes. La mia voglia di essere libero mi ha permesso di andare dove ho voluto».
Lei ha fatto davvero di tutto...
«Ho già vissuto sette vite: ogni dieci anni mi reinvento. Ho fatto l’arrampicatore, l’alpinista di alta quota, l’avventuriero nelle grandi distese di ghiaccio, lo studioso delle montagne sacre in tutto il mondo, il politico per cinque anni a Bruxelles, ho creato il museo dell’alpinismo con più successo al mondo e adesso faccio film».
Cosa le è venuto meglio?
«Se penso a quello che ho fatto più di 50 anni fa sulle Dolomiti, a vent’anni, è tutto talmente emozionante... ma anche il museo mi ha dato grandi soddisfazioni, nonostante parecchi in Sudtirolo abbiano tentato di bloccarmi con ogni mezzo».
Ha avuto molti oppositori?
«L’aspetto costante della mia vita è l’attrito che ho trovato. Sono stato ostacolato in tutto quello che ho fatto. Anche nel giro attorno al Sudtirolo tra storia e politica: 42 giorni con trecento cime superate guardando dentro e fuori dal confine».
Vuole invece ringraziare qualcuno?
«Gli ostacoli mi hanno permesso di strutturarmi e lottare. È questo che mi ha fatto diventare Reinhold Messner e dico grazie a tutti quelli che hanno tentato di farmi fuori, non solo metaforicamente».
Un suo pregio?
«Molti hanno forse doti fisiche migliori o bellissime idee, ma sono sempre frenati e non partono. Io non rischio, ma se sono perfettamente preparato vado a realizzare i miei sogni».
La descrivono come un perfezionista.
«È vero, faccio tutto al massimo o evito. Ma questo mi ha salvato la vita».
Cosa non rifarebbe?
«Nulla. Ho deciso di fare tutto quello che ho fatto e quando non mi sono più sentito a mio agio ho cambiato. Il politico, per esempio: potevo farlo per altri cinque anni ed economicamente sarebbe stato saggio, ma non volevo».
Non è stata una bella esperienza?
«Ringrazio di aver avuto la possibilità e il coraggio di fare politica. Ho imparato tantissimo e ho girato il mondo, ma oggi ho molta più credibilità e consenso rispetto a quando ero a Bruxelles e a Strasburgo ».
Ha avuto un mito?
«No, ma ci sono avventurieri e alpinisti che hanno tut aspettata la mia stima. Ho scritto un libro su Willo Wenzenbach, l’alpinista più bravo del mondo tra il 1925 e il 1934 morto sul Nanga Parbat».
E al di fuori dell’alpinismo?
«Alexander Langer, un amico ma anche un politico di cui avevo grande stima. Fin da giovanissimi sapevamo confrontarci in modo democratico, profondo e lungimirante. E Silvius Magnago, padre della nostra autonomia: non mi amava e ha fatto di tutto per eliminarmi, ma lo stimo tantissimo. Ho grande stima considerazione per Luis Durnwalder, che ha usato questa autonomia per portare benessere in Sudtirolo».
I politici di oggi?
«Arno Kompatscher mi piace come presidente. Guardo con attenzione quello che succede nella nostra terra».
E cosa vede?
«Un gruppo forte che tenta di dirigere la politica, spingere la leadership di altre persone, ma questa volta non riuscirà. Per quanto riguarda il territorio, abbiamo masi in ordine, il paesaggio è bello, ma il turismo forse non ha le infrastrutture per gestire le presenze in modo fluido».
L’Alto Adige dove sta andando?
«Io spero che farà parte dell’Europa e che, prima o poi, gli Stati nazionali non servano più. Con un’Europa delle Regioni noi non saremo più in panchina».
In che senso?
«Emozionalmente qualcuno non si sente perfettamente a casa in Italia. Noi sudtirolesi siamo europei, non siamo tedeschi, né austriaci ma neppure italiani, e questo gli italiani non vogliono capirlo. Siamo l’anello tra nord e sud. Io non sono “italiano”: sono sudtirolese ed europeo».
Il governo Conte-bis le piace?
«Quando Conte ha preso in mano la situazione ha conquistato la mia stima. Si è comportato da democratico e ha dimostrato coraggio e capacità: ho speranza che riesca a cambiare l’andamento del Paese, anche se questo governo avrà un futuro difficile».
E il suo futuro?
«Alla fine della vita tenterò di condividere quello che ho da dire con chi ha un legame intimo con me. Ho la responsabilità di lasciare l’eredità di quello che ho potuto vivere. I grandi alpinisti di un tempo potevano fare solo tre spedizioni nella loro vita; io ne ho potute fare cento ed è facile diventare bravo. Era solo importante sopravvivere, ed è l’unica arte nella quale mi impongo ».
Si è parlato della sua nuova vita sentimentale. Si aspettava l’amore a 75 anni?
«No. Sono stato fortunato anche in questo, non posso dire altro. È molto bello dividere la vita con una persona, perché le gioie divise sono gioie doppie e le paure divise sono paure a metà».
Ha definito la sua compagna «la mia tavola armonica».
Cosa intendeva?
«Se c’è una persona accanto a me che condivide quello che penso e scrivo, sento l’eco di quello che sto facendo e tutto diventa più vivo e più forte».
Come l’ha conquistata?
«Con la favola. Vivo in un castello, un semirudere che rischiava di crollare ma ora è uno dei più belli di tutte le alpi, all’inizio della val Senales, su un cucuzzolo di granito a mille metri. Mi godo il sole, il verde e le prime cime innevate che vedo dalle finestre».
Cosa fa nel tempo libero?
«Mi dedico all’agricoltura, sono autosufficiente, produco tutto quello che mi serve e faccio il vino per me e per i miei fratelli. Ho una mia forma di invecchiare un po’ diversa da tutte le altre».
Cesare Maestri ha dichiarato che «la vera impresa è essere vecchi». Lei si sente vecchio?
«Cesare ha ragione: diventare come lui a 90 anni è un’arte che merita grande rispetto. Per un alpinista e rocciatore è difficile già arrivare alla vecchiaia e lo è anche invecchiare. Fino ad ora questo peso non lo sento, ma toccherà anche a me».
Cosa si augura per questo compleanno?
«Che mi rimanga il coraggio di fare la mia vita con la massima libertà, perché libertà e responsabilità sono una grande ricchezza».
· Messner…e gli altri.
I 90 anni del “Ragno delle Dolomiti”: «Quelle scalate a -30°C con trapano da 120 kg». Pubblicato sabato, 21 settembre 2019 da Corriere.it. Cesare Maestri , il «Ragno delle Dolomiti», uno dei migliori arrampicatori del mondo, compirà 90 anni, il prossimo 2 ottobre. Un curriculum impressionante di salite estreme, colui per il quale «non esistono montagne impossibili, ma solo uomini incapaci di scalarle». In anticipo di almeno vent’anni su quello che diverrà il free climbing, l’arrampicata moderna. Con un conteggio approssimativo 3500 salite in Italia e nel mondo, un terzo delle quali in solitaria. Madonna di Campiglio, dove Cesare Maestri vive dal 1963, lo festeggerà. Gli anni ci sono tutti. La camminata è lenta e precaria. Ma il suo chiodo fisso rimane: «Non mollare mai!». Eppure Cesare Maestri era destinato a fare l’attore. I genitori erano attori girovaghi, con una loro compagnia. La mamma Mariarosa di Ferrara, il papà Toni di Trento. Anna, sorella di Cerare, poi diventata attrice affermata (lavorò anche con Strehler), era addirittura nata tra un tempo e l’altro di uno spettacolo. L’altro fratello Giancarlo divenne direttore del doppiaggio italiano, dando voce, tra gli altri a Sean Connery. Anche Cesare (che quattordicenne durante la guerra si unì a un gruppo di partigiani) avrebbe dovuto seguire la stessa strada, ma non era per lui. Dopo pochi mesi a Roma per seguire le orme dei fratelli, torna a Trento. La sua arte è l’arrampicata. È Gino Pisoni, forte alpinista dell’epoca, che gli fa conoscere la roccia. «Questo è il mio mondo», dice. E da lì non si è più fermato. Cesare diventa guida alpina, passando prima da Canazei, poi da Andalo e infine a Campiglio. «È stato un grande alpinista perché ha guardato in avanti, rispetto alle generazioni precedenti — spiega Silvestro Franchini, forte guida alpina, presidente della sezione Sat di Madonna di Campiglio — ha voluto cercare le pareti più aggettanti, il vuoto, pareti che all’epoca erano ritenute inaccessibili, ma lui ha voluto sognare. Oggi noi lo ringraziamo, perché ripercorrendo le sue linee ci divertiamo provando a scalarle in libera». Ma Franchini sottolinea un secondo aspetto per cui Cesare Maestri è particolare: «È stato il primo ad arrampicare in discesa: saliva una montagna dal versante più semplice e scendeva da quello più difficile, cosa che di solito nell’alpinismo non si fa». «Arrampicava bene — racconta il figlio Gian — ma non sapeva gestire la sua immagine. E del mestiere di guida non si viveva. È sempre stato uno scavezzacollo con tanto coraggio, ma se non ci fosse stata mia mamma Fernanda, di cui papà era stra-innamorato, sarebbe stata dura. Lei è riuscita a mettere la sua impronta sulla vita di papà. Fargli scrivere libri (una decina), mettere su prima un negozio di articoli sportivi, e poi di alimentari nella piazzetta di Campiglio». Le prime imprese di Maestri iniziano nel 1951, salendo in solitaria la via Detassis-Giordani al Croz dell’Altissimo, ed effettuando per la prima volta la discesa in solitaria dalla Paganella. Nel 1952 è in solitaria la via Solleder sul Civetta. Marino Stenico, altro alpinista di altissimo livello, che assiste all’impresa ne resta impressionato: «Cesare arrampica con tanta naturalezza che guardandolo sembra tutto facile. Supera passaggi e strapiombi con la stessa disinvoltura di un ragno che si arrampica su un vetro». E da allora Maestri è il «Ragno delle Dolomiti». Per Franchini tra le vie più belle aperte da Maestri ci sono quelle sulla Corna Rossa e lo Spigolo del cielo nelle Dolomiti di Brenta, la via Nord delle Punte di Campiglio, la parete ovest della Croda di Vael e il Diedro Maestri nella valle del Sarca. Ma la figura di Cesare Maestri resta legata al Cerro Torre, agli antipodi del mondo in Patagonia. Appena 3128 metri di altitudine, ma considerata tra le più spettacolari, difficili e inaccessibili del pianeta. Nessuno vorrebbe parlarne in questa occasione, perché rischia di offuscare, con le interminabili polemiche che si porta dietro da sessant’anni, l’enormità di Maestri alpinista, anche senza il Cerro Torre. Su quella montagna bisogna superare una parete liscia di almeno 900 metri di granito, con sopra un «fungo di ghiaccio».
Nel 1959 Maestri raccontò di averla conquistata, ma le prove del successo erano rimaste sepolte nella macchina fotografica, assieme al compagno di cordata Toni Egger travolto da una valanga durante la discesa nella tormenta. Poi Maestri tornò al Cerro Torre, nel 1970, con altri cinque compagni. Portò con sé un pesantissimo trapano a compressore per fare i buchi dove infilare 350 chiodi a espansione nella metà superiore della parete. E non raggiunse deliberatamente la cima del fungo di ghiaccio perché, come affermò poi «non fa veramente parte della montagna». «Allora usare il compressore pesante 120 kg a 30 gradi sottozero, fu uno scandalo, dicevano che aveva offeso la montagna — racconta il figlio Gian — ma fu un precursore dell’arrampicata moderna. Oggi tutti arrampicano, non con un compressore pesante, ma portandosi dietro i moderni trapani elettrici da un chilo e mezzo, senza nessun problema. Nessuno fa più il buchino nella parete con il bulino e il martello. Oggi — mi ha detto tante volte mio padre — quei metodi non li userebbe più — ma ognuno è figlio della sua epoca. Allora era importante conquistare la vetta, oggi vogliono fare i record. Lui ha fatto vie incredibili in solitaria con le pedule! Aveva sensibilità uniche, nel modo di arrampicare».
Chi è Junko Tabei, la prima donna ad aver scalato l’Everest. Pubblicato domenica, 22 settembre 2019 da Corriere.it. Una donna di ferro dai tratti delicati: Junko Tabei, ricordata nel doodle di Google di oggi, è stata una delle più celebri alpiniste al mondo. Nata a Miharu, in Giappone, il 22 settembre 1939, è stata la prima donna a scalare l’Everest, un’impresa conclusa il 16 maggio 1975 che però era durata anni. Il percorso per la cima del monte era iniziato 5 anni prima, quando il giornale giapponese Yomiyuri Shimbun e la Nihon Television decisero di organizzare una spedizione di sole donne. Partirono in 15, salendo dal Colle Sud. Sorprese da una valanga, le donne continuarono il loro viaggio nonostante il rischio e Tabei assunse la guida della spedizione. Aveva 35 anni e a questo successo ne seguirono tanti altri. Affamata di montagna e desiderosa di seguire la sua passione, dopo l’Everest Junko conquista altri primati. Nel 1992 è la prima donna ad aver scalato le Seven Summits, le sette cime più alte al mondo, una per ciascun continente: il Kilimanjaro in Tanzania, il monte Denali in America Settentrionale, l’Elbrus nel Caucaso, l’Aconcagua nelle Ande Argentine, il Puncak Jaya, sull’isola della Nuova Guinea, il massiccio del Vinson in Antartide e ovviamente la più famosa di tutte, quell’Everest che rimarrà per sempre impresso nella sua vita. Una vita che si conclude il 20 ottobre 2016, a 77 anni. L’ultima vetta l’aveva scalata giusto un anno prima.
Barbara Gerosa per Corriere.it il 21 settembre 2019. Quando l’elisoccorso lo ha raggiunto, dopo che la sua presenza era stata segnalata al 118 da alcuni alpinisti, ha cercato di dileguarsi. Fermo da un paio di giorni sotto la cresta Cermenati, vicino alle catene che portano in vetta alla Grigna Meridionale, a 2.184 metri di quota. Di essere aiutato non ne voleva sapere, nonostante si trovasse sulla parete rocciosa da più di 48 ore e fosse completamente nudo. Ha dell’incredibile quanto accaduto giovedì sera su una delle più note montagne lecchesi. Un 34enne di Seregno è stato soccorso dopo aver vagato in tenuta adamitica tra i sentieri della Grignetta. Se si sia spogliato dopo essere arrivato quasi in cima o abbia raggiunto la vetta senza abiti non è dato sapere. «Ho pensato fosse uno scherzo — spiega Giuseppe Rocchi, capostazione di Lecco del Soccorso Alpino —. Poi la conferma dell’equipaggio dell’elicottero. Non voleva scendere, allora abbiamo mandato una squadra con un medico. Uno dei miei uomini ha portato anche una delle nostre tute per coprirlo. Nel frattempo gli alpinisti presenti in zona lo hanno fermato e convinto a iniziare la discesa: era disidratato e debilitato. Lo abbiamo raggiunto dopo un paio di ore di cammino e accompagnato fino al rifugio Porta ai Piani Resinelli, dove lo attendeva l’ambulanza». Il brianzolo ha però detto no a qualsiasi aiuto. «In ospedale non ci voleva andare, voleva restare lì, nudo, non mi è rimasto che chiamare i carabinieri», racconta Rocchi. I militari hanno identificato l’alpinista naturista e inoltrato la segnalazione, si sta valutando l’eventuale ipotesi di reato. L’uomo invece, dopo aver rifiutato le cure, ha trascorso la notte, vestito, al rifugio Porta. «Se ne è andato in mattinata. Stava bene. Non ha voluto spiegare le ragioni del suo comportamento», conferma il gestore. «Non lo si poteva portare via a forza e i medici non hanno ritenuto di sottoporlo a trattamento sanitario obbligatorio. Ci tengo a sottolineare che i miei uomini ancora una volta hanno rischiato la vita per l’imprudenza di chi va in montagna», allarga le braccia il capo della XIX delegazione lariana del Soccorso Alpino, Alberto Redaelli.
· La discesista Sofia Goggia.
Sofia Goggia: «Sono veloce e qualche volta crudele. E ammiro Napoleone». Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 su Corriere.iti da Flavio Vanetti. La discesista è pronta per la nuova stagione: «Colmerò il vuoto lasciato dalla Vonn . E mi preparo a smontare anche la Shiffrin».
Sofia Goggia, sta per ripartire la stagione dello sci e l’impressione è che lei insegua leggerezza e libertà.
«Sono molto tranquilla. Vengo da tre anni nei quali ho dimostrato di esserci, aspetto importante anche pensando alla nostra mentalità. Quando un italiano conosce uno sportivo? Quando vince medaglie: io ne ho centrate tre bellissime, oltre a una coppa di specialità. Ora arriva una stagione nella quale non c’è nulla di decisivo come una medaglia. Ma allo stesso tempo, tutto diventa importante: quindi sarà un’annata di crescita».
È l’inseguimento anche a una libertà interiore?
«Sono sempre alla ricerca di un progresso personale, culturale, nelle relazioni. Vorrei poi aggiungere un quid che la vita può dare indipendentemente dai successi».
E la donna Sofia?
«La donna ha fatto passi enormi, anche perché ho finalmente acquisito l’indipendenza: mi sono mossa nella nuova casa. Quando chiudo la porta e c’è il silenzio, mi guardo attorno e dico che quello è il mio luogo».
Ci pensa che comincia il dopo-Vonn?
«Quando manca una personalità del genere, cambia tutto. Già l’ho avvertito alle finali di Soldeu: lei non c’era. Lindsey lascia un gran vuoto, però starà a noi colmarlo».
Si riprende anche senza Marcel Hirscher, che si è ritirato ad appena 30 anni. Lo sci, pensando ai tempi all’addio prematuro di Alberto Tomba, fa venire la nausea?
«È possibile e la cosa spaventa pure me. Ci pensavo a Ushuaia: era l’undicesima volta che mi ritrovavo lì, ho passato quasi un anno della mia vita alla fine del mondo. Bello, ma fa un po’ paura».
Ritorna mai con la mente al parterre del Mondiale di Schladming 2013? C’era una Goggia giovanissima, ai piedi del podio del superG: raccontava della fotografia come suo hobby…
«Ogni tanto ritrovo quella Sofia e la rivisito. Rammento l’aspetto sportivo: con il 33, senza aver mai disputato una gara nella Coppa del Mondo, arrivai quarta. Quella Sofia viveva tutto con entusiasmo. Sono partita da lì e il giorno che ha messo in ombra la Vonn, caduta e purtroppo seriamente infortunata, è anche il momento in cui la luce ha cominciato a illuminare me».
C’è un pizzico di nostalgia?
«Si ha sempre nostalgia degli anni passati: paiono più semplici della situazione che si vive. Questo lo sostengo adesso, ma tra un po’ lo dirò di oggi». Perché ci teneva ad essere ambasciatrice di Cortina?
«Perché sono legatissima a quel luogo. È una simbiosi di valori: volevo che la mia immagine fosse lì, sulla pista del cuore. Durerà oltre il Mondiale 2021? Spero di guadagnarmi la conferma».
Forse c’è anche un buon cachet di mezzo.
«Ah no, i soldi sono l’ultima cosa. Sapete che cosa dice il mio babbo? Non identificarti mai con ciò che hai; invece, trova la tua identità in chi sei».
Un papà molto saggio.
«Papà ogni giorno riserva vere docce gelate».
Più della mamma?
«Sì, papà è l’uomo della sintesi; la mamma è la donna del ragionamento, quella che ti lavora ai fianchi».
Sofia ha preso più da lui o da lei?
«Io sono papà. A volte sono così cinica che faccio paura perfino a me stessa».
Difatti ha «segato» il manager.
«Non era il manager, ma l’addetto stampa».
Però Sofia è una tagliatrice di teste.
«Taglio le teste alle persone che non sanno correre alla mia velocità: non posso essere rallentata».
Lei sarebbe una reclutatrice crudele nel mondo del lavoro.
«Sì. A volte commetto l’errore di trattare gli altri come tratto me stessa. Sono esigente ed è un pregio, ma a volte è un limite. Di tanto in tanto bisognerebbe avere i guanti di velluto».
I guanti li può sempre comperare…
«Li ho già in dotazione, ma non li ho quasi mai usati». Nel giorno della scelta olimpica di Milano-Cortina, lei elogiò un preciso establishment politico. Poi è cambiato. Delusa dal seguito del film?
«Indipendentemente da chi governa, si deve continuare a fare squadra: l’Italia ha un’opportunità che va oltre le fazioni politiche. I grandi eventi creano lavoro, abbiamo un’occasione incredibile. Vietato deragliare: ora che siamo partiti, non ci si può tirare indietro».
Donna di coppa o di coppe?
«Di coppe. Anche di coppa, nel senso del trofeo assoluto? Mica tanto. La “coppona” ancora non sono riuscita a immaginarla, ma le coppette sì. E una già l’ho presa».
Curioso che abbia visto la Vonn come rivale e non Mikaela Shiffrin, che tra l’altro supererà i record di Lindsey. «Lei nasce slalomista, non l’ho mai identificata come avversaria. Però adesso si sta dedicando pure alla velocità: diciamo che anche lei sarebbe da smontare».
Quindi, lista nera.
«I due centesimi con cui al Mondiale mi ha negato l’oro del superG glieli restituirò con gli interessi».
Sintesi del piano di battaglia stagionale?
«All’insegna della teoria del tutto, slalom parallelo incluso».
Qualcosa da dichiarare extra sci?
«Leggo tanto e ascolto audiolibri, danno senso ai miei viaggi. Ora sto sentendo “Quando siete felici, fateci caso” di Kurt Vonnegut: è una raccolta di discorsi fatti a studenti a fine laurea. Però ho letto molto di Philip Roth e mi ha divertito la biografia di Napoleone».
Si sente «Napoleona»?
«No, ma quando il 4 dicembre 1805 prese la corona dalle mani del Papa e si diede il potere da solo, ecco uno con un ego del genere non poteva non essere il personaggio storico preferito».
Quindi la corona se la prenderebbe pure lei?
«Era solo per dire che sono affascinata dalle grandi figure del passato. Sono intrigata anche dagli imperatori di Roma e rileggo spesso il discorso che Critone fa al Socrate condannato a morte».
Storie memorabili, invece, da Ushuaia?
«Nulla di particolare: impegno, dedizione, buona salute, armonia ricercata con il gruppo. E poi qualche sorso di Malbec, anche se lì le coppe del vino rosso sono caraffe da Oktoberfest».
Fidanzati da dichiarare?
«Fidanzati sì, da dichiarare no: i fidanzati non si dichiarano mai». Ma allora esiste. «Ho detto fidanzati, non fidanzato: i fidanzati ci sono sempre».
· Manfred Moelgg, le 300 gare del veterano dello sci.
Manfred Moelgg, le 300 gare del veterano dello sci: «L’età nello sport non è più un freno». Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 da Corriere.it. Veterano Manfred Moelgg, 37 anni, alla 300ª gara (Ap, Epa) Valentino Rossi ha appena festeggiato i 400 Gp, lui nel gigante che apre la Coppa del Mondo maschile va al cancelletto di partenza per la trecentesima volta. Potenza dei veterani dello sport, inossidabili, ancora e più che mai desiderosi di misurarsi, forse perfino un po’ testardi: è un club nel quale Manfred Moelgg, classe 1982, è iscritto a pieno titolo. «La verità sapete qual è? L’età non è più un freno, se il fisico ti sostiene. Da un anno sento riferimenti alla mia carta d’identità. Ma io sto bene, sono sempre sul pezzo e tengo botta ai giovani». Manni (soprannome che è una griffe e un cavallo di battaglia) avrebbe potuto vincere sicuramente di più, se la schiena non l’avesse torturato a lungo e se qualche infortunio non avesse spezzettato la carriera. Ma è pur sempre l’uomo di una Coppa del mondo di slalom e di tre medaglie iridate, l’ultima delle quali - il bronzo del 2013 - è pure l’ultimo acuto di un nostro specialista delle porte larghe. «Tornare ad alto livello nel gigante - ammette - sarà difficile; e non è nemmeno agevole resistere nel primo gruppo. In compenso sul fronte dello slalom sono ottimista». Usa una frase curiosa («Le aspettative sono alte e te le alimenti perfino da solo») che è figlia della domanda di fondo: perché andare avanti e non seguire sua sorella, Manuela, che si è ritirata? «Lei non mi ha... contagiato (ridacchia). Proseguo perché prima di tutto trovo la motivazione nella voglia di fare allenamento. Mi diverto tantissimo nel lavoro di preparazione, ma amo ancora anche il clima della gara. Infine c’è il desiderio di dimostrare che sei sempre competitivo anche al cospetto di ragazzi che vanno fortissimo». La squadra di slalom ha ritrovato Jacques Theolier, il tecnico francese che nel precedente mandato portò Giuliano Razzoli all’oro olimpico (Vancouver 2010) e che, più in generale, diede vita a una squadra solida e regolare ad alto livello. «Essere diretti ancora da Jacques è un valore aggiunto: ha un metodo di lavoro basato sulla semplicità. Poche parole e molta scioltezza: riesce a creare nell’atleta la voglia di andare a segno, non è casuale che abbia vinto con più allievi. Per me sta già pensando al Mondiale 2021. Pure io, se è per quello... Penso anche ai Giochi 2022? Calma, un passo alla volta. Vediamo anche come vanno le nuove leve». I giovani, già. Manfred fa professione di fede, a cominciare da Alex Vinatzer, atteso all’esplosione tra i paletti stretti. Provocazione: però dovrebbe imparare a rimanere più spesso in pista... «Credeteci - Manni si infervora -: Vinatzer è forte, sta arrivando il suo tempo. E non è l’unico: vedo tanti talenti nello slalom». Magari sarebbe anche l’ora di sistemare il gigante, dove da troppo tempo rimediamo mazzate assurde: «Credo che l’anno scorso siano mancati una linea e un vero numero 1, cioè il capo del gruppo. Di conseguenza è venuta meno la serenità». Alla sua «veneranda» età, Manfred Moelgg non può ambire al ruolo di leader e di regolatore degli umori: sarebbe tra l’altro un segnale poco edificante sullo stato del nostro sci. Peraltro, può essere l’uomo dell’esperienza, un valore non da poco dentro una squadra. «Credo che i compagni mi vedano proprio in questa ottica: sono il fratello maggiore che può aiutare, ma che ci dà sempre dentro e che non guarda in faccia a nessuno. Io sono il Manni che ama scherzare ma con cui c’è poco da scherzare».
· Lorenzo Bernardi: Mister Secolo della pallavolo.
Francesco Persili per Dagospia il 22 ottobre 2019. A cosa hai pensato quando hai schiacciato quel pallone nella finale mondiale del ’90 contro il Brasile? “A niente, assolutamente a niente”. La mette giù così Lorenzo Bernardi ripensando alla sera di quel 28 ottobre quando l’Italvolley si issò per la prima volta sul tetto del mondo: “Quel pallone era uguale a tutti gli altri. Primo o ultimo punto, non c’era differenza. Era dall’inizio di tutto che mi allenavo per quello”. Di quella notte a Copacabana, l’ex schiacciatore della Panini Modena ricorda che è sempre il gioco di squadra a fare la differenza, le birre gelate e le caipiroske. A tranquillizzare la moglie ci pensa Jacopo Volpi, oggi conduttore della Domenica Sportiva e 29 anni fa voce narrante dell’Italvolley: “Quella notte Bernardi ha dormito con me”. All’Aniene si parla del suo libro, ‘La Regola del Nove’, curato da Serena Piazza (Roi Edizioni). Il racconto di ragazzi che fanno sport nei cortili e di una “generazione fenomenale”, medaglie vinte e perse, tendini bucati e pugnalate alla schiena e di una sfida bigger than life. "Essere bravi non basta, avere talento non è sufficiente, se non si ha il desiderio di migliorarsi". E’ così che ‘Lollo’ è diventato ‘Mister Secolo’, il miglior pallavolista del Novecento. “Una storia strepitosa”, certifica il presidente del Coni Giovanni Malagò, “un libro che racconta la personalità complessa, non convenzionale, di un campione umile, di un allenatore che ora siede come rappresentante dei tecnici in Consiglio Nazionale Coni ma soprattutto di un grande uomo”. Al suo fianco il presidente della Fipav, Pietro Bruno Cattaneo, rivendica l’orgoglio per “la Generazione dei Fenomeni che ha reso la pallavolo uno sport popolare”. Il convitato di pietra è Julio Velasco. È il coach argentino che ai tempi di Modena lo mette davanti alla sliding door decisiva della carriera. “O vai in prestito oppure se accetti di cambiare ruolo, da alzatore a schiacciatore, in due anni sei in Nazionale”. Sfida accettata, e vinta. “Un rapporto straordinario perché basato sulla sincerità”, anche quando ad Atlanta ‘96 Velasco lo punzecchia davanti ai giornalisti al termine di un esercizio: “Dicono che sei il giocatore più forte del mondo, il giocatore più forte del mondo questa palla la prende”. Si rivivono momenti di vita e di sport. Il coraggio di lasciare Trento a 14 anni, l’impatto con Padova e con quella professoressa di tedesco che sembra la signorina Rottermeier di Heidi, la voglia di rimettersi in gioco da tecnico in Polonia, la paura ad Ankara (“Ho vissuto con il terrore. Ci furono 4 attentati in un anno”), il triplete a Perugia con uno strascico giudiziario che potrebbe cambiare il regime che lega i tesserati ai club. “La regola che ho imparato subito è che il campo ti restituisce quello che dai”. Ma ogni regola ha le sue eccezioni. Impossibile evitare l’argomento: la maledizione olimpica. Giochi del ’92, Freddie Mercury e Montserrat Caballè intonano ‘Barcelona’, brividi e adrenalina a fiumi, ci sono i giganti del basket NBA Michael Jordan e Magic Johnson e un altro Dream Team, il nostro, l’Italvolley. Tutti, a partire dalla Federazione Internazionale, sono convinti che gli azzurri della pallavolo conquisteranno l’oro. L’Olanda di Blangè, Zwerver e Van Der Meulen manda in frantumi il sogno ai quarti. “L’incubo si rimaterializza quattro anni dopo, in finale, a Atlanta ’96. Si fa male Bovolenta, poi in semifinale contro la Jugoslavia, l’infortunio alla caviglia di Bernardi. “Giocai la finale con le infiltrazioni, le conseguenze le ho pagate dopo. Non ho da recriminare nulla. Quello che volevo fare l’ho fatto. Ne valeva la pena”. Impegno e fatica, nessuna resa finché non si vince. “E’ una balla che l’importante è partecipare. L’importante è vincere. Alle Olimpiadi, ai Mondiali, a calcetto con gli amici, si partecipa per vincere, altrimenti non ha senso”, Bernardi va dritto per dritto (“Non devi avere mai paura del tuo nemico ma di quello che ti offre il caffè”, Pasquale Gravina docet), e se ne impipa del politically correct. “Hanno detto che la nostra non era una squadra ma un gruppo di amici. La verità è che questo sentimento non c’era. Quante ce ne siamo dette con Zorzi… Per formare una grande squadra l’amicizia non è elemento indispensabile. Avevamo una grandissima rivalità che durava 11 mesi. Eravamo la Generazione fenomenale per il desiderio di abbattere i nostri limiti per raggiungere qualcosa di straordinario”. Gli fa eco anche Francesca Piccinini, la pallavolista più famosa d’Italia che ha vinto tutto tranne l’oro olimpico: “Neanche nella nazionale femminile che conquistò il mondiale nel 2002 regnava l’amicizia. Eravamo colleghe che cercavano di fare il loro meglio inseguendo un traguardo comune. Di amiche ce ne erano una o due. Non si può essere amica di tutte”. La Piccinini ha smesso vincendo. Nella sua seconda vita ci sarà sicuramente "un secondo libro". Anche se quel sogno olimpico…
· Chiude la palestra di Oliva. Salvava i bimbi dalla strada.
Chiude la palestra di Oliva. Salvava i bimbi dalla strada. Pubblicato venerdì, 31 maggio 2019 da Fulvio Bufi su Corriere.it. Lo sport napoletano ha alcuni posti che ne hanno fatto la storia. Il San Paolo lo conoscono tutti, e molti ricordano che ai tempi di Diego Armando Maradona in certe partite l’esultanza del pubblico faceva alterare i diagrammi dei sismografi. Oggi non più, ma almeno lo stadio è lì e la speranza del terzo scudetto si rinnova a ogni stagione. Altri luoghi simbolo, invece, hanno fatto una brutta fine: la Sala d’Armi del Collana, dove sono cresciute generazioni di schermidori olimpionici, non esiste più, e solo l’impegno personale del plurimedagliato Sandro Cuomo consente di mantenere vivo il nome di una scuola tra le più importanti non solo d’Italia. L’ippodromo di Agnano continua a riproporre ogni anno il Gran Premio Lotteria, ma ormai è un appuntamento per pochi intimi, e magari mancasse soltanto la mondanità d’un tempo: sono i grandi nomi dell’ippica che non ci sono più. La Capri-Napoli è una nuotata che non raduna più nessuno sul lungomare ad aspettare l’arrivo degli immancabili vincitori egiziani, e dello stadio Albricci che vide i trionfi rugbistici della Partenope di Elio Fusco, i più giovani non sanno nemmeno l’esistenza. Restava forse un solo posto dove ancora ci si poteva illudere che il tempo dello sport non fosse passato. Dove il rumore dei pugni sul sacco, gli impulsi sonori del timer segnatempo, il sibilo cadenzato della corda che ruota nell’aria, erano rimasti uguali da sempre. E soprattutto erano rimasti: c’erano ogni giorno. Da oggi non ci sono più. La Fulgor, la palestra dove maestri di boxe e di lealtà come Geppino Silvestri e Antonio D’Alessandro hanno insegnato a tirare a Patrizio Oliva e Ciro De Leva e Salvatore Bottiglieri è costretta a smantellare. La sede di via Goethe, a due passi da piazza Municipio, dove la società era approdata dopo aver lasciato gli antichi locali di via Roma, abbassa la saracinesca. Il titolare, Gennaro Carbonara, rimasto da solo a tenere in piedi l’attività dopo che gli altri soci hanno via via gettato la spugna, vuole a tutti i costi ricominciare altrove, trovare altri spazi dove rimontare sacchi e ring, e non buttare all’aria cinquant’anni di storia. Magari ci riuscirà, ma comunque la Fulgor non sarà più la palestra del centro di Napoli, quella dove i bambini dei Quartieri spagnoli potevano andare a fare sport senza dover pagare, e imparare che i pugni si tirano solo su un quadrato, e mai per strada. Ne sono passati tantissimi per quella palestra. E si sono innamorati del pugilato o degli altri sport da combattimento che qui sono arrivati quando ancora nessuno li conosceva, come la muay thai, portata dal maestro Decio Pasqua. Ci è tornato Patrizio Oliva ad allenare («È una tristezza infinita sapere che quella palestra non ci sarà più», dice ora), e ci sono passati anche attori di serie girate a Napoli, venuti con gli stunt coordinator per imparare movimenti da eseguire poi sul set. Ma niente è bastato per tenere in piedi una struttura dove il fitness, quello delle schede pettorali-glutei-addominali, rappresentava l’unica e obbligata fonte di guadagno per poter allenare gratuitamente gli agonisti della boxe e per pagare il mutuo concesso dal Credito Sportivo per l’acquisto dei locali, e gli stipendi ai tecnici. Ma a trenta metri esatti dalla Fulgor da quattro anni c’è una palestra di quelle appartenenti a una catena internazionale. È ospitata al primo piano di un albergo tra i più centrali di Napoli, e ci si può iscrivere pagando 20 euro al mese. Tutti quelli che andavano a via Goethe solo per tenersi in forma si sono spostati rapidamente e alla Fulgor i conti non sono più tornati. «Noi facciamo tutto in regola», dice Carbonara. «L’ho segnalato a tutti: vigili urbani, Vigili del fuoco, Comune, Asl, ma nessuno ha mai mosso un dito. È soltanto per questo che siamo costretti ad andarcene».
· Ai Giochi 2020 la boxe data in appalto. La crisi nerissima dell’ex nobile arte.
Ai Giochi 2020 la boxe data in appalto. La crisi nerissima dell’ex nobile arte. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Marco Bonarrigo su Corriere.it. Povera boxe. Antichissima, nobilissima e oggi purtroppo decadentissima. Non tanto per la crisi di talenti, per la concorrenza micidiale delle Mma (Mixed Martial Arts) che tanto affascinano i più giovani. Ma per i clamorosi scandali che hanno portato il Cio, nella stessa assemblea di Losanna che ha designato Milano-Cortina come sede dei Giochi 2026, a prendere una decisione senza precedenti: mettere da parte l’Aiba, la federazione internazionale che per statuto è titolare del torneo olimpico e si era vista già sospendere il suo status , e organizzare in prima persona o tramite una task force provvisoria le gare di Tokyo 2020 per non interrompere una tradizione di presenza che va avanti fin dal 1904. Umiliazione ulteriore, la responsabilità organizzativa per le gare giapponesi è stata affidata al presidente delle Federazione Ginnastica, Morinari Watanabe, perché nessuno in ambito boxistico è stato ritenuto all’altezza della situazione. Gli scandali federali vanno avanti ormai da un quadriennio. Al centro di tutto il presidente federale, l’uzbeko Gafur Rakhimov, discusso magnate che subentrò al vecchio presidente Wu, dimessosi per un enorme dissesto finanziario e le accuse di combine che portarono al licenziamento in tronco di una quarantina di arbitri dopo il torneo di Rio. Ma nel passaggio di gestione le cose non sono migliorate: negli Stati Uniti Rakhimov è accusato alle autorità federali di riciclaggio di denaro sporco, estorsione, corruzione e traffico di eroina oltre a contiguità con i cartelli mafiosi russi e cinesi. Accuse pesantissime che l’interessato ha sempre negato ma che l’hanno portato, lo scorso marzo, a rassegnare le dimissioni (in realtà si tratta di un auto sospensione) al comitato esecutivo proprio sperando in un ripensamento del Cio. Pace fatta? Macchè. Dall’inizio di giugno l’Aiba, sull’orlo della bancarotta, è diventata il centro di una faida tra le varie correnti di potere e, all’esterno, ha aperto una lotta senza quartiere al Cio. La decisione di togliere alla federazione la titolarità olimpica infatti, ha bloccato l’erogazione di un contributo di quasi 16 milioni di euro che avrebbe in qualche modo ripianato le spese pazze degli ultimi anni. Nella casse federali rimarrebbero poco più di 300 mila dollari, con i quali non è nemmeno pensabile organizzare il nuovo congresso elettivo o gestire l’attività ordinaria. Tom Virgets, direttore esecutivo, ha accusato senza troppi termini il Comitato Olimpico di volere azzerare la federazione. Nel frattempo, per aggiungere confusione alla confusione, l’autosospeso Rakhimov ha cercato di recuperare il ruolo di presidente per, a suo dire, riportare la federazione agli antichi fasti e sfidare in Cio. In questo suo tentativo sarebbe stato spalleggiato da tre suoi ex sodali, Umar Kremlev, Volodymyr Prodvyus ed Emilia Grueva, membri del comitato esecutivo, sospesi alla fine di giungo per il loro presunto coinvolgimento in attività criminali. Che le federazione boxe arrivi al congresso straordinario di novembre con qualche soldo ancora in cassa per organizzarlo e senza prima disintegrarsi sembra un miracolo. I grandi della nobile arte, intanto, si rivoltano nella tomba.
Stefano Arcobelli per la Gazzetta dello Sport il 28 giugno 2019. Cosa resta della Belva. Riappare il demonio, l' uomo più cattivo del mondo, e parla alla sua maniera. Dall' Accademia Mouratoglou di tennis, tra Nizza e Cannes, Mike Tyson affronta un altro match, abbassando un po' la guardia ma picchiando a parole: a modo suo. La violenza, la droga, il sesso estremo, le risse, gli incidenti, la bancarotta e il carcere? «Non esistono più» garantisce il più giovane campione mondiale dei pesi massimi. Quei tempi sono finiti: Iron Mike è un po' più saggio, ma resta spietato.
Mike, ha visto l' imbattuto Joshua contro Anthony Ruiz? È l' inizio della fine come successe a lei contro Buster Douglas a Tokyo nel 1990?
«Quel k.o. fu un bene. Sbagliai e feci capire agli altri di non essere più invincibile. Ma mi rese più umano, più grande. I rivali volevano essere come me. Ma tutti abbiamo sbagliato una volta nella vita. Eppure non ci arrendiamo, continueremo a vincere e a imparare. Come Serena Williams: se vince è fantastica, se perde è come tutti gli altri. Così è la vita dei campioni: c' è il tuo momento, ma poi quel posto va ad altri».
Fury dice che Joshua è finito.
«No, per me resta il migliore. Basta che creda più in se stesso e non si ponga il dubbio di non essere abbastanza bravo. Ma non succeda mai più. Mi rivedo in lui: non invincibile ma più umano e tornerà il miglior peso massimo. Quella sconfitta resta il peggiore momento della mia carriera. Il migliore? Quando diventai campione mondiale».
Come ci si rialza da un k.o.?
«Devi puntare sull' orgoglio. Ci credi, lo vuoi, pensi che Dio ti guidi, devi dimostrare a te stesso che sei il migliore. Riprovarci. Dipende da come ti senti. Io penso sia ferito e non abbia nulla da perdere. Ora diventa ancora più pericoloso».
Dopo decenni non c' è un vero erede di Tyson: chi lo sarà?
«Non lo so. Ora ci sono più pugili e più possibilità rispetto al 1986, ci sono più Tv, c' è Internet che consente di farci combattere l' uno contro l' altro, io contro Ali. Il futuro è questo».
Tra Ali e Tyson chi avrebbe vinto?
«Oggi, con gli ologrammi, lo potremmo scoprire. La tecnologia di adesso permette di sfruttare le nostre esperienze per migliorare e diventare il migliore. Abbinare le immagini e le esperienze. Solo la tecnologia può dire chi è stato il migliore di sempre. C' è gente che ancora oggi fa soldi su questo. Anche se muori, possono speculare sulla tua carriera».
Canelo Alvarez, Mayweather, Wilder, Ruiz, Fury: chi è il suo preferito?
«Per me il miglior picchiatore è l' ucraino Lomachenko anche se non è un massimo e non lo conosce nessuno. E punto ancora su Joshua».
Mike è per sempre l' uomo più cattivo del mondo?
«Resto colui che arriva da un quartiere malfamato. Nascere così ti segna. Io ho conosciuto la fame, il crimine, la droga, e tutto questo si è accumulato dentro di me. Mi chiedevo: "Mike, vuoi morire lì o batterti per lasciare quel posto?" Io ho sempre combattuto con determinazione per lasciare quel posto e non morire lì. Sopravvivere a un quartiere cattivo ti fortifica. Io ho conosciuto i senzatetto, la fame, il crimine e la droga. Ma mi chiedevo dentro di me: "che cosa vuoi fare della tua vita, Mike? Vuoi morire lì dentro o vuoi scappare da quell' inferno?" Tutti, sin da quando ero giovane, hanno visto chi ero: un delinquente brutto sporco e insicuro, ma mi ribellai».
E se potesse rinascere?
«Sarei ancora un pugile».
I suoi figli che cosa le chiedono di quel passato duro?
«Dei miei 7 figli, i più grandi potrebbero pensare che papà è un po' pazzo, se vedono il vecchio Tyson. E quindi continuo talvolta a fare il pazzo. Ma ero giovane, non avevo capito la vita. Ero egocentrico e non pensavo agli altri. Pensavo a me stesso, anziché agli altri. E ora che sono più vecchio, so che non è giusto. Ho dovuto imparare nel modo più duro cos' è la vita».
Ci sono molti film sulla sua vita, compreso quello dell' orecchio staccato ad Holyfield sul ring: in quale si riconosce?
«Non amo guardare quei film, forse perché esce il lato vulnerabile della mia vita».
Che uomo è il Tyson di oggi?
«Io non penso che le persone non nascono per essere umili ma sono destinate ad essere umiliate. Siamo arroganti e non possiamo aiutarci a vicenda. Si nasce così. Col passare del tempo ci si evolve, tra 20 anni sarà un mondo diverso. Le persone praticheranno sport in modo diverso, mangeranno cibi diversi, saranno più consapevoli. Può nascere una specie umana migliore tra 20-30 anni».
La boxe le ha più dato o tolto?
«Quando hai a che fare con la boxe, hai a che fare con la morale. Pensi che tutto sia affidabile, onesto, rispettabile, con dei giudici e dei verdetti, ma la boxe è stata sopraffatta dalla corruzione. È successo a me, succede a tutti. Ora non mi sento coinvolto: sto lontano da quel mondo perché non mi piace essere la persona che ero».
Per corruzione la noble art ha rischiato di uscire dalle Olimpiadi.
«Gli sport dilettantistici meritano di ricevere finanziamenti per occuparsi dell' educazione dei giovani e aiutare le loro madri per poter vivere e mangiare. Alcuni di questi ragazzi fanno anche 500 match per guadagnare neanche un dollaro. Quando vado in Europa orientale, vedo ragazzi che vivono al freddo: è pazzesco».
Non è Tyson se non fa discutere: s' è lanciato nel business della cannabis...
«Sono in questo business ma non ho mai toccato la vera cannabis floreale. Per scopi terapeutici voglio aiutare quelli che soffrono e non hanno possibilità di accedere alle cure mediche. Ho deciso di aprire un ranch in California perché il Cbd (cannabidiolo, ndr ) è il futuro. Il Cbd è in tutto, è nel caffè, sarà nel nostro cibo, nei cibi per i cani, e ci renderà persone migliori. È quasi come il guacamole. Lo vendono ovunque: è una corsa all' oro quasi come il petrolio».
In Italia negozi simili li vogliono far chiudere. In che senso renderà le persone migliori?
«Io invece voglio fare bene con questo business perché ho già un accordo con il tabacco britannico da cinquecento milioni di dollari».
C' è l' Italia ora nel suo tour?
«Sono già stato diverse volte, anche in Vaticano, ma non ho mai incontrato il Papa. Mi piacerebbe incontrare Francesco: penso sarebbe fantastico perché vedo quanto si batte per migliorare il mondo. E sarebbe una buona occasione per parlare di Cbd anche con il Papa».
Dopo averlo sostenuto nell' ultima campagna presidenziale, sosterrà ancora Donald Trump?
«Forse il presidente non ha la foto giusta, ma sta dirigendo l' America verso la giusta direzione. Potrebbe non piacere guardarlo, ma quando avrà finito il suo lavoro adoreremo il posto in cui ci ritroveremo. Sarà difficile batterlo, anche perché è così travolgente e globalizzato...Lui non è un politico, è più che uno spaccone».
È un pugile il suo miglior amico?
«No, non ho amici. E comunque trovare amici non è un mio obiettivo».
Tra i suoi 7 figli, c' è qualcuno che fa il pugile?
«Non permetterei mai ai miei bambini di fare boxe. È pericolosa, spesso la pratica chi deve dare un pasto alla propria famiglia o non ha null' altro da fare».
Milan diventerà una tennista famosa?
«Mia figlia ha iniziato a 3 anni. Era talentuosa e ha vinto diversi tornei. Lei però non ha fatto dieta e non si è allenata di notte. Bisogna allenarsi prima di andare a letto ogni sera. Io mi alleno ogni notte, vado a correre, vado a letto, e la mattina quando mi sveglio, mangio uno snack e poi mi alleno. Lei ha bisogno di allenarsi costantemente, 2-3 volte al giorno. Vengo da una famiglia che prende peso facilmente. Io continuo a mangiare sano e ad allenarmi. Mi metto sotto».
Anche per questo l' ha mandata da Patrick Mouratoglou?
«Mi sono detto: perché non far crescere mia figlia qui? Grazie a mia figlia ora sono coinvolto nel tennis: spero che Serena Williams possa tornare a vincere Wimbledon, lei è incredibile».
Lei è stato al centro di uno scandalo di violenza sessuale per cui è finito in carcere.
Quando sente parlare di campioni accusati, come Ronaldo o Neymar, che cosa prova?
«Bisogna sempre indagare a fondo e scoprire chi sta dicendo davvero la verità».
La sua epopea iniziò con 19 match vinti per ko al 1° round. Cosa resta di quel Tyson?
«Quando vincevo, pensavo: "posso fare del mio meglio". Mentre la vita va avanti, però cominci a perdere. Le persone che ami, i capelli, a volte la voglia di vivere: non si tratta di vincere quanto e più possibile. Alla fine perderai sempre».
· Frankie Dettori.
Frankie Dettori: «Vinci solo se dai tutto al cavallo: lui sente se il fantino è sereno». Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Come se Pelé avesse profetizzato a Maradona giovane che, tanto, non sarebbe mai diventato un grande calciatore. Ma davvero il leggendario jockey Lester Piggot disse così all’allora allievo fantino Lanfranco Dettori? «Avevo 15 anni e in Inghilterra, visto che iniziavano a paragonarmi a lui, un giorno disse: “Ma non avete visto che manone che ha? Non diventerà mai un fantino!”. Poi le “zampe” mi sono rimaste grosse, ma per fortuna io sono rimasto piccolo...». Piggot decisamente si sbagliò: a quasi 49 anni (35 da jockey in Inghilterra), Dettori su oltre 3500 successi detiene il record di 666 Gran Premi in 24 Paesi, di cui addirittura 248 di «gruppo uno». Si é librato sino a vincere tutte e 7 le corse di Ascot il 28 settembre 1996, ed è sprofondato in tv sino all’edizione inglese del Grande Fratello Vip. Ha sbriciolato ogni genere di record e fratturato 10 ossa, fatto vincere ai suoi cavalli oltre 100 milioni, siglato già 6 «Prix de l’Arc de Triomphe»: e domenica a Parigi in sella all’inglese Enable (a segno nel 2017 e nel 2018) cercherà il tris consecutivo mai riuscito ad alcuno in un secolo di storia della più prestigiosa corsa del mondo (ore 16.05).
A 14 anni la spedì in Inghilterra suo padre fantino, Gianfranco. Col senno di poi fu la sua fortuna. Ma all’epoca l’hai mai odiato?
«Io, ai miei 5 figli, non riuscirei a fare una cosa simile. Ma erano altri tempi. Fu tremendo. Non sapevo una parola d’inglese, non conoscevo nessuno, nel 1985 un italiano era solo “l’emigrante”: io ero l’escluso, senza amici, vittima dei bulli. Tante notti piangevo. Poi mi sono fatto coraggio. E iniziare a vincere aiuta sempre, ti fa diventare amici i nemici...».
Chi è il fantino più bravo?
«Quello che fa meno errori. Non vinci sul traguardo, ma sul percorso che dai al cavallo se diventi tutt’uno con lui. E lui lo sente».
Cosa sente?
«Sente se il fantino ha problemi a casa, se è arrabbiato, se è sereno. E dalla testa, ciò che il fantino ha in testa passa giù giù attraverso le braccia, e va a finire al cavallo».
Il suo errore più grande?
«Nel 1999 negli Stati Uniti quando con Swain persi la «Breeders’ Cup Classic»: mi feci prendere dal panico di stare per essere raggiunto. E usai troppo la frusta».
Come si fa a non farsi schiacciare dalla pressione?
«Studio la corsa prima sui video, poi me la sogno e risogno di notte, nella mia mente ogni mossa di uno innesca quelle degli altri. E poi però uso la spontaneità dell’istante: perché quasi mai la gara si sviluppa come l’immaginavi... Domani, due ore prima dell’Arc, avrò l’angoscia. Ma poi, quando scenderemo in pista, e sentirò l’odore dell’erba e la tensione della gente, e verrà il momento della sfilata davanti a tribune stracolme, wow! è come i Rolling Stones quando escono sul palco! Il giorno in cui non senti più la saliva azzerarsi in bocca, devi smettere».
Ha dovuto smettere sei mesi nel 2012, squalificato per positività alla cocaina.
«Ha presente quando uno è mollato dalla moglie e piomba nel buio? Ecco, mi aveva mollato senza motivo il nuovo trainer di «Godolphin» (la scuderia dello sceicco del Dubai, che poi vedrà proprio lo sgomitante Mahmood Al Zarooni radiato per colossali doping, ndr). Ci sono stato male. E a un party ho fatto una cavolata».
Son passati 19 anni ma non parla volentieri dell’elicottero precipitato in fiamme, da cui fu salvato dal fantino Ray Cochrane.
«Per due anni non sono più stato la stessa persona. Ti continui a fare delle domande. ti chiedi perché non sei morto tu e altri sì. Ti domandi perché è successo».
Lanfranco “Frankie” Dettori non ha vinto tutto al mondo: manca il Premio Parioli proprio in patria...
«Daiii, non me lo ricordi, sarò arrivato secondo tre o quattro volte. E anche la Melbourne Cup: così i parenti di mia moglie, che sono australiani, la finiranno di prendermi in giro…»
· Varenne va in pensione.
Varenne va in pensione. Massimo Massenzio per il ''Corriere della Sera'' il 23 giugno 2019. Annamaria Crespo e Varenne vivono in simbiosi da 17 anni. Lei nei ha 55 lui quasi 30 in meno, si intendono con uno sguardo, si capiscono al volo. L' arrivo del «Capitano» a Vigone, piccolo centro in provincia di Torino, ha cambiato radicalmente la vita di Annamaria (Anna per tutti) che nel 2002 aveva deciso di smettere di occuparsi di cavalli per dedicarsi esclusivamente alla famiglia. Poi una telefonata dal centro di allevamento «Il Grifone» le ha fatto cambiare idea e da quel momento è diventata la sua inseparabile «groom», la tata che lo accudisce - quasi - tutti i giorni dell' anno. Adesso lo stallone più famoso al mondo sta per trasferirsi a Inverno e Monteleone, in provincia di Pavia. L' accordo fra la società napoletana Varenne Futurity, proprietaria del cavallo, e la Varenne Forever, che si è assicurata la gestione e le percentuali sulla monta del campionissimo, scade infatti alla fine di luglio. I tifosi e gli abitanti Vigone hanno iniziato una petizione - che si è estesa a livello nazionale - per impedire che Varenne lasci Anna. E due settimane fa lei è andata fino a Napoli per convincere la proprietà a lasciarlo in Piemonte: «È stato tutto inutile - racconta sconsolata, mentre con gli occhi lucidi lo pulisce al rientro dalla passeggiata quotidiana -. Spostare un cavallo di 24 anni non è una decisione di buonsenso. Un veterinario non dovrebbe permetterlo e dovrebbe tutelare la salute dell' animale. Lui sta bene qui, dove è trattato come un re. Chiunque se ne accorgerebbe anche solo visitando il suo box». Oggi invece davanti alla scuderia personale del Capitano c' è un vigilante che controlla chiunque si avvicini e impedisce di scattare fotografie. È l' ultima scoria della battaglia legale fra proprietà e centro di allevamento, che ha portato alla rottura definitiva dei rapporti: «Ma queste cose non dovrebbero avere rilevanza - continua Anna - Vari, io lo chiamo così, ormai è anziano, anche se sta benissimo. Ma se è così in forma ed è ancora fertile e perché qui conosciamo tutti suoi bisogni e curiamo ogni minimo dettaglio. Ad esempio lui patisce moltissimo gli insetti, soprattutto le zanzare e nel suo box abbiamo montato una zanzariera e un ventilatore. Quando passeggia nel suo recinto e ci sono troppe mosche, mi guarda e mi fa capire che vuole tornare dentro. Questo legame si costruisce solo con anni di passione». Per stare vicino a Varenne Annamaria si è separata anche dal marito: «Lui non avrebbe voluto che io accettassi questo lavoro. Sapeva che sarebbe stato "totalizzante" e aveva ragione. Ma quando si è trattato di scegliere, ho preferito Varenne. Per me è come un terzo figlio, oltre ai miei due ragazzi, ma forse ho passato più tempo con lui che con loro. Mi hanno chiesto di seguirlo a Pavia, ma i miei genitori sono anziani e adesso devo occuparmi di loro. Questa volta non posso scegliere». Anna ha gli occhi lucidi e accudisce il Capitano con gesti automatici: «Arrivo alle 8 e vado via nel pomeriggio. Lui mangia tre volte al giorno, fa 40 minuti di "jogging" e poi lo porto sempre a fare una passeggiata. Non lo lascio mai solo più di una settimana, neppure per le ferie. Ha bisogno di me, perché io lo capisco. Al mattino, ad esempio, aspetta che io lo porti fuori per darmi un morso leggero sul fondoschiena. Quello è il segnale che è di buon umore. Quando inarca il muso, invece, mi vuole dire che ha un prurito o che c' è qualcosa che gli stando fastidio». È stata Anna ad accompagnare Varenne al secondo piano del palazzo Rai di Milano: «Nessun altro stallone da corsa avrebbe mai potuto farlo, ma lui è unico. Nessuno è buono come lui» Le speranze che resti a Vigone, però, sono pochissime: «Credo sia già tutto deciso. Qualcuno dice anche che il trasferimento sarà addirittura anticipato. Io cerco di non pensarci e continuo a fare quello che faccio da 17 anni. Mi auguro che alla fine la ragione prevalga sulla follia».
Alessia, l’angelo custode di Varenne: «Che onore vegliarlo». Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 da Chiara Severgnini su Corriere.it. «Pecos è il cavallo del mio cuore, ma Varenne... È una leggenda»: non si può chiedere ad Alessia Girani di fare una classifica tra il cavallo con cui è cresciuta («Ha solo otto mesi meno di me») e quello di cui, fin da bambina, ha sentito elencare vittorie e primati. Varenne è una leggenda vivente: ha polverizzato record, guadagnato cifre inedite (oltre 6 milioni di euro), persino ispirato canzoni («Se lo vedi passare è come se fosse una festa», intonava Jannacci). Alessia aveva solo sei anni quando il «Capitano» esordiva, nel 1998; dieci quando è andato in pensione, nel 2002. Oggi ne ha 27 ed è diventata il suo nuovo angelo custode, o, come si dice in gergo, la sua groom. E sabato, quando Varenne è arrivato all’Equicenter di Inverno e Monteleone, in provincia di Pavia — la sua nuova casa, dopo 17 anni passati a Vigone (Torino), e un trasferimento che ha causato parecchie polemiche — lei era qui, ad aspettarlo. Durante la prima notte lombarda del cavallo dei record, l’ha vegliato da un materasso poggiato davanti al suo box.
Pareti imbottite e aria condizionata. Dietro a questa scelta si cela, in realtà, una prassi comune, come spiega Daniela Zilli, la trainer cui Varenne è stato affidato e che, forte dei suoi ventitré anni di esperienza nel settore, sarà responsabile della forma fisica e dell’allenamento del cavallo-mito. Alessia lavorerà al suo fianco, per imparare da lei, sul campo, tutto ciò che non ha già appreso negli anni dell’università (è laureata in Scienze biotecnologiche veterinarie e specializzata in riproduzione animale). «Non è stata la mia prima notte con un cavallo», racconta, «mi è già capitato altre volte, ad esempio quando una fattrice deve partorire». E Varenne, si è già ambientato? «La notte è stata serena», assicura lei, «si è messo a mangiare quasi subito, cosa che indica tranquillità, e poi si è coricato per dormire. Del resto, parliamo di un cavallo che ha girato il mondo: è abituato a muoversi». Lo conferma anche Zilli: «La resilienza è sempre stata una delle caratteristiche più straordinarie di Varenne: ha vinto tanto anche per questo». All’Equicenter, poi, hanno fatto di tutto per accoglierlo nel modo migliore: per lui hanno preparato un box imbottito, all’occorrenza condizionato con un impianto ad hoc, e protetto da una porta blindata. Dietro a questa scelta si cela, in realtà, una prassi comune, come spiega Daniela Zilli, la trainer cui Varenne è stato affidato e che, forte dei suoi ventitré anni di esperienza nel settore, sarà responsabile della forma fisica e dell’allenamento del cavallo-mito. Alessia lavorerà al suo fianco, per imparare da lei, sul campo, tutto ciò che non ha già appreso negli anni dell’università (è laureata in Scienze biotecnologiche veterinarie e specializzata in riproduzione animale). «Non è stata la mia prima notte con un cavallo», racconta, «mi è già capitato altre volte, ad esempio quando una fattrice deve partorire». E Varenne, si è già ambientato? «La notte è stata serena», assicura lei, «si è messo a mangiare quasi subito, cosa che indica tranquillità, e poi si è coricato per dormire. Del resto, parliamo di un cavallo che ha girato il mondo: è abituato a muoversi». Lo conferma anche Zilli: «La resilienza è sempre stata una delle caratteristiche più straordinarie di Varenne: ha vinto tanto anche per questo». All’Equicenter, poi, hanno fatto di tutto per accoglierlo nel modo migliore: per lui hanno preparato un box imbottito, all’occorrenza condizionato con un impianto ad hoc, e protetto da una porta blindata.
Il suo secchio verde. Al suo interno, c’è anche un secchio verde. Non uno qualunque, ma quello che Varenne usa da anni: Annamaria Crespo, che per 17 anni si è presa cura di lui a Vigone, si è voluta assicurare che lo seguisse nella sua nuova casa, così che il cavallo potesse continuare a inzupparci il fieno prima di mangiarlo, come d’abitudine. Con lei, che conosce Varenne come pochi altri al mondo, c’è un contatto costante, spiega Zilli. Senza contare che per lui sono a disposizione costante i veterinari del centro (a cominciare da Cesare Rognoni, fondatore di Equicenter, che lo segue da tempo) e un maniscalco dedicato. Per la posizione di groom erano arrivate montagne di candidature. «Abbiamo scelto Alessia», spiega Zilli, «perché pur essendo giovane è molto professionale, perché è umile e ha voglia di imparare, ma soprattutto perché ha passione, che in questo lavoro è importantissima». Alessia è di poche parole: «Avere la possibilità di prendermi cura di Varenne è un’emozione e un onore». Sullo sfondo, intanto, si sentono dei nitriti: è il «Capitano», chissà se ha capito che parliamo di lui. Al suo interno, c’è anche un secchio verde. Non uno qualunque, ma quello che Varenne usa da anni: Annamaria Crespo, che per 17 anni si è presa cura di lui a Vigone, si è voluta assicurare che lo seguisse nella sua nuova casa, così che il cavallo potesse continuare a inzupparci il fieno prima di mangiarlo, come d’abitudine. Con lei, che conosce Varenne come pochi altri al mondo, c’è un contatto costante, spiega Zilli. Senza contare che per lui sono a disposizione costante i veterinari del centro (a cominciare da Cesare Rognoni, fondatore di Equicenter, che lo segue da tempo) e un maniscalco dedicato. Per la posizione di groom erano arrivate montagne di candidature. «Abbiamo scelto Alessia», spiega Zilli, «perché pur essendo giovane è molto professionale, perché è umile e ha voglia di imparare, ma soprattutto perché ha passione, che in questo lavoro è importantissima». Alessia è di poche parole: «Avere la possibilità di prendermi cura di Varenne è un’emozione e un onore». Sullo sfondo, intanto, si sentono dei nitriti: è il «Capitano», chissà se ha capito che parliamo di lui.
Vittorio Feltri, Varenne e Luciano Moggi: "La più grande scemenza della mia vita". Libero Quotidiano il 23 Giugno 2019. Varenne è il nome di un cavallo unico al mondo. Il migliore Trottatore in pista. Non ha vinto tante gare, le ha stravinte con una facilità stupefacente per noi amanti dell' ippica. È diventato nei lustri un divo noto e ammirato anche da chi non capisce nulla di equini. La sua carriera è stata formidabile, costellata da una serie di trionfi in Italia e all'estero. Una volta in Francia, all'Arc de triomphe, gli hanno fatto ripetere tre volte la partenza per presunte irregolarità e lui, il Capitano, come veniva chiamato, è sempre partito in testa come un siluro e alla fine della prova valida è arrivato primo. Un miracolo. Lo sforzo che gli è stato richiesto nella circostanza è stato enorme, e il campione lo ha sostenuto con una ammirevole disinvoltura. Un animale così non si era mai veduto. Non ha mai avuto necessità di essere guidato dall'individuo seduto sul sulky, ha sempre deciso lui le strategie della corsa. Osservava i concorrenti, ne misurava la potenza e la resistenza e si regolava di conseguenza per batterli, e li batteva, sistematicamente. L'intelligenza di Varenne è sorprendente. L'ultima sua competizione, prima dell' abbandono agonistico, si svolse in tal modo. Il suo driver era indisposto e gli subentrò l'allenatore, l'uomo della routine. Il cavallo e il suo guidatore improvvisato non fecero una piega, provvide il grande atleta quadrupede, il quale al momento opportuno piazzò lo scatto per distaccarsi dagli avversari e avviarsi in solitudine al traguardo. Che spettacolo! Un cavallo talmente arguto e solido da potersene fottere della persona incaricata di tenere le sue redini. Io da gentleman driver ho disputato varie gare al trotto, benché preferissi montare, e alcune le ho vinte ma non ho mai usato la frusta. È assurdo picchiare queste meravigliose bestie: esse sono collaborative e generose, danno tutto ciò che hanno senza bisogno di essere punite o stimolate con la verga. E Varenne non è mai stato picchiato. Si sarebbe offeso, forse disgustato. Ciò non gli ha mai impedito di trionfare in qualsiasi ippodromo nazionale e internazionale. Un fenomeno. All'inizio della carriera Luciano Moggi, il mago del calcio, mi propose di comprare il Capitano in società, ma ne sconsigliai l'acquisto adducendo questo motivo: ha un problema ai garretti anteriori. Fu la più grande scemenza della mia vita: Varenne guarì in fretta e inanellò una serie di successi impressionante. Mi batto il petto per il pentimento. Il destriero sarebbe diventato il mio quinto figlio. Non importa. L'ho amato lo stesso, come ho amato la sua assistente, Anna, che lo ha accudito da mamma. Lui non poteva fare a meno di lei, e lei non poteva fare a meno di lui. Sono vissuti in simbiosi per quasi venti anni. E ora che la signora è costretta ad abbandonarlo perché in procinto di essere pensionato pure nel ruolo di stallone, si dispera. La comprendo. Anche io, quanto questa donna eccezionale, amo i cavalli e Varenne è un idolo. Non mandatelo in un ospizio, merita di continuare ad essere un re. Alcuni giorni orsono un mio vecchio trottatore, Rif, 28 anni, smise di mangiare poiché aveva i denti guasti. Glieli ho fatti sistemare, 3 mila euro e rotti. Ha ricominciato a nutrirsi alla grande e sta bene. Ne sono felice. Gli voglio bene. Viva i cavalli, viva Varenne, amico mio. Vittorio Feltri
Esposto in procura a Torino: "Ci sono figli illegittimi di Varenne sparsi in tutto il mondo". I proprietari del leggendario cavallo da corsa: "Il suo seme venduto senza il nostro permesso". Sarah Martinenghi il 21 giugno 2019. Il leggendario Varenne. Ha più di duemila eredi. Ma quanti figli abbia fatto esattamente, è un mistero su cui ora forse indagherà persino la magistratura. Anche questo aspetto, ossia la verifica del numero di monte e di puledri nati dal suo seme, è finito al centro della battaglia giudiziaria che ha per protagonista Varenne, il leggendario purosangue che potrebbe presto lasciare il maneggio il Grifone di Vigone, nel Torinese, dove si trova accudito da anni. La società napoletana proprietaria del cavallo dei record Varenne Futurity ha infatti presentato un esposto alla procura di Torino contro la Varenne Forever di Valter Ferrero lamentando una serie di irregolarità nella gestione del prezioso stallone. Una prima denuncia, per appropriazione indebita, è arrivata al pm Roberto Sparagna che ha già chiesto l’archiviazione del procedimento. E ora la proprietà rilancia, puntando sul giallo dei puledri nati da Varenne. L’idea della proprietà è di trasferire Varenne all’Equicenter Monteleone, una clinica veterinaria in provincia di Pavia. L’ha spiegato l’avvocato Oreste Trudi che assiste il proprietario del cavallo, Enzo Giordano. “È questa la destinazione più probabile, in quanto è uno dei migliori centri di assistenza veterinaria in Italia, dove lavora anche il dottor Cesare Rognoni che è il veterinario che attualmente lo segue. Giordano vuole molto bene al suo cavallo e quindi sta facendo di tutto perché abbia tutta l'assistenza necessaria e il necessario benessere”. Il legale sostiene che Varenne non sarebbe stato trovato in ottime condizioni: “L'ultima volta che siamo andati a trovarlo, in occasione della notifica del sequestro giudiziario, non lo abbiamo trovato così bene, perché nel suo paddock c'era una fattrice con un puledro e la fattrice ed i puledri nel paddock di un cavallo anziano possono trasmettere delle malattie molto gravi. Aveva una evidente zoppia che nessuno aveva comunicato alla proprietà. Il proprietario ci è rimasto molto male, si è molto arrabbiato ed ha fatto subito intervenire il veterinario Rognoni. Alla proprietà interessa il benessere del cavallo". L’avvocato Trudi spiega poi il problema delle monte di Varenne: “Il contratto vero e proprio con Varenne Forever, che tra l'altro prevedeva il divieto assoluto del diritto di ritenzione (non possono trattenere il cavallo perché non è loro) riteniamo non esista più quantomeno dall'anno scorso, dove modificando la modalità di pagamento delle monte, sono venute fuori una serie di omissioni ed inadempimenti fatte nel corso del tempo, tra cui delle vendite effettuate per loro nome e loro conto di cessione di seme”. Ma non solo: “Abbiamo trovato puledri figli di Varenne nati in Italia e all'estero, che alla proprietà risultano completamente sconosciuti. Loro sono proprietari di 6 diritti di monta, ma sulle fatture e sui contratti hanno ceduto il seme di Varenne e non il diritto di monta (che tra l'altro ha un'aliquota diversa), hanno fatto contratti di cessione del seme di Varenne che non è di loro proprietà", ha spiegato il legale che ha sottolineato come "Varenne continuerà la sua vita normale ma senza spreco di energie e di seme. Non sappiamo quanti prelievi facessero perché siamo a conoscenza solo di quanto veniva comunicato alla proprietà. Per questo da un mese e mezzo il cavallo è sottoposto a guardiania 24 ore su 24". "Tutto ciò è stato denunciato alla Procura della Repubblica di Torino e al Tribunale di Napoli. Ora la proprietà sta ricostruendo tutti i puledri nati in Italia e all'estero da Varenne che non le risultano. I proprietari dovranno dire da chi e con quali modalità e contratti hanno acquistato il seme di Varenne. Tra l'altro la proprietà ha inviato mail e pec anche a i titolari dei diritti di monta e alcuni di essi hanno disconosciuto la fattrice abbinata al proprio diritto di monta", ha proseguito Trudi. "Purtroppo in questa ricerca non ci è stata utile la nostra associazione Anact, associazione nazionale degli allevatori di trotto, dove il presidente dell'Anact è anche l'amministratore di Varenne Forever, Valter Ferrero, a cui ho fatto personalmente una richiesta di accesso agli atti per conoscere i nati di Varenne ma purtroppo non ho avuto alcuna risposta tant'è vero che mi son dovuto rivolgere al Ministero, il Mipaaft". ha aggiunto il legale. “Non risulta alcun tipo di mistero sulle monte – spiega l’avvocato Enrico Calabrese che assiste l’allevamento Il Grifone - per quanto ci riguarda siamo assolutamente sereni. I miei assistiti hanno già reso un ampio interrogatorio in Procura e per quel procedimento, per l’accusa di appropriazione indebita, è stata chiesta l’archiviazione”. Secondo il legale, Varenne non sarebbe stato consegnato ai proprietari perché sarebbero venuti a prenderlo con un’auto, senza garanzie e controlli sanitari. "Il cavallo ora è ancora al Grifone – racconta invece l’avvocato Trudi - perché al giudice della procedura cautelare il veterinario residente al Grifone sottolineava l'esistenza di norme sanitarie, senza indicarne quali fossero, per le quali il cavallo se spostato in qualunque altro centro di produzione seme sarebbe stato obbligato a sospendere la sua attività di stallone per il periodo di quarantena obbligatorio e sottoposto a nuovi esami del effettuare da parte dell'Asl locale, come se una Asl non riconoscesse gli esami di altre Asl, e avvertendo che in questo modo si sarebbe persa una consistente parte della stagione di monta in corso. Io spero che quanto prima il cavallo venga sbloccato e la legittima proprietà ritorni nel possesso materiale del proprio cavallo".
· Gli Scacchi. Garry Kasparov.
Estratto dal libro di Garry Kasparov “Deep Thinking” pubblicato da "la Repubblica" il 4 ottobre 2019. Il 6 giugno 1985 era una bella giornata ad Amburgo, anche se agli scacchisti non capita spesso di godersi il bel tempo. Mi trovavo in una sala angusta; camminavo su e giù tra i tavoli disposti in cerchio su cui erano state sistemate trentadue scacchiere. A ogni tavolo di fronte a me c'era un avversario che faceva la sua mossa non appena arrivavo io: si trattava di un'esibizione simultanea. Le "simultanee" sono da secoli un classico degli scacchi, un modo per i dilettanti di sfidare un campione. Questa, però, era diversa dalle altre. I miei avversari, tutti e trentadue, erano computer. Per oltre cinque ore passai da una macchina all'altra facendo le mie mosse. I quattro maggiori produttori di scacchi computerizzati avevano mandato i loro modelli migliori, tra i quali ce n'erano otto della società di elettronica Saitek recanti il marchio "Kasparov". Uno degli organizzatori mi aveva avvertito che giocare contro una macchina è completamente diverso perché questa non si stancherà mai né mai si ritirerà presa dallo sconforto, come può capitare a un avversario umano; la macchina gioca fino all'ultimo sangue. Ma io pregustavo questa bella sfida, e l'attenzione mediatica che ne sarebbe derivata. Avevo ventidue anni e alla fine dell'anno sarei diventato il più giovane campione mondiale di scacchi della storia. Ero impavido e, in questo caso, la mia fiducia fu pienamente ricompensata. Per comprendere quale fosse all'epoca lo stato dell'arte degli scacchi computerizzati, basti pensare che nessuno si stupì granché, quantomeno non negli ambienti scacchistici, del mio trionfo schiacciante per trentadue a zero. Eppure un momento difficile ci fu. A un certo punto mi resi conto che mi stavo mettendo nei guai durante una delle partite contro uno dei modelli Kasparov. Se quella macchina avesse vinto o anche solo pareggiato, qualcuno avrebbe potuto dire che avevo gettato al vento la partita per fare pubblicità all'azienda; così dovetti moltiplicare gli sforzi. Dodici anni dopo ero a New York a giocarmi la partita della vita contro una sola macchina, un supercomputer dell'Ibm da dieci milioni di dollari soprannominato "Deep Blue". Quella battaglia, in realtà una rivincita, è diventata il più celebre duello tra uomo e macchina della storia. La copertina del Newsweek titolò "L'ultimo baluardo del cervello", e furono pubblicati una miriade di libri in cui il match fu paragonato al primo volo di Orville Wright o al primo sbarco sulla Luna. Si tratta di iperboli, naturalmente, ma non sono del tutto fuori luogo nella storia del nostro rapporto, di amore e odio, con le cosiddette macchine intelligenti. Un balzo di altri vent'anni e arriviamo al 2017: oggi possiamo scaricare gratuitamente una qualsiasi app scacchistica in grado di rivaleggiare con un grande maestro di scacchi. Immaginate al mio posto, lì ad Amburgo, un robot che gira tra i tavoli e sconfigge contemporaneamente trentadue tra i migliori scacchisti umani del mondo. Le parti si sono ormai invertite, come sempre accade nell'eterna competizione con la nostra tecnologia. Gli esseri umani hanno fantasticato sulle macchine intelligenti ben prima che fosse concepita la tecnologia per costruirle. Alla fine del diciottesimo secolo, un automa meccanico che giocava a scacchi, soprannominato il "Turco", fu considerato un prodigio dell' epoca. A muovere i pezzi era una figura umana di legno intagliato che, incredibilmente, giocava benissimo. Prima di andare distrutto in un incendio nel 1854, il Turco girò l'Europa e le Americhe e fu acclamato ovunque, annoverando tra le sue vittime appassionati di scacchi del calibro di Napoleone Bonaparte e Benjamin Franklin. Ovviamente si trattava di un trucco: all' interno della scatola sotto il tavolo c'era un uomo, nascosto da un complesso ingegnoso d'ingranaggi e pannelli scorrevoli. Curiosamente, oggi i tornei sono pieni di giocatori che accedono con imbrogli di vario genere a potentissimi programmi informatici per battere i loro avversari umani. Il primo vero programma di scacchi precede l'invenzione del computer e fu scritto a mano da un luminare come Alan Turing, il genio inglese che decrittò il codice nazista Enigma. Nel 1952 sviluppò un algoritmo scacchistico su alcuni fogli di carta svolgendo egli stesso il ruolo dei moderni computer; quella "macchina di carta" giocò una buona partita. Il nome di Turing è legato per sempre a un esperimento mentale che più tardi fu applicato concretamente: il "test di Turing". In sostanza si tratta di verificare se un computer sia in grado di far credere a un uomo che esso sia un essere umano: se ci riesce, il test è superato. Prima ancora che io mi scontrassi con Deep Blue, le macchine cominciavano a superare il cosiddetto "test di Turing scacchistico". Deep Blue era intelligente allo stesso modo in cui può esserlo una radiosveglia. Non che perdere contro una sveglia da dieci milioni di dollari mi facesse sentire meglio. Anche gli esperti dell' intelligenza artificiale furono felici dei risultati e dell' interesse risvegliato dal match, ma al tempo stesso mortificati nel constatare che Deep Blue non era esattamente quello che i loro predecessori avevano immaginato decenni prima, quando avevano sognato di creare una macchina in grado di sconfiggere il campione mondiale di scacchi. Invece di un computer che pensava e giocava a scacchi come un essere umano, con creatività e intuito umani, si ritrovarono con uno che giocava come una macchina, valutando sistematicamente fino a duecento milioni di mosse possibili al secondo e vincendo con la forza bruta dei numeri. Questo non per sminuire in alcun modo quello straordinario traguardo. Dopo l'intollerabile tensione del match, esacerbata dal dubbio comportamento dell' Ibm e dalla mia sospettosa mente di essere umano, non ero dell' umore giusto per perdere con dignità. Non che abbia mai saputo perdere, ci tengo a precisare.
· I 70 anni del bigliardino.
UNA BOMBA. E NACQUE IL BILIARDINO, IL GIOCO CHE DA 70 ANNI ACCOMPAGNA L’ESTATE DEGLI ITALIANI. Jessica d' Ercole per “la Verità” il 6 agosto 2019. Sono 70 anni che il calcio balilla accompagna le estati degli italiani. Ce n' è sempre uno in ogni lido che si rispetti, nei bar in piazzetta o all' oratorio. Nato a inizio Novecento forse in Germania per mano di Broto Watcher, in Francia inventato da Lucien Rosemarie, più probabilmente in Spagna dove fu brevettato nel 1937 da Alejandro Campos Ramírez, un poeta meglio noto come Finisterre, in omaggio alla sua città natale. A rivendicare la paternità del calcetto da tavolo ci si misero pure l' inglese Harold Sea Thornton, che nel 1922 brevettò un «apparato per giocare un gioco di football», uno svizzero di nome Knicker e un ignoto artigiano italiano di Poggibonsi che nel 1936, pare, costruì alcuni prototipi. Di certo c' è che in Italia il biliardino prese piede nel 1949 grazie all' accordo fra Marcel Zosso, un francese di Marsiglia che voleva produrli in serie, e un costruttore di bare piemontese Renato Garlando, che smise di fabbricare casse per i morti per darsi al decisamente più divertente calcio balilla. Sembra che i primi operai ingaggiati furono i detenuti del carcere di Alessandria. Finisterre, morto nel 2007, era rimasto ferito nel 1936, in piena guerra civile spagnola, a causa di una bomba: «Adoravo il calcio ma ero diventato zoppo e non potevo più giocare Soprattutto soffrivo nel vedere quei ragazzini, feriti o amputati, che non avrebbero più potuto giocare a pallone con gli altri bambini Mi dissi: se esiste il tennis da tavolo dovrà allora esistere anche il calcio da tavolo! Mi procurai allora delle aste di ferro mentre un carpentiere basco rifugiato là, Javier Altuna, faceva le piccole figure in legno. Fece poi il terreno di gioco sempre in legno di pino credo, e la palla con un pezzo di sughero catalano. Questo permetteva un miglior controllo della palla: rendeva possibile bloccarla ma anche dargli un effetto».
Massimo Arcidiacono nel suo elogio funebre, sulla Gazzetta dello Sport, ricordava anche il resto della sua vita avventurosa: «Finisterre che registra l' invenzione, ma perde la documentazione mentre scappa all' estero per sfuggire al regime franchista di cui è convinto oppositore, si laurea in filosofia, si trasferisce in Sudamerica, per campare fa il muratore, l'imbianchino, il ballerino di tip tap, infine s' improvvisa editore di scrittori e poeti spagnoli anch' essi antifranchisti ed esuli (tra i quali Leon Felipe). Coinvolto in un colpo di Stato, rapito dai servizi segreti, dirotta l' aereo che lo riporta a Madrid, si rifugia a Panama. Una vita da Jack London, alla velocità di Lara Croft, che verrà ricordata per il più statico e disciplinato dei giochi, il calcio ricondotto al rigido 2-5-3 dalla vocazione fortemente offensiva. Un' invenzione, il calcio balilla, a suo modo poetica, come poeta fu Finisterre, che sopravvive alla sfida del tempo e dell' elettronica». Negli anni Cinquanta Finisterre finì in Guatemala dov' era solito battere Ernesto Che Guevara, che a biliardino era una schiappa, e farsi battere da sua moglie, Hilda Gadea, che in questo gioco era un asso. I primi biliardini altro non erano che dei cassoni con assi e giocatori di legno. All' epoca i calciatori avevano due gambe. Gli omini in plastica a piedi uniti videro la luce nel 1955 per favorire il passetto, ovvero il passaggio della palla tra due giocatori sulla stessa linea. Mossa severamente proibita solo in Italia. Vietati anche la manicciola, il tiro di prima intenzione del mediano centrale, con la palla appena messa in gioco e ovviamente la rullata, mossa concessa solo ai novellini. «Sono entrato in contatto con la Federazione italiana calciobalilla e ho scoperto che il biliardino non è per niente un gioco da ragazzini... Sono davvero convinto che il biliardino dovrebbe diventare una disciplina olimpica» (Antonello Venditti).
Nel 2006, ad Amburgo, si disputava per la prima volta il Mondiale di calcio balilla con tavoli ufficiali. All' ultimo torneo che si è svolto i primi di luglio a Murcia, in Spagna, gli azzurri Simone Russo e Massimo Caruso hanno sconfitto in finale i connazionali Luigi Rosica e Luca Marrazzo aggiudicandosi il titolo di campioni mondiali nella specialità rollerball. Nel 2013 la nazionale paralimpica italiana di calcio balilla ha vinto il campionato del mondo. Tra gli appassionati del calcio da tavolo spiccano Emirati Arabi, Libia, Yemen, oltre a India, Canada, Australia e Stati Uniti. Solo negli Usa circa 2 milioni di americani giocano al calcio balilla almeno una volta alla settimana. Esistono cinque calcio balilla differenti: il tedesco Leonard, l' americano Tornado, il francese Bonzini, il Garlando che usano in Austria e Svizzera, e poi c' è il Revolution che è il più utilizzato e diffuso in Italia. Ogni modello ha maniglie diverse, il piano in vetro o in legno, gli omini più grandi o più piccoli a seconda della provenienza. Il Tornado ha tre portieri.150.000 appassionati. In Italia ci sono più di 10.000 giocatori attivi, ma gli appassionati di calcetto sono almeno 150.000. Per una partita bastano 50 centesimi, da dividere in due o in quattro. Ricorda Alessio Spataro, fumettista, autore del libro Il Biliardino: «Ho cominciato a giocare (o meglio a perdere) a biliardino nel paese di mia madre, quando andavamo in vacanza dai miei nonni. Interi pomeriggi a giocare coi miei coetanei che spesso mi offrivano le partite in cambio di qualche mio disegno pornografico ricalcato dai fumetti per adulti da edicola». In Italia la Teckell dei fratelli Adriano produce biliardi in «cristallo extrachiaro temperato» o con «vasca diamantata». Tra i modelli più ambiti quello con stecche e giocatori ricoperti d' oro. Se un biliardino tradizionale costa fra i 300 e i 500 euro, per un modello della collezione Teckell ce ne vogliono almeno 10.500. Anche la Fas propone modelli lussuosi o personalizzati. Tra le creazioni più strane un biliardino commissionato dalla Pringle dove al posto dei mitici omini rossi e blu ci sono le patatine.
Il calcio balilla più caro al mondo costa 80.000 euro. È stato realizzato dallo scultore Stéphane Cipre. Per assemblarlo ci sono voluti sei mesi, 100 chilogrammi di alluminio e pelle. Ogni dettaglio è scolpito a mano. In campo ci sono i grandi campioni di ogni epoca: Sergio Ramos, Messi, Puskas, Di Stéfano, Pelé, Cruyff e Maradona. Grande assente Cristiano Ronaldo. Quest' opera d' arte verrà prodotta solo in dieci esemplari per i più facoltosi.
Tra gli appassionati di calcetto Pelè, Maradona e Zidane, che giocarono l' uno contro l' altro in una campagna Vuitton per il lancio di un babyfoot, lo chiamano così in Francia, con manopole in pelle bianca. Lello Arena che quando faceva Striscia la notizia, si concedeva con Enzo Iachetti e Antonio Ricci una partita ogni pomeriggio a biliardino nell' ufficio di Enzo Beccati, voce del Gabibbo. Dario Vergassola che con la comitiva di Zelig, dopo ogni show, si intratteneva a Milano in interminabili sedute di calcetto con i vari Claudio Bisio e Paolo Rossi. Poi a notte inoltrata ripartiva per La Spezia e, senza dormire, andava a lavorare. Dario Argento, figlio della fotografa, ritrattista delle dive, Elda Luxardo e di Salvatore Argento, che di mestiere promuoveva il cinema italiano all' estero, è cresciuto giocando a biliardino con Federico Fellini, Luchino Visconti, Elio Petri. Davide Lippi, pur di farsi una partita, rubò a suo padre Marcello 1.000 lire. Una bravata che gli costò cara: per punirlo il padre non gli rivolse parola per diverso tempo. Anche il socialdemocratico Ivo Josipovi, ex presidente della Croazia, aveva una passione per il calcio balilla: nel suo ufficio ci piazzò un biliardino. Nel 2011 il sindaco di Villa D' Ogna (Bergamo) ha vietato il biliardino perché rumoroso. A Teggiano, nel Salernitano, chi vuole farsi una partita tra aprile e settembre dopo le 22 rischia una multa salata e l' arresto fino a 3 mesi. Da ottobre a marzo il coprifuoco scatta alle 20. In Turchia, dove il calcio balilla era vietato dal 1968 perché considerato d' azzardo, è tornato legale nel 2016. Fino ad allora chi giocava rischiava da 1 a 5 anni di carcere. «Il mio gioco aiuta la coordinazione tra la mano destra e quella sinistra. Soprattutto invoglia l' amicizia e il cameratismo, a differenza dei videogiochi, che favoriscono solo l' autismo» (Finisterre).