Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2019
LA GIUSTIZIA
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
PARTE PRIMA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.
Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri.
Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.
Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma: 12 anni ai due carabinieri.
Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.
Processo Cucchi, medici verso la prescrizione.
Pietre sulla Petrelluzzi.
Ilaria Cucchi: una donna normale.
Il Concerto per Cucchi.
Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.
Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.
I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.
Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.
Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.
Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, anche qui tre sono carabinieri.
Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia.
Stefano Furlan, gli altri e Stefano Cucchi, troviamo le differenze.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
Indimenticabile Avetrana
La sensitiva Rosemary Laboragine.
Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed avvocati di ufficio.
Il Fioraio condannato.
Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.
Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi.
Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.
Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
La vittoria di Amanda Knox Giustizia italiana condannata.
SOLITA ABUSOPOLI.
Dentro ad un divorzio.
Padri separati (dai figli).
La mamma non può impedire al figlio di vedere il papà separato.
Figli nullafacenti: niente mantenimento.
L’amore acido.
William Pezzullo. Due acidi, due misure?
Bibbiano e Angela Lucano. "Amore strappato": “Rapita dalla giustizia”.
Sempre più anziani malati costretti alla contenzione.
Matti da Slegare.
Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi.
"Pensa solo ai minori stranieri".
Quando l’assassino è in casa.
Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila.
La strage dei bambini innocenti.
Quando i figli e i nipoti picchiano genitori e nonni.
Quando i bimbi si menano a scuola.
Bullismo. Bulli da menare.
Quando son le donne le pedofili.
Pedofilia e tecnologia. L’app TikTok.
Codice Rosso. Violenza sulle donne. Due donne e due misure.
Stupri che non lo erano…
La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.
Uomini. Quando le vittime sono loro.
Il commercio delle adozioni.
Boy Scout, esplode lo scandalo abusi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
Dura Lex, Sed Lex?
Ponzio Pilato paradigma del giudice codardo.
Se le forme del diritto possono essere asservite al delitto.
Illuminismo e Garantismo. Da Cesare Beccaria a Giuliano Vassalli: Dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.
La magistratura in Italia: Ordine o Potere?
Le Toghe Show.
La riforma infetta della Giustizia.
Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.
Parentopoli giudiziarie e incompatibilità. Le compatibilità elettive: Io son io e tu non sei un cazzo.
Da pm a giudice: al Csm passano le porte girevoli.
Violenza domestica: troppe leggi e male applicate.
La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».
Diffamazione: questo, sì; questo, no!
Credere nella giustizia, e la chiamano Legge.
Dal Dna il volto dell'assassino.
Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito.
La condanna degli innocenti. Se il pm sbaglia viene punito: ecco la svolta sulla giustizia.
Criminalità, quei 6 miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati.
Caste e soldi. Le parcelle esose e la naturale conformità dei Pareri di Conformità dei colleghi dei Consigli dell'Ordine.
Innocente, ma rovinato dalle spese legali.
Intestare fittiziamente beni ai parenti è reato.
Le ingiustizie dei giudici. Credere nella Giustizia?
Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere".
A proposito di Prescrizione.
Processi lumaca: sì all’indennizzo anche senza istanza di accelerazione.
Test psicologici su giudici e Pm.
Avvocati ed obbiettori di coscienza.
La vituperata Toga.
Il "populismo penale" dei gialloverdi.
Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga.
Mai dire pronto intervento e Denunce a perdere.
Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.
L'astensione non esiste. E se li ricusi, ti denunciano.
Intercettazioni. L’invasione dei Trojan, i file “malevoli” amati dalle procure.
Le Fughe di Notizie.
Mediazione Civile, quando la Giustizia non incassa.
Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze.
In galera? Non ci si finisce più.
Le mie Prigioni.
Atteggiamenti “arbitrari” degli agenti.
«L’ergastolo ostativo nega il “diritto alla speranza”».
"Palazzi di ingiustizia".
Sovraffollamento nelle carceri.
41bis. I magistrati ordinano e le carceri non eseguono.
La difficile vita in cella delle 2600 detenute italiane.
Quella pena doppia per i detenuti disabili.
Quelle celle lisce a Bancali nascoste alla visita del Garante.
Carcere: Tabagismo e Psicologia.
I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati.
Vitto e sopravvitto.
Il carcere dove sono condannati anche a vivere senz’acqua.
Di cella si muore.
Il 70% dei detenuti torna a delinquere Perché non c’è la riabilitazione?
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
Stati Uniti: Un innocente in cella e un colpevole libero.
Dalla parte delle vittime, vere.
Prima infangati e poi assolti. Gogna e calvario degli innocenti. Storie dei soliti noti.
Salvatore Proietto per 72 grammi di marijuana. Muoiono la madre e la moglie, ma lui resta in cella.
Antimo d’Agostino. Ex soldato assolto dopo 5 in galera. Fu legittima difesa.
Giustizia. Franco Tatò: “evitate i processi”.
Le confessioni di Stefano Ricucci.
Mario Moretti. La sentenza sulla strage di Viareggio non fa giustizia.
Stefano Monti. Si dichiara innocente e si suicida.
Angelo Massaro e un’intercettazione distorta.
Gerardo De Piano. L’arresto, le botte e la gogna.
Archiviato. Maurizio Lupi mastica soddisfazione e amarezza.
Novara, Massimo Giordano ex sindaco assolto ma carriera stroncata dall’indagine.
«Del tutto infondata la condanna di Ignazio Marino».
Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.
Gianfranco Cavaliere. La falsa Tangentopoli.
Leonardo Rossi a Firenze. Avvocato accusato di pedo- pornografia, assolto in appello 7 anni dopo l’arresto.
E ora chi chiede scusa a Mimmo Lucano, Giulia Ligresti e Boschi Senior?
Unabomber, Zornitta (indagato e prosciolto) chiede i danni.
Marco Siniscalco. Avvocato, 74 anni: in cella per l’effetto retroattivo della legge spazzacorrotti.
"Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori. Come un calciatore che sbaglia un rigore".
Assolto Duilio Poggiolini.
Bassolino, assolto dopo 16 anni.
Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai tre figli minorenni di Marianna Manduca.
Vincenzo Bommarito. Caltanissetta, pena sospesa a condannato all'ergastolo.
«Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella».
Tortora, Brizzi, De Luca, Tavecchio: i volti della gogna.
"Per Sallusti ingiusta detenzione". E Strasburgo condanna l'Italia.
«Sono scafisti, dategli l’ergastolo» In cella 4 anni, poi assolti. E i media zitti.
Nicola Sodano. Finito il calvario: assolto l'ex sindaco di Mantova.
Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni: “La gente deve capire che sono innocente”.
Katharina Miroslawa, stanca di dirsi innocente.
Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere da innocente: chiede 66 milioni di euro di risarcimento.
I giudici: il “mostro” Brega Massone vittima delle intercettazioni.
Armando Riccardo. La camorra lo accusò per vendetta: agente assolto dopo 8 anni.
Cosimo Commisso. «Non uccise nessuno né ordinò gli omicidi».
La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa.
Strage di Erba e la revisione della sentenza.
Giorgio Magliocca. Arrestato per camorra, poi assolto: «Fu un incubo..».
Parla Lorenzo Diana: «Io, rovinato dalle bugie di un pentito».
Nino Marano. Una vita fra le sbarre.
Aldo Scardella, suicida da innocente.
PARTE SECONDA
SOLITA MANETTOPOLI.
Il processo in Tv e la giuria popolare.
Il Populismo penale: dal Femminicidio all’omicidio stradale.
Viva la Forca!
La Sinistra: un Toga Party.
L’Esercizio Garantista.
I Giallo-Rossi manettari.
I Giallo-Verdi manettari.
I Rossi manettari.
Il Marco Travaglio manettaro.
Il Davigo Manettaro.
Cuffaro e Di Pietro in tribunale. Ora è l’ex piemme taccagno a volere l’immunità.
L’ingiustizia è uguale per tutti.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
La Corte europea dei diritti umani contro Italia e Germania sul caso ThyssenKrupp.
“Bernardini non fu arrestata per evitare clamore mediatico”.
Intoccabili: Quelli che sono toccati…
Si apre il maxi-processo all’ex prefetto Malfi.
Olindo Canali. «L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss».
Giorgio Alcioni. Il giudice prepotente cacciato dal Csm dopo la condanna.
Foggia, la giudice Lucia Calderisi «furbetta del cartellino».
La dolce vita dei Bancarottieri.
Sbirri. Sarebbe ora di chiedere scusa.
CSM. Il mercato delle toghe: indagato l'ex presidente Anm Luca Palamara.
Magistrati. Non vi nascondete dietro l’impunità corporativa.
La class action diventa legge, il ministro della Giustizia: «Ora cittadini più forti».
Caso Bellomo, parla ex corsista: «Erano tutte infatuate di lui».
«Non cacciate il procuratore Rossi».
La Procura di Roma insiste: processate l’ex pm Robledo.
Chiese l'arresto del marito della sua amante, condannato il pm Ferrigno.
In tribunale per la separazione. L'ex marito si fidanza con la giudice.
Il Csm trasferisce il procuratore aggiunto Antonella Duchini ad Ancona.
Emilio Arnesano. Arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl.
Tito Ettore Preioni. Favori per fare carriera.
Dopo Venezia, il giudice Giuseppe Bersani indagato anche ad Ancona.
Il magistrato Agostino Abate sotto inchiesta a Brescia: «Aiutava i suoi indagati».
Gaetano Maria Amato. Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere.
Bari, favori alla compagna: destituito ex giudice della Fallimentare. Michele Monteleone.
Sentenze tributarie truccate, interdetto l'ex presidente del tribunale di Trani Filippo Bortone.
Carlo Maria Capristo indagato per Falso complotto Eni.
L’assoluzione di Vendola. Il giudice Susanna De Felice: non si tocca.
Magistrati arrestati: Michele Nardi e Antonio Savasta.
Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate.
Giudice di Napoli: “Aveva legami con la camorra”.
Una volpe di Magistrato.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
Persone scomparse, si cercano ancora 10mila italiani. E uno su cinque è un minore.
Gente di Stato. I Suicidi Impossibili: Maria Teresa Trovato Mazza e Anna Esposito.
Il mostro di Modena.
Il mostro di Udine.
Antonino Sciacca. Uno sparo nella notte.
Il giallo di Willy Branchi ucciso nel 1988.
Raed. Il bimbo fantasma della Norman Atlantic: «Morto nel rogo».
Dopo 46 anni riaperte indagini sul sequestro di Mirko Panattoni.
Alessandro Pieri. "Bisigato" e la donna del mistero: morte di un ex calciatore.
Il Caso Regeni.
Anatomia del complotto.
11 settembre 1968, storia della Ustica francese (ancora senza giustizia).
Da Ustica a Regeni: quegli 85 morti senza verità.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).
Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.
Il Mistero di Piazza della Loggia.
Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati.
Strage alla stazione di Bologna.
L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.
L’omicidio di «Francescone», attore che recitò con Gassman e Manfredi.
Il giallo di Eleonora Scroppo, uccisa mentre cenava in famiglia 20 anni fa.
Le sfide folli: Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
Il Mostro di Firenze non c'è più.
Il puzzle incompleto del mistero di Garlasco.
Wojtyla-Agca, l’altra pista.
Il Caso Orlandi.
Il mistero di De Pedis.
Adolfo Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali.
Il caso Ermanno Lavorini, 50 anni fa.
Omicidio Mino Pecorelli, 40 anni dopo.
Antonio Logli e l’omicidio di Roberta Ragusa.
Omicidio Marco Vannini, speciale Le Iene.
Duilio Saggia Civitelli, detective romano ucciso alla stazione.
Francesca Moretti, avvelenata col cianuro: il giallo si riapre I 10 indizi trascurati.
«Hanno ucciso Maga Magò». Quel giallo che sconvolse piazza Navona.
Libero Ricci. Il giallo del pensionato e del collezionista di ossa: «Cercate nel Tevere».
Liliana Grimaldi. La maestra di piano uccisa dal giostraio, libero dopo 8 anni.
Gli abusi in collegio e quel corpo nel Tevere: il giallo di Padre Pierre.
Caso Scopelliti, il grande enigma di un giudice fra 'ndrangheta e Cosa nostra…e Massoneria.
La tragedia di Tommy.
Il giallo del suicidio dell’ex generale Conti.
Il “killer delle carceri”.
Il giallo della morte di Marianna Greco.
Cinzia Cannella e Ivano Iannucci: amore «tossico.
Alfredo Rampi. L’eroe di Vermicino Angelo Licheri.
Le bestie di Satana.
Margarete Wilfling. La bella Margarete e il killer di Ponte Matteotti.
Massimo Galioto, Beau Solomon e la Giustizia sott’acqua.
Virginia Mihai. Uccisa da marito Valerio Sperotto e data in pasto ai maiali.
Vera Heinzl e Sandra Honicke, gialli fotocopia.
Giuseppina Morelli. Quel piede nel prato degli orrori.
Umberto Ranieri ucciso per un rimprovero.
Paolo Adinolfi, la fine di un giudice scomodo.
Mirko Panattoni. Sequestro senza colpevoli.
Ferdinando Carretta: "Li ho uccisi tutti io".
Ambrosoli, la vita di un uomo normale.
Mario Ferraro. Sole, sigari e baci.
Chi ha ucciso Lidia Macchi?
Davide Cervia, rose e intrighi.
Roma di sangue. I delitti: Nicoloso, Anniballi, Cannella, Adinolfi e Rosati.
Alessia Rosati, un mistero lungo 25 anni.
Pier Paolo Minguzzi. Ucciso 31 anni fa.
L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.
Thomas Quick. L'uomo che si inventò Serial Killer.
Delitto Khashoggi.
Daphne Caruana Galizia. I tre improbabili sicari e la scia dei dollari.
Il mistero di Atlanta: 24 morti, 1 sospetto.
Samuel Little: il Van Gogh dei serial killer.
John List, l’uomo qualunque che (finiti i soldi) sterminò la famiglia.
Laura e Paolo Fumu sono morti. Chi è stato?
Il rapimento di Claudio Chiacchierini.
Cristoforo Verderame. Ucciso davanti ai bimbi a scuola.
Pietro Maso, il documentario seguito da 500 mila persone. Solo morbosità?
Salvatore Pappalardi. Il padre di Ciccio e Tore.
Omicidio di Angelo Vassallo ed il ruolo dei carabinieri.
Il Giallo della morte di Re Cecconi.
Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana».
Bertrand Cantat, l'idolo assassin. Storia del delitto maledetto di Marie Trintignant.
Il mistero sulla morte di Desirée Piovanelli.
La confessione di Massimo Sebastiani: «Così uccisi Elisa Pomarelli nel pollaio».
Mostro del Circeo, Izzo parla dal carcere: «Non ho confessato tante cose».
I delitti del Dams.
Delitto di Novi Ligure.
Il Caso Emanuele Scieri.
La morte di Denis Bergamini.
Simonetta Cesaroni. Il Delitto di Via Poma.
Busto Arsizio e la strana morte per peritonite.
Omicidio a Vercelli, il caso della donna nella valigia.
Paolo Piccoli, il monsignore condannato per omicidio: Innocente?
Un alibi per Alberto Stasi?
Come è morto David Rossi.
Jennifer Levin, uccisa e umiliata dai media.
Curtis Flowers: Il «perseguitato d’America».
Il Caso Estermann.
La storia di Giuseppe Zangara.
LA GIUSTIZIA
PARTE PRIMA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.
Caso Cucchi, procedimento contro chi trasferì Casamassima. Adnkronos il 14 settembre 2019. Sulla vicenda Cucchi adesso irrompe l'Anac. A quanto apprende l'Adnkronos l'organismo di controllo anticorruzione, dopo aver ricevuto alcune segnalazioni di esponenti del Movimento cinque stelle e del Gruppo Misto, ha riscontrato irregolarità nella gestione del trasferimento dell'appuntato dei carabinieri Riccardo Casamassima, diventato "supertestimone" dell'inchiesta sulla morte del giovane Stefano Cucchi. In particolare l'Anac ha definito "sussistenti" i presupposti per l'avvio di un procedimento nei confronti di chi firmò i provvedimenti di trasferimento di Casamassima che in passato denunciò di essere stato "trasferito e demansionato per aver testimoniato" al processo Cucchi. L'Anac ha così comunicato "l'avvio del procedimento sanzionatorio" ai sensi del "Regolamento sull'esercizio del potere sanzionatorio in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro", il cosiddetto “whistleblowing”. Nelle motivazioni del provvedimento l'Anac riferisce quanto espresso dall'appuntato Casamassima il quale ha riferito di aver subito "numerose ritorsioni" sul luogo di lavoro. "Il whistleblower riferisce, inoltre, di aver subito presso la Scuola Allievi un ulteriore demansionamento, consistente nella sua assegnazione all’Ufficio Servizi presso il quale non avrebbe svolto alcuna mansione. La completa inattività alla quale Casamassima sarebbe stato costretto - aggiunge l'Anac - avrebbe quindi indotto quest’ultimo a richiedere la riassegnazione alla precedente e già demansionante attività di apertura e chiusura del cancello di ingresso della Scuola Allievi". L'Arma ha sempre respinto le accuse contenute nella versione di Casamassima e in tutte le sedi ha rimarcato la correttezza dei provvedimenti presi anche a tutela dell'Istituzione. Contattate dall'Adnkronos fonti dell'Arma spiegano "di attendere l'esito del procedimento" Per l'Arma infatti il trasferimento dell'appuntato dall'8° Reggimento Lazio alla Legione Allievi Carabinieri è arrivato a 3 anni dalle dichiarazioni rese nel caso Cucchi in quanto Casamassima più volte si era lamentato con i vertici su circostanze negative nei rapporti con altri carabinieri. Per l'Arma il trasferimento aveva avuto l'unico scopo di rasserenare Casamassima fornendogli un ambiente di lavoro più favorevole. Anche sul “'demansionamento” l'Arma ha sempre respinto l'accusa spiegando che ancorché non operativo, il compito assegnato a Casamassima coincide con quelli assegnati a suoi pari grado e non ha avuto ricadute economiche negative per l'appuntato. Nella sua difesa, l'Arma aveva rimarcato come il cambio di mansione era dovuto anche ad una richiesta dello stesso Casamassima di non svolgere turni che gli avrebbero reso difficoltosa la gestione della vita familiare. L'Arma dunque ha sempre respinto le accuse lanciate da Casamassima ma non è stata creduta dall'Anac sul fronte del "ripetuto rigetto - scrive l'autorità anticorruzione - di domande di trasferimento legittimamente avanzate per il ricongiungimento al coniuge lavoratore nonché in una generale azione di screditamento della sua persona". Casamassima è finito al centro del processo Cucchi e ha diviso l'opinione pubblica. C'è chi considera le sue rivelazioni un contributo fondamentale e coraggioso per la riapertura del caso, anche sul fronte del coinvolgimento di alcuni ufficiali dell'Arma nei presunti depistaggi. Altri invece nutrono dubbi sul personaggio in passato finito in vicende che sono tutt'ora al vaglio del tribunale e non hanno ad oggi alcun giudicato definitivo. Casamassima infatti torna in storie giudiziarie legate a questioni di droga. In una non avrebbe comunicato all'autorità giudiziaria presunti fatti di reato (su questa vicenda è in corso il primo grado) su un'altra, dove pende ancora una richiesta di rinvio a giudizio per lui e per la compagna, è accusato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti. L'avvocato Serena Gasperini accoglie "con soddisfazione" l'avvio del procedimento sanzionatorio, da parte dell'Anac, nei confronti di chi firmò i provvedimenti di trasferimento per Riccardo Casamassima, l'appuntato dei carabinieri divenuto teste-chiave al processo per la morte di Stefano Cucchi. "Evidentemente le sue dichiarazioni e le sue motivazioni sono state riconosciute come fondate", dice l'avvocato Gasperini all'Adnkronos. Il graduato dell'Arma "è stato convocato dall'Anac, gli sono state poste domande e sono stati acquisiti documenti. Casamassima, che è stato oggetto di una campagna volta a screditarlo, è stato considerato credibile. Evidentemente -aggiunge- la coincidenza tra le dichiarazioni di Casamassima e i trasferimenti ha lasciato qualche dubbio e l'Anac ha voluto analizzare a fondo la vicenda".
· Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri.
Cucchi, processo sui depistaggi: a giudizio 8 carabinieri. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. Comincia con un colpo di scena il procedimento sui depistaggi del caso Cucchi. Si astiene per incompatibilità Federico Bonagalvagno, il giudice del cosiddetto processo ter. Bonagalvagno ha giustificato la sua astensione spiegando di essere un ex carabiniere attualmente in congedo. Il processo sarà seguito dalla collega Giulia Cavallone: al via il cosiddetto Cucchi ter che punta a ricostruire quanto avvenne all’indomani della morte di Stefano Cucchi. Alla prima udienza hanno depositato la richiesta per la costituzione di parte civile, tra gli altri, il ministero della Giustizia e l’associazione Antigone. Secondo l’accusa, rappresentata dal pm Giovanni Musarò, un gruppo di carabinieri, alcuni dei quali ai vertici dell’Arma, falsificò i rapporti per coprire il pestaggio eseguito da due dei militari che arrestarono il ragazzo lanotte del 15 ottobre 2009. Si tratta di Alessandro Casarsa, Francesco Cavallo, Massimiliano Colombo Labriola, Francesco Di Sano e Luciano Soligo, imputati al processo ter per falso ideologico. Altri due ufficiali contribuirono al depistaggio quando nel corso della seconda indagine sul caso Cucchi omisero di denunciare i falsi affiorati dai verbali dell’Arma. Per questo sono alla sbarra gli ufficiali Lorenzo Sabatino e Tiziano Testarmata. Infine il militare Luca De Cianni avrebbe manipolato un’annotazione di servizio attribuendo false dichiarazioni a un collega, Riccardo Casamassima, che aveva offerto il proprio contributo all’indagine bis, denunciando ciò che sapeva. Al processo, oltre ai familiari, sono parti civili la presidenza del Consiglio dei Ministri, il ministero della Difesa, l’Arma dei carabinieri, il ministero dell’Interno, gli agenti della polizia penitenziaria processati ingiustamente, il carabiniere Riccardo Casamassima e la onlus Cittadinanza attiva. In tutto, dunque, si tratta di otto imputati. Nel decreto che dispone il loro rinvio a giudizio sono ricostruite le singole responsabilità. In particolare Casarsa (ex comandante del gruppo Roma, di recente promosso a Capo di Stato Maggiore del Comando unità e specializzate “Palidoro”), Cavallo, Soligo, Colombo Labriola e Di Sano avrebbero modificato l’annotazione di servizio che riferiva le condizioni di salute di Cucchi attestando che il ragazzo «riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la accentuata magrezza». Ecco, in questo passaggio, compare per la prima volta l’accenno pretestuoso al peso di Cucchi come alla causa del suo malessere, discendente invece dall’avvenuto pestaggio. Quanto a Sabatino e Testarmata, di fronte alle annotazioni fasulle sulle condizioni di salute di Cucchi, emerse dai verbali dell’Arma, «omettevano di presentare denuncia per iscritto all’autorità giudiziaria» scrive la gip Antonella Minunni. Infine De Cianni attestava che «Cucchi si era procurato le lesioni più gravi compiendo atti di autolesionismo» e che «Casamassima avrebbe chiesto una somma di denaro aIlaria Cucchi in cambio di dichiarazioni gradite alla stessa Cucchi». L’avvio del Cucchi ter precede di due giorni la sentenza sull’altro processo quello per il pestaggio di Stefano Cucchi. Il 14 novembre è attesa la decisione del presidente della I Corte d’assise Vincenzo Capozza.
Da repubblica.it il 12 novembre 2019. Comincia con un colpo di scena il processo che riguarda i depistaggi sul caso Cucchi, il giovane detenuto morto nel 2009 all'ospedale Pertini di Roma. In apertura dell'udienza, la prima su altri otto carabinieri imputati, il giudice monocratico Federico Bona Galvagno, si è astenuto dal processo. Bona Galvagno si è giustificato spiegando di essere un ex carabiniere attualmente in congedo. L'astensione c'è stata a seguito della richiesta sollevata dagli stessi familiari di Cucchi, che da fonti aperte avevano visto che il giudice è un carabiniere in congedo. Tutto rinviato. La prossima udienza che si dovrà pronunciare sugli 8 carabinieri imputati, con un nuovo giudice, si svolgerà il 16 dicembre. E' già stata designata Giulia Cavallone. Tutto è successo mentre si avvia a conclusione il processo principale sulla morte di Stefano Cucchi, nato dall'inchiesta su cinque carabinieri. Sentenza questa prevista per il 14 novembre. Stamani a piazzale Clodio si apriva invece il filone del procedimento, il cosiddetto Cucchi ter, che vede imputati otto militari per i depistaggi. Tra di loro, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono imputati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'Arma dei Carabinieri si è costituita parte civile insieme, tra gli altri, alla Presidenza del Consiglio, e alla famiglia Cucchi. Anche il ministero di Giustizia ha presentato istanza di costituzione. L'inchiesta del pm Giovanni Musarò ruota attorno alle annotazioni redatte da due piantoni dopo la morte del geometra romano e modificate per far sparire ogni riferimento ai dolori che il giovane lamentava la notte dell'arresto dopo il pestaggio subito nella stazione della compagnia Appia.
Cucchi, si astiene il giudice del processo sul depistaggio. Simona Musco 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. Le ragioni: «Sono un ex carabiniere». Al processo sulla morte del ragioniere i legali chiedono l’assoluzione degli imputati: «nessun nesso tra il pestaggio e la morte». Nella settimana in cui verrà pronunciata la sentenza nei confronti dei cinque militari imputati per la morte di Stefano Cucchi, si apre con l’astensione del giudice Federico Bona Galvagno il processo sui presunti depistaggi seguiti alla tragica fine del 31enne romano, arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il colpo di scena è arrivato in apertura dell’udienza, quando il giudice ha spiegato di non poter giudicare il caso in quanto ex carabiniere attualmente in congedo. Una decisione presa a seguito della richiesta dei legali della famiglia Cucchi, che ne avevano chiesto l’astensione dopo aver saputo, da fonti aperte, di alcuni convegni organizzati proprio da Bona Galvagno con la presenza di alti ufficiali dell’Arma. Il nuovo giudice monocratico nominato è Giulia Cavallone. Gli imputati sono otto carabinieri, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altre sette carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro, Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, all’epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza, Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunnia. Nel corso dell’udienza di oggi, il ministero della Giustizia ha presentato istanza di costituzione di parte civile. Tra le parti già costituite ci sono la presidenza del Consiglio dei ministri, l’Arma, il ministero della Difesa e quello dell’Interno. Nella lista dei testi della difesa di Casarsa, invece, c’è anche il primo pm che si è occupato della vicenda di Stefano Cucchi, il sostituto procuratore Vincenzo Barba. L’avvocato Carlo Longari lo ha inserito tra i suoi testimoni per la vicenda della relazione medica dell’ottobre del 2009 che sarebbe stata realizzata prima dell’autopsia del giovane geometra, di cui il Comando Provinciale dei carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. Sul punto citato come teste anche il generale Vittorio Tomasone, all’epoca numero uno del Comando provinciale. Si è detta soddisfatta dell’astensione Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, mentre indignazione è stata espressa dall’ex ministro Carlo Giovanardi, di Idea, popolo e libertà, già in passato entrato in polemica con la famiglia Cucchi per aver detto che ad uccidere il giovane sarebbe stata la droga. «Non soltanto il processo ai Carabinieri per la morte di Stefano Cucchi si svolge in una pressione mediatica che ne dà già per scontato l’esito prima ancora della sentenza di primo grado – ha commentato – ma passa il principio che un magistrato che abbia servito, sia pure di leva, nell’Arma e frequenti i Carabinieri non può esercitare la sua funzione quando sono imputati dei Carabinieri. Spero che non sfugga – ha aggiunto – l’enormità di questo pregiudizio, che ha indotto il giudice ad astenersi su richiesta della famiglia Cucchi, che aveva avanzato il sospetto di ombre sull’imparzialità del magistrato. Mi chiedo e lo chiedo alle istituzioni di questo Paese che cosa dovrebbe accadere, in base a questo precedente, tutte le volte che un magistrato viene chiamato a giudicare su di un altro magistrato». Nel corso del processo bis sulla morte del giovane, invece, i legali di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro – per i quali il pm Giovanni Musarò ha chiesto la condanna a 18 anni – hanno chiesto l’assoluzione dei propri assistiti, puntando il dito contro Francesco Tedesco, l’imputato che poi ha svelato il pestaggio subito da Cucchi accusando i suoi due colleghi. «Quello che dice non è oggettivo», hanno contestato i legali. «La morte di Stefano Cucchi è stata una perdita grave e ingiusta per la famiglia. Ma in questo processo si sta facendo una caccia alle streghe perché si deve trovare il colpevole di una morte ingiusta, non di un omicidio», ha sottolineato l’avvocato Antonella De Benedictis, difensore del carabiniere Di Bernardo, accusato di omicidio preterintenzionale. per la penalista, «non c’è un nesso diretto tra il pestaggio e l’evento morte, e in mezzo ci può essere stato un errore medico se è vero che Cucchi è morto per la crescita abnorme del globo vescicale dovuto all’ostruzione del catetere».
Ilaria Cucchi il 12 Novembre 2019 sulla sua pagina Facebook. "Ascoltando i difensori degli imputati che oggi ammettono tranquillamente il pestaggio inflitto a Stefano, non posso non pensare quanto esso sia stato ostinatamente negato dal prof. Paolo Arbarello, consulente della Procura nominato per l’esecuzione dell’autopsia sul suo corpo. Non posso non pensare alla prima perizia Grandi - Cattaneo che ipotizzando anche la caduta ha fatto morire mio fratello di fame e di sete. Non posso non pensare al braccio di ferro tra la Corte d’Assise di Appello e la Suprema corte di Cassazione sulla responsabilità dei medici per la sua morte. La prima assolve e riassolve. La seconda annulla e riannulla quelle assoluzioni. Un rimpallo di 4 sentenze. Si tratta di un processo sbagliato. Drammaticamente sbagliato. Anche questo processo andrà a sentenza il 14 novembre insieme a quello ben più importante in corso contro i veri responsabili della morte di Stefano. I reati contro i medici sono tutti prescritti. Ma si va avanti lo stesso contro di loro. Perchè? Perchè penso che verranno ancora una volta assolti nonostante le loro evidenti responsabilità. Nonostante la durissima ultima sentenza della Suprema Corte. È un mio pensiero. È solo un mio pensiero. Non si dichiarerà la prescrizione e questo sperano i difensori di D’Alessandro e Di Bennardo. Attendo il 14 novembre. Io ed i miei genitori siamo allo stremo delle forze. Mamma e papà sanno già di essere condannati all’ergastolo di processi che si protrarranno fino alla fine della loro vita. Comunque, grazie al lavoro dei PM Pignatone e Musarò, la verità è venuta a galla anche in un aula di giustizia ma c’è sempre qualcuno pronto a metter i bastoni tra le ruote di una Giustizia sempre più difficile da comprendere e spesso troppo lontana dai cittadini comuni in nome dei quali dovrebbe operare.
· Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Appello di Roma: prescrizione per quattro medici, uno assolto.
· Omicidio Cucchi: Corte d’Assise di Roma: 12 anni ai due carabinieri.
Cucchi: prescrizione per quattro medici, uno assolto. Attesa la sentenza sui carabinieri. Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. Sentenza appello ter, prescrizione per quattro medici e uno assolto. È quanto deciso dai giudici della Corte d’Assise di Appello di Roma per cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi. Ad essere assolta la dottoressa Stefania Corbi. Accuse prescritte per il primario del reparto di Medicina protetta dell’ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per la Corbi la formula di assoluzione è «per non commesso il fatto». Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo. Il processo ai medici dell’ospedale Pertini ha avuto un iter tortuoso. Tutti furono portati a processo inizialmente per l’accusa di abbandono d’incapace (nello stesso processo erano imputati anche tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, assolti in via definitiva). Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, gli stessi medici furono successivamente assolti in appello. E da lì iniziò una nuova vita processuale fatta di un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I nuovi giudici d’Appello confermarono l’assoluzione che fu impugnata dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi oggi. Ecco la prima delle due sentenze che ricostruiscono il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi e che vedono sul banco degli imputati sia i carabinieri che lo ebbero in custodia la notte del 15 ottobre 2009 che i medici dell’ospedale Sandro Pertini che lo curarono durante i giorni della detenzione fino al decesso il 22 ottobre 2009. Quanto ai militari Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, invece, sono imputati di omicidio preterintenzionale. Secondo il capo d’imputazione «in concorso fra loro colpendo Cucchi con schiaffi, pugni e calci, provocandone una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale, cagionavano al predetto lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni» ma che unite alle omissioni dei medici del Pertini che lo ebbero in cura portarono il ragazzo alla morte. Stando all’accusa del pm Giovanni Musarò, che ha sollecitato per i due imputati una condanna a 18 anni di carcere, D’Alessandro e Di Bernardo sarebbero stati responsabili di tumefazioni al viso, ecchimosi del cuoio capelluto e delle palpebre, fratture delle vertebre e infiltrazioni emorragiche in varie parti del corpo. L’indagine delegata alla Squadra Mobile di Roma ha ricostruito che le lesioni inferte a Cucchi determinarono una sorta di piano inclinato che condusse alla sua morte. C’è poi la posizione di Francesco Tedesco. Nei suoi confronti l’accusa aveva chiesto l’assoluzione per le percosse (il militare che aveva confermato il pestaggio ad opera dei suoi due colleghi, non vi aveva preso parte e anzi, aveva cercato di fermarlo) ma la sua condanna per aver falsificato il verbale d’arresto di Cucchi. Infine per Roberto Mandolini erano stati chiesti otto anni sempre per reato di falso, collegato al verbale d’arresto che fra le altre cose attestava un fotosegnalamento mai avvenuto. L’attesa verso le due sentenze è più che comprensibile. Non solo perché, trascorsi dieci anni, la famiglia di Stefano Cucchi si aspetta un punto fermo nella vicenda, ma anche perché il pronunciamento dei giudici influirà sul terzo processo Cucchi, quello relativo ai depistaggi e che vede otto militari dell’Arma indagati per reati che vanno dal falso all’omessa denuncia all’autorità giudiziaria. Dice Ilaria Cucchi: «La nostra famiglia è arrivata esausta a questo appuntamento. Ci aspettiamo giustizia».
Cucchi, fu omicidio: 12 anni ai due carabinieri. Il baciamano del militare in aula alla sorella Ilaria. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Responsabili del delitto loro ascritto al capo A», dice il presidente della corte d’assise Vincenzo Capozzi. Significa colpevoli della morte di Stefano Cucchi, un pestaggio che s’è trasformato in omicidio preterintenzionale. Per questo i carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sono condannati a 12 anni di carcere. Ilaria Cucchi e il suo avvocato-compagno Fabio Anselmo, si stringono forte la mano. Il giudice va avanti nella lettura della sentenza. Assolto dall’omicidio il carabiniere Francesco Tedesco, che dopo nove anni di silenzi e menzogne ha confessato di aver assistito alle botte rivelatesi letali, e condannato per i falsi commessi dal 2009 in poi. Condannato pure il suo ex comandante di stazione, Roberto Mandolini: tre anni e otto mesi di pena perché contribuì a manomettere le relazioni di servizio per proteggere i suoi sottoposti, e per le bugie dette durante l’altro processo, quello agli imputati sbagliati: i tre agenti penitenziari già assolti e ora presenti in aula come «parti offese»; anche per loro oggi è un giorno di riscatto. Ma è soprattutto la vittoria di ciò che resta della famiglia Cucchi: la sorella Ilaria, che sorride commossa al baciamano di un carabiniere addetto alla sicurezza che vuole renderle omaggio a nome dell’Arma, e i genitori Rita e Giovanni, che dopo dieci anni di battaglie e sconfitte possono sciogliersi in un abbraccio finalmente liberatorio con l’ex senatore, Luigi Manconi, sempre al loro fianco. Al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, arriva il verdetto di primo grado contro gli imputati «giusti», autori dell’arresto e responsabili delle percosse inflitte al trentunenne spacciatore di marijuana e cocaina, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il calvario del detenuto, picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), poi portato in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto a una settimana dall’arresto, senza che i familiari riuscissero a sapere nulla delle sue condizioni. Cominciarono le indagini e i processi contro agenti di custodia e medici (ieri assolti o prescritti nel terzo giudizio d’appello), ma solo nel 2015 la nuova inchiesta avviata dalla Procura di Roma ha imboccato la strada giusta. Grazie ai due carabinieri Riccardo Casamassima e Maria Rosati, che si presentarono ai Cucchi per raccontare ciò avevano sentito dire in caserma dopo la morte di Stefano; e al detenuto Luigi Lainà, che a Regina Coeli rivelò a Cucchi: «Mi hanno picchiato due carabinieri in borghese, di quelli che m’hanno arrestato, che se so’ divertiti, mentre uno in divisa gli diceva di smettere». Gli accertamenti del pubblico ministero Giovanni Musarò, che con l’accordo del procuratore Giuseppe Pignatone ha messo in campo tecniche investigative antimafia affidate alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Roma, ha portato alla luce l’identità degli imputati condannati, nascosta a suo tempo nei verbali d’arresto ma confermata dalle intercettazioni andate avanti per mesi. Compresa quella della ex moglie di uno dei due, che gli rinfacciava al telefono: «L’hai raccontato tu di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda!». L’impianto dell’accusa è stato accolto pressoché integralmente dalla corte: rispetto alle richieste le pene sono inferiori perché i giudici hanno concesso agli imputati in divisa le attenuanti che il pm aveva proposto di negare, considerati i dieci anni di omertà. Ma le difese, che continuano a reclamare l’innocenza dei condannati, hanno già annunciato appello. Le nuove indagini negli archivi dell’Arma, affidate al Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, hanno smascherato le false relazioni sulle condizioni di Cucchi. Manomesse con l’avallo degli ufficiali oggi imputati nel processo sui depistaggi che comincerà a dicembre, per evitare — all’epoca — che l’inchiesta sulla morte di Cucchi prendesse di mira chi l’aveva arrestato e tenuto in custodia. Ancora nel 2015 altri appartenenti all’Arma tentarono di ostacolare l’inchiesta, e nonostante ciò sono ugualmente venuti alla luce il registro della caserma in cui avvenne il pestaggio con il nome di Cucchi cancellato col «bianchetto», più altri elementi che hanno portato alla sentenza di ieri. Vicende che hanno spinto il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, a esprimere alla famiglia Cucchi «dolore e vicinanza», ribaditi ieri dopo le condanne «di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell’Istituzione».
Cucchi, 12 anni ai due carabinieri. La sorella: ora può riposare in pace. Simona Musco il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. La sentenza in Corte d’Assise. Reati prescritti per quattro medici, uno assolto. Processo ai medici, un’assoluzione e 4 prescrizioni. Per il pm Musarò, attorno alla sua morte fu realizzata «un’opera di depistaggio che ha toccato picchi da film dell’orrore», con lo scopo di far ricadere la colpa sugli agenti penitenziari. Stefano Cucchi morì per le botte in caserma la notte dell’arresto. Così ha deciso la prima Corte d’Assise di Roma, che ieri ha condannato a 12 anni, per omicidio preterintenzionale, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ritenuti dalla procura gli autori del pestaggio ai danni del geometra romano 31enne, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e picchiato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana. Mentre nulla, secondo i giudici, ha avuto a che fare con quel sopruso l’imputato- teste Francesco Tedesco, assolto dall’accusa di omicidio ma condannato a due anni e sei mesi per la compilazione del falso verbale di arresto. Stessa accusa per la quale la Corte ha inflitto 3 anni e otto mesi al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante interinale della Stazione dei carabinieri Roma Appia, dove la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Cucchi fu portato dopo il suo arresto. I giudici hanno poi riqualificato in falsa testimonianza l’originario reato di calunnia ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria, accusati ingiustamente e poi assolti del pestaggio di Cucchi, assolvendo Tedesco, Mandolini e Vincenzo Nicolardi perché il fatto non costituisce reato. Per la corte d’assise, infatti, i tre militari furono sentiti senza l’assistenza di un difensore e, dunque, senza le garanzie di legge.
Per il sostituto procuratore Giovanni Musarò, attorno alla morte di Cucchi sarebbe stata realizzata un’opera di depistaggio che ha «toccato picchi da film dell’orrore», con l’unico scopo di far ricadere la responsabilità di tutto su alcuni agenti della Polizia penitenziaria, poi assolti in maniera definitiva. Il 3 ottobre scorso, il pm aveva chiesto una condanna a 18 anni per Di Bernardo e D’Alessandro per l’omicidio, chiedendo, per tale reato, l’assoluzione di Tedesco, ieri a Rebibbia per la lettura della sentenza. Per Musarò, sarebbe «impossibile» negare il nesso di causalità tra il pestaggio e la morte. «I periti aveva spiegato – parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi». Ma nelle stesse ore, mentre ancora deve partire il processo sul depistaggio, che vede alla sbarra otto militari, si è chiuso anche un altro capitolo della vicenda, con la sentenza del terzo processo d’appello nei confronti dei cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini, dove Stefano, che ormai pesava solo 37 chili, morì il 22 ottobre 2009. E si è chiuso con una sentenza di assoluzione e una di “non doversi procedere”, perché il reato di omicidio colposo è ormai prescritto. Ma la seconda corte d’Assise di appello ha comunque fatto una distinzione essenziale tra la posizione dei medici: non è colpevole Stefania Corbi, assolta per non aver commesso il fatto, mentre per gli altri imputati i giudici hanno recepito le conclusioni del sostituto pg Mario Remus, che lo scorso 6 maggio aveva sollecitato la prescrizione nei confronti del primario Aldo Fierro e dei medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, che seguirono a vario titolo Stefano. Una sentenza, dunque, che stabilisce comunque un giudizio di merito sull’operato dei quattro sanitari. I medici finirono a processo, inizialmente, con l’accusa di abbandono d’incapace, assieme a tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, furono poi assolti in appello. E da lì, due annullamenti con rinvio della Cassazione, fino alla sentenza di ieri. Nella sua requisitoria, il pg fu lapidario: «questo processo dovrà concludersi con la prescrizione del reato – disse -, ma è una sconfitta della giustizia. Per salvare Stefano Cucchi sarebbe bastato un tocco di umanità, un gesto, per convincerlo a bere e a mangiare». Una vicenda contorta e intricata, quella di Cucchi, dalla quale sono scaturiti già sette processi e riaperta grazie alla tenacia della famiglia del giovane, in particolare della sorella Ilaria, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo. Dopo la morte del geometra, la procura di Roma aveva aperto un’inchiesta mettendo sotto accusa i tre agenti penitenziari che accompagnarono il ragazzo il giorno dopo il suo arresto in tribunale per la convalida. Ma si trattava di un depistaggio, svelato da Musarò, che ha ribadito il nesso tra le botte e la morte, inizialmente attribuita ad un attacco di epilessia. La svolta ad aprile scorso, quando Tedesco ha raccontato in aula le fasi del pestaggio. Facendo i nomi degli autori: Di Bernardo e D’Alessandro.
Da roma.repubblica.it il 15 Novembre 2019. Quello di Stefano Cucchi fu un omicidio preterintenzionale. La Corte d'Assise di Roma ha condannato i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro a 12 anni. Assolto dall'accusa di omicidio Francesco Tedesco, l'imputato-accusatore che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio subito da Stefano Cucchi in caserma la notte del suo arresto, a suo carico rimane solo la condanna a 2 anni e sei mesi per falso. Stesso reato che viene contestato a Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione Appia: 3 anni e otto mesi. Assolti, invece, Vincenzo Nicolardi e Tedesco e Mandolini dall'accusa di calunnia. La corte ha disposto il pagamento di una provvisionale di 100mila euro ciascuno ai genitori di Cucchi e alla sorella Ilaria. Di Bernardo, D'Alessandro, Mandolini e Tedesco, a vario titolo, dovranno risarcire, in separato giudizio, le parti civili Roma Capitale, Cittadinanzattiva e i tre agenti della polizia penitenziaria e intanto sono stati condannati al pagamento delle loro spese legali per complessivi 36mila e 500 euro. Di Bernardo e D'Alessandro sono stati inoltre interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, mentre un'interdizione di cinque anni è stata disposta per Mandolini. I legali dei quattro carabinieri condannati annunciano ricorso in appello. "Come si concilia questa sentenza sul piano tecnico-giuridico col fatto che oggi stesso la corte d'Assise d'Appello ha dichiarato la prescrizione per i medici?" si domanda Giosuè Bruno Naso, legale di Mandolini. "Se secondo la corte d'assise d'appello non è escluso che Cucchi sia morto per colpa dei medici - prosegue- come si può concepire una morte per omicidio preterintenzionale? Leggeremo le motivazioni della sentenza e faremo certamente appello. Abbiamo aspettato 5 anni per farci riconoscere dalla Cassazione, nel processo mafia capitale, quello che abbiamo sostenuto fin dall'inizio. Abbiamo pazienza anche per questo processo".
La famiglia: "Finalmente ci sono i colpevoli". "Stefano è stato ucciso, lo sapevamo, forse adesso potrà riposare in pace e i miei genitori vivere più sereni. Ci sono voluti 10 anni di dolore ma abbiamo mantenuto la promessa fatta a Stefano l'ultima volta che ci siamo visti che saremmo andati fino in fondo". Lo ha detto Ilaria Cucchi in lacrime dopo la sentenza di primo grado del processo bis per la morte, ad ottobre 2009, del fratello Stefano. "Questa sentenza parla chiaro a tutti.. Non vogliamo un colpevole ma i colpevoli e finalmente dopo 10 anni di processi li abbiamo" commenta Giovanni, il padre del geometra. "Era una verità talmente evidente che è stata negata per troppo tempo. Io considero Mandolini corresponsabile quanto i due condannati per il reato. Vedremo le motivazioni della sentenza. La verità è che Stefano è morto per le percosse subite" sottolinea Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi.
Il baciamano del carabiniere a Ilaria Cucchi: "Finalmente giustizia". E subito dopo la sentenza, visibilmente commosso un carabiniere ha fatto il baciamano a Ilaria. "L'ho fatto perché finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia", dice il militare mentre accompagna i genitori di Stefano Cucchi, anche loro commossi, fuori dall'aula di Rebibbia dove si è celebrato il processo.
Medici del Pertini: 4 prescrizioni e un'assoluzione. Un'assoluzione e quattro prescrizioni che riconoscono le colpe dei medici ma che di fatto li salvano. Hanno deciso così i giudici della Corte d'Assise di Appello di Roma i per camici bianchi dell'ospedale Sandro Pertini coinvolti nella vicenda di Stefano, morto una settimana dopo nel Reparto detenuti dell'Ospedale Sandro Pertini di Roma. Assolta il medico Stefania Corbi. Accuse prescritte dunque per il primario del Reparto di medicina protetta dell'ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per la Corbi la formula di assoluzione è "per non commesso il fatto". Per tutti il reato contestato è di omicidio colposo. Il processo ai medici del 'Pertinì ha avuto un iter tortuoso. Tutti furono portati a processo inizialmente per l'accusa di abbandono d'incapace (nello stesso processo erano imputati anche tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria, assolti in via definitiva). "Una sentenza che lascia l'amaro in bocca. Non è comprensibile dal punto di vista logico perché l'assoluzione della dottoressa Corbi avrebbe dovuto comportare come conseguenza anche l'assoluzione del primario. Aspettiamo di leggere le motivazioni e quasi sicuramente faremo ricorso in Cassazione" commenta a caldo l'avvocato Gaetano Scalise, difensore di Aldo Fierro. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, gli stessi medici furono successivamente assolti in appello. E da lì iniziò una nuova vita processuale fatta di un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I nuovi giudici d'Appello confermarono l'assoluzione che fu impugnata dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi oggi.
Generale Nistri: "Dolore ancora più intenso per responsabilità di alcuni carabinieri". "Abbiamo manifestato in più occasioni il nostro dolore e la nostra vicinanza alla famiglia per la vicenda culminata con la morte di Stefano Cucchi. Un dolore che oggi è ancora più intenso dopo la sentenza di primo grado della corte d'Assise di Roma che definisce le responsabilità di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell'istituzione". Così il comandante generale dell'Arma dei carabinieri generale Giovanni Nistri dopo la sentenza.
Rinviato il processo sui depistaggi. Martedì scorso era stata rinviata al 16 dicembre la prima udienza del processo cosiddetto Cucchi-ter sui successivi 10 anni di depistaggi sulla morte del geometra, che vede imputati 8 alti ufficiali dell'Arma. Il rinvio perché il giudice monocratico Federico Bona Galvagno ha ammesso - dopo l'istanza di ricusazione presentata dai legali della famiglia Cucchi - di essere un carabiniere in congedo e di essere legato da rapporti di conoscenza con l'ex comandante generale Tullio Del Sette.
Il padre di Magherini; "Sono contento". "Sono contento, è una cosa giusta" commenta Guido Magherini, padre dell'ex calciatore Riccardo morto dopo essere stato fermato per strada a Firenze dai carabinieri. "Sarebbe stato giusto", continua facendo riferimento a una sentenza di condanna, "anche per Riccardo - continua il papà di Magherini - ma a Roma sono bravi a fare i 'giochi di prestigio': oggi non è stato così". "Ilaria deve ringraziare sicuramente la sua forza e dedizione, ma anche Riccardo Casamassima", sottolinea Magherini.
"Se Stefano Cucchi è morto per colpa dei miei colleghi Carabinieri io non posso più tacere". Nove anni di silenzi. Poi uno degli agenti imputati rompe il muro di omertà sulla morte del giovane. E rivela i pestaggi subiti dal ragazzo. Parla il suo avvocato per la prima volta. Giovanni Tizian il 21 maggio 2019 su La Repubblica. Francesco Tedesco: «Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto». Eugenio Pini è l’avvocato di Francesco Tedesco, il carabiniere che ha rotto il muro dell’omertà sul caso Cucchi, il geometra romano morto dopo l’arresto da parte dei carabinieri nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Avremmo voluto intervistarlo, ma l’Arma non glielo permette. E così abbiamo chiesto al suo avvocato di raccontarci la genesi di una denuncia che ha sovvertito le regole interne e non scritte degli apparati militari: il silenzio sui misfatti che riguardano le forze armate. Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”». Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi. «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare». In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo». «Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano». È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro». Il vicebrigadiere non è solo imputato a Roma. È stato sospeso per cinque anni. Su di lui pesa un procedimento disciplinare e rischia peraltro la destituzione. Che ne sarà di lui dipenderà molto dalle decisioni che assumerà l’Arma guidata dal generale Giovanni Nistri, che ha annunciato di volersi costituire parte civile nel futuro processo per i depistaggi architettati dagli ufficiali per coprire il pestaggio di Stefano Cucchi. Il futuro di Tedesco sarà nell’Arma? «È molto sconfortato. Vorrebbe tornare in servizio ma teme che non gli verrà consentito. Non posso però tacere che Tedesco è anche l’esempio che l’Arma ha anticorpi per superare pagine come queste. Lui ha sempre detto che i colleghi non si dovevano permettere di toccare Stefano Cucchi. Perciò sostengo che Francesco Tedesco si sia messo a difesa di un ultimo (come la famiglia ha definito Stefano Cucchi) in un ambiente nel quale la possibilità dell’impunità è elevata. Tedesco è il carabiniere che ha difeso, soccorso e protetto Cucchi e che immediatamente ha denunciato il fatto prima oralmente e poi con un annotazione di servizio. Da quel momento nove anni di silenzio e di sofferenza. Credo che questi siano elementi meritori che l’Arma dovrà considerare». Spetta al comandante generale Giovanni Nistri valutare la posizione di Tedesco. Pini è ottimista, perché con Nistri le cose sono cambiate: «Credo che il generale abbia gestito il caso Cucchi con rispetto delle Istituzioni e dell’Autorità Giudiziaria». Negli anni precedenti non è stato così. E il terrore che ha frenato Tedesco per nove lunghi anni ne è la dimostrazione.
Stefano Cucchi e quella verità raggiunta dopo dieci anni. Ma non è ancora finita. Il primo grado riconosce l'omicidio preterintenzionale da parte di due agenti. Gli esecutori del pestaggio sono stati condannati a 12 anni e il super testimone assolto dal reato più grave. Ora il prossimo passo è accertare le responsabilità di chi ha depistato per tutto questo tempo. Giovanni Tizian il 15 novembre 2019 su La Repubblica. Dieci anni per ottenere verità e giustizia. Dieci anni per chiarire una volta per tutte che Stefano Cucchi non è morto di droga. È stato ucciso della botte dei carabinieri. Due di loro sono stati condannati a 12 anni: Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Il processo di primo grado che si è concluso con il riconoscimento da parte della corte del reato di omicidio preterintenzionale ha avuto la sua svolta ad aprile scorso. Quando cioè Francesco Tedesco uno dei militari presenti quella notte, per troppo tempo ostaggio del silenzio corporativo dell’Arma, durante la sua testimonianza da imputato ha deciso di dire la verità. Non ha retto più il peso della menzogna. Da quel momento si è aperto uno squarcio profondo nel muro di gomma alzato dall’Arma anche attraverso falsi ripetuti e depistaggi, per i quali si aprirà un nuovo processo. Le parole di Tedesco sono crollate come macigni sulle spalle dei suoi colleghi, forti della protezioni ricevute nei dieci anni dal pestaggio di Cucchi. L’Espresso aveva intervistato l’avvocato Eugenio Pini, che segue Tedesco e lo ha accompagnato nel percorso di “pentimento”. «Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto», ricordava con L’Espresso Eugenio Pini . Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”». Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi. «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare». In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo». «Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano». È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro». Anche l’avvocato parla di muro di gomma. Quel muro che cadrà definitivamente nel processo sui protagonisti dei depistaggi che per dieci anni hanno reso impossibile accertare la verità su quella notte iniziata in via Lemonia. Omissioni che portano il timbro della catena gerarchica dell’Arma.
Cucchi, la sorella: «Ci sono voluti 10 anni, ma forse ora Stefano può riposare in pace». Simona Musco il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. La sorella Ilaria: «è stato ucciso, lo abbiamo sempre saputo, ma ora I miei genitori potranno vivere più sereni». Il padre Giovanni: «non volevamo un colpevole, ma il colpevole». Ci sono voluti dieci anni, «ma Stefano ora può riposare in pace», dice sua sorella Ilaria dopo la lettura della sentenza. Un carabiniere, visibilmente commosso, le prende la mano e la bacia: «l’ho fatto perché finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia», sussurra il militare mentre accompagna i genitori di Stefano, con le lacrime agli occhi, fuori dal palazzone di Rebibbia. «Stefano è stato ucciso – continua Ilaria -, questo lo sapevamo e lo ripetiamo da 10 anni. Forse i miei genitori potranno vivere più sereni. Abbiamo mantenuto la promessa fatta a Stefano». Rita, sua madre, ha lo sguardo stanco. «Un po’ di sollievo dopo 10 anni di dolore e di processi non veri», dice abbracciando il marito. Giovanni, che al suo fianco a stento trattiene le lacrime. Rincorre il pm Giovanni Musarò per stringergli la mano prima che lasci l’aula bunker, anche lui stremato. «Volevo ringraziarla», afferma grato. «Questa sentenza parla chiaro a tutti aggiunge -. Non vogliamo un colpevole ma i colpevoli e finalmente li abbiamo». Fabio Anselmo, legale della famiglia e compagno di Ilaria, non ha dubbi: «era una verità talmente evidente che è stata negata per troppo tempo. Stefano è morto per le percosse subite». Ilaria pensa al carabiniere Riccardo Casamassima, che grazie alle sue rivelazioni ha aperto il processo. «Il nostro pensiero va a lui e alla moglie Maria Rosati, per tutto quello che stanno passando», sottolinea. Stefano non è caduto dalle scale, non ha avuto le convulsioni. Era un relitto di 37 chili, con la mandibola rotta e il corpo livido. Ad esultare è anche Francesco Tedesco, il carabiniere che ha fatto i nomi dei suoi colleghi. «La corte gli ha creduto: è stato un percorso partito con aspettative di legalità e finito con la realizzazione di queste aspettative», dicono i suoi legali, gli avvocati Eugenio Pini e Francesco Petrelli. Ma le difese promettono battaglia: i due carabinieri, giurano, sono estranei alla morte e faranno ricorso in appello. «Non ci fu pestaggio dice Maria Lampitella, difensore del carabiniere Raffaele D’Alessandro -. È una condanna ingiusta». Così come per Giosuè Naso, legale del maresciallo Roberto Mandolini. «Se non è escluso che sia morto per colpa dei medici come si può concepire una morte anche per omicidio preterintenzionale?».
Giovanni Cucchi, il papà di Stefano, e le condanne per omicidio: «Il suo corpo ha raccontato la verità». Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. La voce è tonica, le parole fluide: alle 20,30 Giovanni Cucchi è davanti al televisore di casa, con la moglie Rita a guardare i notiziari e aspettare di vedere Ilaria, ospite di «Porta a porta». «Sapete che effetto mi fa tutto questo viavai mediatico?»
No, quale?
«Rinvia l’appuntamento con il silenzio che presto o tardi arriverà anche se finora, in questi dieci anni, non c’è mai stato il tempo».
É un appuntamento con Stefano?
«Sì. Finora abbiamo dovuto combattere e siamo stati sempre circondati da gente: ci sono stati i media che hanno svolto un ruolo importante ma quando calerà questo caos allora mi troverò, ci troveremo soli con Stefano».
Quanto le manca?
«Ogni giorno».
Cosa prova in una giornata come questa?
«Un leggero sollievo».
Tutto qui? Vuol descriverci il suo stato d’animo?
«Sono stati anni di trincea. Ora avremo un po’ di pace: conforta».
Condanna per omicidio preterintenzionale e condanna per falso. Pestaggio e depistaggi. Cosa ne pensa?
«Possiamo cominciare a credere nella giustizia».
È scattata la prescrizione per i medici.
«L’esperienza di questi anni mi ha insegnato che la verità processuale è un’altra da quella sotto gli occhi di tutti. Per quella processuale occorrono le prove. Ma quei medici hanno grandi responsabilità. Che dire di un infermiere che non sa manovrare un catetere?».
Il primo processo si concluse con l’assoluzione degli agenti penitenziari. Per la morte di Stefano Cucchi nessun colpevole. Come si sentì?
«Me lo ricordo bene quel giorno. Uscii dal tribunale impietrito. Come se qualcosa dentro di me si fosse guastato. Non riuscivo a capacitarmi. Sa quel giorno cosa disse mia figlia?».
No, che disse?
«Disse rivolta a Fabio Anselmo: “Abbiamo vinto”. E lui rispose “Ma che dici?”. E lei: “Ma sì abbiamo vinto di fronte all’opinione pubblica”».
Un lungo calvario?
«Sì, ricordo l’invito del presidente del Senato Pietro Grasso. Disse: “Chi sa parli”. Iniziò con una piccola crepa, poi la crepa si allargò. E oggi...»
Luigi Manconi oggi era in aula, commosso anche lui.
«Gli ho detto grazie. É stato l’uomo che ci ha convinto a mostrare le foto di Stefano, noi non volevamo, pensavamo che a Stefano dispiacesse. Il suo corpo, in tutti questi anni, ha raccontato la verità».
Finalmente qualcuno vi ha creduto.
«I magistrati Giovanni Musarò e Giuseppe Pignatone hanno avuto l’audacia e il coraggio di riscattare la giustizia».
Stefano Cucchi, la sorella Ilaria valuta querela a Salvini: «La droga non c’entra». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto», afferma Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, i, dopo che commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, il leader leghista Matteo Salvini ha detto che rispetta la famiglia ma il caso «dimostra che la droga fa male». «Anch’io da madre sono contro la droga - ha aggiunto Ilaria Cucchi - ma Stefano non è morto di droga». Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi - ha aggiunto Ilaria Cucchi in diretta a Circo Massimo, su Radio Capital- ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini».
Stefano Cucchi, la sorella Ilaria pronta a querelare Matteo Salvini: "Mio fratello non è morto di droga". Il leader della Lega, commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte del ragazzo, ha detto che rispetta la famiglia ma il caso "dimostra che la droga fa male". La Repubblica il 15 novembre 2019. "Stefano non è morto di droga, cosa c'entra la droga?". Ilaria Cucchi non ci sta. Ed è pronta a querelare Matteo Salvini. Il leader della Lega, commentando la sentenza di condanna per i carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, ha detto che rispetta la famiglia ma il caso "dimostra che la droga fa male". "Che c'entra la droga? Salvini perde sempre l'occasione per stare zitto", ribatte Ilaria in diretta a Circo Massimo, su Radio Capital. "Anch'io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga. Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un'aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini". I due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro sono stati condannati ieri in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale nel processo per la morte di Stefano Cucchi. La sentenza è arrivata dopo dieci anni. Il reato contestato: omicidio colposo. Francesco Tedesco, che denunciò il pestaggio, imputato al processo, è stato condannato a due anni e sei mesi per falso ed assolto dall'accusa di omicidio. Il maresciallo Mandolini, condannato a tre anni 8 mesi per falso, assolto dalla calunnia. Accuse prescritte per 4 medici e una assoluzione. "Ora mio fratello riposa in pace", è stato il commento di Ilaria Cucchi. "Sono ancora frastornata, sono passati tanti anni in cui abbiamo sentito parlare di Stefano che era morto di suo. Sapere che oggi qualcuno è stato chiamato a rispondere per la sua morte e sapere oggi che in aula di giustizia, e voglio ricordare che Stefano è morto anche di giustizia, è stato riconosciuto che Stefano Cucchi è stato ucciso. Cosa che, sia io che tutti coloro che hanno voluto approfondire questa storia e non piegarsi alle ipocrisie, sapevamo fin dal principio. Però ci sono voluti dieci anni per farlo riconoscere in aula di giustizia". Prosegue Ilaria ai microfoni di RTL 102.5. Il baciamano ricevuto da un uomo dell'Arma "è stato un momento emozionante, perché racchiude un po' quello che diciamo da sempre - spiega -. Anche se da più fronti si è voluto far passare il concetto che noi fossimo in guerra con le istituzioni e con l'Arma dei Carabinieri, quello che sta accadendo oggi anche nel processo sui depistaggi, dimostra che non è così e anzi, tutt'altro. L'Arma dei Carabinieri è stata danneggiata quasi quanto la famiglia di Stefano Cucchi da ciò che è avvenuto". C'è anche l'attore Alessandro Borghi, che ha interpretato Stefano Cucchi nel film 'Sulla mia pelle', tra coloro che ieri sera hanno gioito per la sentenza. Borghi, che per prepararsi al film ha conosciuto bene la famiglia di Stefano e la loro vicenda giudiziaria, ha scritto sui social, una sorta di dedica della sentenza al ragazzo: "A Stefano. Sempre".
Ilaria Cucchi conferma: «Probabilmente querelerò Salvini». L’avvocato Fabio Anselmo: «La battaglia non è ancora finita». Il Dubbio il 17 novembre 2019. «Sì, probabilmente sì». Così conferma Ilaria Cucchi, rispondendo nel corso del programma “In mezz’ora in più” sui Raitre alla domanda della conduttrice Lucia Annunziata, sull’intenzione di querelare l’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini, per le sue dichiarazioni sulla morte del fratello Stefano a causa della droga. «Al di là di questo – aggiunge Ilaria -, Salvini delle volte mi fa sorridere, è davvero imbarazzante: nel giorno in cui, dopo dieci anni, c’erano state le condanne per omicidio preterintenzionale per la morte di mio fratello, lui vivendo forse in un’altra dimensione, ha minacciato una controquerela, continuando a parlare di droga. Anche a me fa paura la droga, ma mio fratello Stefano non è morto a causa della droga: questo lo abbiamo appurato nel processo anche se era chiaro fin dal principio; ora è ancora più chiaro». Per l’avvocato Fabio Anselmo – che è anche il compagno di Ilaria Cucchi – «è chiaro che si tratta di un’uscita pubblica che ha uno scopo comunicativo ben preciso: distrarre l’opinione pubblica da quello che era il nocciolo della notizia e cioè della vittoria della giustizia e della dimostrazione che aveva ragione la famiglia Cucchi. Semmai – aggiunge il legale – fa specie che il ministro dell’Interno era costituito parte civile nel processo e dunque Salvini deve veramente mettersi d’accordo con se stesso». «Abbiamo ottenuto una importante vittoria, però non è ancora finita: di questo dobbiamo essere consapevoli», ha aggiunto Anselmo. «Il processo non è finito, si è svolto soltanto il primo grado e ho ben memoria di cosa è successo in altre occasioni, con condanne in primo grado e in appello e poi una sentenza della Cassazione, ritenuta eccentrica un po’ da tutta la giurisprudenza, con cui sono state annullate tutte le sentenze. Purtroppo, considerando i vari gradi processuali, potremmo dire che la famiglia Cucchi sia stata “condannata” a una sorta di ergastolo giudiziario, nel senso degli anni che ancora ci vorranno da qui alla fine». «Anche io ho paura – confessa Ilaria Cucchi – ma il messaggio che dobbiamo lanciare è un messaggio di speranza: non bisogna mai smettere di credere nella verità e nella giustizia, bisogna sempre battersi fino in fondo per quello in cui crediamo, andando a testa alta, sfidando le istituzioni ma sempre nel rispetto delle stesse istituzioni».
Ilaria Cucchi pronta a querelare Salvini: «Stefano fu ucciso». Il leader della Lega: «Questa storia prova che la droga fa male». Simona Musco il 16 Novembre 2019 su Il Dubbio. «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto». Ilaria Cucchi non ci sta e preannuncia azioni legali contro Matteo Salvini che dopo la sentenza di condanna a 12 ai due carabinieri accusati di aver brutalmente pestato suo fratello, morto in ospedale sette giorni dopo l’arresto, si è lasciato andare ad un commento infelice e, soprattutto, fuori luogo: «questo caso testimonia che la droga fa male sempre», ha affermato, da Bologna, il leader leghista. Parole di troppo, che fanno riferimento al motivo per cui Cucchi, in quel momento, si trovava sotto custodia in un carcere di Roma: possesso di droga. Ma a causare la sua morte, secondo quanto stabilito dai giudici della Corte d’Assise di Roma, non è stata affatto la droga, né le convulsioni o l’eccessiva magrezza, bensì botte e percosse che hanno causato una violenta caduta a terra e la frattura di due vertebre, con conseguenze che lo portarono alla morte. Tant’è che i due militari sono stati condannati con l’accusa di omicidio preterintenzionale. «Anch’io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto di droga – ha sottolineato Ilaria Cucchi ai microfoni di “Circo Massimo”, su Radio Capital -. Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini». Sin da subito, l’ipotesi che a provocare la morte del giovane fossero stati uomini dello Stato provocò levate di scudi da parte di diversi esponenti della politica. Da Carlo Giovanardi, secondo cui «la causa delle lesioni è la malnutrizione», avendo avuto «una vita sfortunata», passando per Ignazio La Russa, certo del «comportamento corretto dei carabinieri». Fino a Salvini, secondo cui è «difficile pensare che in questo, come in altri casi, ci siano stati poliziotti o carabinieri che per il gusto di pestare abbiano pestato». Posizioni mantenute dai protagonisti anche dopo la pubblicazione delle foto che ritraevano il giovane disteso sul lettino dell’obitorio, con il viso sfigurato, livido all’inverosimile. Uno corpo di soli 37 chili mezzo fratturato e ormai senza vita. E quel corpo era ridotto così per un pestaggio, secondo la famiglia. Un pestaggio confermato poi dal carabiniere Riccardo Casamassima, che nel 2016 consentì al pm Giovanni Musarò di riaprire l’inchiesta accusando i colleghi e, ad aprile scorso, anche da uno degli imputati, Francesco Tedesco, che ha indicato in Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro gli autori di quella aggressione. Da Bologna, a chi gli chiedeva se non fosse il caso di chiedere scusa alla sorella di Stefano Cucchi, Salvini ha risposto cercando di rimanere fermo sulla propria posizione. «Scuse? Perché, io ho ucciso qualcuno? Ho invitato la sorella al Viminale, in Italia chi sbaglia, paga. Però non posso chiedere scusa per eventuali errori altrui – ha affermato -. Se qualcuno l’ha fatto, ha sbagliato e pagherà», ha detto riferendosi alle violenze dei carabinieri. Aggiungendo: «Ma io devo chiedere scusa anche per il buco dell’ozono? Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga, posso dirlo? Io sono contro lo spaccio di droga sempre e comunque» . «Sono ancora frastornata – ha commentato Ilaria Cucchi ai microfoni di Rtl -. Sono passati tanti anni in cui abbiamo sentito parlare di Stefano che era morto di suo. Sapere che oggi qualcuno è stato chiamato a rispondere per la sua morte e sapere oggi che in un’aula di giustizia, e voglio ricordare che Stefano è morto anche di giustizia, è stato riconosciuto che Stefano Cucchi è stato ucciso. Cosa che, sia io che tutti coloro che hanno voluto approfondire questa storia e non piegarsi alle ipocrisie, sapevamo fin dal principio. Però ci sono voluti dieci anni per farlo riconoscere in aula di giustizia». Le parole di Salvini hanno subito fatto insorgere la politica. Dal sindaco di Roma, Virginia Raggi, che le ha definite «vergognose», al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra, che si è posto la stessa domanda di Ilaria Cucchi. «Cosa c’entra la droga? – ha scritto sul suo profilo Facebook – Il giudice ha detto che Stefano è stato ammazzato da mani umane. Potresti chiedere scusa alla famiglia Cucchi. Sarebbero le tue uniche parole sensate in tutta questa vicenda. Ma non lo fai perché non conosci umiltà e vergogna, perché non sai cosa sia l’umanità dell’errore e del riconoscere le proprie responsabilità. Cinicamente vuoi apparire invincibile. In realtà sei solo inguardabile per la strafottenza che ostenti». E il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha rincarato la dose. «Salvini, non puoi dire che la sentenza su Cucchi dimostra che la droga fa male. Cosa significa? Che se uno sbaglia nella vita deve essere pestato a morte? Credo che sarebbe meglio porgere le scuse…». Mentre Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana- Leu, ha invitato Salvini a vergognarsi. «Quanta differenza ha detto – fra la compostezza e la dignità della famiglia Cucchi e l’arroganza, il cinismo, le trivialità e le meschinità di un Salvini qualunque».
Francesca Bernasconi per il Giornale il 19 novembre 2019. Ilaria Cucchi ha deciso di presentare querela nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Dopo aver appreso della condanna a 12 anni per i due carabinieri, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, il leader della Lega aveva affermato: "Questo testimonia che la droga fa male, sono contro lo spaccio sempre e comunque". La sorella del 31enne morto nel 2009, a seguito di un pestaggio, avvenuto in caserma a Casilina, aveva già annunciato la volontà di sporgere querela nei confronti dell'ex vicepremier. Lo scorso 14 novembre, i militari dell'Arma Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, sono stati condannati a 12 anni di carcere, per l'omicidio colposo di Stefano Cucchi. Decaduta invece l'accusa di omicidio per Francesco Tedesco, che aveva denunciato il pestaggio, falsificando i verbali: per lui la condanna è di 2 anni e 6 mesi. È stato assolto dall'accusa di calunnia il maresciallo Mandolini, che è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per falso. A seguito della sentenza, Matteo Salvini aveva commentato la condanna, sostenendo che "se qualcuno ha usato violenza, ha sbagliato e pagherà. In divisa e non in divisa". Poi, aveva aggiunto: "Sono vicinissimo alla famiglia, ho invitato la sorella al Viminale. Per quel che mi riguarda, come senatore e come padre, combatterò la droga. Questo testimonia che la droga fa male, sono contro lo spaccio sempre e comunque". Una dichiarazione, che aveva fatto indignare la sorella della vittima, che aveva risposto al leader del Carroccio, durante un'intervista a Radio Capital: "Salvini perde sempre l'occasione per stare zitto. Anche io da madre sono contro la droga, ma Stefano non è morto per droga. Chiaramente non c'entra assolutamente nulla, va contro questo pregiudizio, va contro questi personaggi. Noi abbiamo dovuto batterci per anni. Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un'aula di giustizia e non escludo che uno di questi possa essere proprio Salvini". E infatti, oggi arriva la notizia della querela. A renderlo noto è la stessa Ilaria, tramite un post su Facebook: "Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi", scrive la donna. "Stefano Cucchi ha sbagliato ed avrebbe dovuto pagare ma non morire in quel modo - continua Ilaria Cucchi -Il giorno in cui viene pronunciata la sentenza ha il coraggio di dire quelle parole come se fosse al bar e parlasse ai suoi amici? Sono solo una normale cittadina e non posso fare altro che querelarlo". Ma Matteo Salvini non sembra essersi lasciato intimorire e risponde: "Me ne farò una ragione, mi ha querelato anche Carola Rackete. Dopo le minacce di morte dei Casamonica, i proiettili in busta e le scritte sui muri, non è una querela a farmi paura anzi". Poi aggiunge: "Andremo avanti perchè il Parlamento approvi la legge 'droga zero' per cancellare la droga, gli spacciatori di droga da ogni angolo della città". E in quelle parole ("Il caso dimostra che la droga fa male") il leader della Lega non ha mai letto una provocazione: "Io combatto ogni genere di droga in ogni piazza italiana, punto. La sentenza ha fatto giustizia chi ha sbagliato ha pagato".
Ilaria Cucchi e la foto della querela a Salvini: «Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. «Ora basta. Lo devo a Stefano, a mio padre ma soprattutto a mia madre. Questo signore deve smetterla di fare spettacolo sulla nostra pelle». Poche parole, postate su Twitter, accompagnate da una fotografia. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha pubblicato le immagini della querela nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, annunciata nei giorni scorsi. Dopo la sentenza di condanna a 12 anni per i due carabinieri, accusati dell'omicidio di Cucchi, Salvini aveva affermato che il caso testimonia che «la droga fa male sempre». Cucchi ha presentato una denuncia — formalizzata attraverso il legale Fabio Anselmo — «nei confronti di Matteo Salvini, nonché di chiunque altro venga ritenuto responsabile» per il reato di diffamazione. «Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi. Non posso consentirglielo. Questo era il suo volto quando io e i miei genitori lo vedemmo all'obitorio il 22 ottobre del 2009. Questo era quel che rimaneva di Stefano. Dei suoi diritti. Della sua dignità di essere umano», aveva scritto subito dopo su Facebook la sorella del ragioniere romano morto dieci anni fa dopo l'arresto, postando l'immagine drammatica dell'autopsia del fratello. «Lo devo a mia madre che, pur estremamente sofferente, ha trascorso tutta la giornata del 14 novembre scorso in attesa di una sentenza che ci rendesse giustizia. Lo devo a mio padre la cui fiducia nello Stato ha fatto sì che compisse il sacrificio più pesante che si potesse chiedergli: denunciare il proprio figlio, da morto e dopo averlo visto in queste terribili condizioni, per la sostanza stupefacente trovata a casa sua». «Dopo Carola Rackete, mi querela la signora Cucchi? Nessun problema, sono tranquillissimo, dopo le minacce di morte dei Casamonica e i proiettili in busta, non è certo una querela a mettermi paura», aveva replicato il segretario della Lega. Provocazione? «Io combatto ogni genere di droga in ogni piazza italiana, punto. La sentenza ha fatto giustizia, chi ha sbagliato ha pagato».
Minacce di morte a Ilaria Cucchi: «Salvini che ne pensa?» Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. Una pallottola in testa. È l’auspicio contenuto in un messaggio di morte, scritto nero su bianco, indirizzato a Ilaria Cucchi a 24 ore dall’annuncio della querela nei confronti del leader della Lega, Matteo Salvini. Ed è proprio all’ex ministro che si rivolge la sorella di Stefano, il ragazzo per la cui morte sono stati condannati due carabinieri, pubblicando l’immagine in cui le viene augurata la morte. «Chiedo a Matteo Salvini e a tutti gli iscritti alla Lega cosa pensano di questo post - scrive Ilaria -. Dato che viene da un soggetto che ha un profilo nel quale si dichiara loro sostenitore. Non posso far altro che denunciare ma mi rendo conto che di fronte a tutto questo io e la mia famiglia siamo senza tutela». Il post («a sta str...a qualcuno metterà una palla in testa prima o poi, a prescindere da quest’ultima stronzata») è stato pubblicato da un account che ha tutte le caratteristiche dell’odiatore seriale, probabilmente creato ad hoc per diffondere messaggi diffamatori e minacce sui social, come troppo spesso accade. Quello rilanciato da Ilaria Cucchi non è l’unico messaggio minatorio indirizzato alla donna, tirata in ballo già il 19 novembre scorso, commentando l’intenzione della sorella di Stefano di querelare Salvini. «Insistendo, insistendo otterrà quello che vorrà», aveva scritto aggiungendo l’emoticon di un diavolo. Innumerevoli i post contro il movimento delle Sardine e a favore della Lega e del suo leader. In un paio di messaggi auspicava un attentato alle moschee o al parlamento europeo tanto da essere sospeso da Facebook più di una volta. Esattamente come accaduto subito dopo la sentenza di condanna dei carabinieri, e come ribadito ieri dopo l’annuncio della querela partita da Ilaria Cucchi, anche oggi Matteo Salvini è tornato a rilanciare la stessa identica dichiarazione, senza citare direttamente il caso Cucchi. «La droga fa male sempre e comunque - ha detto -, spero di non essere denunciato se il sabato pomeriggio denuncio che la droga fa male, sempre e comunque». Proprio ieri la stessa Ilaria era tornata a chiedere di interrompere lo «spettacolo» dell’ex ministro «sulla pelle» della famiglia Cucchi, depositando ufficialmente la querela contro l’ex vicepremier e contro chiunque infanghi il nome di Stefano.
Lettera aperta a Ilaria Cucchi. Il Corriere del Giorno il 15 Novembre 2019. Un allievo ufficiale dei Carabinieri dell’Accademia Militare scrive senza firmarsi a Ilaria Cucchi, il cui comportamento è del tutto riprovevole. "Cara Sig.ra Ilaria Cucchi, sono un carabiniere senza infamia e senza lode, un onesto lavoratore, e volevo dirle che poche parole si possono trovare per commentare questa assurda tragedia, stante che quanto accaduto a suo fratello è qualcosa di aberrante, atroce, ingiusto, qualcosa che non avrebbe mai dovuto succedere. Lei non ha mollato fino alla fine e grazie alla sua caparbietà ora giustizia è stata fatta. Chi ha pestato e ucciso Stefano non era evidentemente degno di portare la divisa che indossava. Ma questi soggetti non devono pagare solo per Cucchi, per Lei e per i suoi familiari, devono pagare per tutti quegli uomini che dentro quella divisa ci mettono l’anima, il cuore, il sudore e molto spesso ci rimettono la loro stessa vita, per il bene di tutti e ciò per pochi soldi. Perchè il loro è un sacrificio quotidiano che non puó e non deve essere infangato da 4 delinquenti. Suo fratello meritava di più, meritava assistenza, aiuto, comprensione, meritava di tentare l’ennesimo percorso di recupero e non certo di morire in questo modo. Cara Sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi però che quando suo fratello è stato arrestato ed a sua madre è stato chiesto di nominare un avvocato di fiducia, in risposta, al telefono, sono volati solo insulti nei confronti di Stefano, e sua madre aggiunse che “non avrebbe speso altri soldi per quel delinquente di suo figlio e avrebbe dovuto fare avanti il barbone per strada”. Cara sig.ra Ilaria Cucchi, non dimentichi che fu lei a non far vedere i nipoti a Stefano da ben 2 anni, certo per proteggerli da lui, dal suo stato di tossicodipendenza, da suo fratello che frequentava ambienti loschi, e fu sempre lei che non volle più nella sua vita, ed anche tutta la sua famiglia emarginò ed abbandono. Rimase così solo e perduto come un cane randagio. Mi preme però osservare che dalla terribile morte di suo fratello Lei è riuscita comunque a costruirsi un personaggio mediatico, conseguendo anche un giusto rimborso di un milione di euro (somma che certo non la ripaga di quanto sofferto e perduto). Vorrei dirle che ha ottenuto una vittoria insperata, incredibilmente grande e giusta e grazie a lei verranno perseguiti dei delinquenti che non meritavano di vestire la divisa che indossavano. La “pulizia” andava fatta (anche per i fiancheggiatori) ed era sacrosanta. Dispiace però un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli, non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano; Lei se ne disinteressò ed ora invece, da quando si è candidata per la sinistra, ora suo fratello è diventato la persona più cara che avesse mai avuto al mondo! Un eroe! Una perdita immensa! No sig.ra Ilaria, Stefano non era un eroe, gli eroi son altri, era solo un ragazzo che meritava di essere compreso e aiutato, anche se si era perduto. Forse sarebbe stato meglio dimostrarsi caparbia anche nei tragici momenti della dipendenza, quando era un ragazzo allo sbando e finì nelle mani dei suoi aguzzini, ovvero preoccuparsi di lui prima di tutto ciò, prima che tutto diventasse “troppo tardi“! Stefano aveva tanto bisogno della sua grande caparbietà!!!! Ma ormai è troppo tardi per tutti! Da questa vicenda ne usciamo sconfitti tutti quanti, tutta la nostra società, Lei compresa. Da par mio spero di continuare a servire il mio paese nel miglior modo possibile: la morte di Stefano ha insegnato a me e ad altri tante cose, per non errare di nuovo in futuro. Spero che tale insegnamento abbia raggiunto anche Lei! Firmato: un carabiniere qualunque". (La lettera non è firmata e circola sul web, ma interpreta il comune sentire di milioni di cittadini).
Cucchi, parla per la prima volta il generale Gallitelli: «Quei militari hanno tradito l’Arma». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Sono addolorato per l’afflizione della famiglia Cucchi, provocata da chi ha commesso violenze, ha tradito la verità e con essa anche l’Arma», dice in tono grave il generale Leonardo Gallitelli. Tra il 2009 e il 2015 — dunque al tempo dell’arresto, del pestaggio, della morte di Stefano Cucchi e dei falsi con cui si tentò di inquinare le prove — è stato comandante dei Carabinieri, e raggiunto dopo la sentenza che per quei fatti ha condannato quattro appartenenti all’Arma concede solo questo rapido e sofferto commento. Ammettendo e stigmatizzando per la prima volta, dopo dieci anni di riserbo, responsabilità e reati che non si fermano all’omicidio preterintenzionale, ma comprendono anche le bugie contenute nei primi atti sul fermo di Cucchi redatti dagli imputati. Gallitelli sa bene che le manomissioni della verità da parte di ufficiali e sottufficiali dell’Arma, secondo quanto emerso dalle indagini della Procura di Roma, vanno oltre il verdetto dell’altro ieri, e saranno giudicate nel processo contro altri otto carabinieri che comincerà tra un mese. Di quello però il generale in pensione non vuole e non può parlare: il suo nome è inserito nella lista testi presentata dai legali dei Cucchi, e dunque è possibile che sia chiamato a deporre in tribunale. Tuttavia la reazione alle quattro condanne di altrettanti uomini in divisa si inserisce nel solco di quella dell’attuale comandante, Giovanni Nistri. Che oltre a ribadire solidarietà alla famiglia della vittima, s’è costituito parte civile nel processo sui depistaggi. La parola chiave è «tradimento» dei doveri e dei valori dell’Arma. Addebitato ai responsabili (seppure ancora solo nel giudizio di primo grado) sia della morte di Cucchi — i carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo — sia a chi ha sottoscritto i falsi contenti nel verbale d’arresto del detenuto: il maresciallo ex comandante di stazione Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, che confessò di aver assistito al pestaggio con nove anni di ritardo (le false testimonianze commesse durante il processo agli agenti penitenziari poi assolti, invece, sono state giudicate non punibili dalla Corte d’Assise). Ma in un Paese dove la macchina della propaganda elettorale è sempre in moto, la sentenza finisce per alimentare anche le immancabili polemiche politiche. L’ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini non fa in tempo a esprimere vicinanza ai Cucchi che aggiunge: «Questo dimostra che la droga fa male, sempre e comunque, e io combatto lo spaccio di droga, sempre e comunque». Una postilla che solleva l’indignazione di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano con cui il capo leghista aveva già battibeccato quando disse che un suo messaggio su facebook «faceva schifo». Ieri Ilaria ha replicato: «Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto», annunciando la possibilità di querelare l’ex ministro. La famiglia di Stefano non ha mai negato che avesse avuto in passato problemi di droga, né che fosse uno spacciatore. La sera dell’arresto Cucchi, sorpreso a cedere due «canne» a un amico, aveva con sé 20 grammi di hashish e 2 di cocaina. Ma soprattutto, all’indomani del decesso sono stati i genitori a scoprire, nella casa in cui abitava da solo, oltre un etto di cocaina e quasi un chilo di hashish, non recuperati dai carabinieri. Potevano distruggere la droga e nessuno ne avrebbe saputo niente, invece l’hanno consegnata alla polizia, di fatto denunciando il figlio dopo la sua morte. Avvenuta — secondo la sentenza di giovedì — come conseguenza del pestaggio, che nulla aveva a che vedere con lo spaccio. La frase di Salvini ha riacceso lo scontro con gli ex alleati del Movimento Cinque Stelle: Luigi Di Maio e Nicola Morra lo invitano a chiedere scusa alla famiglia Cucchi, mentre la sindaca di Roma Virginia Raggi definisce «vergognose le parole di Matteo Salvini su Stefano Cucchi».
Cucchi, bufera sul vicepresidente del Consiglio regionale Palozzi: "La sorella sfrutta il fratello tossico". Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. È bufera sul vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Adriano Palozzi. Il totiano è finito nel mirino delle critiche per aver accusato la sorella di Stefano Cucchi di aver sfruttato la tragedia per un briciolo di notorietà. "Stefano ha avuto finalmente giustizia (Bah)! La sorella finalmente è soddisfatta e si lancia in una nuova e brillante carriera politica o nello spettacolo (insomma cerca un modo per guadagnare) - scrive sul suo profilo Facebook a ridosso della sentenza che condanna due carabinieri -. Stefano Cucchi sarà anche stato maltrattato e per questo ci sono state delle condanne (giuste? Bah)! Va però ricordato che non parliamo di uno studente modello o di un bravo ragazzo di città bensì di un tossico preso con 20 grammi di hashish e con alcune dosi di cocaina destinate evidentemente allo spaccio e pure abbastanza spocchioso!". Poi Palozzi conclude il discorso con un'altra durissima frase: "Per carità nessuno può morire e deve morire di botte ma neanche può passare per vittima o per eroe lui e tantomeno la sorella che sta sfruttando il fratello tossico per il proprio successo!". A replicare ci ha pensato il segretario del Pd del Lazio, il senatore Bruno Astorre. "Non varrebbe la pena replicare né fare polemica con chi immagino sia in cerca di visibilità sfruttando il dramma di una famiglia - fa sapere in una nota -. Voglio, tuttavia, ringraziare Ilaria Cucchi per aver combattuto una battaglia di civiltà, sui diritti che ha aiutato tutto il Paese a compiere passi avanti nelle coscienze di ciascuno perché lo stato di diritto vale per tutti anche per chi specula sui drammi".
Matteo Salvini a Ilaria Cucchi: "Mi quereli pure, la droga fa male. Punto". La sfida è totale. Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Dopo la querela presentata da Ilaria Cucchi nei suoi confronti, Matteo Salvini non arretra di un millimetro. Il leader della Lega, dopo la condanna di due carabinieri a 12 anni per l'omicidio di Stefano Cucchi, aveva commentato la sentenza dicendo che "la droga fa sempre male". Parole per le quali, come detto, la Cucchi lo ha querelato. E oggi, mercoledì 20 novembre, alla Camera per presentare degli emendamenti alla manovra sul comparto sicurezza, Salvini è stato interpellato sulla querela: "Ilaria Cucchi? Non entro nella mente di nessuno, la droga fa male, punto. E combatto la droga ovunque e comunque, punto. A meno che qualcuno mi dimostri che la droga fa bene". Insomma, Salvini ribadisce il concetto dopo la querela. Quindi, aggiunge: "La giustizia sta facendo il suo corso, che poi la droga non aiuti i nostri ragazzi mi sembra evidente. No, lo ripeto ogni giorno: la droga fa male, la droga fa male. Se poi secondo lei la droga fa bene abbiamo due punti di vista scientificamente diversi". E ancora, sui carabinieri condannati: "Se qualcuno ha sbagliato andrà in galera, alla fine del percorso. Ribadisco che la droga fa male. Se qualcuno dei qui presenti sostiene che la droga faccia bene sono disposto ad un dibattito accademico". Un giornalista, infine, dice rivolgendosi al ministro dell'Interno che accostare le due cose non ha senso: "Se vuole andare avanti a farmi la stessa domanda, le do la stessa risposta", conclude Matteo Salvini, tranchant.
Ilaria Cucchi: «Candidata sindaco a Roma? Ecco cosa volevo dire». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. «Ho detto che sono pronta a presentarmi come sindaco di Roma purché tutti i partiti facciano un passo indietro. Più una provocazione che altro e infatti sono rimasta a casa. Ora penso a godermi questo momento di riconciliazione con me stessa. Avevamo ragione noi, faccio ancora fatica a pensare che ce l’abbiamo fatta». Con queste parole Ilaria Cucchi è intervenuta durante il programma Lavori in Corso in onda su Radio Radio e Radio Tv, commentando la recente condanna a 12 anni dei due carabinieri accusati dell’omicidio preterintenzionale del fratello. Nel corso dell’intervista, è poi tornata ad attaccare l’ex ministro dell’Interno che aveva affermato «il caso testimonia che la droga fa male». Matteo Salvini —ha chiarito Cucchi — «fa speculazione su mio fratello, è uno sciacallo. Fa politica di basso livello sulla morte di mio fratello e sulla nostra storia. Arriva al punto di parlare ancora di droga nel momento in cui sono state emesse le sentenze di condanna per omicidio dopo dieci anni dalla morte di mio fratello». Ma che ci vuole dire — ha aggiunto — «che i drogati devono essere uccisi? Secondo me lui è completamente fuori dal mondo». Il giorno della sentenza, ha raccontato, «mia madre che sta molto male è rimasta tantissime ore in quell’udienza ad aspettare la pronuncia. Mio padre è una persona talmente per bene e onesta che a pochi giorni dalla morte di Stefano ha denunciato suo figlio per aver trovato un quantitativo di droga nella sua abitazione di Morena. Questa è la nostra famiglia. Anche io da madre ho paura della droga, anche io sono contraria, ma qui parliamo di omicidio preterintenzionale non di droga». E ha concluso: «Salvini si preoccupi di casa sua, pensi a loro, non alla mia famiglia. Probabilmente sarà ancora sotto gli effetti del mojito. La querela — ha concluso — è in via di presentazione».
Sentenza Cucchi, la frase di Salvini applicata a Salvini: anche rubare fa male. Francesco Oggiano il 19/11/2019 su Notizie.it. Immaginate che Matteo Salvini venga convocato in Procura per riferire sui 49 milioni rubati dalla Lega e nascosti ai cittadini italiani. E che durante l’interrogatorio venga picchiato dagli agenti di Polizia. Ora immaginate che un esponente politico avversario, anziché gridare allo scandalo, condannare i colpevoli e chiedere giustizia, commenti: “Questo prova che il furto fa male”.
La pseoudoideologia portata avanti dalla destra. Pressapoco il medesimo, è il senso logico adottato da Salvini dopo la condanna dei poliziotti per il pestaggio di Cucchi. “Il caso dimostra che la droga fa male”. Davanti alla querela annunciata dalla sorella Ilaria, il leader leghista ha rilanciato e ha offerto una pratica lezione di giornalismo: “Ancora adesso si ricorda qualcuno che sarebbe stato (occhio al condizionale, ndr), in passato, malmenato (occhio pure al verbo, ndr) dalle forze dell’ordine, però scommetto che oggi quasi nessun giornale, quasi nessun telegiornale ricorderà che proprio il 19 novembre di 50 anni fa fu ucciso il primo poliziotto a Milano, Antonio Annarumma”.
Però, continua, “Si rompono le scatole a qualcuno se dice che la droga fa male”. È l’ultimo rifugio della pseudoideologia portata avanti a pappagallo da diversi esponenti di destra in questi anni, che hanno voluto marcare la tossicodipendenza della vittima per cercare di renderla un po’ meno vittima, una frase alla volta. Tra le più assurde: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze“, Gianni Tonelli, leghista ed ex capo del sindacato di polizia Sap. “Chi ha aiutato Cucchi a uscire dalla droga? Se avessero dedicato a lui allora un decimo dell’attenzione di oggi, sarebbe ancora vivo”, Maurizio Gasparri. “Cucchi era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente”, Roberto Formigoni. “Se Cucchi avesse condotto una vita sana, se non si fosse drogato, se non fosse entrato in un tunnel che poi l’ha portato agli arresti, non sarebbe successo”, Carlo Giovanardi. Ora ci è tutto chiaro: l’hanno massacrato di botte coi panetti di fumo.
Carlo Cambi per “la Verità” il 5 dicembre 2019. La droga fa male? È comunque una storia di dipendenza. Perché dipende: se la droga serve a sottacere che quattro africani clandestini hanno stuprato e ammazzato una quasi-bambina di 16 anni, se è utile a non far emergere che con l' immigrazione abbiamo importato la mafia nigeriana e che un nigeriano ha fatto a pezzi una ragazzina di 18 anni, oppure se va rimossa da una storiaccia di botte e di violenza finita con la morte di un uomo, ancora più grave se a picchiare è chi porta una divisa della Repubblica Italiana. Sono tutte storie di droga, ma c' è una certa differenza. In due è in dosi mortali, in una è solo uno sfumato fondale della scena del delitto. Lo spunto per rifletterci lo ha fornito l'house organ del politicamente corretto. Per annunciare il processo cominciato in Corte d' assise a Roma per l' uccisione di Desirée Mariottini, 16 anni, ieri Repubblica ha dedicato una mezza pagina a un' intervista a Barbara Mariottini, la mamma della quasi-bambina ammazzata. Non c' è una riga sul fatto che ieri mattina nell' aula bunker del carcere di Rebibbia sono comparsi come imputati con l' accusa di omicidio volontario aggravato, violenza carnale aggravata, cessione di stupefacenti a minori quattro africani: Alinno Chima, Mamadou Gara, Yussef Salia e Brian Minthe. Per l' accusa sono loro ad aver prima drogato Desirée con un cocktail micidiale di stupefacenti, poi abusato a turno e per ore della ragazza e infine ucciso quella quasi-bambina. Tutto è avvenuto la sera del 19 ottobre di un anno fa in uno stabile abbandonato a San Lorenzo, a due passi dalla Stazione Termini. Quello è un luogo proibito anche alle forze dell' ordine: lì bivaccano i clandestini, lì il domino è delle bande di criminali africani che spacciano. Ma per Repubblica che ha un tono contrito con mamma Roberta tanto da non fare nessuna domanda sui presunti assassini, Desirée è stata ammazzata dalla droga. Nell' intervista si cerca di scavare nel passato di quella quasi-bambina. Che passato può essere quello di una creatura che ha vissuto 190 mesi? Eppure c' è spazio solo per determinare come Desirée ha cominciato a usare psicotropi, o per sapere da una mamma che ha perso una figlia massacrata da quattro spacciatori clandestini se è giusto denunciare un figlio che si droga per salvarlo. Perché la morte di Desirée è come l' intervista: stupefacente. Se ne conclude che Repubblica ha scoperto e ribadisce che la droga fa male. Ma dipende. Perché quando Matteo Salvini da ministro dell' Interno lo ha detto a proposito dell' uccisione di Stefano Cucchi gli sono saltati addosso tutti. Per prima la sorella del geometra arrestato per spaccio, Ilaria Cucchi, che nei giorni scorsi si è fatta fotografare con la querela depositata contro Salvini. Che cosa aveva detto il capo della Lega? Commentando la sentenza di condanna di cinque carabinieri, di cui due per omicidio preterintenzionale, pronunciata dalla Corte d' Assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi procurata - così hanno stabilito i giudici - dalle botte che l' uomo ha ricevuto in caserma dopo il suo arresto per spaccio Salvini aveva affermato: «Sono vicinissimo alla famiglia, la sorella l' ho invitata al Viminale. Se qualcuno ha usato violenza ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la droga fa male, sempre e comunque. E io combatto la droga in ogni piazza». Ma a Ilaria Cucchi questo non è piaciuto affatto. Perché come ha scritto su Facebook la sorella: «Il signor Matteo Salvini non può giocare sul corpo di Stefano Cucchi. Non posso consentirglielo». Ed è certamente vero che la morte di Stefano Cucchi - il 22 ottobre di dieci anni fa - è avvenuta dopo l'arresto e il ricovero al Pertini di Roma, ma è del pari vero che il geometra romano aveva precedenti per spaccio. E allora la droga fa male? Dipende: dal caso Cucchi la droga è sparita. Il racconto era altro perché è aberrante che un arrestato venga pestato a morte. Non è accettabile che uomini in divisa che devono difendere la legge e portano le insegne della Repubblica si macchino di una così feroce violenza. Ma allora perché la droga e solo la droga emerge nel caso di Desirée? È inaccettabile che quattro immigrati africani uccidano una quasi bambina attirandola con gli stupefacenti e facciano scempio della sua adolescenza. Ma è un dejà vu. Pamela Mastropietro, la diciottenne romana drogata, violentata e ammazzata a Macerata il 31 gennaio 2018 e il cui corpo fu ritrovato fatto a pezzi in due trolley. Per il delitto sconta l' ergastolo Innocent Oseghale un nigeriano spacciatore anche lui arrivato da clandestino. Si sospetta che sia un esponente della mafia nigeriana, ma la Procura lo ha sempre smentito. Anche lo scempio di Pamela si è cercato di spiegarlo con la droga. Lei, si è detto in ambienti della sinistra, era una povera tossicodipendente. Pamela, Desirée sono morte perché la droga fa male. Anzi crea dipendenza. Perché dipende se serve al politicamente corretto.
· Stefano Cucchi: La violenza e la malacura.
Stefano Cucchi, l’avvocato di Tedesco: “Non è rimasto inerte davanti al pestaggio. Piccola rondella di un ingranaggio potente”. Alla fine della sua arringa l'avvocato ha chiesto l'assoluzione dall’omicidio preterintenzionale con la formula "per non aver commesso il fatto". Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto l'assoluzione dall’accusa di omicidio preterintenzionale "per non aver commesso il fatto" e la condanna a 3 anni e mezzo per l’accusa di falso. Il Fatto Quotidiano il 29 ottobre 2019. “Francesco Tedesco non è rimasto inerte davanti al pestaggio di Cucchi, lo stavano massacrando di botte, Tedesco intima a Di Bernardo e D’Alessandro di smetterla, non vi permettete dice, e riferisce l’accaduto a un superiore”. Per difedendere il suo assistito l’avvocato Eugenio Pini ha ripercorso in aula le parti principali della sua testimonianza sul pestaggio di Stefano Cucchi. Francesco Tedesco è l’imputato-testimone che con le sue dichiarazioni ha accusato altri due carabinieri svelando le botte che, secondo l’accusa, portarono alla morte del giovane, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e poi morto in ospedale una settimana dopo. Nel processo in corso sono imputati cinque carabinieri, tre dei quali – compreso Tedesco – accusati di omicidio preterintenzionale. E oggi Tedesco è presente in aula al fianco dei suoi difensori. Il difensore nel suo intervento ha spiegato che Tedesco era presente al momento del pestaggio ma intervenne per bloccare i suoi due colleghi. Tedesco, ha ricostruito il legale, ha liberato Cucchi “dalla morsa” dei due carabinieri “prima richiamando verbalmente il collega Di Bernardo e poi stoppando materialmente Raffaele D’Alessandro. Tedesco ha soccorso e protetto il ragazzo salvo poi, una volta lasciata la caserma, avvertire il comandante Mandolini di quanto accaduto poco prima”. Da lì, però, passarono nove anni prima che raccontasse la verità a un magistrato. “Le parole pronunciate da Tedesco mentre D’Alessandro e Di Bernardo stavano pestando Stefano, "Smettetela!! Non permettetevi!! Che cazzo fate?!?!", non sarebbero state sicuramente sufficienti a fermare la furia della violenza dei colleghi. Ci doveva essere un intervento fisico come è effettivamente accaduto”, ha scritto su facebook Ilaria Cucchi al termine dell’udienza. “In questa vicenda Francesco Tedesco ha rappresentato inconsapevolmente la più piccola e debole rondella di un ingranaggio smisurato e potente che per una volta ha ruotato in controfase. Lui ha cercato di fermare questo meccanismo ma ne è stato inesorabilmente travolto, investito”, ha detto il legale nella sua arringa. “Francesco Tedesco – ha aggiunto l’avvocato Pini – ha percorso un sentiero solitario; poi c’è stata la sua vittoria, una vittoria umana. Oggetto di questo processo è accertare se ha o meno concorso nell’omicidio di Stefano Cucchi, non misurare la tempestività o la puntualità delle sue dichiarazioni. Anche perché noi dobbiamo pensare in termini di relatività agli anni di silenzio; sia in termini soggettivi, domandandoci cosa avremmo fatto noi o meglio cosa avremmo potuto fare noi, sia in termini oggettivi. C’è qualcuno in questa aula che possa con certezza affermare che il pacchetto conoscitivo di cui disponeva Tedesco, se svelato anche un giorno prima, sarebbe restato integro e fruibile e non sarebbe stato sminato e combattuto fino a farlo disperdere?”. La richiesta è di “restare sordi innanzi a ogni tentativo di correlare il momento delle sue dichiarazioni alla sua credibilità; restare sordi innanzi ai tentativi di farlo nuovamente immergere nel silenzio; restare sordi innanzi a ogni tentativo di renderlo ridicolo; restare sordi innanzi a tutto quanto è periferico al processo anzi extraperimetrale”. Alla fine della sua arringa l’avvocato ha chiesto l’assoluzione dall’omicidio preterintenzionale con la formula ‘per non aver commesso il fattò. Per Tedesco il pm Giovanni Musarò ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio preterintenzionale ‘per non aver commesso il fatto’ e la condanna a 3 anni e mezzo per l’accusa di falso. L’accusa ha chiesto invece di condannare a 18 anni di carcere Di Bernardo e D’Alessandro, i due presunti autori del pestaggio. Chiesta poi per l’accusa di falso la condanna a 8 anni di reclusione per il maresciallo Roberto Mandolini, mentre il non doversi procedere per prescrizione dall’accusa di calunnia è stata chiesta per Tedesco, Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini.
Lorenzo Attianese per l'ANSA il 31 ottobre 2019. Testimoni eccellenti in aula, per fare chiarezza sulla vicenda dei presunti depistaggi che sarebbero avvenuti dopo la morte di Stefano Cucchi. A chiedere che vengano a testimoniare nei prossimi mesi, in vista della prima udienza al nuovo processo Cucchi, quello sui presunti insabbiamenti messi in atto dalla scala gerarchica, sono i legali della famiglia di Stefano. In una lista di oltre trenta testi, che verrà depositata dall'avvocato Fabio Anselmo in vista della prima udienza al quinto processo Cucchi, ci sono anche i due ex ministri della Difesa, Elisabetta Trenta e Ignazio La Russa, e il comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri. Tra i generali c'è anche Vittorio Tomasone, che la parte civile chiede di ascoltare in merito a quanto l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Roma apprese circa l'inchiesta disposta dopo la morte di Stefano, sulla riunione che lo stesso generale tenne con i militari qualche giorno dopo e sulle informazioni apprese sugli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo del giovane. E proprio quelle note mediche presenti nella relazione del 30 ottobre saranno sotto l'attenzione degli inquirenti, perché all'epoca quel documento anticipava le conclusioni di esperti medici legali che ancora dovevano essere nominati. Tra gli altri generali che figurano nella lista testimoni e che potrebbero essere convocati in aula, ci sono Leonardo Gallitelli, Tullio Del Sette, Biagio Abrate e Salvatore Luongo. Alla sbarra, dal prossimo 12 novembre, ci saranno otto carabinieri, tutti componenti della catena di comando che secondo gli inquirenti avrebbe depistato le indagini per accertare le cause sulla morte di Stefano. Tra gli imputati ci sono anche alti ufficiali dell'Arma, che avrebbero orchestrato il tentativo di insabbiamento della verità sulla morte del geometra romano. L'imputato al processo con il più alto grado nell'Arma, l'allora comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa. Per l'accusa i depistaggi partirono proprio da quest'ultimo e a cascata furono 'messi in atto' dagli altri secondo i vari ruoli di competenza. Gli altri imputati sono il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma, accusato di omessa denuncia; Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, già comandante della Compagnia Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all'epoca in servizio a Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo e il carabiniere Luca De Cianni. Nel procedimento l'Arma dei carabinieri si è costituita parte lesa. Il prossimo 14 novembre sono invece previste due sentenze riguardo ad altri due importanti procedimenti sul caso Cucchi: quella al processo d'appello 'ter', nei confronti medici dell'ospedale Pertini, e quella riguardante la Corte d'Assise, che prenderà la decisione nell'altro processo a cinque militari dell'Arma, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per il presunto pestaggio.
L’ultima anomalia del caso Cucchi. La famiglia chiede che un giudice si astenga dal processo sui presunti depistaggi perché “troppo vicino ai carabinieri”: avrebbe partecipato a convegni con ufficiali dell’Arma. Maurizio Tortorella il 28 ottobre 2019 su Panorama. Tra le mille stranezze e anomalie del caso di Stefano Cucchi, il giovane tossicodipendente morto nell’ottobre 2009 mentre era in custodia cautelare (da anni le cause della sua morte e le responsabilità sono oggetto di procedimenti giudiziari che coinvolgono alcuni militari dell’Arma dei Carabinieri e i medici dell'ospedale Pertini), ora c’è anche la decisione dei suoi familiari di chiedere l’astensione dal giudizio di Federico Bona Galvagno, magistrato del Tribunale di Terni. Galvagno dovrebbe giudicare nel processo appena avviato su presunti depistaggi legati al caso, un procedimento che vede fra gli imputati alcuni alti ufficiali dei carabinieri, ma secondo i familiari di Stefano Cucchi lo stesso Galvagno tra il 2016 e il 2018 avrebbe partecipato a una serie di convegni, inaugurazioni e conferenze cui ha preso parte fra gli altri anche l’ex comandante generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette. Per Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi, questo motivo basterebbe a fare del giudice Galvagno un magistrato “troppo vicino ai carabinieri”. In realtà, se passasse il principio che non debba partecipare a un qualsiasi giudizio che coinvolge aderenti alle forze dell’ordine un giudice che abbia partecipato a iniziative o manifestazioni pubbliche organizzate dalle stesse, probabilmente nessun processo di quel tipo potrebbe aver luogo. A essersene accorto è il solo Carlo Giovanardi, ex ministro, oggi rappresentante di Idea Popolo e Libertà: “A me pare un principio impossibile” dice. Giovanardi ricorda anche che la richiesta della famiglia Cucchi “avrà comunque un suo effetto sul prossimo processo, sia che il giudice Galvagno si astenga, sia che invece decida di confermare il suo impegno, ipotizzando ombre sul suo svolgimento, avendo lo stesso avvocato Anselmo precisato che questa scelta è stata fatta con l’obiettivo di sgomberare qualsiasi ombra da questo processo”.
Carlo Bonini per ''la Repubblica'' il 26 ottobre 2019. La battaglia della famiglia Cucchi non è finita. E alla vigilia ormai del terzo processo che si aprirà il 12 novembre agli otto tra ufficiali e sottufficiali dell' Arma imputati a diverso titolo per i depistaggi che, nel 2009 e nel 2015, impedirono di arrivare tempestivamente alla verità sull' omicidio di Stefano e sui suoi responsabili, Ilaria e i suoi genitori Rita e Giovanni (e con loro tutte le parti civili private che si sono sin qui costituite, dunque anche gli agenti di polizia penitenziaria ingiustamente processati nel primo giudizio di merito), chiedono formalmente, con un' istanza che è stata depositata al presidente del Tribunale di Roma, che il giudice monocratico assegnato a quel dibattimento si astenga "per gravi ragioni di convenienza". Il magistrato si chiama Federico Bona Galvagno e, fino alla primavera scorsa, è stato giudice a Terni. Ma, quel che conta, per la parti civili del processo per il depistaggio degli ufficiali dei carabinieri, è stato ed è "troppo vicino" all' Arma. E in particolare a uno dei suoi ex comandanti generali, Tullio Del Sette, per altro attualmente imputato proprio a Roma per violazione del segreto di ufficio nell' inchiesta Consip. «Da un casuale accesso a fonti aperte - si legge infatti nell' istanza depositata in tribunale - è emerso che il giudice Bona Galvagno ha partecipato, quale magistrato appartenente al Tribunale di Terni, a una serie di eventi (convegni, inaugurazioni, conferenze) tenutisi tra il 2016 e il 2018 che, sia per l' oggetto, sia per i partecipanti (tra gli altri, alti appartenenti all' Arma dei carabinieri), hanno attirato l' attenzione degli scriventi». In particolare, l' istanza ne elenca due: L' incontro dell' 8 maggio 2018, dal titolo "Sicurezza e Carabinieri: l' Arma oggi tra le forze dell' ordine" alla presenza dell' allora comandante generale Tullio Del Sette. E quello del successivo 22 novembre dello stesso anno - "Il ruolo dei Carabinieri nell' attuale mutamento socio-culturale", sempre alla presenza del generale Del Sette. Troppo - a giudizio dei Cucchi - per scacciare il dubbio che quel magistrato coltivi un' istintiva e consolidata vicinanza o, comunque, una non sufficiente serenità, per sedersi da giudice monocratico nell' aula dove si dipanerà il filo del più importante forse dei tre processi celebrati per la morte di Stefano. Quello sui depistaggi, appunto. Dove per altro il generale Del Sette, quale ex comandante generale dell' Arma negli anni in cui uno dei due depistaggi si consumò, verrà chiamato a deporre. E dove, inevitabilmente, uno dei nodi cruciali sarà comprendere per quale motivo un' intera catena gerarchica (quella dei carabinieri di Roma) cospirò per il silenzio lasciando che venissero accusati degli innocenti (tre agenti della polizia penitenziaria). E, soprattutto, se di quel silenzio fu o meno complice il vertice stesso dell' Arma (due i comandanti generali che si sono avvicendati tra il 2009 e il 2015, Gallitelli e Del Sette). «La situazione di fatto che si è venuta a creare - si legge così nell' istanza di astensione - può concretare quelle gravi ragioni di convenienza che i difensori delle parti civili ritengono sussistenti in relazione allo specifico tema del processo () Inoltre, dato il clima di forte sospetto dell' opinione pubblica sul tema oggetto del processo, la divulgazione mediatica delle informazioni sopra riportate, potrebbero far nascere speculazioni che finirebbero per influire sul clima di sereno giudizio necessario al corretto svolgersi del dibattimento». Si vedrà quale sarà la decisione del tribunale. Certo, questo incipit aiuta a comprendere quale sia la partita che andrà a cominciare tra due settimane (appena due giorni prima della sentenza che deciderà sui tre carabinieri imputati per l' omicidio di Stefano). Un processo dove l' Arma, per altro, sarà a sua volta parte civile e dunque accusa privata contro i suoi otto ufficiali.
Omicidio di Stefano Cucchi: dieci anni senza giustizia. Le Iene il 21 ottobre 2019. Dieci anni fa Stefano Cucchi moriva dopo un pestaggio violento di alcuni carabinieri. Un pestaggio che i Pm hanno definito "degno di teppisti da stadio". Con Gaetano Pecoraro e Pablo Trincia vi abbiamo raccontato in più servizi la tragica vicenda di Stefano Cucchi e la coraggiosa lotta per la verità portata avanti dalla sorella Ilaria. Dieci anni fa moriva Stefano Cucchi. Di un pestaggio violento da parte due carabinieri, un pestaggio che i giudici hanno definito “degno di teppisti da stadio”. Mentre si trovava nelle mani di uomini dello Stato, che avrebbero dovuto essere un presidio di giustizia. È un tristissimo anniversario quello che si consuma il 22 ottobre 2019 per un crimine che non ha ancora avuto giustizia. Proprio in questo giorno esce il libro della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi e dell'avvocato Fabio Anselmo, che ha seguito tutti i processi, "Il coraggio e l'amore". Il libro ricorda quel ragazzo sano e allegro di 31 anni: "Nulla poteva far pensare che fosse in pericolo di vita" e ripercorre una battaglia giudiziaria che è già storia d’Italia. Noi de Le Iene abbiamo seguito più volte il caso della morte di Stefano Cucchi. Il ragazzo viene fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché aveva indosso delle dosi di droga. Stefano muore il 22 ottobre, in ospedale, mentre si trovava in custodia cautelare. Dopo che il primo processo si è chiuso con un nulla di fatto, si è aperta un nuovo procedimento che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati di depistaggio e due di omicidio preterintenzionale. Uno di questi carabinieri, Francesco Tedesco, ha apertamente accusato gli altri due del violento pestaggio ai danni di Stefano, segnando una svolta decisiva nel caso. Lo stesso pm Giovanni Musarò, nella requisitoria del processo ai militari, ha ricostruito le ultime tragiche ore di Stefano: “Ha perso sei chili in sei giorni, non riusciva nemmeno a mangiare per il dolore. Ha subìto un pestaggio violentissimo, degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso”. Il detenuto Luigi Lainà, che ha incontrato Stefano la notte tra il 16 e il 17 ottobre a Regina Coeli, aveva raccontato: "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria, ero pronto a fare un casino e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... 'Si sono divertiti', mi aggiunse". Pablo Trincia aveva intervistato l’ex moglie di un altro imputato (nel servizio che potte rivedre sopra), il carabiniere Raffaele D’Alessandro che racconta come l’ex marito parlava del caso: “Eh, c'ero anch'io quella sera là, quante gliene abbiamo date a quel drogato di merda”. Una tragedia a cui si è aggiunto un vergognoso depistaggio, come ha spiegato ancora il pm: "È stato celebrato un processo kafkiano per l'individuazione dei responsabili, non possiamo fare finta che non sia successo niente, di non sapere e di non capire che quel processo kafkiano è stato frutto di un depistaggio". Il prossimo 14 novembre è attesa la sentenza nel processo bis che vede indagati i cinque carabinieri, due dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Il pm ha chiesto 18 anni di carcere per i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.
«Senza le fratture Stefano Cucchi non sarebbe morto». Le parole dei periti in aula. La sorella Ilaria: «Dopo 10 anni è stato detto in tribunale quello che tutti sapevamo fin dall’inizio» Simona Musco il 16 giugno 2019 su Il Dubbio. A causare la morte di Stefano Cucchi ci sono più cause legate tra loro. Ma senza la frattura alla vertebra, causata dal pestaggio in caserma, probabilmente il giovane non sarebbe morto. È quanto ha detto ieri in aula bunker, a Rebibbia, Francesco Introna, medico legale del policlinico di Bari e perito del gip, sentito nel processo bis sulla morte del geometra romano, in merito alla perizia redatta nel 2016 dal collegio di esperti nominati dal gip, nella quale si parla di «morte improvvisa ed inaspettata per epilessia». Ma la malattia, hanno chiarito ieri i periti, non era «l’unica causa del decesso di Stefano Cucchi. Non abbiamo certezze». Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Per la sua morte sono imputati cinque militari, tre dei quali per omicidio preterintenzionale. Sono due le ipotesi sul piatto. La prima, non per importanza, ha chiarito Introna, parte da elementi concausali, come «il grave dimagrimento ( 15 chili in 7 giorni), la inanizione marcata, cronica, e la presenza anche di cardiopatie mai emerse» e che «da sole non avrebbero mai portato alla morte il soggetto». La seconda , invece, è quella di maggiore rilievo, ha spiegato il medico legale, ed è proprio quella che chiama in causa le fratture. Ed «ha un peso maggiore – ha aggiunto – essendo documentata». Si basa sulle «lesioni inferte», ovvero una frattura a livello del rachide lombare e una a livello del rachide sacrale. Quest’ultima, ha spiegato Introna, ha determinato «una vescica neurogena, ovvero una mancata sensazione della vescica» e una sua «dilatazione», con conseguente «riflesso vagale». Situazione che «insieme alla cardiopatia, all’inanizione, alla tossicodipendenza» ha determinato «la morte per un’aritmia». Ma quanto ha influito sull’evento morte quella frattura? «Se non ci fosse stata la lesione alla vertebra S4 il soggetto, verosimilmente, non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni, ovvero immobile nel letto, per problemi connessi alle fratture lombari. Non avrebbe avuto la vescica atonica e neurogena, probabilmente avrebbe avuto uno stimolo alla diuresi». Insomma, senza la frattura «e se il catetere non si fosse inginocchiato o ostruito, verosimilmente la morte del Cucchi non sarebbe accorsa o sarebbe accorsa in un altro momento». E oggi, dopo 10 anni, secondo la sorella della vittima, Ilaria Cucchi, «è stata detta la verità in un’aula di tribunale», quella che «tutti sappiamo fin dal principio: se Stefano Cucchi non fosse stato vittima di quel pestaggio non sarebbe mai finito in ospedale e non sarebbe molto». «Ora nessuno potrà dire che è morto per colpa propria», ha aggiunto l’avvocato Anselmo. Diverso il parere di Antonella De Benedictis, difensore di Alessio Di Bernardo, uno dei cinque carabinieri imputati. «Se anche venisse provata la lesione S4 come causa della vescica neurogena, la stessa non si sarebbe distesa e quindi non ci sarebbe stato il globo vescicale, qualora il catetere avesse funzionato correttamente – ha affermato Quindi il problema non è la lesione in sé, ma il malfunzionamento del catetere».
Caso Cucchi, i periti del gip: «Senza lesioni non sarebbe morto». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Ascoltato in udienza Francesco Introna che ha coordinato il collegio dei periti, incaricato dal tribunale di stendere una relazione sulle circostanze che portarono alla morte di Stefano Cucchi, sottolinea un elemento. L’insorgenza della vescica neurogenica nella vittima. Una dilatazione vescicale che non si sarebbe verificata se il ragazzo fosse stato adeguatamente sorvegliato. Ma che certamente non si sarebbe verificata se non fosse stato colpito in precedenza. «In sostanza se non ci fossero state lesioni non sarebbe finito in ospedale e non sarebbe morto» dicono i periti. Il collega di Introna, Vincenzo d’Angelo spiega nei dettagli come funziona: «Il parasimpatico fa svuotare la vescica — dice — ma quando c’è una lesione il parasimpatico può paralizzarsi. Se la vescica si dilata in eccesso può portare a disturbi anche cardiaci». Certamente, spiegano gli esperti, non c’era più una autonoma gestione dello svuotamento della vescica. Cucchi non riusciva più ad andare in bagno. Mille quattrocento centilitri sono stati trovati con autopsia sottolineano i periti. Introna sottolinea come sulla base delle risultanze dell’autopsia Stefano Cucchi inalò sangue. Fu trovato nei bronchi e nello stomaco. Il collegio dei periti spiega di aver rintracciato un edema nel corpo. Quanto all’epilessia, i periti confermano su sollecitazione della parte civile, avvocato Stefano Maccioni, che, dalla documentazione disponibile, Cucchi non risultava avere mai avuto crisi epilettiche durante il sonno. Il processo Cucchi bis è iniziato un anno fa, mentre un terzo filone della vicenda è in discussione in questi giorni davanti al giudice per le udienze preliminari. Si tratta della tranche che vede indagati sette carabinieri per il reato di depistaggio, falso e favoreggiamento. Secondo l’accusa, infatti fra il 2009 e il 2015 un gruppo di carabinieri, fra cui anche un generale, avrebbero contribuito a depistare le indagini sulla morte di Stefano Cucchi. Per quest’ultimo filone la presidenza del Consiglio, il Viminale, il ministero della Difesa e l’Arma dei carabinieri si sono dichiarati parti lese, la decisione dei giudici è attesa a luglio.
Caso Cucchi, i periti del gip: "Morte dovuta a concatenazione di eventi". Secondo gli esperti nominati dal giudice "senza la frattura della vertebra non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento". la Repubblica il 14 giugno 2019. Stefano Cucchi è morto per "una concatenazione di eventi". Lo hanno affermato nell'aula bunker di Rebibbia i periti nominati a suo tempo dal gip e ascoltati oggi al processo bis sul pestaggio e sul decesso del geometra 31enne, morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Entrando nel dettaglio e ripercorrendo la perizia redatta nel 2016, gli esperti hanno spiegato che "l'ipotesi della morte improvvisa e inaspettata di un paziente affetto da epilessia resta la principale, ma non abbiamo mai detto che la malattia fosse l'unica causa del decesso di Stefano Cucchi". Infatti, hanno affermato, "anche in assenza della frattura della vertebra S4 la morte di Cucchi non sarebbe capitata o sarebbe sopraggiunta in un momento diverso". "Nessuno può avere certezze. Se non ci fosse stata la lesione S4 il soggetto non sarebbe stato ospedalizzato. Cucchi era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per la frattura. Se non fosse stato in questa condizione, non avrebbe avuto una vescica atonica, ma avrebbe avuto probabilmente lo stimolo alla diuresi. Dunque se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento", ha detto uno dei periti. "Non abbiamo certezze, parliamo sempre e comunque di ipotesi" sulle cause che hanno portato al decesso del ragazzo, hanno aggiunto i periti che hanno definito come "più attendibile" l'ipotesi della morte improvvisa e inaspettata. "C'è un vuoto tra la notte del 21 ottobre e il 22 ottobre 2009 - hanno ribadito -. Il secondo momento è quello in cui al Pertini si sono accorti che Cucchi era morto; ma non sappiamo cosa sia accaduto in quelle ore". "Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto", ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al termine dell'udienza al processo sulla morte del detenuto che si è svolta nell'aula bunker di Rebibbia. "Ora nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria", ha aggiunto Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi.
Il caso Cucchi e la strage di Bologna visti da un medico di carcere. "uomini come bestie", il libro, scritto da Francesco Ceraudo, ex presidente dell’Associazione medici penitenziari, ipotizza una lettura originale per le due vicende giudiziarie. Maurizio Tortorella il 13 giugno 2019 su Panorama. Dubbi sul caso Cucchi, con un indice puntato soprattutto sui medici dell’Ospedale Pertini, che a suo dire non avrebbero adeguatamente curato e nutrito il detenuto, meritevole di un trattamento sanitario obbligatorio. Dubbi anche sulla verità giudiziaria sulla strage di Bologna, e la convinzione che Francesca Mambro e Valerio Fioravanti non ne siano i veri colpevoli. Questo e altro scrive Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere di Pisa, poi presidente dell'Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana, nel suo libro “Uomini come bestie, il medico degli ultimi” (edizioni Ets, 310 pagine, 19 euro) la cui prefazione è stata scritta da un detenuto di fama: Adriano Sofri.
Su Cucchi, Ceraudo scrive: “Da medico penso che si sarebbe dovuti intervenire immediatamente e fare un certificato di incompatibilità con la carcerazione, così che il magistrato avrebbe potuto mandarlo agli arresti domiciliari”. Il professore ricorda anche che la famiglia di Cucchi “è stata già risarcita dall'Ospedale Pertini con 1 milione e 340 mila euro, e anche questo dice molto sul versante delle responsabilità”.
Sulla strage di Bologna, per la quale a suo tempo è stato interrogato come teste (peraltro ritenuto inattendibile) Ceraudo ricorda che Francesca Mambro è stata sua paziente per tanti anni a Pisa: “Ha riferito con molta chiarezza ciò di cui è stata responsabile” scrive Ceraudo, mentre il medico si dice convinto non abbia fatto altrettanto uno dei principali testimoni dell’accusa, e cioè Massimo Sparti, “un pregiudicato romano di simpatie neo-naziste, appartenente alla banda della Magliana”. A sua volta rinchiuso nel carcere di Pisa nel dicembre 1981, Sparti fu messo in libertà sulla base di accertamenti diagnostici che indicavano un cancro al pancreas. “Dal momento in cui è stato liberato” scrive però il professor Ceraudo “Sparti ha vissuto altri 23 anni ed è deceduto per tutt’altro motivo”.
· Processo Cucchi, medici verso la prescrizione.
Processo Cucchi, medici verso la prescrizione. Il pg: «E’ una sconfitta per la giustizia». Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Una prescrizione che rappresenta anche una sconfitta della giustizia. Così, nove anni dopo, invocando l’estinzione del reato (omicidio colposo) nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, primario e medici del «Sandro Pertini» dove Stefano Cucchi, detenuto, morì, il procuratore generale Mario Remus sottolinea la resa giudiziaria implicita in questo (inevitabile) passaggio. Perché qualunque sia, a questo punto, l’esito del processo bis nei confronti dei carabinieri accusati di aver picchiato Cucchi, o di quello eventuale verso ufficiali e sottoufficiali che, secondo la nuova inchiesta della Procura, depistarono le indagini, è certo che nel reparto dell’ospedale «Pertini» si verificarono «negligenze imperdonabili». Di più: è lecito parlare, secondo Remus, di una mancanza di «umanità» da parte dell’ospedale. Non solo Cucchi non fu trattato con la dedizione e il riguardo che meritava. Ma, come sottolinea anche l’avvocato del Campidoglio (parte civile), Enrico Maggiore, ci furono lacune e superficialità imperdonabili. Neppure la disidratazione del paziente fu rilevata. Un fatto che, per il pg, rappresenta l’indice «di una trascuratezza inammissibile e di una sciatteria che imperversava in quell’ambiente». Dunque l’accusa di omicidio colposo nei confronti degli imputati, pur in via di prescrizione, appare supportata da elementi incontrovertibili né è vero che il ragazzo non collaborasse: «Cucchi — dice Remus — era un paziente difficile sotto l’aspetto psicologico ma non è vero che non collaborava. Un tocco di umanità sarebbe bastato per salvarlo». Da quei medici, conclude l’accusa, non fu ascoltato «dal punto di vista sanitario e da quello psicologico». Quanto al primo processo, messo in piedi tra «imputazioni traballanti» nei confronti dei medici e accuse ingiustificate nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, è «iniziato male» e proseguito «peggio». L’esito — prescrizione per i sanitari del Pertini — è frutto dei depistaggi dell’Arma secondo la famiglia Cucchi. In questa direzione il commento dell’avvocato Fabio Anselmo: «Credo che la dichiarazione di prescrizione sia lo stigma finale di sette anni di depistaggi dei quali, dal 21 maggio (giorno in cui è fissata l’udienza davanti al gip per gli otto carabinieri indagati dal pm Giovanni Musarò, ndr) in poi, saranno chiamati a rispondere generali e alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri». Sul punto interviene anche la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: «Un processo del tutto sbagliato fatto a spese e sulla pelle della nostra famiglia che ha pagato un prezzo altissimo ma che, fortunatamente, oggi si trova in una fase completamente diversa. Una fase di verità, arrivata grazie al nostro impegno e soprattutto a quello di Fabio Anselmo, ma anche grazie alla presenza di tutti coloro che, in tutti questi anni, non ci hanno mai abbandonati perché da soli non si fa niente».
· Pietre sulla Petrelluzzi.
Ilaria Cucchi contro Un giorno in Pretura: "Spazio solo a show". Ma è uno show che serve. Le due puntate non sono piaciute alla sorella di Stefano. Che scrive su Facebook tutta la sua rabbia e amarezza per i tagli e le omissioni. «Grazie per il servizio pubblico offerto». Ma da casa l'impressione è stata ben diversa. E ciò che resta è il senso immane di ingiustizia per aver dovuto attendere 10 anni. Beatrice Dondi il 25 novembre 2019 su L'Espresso. «Anche stasera 'Un giorno in Pretura' non si è smentito. Ha completamente tralasciato due intere udienze sul tema medico legale, che hanno risolto il nostro processo, per dar spazio allo show dell'avv. Naso. L'avv. Anselmo ovviamente è stato totalmente oscurato così come i nostri medici legali ma soprattutto quelli del Giudice quando affermano che Stefano senza le botte non sarebbe morto. Ma non avevamo dubbi. Posso solo dire che mi dispiace per il Dott. Musarò e per il Dott. Pignatone ma d'altra parte tutti ricordiamo bene i selfie fatti in aula mentre si svolgeva il processo. Mi ha chiamata mia madre disgustata. Pubblicherò sulla mia pagina tutto ciò che "Un giorno in Pretura" ha omesso. Grazie per il servizio pubblico offerto». Scrive così Ilaria Cucchi su Facebook, quando la seconda puntata del programma in onda su Rai Tre si è chiuso sulla sentenza. Lo scorso maggio aveva fortemente criticato la condutrice del programma Roberta Petrelluzzi per quella foto in Aula con l’avvocato dell’imputato maresciallo Mandolini, un atteggiamento confidenziale con la difesa ritenuto del tutto fuori luogo. E lo stesso sentimento di indignazione lo esprime l'avvocato Anselmo, che definisce il programma di Rai Tre "Imbarazzante. Tutte le questioni medico legali liquidate ed oscurate. Il taglio della vertebra l3. Il nesso causale. La testimonianza scioccante della dottoressa Feragalli. Quella del Prof. Masciocchi. Quella dei Periti. Che tristezza. Mi spiace per il lavoro del dott. Musarò e del Procuratore Pignatone completamente annichiliti. Va beh. Lo sapevo fin dalla imbarazzante udienza dei selfie. Il processo Cucchi è stata tutta un’altra cosa. Lo sappiano coloro che hanno guardato la trasmissione. Si è arrivati addirittura al tifo per l’appello". Ma da casa ciò che resta nella testa del pubblico che ha visto la trasmissione è altro. Rabbia sì, ma in primis per aver dovuto attendere 10 anni prima di sentire le parole "colpevoli". Era il 2009, una sera di fine ottobre. Durante Anno Zero, condotto da Michele Santoro, una giovane donna si alzò in piedi. Per raccontare la tragica storia di suo fratello Stefano, arrestato per spaccio e morto “all’improvviso” dopo sei giorni all’ospedale Pertini. Ilaria Cucchi aveva cominciato a denunciare cosa era accaduto a quel ragazzo massacrato, «con un occhio fuori dalle orbite, una mascella visibilmente rotta», ucciso da uno Stato che aveva il dovere di proteggerlo. E non avrebbe più smesso, Ilaria, in tutti gli studi, davanti a ogni telecamera, come un dito spinto nel costato delle coscienze. Ma nulla sembrava bastare, non le interviste, non i faccia a faccia, neppure il film “Sulla mia pelle” con Alessandro Borghi calato nei lividi, nel filo di voce, nel respiro spezzato di Stefano Cucchi era riuscito a tutelare quella verità terrificante dalla violenza dell’insinuazione, del dubbio. Per trasformare quelle parole già lette e sentite, quelle lacrime, già viste e asciugate in purissima realtà per tutti ci volevano i microfoni accesi tra le mura di un tribunale di una televisione una volta tanto testimone silente. Per questo vedere quelle due puntate di “Un giorno in pretura”, che in prima serata, seppur parziali, tagliate, rimontate hanno mostrato le fasi del processo in cui i carabinieri autori del pestaggio sono stati condannati per omicidio ha avuto un effetto roboante. Non droga, ma botte. E all’improvviso la tv diventa portatrice di realtà. I ricordi e le testimonianze che per anni Ilaria ha ripetuto con fermezza ricevendo spesso in cambio manciate di commenti esecrabili, vanno in onda aprendo occhi sinora rimasti chiusi. E l’esperienza a quel punto, diventa un dolore comune non più negabile. Dal racconto monocorde di Francesco Tedesco, che srotola i fatti, il calcio all’altezza dell’ano, la caduta di Stefano, il rumore della testa che sbatte sul pavimento. All’immagine dell’obitorio, le urla del padre, i depistaggi, le bugie, gli schiaffi. Sino alle parole della signora Rita, che ripercorre quei minuti in cui un carabiniere entra in casa sua, le chiede di seguirlo per andare in caserma a firmare dei documenti e poi, senza guardarla, prende i fogli, li piega e le dice: «Le devo dare una brutta notizia, suo figlio è deceduto». «Ma sei giorni fa stava bene»... «Io non lo so, le dico soltanto che suo figlio è morto». Senza filtri, luci, mediazioni. Solo una voce spezzata. Che rompe in due chiunque la guardi. Mancano, certo, tanti tasselli al puzzle. Ma quando si arriva alla sentenza, tutti da casa si devono sono obbligati a vedere, senza più un alibi che permetta di girare la testa.
PIETRE SULLA PETRELLUZZI. Ilaria Cucchi sulla sua bacheca Facebook: il 20 maggio 2019. Alla fine ho deciso di parlare. Ieri, un giorno in Pretura. Anzi no. Un giorno in Corte d’ Assise. Uno dei tantissimi giorni trascorsi in Tribunale da me e dai miei genitori. Era un momento di pausa quando, uscendo, dall’aula ho notato la conduttrice della notissima trasmissione televisiva “Un giorno in Pretura“, Roberta Petrelluzzi, parlare in modo strettamente confidenziale con l’avvocato dell’imputato maresciallo Mandolini. Non l’avevo mai vista prima di persona. Nulla di male, per carità. La mia memoria va a sei anni fa, quando, in un momento di nostra grande difficoltà, la trasmissione dedicò un paio di puntate al vecchio processo. Quello depistato con accuse sbagliate. La redazione ci chiese tutti gli atti che fornimmo regolarmente. Chiesi di poter parlare con lei ma mi venne opposto un netto rifiuto. “Non le vuole parlare per non essere influenzata”. Rispettai quella decisione anche se il servizio fatto su quel processo non mi piacque affatto. Ma io sono una parte. Quando, dopo qualche minuto, sono rientrata in aula, la scena che ho avuto davanti è la seguente: la signora Petrelluzzi che, con sorrisi e grande cordialità, spalle ai banchi della Corte, si fa fare numerosi selfie, guancia a guancia, con gli avvocati degli imputati. Si rivolge poi all’avvocato Pini che era nelle vicinanze per chiedergli: “Ma tu chi difendi?” “Tedesco”, gli risponde lui. “Stai sempre dalla parte sbagliata eh!”, ribatte lei. Tutto questo è avvenuto di fronte a noi famigliari e giornalisti. Che dire? Facciamoci un selfie che tutto passa. Farò una segnalazione all'ordine dei giornalisti ed alla direzione generale della Rai. Intanto pubblico la foto con il difensore di D'Alessandro mentre con me non ha mai voluto parlare perché doveva essere super partes.
Selvaggia Lucarelli il 20 maggio 2019. L'ammirazione e la riconoscenza che provo per per Ilaria Cucchi rimarranno immutate, ma quello che ha scritto su fb su Roberta Petrelluzzi è ingiusto. La giornalista di "Un giorno in pretura" non ha fatto alcun selfie sorridente in aula. Quella che l'avvocato della controparte ha fatto scattare da non so chi e pubblicato è una foto che lo stesso avvocato le ha chiesto perchè "suo mito". Parlare di selfie è fuorviante e scatena un sentimento negativo e immeritato. Sostenere che la Petrelluzzi, sei anni fa, quando stava per raccontare le prime fasi del processo Cucchi si sia rifiutata di parlare con lei per rimanere imparziale e trovare inopportuno che oggi invece si scambi qualche parola con gli avvocati degli imputati, è scorretto. Fa bene la Petrelluzzi a non voler rimanere coinvolta emotivamente dalle storie che racconta, perchè lei racconta i processi, non i sentimenti. E gli avvocati non sono gli imputati, questo processo di identificazione è profondamente sbagliato. Scambiare due parole in aula con un avvocato che magari si conosce da tempo, non significa nulla. Se si fosse appartata a chiacchierare con gli imputati sarebbe stato diverso. I difensori non sono i loro assistiti e un rapporto cordiale tra la Petrelluzzi e due avvocati non vuol dire, di conseguenza, una narrazione sbilanciata a favore dei loro clienti. E a tal proposito, Ilaria Cucchi fa un velato riferimento a Un giorno in pretura e a "un paio di puntate al vecchio processo. Quello depistato con accuse sbagliate... il servizio fatto su quel processo non mi piacque affatto. Ma io sono una parte". Quel processo, dalla Petrelluzzi, fu raccontato, non interpretato o giudicato. Era sbilanciato, dunque è normale che sia stato raccontato così. Se Ilaria Cucchi ritiene che la Petrelluzzi lo abbia raccontato con malafede o realizzando montaggi ingannevoli, ci dica cosa intende, altrimenti sono accuse sfocate, che massacrano la conduttrice senza chiarire il perchè. La minaccia di segnalazioni all'Odg e alla Rai sono francamente insensate. Non si capisce cosa vada segnalato. Il rapporto cordiale della Petrelluzzi con degli avvocati? Una foto fatta in un tribunale? (anche la Cucchi ha pubblicato foto fatte in tribunale) Cosa? La battuta che la Petrelluzzi avrebbe fatto all'avvocato di Tedesco poi si presta a varie interpretazioni. Non credo, francamente, che una Petrelluzzi si sia messa pubblicamente a fare ironia sulla vicenda lasciando intendere che lei sia dalla parte di chi ha picchiato Stefano o più genericamente da quella degli omertosi. E' più probabile che intendesse dire "sei dalla parte sbagliata della storia, ovvero dei carabinieri", al di là del fatto che alla fine Tedesco abbia raccontato del pestaggio. Voglio dire, vi pare plausibile che volesse dire ad alta voce che la parte sbagliata è quella di Ilaria Cucchi e di chi ha cominciato finalmente a parlare? Ecco. Chiudo con un'ultima osservazione: io capisco che dopo tutto quello che ha passato Ilaria Cucchi la sua suscettibilità, l'amarezza, la frustrazione non possano essere misurate attenendosi a parametri comuni, ci mancherebbe. E posso pure capire che abbia trovato inelegante la Petrelluzzi, perchè chiunque non mostri disprezzo verso chi ha mentito per anni è tuo nemico, perfino se è un avvocato e fa solo il suo lavoro. Perfino se è una conduttrice che alla fine mostra solo quello che succede nelle aule, senza letture e dietrologie. Però la mia sensazione è che quest'accusa pubblica sia una mannaia troppo grossa, immeritata. Ilaria Cucchi, in questo momento, ha un enorme potere mediatico e lasciando intendere che la Petrelluzzi sia una pessima giornalista nonchè una che tifa per i cattivi ("Mostrerò i video!"), annienta la reputazione di una giornalista che fa questo lavoro da decenni. Le macchia una carriera appassionata e rigorosa. E non sono cose da cui ci si risolleva facilmente, specie a 75 anni. Roberta Petrelluzzi è una delle poche giornaliste che ha sempre raccontato la cronaca senza fronzoli, senza falsi scoop, senza i sensazionalismi così di moda, cercando di narrare quello che accade nelle aule di giustizia con l'asciuttezza e la distanza che tutti le hanno sempre riconosciuto. E se tanti hanno conosciuto la storia di Stefano è anche grazie a Un giorno in pretura, che a questa storia ha dedicato tante puntate. Continuo ad ammirare Ilaria, ma no, questa volta non posso darle ragione. Poteva farle una telefonata e urlarle la sua rabbia, ma questa gogna la Petrelluzzi non se la meritava. Per niente.
· Ilaria Cucchi: una donna normale.
Ilaria Cucchi ospite a Domenica In, sui social tanti insulti vergognosi. La Repubblica il 27 ottobre 2019. "Mi manca mio fratello, mi manca da morire" e intanto, mentre Ilaria Cucchi legge su Rai Uno alcuni passi del libro dedicato alla morte del fratello Stefano, sotto il post dedicato all'ospite condiviso sui social da Domenica In spunta una vergognosa sequenza di insulti. "Pensi ai soldi", "Ma basta! E i poliziotti e i carabinieri che hanno perso la vita?", "Morto da solo come un cane...hai detto bene ma questo è accaduto per scelta sua e vostra come famiglia" . E anche, "Scusa, perchè non parli di Bibbiano?". E' questo il tenore di moltissimi dei commenti, in tutto oltre 400, postati sotto una breve clip dell'intervista a Ilaria Cucchi, accompagnata dall'avvocato ( e suo compagno) Fabio Anselmo. Una testimonianza forte che evidentemente però ha "disturbato" il pubblico della tivvù domenicale. Che forse tanto placido non è, stando almeno al tenore delle cattiverie che tributa a Ilaria Cucchi. C'è chi se la prende direttamente con la Venier: "Domenica la gente vuole un pò di leggerezza ed in questo tu sei brava, e invece quel tono di voce lacrimevole non ci sta proprio", chi contro la giovane donna: "Quando finirà questa telenovela, ancora a lucrare sul fratello, sappiamo vita morte e miracoli di questa storia, non se ne può più". E un altro che commenta: "Oggi mio figlio si è sintonizzato su Rai 1 per sbaglio. Mi ha rovinato la domenica. Ho smemorizzato il primo canale, così neanche per sbaglio lo vedremo più". E sono poche le voci che cercano di porre un freno a tanto veleno.
Cucchi, una famiglia in lotta per tutti noi. È stata una vittoria importante quella dei parenti di Stefano. Perché combattuta con grande coraggio, e soprattutto ottenuta attraverso il Diritto. Roberto Saviano il 24 novembre 2019 su L'Espresso. Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il “colpevole” e lo colpisce a morte», scrisse Marco Pannella nel 1973. In queste parole come fare a non leggere ciò che ha significato per l’Italia la vicenda Cucchi? La vicenda Cucchi, sì, perché non riguarda solo Stefano, ma anche la sua famiglia, una famiglia che non è arretrata, che non ha avuto paura, o che forse ne ha avuto, ma si è comunque aggrappata con una determinazione incredibile a tutto il coraggio che aveva a disposizione. Pannella, nella frase che ho ricordato, usa le virgolette per la parola “colpevole” e lo fa perché spessissimo si punisce la vittima, credendola qualcos’altro. Si punisce la vittima spacciandola per colpevole o peggio: la vittima è vittima, ma una volta morta, deve diventare qualcos’altro per evitare che il nostro sistema di “valori” vada in frantumi. I Radicali si sono negli anni occupati di tutti quei casi, che poi sono persone, in cui “colpevoli” hanno perso la vita mentre erano affidati alle cure o alla tutela dello Stato; quindi so che se non racconto qui ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi, a Giuseppe Uva e a Riccardo Magherini sto omettendo una parte importante della storia della difesa dello Stato di Diritto, sto omettendo informazioni che per voi che leggete potrebbero essere importanti per comprendere come si arrivi al caso Cucchi; per comprendere fino in fondo con quale senso di ingiustizia ci siamo specchiati nel volto tumefatto di Stefano che Ilaria ha avuto il coraggio di mostrarci. In quel volto abbiamo visto i nostri volti perché sappiamo di non essere al riparo, perché non crediamo di essere migliori, immuni, lontani; ci siamo specchiati perché siamo uomini e sappiamo che ciò che accade a uno di noi, può accadere a tutti. E Ilaria ha mostrato il corpo martoriato di Stefano sapendo bene almeno due cose: che avremmo ricordato suo fratello così e non come in quelle foto, in cui sono insieme, fratello e sorella, e sorridono. E che chi ha in famiglia persone cadute nella rete della tossicodipendenza è solo. Le famiglie dei tossicodipendenti sono sole, sole a gestire problemi troppo più grandi di loro. Sole e spaventate, tra l’incudine e il martello. E nessuno, se non poche, pochissime persone, a tendere una mano. Non è facile lottare per avere giustizia dopo la morte di un familiare che ha avuto problemi di droga, decidere che nonostante quello che penseranno le persone, nonostante quello che diranno, avere giustizia è l’unico modo per non perdere fiducia in tutto. «Da oggi potrai riposare in pace», dice Ilaria Cucchi pensando a suo fratello, lei che dieci anni fa aveva fatto una promessa e, agendo nel Diritto, l’ha mantenuta. Aveva promesso che avrebbe lottato perché sulla morte di Stefano emergesse la verità, e cioè che Stefano non è morto per droga - perché “tossico”, “drogato”, “spacciatore”, sì, così negli anni lo hanno chiamato - ma perché picchiato a morte. Servirebbe un trattato per dire quanto la lotta della famiglia Cucchi nel Diritto sia preziosa per il nostro Paese perché ha portato alla luce, una volta per tutte, un fatto che deve essere chiaro: chi è affidato allo Stato deve sentirsi al sicuro e non minacciato. E, per corollario, che chi fa uso di droghe, va curato e non punito. Mi ha commosso la foto di Ilaria Cucchi in Tribunale, mi ha commosso vedere la sua mano stretta nella mano del maresciallo presente in aula, che l’ha portata alla bocca e l’ha baciata: «Finalmente dopo 10 anni è stata fatta giustizia», ha detto quel carabiniere mentre compiva un gesto antico. Dal 2006 vivo tra carabinieri e so che questa sentenza ti rompe dentro se sai che qualcuno, con la tua stessa missione, ha tradito ciò in cui credi. Ma so anche che i carabinieri che conosco non permetterebbero mai che un colpevole si nascondesse dietro la loro divisa. La verità sulla tua morte, caro Stefano, è importante per te e per la tua famiglia, ma è fondamentale per noi, perché è l’affermazione dello Stato di Diritto. E oggi sappiamo che non c’è divisa sotto la cui protezione i colpevoli potranno trovare riparo. Mai più.
Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo: un amore nato dalla lotta per Stefano. Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Sul magazine la storia di dolore e felicità. Ilaria Cucchi, 45 anni, insieme con Fabio Anselmo, 62 anni, suo avvocato e compagno, nella loro casa di Roma (foto Ada Masella)In occasione del decimo anniversario della morte di Stefano Cucchi (qui il podcast di Corriere.it), pubblichiamo un’anticipazione dell’articolo di Giovanni Bianconi per 7 sulla relazione tra la sorella del giovane romano morto dopo l’arresto, Ilaria Cucchi, e l’avvocato che l’ha seguita in tutti questi anni: Fabio Anselmo. L’articolo completo sarà pubblicato sul prossimo numero di 7 in edicola venerdì 25 ottobre. Le ultime parole sono affidate a Fabio che ricorda quando il carabiniere Francesco Tedesco, davanti alla Corte d’Assise, terminò la confessione del pestaggio di Stefano Cucchi: «Si alza dal banco dei testimoni e non si avvia subito all’uscita dell’aula. Viene verso di noi. Va da Ilaria, che nel frattempo si è alzata in piedi. Le porge la mano. Ilaria ha una breve incertezza, poi accetta quella stretta». Il libro finisce lì. Ma poi che è successo? Che cosa ha pensato, provato, e detto lei? Risponde Ilaria: «Io la mano non gliela volevo stringere. Tedesco aveva appena finito di raccontare ciò che fino a quel momento avevamo solo potuto immaginare, e i suoi nove anni di silenzio sono stati la causa del nostro dramma. Poi ho ripensato ai silenzi e all’omertà degli altri testimoni e imputati, e a quanto gli dev’essere costata una confessione che avrebbe continuato a pagare cara. Così ho teso la mia mano. Lui ha detto “mi dispiace”; io avrei voluto rispondere “dispiace più a me”, invece ho detto “grazie”». Gli scatti dei fotografi hanno immortalato la scena. Un dolore esposto in pubblico e ripercorso nel libro che Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, il suo avvocato diventato il compagno di una nuova vita, hanno deciso di pubblicare nel decimo anniversario di una morte ancora in attesa di giustizia: Il coraggio e l’amore - Giustizia per Stefano: la nostra battaglia per arrivare alla verità. Un altro passo sotto la luce dei riflettori, che durante questi dieci anni non si sono mai spenti. Per non far calare l’attenzione dell’opinione pubblica ma anche — potrebbe sospettare qualcuno — per strumentalizzare e orientare le inchieste e il processo. Tanto più alla vigilia della sentenza per i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. Fabio: «Non abbiamo strumentalizzato niente e non rinnego nulla di quello che abbiamo fatto. Se mi volto indietro e rivedo ciò che abbiamo dovuto subire, da un processo sbagliato (agli agenti penitenziari assolti, ndr) ai continui interventi a gamba tesa di ministri e scale gerarchiche, mobilitate con tutto il loro potere, credo che abbiamo fatto quel che dovevamo. Come dimenticare che il medico incaricato di stabilire le cause della morte di Stefano annunciò in tv le sue conclusioni prima ancora di cominciare il lavoro? E che la Procura rimase a guardare in silenzio? Avevamo lo scopo di farli vergognare, denunciando tutto, perché di fronte a certe storture e violazioni non c’era altra strada. E ci siamo riusciti».
Sempre mettendo avanti la faccia di Ilaria, che dalla prima intervista in tv, la sera stessa in cui morì suo fratello, è apparsa dura e gentile insieme, distesa e decisa, serena anche quando era arrabbiata: «È la mia arma migliore», confessa nel libro l’avvocato Anselmo. Fabio: «È vero. In tanti altri casi ho dovuto farmi carico di rappresentare il dolore dei familiari delle vittime, e non c’è cosa più triste. Stavolta no, perché il volto di Ilaria era perfetto. E quello che diceva ancora di più». Ilaria: «Mi sono trovata catapultata in un mondo che non era il mio, con un microfono davanti alla bocca, all’improvviso, senza sapere cosa dire. Mi è sempre venuto tutto spontaneo, ma ho dovuto rinunciare alla dimensione privata del dolore per metterlo in piazza. Ho faticato a prendere la decisione, ma non a interpretare una parte, perché non l’ho mai fatto: ho sempre detto quello che pensavo, e tirato fuori ciò che avevo dentro». Fabio: «Lei è sempre uguale, davanti a una telecamera o in casa; naturale e diretta, veloce come un Frecciarossa. Senza il suo viso e il suo modo di essere, la sua semplicità così dirompente, non ce l’avremmo mai fatta. E io mi sono innamorato anche di questo»...
Davide Desario per Leggo l'8 ottobre 2019. Ilaria Cucchi ha 45 anni. Ha un lavoro (il suo studio amministra condomini). E ha due figli. Ma da dieci anni non ha più suo fratello: Stefano, è morto a 31 anni all’ospedale Pertini di Roma (reparto detenuti) dove era stato ricoverato in condizioni disumane dopo essere stato fermato dai carabinieri perché trovato in possesso di un piccolo quantitativo di sostanze stupefacenti. Era il 22 ottobre del 2009. Pesava appena 37 chili.
Partiamo dalla fine: nell’ultima udienza del processo il Pubblico ministero Giovanni Musarò ha chiesto 18 anni di reclusione per i due carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Che ne pensa?
«Penso che il Pm non abbia chiesto pene esemplari ma pene giuste. Sono passati dieci anni e finalmente lo Stato è al nostro fianco. Ma abbiamo dovuto soffrire. Io e i miei genitori abbiamo dovuto sopportare indagini truccate, depistaggi e momenti di sconforto che non auguro a nessuno».
Mi dica il primo che le viene in mente.
«La requisitoria di primo grado nel 2013, quando il pm Maria Francesca Loy definì mio fratello un cafone maleducato. Sembrava che il processo fosse contro Stefano e non contro chi lo aveva ridotto così mentre era nelle mani dello Stato. È stata dura ma ne è valsa la pena. Le cose ora sono cambiate. Lo Stato sta dimostrando che la legge è uguale per tutti, senza sconti. Anche per chi si nasconde dietro una divisa».
Cosa avete organizzato per questo anniversario?
«Questo fine settimana ci sarà uno splendido memorial in due giornate. Sabato una serata di musica e diritti all’Angelo Mai. E domenica mattina una maratona e tanto sport, come piaceva a mio fratello, nel Parco di Torre del Fiscale. E per la prima volta vivrò tutto questo senza il peso di dover chiedere scusa a Stefano per averlo sottoposto a dieci anni di processi».
Dieci anni: tanto tempo? Poco tempo?
«A me sembra ieri. Il tempo sembra si sia fermato. Sarà che non mi sono fermata un attimo. Che non ho avuto il tempo di pensarci perché dovevo lottare per lui. Anzi dovevamo: perché da soli non si fa niente. Poi però, quando faccio fatica a ricordare com’era la voce di Stefano, mi rendo conto di quanto tempo è andato via».
In questi dieci anni c’è mai stato un giorno che non abbia pensato a suo fratello?
«No, mai. Mi sveglio ogni mattina con il suo pensiero. E questo pensiero mi ha dato la forza per andare avanti. Per superare problemi di ordine economico, sì ci sono anche quelli in una brutta storia come questa. Ma soprattutto problemi sul piano emotivo. Io e la mia famiglia abbiamo dovuto patire delle sofferenze che non riesco nemmeno a spiegare. Basti pensare a come ce lo hanno restituito, a come l’hanno ammazzato. Non solo di botte. Ma di pregiudizi. Di solitudine».
Le tornano in mente ricordi di quando giocava con suo fratello da bambina?
«Certo. Quando venivano le mie amiche a casa, per esempio, lo usavamo come un bambolotto e ci divertivamo a vestirlo. E lui stava al gioco».
Come la chiamava Stefano?
«Usava sempre il mio diminutivo, Ila».
E lei?
«Io lo chiamavo tappetto, perché è sempre stato piccolo».
Oggi c’è una canzone su tutte che glielo ricorda subito?
«Sì, il Cielo di Renato Zero».
Perché?
«Ricordo una scena di qualche anno fa. Eravamo a Tarquinia in campeggio. Stavamo facendo un barbecue in famiglia, cercavamo un momento di serenità. Il mio compagno ha messo un po’ di musica all’Ipad ed è partita la canzone di Renato Zero. Ci siamo voltati e abbiamo visto mio padre Giovanni piangere come un bambino».
Cosa le è rimasto nel suo cassetto di Stefano?
«Conservo tante cose. Ma su tutte c’è quello che rappresenta la voglia che Stefano aveva di cambiar vita. Si stava dando molto da fare nel seguire le pratiche nei cantieri. Ci credeva. Gli piaceva. E così si era fatto fare i bigliettini da visita. Ma sono arrivati, qualche giorno dopo la sua morte».
Cosa c’è scritto?
«Stefano Cucchi, geometra. Via Ciro da Urbino 55 (l’indirizzo dello studio di famiglia ndr.). E il telefono. Sono lì. Nessuno li ha toccati».
Ha dei rimorsi?
«No. Rimorsi zero». Silenzio, un sospiro. «No, forse un rimorso ce l’ho, è vero. Quello di non aver buttato giù quella porta quando stava in ospedale. Ma ero un’altra donna, più giovane, più ingenua. Mi fidavo dello Stato».
Oggi non si fida più? Cosa ha detto ai suoi figli?
«Ai miei ragazzi ho detto la verità. Che ci sono stati dei carabinieri che hanno sbagliato con una crudeltà disumana. Ma ho detto loro che non tutte le persone che indossano una divisa sono così. Dobbiamo continuare ad avere il diritto di credere in quel che rappresentano le forze dell’ordine».
In questi anni i politici le sono stati vicini?
«Sì, tante persone. Di destra e sinistra, senza bandiera. Davvero».
Faccia un nome.
«Mi viene subito da ricordare Luigi Manconi, fu il primo a chiamare pochi giorni dopo il decesso. E ci è stato molto vicino».
E chi è che l’ha ferita di più?
«Carlo Giovanardi. Ha accusato me e la mia famiglia di cose orribili. Ma mi sono fatta una grande risata. Ma la cosa peggiore è che ha insultato Stefano. E Stefano non poteva difendersi».
Eppure non ha avuto rigetto della politica, anzi si è candidata due volte.
«La prima nel 2013, seguendo Antonio Ingroia. Credevo che potesse essere l’opportunità per portare all’attenzione di tutti i temi che mi stavano a cuore, quelli dei diritti umani, temi che sembra che non interessano a nessuno e di cui si parla sempre troppo poco.
E la seconda?
«Nel 2016. Alle amministrative di Roma. Fu più una provocazione per chiedere a quei politici di fare un passo indietro. Ma non l’hanno fatto. E allora me ne sono andata io».
Oggi ci proverebbe ancora?
«No. Perché credo che la politica è quella che io e la mia famiglia abbiamo fatto in questi dieci anni lottando per la giustizia. E non solo per Stefano ma per tutti gli ultimi. Perché ognuno pensa che quello che è successo a Stefano sia lontano dalla sua vita ma purtroppo non è così».
A proposito di credere, crede in Dio?
«Sono una persona profondamente cattolica. Io e Stefano siamo cresciuti tra la parrocchia e gli scout. La fede è stato un altro importante elemento che mi ha permesso di andare avanti. Nel film Sulla mia Pelle c’è un passaggio, forse l’unico minimamente ironico, in cui gli chiedono se è credente e lui risponde “no sperante”. Ecco anche io sono sperante».
Da credente come se lo immagina Stefano ora?
«Che mi sorride per la prima volta. Quando ancora non sapevamo e non potevamo immaginare nulla di quel che gli era accaduto, Stefano apparì in sogno. Era sorridente e disse che dovevo andare avanti ad accertare la verità. Non solo per lui. Ma per tutti quelli come lui. Ecco penso che gli sia tornato il sorriso dopo dieci anni».
La Chiesa le è stata vicina?
«Sì, sono stata ricevuta insieme ai parenti di tante altre vittime da Papa Ratzinger. Ma la cosa che mi colpì fu quando, dopo la riesumazione della salma, lo rinchiusero nel loculo del cimitero senza dirci nulla. Ancora una volta Stefano moriva da solo. Come un cane. Senza nemmeno qualcuno al suo fianco. Raccontammo tutto questo al nostro vescovo, monsignor Giuseppe Marciante, e lui venne con me e i miei genitori a pregare sulla tomba di Stefano».
Non crede che ora il film Sulla Mia Pelle meriterebbe un seguito?
«Sì, certo. Dopo aver raccontato la tragedia di Stefano bisognerebbe raccontare il dramma della sua famiglia. Di me, dei miei genitori che sono distrutti, e degli altri familiari. Come i miei figli a cui forse non ho dato un’infanzia come tutti gli altri. Ho sofferto anche per questo, ma oggi credo di avergli dato un grande esempio».
In attesa di un nuovo film, tra poco uscirà il suo libro.
«Sì, il 22 ottobre proprio nell’anniversario della sua morte. L’ho scritto insieme all’avvocato Fabio Anselmo che nel frattempo è diventato il mio compagno. Raccontiamo la nostra storia, la nostra battaglia, la nostra sofferenza».
Come si intitola?
«Il coraggio e l’amore».
Già, più coraggio o più amore?
«Non lo so. Ma sicuramente l’amore ci ha dato il coraggio di andare avanti. Di non smettere di crederci anche nei momenti più bui. Quelli che non ti fanno dormire».
Come sono le sue notti?
«Mi sveglio in preda al panico come se mi accorgessi all’improvviso che è proprio vero che mio fratello non c’è più. A volte quando mi risveglio questa sensazione ce l’ho ancora addosso».
Ma Ilaria Cucchi ha più sorriso?
«Certo. Non dobbiamo mai smettere di sorridere, altrimenti è davvero la fine».
L’ultima volta?
«Oggi a pranzo. Con mia figlia siamo andati da Mc Donald’s. Lei è una simpaticona. Abbiamo parlato molto, soprattutto di lei. Aveva voglia di raccontare. E quando siamo uscite mi ha detto: “Mamma è già finito il nostro momento delle confidenze?”. E io sorridendo le ho promesso che dopo cena avremmo ricominciato».
Ultima domanda: per tanti anni ha scritto sulle pagine di Leggo, tornerà?
«Volentieri. Davvero. Appena posso».
Ilaria Cucchi e il coraggio di mostrare il corpo del reato. Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Fiorenza Sarzanini su Corriere.it. Umiliare la persona che ami per avere giustizia. Esporre la foto del cadavere di tuo fratello per scoprire la verità sulla sua morte. È questa la battaglia che Ilaria Cucchi ha deciso di combattere, la guerra che alla fine è riuscita a vincere. Perché Ilaria ha fatto quello che inizialmente non avrebbe mai pensato di dover fare: usare il corpo per scoprire il reato. Lo racconterà il 13 settembre dal palco del Tempo delle donne, festa-festival del Corriere della Sera che si tiene ogni anno alla Triennale Milano. Ricorderà quei primi giorni dopo aver seppellito Stefano, quando non sapeva che fare per scoprire cosa fosse accaduto prima nelle caserme dei carabinieri, poi in tribunale e nel carcere di Regina Coeli, infine all’ospedale Pertini. Fino all’incontro con Luigi Manconi, il parlamentare del Pd che decise di affiancarla e aiutarla. E alla telefonata con l’avvocato Fabio Anselmo, che aveva seguito altri casi analoghi, che le spiegò in maniera forte ma efficace come muoversi. Era il 2009. Dieci anni sono trascorsi, ma recentemente Ilaria è stata costretta a parlare del proprio corpo per smentire il sospetto che Stefano fosse morto perché indebolito dall’anoressia. Quanto basta per comprendere l’odissea di questa donna apparentemente fragile, e invece forte e determinata, che si è fatta carico del dolore della sua famiglia riuscendo a trasformarlo nella sua forza. È un cammino pieno di ostacoli quello che Ilaria Cucchi intraprende quando suo fratello non è ancora stato sepolto. È Manconi a guidare le sue prime mosse, lui che di quanto accade nelle carceri si occupa da sempre e di casi come quello di Stefano Cucchi ne ha seguiti tanti. Nel frattempo Ilaria aveva contattato il legale che già assisteva la famiglia Aldrovandi, determinata a far processare i poliziotti che nel 2005 avevano fermato per strada e poi picchiato Federico, 18 anni, fino a farlo morire. E che le rimarrà sempre accanto. Adesso Ilaria lo racconta quasi con fierezza, ma nel 2009 fa quel consiglio dell’avvocato le era suonato quasi come un oltraggio: «Parlai con Anselmo e lui mi disse “la prima cosa è scattare foto al corpo”. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare». Ben presto si rese conto che non era affatto così e adesso lo conferma: «Senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque». L’obiettivo di Ilaria era soltanto uno: scuotere le coscienze, mostrare la propria disperazione per avere il sostegno dell’opinione pubblica. L’esibizione delle foto è stata la prima mossa per consentire all’avvocato e agli esperti scelti dalla famiglia, che seguivano ogni passo delle indagini, di avere una voce forte, anche mediatica. Nulla è stato facile, le resistenze, le bugie e le omissioni di chi avrebbe dovuto invece raccontare sin dall’inizio che cosa fosse accaduto erano evidenti. E lei non si è arresa. Il 13 giugno 2019 — alle battute finale del processo-bis in Corte d’Assise, dopo quello rivelatosi sbagliato contro gli agenti penitenziari definitivamente assolti — arriva la dimostrazione che l’esibizione del corpo di Stefano Cucchi avvenuta dieci anni prima è servita. Perché i periti del giudice per la prima volta stabiliscono il possibile nesso di causa-effetto tra le lesioni vertebrali provocate dal pestaggio subito da Cucchi e la sua fine. Vuol dire che non sarebbe morto se le botte prese in quella caserma dei carabinieri, dove fu portato dopo essere stato arrestato e confessate dopo quasi nove anni di silenzi e coperture da uno degli attuali imputati, non avessero fiaccato il suo fisico in maniera irreversibile. Ilaria lo racconterà per dimostrare quanto è importante in un’indagine giudiziaria far «parlare il corpo». Ma anche quanta sofferenza provoca e soprattutto quanta determinazione e forza bisogna avere per andare avanti. Racconterà quello che sono stati questi dieci anni per i suoi genitori, le loro iniziali resistenze a rendere noto tutto, anche il fatto che Stefano fosse uno spacciatore. Svelerà che cosa accade quando in una famiglia normale, abituata ad avere fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti, devi compiere scelte dolorose e rischiose per valicare il muro di omertà. E soprattutto come ha vissuto lei, che ha dovuto a sua volta subire insulti e umiliazioni, ma non ha mai chinato il capo. Anzi. L’ultima volta è accaduto qualche settimana fa, quando si è ricominciato a parlare della possibilità che Stefano fosse morto perché anoressico. E allora lei ha deciso di rendere pubblica una foto che la ritrae pochi giorni prima dell’arresto del fratello. È in costume, in braccio ha la sua bambina. «Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... non me ne sono accorta. Certo se mi avessero pestata violentissimamente...».
Ilaria Cucchi: «Pesavo 40 chili come Stefano, non ero malata. E nessuno mi ha picchiato». Pubblicato lunedì, 18 marzo 2019 da Corriere.it. Ha pubblicato su Facebook una foto che la ritrae proprio nei giorni precedenti all’arresto del fratello. Uno scatto per raccontare che anche lei, come lui, pesava 40 chili. Ilaria Cucchi torna a parlare della morte del fratello Stefano, di quei verbali dei Carabinieri in cui i militari riferiscono che il fratello, tra le altre cose, fosse anoressico. «Questa ero io pochi giorni prima dell’arresto di mio fratello. Alta come lui, pesavo anch’io poco più di 40 chili. Stavo bene come bene stava lui. Ero malata di anoressia nervosa? Mah... io non me ne sono accorta - scrive Ilaria nel post che accompagna l’immagine, che la ritrae sorridente con la figlia - Certo se mi avessero pestata violentissimamente spezzandomi la colonna vertebrale in due punti e provocandomi una commozione cerebrale avrei sicuramente smesso di stare bene. Se poi ne fossi morta in ospedale dopo sei giorni, sono certa che qualunque medico legale avrebbe mandato in carcere i miei aggressori» prosegue nel messaggio. Per poi concludere: «A meno che non fossero intervenuti con le loro “consulenze“ fatte in casa ma preveggenti i Generali Casarsa e Tomasone»,e il riferimento è proprio a quei documenti dell’Arma in cui Vittorio Tomasone, all’epoca comandante provinciale a Roma, e l’allora comandante del gruppo Roma Alessandro Casarsa, arrivano alle conclusioni sulle cause della morte di Cucchi prima che vengano effettuate le perizie. Documenti in cui si legge appunto che «i risultati parziali dell’autopsia sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi», e dove si parla di «malessere attribuito al suo stato di tossicodipendenza», di «gravi patologie, anoressia, epilessia e sieropositività». Gli stessi documenti su cui si basò l’informativa del ministro della Giustizia Alfano al Senato il 3 novembre 2009. Casarsa, che fino a gennaio era capo dei corazzieri in servizio al Quirinale, è stato iscritto nel registro degli indagati ed è accusato di falso.
Ilaria Cucchi: «Stefano voleva che fossi felice. L’amore con Fabio è un suo regalo». Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. «Abbiamo scritto una piccola pagina di storia. Abbiamo cambiato il corso di un processo dall’esito annunciato», dice Ilaria Cucchi al Corriere. Dicendo «abbiamo», parla di lei e dell’avvocato Fabio Anselmo, che ha combattuto al suo fianco da quando suo fratello Stefano è morto, dopo un arresto per spaccio. Nel frattempo, Anselmo è diventato il suo compagno. Lei racconta: «A volte, gli dico: io e te cambieremo il mondo. E lui: non esagerare». L’altro giorno, nel Cucchi Ter, che vede imputati per presunto depistaggio otto carabinieri, si sono costituiti parte lesa l’Arma, i ministeri dell’Interno e della Difesa, la presidenza del Consiglio: un gesto simbolico che premia la tenacia di Ilaria. Stasera, alle 21.25, sul Nove, va in onda Stefano Cucchi, la seconda verità. Il documentario ripercorre quelli che lei chiama «sei anni di processi sbagliati» più quelli del Cucchi Bis e Ter in cui per la prima volta, dice lei, «la giustizia non mi ha fatto sentire sola e mi ha dato una speranza per Stefano e per tutti gli ultimi».
Come sono stati questi dieci anni?
«Io non ho ancora lasciato andare mio fratello, non l’ho salutato. Lo farò quando avrò la verità. Sono ferma a quando, guardando il corpo martoriato all’obitorio di Roma, gli dico: è colpa mia, non ho saputo salvarti, ma ti prometto che andrò fino in fondo».
Perché «colpa sua»?
«Perché nei sei giorni in cui fu agli arresti, non riuscii a ottenere l’autorizzazione per vederlo. E io, che credevo nelle istituzioni, mi dicevo: però, è in buone mani, non può succedergli nulla. Invece, Stefano stava morendo solo come un cane, pensando che l’avessimo abbandonato. Questo farò fatica a perdonarlo, se arriverà il giorno del perdono».
Chi era Ilaria Cucchi, prima di quel 22 ottobre 2009?
«Una ragazza normale, che s’era sposata a 26 anni, aveva avuto Valerio a 28, Giulia a 34 e che non aveva mai preso una decisione da sola. Mi ero sempre affidata ai genitori, poi a mio marito. Ero una perfettina, diceva Stefano. Nell’ultima telefonata, mi parlava della difficoltà di reinserirsi dopo la comunità, io gli facevo coraggio. E lui: “Ma che ne sai? Tu hai una vita perfetta”».
Come si perde Stefano?
«Era sempre il più piccolino di tutti. Per camuffare la fragilità faceva lo spavaldo, ha incontrato brutte compagnie e la droga. Ma era buono, e simpatico al punto che io, da timida, me lo portavo dietro per fare amicizia più facilmente. Mi chiedeva “ma sei felice?”. Era così sensibile da aver capito che la mia vita era perfetta solo all’apparenza».
Dov’era l’imperfezione?
«In questi dieci anni, Stefano mi ha fatto tanti regali. Il primo è farmi capire che certe cose non possiamo cambiarle, mentre per altre abbiamo il dovere di lottare. E poi, nel tempo, ho trovato la mia dimensione di donna e la felicità che lui mi augurava. Mi sono separata e l’altro regalo di Stefano è stato Fabio, che a volte mi fa: vorrei non averti conosciuta, perché significherebbe che Stefano è vivo».
È un amore straordinario.
«Lo è. Ci ha consentito di trovare forza l’uno nell’altra. In un’udienza in cui pareva che sotto accusa ci fosse Stefano perché drogato o magro, Fabio ha chiesto di fare una domanda ai medici che l’avevano visitato vivo. Gliel’hanno negata. L’ho visto lanciare in aria la toga e urlare “io vengo da Ferrara tutte le settimane a spese di questa famiglia e voi non mi consentite di fare il mio lavoro”. In quell’istante, mi sono innamorata di lui».
Non l’immaginava quando lo scelse perché aveva seguito il caso Aldrovandi.
«Mi disse: la prima cosa è scattare foto al corpo. Io pensai: che strani questi avvocati del Nord, ci sarà l’autopsia e tutto andrà come deve andare. Invece, senza la foto del volto pesto, tutto si sarebbe fermato. Vedendola, tutti hanno capito cosa era stato fatto a Stefano e la solitudine che ha provato quando è morto. Per tenere alta l’attenzione pubblica sono andata ovunque. Lasciavo i figli a casa, Giulia mi vedeva solo in tv. Lì ho scoperto che parlare significa non elaborare il lutto, rivivere sempre lo stesso dolore».
Quando avrà dei colpevoli come si sentirà?
«So che comunque, avremo perso anni e serenità. Io non ho mai portato mia figlia a una festa. Però, ho anche insegnato ai figli molto di più di quanto avrebbe fatto la mamma perfettina che ero».
Ilaria Cucchi, senza retorica. La vita straordinaria di una donna normale, scrive Valentina Della Seta il 15 Aprile 2019 su rivistastudio.com. In un altro universo di Ilaria Cucchi non ho mai sentito parlare. Magari l’ho intravista nel gruppo di madri e padri alla piscina comunale, aspettano i figli per aiutarli ad asciugarsi i capelli dopo la lezione di nuoto il sabato pomeriggio. O è una vicina di casa, di quelle che si accorgono se qualcuno sta arrivando al portone con le mani occupate e lo lascia aperto. Me la immagino riservata, saluta sorridendo ma non si ferma a chiacchierare in cortile. Ci sono persone che fioriscono e prosperano nella normalità, nell’anonimato. Ilaria Cucchi, vista da lontano, mi è sempre sembrata una di queste. La prima cosa che noto se cerco di ricostruire la sua storia, se leggo in giro quello che è stato scritto su di lei, è che è quasi impossibile raccontarla senza frasi retoriche. Ovunque si parli di Ilaria Cucchi trovo rappresentazioni di «eroine che non si arrendono, ferite che non si rimarginano, muri che crollano, veli di polvere marcia, verità che squarciano il buio». Non mi pare che queste visioni ne colgano l’essenza. Cucchi, ogni volta che ha preso la parola in questi anni, lo ha fatto con semplicità e senza la minima retorica: «In sei anni avrò pianto un paio di volte la morte di mio fratello, io quel lutto non l’ho mai completamente elaborato perché non ce n’era il tempo», ha detto per esempio in un’intervista del giugno 2016 firmata da Fabrizio Rostelli. In quel «non ce n’era il tempo» si può trovare forse qualcosa che unisce l’Ilaria Cucchi di prima della tragedia con quella di adesso, una sorta di amorevole e solida praticità nei confronti della vita che più di ogni altro dettaglio la caratterizza.
Tutto accade a Roma, ma in una zona un po’ lontano da San Pietro, il Colosseo, il Circo Massimo o Piazza Venezia: «Una matassa ingarbugliata di tangenziali e raccordi (…), una fossa di mattoni e sabbie mobili fortificata dall’abitudine e dal futuro che non arriva», la descrive Claudia Durastanti in Cleopatra va in prigione (Minimum Fax 2016). Ilaria Cucchi nasce nella metà degli anni Settanta in un posto così. A Torpignattara, quartiere sorto tra gli anni Venti e Trenta all’inizio della Casilina subito dopo il Pigneto. Una delle periferie storiche della città: «Negli anni Settanta e Ottanta non era ancora il quartiere (per fortuna) multietnico, ma pieno di realtà atomizzate e contraddizioni, che conosciamo oggi. Torpignattara era la tipica borgata romana di una volta, in cui si mescolavano famiglie della piccola borghesia impiegatizia, artigiani, commercianti, muratori», spiega Valerio Mattioli, che a settembre pubblicherà con Minimum Fax un libro sulle periferie romane. «Facendo attenzione a non romanticizzare troppo il passato, si può forse dire che Ilaria Cucchi, con il suo impegno titanico e solitario, è l’incarnazione di come poteva essere il quartiere quando c’era un diverso senso della collettività».
Roma non è mai diventata una vera metropoli, forse perché ci sono troppi ministeri, o perché le zone sono così mal collegate che ognuna resta una sorta di Paesone a sé. Di sicuro non è mai stata come Londra, dove i ragazzi che restano in giro di notte possono finire accoltellati. O come New York, da cui sono arrivate storie (come un saggio di Joan Didion) di ragazze andate a fare jogging all’alba stuprate e uccise nel parco. È una città tutto sommato inoffensiva, di parrocchie e mercati rionali, dove i piccoli fuorilegge sono tradizionalmente detti «malandrini», una parola che si porta dietro una connotazione anti-drammatica e in un certo senso accogliente.
Stefano Cucchi non era El Chapo e, per restare da queste parti, non era nemmeno Massimo Carminati (che condivide l’avvocato con i carabinieri imputati per la morte di Cucchi); era più probabilmente il fratello minore un po’ inquieto e malandrino di una sorella maggiore che, dal giorno della sua nascita (Ilaria allora aveva quattro anni), aveva iniziato a prendersene cura come una seconda mamma: «Era la persona che amavo di più al mondo», ha detto lei. Nei casi di morte violenta per mano dello Stato sono state quasi sempre le madri a affrontare la lotta per la verità e giustizia (quelle che ne hanno avuto la forza, perché devono essere molte di più le storie che non conosciamo). Ci sono le madri argentine di Plaza de Mayo, e qui, per citarne alcune, la madre di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Giulio Regeni. Ilaria Cucchi in Italia è stata forse l’unica sorella a ricoprire questo ruolo (in Francia c’è Assa Traoré, 32 anni, che si definisce «portavoce di una famiglia numerosa e affiatata» originiaria del Mali, e cerca la verità per la morte per soffocamento in una gendarmeria del fratello Adama di 23 anni). Non che Ilaria Cucchi fosse preparata: «In tribunale c’ero stata solo dal giudice di pace, per le questioni dei condomini che amministro. Non avevo mai messo piede in un’aula giudiziaria», ha raccontato un milione di udienze più tardi.
Sorellanza e fratellanza sono tra le parole giuste per descriverla, non solo perché è cresciuta andando a catechismo e agli scout. Alla morte di Stefano, ancora sotto choc, aveva cercato il numero dell’avvocato Fabio Anselmo di Ferrara. Anselmo ha creato un precedente importante nella storia dei procedimenti contro le violenze delle forze dell’ordine, facendo condannare i poliziotti che nel 2005 avevano ucciso a manganellate il diciottenne Federico Aldrovandi («Non ho concorrenti. Solo un pazzo come me può fare il mio lavoro», ha detto lui a Vanity Fair qualche anno dopo). Nel libro di Carlo Bonini Il corpo del reato(Feltrinelli, 2016) è descritto il primo incontro nello studio di Anselmo tra Ilaria Cucchi e Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi: «Rimasero a parlare con Patrizia per un tempo che le sembrò lunghissimo, durante il quale sentì crescere una confidenza istintiva», scrive Bonini. «La mia nuova famiglia è formata da Patrizia Moretti, Lucia Uva, Domenica Ferrulli. Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli sono i loro morti», gli fa eco Ilaria Cucchi sull’Huffington Post. Colpisce il modo in cui parla, nelle interviste alla radio o in tv, riprendendo fiato tra una frase e l’altra, come qualcuno che si sia ritrovato, suo malgrado, a abitare sott’acqua.
In un’immagine tra le più note della vicenda Cucchi c’è Ilaria davanti al tribunale a Roma nel 2014. Tra le mani tiene una foto ingrandita con la faccia del fratello all’obitorio, come un poster che è quasi l’unica cosa che riesci a vedere. Ma lei, dietro, la noti lo stesso: gli occhiali da vista con la montatura bicolore, i capelli lisci con le schiariture tagliati alle spalle, la bocca stretta di una persona che si sta facendo forza per resistere a tutto. Colpisce anche il modo in cui parla, nelle interviste alla radio o in tv, riprendendo fiato tra una frase e l’altra, come qualcuno che si sia ritrovato, suo malgrado, a abitare sott’acqua. O come qualcuno che da anni si ripeta a mente sempre lo stesso discorso per paura di dimenticarne dettagli essenziali. Senza mai alzare la voce o perdere la pazienza, Ilaria Cucchi resiste da più di tremila giorni alle voci di chi ha tentato di infangarla in tutti i modi. Si sa di chi si tratta, vorrei evitare di riverberarne una volta di più i nomi nell’algoritmo. Ministri dallo sguardo incattivito che hanno tentato di approfittare dell’idea antiquata ma diffusa che la dipendenza da sostanze sia come l’invasione degli ultracorpi, che chi si droga si ritrovi posseduto come i bambini biondi nel film del 1960 Il villaggio dei dannati.
Non è così. La droga non trasforma le persone. Forse mette in crisi le famiglie, e Ilaria Cucchi, nella propria, si è data sempre da fare per convincere il fratello a curarsi, a andare in comunità. Non è un compito facile: «Sono stata anche la sua peggior nemica», ha detto lei. Che Stefano Cucchi non sia morto di droga ma di violenza meschina, riservata a persone considerate di serie B, vigliacca e oscena, che si consuma nelle celle isolate, di notte, in tanti contro uno, oggi è accertato. C’è la confessione di uno dei carabinieri presenti la notte del 22 ottobre 2009 nella caserma Appia di Roma: «Il momento è arrivato. Lui c’era e finalmente può raccontare», ha scritto Ilaria Cucchi sul suo profilo twitter l’8 aprile. Lei resta fedele all’immagine che ce ne siamo fatti, dice: «Ho visto delle cose così brutte in carcere che quasi non lo auguro nemmeno agli assassini di mio fratello». È rimasta a vivere a Roma Est. Si prende cura dei genitori, che per il dispiacere si sono ammalati. Un amico che fa il cameriere in un bar famoso al Pigneto racconta che va spesso a pranzo li con Fabio Anselmo: «Sono sempre gentili». È l’unico particolare non triste di questa storia, il fatto che Cucchi e Anselmo si siano innamorati: «Un regalo che mi ha fatto Stefano», ha detto lei. «Mi chiedeva sempre se ero felice, perché si accorgeva che non lo ero».
· Il Concerto per Cucchi.
“LO “SCONCERTO” DEL PRIMO MAGGIO MI METTE UNA TRISTEZZA INFINITA”. Aldo Grasso per “il Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Non so a voi, ma a me lo «sconcerto» del 1° maggio in piazza San Giovanni a Roma mette una tristezza infinita. Colpa mia, lo ammetto, perché leggo che ad altri è piaciuto molto. Forse perché ragiono in termini di comunicazione, ma il maglioncino di Ambra con la scritta «Cgil Cisl Uil» era come mettere il dito nella piaga. Ambra ha assorbito lo spirito polemico del suo fidanzato Massimiliano Allegri e ha voluto infilarsi uno straccetto in polemica con quanti lo scorso anno l' avevano criticata per aver indossato una mise griffata. Avrei voluto essere Lele Adani e spiegarle alcune cose. Forse perché la pioggia suggerisce mestizia, desiderio di un riparo: «C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo». O forse per tutti quegli omaggi iniziali a illustri scomparsi: Kurt Cobain, Lou Reed, metà dei Beatles Il problema non è Ambra (per quanto), il problema è la scritta, un vero paradosso. In termini simbolici, il concertone è quanto di più distante esista dalle politiche sindacali, dal tipo di comunicazione di Maurizio Landini (anche lui ha un suo modo di vestirsi), dal vuoto di Carmelo Barbagallo, dalle lezioncine di Annamaria Furlan. E infatti il sindacato è assente, non si rivolge ai giovani, lavora su altre piazze. Certo, la presenza di Noel Gallagher che canta «All you need is love», accanto ai suoi successi con gli High Flying Birds, ha portato un respiro internazionale e ha elevato il tasso di rock della serata dopo un pomeriggio segnato, bisogna dirlo, da bande di misconosciuti (a parte i portentosi Pinguini Tattici Nucleari) in cerca della necessaria visibilità. Poi, come dicono le cronache, «Carl Brave diverte, Manuel Agnelli fa sognare, Daniele Silvestri fa sfogare la piazza con un liberatorio "mortacci", i Subsonica fanno ballare». Accanto ad Ambra c' era Lodo Guenzi. Due spalle (di cui una spalluccia) non fanno un conduttore.
Poche cantanti sul palco. Ma le donne conquistano la scena. Polemiche per una scaletta quasi tutta di uomini ma Ambra Angiolini, Ilaria Cucchi e a Bari Valeria Golino sono le protagoniste di un immaginario che sta cambiando. Meno star e più artisti che parlano ai giovani. Angela Azzaro il 3 Maggio 2019 su Il Dubbio. La scaletta del Concertone a piazza San Giovanni le aveva tenute fuori, ma le donne si sono riprese la scena. La polemica che aveva caratterizzato la vigilia del classico appuntamento del Primo Maggio non era campata in aria e bene hanno fatto le artiste che hanno organizzato un contro evento all’Angelo Mai, lo spazio occupato a Roma. Ma accesi i riflettori, iniziata la “festa” la voce delle donne si è fatta sentire con forza. Si è sicuramente sentita quella di Ambra Angiolini, una attrice e donna di spettacolo che ogni volta, come una sorta di maledizione, deve dimostrare di non essere più la ragazza teleguidata di “Non è la Rai”. Anche questa volta c’è riuscita dominando il palco senza sbavature, con simpatia e professionalità. Ilaria Cucchi, che da anni porta avanti con raro coraggio la battaglia perché emerga la verità sulla morte di Stefano, l’altro ieri ha conquistato anche il palco di San Giovanni. Il suo esempio, più di tanti altri discorsi politici, riesce a parlare alla generazione in piazza, rappresenta un simbolo importante anche per loro che hanno urlato, in coro, il nome del fratello. A Bari, dove era in corso la manifestazione di cinema Bifest, Valeria Golino nel salutare la platea ha osato addirittura fare l’augurio di un buon Primo Maggio con il pugno chiuso, con un gesto fino a qualche anno fa scontato, quasi retorico, ma che oggi in pochi, soprattutto nel mondo del cinema, sembrano ricordarsi e che assume quindi una valenza quasi dirompente. Ma come è possibile che l’accusa di esclusione delle donne dal Primo Maggio e questo protagonismo femminile vadano insieme? La risposta è semplice da enunciare, difficile da rimuovere. Il problema delle artiste che non arrivano sul palco dei grandi eventi non dipende certo dalla mancanza di talenti o dalla mancanza di artiste determinate, ma da una struttura di potere che – più si sale – più resta nelle mani degli uomini. Giustamente gli organizzatori del Primo Maggio hanno protestato contro produttori e agenzie delle cantanti che hanno detto no alle loro proposte di ingaggio. Sotto accusa è la struttura che va cambiata, anche forzando la mano, perché niente accade per caso o con facilità. Ma nonostante il potere continui a restare nelle mani maschili in vari ambiti ( politica, arte, sapere) le donne sono diventate più forti, più determinate e appena conquistano lo spazio pubblico si fanno sentire. Il Primo Maggio lo hanno fatto cogliendo anche il bisogno di simboli di una generazione. Il tifo quasi da stadio per Ilaria, il pugno chiuso di Valeria, la forza di Ambra di uscire dallo stereotipo che le era stato cucito addosso raccontano un immaginario in cui le nuove generazioni cercano di identificarsi. Per tanti anni si era pensato che la società liquida, secondo la definizione stra abusata ( anche da lui stesso) del sociologo Zygmunt Bauman, non avesse bisogno di simboli, che la caduta del muro portasse con sé un immaginario pacificato, lineare. In questi anni abbiamo scoperto, anche amaramente, che non è così. La mancanza di simboli ha generato l’identificazione nella rabbia, nel rancore. La comunità ha trovato coesione non sulla solidarietà ma sull’odio nei confronti dell’altro, un meccanismo profondo, che ha poi avuto nei social network lo strumento per diffondersi e rigenerarsi. Oggi le nuove generazioni sembrano voler chiedere altro, vogliono poter credere in qualcosa. Il successo del film sulla vicenda di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, il calore con cui Ilaria è stata accolta sul palco del Primo Maggio sono i segni di questa necessità, di questo bisogno di uscire dal presente e di credere nel futuro. E’ lo stesso meccanismo che ha fatto scattare Greta Thunberg ( un’altra giovanissima donna). Non solo la questione ambientale, ma il bisogno di credere in qualcosa. La preoccupazione per il pianeta che stiamo distruggendo come necessità di condividere la stessa idea di mondo, di umanità. E per questo che il Concertone funziona ancora: perché dà una risposta anche se occasionale alla necessità di stare insieme intorno a un ideale condiviso. Quest’anno l’offerta era molto giovane, nomi forse non noti a tutti, ma amati dal pubblico che va a piazza San Giovanni. Rancore, Anastasio, Zen Circus, Ghemon, Achille Lauro, Ghali, Motta e gli ormai “vecchi” Daniele Silvestri e i Negrita. I quaranta, cinquantenni si sono molto lamentati. Ma questa volta tocca a loro, a quei ragazzi e a quelle ragazze che hanno urlato “Stefano, Stefano”.
· Depistaggio: accusa e scuse e costituzione di Parte Civile.
Processo Cucchi, gli agenti penitenziari scagionati ora chiedono un milione a testa. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it. Una vicenda giudiziaria che ha «devastato la loro vita». E ora «va resa giustizia a Stefano, ma anche a chi è stato accusato ingiustamente». I tre agenti della polizia penitenziaria, assolti in maniera definitiva nel primo processo sulla morte di Stefano Cucchi, attraverso i propri legali chiedono ora giustizia, nelle battute finali del procedimento contro cinque carabinieri. La sentenza è prevista a novembre. Le parti civili chiedono anche un risarcimento di un milione di euro per ognuno dei tre agenti della penitenziaria. Per il legale Diego Perugini, parte civile per uno degli agenti imputati nel primo processo, la vita del suo assistito «è stata distrutta da una cronaca giudiziaria che l’ha descritto come l’omicida di Stefano Cucchi. Gli hanno strappato la vita dalle mani. La sua vita è stata devastata. Un danno fatto anche alla giustizia». Per l’avvocato Massimo Mauro, dev’essere «resa giustizia a Stefano Cucchi e giustizia a tre appartenenti della polizia penitenziaria che devono riacquisire quella dignità che è stata loro calpestata». Sulla stessa linea la parte civile che rappresenta Rita Calore, madre di Stefano, e l’associazione Cittadinanzattiva onlus: «Il processo Cucchi diventerà un simbolo di come il sistema giudiziario possa rimediare ai propri errori - ha spiegato l’avvocato Stefano Maccioni -. Esattamente oggi, dieci anni fa, in queste ore - ha ricordato il penalista - Stefano veniva portato in tribunale per l’udienza di convalida del suo arresto». In aula è intervenuto anche il legale di Vincenzo Nicolardi, uno dei carabinieri imputati per calunnia. L’avvocato Alessandro Poli ha spiegato le ragioni del suo assistito: «In merito alle annotazioni di servizio dei carabinieri dopo la morte di Cucchi, prese in esame in aula, Nicolardi ha riconosciuto solo quella del 27 ottobre 2009 perché quella redatta il 16 ottobre non era stata scritta e firmata né mai vista da lui. Nella relazione del 27 ottobre, Nicolardi aveva specificato: fin quando è stato con noi non aveva lamentato nessun dolore. Quelle annotazioni erano state redatte dopo la morte di Stefano per fare chiarezza sulla vicenda, su richiesta dei vertici dell’Arma». Poli ha poi segnalato «le incongruenze» all’interno delle dichiarazioni dell’imputato-testimone, il carabiniere Francesco Tedesco, il quale ha denunciato di aver assistito al pestaggio di Cucchi da parte - secondo la sua testimonianza - dei colleghi Di Bernardo e D’Alessandro nella stazione Appia. I tre carabinieri sono accusati di omicidio preterintenzionale. Tedesco, così come Vincenzo Nicolardi e l’allora comandante della stazione Appia, Roberto Mandolini, deve rispondere anche dell’accusa di falso e calunnia, per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, e aver testimoniato il falso al processo di primo grado, con dichiarazioni che portarono all’accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità nei confronti di Cucchi.
Roma, al processo Cucchi il pm chiede 18 anni per i due carabinieri. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni, Giovanni Bianconi. Musarò: «Non chiediamo pene esemplari ma giuste». «Vi chiedo di condannare per omicidio preterintenzionale Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a 18 anni di carcere e per il falso e calunnia Roberto Mandolini a 8 anni e Vincenzo Nicolardi, e di assolvere Francesco Tedesco per l’omicidio preterintenzionale ma di condannarlo a 3 anni e 6 mesi»: le richieste del pubblico ministero Giovanni Musarò chiudono la requisitoria del processo Cucchi bis, durante la quale sono stati ripercorsi i passaggi più importanti dal punto di vista processuale. Dopo due anni di dibattimento la discussione si avvia verso la conclusione. Il momento più significativo era venuto dalle rivelazioni in aula dell’imputato Francesco Tedesco il quale aveva ricostruito i momenti successivi all’arresto di Stefano Cucchi: «Cucchi e Di Bernardo (il carabiniere Raffaele Di Bernardo ndr) cominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano... Fu un’azione combinata» aveva rivelato l’imputato l’11 ottobre 2018. In seguito alla morte di Stefano Cucchi era scomparsa una relazione dello stesso Tedesco sul pestaggio, ha raccontato Tedesco assistito dal suo avvocato Eugenio Pini: «Pensavo — ha detto — che di lì a breve mi avrebbe convocato il maresciallo Mandolini per chiedermi conto dell’annotazione ma io ero determinato ad attestare quanto era accaduto. Qualche giorno dopo, invece, mi resi conto che, sulla copertina del fascicolo, era stato cancellato con un tratto di penna quello che avevo scritto e che le due annotazioni erano scomparse». La testimonianza è importante anche ai fini della ricostruzione del depistaggio che sarà affrontato al processo ter (inizierà il 12 novembre prossimo). Infine ci sono le dichiarazioni del collegio dei periti presieduto dal professor Francesco Introna che per la prima volta, a giugno, ha ammesso l’esistenza di un nesso fra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi. «Nessuno può avere certezze — ha detto Introna — però, se non ci fosse stata la frattura trasversale del bacino (causata dalle botte, ndr), Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato in quelle condizioni». La sentenza potrebbe arrivare già il 6 novembre.
Cucchi, chiesti 18 anni per i due carabinieri che lo pestarono. Il pm: "Depistaggi da film dell'orrore". Le richieste di condanna nel processo bis per le responsabilità dei cinque militari, tra cui i due autori del pestaggio rispondono di omicidio preterintenzionale e l'allora comandante della Stazione Appia per il quale sono stati chiesti 8 anni oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sorella Ilaria: "Questo processo ci riavvicina allo Stato". La Repubblica il 03 ottobre 2019. Diciotto anni per i due autori del pestaggio. Con la specifica che non si tratta di "un processo all'Arma dei carabinieri anche se nella vicenda Cucchi i depistaggi hanno toccato picchi da film dell'orrore". Sono arrivate le richieste di condanna nell'ultimo giorno di requisitoria nell'aula bunker di Rebibbia del pm Giovanni Musarò nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell'ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell'ospedale Pertini di Roma. "Questo è un processo contro cinque esponenti dell'Arma dei Carabinieri che - ha spiegato subito Musarò - come altri esponenti dell'Arma oggi imputati in altro procedimento penale, violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l'Istituzione di cui facevano e fanno parte". La sentenza è slittata al 14 novembre. La decisione è stata presa dai giudici della prima Corte d'Assise di Roma a causa dei numerosi avvocati difensori degli imputati che dovranno intervenire e per permettere eventuali repliche. Cinque gli imputati: si tratta Francesco Tedesco, che a nove anni di distanza ha rivelato che il 31enne venne 'pestato' da due suoi colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, accusati come lui di omicidio preterintenzionale per i quali è arrivata la richiesta di 18 anni di carcere. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia (nei confronti degli agenti penitenziari) assieme al maresciallo Roberto Mandolini, mentre solo di calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. Per Tedesco, accusato dello stesso reato di omicidio, il pm ha sollecitato l'assoluzione "per non aver commesso il fatto". Per lui, però, che risponde anche del falso, è stata chiesta una condanna a 3 anni e 6 mesi. Otto anni di reclusione, poi, sono stati avanzati per il maresciallo Mandolini (all'epoca comandante interinale della Stazione Appia), anche lui per il reato di falso. Il 'non doversi procedere' per prescrizione dalla calunnia commessa ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria è stato sollecitato, infine, oltre che per Tedesco e lo stesso Mandolini, anche per il quinto imputato, Nicolardi. "La responsabilità è stata scientificamente indirizzata verso tre agenti della polizia penitenziaria - ha detto il pm ricostruendo la drammatica morte del ragazzo - ma il depistaggio ha riguardato anche un ministro della Repubblica che è andato in Senato e ha dichiarato il falso davanti a tutto il Paese". Il riferimento è alla giornata di martedì 3 novembre 2009, quando nell'aula del Senato il ministro della giustizia, Angelino Alfano, nell'ambito dell'informativa del governo sulla vicenda, venne chiamato a riferire sulle circostanze della morte del giovane. “Un pestaggio violentissimo – ha proseguito l’accusa - in uno stato di minorata difesa. Sono due le persone che lo aggrediscono. Colpito quando era già a terra con calci in faccia, di questo stiamo parlando. La minorata difesa deriva dal suo stato di magrezza". "Stefano era magro – ha spiegato - era sottopeso, pesava circa 43 kg perché aveva la necessità di stare sotto i 44 kg dato che doveva combattere nei pesi 'super mosca'. Non era una magrezza patologica. Sul tavolo dell'obitorio invece pesava 37 kg. Perché perse 6 kg in 6 giorni? Perché durante la degenza al Pertini non si alimentava a causa del trauma subito. Si è speculato sulla sua magrezza". "Nel comportamento di Cucchi all'ospedale - ha sottolineato - vi era un atteggiamento di chiusura, chiarissimo sintomo da 'disturbo post traumatico da stress' a causa del pestaggio subito, come dichiarato dal professore Vigevano. Cucchi rifiutava le cure e prendeva le medicine solo quando venivano aperte davanti". "Venne fatto passare per un sieropositivo e tossicodipendente in fase avanzata – l’affondo del pm - nulla era vero. Stefano Cucchi stava bene prima del pestaggio, ma altro venne fatto credere al Paese, insieme alle accuse agli agenti della polizia penitenziaria". "Questo processo ci riavvicina allo Stato, riavvicina i cittadini e lo Stato", commenta Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, a conclusione della requisitoria: "Non avrei mai creduto di trovarmi in un'aula di giustizia e respirare un'aria così diversa. Sembra qualcosa di così tanto scontato, eppure non è così. Se ci fossero magistrati come il dottor Musarò non ci sarebbe bisogno di cosiddetti eroi o della sorella della vittima che sacrifica dieci anni della sua vita per portare avanti sulle sue spalle quella che è diventata la battaglia della vita".
Da Il Fatto Quotidiano il 3 ottobre 2019. Diciotto anni per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri autori del pestaggio costato la vita a Stefano Cucchi. È la richiesta del pm Giovanni Musarò, a conclusione della sua requisitoria nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Di Bernardo e D’Alessandro sono accusati di omicidio preterintenzionale in concorso con Francesco Tedesco, il militare che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi. Per Tedesco il pm ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto sul reato di omicidio preterintenzionale e la condanna a tre anni e sei mesi per il reato di falso nella compilazione del verbale di arresto di cui risponde insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Per Mandolini il pm ha chiesto otto anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Chiesto il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato di calunnia nei confronti di Mandolini, Tedesco e Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, a giudizio per le calunnie contro i tre agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso del primo processo. “Questo non è un processo all’Arma ma a cinque carabinieri traditori che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l’Istituzione di cui facevano e fanno parte” ha detto Musarò prima di formulare la richiesta di condanna nel processo per la morte del geometra romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini di Roma. Un riferimento, quello del tradimento, anche per gli altri carabinieri accusati del depistaggio nell’inchiesta-bis: il generale Alessandro Casarsa, il colonnello Francesco Cavallo, il tenente colonnello Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e il carabiniere Francesco Di Sano. Istituzioni tradite, ha aggiunto Musarò, raggiungendo “picchi di depistaggio inimmaginabili, da film dell’orrore“. Sul banco degli imputati, come detto, ci sono cinque militari dell’Arma: si tratta di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità (Tedesco anche di calunnia nei confronti degli agenti della Penitenziaria assoluti in via definitiva); Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tutti accusati di calunnia (Mandolini, anche di falso). Per tutti, alla fine della requisitoria, l’accusa formulerà alla corte, probabilmente in giornata, le richieste di pena. Stefano Cucchi “venne fatto passare per un sieropositivo e tossicodipendente in fase avanzata. Nulla era vero. Stefano Cucchi stava bene prima del pestaggio, ma altro venne fatto credere al Paese, insieme alle accuse agli agenti della polizia penitenziaria”, ha spiegato il pm. Secondo Musarò anche così si tentò di “coprire la verità”. Quando venne arrestato, ha proseguito Musarò, Cucchi “era un ragazzo che stava bene, lo dicono tutti; però era magro”. Era “complessivamente” in “buone condizioni di salute, però era sottopeso. Pesava 43 chili perché lui stesso diceva che faceva il pugile e aveva la necessità di stare sotto i 44 chili per rientrare nella categoria di appartenenza. Sul tavolo dell’obitorio aveva perso sei chili in sei giorni, perché durante la degenza non mangiava”.
Omicidio Cucchi, il pm chiede l’assoluzione del brindisino Tedesco. L’accusa ha chiesto 18 anni di carcere per i carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro per omicidio preterintenzionale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Ottobre 2019. «Questo non è un processo all’Arma dei Carabinieri, ma è un processo contro cinque esponenti dell’Arma dei Carabinieri che nel 2009 violarono il giuramento di fedeltà alle leggi e alla Costituzione, tradendo innanzitutto l'Istituzione di cui facevano e fanno parte». Ieri mattina nell’aula bunker di Rebibbia si è conclusa la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel reparto detenuti dell’ospedale «Pertini» di Roma. Il pm doveva formulare le richieste di condanna nei confronti degli imputati, tutti e cinque carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità (Tedesco anche di calunnia nei confronti degli agenti della Penitenziaria assolti in via definitiva); Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, tutti accusati di calunnia (Mandolini, anche di falso) e prima di farlo ha posto quella premessa che concludeva le argomentazioni in fatto ed in diritto col rappresentante dell’accusa che precisato come «i depistaggi del 2009» avessero «assunto grande rilevanza, perché hanno condizionato la ricostruzione dei fatti» oggetto del processo, ed ha aggiunto che «la migliore riprova di tale assunto è rappresentata dal fatto che l’acquisizione di alcuni elementi decisivi, sia ai fini di questo processo sia ai fini di quello sui depistaggi del 2015, è stata possibile grazie alla leale collaborazione offerta nel 2018 e nel 2019 proprio dall’Arma dei Carabinieri, in particolare dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma, dal Reparto Operativo e dal Nucleo Investigativo, i cui componenti hanno profuso impegno e intelligenza ai fini della esatta ricostruzione dei fatti». Secondo il pm «per sgombrare definitivamente il campo da strumentali insinuazioni, non si può sottacere che straordinaria importanza ha assunto la costituzione di parte civile del Comando Generale dei Carabinieri nel cosiddetto processo dei depistaggi» ha fatto rilevare ancora ponendo all’attenzione dei giudici una osservazione: «È impossibile dire che non ci sia un nesso di causalità tra il pestaggio e la morte» di Stefano Cucchi. «Unica spiegazione medico-legale su causa morte che ha una dignità è quella del riflesso vagale bradicardizzante - ha aggiunto Musarò - I periti parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi». Del resto, secondo il pm, «quando la sera del 15 ottobre Stefano Cucchi fu arrestato “era un ragazzo che stava bene, lo dicono tutti; però era magro. Era complessivamente in buone condizioni di salute, però era sottopeso. Pesava 43 chili perché lui stesso diceva che faceva il pugile e aveva la necessità di stare sotto i 44 chili per rientrare nella categoria di appartenenza. Sul tavolo dell’obitorio aveva perso sei chili in sei giorni, perché durante la degenza non mangiava”». E «non mangiava - ha ripreso - non da quando era al Pertini, bensì da quando era a Regina Coeli: lui non mangiava perché non stava bene. E il prof. Vigevano dice che era dovuto anche a un disturbo post traumatico da stress, i cui sintomi sono rinvenibili anche dal comportamento complessivo di Cucchi in quei giorni». Secondo il Pm, dunque, «due persone l’aggrediscono, lo colpiscono anche quando lui era già a terra, di notte. La tanta evocata magrezza diventa a carico anche sotto il profilo del dolo. Aggredire con quelle modalità una persona fragile e sottopeso, significa aggredire una persona che può riportare anche danni più gravi, com'è accaduto a Stefano Cucchi. E di questo occorrerà tenerne conto». Le conclusioni della requisitoria sono state dunque queste: condanne a 18 anni di carcere per due dei carabinieri della Stazione Roma Appia, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi. Cosa diversa per l’imputato-testimone Francesco Tedesco, per il quale il rappresentante dell’accusa ha sollecitato una sentenza d’assoluzione con la formula «per non aver commesso il fatto», ma la sua condanna a tre anni e mezzo di reclusione per l’accusa di falso. Una sentenza di condanna a 8 anni di reclusione per il maresciallo Roberto Mandolini (all’epoca comandante interinale della Stazione Appia) per l’accusa di falso. Il non doversi procedere per prescrizione, infine, dall’accusa di calunnia è stata sollecitata per il carabiniere Vincenzo Nicolardi e per Francesco Tedesco e Roberto Mandolini.
Lettera di Ilaria Cucchi pubblicata da ''Leggo'' il 4 ottobre 2019. Siamo tornati nella stessa aula dove ci avevano insultati, attaccati, dileggiati. Quanto tempo è passato. 3650 giorni. Un centinaio di udienze. Siamo stremati. Un pubblico ministero come si deve. Finalmente. Lo ascolto ricostruire la verità. È bravo. È preparato. È onesto. È giusto. Ho dietro i miei genitori. Mia madre. Quando Fabio (l’avvocato Anselmo) inizia a parlare di loro mi viene da piangere. «Siamo stanchi - dice - siamo stremati. Guardateli i genitori di Stefano Cucchi. Hanno dato a tutti noi una lezione di rigore morale, di fiducia nella Giustizia». A Fabio si rompe un attimo la voce. Sento la sua stanchezza. È quella di tutti noi. Noi, famiglia di Stefano Cucchi, siamo stati condannati all’ergastolo da coloro che lo pestarono selvaggiamente causandone la morte tra atroci sofferenze. L’ergastolo più dieci anni di tortura. Non nutro odio né sentimento di vendetta. Sono troppo stanca anche per quelli e, poi, non mi sono mai appartenuti. Ho solo voglia di verità e giustizia. Sentire parlare così il Pubblico Ministero mi restituisce quella fiducia nello Stato che stava vacillando. L’altro ieri era il compleanno di mio fratello. Stefano vorrei tanto dirti che non eri solo. Ma già lo sai.
Caso Cucchi, il pm in aula: "Primo processo kafkiano, depistaggio scientifico. È stato pestato". La requisitoria del pubblico ministero nel processo bis in Corte d'Assise contro i cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio del geometra romano di 31 anni morto nel 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. La Repubblica il 20 settembre 2019. "Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi 'professoroni'. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato". E' iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo bis in Corte d'Assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Le lesioni riportate da Cucchi durante il pestaggio in caserma, secondo la procura, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura all'ospedale Sandro Pertini", portarono Cucchi alla morte. Sono cinque i militari alla sbarra nel procedimento bis: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco, che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi del pestaggio ai danni del geometra romano, risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. "Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti, ha aggiunto il magistrato. In aula anche il procuratore vicario di Roma, Michele Prestipino, oltre a Musarò, pm titolare del procedimento, a rappresentare l'ufficio della pubblica accusa. "Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato", ha detto Musarò. "Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini". Quando venne arrestato, Stefano Cucchi pesava 43 kg. Ne pesava 37 quando morì. "Questo notevole calo ponderale - ha spiegato il pm Giovanni Musarò - è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perchè aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene". Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: "Stava proprio acciaccato de brutto - disse Lainà al pm cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli". Dichiarazioni poi ribadite da Lainà nel marzo del 2018 nel processo bis in corte d'assise.
Caso Cucchi, le accuse del pm: «Pestaggio degno di teppisti». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Stefano Cucchi viene evocato più volte nell’atto conclusivo del processo bis per la sua morte. E non solo come vittima del pestaggio sul quale la procura conduce una requisitoria di sette ore, che avrà una coda il 3 ottobre con le richieste di condanna. Ma come una persona alla quale restituire dignità: «Non l’ho conosciuto ma lo immagino quando per orgoglio si rifiuta di parlare con chi può aiutarlo», dice il pm Giovanni Musarò. «Cucchi — aggiunge — è stato vittima di un vile e violentissimo pestaggio, degno di teppisti da stadio. La caduta gli ha causato gravi lesioni alle vertebre. E poi di uno scientifico depistaggio cominciato fin dal verbale di arresto, dove mancano i nomi di chi oggi è imputato e nel quale fu scritto che era senza fissa dimora per tenerlo in carcere. Questo “giochino” gli è costato la vita». I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono accusati di omicidio preterintenzionale assieme a Francesco Tedesco, anche se la posizione di quest’ultimo è diversa. Perché non colpì il detenuto e provò a fermare i colleghi. E perché «ha rotto il muro del silenzio (arrivando a chiedere scusa in aula, ndr). Tedesco è accusato poi di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre Vincenzo Nicolardi risponde solo di calunnia (prescritta). Il magistrato che ha riaperto il caso prova a guidare la corte d’Assise in una rivisitazione storica di fatti che all’interno del processo hanno acquisito tutt’altro significato: «Dovevamo raccontare la storia del pestaggio e ne è emersa un’altra sui depistaggi», dice prima di incrociare tra loro testimonianze chiave (il detenuto Lainà che parlò con Cucchi («L’hanno ridotto come una zampogna, mi disse “si sono divertiti a picchiarmi”») e intercettazioni choc («Magari morisse»), prove materiali (i registri sbianchettati) e deduzioni logiche in una architettura in cui ogni elemento dà credibilità agli altri ma nessuno è indispensabile («neanche Tedesco»). «Non avevamo tesi precostituite, cercavamo la verità e non abbiamo fatto sconti». Il pm ricorda anche gli agenti della penitenziaria e i medici accusati nel «processo kafkiano» finito senza colpevoli, in cui «vittima e testimoni diventavano imputati» e fatto di «incredibili perizie mediche» che portarono la corte alla «resa cognitiva». «Ci hanno detto che Cucchi era sorridente e collaborativo per nasconderne la reazione che ha innescato il pestaggio, poi che era tossico, anoressico e sieropositivo, un morto che cammina, per sminuire la gravità dei colpi». Anche su questo il pm restituisce a Cucchi la sua immagine: «Pesava 43chili, ne ha persi sei in sei giorni perché non riusciva a mangiare dal dolore. La sua magrezza era però evidente a tutti ed è un aggravante per chi si è accanito selvaggiamente su un soggetto debole». Parole quasi di affetto per la famiglia: «Ci hanno detto che Cucchi era rimasto solo mentre il padre Giovanni era in aula ad abbracciarlo». E poi: «Si parla sempre della loro tenacia in questi anni, io ne apprezzo la fiducia con cui sono tornati a rivolgersi a noi». «Mi piacerebbe tanto che Stefano potesse aver sentito le parole del pm — il commento della sorella Ilaria — . Penso che sarebbe felice. Al mio avvocato ho detto “Allora è così che si fa un processo?”. Sto facendo pace con quest’aula. Sono commossa. Lo Stato è con noi».
Da repubblica.it il 20 settembre 2019. "Il primo processo, quello che vedeva imputati per il pestaggio di Stefano Cucchi tre agenti di polizia penitenziaria, fortunatamente sempre assolti, è stato un processo kafkiano, con gli attuali imputati seduti all'epoca sul banco dei testimoni, con cateteri applicati a Cucchi per comodità e fratture lombari non viste apposta da famosi professoroni. Tutto ciò non è successo per sciatteria, ma per uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato". E' iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel processo bis in Corte d'Assise contro cinque militari dell'Arma accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per droga. Le lesioni riportate da Cucchi durante il pestaggio in caserma, secondo la procura, "unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura all'ospedale Sandro Pertini", portarono Cucchi alla morte. "Le lesioni più gravi sono state prodotte dalla caduta di Cucchi, dopo un violentissimo pestaggio. Quella caduta - spiega Musarò - è costata la vita a Stefano Cucchi, si è fratturato due vertebre. Lui stesso, a chi gli chiese cosa fosse successo, disse: Sono caduto". Sono cinque i militari alla sbarra nel procedimento bis: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco, che nel corso del procedimento ha accusato i due colleghi del pestaggio ai danni del geometra romano, risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto e calunnia insieme al maresciallo Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. "Non possiamo fare finta che quella notte non sia successo niente e non capire che si stava giocando una partita truccata all'insaputa di tutti, ha aggiunto il magistrato. In aula anche il procuratore vicario di Roma, Michele Prestipino, oltre a Musarò, pm titolare del procedimento, a rappresentare l'ufficio della pubblica accusa. "Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, è stato pestato", ha detto Musarò. "Non è semplice sintetizzare due anni di un processo così complicato, dopo la morte di Stefano Cucchi è iniziata una seconda storia, nel frattempo ci sono stati altri processi con imputati diversi, per il pestaggio furono accusati prima tre agenti della penitenziaria e poi i medici dell'ospedale Pertini". Quando venne arrestato, Stefano Cucchi pesava 43 kg. Ne pesava 37 quando morì. "Questo notevole calo ponderale - ha spiegato il pm Giovanni Musarò - è riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all'epoca. Lui perse 6 kg in 6 giorni. Non mangiava perchè aveva dolore, stava male. E per il dolore non riusciva neppure a parlare bene". Il pm indica tra i testimoni Luigi Lainà, un detenuto alle prese con varie varie patologie, che la sera del 16 ottobre 2009, incrociò Cucchi al centro clinico del carcere di Regina Coeli: "Stava proprio acciaccato de brutto - disse Lainà al pm cinque anni dopo con la riapertura dell'inchiesta -, era gonfio come una zampogna sulla parte destra del volto. Anche io sono stato massacrato, ma massacrato a quel livello come Cucchi no. A ridurlo così dovrebbe essere stato un folle o più folli senza scrupoli". Dichiarazioni poi ribadite da Lainà nel marzo del 2018 nel processo bis in corte d'assise. "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz", continua Musarò citando Lainà. "Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana - era stato il ricordo di Lainà -. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... Si sono divertiti, mi aggiunse".
Cucchi, il pm: «Dalla storia di un pestaggio ne esce una di depistaggi». Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. «È una discussione non semplice sia per la durata del processo, sia per quello che è venuto fuori. Dovevamo raccontare la storia del pestaggio e ne è emersa un’altra sui depistaggi che non possiamo ignorare». È l’incipit della requisitoria del pm Giovanni Musarò, l’atto finale del processo bis in corte d’Assise sul pestaggio e la morte di Stefano Cucchi, in cui sono imputati cinque carabinieri. A tre di loro viene contestato l’omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm e ribadito in aula da uno di questi, il vicebrigadiere Francesco Tedesco che - chiedendo pubblicamente scusa in aula alla famiglia Cucchi - ha chiamato in causa i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde Vincenzo Nicolardi. Il pm ha voluto ricordare anche i nomi degli agenti della polizia penitenziaria e dei medici ingiustamente accusati e poi assolti in un «processo kafkiano» in cui «la vittima diventava imputato» e del quale il pm ricorda come punto di partenza anche «incredibili» perizie mediche fatte su Cucchi che, si è scoperto poi, risentirono dello «scientifico depistaggio» dei vertici dei carabinieri. In aula oltre al pm Giovanni Musarò, c’è il capo della Dda capitolina e procuratore reggente, Michele Prestipino. Oltre naturalmente a Ilaria Cucchi con i suoi genitori, che assistiti dall’avvocato Fabio Anselmo hanno seguito tutte le udienze del processo. Nel processo nato dal filone principale sono contestati ad altri otto carabinieri, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Imputati sono il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del gruppo Roma, il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, ex comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino) e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza. E ancora il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo di Roma, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Infine il carabiniere Luca De Cianni, autore di una nota in cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni del collega Riccardo Casamassima.
Cucchi, il pm: “Pestaggio violentissimo, poi un depistaggio kafkiano”. Le Iene il 20 settembre 2019. “Non riusciva a mangiare per il dolore, ha perso 6 chili in 6 giorni”, ha aggiunto il pubblico ministero durante la requisitoria. Noi de Le Iene abbiamo seguito con più servizi e articoli il caso della tragica morte di questo ragazzo dopo il fermo. Stefano Cucchi non è caduto accidentalmente, ma è stato vittima di un violento pestaggio. E anche se quella caduta alla fine gli è stata fatale, le botte subìte lo avevano già ridotto in condizioni disperate: “Ha perso sei chili in sei giorni, non riusciva nemmeno a mangiare per il dolore”. Il terribile racconto dell’inferno vissuto da Stefano Cucchi arriva dal pm Giovanni Musarò, durante la requisitoria nel processo che vede tre carabinieri imputati per omicidio preterintenzionale: “Ha subìto un pestaggio violentissimo, degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso”. E dopo la sua morte è arrivato il depistaggio: "È stato celebrato un processo kafkiano per l'individuazione dei responsabili, non possiamo fare finta che non sia successo niente, di non sapere e di non capire che quel processo kafkiano è stato frutto di un depistaggio". Il magistrato ha ricordato anche le parole del detenuto Luigi Lainà, che ha incontrato Stefano la notte tra il 16 e il 17 ottobre a Regina Coeli: "Cucchi lascia una sorta di testamento a Lainà dicendogli che a picchiarlo sono stati due carabinieri in borghese della prima stazione da cui è passato". Le parole di Lainà, pronunciate nel corso del primo processo e ricordate oggi, fanno inorridire: "Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta. E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria, ero pronto a fare un casino e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... Si sono divertiti, mi aggiunse". Noi de Le Iene abbiamo seguito più volte il caso Cucchi. Il ragazzo è stato fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché aveva indosso delle dosi di droga. È morto il 22 ottobre in ospedale mentre si trovava in custodia cautelare. Dopo che il primo processo si è chiuso con un nulla di fatto, si è aperta un nuovo procedimento che vede imputati tre carabinieri per omicidio preterintenzionale. Uno di questi, Francesco Tedesco, ha apertamente accusato gli altri due del violento pestaggio ai danni di Stefano, segnando una svolta decisiva nel caso. Subito dopo l’ammissione di Tedesco, Ilaria Cucchi ha detto a Gaetano Pecoraro: “La promessa che feci a Stefano davanti al suo corpo in obitorio l’ho mantenuta: sono sicura che per lui verrà fatta giustizia”.
La requisitoria del pm: «Su Cucchi pestaggio da stadio». “I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, autori di un’aggressione così vile, se la sono presa con una persona che sotto peso, di appena 40 kg, che consideravano un drogato”. Simona Musco il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. Sulla morte di Stefano Cucchi è stato messo in atto «uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato». È iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis in Corte d’Assise contro cinque militari dell’Arma, accusati del pestaggio del geometra romano, morto a 31 anni il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato. Un processo «delicato», ha spiegato, nato dopo un primo processo che il magistrato ha definito «kafkiano» e che vedeva gli attuali imputati sul banco dei testimoni. Un processo in cui si è parlato di «cateteri applicati per comodità» e fratture lombari «non viste apposta da famosi “professoroni”» . Per la morte di Cucchi sono a processo i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, e Vincenzo Nicolardi. Quello su Cucchi fu un «pestaggio violento e repentino», cominciato con uno schiaffo in pieno viso, seguito da un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano e poi una spinta che provocò una rovinosa caduta a terra, determinante per la morte, perché causò la frattura delle vertebre L3 e S4, alla quale seguì un calcio in faccia. Un pestaggio «degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso» ha sottolineato Musarò. Dopo la caduta, «Tedesco interviene, blocca i colleghi, evita che a Cucchi arrivi un altro calcio, aiuta il ragazzo a tirarsi su e avverte subito il maresciallo Roberto Mandolini per raccontargli quello che era successo». Il depistaggio trova il suo punto di inizio già nel verbale d’arresto, nel quale Mandolini inserì per Cucchi la dicitura – falsa – “senza fissa dimora”, nonostante le perquisizioni domiciliari nella casa in cui il giovane viveva con la madre. «Per questo il giudice applica la misura in carcere – ha sottolineato il pm – E se a Cucchi fossero stati dati i domiciliari, questo processo non lo avremmo mai fatto. Questo giochetto del “senza fissa dimora” è costato la vita a Cucchi». Fu quel verbale d’arresto «il primo atto scientifico di depistaggio». Cucchi perse sei chili in sei giorni, un calo repentino di peso «riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all’epoca. Non mangiava perché aveva dolore, stava male». Una sofferenza testimoniata da Luigi Lainà, il detenuto che incontrò Cucchi il giorno dopo il suo arresto e diventato teste chiave per la riapertura del processo. «Era gonfio come una zampogna. Pure a me hanno massacrato ma mai a quei livelli ha raccontato – A quei livelli o lo fa un folle, o più folli o una persona senza scrupoli, si erano divertiti a picchiarlo». Ed era stato proprio Cucchi a dirgli che a picchiarlo brutalmente erano stati gli stessi due carabinieri in borghese che lo avevano arrestato, una sorta di «testamento» lasciato dal giovane a Lainà.
Cucchi, l’Arma e la Difesa chiedono di essere parte civile Ilaria: «Sono emozionata». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Ilaria Sacchettoni su Corriere.it. Il giudice per le indagini preliminari Antonella Minnuni si è riservata di decidere sul rinvio a giudizio degli otto carabinieri accusato del depistaggio dell’inchiesta su Stefano Cucchi. Nel frattempo l’Arma e il ministero della Difesa hanno depositato la richiesta di costituirsi parte civile al processo. Di seguito ecco i nomi e le accuse nei loro confronti: il primo è il generale Alessandro Casarsa, fino a qualche mese fa comandante dei corazzieri al Quirinale che, secondo il capo d’imputazione, chiedeva la modifica «della prima annotazione redatta dal carabiniere Francesco Di Sano nella parte relativa alle condizioni di salute di Stefano Cucchi». In particolare, sempre secondo il capo d’imputazione, Casarsa induceva Di Sano ad «attestare falsamente che “il Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza” omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare palesate da Stefano Cucchi». Il generale, all’epoca colonnello, è accusato di falso. Stessa accusa per il colonnello Francesco Cavallo che, rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con il maggiore Luciano Soligo, chiedeva espressamente a quest’ultimo la modifica della prima annotazione di Di Sano. Falso anche per Soligo che «veicolando una disposizione proveniente dal gruppo carabinieri di Roma, ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola di redigere una seconda annotazione di servizio recante la falsa data del 26/10/2009» e nella quale si omettevano le difficoltà accusate da Cucchi nel camminare. Accusato di falso pure l’allora luogotenente Massimiliano Colombo Labriola che guidava la stazione di Tor Sapienza e che riceveva, stampava e faceva firmare la mail con l’annotazione modificata sulle condizioni di salute di Cucchi. E accusa di falso, infine, per Francesco Di Sano che sottoscriveva l’ annotazione di servizio con data e contenuti falsificati e omissivi. Secondo il pm Giovanni Musarò Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero fabbricato anche un’ altra nota sulle condizioni di salute di Cucchi: un appunto nel quale «si attestava falsamente che Cucchi manifestava “uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio” omettendo ogni riferimento ai dolori al capo, ai giramenti di testa e ai tremori manifestati dall’arrestato» Infine il depistaggio recente, quello contestato al colonnello Luciano Sabatino e al capitano Tiziano Testarmata, accusati di favoreggiamento e omessa denuncia all’autorità giudiziaria perché, nel 2015, ometteva « di denunciare la sussistenza dei reati di falso ideologico in atto pubblico e ometteva di evidenziare che esistevano due versioni per ciascuna annotazione e che una delle due era falsa». Falso anche per il carabiniere Luca De Cianni che, nel redigere una nota ufficiale in merito a un incontro con Riccardo Casamassima (fra i primi ad aver accusato i suoi colleghi di aver mentito sulla vicenda Cucchi), attribuiva a Casamassima alcune falsità fra le quali anche quella secondo la quale Cucchi «si era procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo».
Cucchi, inchiesta depistaggi: Arma, Difesa e Interni chiedono di costituirsi parte civile. Ilaria: "E' una cosa senza precedenti". Il gip si è riservato di decidere aggiornando l'udienza preliminare al 17 e 18 giugno prossimo La Repubblica il 21 maggio 2019. Il ministero della Difesa, l'Arma dei carabinieri, rappresentata dal comandante generale Giovanni Nistri, il ministero degli Interni e i familiari di Stefano Cucchi, i genitori e la sorella Ilaria, vogliono costituirsi parte civile nel procedimenti a carico di otto militari, accusati dei falsi e dei depistaggi legati alla vicenda del geometra 31enne deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di droga e picchiato in caserma per essersi rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. L'istanza di costituzione, su cui il gip Antonella Minunni si è riservata di decidere aggiornando l'udienza preliminare al 17 e 18 giugno prossimo, è stata presentata anche dal carabiniere Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni ha consentito alla procura di riaprire le indagini sulla morte di Stefano, dai tre agenti della polizia penitenziaria, già processati con l'accusa di essere gli autori materiali del pestaggio e assolti in tutti i gradi di giudizio, dalla onlus Cittadinanzattiva e dal Sindacato dei Militari, guidato dal segretario generale Luca Marco Comellini. l pm Giovanni Musarò contesta agli imputati (che hanno chiesto di procedere con il rito ordinario) i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia in riferimento anzitutto a quelle condotte che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all'indomani della morte di Cucchi e relative allo stato di salute del ragazzo quando, la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto, venne portato alla caserma di Tor Sapienza. E alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all'inizio della vicenda accusati e finito sotto processo per le botte, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. A rischiare il processo, oltre a Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, sono anche il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, all'epoca dei fatti comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza: per tutti l'accusa è di falso. Ci sono poi il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Chiude la lista il carabiniere Luca De Cianni (autore di una nota di pg), cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni di Casamassima. Stando a quanto accertato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio 'taroccatè riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe partita da un input di Casarsa e aveva lo scopo di coprire le responsabilità di quei carabinieri che hanno causato a Stefano "le lesioni che nei giorni successivi determinarono il suo decesso". Non a caso, è in corso davanti alla corte d'assise il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato al pm e ribadito in aula da uno degli imputati (il vicebrigadiere Francesco Tedesco) che ha chiamato in causa i colleghi (anche loro a giudizio) Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. "Dopo 10 anni oggi è una giornata significativa e sono davvero emozionata per la decisione dell'Arma dei carabinieri di volersi costituire parte civile, è una cosa senza precedenti". Così Ilaria Cucchi al termine dell'udienza preliminare nell'ambito del filone dell'inchiesta sui presunti depistaggi nel caso di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009 dopo essere stato arrestato per droga. "Dedico questo a chi continua a insinuare che la famiglia Cucchi sia contro i carabinieri e viceversa" ha aggiunto. "Quanto accaduto oggi in udienza rappresenta un momento di riavvicinamento non solo tra la famiglia Cucchi e le istituzioni ma tra i cittadini e le stesse istituzioni - ha aggiunto Ilaria Cucchi - perché tante volte in questi anni le persone normali si sono ritrovate a vivere quel senso di frustrazione che la nostra famiglia ha provato in questi continui scontri con le istituzioni". Commentando poi la richiesta di costituzione di parte civile da parte del sindacato dei militari, Ilaria Cucchi ha poi affermato: "In vicende come la nostra troppe volte ho visto i sindacati di polizia intromettersi contro le nostre famiglie. In quest'aula per la prima volta un sindacato si è schierato al nostro fianco e non contro di noi. Questo lo dedico al signor Gianni Tonelli (ex segretario generale del sindacato di polizia Sap e parlamentare della Lega che ha denunciato Ilaria per diffamazione, ndr)". Dal canto suo, Luca Marco Comellini, segretario generale del sindacato dei militari, ha spiegato così la sua richiesta di costituzione: "Siamo qui perché vogliamo tutelare gli interessi della parte sana dell'Arma perché c'è ancora una parte sana".
Caso Cucchi: droga, chiesto il processo per il teste chiave Casamassima. Oltre al carabiniere, che nel 2016 con le sue dichiarazioni fece riaprire l'inchiesta sul pestaggio, coinvolte anche altre persone, tra cui la compagna, anche lei appuntato dell'Arma. La Repubblica 14 maggio 2019. La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio dell'appuntato dei Carabinieri Riccardo Casamassima, teste chiave nel caso Cucchi, per il reato di detenzione di droga ai fini di spaccio. Assieme al militare risultano coinvolte nell'inchiesta del pm Giuseppe Bianco altre quattro persone, tra cui la sua compagna, anche lei appuntato dei Carabinieri, Maria Rosati. Secondo quanto riporta il capo d'imputazione, Casamassima e la compagna, "in concorso tra loro, detenevano nella loro casa a Roma quantitativi non determinati di sostanza stupefacente di tipo cocaina". Casamassima è il carabiniere che nel 2016 ha consentito al pm Giovanni Musarò di riaprire l'inchiesta sul pestaggio subito in caserma da Stefano Cucchi, quando venne arrestato da alcuni militari dell'Arma la sera tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Il geometra di 31 anni morì all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo quel pestaggio. Casamassima ha ribadito le accuse ai suoi colleghi anche nel processo per omicidio preterintenzionale che si sta celebrando in corte d'assise e ha denunciato di essere stato demansionato con riduzione dello stipendio per la collaborazione fornita alla magistratura. Un mese fa sempre la procura di Roma ha chiesto il processo per otto carabinieri, dal generale Casarsa in giù, nell'ambito dell'inchiesta sui depistaggi contestando, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Tra loro anche il carabiniere Luca De Cianni, cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni di Casamassima. Pochi giorni fa invece il procuratore generale ha chiesto la prescrizione per i medici dell'ospedale Pertini, ricordando però che "con più umanità" Cucchi "poteva essere salvato".
Depistaggio sull’omicidio Cucchi: chiesto il processo per otto carabinieri. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Adesso sono tutti imputati. Un generale, tre colonnelli, un capitano e altri tre carabinieri dell’Arma dei carabinieri dovranno rispondere davanti a un giudici dei reati di falso, favoreggiamento e calunnia contestati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, per i depistaggi attuati nell’ambito delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi. La richiesta di rinvio a giudizio è stata notificata dopo che circa un mese fa era stato inviato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Un salto di qualità non solo negli accertamenti che la magistratura romana ha svolto sulla fine del detenuto arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana più tardi mentre era detenuto all’ospedale Sandro Pertini di Roma, ma anche nel livello delle persone coinvolte, che coinvolge buona parte della scala gerarchica romana dell’Arma. Il generale Alessandro Casarsa, fino all’autunno scorso comandante dei corazzieri in servizio al Quirinale, è imputato di falso insieme ai colonnelli Francesco Cavallo, Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano per aver modificato, nell’ottobre 2009, la relazione che Di Sano fece subito dopo la morte di Cucchi, cancellando alcune frasi che davano atto delle cattive condizioni del detenuto la mattina dopo l’arresto e inserendone altre meno compromettenti. Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola sono accusati dello stesso reato anche in relazione all’annotazione del carabiniere Gianluca Colicchio, dove pure furono eliminate le frasi relative ai «“forti dolori al capo, giramenti di testa e tremore» sostituite con un «malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza». Casarsa e Cavallo, a differenza di Soligo, hanno prima risposto alle domande dei pm quando furono convocati nella qualità di indagati, fornendo versioni considerate non convincenti dagli inquirenti, ma poi hanno scelto di avvalsi del diritto di non parlare quando sono stati chiamati a deporre davanti alla corte d’assise che sta processando altri cinque carabinieri per la morte di Cucchi. Il colonnello Lorenzo Sabatino e il capotano Tiziano Testarmata sono invece imputati di omessa denuncia perché nel 2015, quando scoprirono le doppie versioni delle relazioni di Di Sano e Colicchio, le trasmisero all’autorità giudiziaria senza segnalare che una delle due era necessariamente falsa. Inoltre Testarmata risponde di omessa denuncia perché quando scoprì che l’originale del registro del fotosegnalamento era stato “sbianchettato” alla data del 16 ottobre 1009 (giorno dell’arresto di Cucchi) non prese l’originale per portarlo in procura ma si limitò ad acquisire una copia. Infine il carabiniere Luca De Cianni è imputato di falso e calunnia perché con una relazione di servizio redata nell’ottobre 2018 ha cercato di screditare il collega Riccardo Casamassima che con le sue dichiarazioni aveva fatto riaprire, nel 2015, le indagini sul caso Cucchi.
Caso Cucchi: la procura di Roma chiede il processo per otto carabinieri. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi. Agli otto militari, incluso il generale Casarsa, coinvolti nell'inchiesta sui depistaggi sono contestati, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Ilaria Cucchi: "Sarò felice di avere l'Arma al mio fianco", scrive il 17 aprile 2019 La Repubblica. A oltre nove anni dal pestaggio e dalla morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni deceduto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri della stazione Appia per detenzione di stupefacenti, la procura di Roma chiede il processo per otto militari dell'Arma (dal generale Alessandro Casarsa in giù) nell'ambito dell'inchiesta sui depistaggi contestando, a vario titolo, i reati di falso ideologico, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Le accuse, formulate dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore Giuseppe Pignatone, fanno riferimento anzitutto a quelle condotte che portarono a modificare le due annotazioni di servizio, redatte all'indomani della morte di Cucchi e relative allo stato di salute del ragazzo quando, la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, a pestaggio avvenuto, venne portato alla caserma di Tor Sapienza. E alla mancata consegna in originale di quei documenti che la magistratura aveva sollecitato ai carabinieri nel novembre del 2015, quando era appena partita la nuova indagine e i tre agenti della polizia penitenziaria, all'inizio della vicenda accusati e finito sotto processo per le botte, erano stati definitivamente assolti dalla Cassazione. A rischiare il processo adesso, oltre a Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, sono anche il colonnello Francesco Cavallo, a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, il colonnello Luciano Soligo, all'epoca dei fatti comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino) e poi Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza. Ci sono poi il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del nucleo operativo, e il capitano Tiziano Testarmata, già comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, che rispondono di favoreggiamento ed omessa denuncia. Chiude la lista il carabiniere Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg, cui sono attribuiti il falso e la calunnia ai danni del collega Riccardo Casamassima. Stando a quanto accertato dalla procura, la catena di falsi basati sulle note di servizio 'taroccate' riferite allo stato di salute di Cucchi sarebbe partita da un input di Casarsa e aveva lo scopo di coprire le responsabilità di quei carabinieri che hanno causato a Cucchi "le lesioni che nei giorni successivi determinarono il suo decesso". Non a caso, è in corso davanti alla Corte d'Assise il processo a cinque militari, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale per essere stati gli autori del pestaggio, poi confessato mesi fa al pm e ribadito in aula da uno degli imputati poi diventato superteste (il vicebrigadiere Francesco Tedesco) che ha chiamato in causa i colleghi (anche loro a giudizio) Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. E ieri Tedesco ha stretto per la prima volta la mano a Ilaria Cucchi, dicendole: "Mi dispiace". Ilaria Cucchi: "Sarò felice di avere l'Arma al mio fianco". "Sarò felice di avere l'Arma dei Carabinieri al mio fianco contro coloro che depistarono e scrissero le perizie che davano a Stefano tutta la colpa della sua morte ancor prima che venissero poi partorite dai medici legali del processo precedente". E' il primo commento di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di otto carabinieri.
Cucchi, il legale della famiglia: "Valutiamo azione risarcitoria contro lo Stato". Per l'avvocato Anselmo la presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte del geometra romano potrebbero avere costituito un danno alla famiglia, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. La presunta catena di falsi e i depistaggi nella vicenda processuale sulla morte di Stefano Cucchi potrebbero avere non solo costituito un danno d'immagine all'amministrazione della giustizia ma sicuramente un danno alla famiglia, da sempre alla ricerca della verità. Per questo il legale dei Cucchi, Fabio Anselmo, starebbe valutando "un'azione risarcitoria nei confronti dello Stato" ma anche un'iniziativa legale contro il Campidoglio", unico ancora costituito parte civile nei confronti dei medici dell'ospedale Sandro Pertini, dove il geometra morì nel reparto protetto. "Quel processo però ora sta emergendo che si basa su atti e documenti falsi", spiega Anselmo. "Il primo processo, quello sui medici, sarebbe terminato con la prescrizione ma rimane allo stato in piedi solo per l'ormai unica parte civile, che è il Comune di Roma. Di fatto tutto ciò sta aiutando processualmente medici e carabinieri, i quali sperano di usufruire di una perizia che si basa su un processo sbagliato e sulle deposizioni di carabinieri che oggi sono imputati e coinvolti nell'inchiesta bis", precisa ancora Anselmo. Ma la questione dei presunti falsi, che sta emergendo ora con forza durante le udienze del processo nei confronti di 5 carabinieri, potrebbe indurre anche la Corte dei Conti a considerare nel fascicolo già aperto sul caso Cucchi il reato di danno all'amministrazione della giustizia. Ciò perchè i presunti atti modificati e falsificati avrebbero innescato depistaggi e di fatto impedito per anni di accertare la dinamica dei fatti che portarono alla morte di Cucchi. "Alla Corte dei Conti c'è un fascicolo aperto ma per muoversi su un eventuale danno di immagine la norma prevede il passaggio in giudicato della sentenza - spiega Massimiliano Minerva, consigliere della Corte dei Conti del Lazio, a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - stanno venendo fuori reati diversi come il falso o il cosiddetto depistaggio che potrebbero essere reati contro l'amministrazione della giustizia". L'annuncio della difesa della famiglia Cucchi arriva dopo l'udienza di ieri con l'audizione in aula del generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. Un'audizione in qualità di testimone fatta anche di molti “non ricordo” e che è arrivata dopo le parole del pm Giovanni Musarò che ha ricostruito ciò che l'accusa descrive come un depistaggio iniziato nell'ottobre del 2009. Da quel momento, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma, la catena di comando dei Carabinieri mette in atto una serie di iniziative per "allontanare" la verità su quanto avvenuto. Un percorso fatto di falsi che è riuscito ad approdare perfino in Parlamento quando l'allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, basò, in maniera del tutto inconsapevole, il suo intervento al question time sulla vicenda del geometra utilizzando una nota redatta dai carabinieri della stazione Appia. "In Aula il ministro riferì il falso su atti falsi", ha affermato il pm Giovanni Musarò. Ora quei falsi potrebbero portare ad un'azione risarcitoria contro lo Stato.
Caso Cucchi, il generale Nistri: "Pronti a costituirci parte civile contro i carabinieri". Esclusivo La svolta del comandante generale dell'Arma in una lettera alla famiglia: “Provvedimenti anche per gli ufficiali del depistaggio. Crediamo nella giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane vita sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un’aula giudiziaria”, scrive Carlo Bonini il 7 aprile 2019 su La Repubblica. Una lettera di quattro pagine su carta intestata "Il Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri", a inchiostro stilografico e dalla calligrafia rotonda, consegnata a mano la mattina di lunedì 11 marzo a Ilaria Cucchi, spinge la storia della morte del fratello Stefano, le sue conseguenze, oltre un confine che, in nove anni, non era ancora stato superato. Il generale Giovanni Nistri torna infatti a inginocchiarsi di fronte al dolore di Ilaria e a quello dei suoi...
Cucchi, la lettera del generale Nistri a Ilaria: "Inflessibili con chi ha infangato uniforme". Esclusivo Ecco il testo della lettera inviata dal comandante generale dell'Arma alla sorella di Stefano: "Il suo dolore è il nostro. Ogni responsabilità sia chiarita e si faccia giustizia", scrive l'8 aprile 2019 La Repubblica.
Roma, 11 marzo 2019. Gentile Signora Cucchi, ho letto con grande attenzione la lettera aperta che ha pubblicato sul suo profilo Facebook. Sabato scorso a Firenze, nel rispondere alla domanda di un giornalista, pesavo a Voi e alla Vostra sofferenza, che ho richiamato anche nel nostro ultimo incontro. Pensavo alla Vostra lunga attesa per conoscere la verità e ottenere giustizia. Mi creda, e se lo ritiene lo dica ai Suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi sia mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà. La abbiamo perché il Vostro lutto ci addolora da persone, da cittadini, nel mio caso mi consenta di aggiungere: da padre. Lo abbiamo perché anche noi - la stragrande maggioranza dei Carabinieri, come Lei stessa ha più volte riconosciuto, e di ciò la ringrazio - crediamo nella Giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un'aula giudiziaria. Proprio il rispetto assoluto della Legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Non possiamo fare diversamente perché, come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Per questo abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, "chi" ha fatto "che cosa". Nell'episodio riprovevole delle studentesse di Firenze il contesto era definito dall'inizio. C'erano due militari accusati, con responsabilità sin da subito impossibili da negare, almeno nell'aver agito all'interno di un turno di servizio e con l'uso del mezzo in dotazione, quando invece avrebbero dovuto svolgere una pattuglia a tutela del territorio e dei cittadini. In questo caso abbiamo purtroppo fatti nei quali discordano perizie, dichiarazioni, documenti: discordanze che saranno però risolte in giudizio. Le responsabilità dei colpevoli porteranno al dovuto rigore delle sanzioni, anche di quelle disciplinari. I tre accusati di omicidio preterintenzionale sono già stati sospesi. Non sono stati rimossi, è vero. Ma è vero che, se ciò fosse avvenuto, si sarebbe forse sbagliato. Faccio al riguardo due esempi. Oggi emerge che uno dei tre - secondo quanto egli ha dichiarato, accusando gli altri due - potrebbe essere innocente. Erano innocenti gli agenti della Polizia Penitenziaria, che pure erano stati incolpati e portati in giudizio. Comprendiamo l'urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d'Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero, ora nella fase delle indagini preliminari, nella quale saranno giudicati anche coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita per quei Valori che fin qui ho richiamato, soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell'essere accostati a comportamenti che non ci appartengono. Con sinceri sentimenti, Giovanni Nistri.
Caso Cucchi, la sorella Ilaria: “Mi si scalda il cuore, finalmente non mi sento sola”. “Oggi posso dire che l’Arma è con me e non con Mandolini, imputato di calunnia nel processo, o con Casarsa, indagato per i falsi che dovevano nascondere la verità”, scrive Carlo Bonini il 7 aprile 2019 su La Repubblica. Della lettera del generale Nistri, Ilaria Cucchi parla tradendo una evidente emozione. Dice: "La lettera è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi. Non dimenticherò mai la telefonata del generale Vittorio Tomasone pochi giorni dopo la morte di Stefano. Disse a mia madre che i carabinieri erano estranei, mentre oggi sappiamo altro. E cioè che mentre faceva quella...
Ilaria Cucchi: "Dopo la lettera dellʼArma mi sento meno sola, i giudici ora abbiano coraggio", scrive l'8 aprile 2019 Tgcom24. La sorella di Stefano commenta su Facebook e parla dallʼAula della Corte dʼAssise nel giorno dellʼinterrogatorio del carabiniere Francesco Tedesco. "L'abbraccio dell'Arma ci arriva oggi, caldo e finalmente rassicurante". Ilaria Cucchi, dalla Corte d'Assise, nel giorno in cui Francesco Tedesco, imputato insieme ad altri due colleghi nel processo bis sulla morte del fratello Stefano, confesserà in aula quanto già messo a verbale, commenta così la lettera scritta dal generale Giovanni Nistri. "Ora tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale - aggiunge, riferendosi anche al suo ultimo post su Facebook. - Mi rivolgo ai giudici: abbiate coraggio". "Mi sono emozionata a leggere la lettera di Nistri""La lettera scritta di proprio pugno dal generale Nistri - racconta ai microfoni di NewsMediaset Ilaria Cucchi - rappresenta un momento estremamente significativo per la mia famiglia, che per anni non solo si è sentita abbandonata, ma tradita". "E' un momento di svolta - aggiunge - ed è un enorme segnale perché la parte lesa, come dice il generale Nistri, non è solo la famiglia, ma anche l'Arma e ciò che rappresenta". "Leggerla - confessa - è stato molto emozionante; ho pensato che finalmente non siamo soli e che l'Arma è fatta dalla parte buona rappresentata dalla stragrande maggioranza dei carabinieri". "Il generale Nistri ci è vicino e non manca di farci sapere che il suo dolore è il nostro, che la nostra battaglia di verità è anche la sua". Inizia così il lungo post su Facebook in cui Ilaria Cucchi raccontava di aver ricevuto la lettera. "L’Arma non rimarrà spettatrice nei confronti dei depistatori - continua il messaggio. - I giudici ora abbiano coraggio e responsabilità ed acquisiscano quei documenti di verità imbarazzanti che fanno ora paura solo agli imputati di oggi. Ci sarà anche mia madre, nonostante la sofferenza per la grave malattia, ad ascoltare Tedesco che le racconterà come è stato ucciso suo figlio". "Ora tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale". La vicenda, dunque, ora è in mano ai giudici. "Tutto si svolgerà su un altro piano, quello medico-legale - ha sottolineato Ilaria Cucchi ai microfoni di NewsMediaset. - Così mi rivolgo ai giudici: acquisite la documentazione del dottor Musarò, perché dimostra che tutto era già deciso, dai carabinieri oggi indagati, un istante dopo la morte di mio fratello". "Quel processo era sbagliato, quel processo era già scritto - conclude. - A nove anni dai fatti la mia famiglia ne esce devastata ma andiamo avanti perché siamo alla svolta, in un processo vero. Per quanto riguarda le botte, è tutto chiaro".
Cucchi, il giorno della confessione. L’Arma: «Pronti a essere parte civile». Pubblicato lunedì, 08 aprile 2019 da Corriere.it. Al processo per la morte di Stefano Cucchi è atteso per oggi l’interrogatorio del carabiniere Francesco Tedesco, uno dei tre imputati di omicidio preterintenzionale che alcuni mesi fa ha deciso di confessare il “violentissimo pestaggio” del detenuto da parte di due suoi colleghi, al quale dice di aver assistito. Ma nel giorno della deposizione più importante, la famiglia Cucchi ha deciso di rendere nota – consegnandola a la Repubblica – una lettera ricevuta quasi un mese fa, l’11 marzo, dal comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Giovanni Nistri, che segna un mutamento di atteggiamento da parte dell’Arma nei confronti dei Cucchi e dei carabinieri coinvolti in questa vicenda. A Ilaria, la sorella di Stefano che dall’ottobre 2009 si batte per conoscere la verità sulla morte di suo fratello, Nistri scrive di nutrire «la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà». I tre carabinieri imputati sono già sospesi dal servizio, in attesa di un procedimento disciplinare che potrà avviarsi dopo la conclusione del processo penale nei loro confronti, ma nella sua lettera Nistri si riferisce anche all’inchiesta-bis nei confronti di altri carabinieri che abreve saranno imputati di favoreggiamento e falso. Con i loro comportamenti, secondo la Procura di Roma, otto militari, tra i quali un generale e tre colonnelli, avrebbero ostacolato e depistato l’accertamento della verità, e chiamati a deporre nel processo in corso si sono avvalsi del diritto al silenzio. Nella lettera a Ilaria Cucchi il loro comandante generale scrive: «Comprendiamo l’urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di consapevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla corte d’assise, e varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere». Nistri sottolinea che lui, in qualità di comandante, insieme agli oltre centomila carabinieri in servizio, «soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili, e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole dietro le quali si nasconderebbe l’intenzione – che l’Arma avrebbe fatto conoscere alla famiglia Cucchi – di costituirsi, qualora ne ricossero i presupposti giuridici, parte civile nel prossimo processo contro i carabinieri accusati dei depistaggi.
Giovanni Bianconi per corriere.it il 19 marzo 2019. L’inchiesta sui depistaggi e l’occultamento delle prove sulla morte di Stefano Cucchi è finita, e otto carabinieri - dal grado di generale in giù- rischiano di diventare presto imputati con le accuse di falso e favoreggiamento. Il pubblico ministero di Roma Giovanni Musarò ha inviato l’avviso di conclusione indagini, firmato anche dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio.
Le accuse. Le accuse si riferiscono alle manipolazioni delle relazioni di servizio redatte dai militari dell’Arma nell’ottobre 2009 (all’indomani della morte di Cucchi avvenuta all’ospedale Pertini una settimana dopo l’arresto da parte dei carabinieri) e alle mancate consegne dei documenti richiesti dalla magistratura nel novembre 2015, quando fu avviata la seconda indagine dopo l’assoluzione degli agenti penitenziari nel primo processo.
I coinvolti. La lista degli indagati avvisati si apre con il generale Alessandro Casarsa, che insieme ai colonnelli Francesco Cavallo e Luciano Soligo, al luogotenente Massimiliano Colombo Labriola e al carabiniere Francesco Di Sano, risponde di falso per la manipolazione dei documenti. Il colonnello Lorenzo Sabatino e il capitano Tiziano Testarmata sono invece accusati di favoreggiamento e omessa denuncia.
Le modifiche alle relazioni. Le modifiche delle relazioni di almeno due carabinieri che avevano visto Cucchi la sera dell’arresto - ordinate dalla catena gerarchica del comando provinciale di Roma - servirono, secondo l’accusa, a indirizzare le dichiarazioni in Parlamento dell’allora ministro Angelino Alfano per allontanare ogni possibile sospetto sul comportamento dei carabinieri. Da quegli appunti vennero fatti scomparire i riferimenti alle difficoltà del detenuto a camminare, inserendo considerazioni che legavano le sue precarie condizioni di salute alla tossicodipendenza.
«Violentissimo pestaggio». Tutto fu orchestrato, nella ricostruzione dell’accusa, per coprire le tracce del «violentissimo pestaggio» subito da Cucchi nella caserma della stazione dove doveva fare il fotosegnalamento, confessato mesi fa da uno dei carabinieri autori dell’arresto. I presunti favoreggiamenti avvenuti nel 2015, invece, si riferiscono al fatto che quando la Procura ordinò nuove acquisizioni di atti, i carabinieri incaricati di raccogliere quei documenti redatti nel 2009 evitarono di denunciare i falsi alla Procura, che solo in seguito e per altre vie si accorse delle manipolazioni. L’elenco degli indagati si chiude con Luca Di Cianni, accusato di calunnia nei confronti del collega Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni del 2015 diede il primo impulso alla riapertura dell’inchiesta. Per la morte di Cucchi sono attualmente sotto processo, davanti alla corte di assise, altri cinque carabinieri, di cui tre imputati di omicidio preterintenzionale e gli alti due per falsa testimonianza e calunnia.
«Calci in faccia a Cucchi»: Arma e Difesa parti civili. Il testimone Tedesco: «Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile», scrive Valentina Stella il 9 Aprile 2019 su Il Dubbio. Forse ora Stefano Cucchi avrà finalmente giustizia. Non solo il comando dei Carabinieri è pronto a costituirsi parte civile, ma anche il ministero della Difesa. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dichiarando di parlare a nome del governo. Ieri il superteste Francesco Tedesco, il vicebrigadiere dei carabinieri imputato di omicidio preterintenzionale nel processo sulla morte del geometra romano, ha rivelato, a nove anni di distanza, il “pestaggio” ad opera di due suoi colleghi. «Al fotosegnalamento Cucchi si rifiutava di prendere le impronte: siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Alessio Di Bernardo è proseguito. A un certo punto Di Bernardo ha dato uno schiaffo violento in pieno volto a Stefano. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma Di Bernardo proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi “state lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più”. Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi “Come stai?” lui mi rispose “Sono un pugile sto bene”, ma lo vedevo intontito». È il drammatico racconto reso ieri in aula dal superteste Francesco Tedesco che ha accusato di pestaggio gli altri due militari coimputati, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Il giovane geometra era stato arrestato il 15 ottobre 2009 e condotto nella caserma della Compagnia Casilina. Le cause del decesso di Cucchi sono in fase di accertamento ma è certo che il ragazzo morirà sotto la custodia dello Stato dopo qualche giorno. Prima di rispondere alle domande del pm, Tedesco – assistito dall’avvocato Eugenio Pini -, dopo quasi un decennio di silenzio, ha chiesto scusa alle vittime di questa vicenda: «Anzitutto voglio chiedere scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria imputati nel primo processo per questi 9 anni di silenzio. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile». Ma, ha aggiunto Tedesco, «non era facile denunciare i miei colleghi. Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno». Tedesco è un fiume in piena, la sua coscienza forse si è finalmente liberata di questo macigno che lo ha schiacciato per tutto questo tempo, diviso com’era tra il dovere della verità e l’appartenenza all’Arma: «Dire che ebbi paura è poco. Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo – ha detto Tedesco – contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C’era agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l’ho vissuta come una violenza». “Tu devi continuare a seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere”, è quanto infatti il maresciallo Mandolini avrebbe detto al vicebrigadiere Tedesco, quando questi gli chiese come doveva comportarsi se fosse stato chiamato a testimoniare in merito alla vicenda della morte di Cucchi. «Ho percepito una minaccia nelle sue parole». In aula ieri come sempre la sorella di Stefano Cucchi: «Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest’aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno”. E sulla eventualità dell’Arma dei Carabinieri di costituirsi parte civile nei confronti dei carabinieri autori del depistaggio, come ipotizzato in una lettera del generale Giovanni Nistri inviata proprio alla famiglia Cucchi, Ilaria ha risposto: «Le dichiarazioni e le intenzioni espresse dal comandante generale dell’Arma ci fanno sentire finalmente meno soli, si è schierato ufficialmente dalla parte della verità». Molte le reazioni a quanto accaduto ieri in aula, a cominciare dal vice- premier Luigi Di Maio dalla sua pagina Facebook: «La deposizione del carabiniere Tedesco è sconvolgente e restituisce dignità a una famiglia che chiede giustizia da anni. E rispetto anche per l’Arma dei Carabinieri». Ha scelto twitter Nicola Zingaretti: «La verità grazie al coraggio della famiglia Cucchi e al percorso della giustizia sta finalmente emergendo. Un plauso alla scelta del Generale Nistri che può portare nuova forza e credibilità alle Istituzioni dello Stato». Per Silvja Manzi e Antonella Soldo, Segretaria e Tesoriera di Radicali Italiani, «la battaglia della famiglia Cucchi per la verità sulla morte di Stefano rappresenta il più grande esempio di fiducia nelle istituzioni della nostra storia contemporanea». Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale rivolge lo sguardo agli altri Stefano Cucchi: «Grazie Ilaria, per non aver mai mollato. Occorre – e tu lo stai urlando – che altri Stefano Cucchi non siano torturati e uccisi nell’indifferenza e nell’omertà». L’esponente del Partito Democratico Walter Verini plaude invece alla scelta di Nistri: «Mi ha riportato alla mente un altro gesto del nostro Stato democratico. Quello con il quale l’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli, chiese scusa per i fatti della Diaz, che rappresentarono un’onta per il Paese. Anche quello fu un gesto dovuto, ma coraggioso». Donato Capece, segretario generale del Sappe ha ricordato la gogna subita dagli agenti penitenziari.
Caso Cucchi, il rammarico per il tempo perduto e il dolore per quella vita uccisa. Soddisfazione per la lettera del comandante Giovanni Nistri, scrivono Luigi Manconi e Valentina Moro il 9 aprile 2019 su Il Dubbio. Ad ascoltare la descrizione dettagliata e crudele delle violenze subite da Stefano Cucchi nella caserma Casilina, la notte del 15 ottobre del 2009, a opera di due carabinieri, tra le molte emozioni una risulta la più intollerabile, quella che porta a chiederci: ma tutto ciò non si poteva già leggere nelle foto del volto e del corpo del giovane scattate all’obitorio? Perché sono stati necessari quasi dieci anni e mille menzogne e altrettanti oltraggi prima che la verità esplodesse, nitidamente, nella testimonianza del vicebrigadiere Francesco Tedesco? Mentre finalmente una così lunga battaglia giunge al suo passaggio cruciale, è impossibile non rammaricarsi per tutto il tempo perduto e per l’immenso scialo di sofferenza che ha seguito il dolore per quella vita uccisa e che ha richiesto una tenacia senza pari e una inesausta pazienza ai familiari di Stefano Cucchi e al loro avvocato Fabio Anselmo. E così, anche la soddisfazione per il fatto che il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri, in una lettera alla famiglia, esprima il suo rammarico per il comportamento di alcuni militari e si impegni a costituirsi parte civile contro di loro, è attenuata dalla sensazione che ciò arrivi molto, forse troppo, tardi. Già nel febbraio del 2017, con Ilaria Cucchi incontrammo l’allora Comandante Generale Tullio Del Sette che definì estremamente grave che alcuni carabinieri avessero potuto “perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’avessero poi riferito e che alcuni altri avessero potuto sapere senza segnalarlo”. Da allora sono passati altri ventisei mesi e questo periodo di tempo non solo ha ancora differito l’accertamento della verità ma, temiamo, ha puntellato la costruzione della menzogna intorno a quella notte del 15 ottobre 2009, sorreggendo ulteriormente un castello di manipolazioni, deviazioni e deformazioni della verità. E ha ancora prolungato quell’atteggiamento di omertà che ha consentito in questo e in altre decine di non troppo dissimili casi Cucchi che lo spirito di corpo prevalesse su tutto, rafforzando legami di complicità all’interno dell’Arma, irrobustendo solidarietà di appartenenza e di corporazione, esaltando forme aggressive di chiusura. A tutto ciò ha contribuito l’inerzia di comandi dell’Arma, talvolta addirittura conniventi e la codardia di gran parte della classe politica nazionale. Quest’ultima rivela da sempre un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti dell’Arma dei carabinieri, una sudditanza psicologica che induce a ritenere come unico bene da perseguire l’unità – comunque e a qualunque costo – del corpo militare, invece che la sua democratizzazione che potrebbe comportare anche conflitti interni tra diverse idee del ruolo dell’Arma e della sua identità. In altre parole, piuttosto che favorire una evoluzione dei carabinieri verso una fisionomia costituzionale, rispettosa dei diritti e delle garanzie del cittadino, e al suo servizio, si opta tutt’ora per la sua connotazione come strumento essenzialmente, se non esclusivamente, di mera repressione. Questo, nonostante qualche segnale positivo e qualche misura riformatrice, fa sì che la grande questione della formazione degli appartenenti all’Arma resti trascurata e comunque sottovalutata. La formazione culturale e, appunto, costituzionale, ma anche quella operativa, strettamente collegata all’esigenza di tutelare sempre e comunque l’integrità del cittadino, è tutt’ora un problema irrisolto. Un esempio solo. Nel gennaio del 2014, il Comando generale dell’Arma aveva emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i rischi per l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come fosse ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può costituire causa di asfissia posturale». Appena qualche settimana dopo, a Firenze, Riccardo Magherini moriva per strada sottoposto da parte di tre carabinieri esattamente a quella presa che la circolare del comando dell’Arma intendeva interdire. E, a quanto si sa, quella circolare è stata poi ritirata. E allora è impossibile non chiedersi quanti altri cittadini, italiani e non, in questi anni e nei prossimi, rischino di finire vittime di “asfissia posturale”.
Saul Caia per il “Fatto quotidiano” il 10 luglio 2019. L' ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è stato rinviato a giudizio a Roma per abuso d' ufficio, insieme al generale Antonio Bacile, ex comandante regionale della Sardegna, e Gianni Pitzianti, delegato del Cocer-Cobar Sardegna, l'organismo sindacale dell'Arma. Il gup Andrea Fanelli li ha invece prosciolti dall' accusa di omissioni di atti d' ufficio. Il caso, di cui il Fatto Quotidiano si è occupato nel novembre 2017 e lo scorso aprile, trae origine dall' inchiesta della Procura di Sassari sui trasferimenti, nel 2015, del comandante provinciale di Sassari, colonnello Giovanni Adamo, del capitano Francesco Giola e del luogotenente Antonello Dore, a capo rispettivamente della compagnia e del nucleo operativo di Bonorva (Sassari). Comincia tutto con l'indagine del pm Giovanni Porcheddu su una colluttazione tra due carabinieri e un 45enne, fermato a Pozzomaggiore. Per i militari l'uomo ha commesso resistenza a pubblico ufficiale, ma un collega presente li smentisce. Il pm li intercetta e scopre che i carabinieri di Bonorva, oltre ad aver programmato una spedizione punitiva a Poggiomaggiore contro i colleghi, auspicavano che i loro superiori fossero trasferiti. I tre comandanti "puniti" avevano mosso contestazioni ai loro militari: dall' abbigliamento non corretto ai comportamenti inadeguati durante in servizio. Ma il sindacato Cobar-Cocer si era schierato a difesa dei sottoposti contro Adamo, Giola e Dore. Nel marzo 2017 il pm Porcheddu invia gli atti a Roma per Del Sette, Bacile e Pitzianti. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall' Olio, il 6 ottobre 2017, chiedono l' archiviazione. Per loro mancano gli "elementi costitutivi" dell' abuso d' ufficio, "sia dal punto di vista dell' elemento oggettivo che di quello soggettivo", perché "non risultano rapporti diretti tra gli indagati, né accordi collusivi tra gli stessi volti a sfavorire il colonnello Adamo o gli altri militari". Ma il gip Clementina Forleo, il 29 marzo scorso, ordina ai pm l'imputazione coatta per tutti e tre gli indagati. Secondo il giudice le intercettazioni acquisite, dimostrano il "coinvolgimento" di "esponenti del Cobar Sardegna (Pitzianti) e di taluni vertici dell' Arma che avrebbero dovuto occuparsi di dare "una lezione" a chi aveva correttamente e doverosamente svolto i suoi compiti istituzionali oltre che i suoi doveri civici". Inoltre Pitzianti, delegato sindacale del Cocer-Cobar, avrebbe fatto pressioni su Bacile "affinché si attivasse per punire" Dore, Giola e Adamo. Il gip sottolinea "la visita del Comandante Del Sette a Bonorva il 21 agosto 2015", quando "Giola riferiva di essere stato aggredito verbalmente" dal generale, che avrebbe permesso solo a Pitzianti di esporre il suo punto di vista, di fatto ribaltando le gerarchie. A Roma, l' ex comandante dell' Arma è imputato per favoreggiamento (con l' ex ministro Luca Lotti) e rivelazione di segreto d' ufficio nel processo Consip. Del Sette avrebbe rivelato a Luigi Ferrara, all' epoca presidente Consip, l' esistenza di un' indagine sull' imprenditore Alfredo Romeo, invitandolo a essere cauto nelle comunicazioni. I vertici Consip bonificarono gli uffici dalle microspie piazzate dai carabinieri del Noe.
IL CASO CUCCHI FA ESPLODERE L'ARMA DEI CARABINIERI. (ANSA il 9 aprile 2019.) - "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile nel caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". Lo afferma all'ANSA - parlando del comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri - il colonnello Sergio De Caprio, presidente del Sindacato italiano militari Carabinieri, noto come Capitano Ultimo.
Capitano Ultimo contro il comandante dell'Arma "Parte civile? Si dimetta". Il colonnello De Caprio contro il generale Nistri che ha deciso di costituire l'arma parte civile nel processo per la morte di Stefano Cucchi, scrive Giovanni Neve, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Piuttosto che pensare di costituirsi parte civile sul caso Cucchi, a questo punto sarebbe stato forse più utile per la dignità dell'Arma dare le dimissioni, senza tanti equivoci e come segnale di discontinuità". A dirlo è il colonnello Sergio De Caprio, conosciuto come il "Capitano Ultimo" e attuale presidente del Sim (Sindacato Italiano Militare) Carabinieri che incalza così il comandante generale dell'Arma, il generale Giovanni Nistri. "Per dieci anni i vertici dei carabinieri hanno ignorato e negato il caso Cucchi. Solo ora se ne accorge", dice De Caprio parlando della morte di Stefano Cucchi come riporta Tgcom24, "Qualcuno dirà meglio tardi che mai. Invece, no è troppo tardi. E noi carabinieri ci sentiamo parte lesa per questo ingiustificabile ritardo. Le lettere del generale Nistri non mi interessano. Non è questione di chiedere scusa. Mi interessano i fatti e i fatti sono un silenzio lunghissimo. Non lo dico io, lo dice il calendario. L'Arma vuole fare piena luce? Stiamo parlando di ovvietà e banalità. La violenza va condannata sempre e i responsabili vanno perseguiti, anche se si trovano all'interno della nostra istituzione: alla fine ci si è arrivati, ma con tantissimo ritardo rispetto ai fatti. Ora bisogna indagare e capire come mai e la procura lo sta facendo benissimo. Il sindacato dei carabinieri è con la famiglia Cucchi e con tutte le vittime di violenza. Nessuno potrà strumentalmente allontanarci da Ilaria Cucchi e dalla sua famiglia. Siamo da sempre accanto alle vittime e per le vittime contro ogni abuso e non al servizio di altri padroni. Da carabinieri, ci sentiamo parte lesa dall'assenza e dall'incapacità del vertice dell'Arma, che per dieci anni ha ignorato e negato l'esistenza stessa del caso Cucchi'. Vorremmo sapere perché, come tutti i cittadini".
Francesco Grignetti per ''la Stampa'' il 9 aprile 2019. La politica vuole una svolta sul caso Cucchi. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ricevendo Ilaria al ministero, aveva già espresso chiaramente con chi stava. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ieri lasciava intuire come la pensa: «È una di quelle occasioni in cui mi piacerebbe dire qualcosa, però non dico nulla». E dice anche il presidente della Camera, Roberto Fico: «Sono contento delle parole del generale Nistri. Questo è un passaggio molto importante, perché rafforza le istituzioni». Ma è il governo tutto che si sta schierando. Sempre ieri, il premier Giuseppe Conte ha annunciato di essere «favorevole alla costituzione di parte civile da parte del ministero della Difesa». Il vero colpo di scena viene dal comando generale dei carabinieri. Con una lunga lettera alla famiglia, il generale Giovanni Nistri ha annunciato la volontà dell' Arma, qualora matureranno i presupposti giuridici, di costituirsi come parte civile contro i militari imputati. Scrive Nistri ai Cucchi di «nutrire la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto si faccia piena luce, e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà». La svolta è clamorosa. Evidentemente le novità che un passo alla volta emergono dal palazzo di Giustizia, grazie alla tenacia del procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, stanno demolendo le residue resistenze dell' Arma. A Ilaria Cucchi non sfugge il valore di queste parole. «La lettera - ha raccontato - è stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi». Un cambio di passo che però rischia di spaccare l' Arma, dove lo spirito di corpo è fortissimo e così anche la tentazione di lavare i panni sporchi in famiglia. Il malumore ha trovato voce in un neonato sindacato, il Sim-Sindacato dei militari, la cui costituzione è appena stata autorizzata dal ministro, e che da ora in avanti sarà sempre più una vera controparte per la gerarchia. «Il Sim Carabinieri - scrivono - prende atto della dichiarazione del comandante generale dell' Arma, esprimendo soddisfazione della volontà di difendere l' immagine di tutta l' Arma, nella misura in cui verrà accertata ogni responsabilità di pochi infedeli, per la tutela di tutti i Carabinieri che svolgono il loro servizio con dedizione ed onestà». E fin qui sembrerebbe una posizione allineata al vertice. Ma non è così. «Il Sim Carabinieri allo stesso modo non può non dichiarare con fermezza, la profonda delusione e amarezza per non aver mai sentito dagli stessi vertici dell' Arma, la possibilità di costituirsi parte civile in favore e a difesa dei Carabinieri che subiscono sputi e insulti da manifestanti nelle piazze o negli stadi, dai Carabinieri che vengono insultati solo per avere indosso una divisa, dai Carabinieri che sui social vengono posti come bersaglio di frasi di odio e nefandezze al loro indirizzo e dei loro familiari». I carabinieri raccolti nel sindacato si sentono abbandonati, insomma. In rotta con la politica e con l' opinione pubblica. «Il Sim Carabinieri auspica che da oggi, e per tutti i giorni a venire, il generale Giovanni Nistri senta l' impulso per chiedere all' Arma di costituirsi parte civile in ogni processo in cui ogni Carabinieri è parte lesa. Noi lo faremo, perché nessuno sarà mai più lasciato solo!». E c' è da crederci, perché il presidente del sindacato è il Capitano Ultimo, Sergio De Caprio, una leggenda vivente dentro l' Arma, ancorché in rotta da sempre con le gerarchie.
“NON DEVO CHIEDERE SCUSA ALLA FAMIGLIA CUCCHI”. Da “la Zanzara – Radio24” il 9 aprile 2019. Carlo Giovanardi a La Zanzara su Radio 24: “Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi”. “Io assolto dalle accuse dei Cucchi per diffamazione. Per questa storia io e i miei familiari siamo stati minacciati di morte”. “Porto in tribunale 29 consiglieri comunali di Torino che mi hanno dato del diffamatore”. “Nessuna relazione tra percosse dei carabinieri e morte di Cucchi, lo dicono le perizie”. “Morte Cucchi è avvenuta per una serie di concause tra cui la tossicodipendenza, il fisico debilitato e lo sciopero della fame. Lo dicono le perizie”. “Tutte le perizie escludono la relazione tra botte e morte”. “Chiedere scusa? Di cosa? Per cosa? La droga è una delle cause della morte”. “La verità è che a casa di Cucchi hanno trovato marijuana e cocaina già pronte per lo spaccio”. “Cucchi non è un benemerito, no a una strada in suo nome. Non è come Cavour e Garibaldi”. “Strada in suo nome? E alle vittime della droga non ci pensa nessuno?”. “Carabinieri? Aspetto la condanna definitiva, i linciaggi sono nazismo".
Morte di Stefano Cucchi: spuntano 17 ricoveri, 1 kg di hashish e cocaina. Il caso del giovane geometra morto diventa un enigma e secondo il senatore Giovanardi esiste un'altra realtà, scrive l'11/01/2016 blastingnews.com. A parlare della morte di Stefano Cucchi stavolta è il senatore Carlo Giovanardi che non ci sta e dice la sua sulla dipartita del giovane geometra, raccontando attraverso "Il Foglio" la verità sull'altro Cucchi e precisando che dopo la sentenza di assoluzione nei confronti degli agenti della Polizia Penitenziaria pronunciata dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma, si è verificato un grave caso di disinformazione. In particolare dopo l'ultimo episodio mediatico che ha visto la sorella del Cucchi pubblicare la foto di un agente presentandolo come assassino di suo fratello.
La verità di Giovanardi. Un grave problema di disinformazione, questo è quanto dichiarato dal senatore che a sua volta racconta l'altro Cucchi, un ragazzo che attraverso gli organi d'informazione è passato per "pestato indifeso" e "ucciso da guardie bigotte", mentre a causa di alcuni media sono passati in secondo piano i seri problemi di droga e di spaccio che riguardavano il ragazzo. Attualmente la verità che viene fuori è quella che vede Stefano Cucchi trovato in possesso di 1 kg di hashish, vittima di 17 ricoveri per lesioni e ferite ma che ha come causa dichiarata della sua morte un arresto cardiocircolatorio da disidratazione.
L'altro Cucchi, il caso. Attraverso l'articolo pubblicato da "Il Foglio", Giovanardi vuole chiarire la posizione giudiziaria del Cucchi cercando di fare informazione e rivelando alcune informazioni che attraverso i principali organi di stampa sono passate in secondo piano e che a suo dire "hanno fatto disinformazione". Il senatore vuole precisare che non tutti sanno che Stefano Cucchi venne arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e che a seguito di perquisizione domiciliare venne trovato in possesso di 2 "panetti" di hashish del peso di 905 grammi, 103 grammi di cocaina, tre bilancini di precisione e materiale per il confezionamento delle dosi.
Riguardo i 17 ricoveri al pronto soccorso causati da ferite, lesioni e fratture certificate negli anni, Giovanardi è convinto non si tratti di problemi con lo Stato, bensì del mondo che il ragazzo frequentava.
OLIO DI FEGATO DI MELUZZI. Gisella Ruccia per Il Fatto Quotidiano l'11 aprile 2019. L’esponente di Fratelli d’Italia afferma di aver pubblicato sui social un breve filmato sul processo Cucchi: “Ha avuto moltissime visualizzazioni”. “Non è sinonimo di intelligenza, anche il fascismo ebbe tanti voti“, obietta Parenzo. Meluzzi continua: “Ho un amore viscerale nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Il mio grande maestro Francesco Cossiga 20 anni fa diceva che le tre uniche istituzioni che ci sono in Italia sono la Chiesa Cattolica, il Partito Comunista e l’Arma dei carabinieri. Di queste tre oggi mi pare che rimanga in piedi solo l’Arma dei carabinieri. E io mi auguro che continui a rimanere in piedi. Quindi, mi sono permesso di fare un’osservazione modestamente critica sull’idea bizzarra, che poi si è rivelata falsa, del fatto che l’Arma dei carabinieri si costituisse parte civile contro i militari dell’Arma che sono attualmente indagati per la morte di Stefano Cucchi. E’ vero che questo forse accade in qualche pubblica amministrazione, come ad esempio nel catasto, ma l’Arma dei carabineri non è un’amministrazione qualsiasi dello Stato. E’ una istituzione fondamentale della storia italiana”. E aggiunge: “Quindi, come il comandante generale dell’Arma ha chiesto scusa alla famiglia Cucchi, per un principio ovvio, la famiglia Cucchi dovrebbe chiedere scusa a tutte quelle famiglie di giovani a cui il geometra Cucchi spacciava la droga. E’ un problema di reciprocità, io amo un principio di giustizia”. Insorge Parenzo: “Una persona più offensiva e più malevola di te non esiste. Non c’è nessun principio di giustizia. C’è un ragazzo che è morto nelle mani dello Stato“. “Questo lo accerterà la magistratura – rincara Meluzzi – Se io avessi avuto mia figlia morta nelle mani dello Stato, mentre faceva la spacciatrice di droga, avrei chiesto innanzitutto scusa alle famiglie a cui veniva rifilata quella droga”. La polemica deflagra irrimediabilmente. Parenzo ribatte: “Stefano Cucchi non faceva lo spacciatore di droga, smettila di infangare la sua memoria e la sua famiglia, che ha già subito dieci anni di deliri. Ti devi solo vergognare. E poi fai pure il prete caldeo e il religioso di ‘sta minchia”. ” Ma cosa c’entra? La base del Cristianesimo è la giustizia. I deliri sono quelli di chi come te nega l’evidenza”, afferma Meluzzi. Parenzo dà allo psichiatra della "macchietta televisiva e radiofonica" e del ‘pagliaccio che infanga la memoria delle persone’. Meluzzi annuncia a più riprese una querela nei suoi confronti e rivendica la sua tesi, invocando “un principio di simmetria”. “Me ne fotto della tua querela – risponde Parenzo – ti devi vergognare delle cose che hai detto. Cruciani, se non gli dici che si deve vergognare, sei complice di questa immondizia. Non gli puoi consentire questa immondizia. Tu gli permetti di dire menzogne. Vergognati anche tu”. Meluzzi dà dell’incivile al conduttore e ribadisce: “Chi detiene droga e la vende per strada si chiama spacciatore. Non ci sono altre parole per definire questo reato. Tanto che nobilmente la madre di questo ragazzo ha detto: ‘Mio figlio avrebbe pagato per il suo reato, ma non con la morte’. In questo ha ragione. E siccome il comandante Nistri ha chiesto scusa ufficialmente di questo fatto, allo stesso modo, per un principio giuridico, umano, morale di simmetria, se io fossi il padre di un ragazzo che spacciava chiederei scusa alle famiglie dei giovani a cui la droga è stata spacciata”. Parenzo decide di non intervenire più, Cruciani definisce "stronzata" l’insieme di argomentazioni addotto dallo psichiatra, che ripete il suo assunto: “La morte di una persona non cancella i comportamenti di quella persona. Non esiste questo fatto. Non esiste in nessun principio giuridico. Quello dei carabinieri sarà stato anche un reato, se il tribunale lo accerterà, ma spacciare droga è un reato che provoca la morte“. E a Parenzo che, alla fine, decide di esprimere il suo disgusto per le affermazioni di Meluzzi, quest’ultimo ribadisce: “Ti querelerò perché mi hai insultato in maniera insopportabile”.
"Ilaria Cucchi mi fa schifo". Ora Salvini querela il Pd per la fake news sulla sorella di Stefano. Il ministro dell'Interno ha annunciato di querelare il Partito Democratico, colpevole di aver diffuso un suo falso virgolettato circa la sorella di Stefano Cucchi, scrive Pina Francone, Martedì 09/04/2019, su Il Giornale. "Ilaria Cucchi mi fa schifo". Il Partito Democratico ha attribuito questo falso virgolettato a Matteo Salvini e ora i dem sono stati denunciati dal ministro dell'Interno. Già, il responsabile de Viminale ha deciso di querelare il Pd per aver diffuso, attraverso i suoi canali social, la dichiarazione contro Ilaria Cucchi. Insomma, una fake news vera e propria per gettare fango sul leader della Lega su un caso così tanto delicato. La verità, per l'appunto, è che Salvini non ha mai detto di provare schifo per la sorella di Stefano, come aveva già precisato nei mesi scorsi. Il ministro, altresì, faceva riferimento a un post della donna. E proprio Ilaria Cucchi, a conferma che quella uscita social fu infelice, la cancellò e ammise l'errore.
"BASTA. Avevo già smentito: la mia affermazione riguardava non la persona ma un POST di Ilaria Cucchi. Post che lei stessa cancellò successivamente, ammettendo l'errore. E al PD arriverà una querela", il post odierno su Facebook del vicepremier.
Caso Cucchi, chi è il magistrato che ha svelato la partita truccata. Salentino, silenzioso, riservato. Prima Giovanni Musarò è stato in Calabria, a indagare sui boss della 'ndrangheta. Ora è alle prese con l'inchiesta più delicata che mette sotto accusa la catena di comando dell’Arma dei Carabinieri. Floriana Bulfon l'8 aprile 2019 su La Repubblica. «Anime salve in terra e in mare, / sono state giornate furibonde». La voce di Fabrizio De André filtra da una porta chiusa, facendo scorrere lungo il corridoio deserto l’inno agli spiriti solitari, liberi e diversi per scelta. È tarda sera e negli uffici grigi della procura di Roma il freddo comincia a farsi sentire: dopo le cinque il riscaldamento si spegne e molti ascensori si fermano. Orari di un’altra epoca, quando questo palazzo era chiamato “il porto delle nebbie”, dove le indagini svanivano nell’ombra del potere. Altri tempi, altri ritmi. Come testimoniano i versi di De André. Provengono da due altoparlanti incastrati tra lo schermo di un pc e i faldoni pieni di carte che fanno sembrare la scrivania una trincea. Dietro c’è Giovanni Musarò, il magistrato che ha risollevato da un destino ormai già scritto la storia di Stefano Cucchi: quella di un ragazzo morto nelle mani dello Stato e sepolto dalle menzogne di un sistema rivelatosi omertoso. Un pubblico ministero ancora giovane (46 anni, cinque più di Cucchi), che con il suo lavoro sta scuotendo le gerarchie dell’Arma, portando alla luce manipolazioni e depistaggi. Anche questa sera è qui fino a tardi, impegnato a cercare le anomalie nella montagna di fascicoli alterati per sotterrare la verità sulla fine di quel detenuto troppo fragile: sottolinea con l’evidenziatore giallo relazioni modificate, confronta documenti e testimonianze per scoprire parole, opere e omissioni, per smascherare il gioco falso e feroce di appuntati e ufficiali. Non lo fa per ostinazione, ma per senso dello Stato. «È il mio mestiere», ripete spesso quasi sentisse l’obbligo di una giustificazione. Un mestiere che non ammette deroghe: l’obbligatorietà dell’azione penale implica il dovere della verità, sempre e comunque. Anche a costo di mettere in discussione la credibilità della gerarchia dei carabinieri pur di capire cosa sia successo al corpo martoriato di un cittadino, considerato solo «un drogato de merda». Musarò si stringe nella giacca blu. La indossa sempre, persino quando è alla tastiera sotto il gagliardetto della Juventus, esposto in un ambiente pieno di tifosi della Roma: ha una venerazione per Dino Zoff, lo vorrebbe conoscere. Non sa quando ci riuscirà, come se il suo tempo fosse sospeso dentro quelle carte. Che gli raccontano una storia diversa da quella che si voleva far credere a un intero Paese e lo portano ad accusare coloro che avrebbero dovuto stare dalla sua stessa parte. E invece hanno tradito la legge e la lealtà ai valori dell’Arma. Lui li conosce bene quei valori. Su una mensola del suo ufficio c’è una scarpetta di cuoio. È la prima che ha indossato il suo unico nipote, quella con cui ha compiuto il primo passo il figlio di suo fratello, sottufficiale proprio dei carabinieri. L’altro fratello è nell’Esercito, spesso in missione in zone di guerra. Tre maschi, tutti “servitori dello Stato”. Oggi Musarò incarna lo Stato che processa lo Stato. Avvista depistaggi e coperture e non si ferma di fronte al rischio di urtare sensibilità, perché in gioco c’è molto di più. Il caso Cucchi è la contraddizione e l’incoerenza di quello Stato. Che finisce tra i ripetuti «non ricordo» e «mi avvalgo della facoltà di non rispondere» delle alte gerarchie dell’Arma, dopo dieci anni di relazioni di servizio modificate su richiesta dei “superiori”. Relazioni dove le fasi dell’arresto non sono più concitate e i malori spariscono. («Meglio così», commentano in una mail). Dove Cucchi è epilettico, anoressico, peggio, malato di Hiv. Documenti in cui i carabinieri riescono a dichiarare le cause della morte di Stefano prima della scienza, quando ancora non è stata condotta alcuna perizia, anzi quando i periti non sono nemmeno stati nominati. Dopo, i consulenti della procura, quelli che ancora non erano stati scelti, scriveranno le stesse cose. Ma per i carabinieri era già tutto chiaro subito, a pochi giorni dalla morte: «non attribuire il decesso a traumi», di più «non rilevati segni macroscopici di percosse». Una macchinazione che porta a mentire l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano davanti al Parlamento e a scaricare le responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria che sono costretti ad affrontare tre gradi di giudizio per essere assolti. Dopo dieci anni dal mancato foto-segnalamento nella caserma dove avvenne il violentissimo pestaggio confessato ora da Francesco Tedesco, uno dei carabinieri presenti, Musarò vede «la partita truccata» e avverte: «arrivati qui non è più una questione di ricerca della verità doverosa delle responsabilità per la morte di un ragazzo. A questo punto è in ballo la credibilità dell’intero sistema». Quella democrazia tradita e minacciata nelle sue fondamenta, con il mancato rispetto delle regole da parte di chi ne è custode. Con le intimidazioni per chi si ribella al sistema malato, a una catena di comando che nasconde la verità. Musarò è cresciuto nel Salento, all’ombra di enormi e contorti ulivi. Allevato dal nonno adorato e da una zia da cui ha imparato l’ostinazione da applicare sul lavoro. Una famiglia del Sud, il padre impiegato in banca, la madre insegnante. Che quel figlio promettente lo fanno studiare all’università di Roma. Si trasferisce così in un appartamento con altri studenti proprio nella prima periferia della Capitale, nei quartieri dove comandano i Casamonica: il clan rom su cui poi indagherà. Supera rapidamente l’esame da magistrato nel 2002 e sceglie la sede di Reggio Calabria. Si occupa prima di reati sessuali e anche in questo caso lo fa senza occhi di riguardo per nessuno: indaga, e fa condannare, un maggiore della Guardia di finanza a capo del reparto investigativo che, abusando del ruolo, molesta giovani coppie. Quando arriva a Reggio il procuratore Giuseppe Pignatone lo vuole nella squadra dei suoi più stretti collaboratori e lo affida al suo vice Michele Prestipino. Lavorare con i colleghi provenienti da Palermo è una grande scuola, soprattutto per chi come lui è cresciuto negli anni delle stragi e adesso può imparare dagli inquirenti che ne hanno svelato le trame. Con Prestipino riescono a ottenere dalla Cassazione una sentenza storica: il riconoscimento dell’unitarietà delle varie forme di ’ndrangheta, sancendo il disegno mafioso unico che mette insieme clan sparsi in diverse province. Un verdetto pari per rilevanza a quelli nati negli anni Ottanta dal maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra. L’indagine reggina si chiamava “Crimine”. Il giorno degli arresti 500 carabinieri indossavano una maglietta nera con quel nome stampato sopra. Una gliel’hanno regalata e Musarò l’ha incorniciata nel suo ufficio accanto alla foto del collega Antonio De Bernardo, immortalati insieme il giorno della requisitoria davanti al tribunale di Locri. Quell’esperienza calabrese si tramuta nell’approccio innovativo con cui il pm affronta la questione dei clan capitolini, sostenendo la caratura mafiosa dei Casamonica. Dando consistenza alla «condizione di assoggettamento e omertà» - come recita l’articolo 416 bis del codice penale - che loro esercitano nelle strade della capitale. Per concludere senza un filo di dubbio: la brutalità e gli affari del “padrino” Giuseppe e dei suoi parenti, il raid con le cinghiate dentro a un bar di periferia, quella testata degli Spada di Ostia al cronista televisivo, tutto questo è mafia. Quella che a Roma per decenni nessuno ha voluto vedere. Questo magistrato però parla solo con i provvedimenti: mai un’intervista, né un commento sui social. Evita la mondanità romana e i salotti che contano. «Lo fa per non rischiare cattivi incontri e per via della sua ironica sottile malinconia», sostiene chi lo conosce bene. Si concede solo qualche serata con pochi, fidati amici, e una passeggiata con la fidanzata per il quartiere dove abita. Un lusso per chi vive da anni sotto scorta per le minacce della ’ndrangheta. La tutela è al massimo livello ma non è bastata a proteggerlo dall’ergastolano Domenico Gallico. Intercettando la posta e i colloqui in carcere, Musarò ha disposto l’arresto di tutta la rete familiare. Il boss vuole essere interrogato e lui non si può rifiutare. Nel carcere di massima sicurezza chiede però la presenza di due agenti per difesa personale: «Se questo detenuto avrà la possibilità di colpirmi, lo farà». Quel giorno nemmeno lo storico avvocato dei Gallico si presenta, arriva soltanto un giovane difensore che non conosce il detenuto. Nella saletta sono soli. Gallico entra, gli va incontro col passo sostenuto e dice «procuratore, finalmente ci conosciamo, posso stringerle la mano?». Lui gliela porge e quello gli sferra un pugno in piena faccia, un sinistro che gli rompe il naso. Cade tra la sedia e il muro e allora ancora calci e pugni fino a che non arrivano i poliziotti e a fatica glielo staccano di dosso. Può denunciarlo, togliersi da una situazione pericolosa, ma significherebbe astenersi dal processo. Preferisce invece continuare la sua battaglia. «È il mio mestiere», taglia corto. I colpi della ’ndrangheta non si arrestano, arrivano anche in modo più subdolo. Maria Concetta Cacciola è una giovane donna che decide di diventare testimone di giustizia, collaborando con le sue indagini. Maria Concetta muore per ingestione di acido muriatico. Uccisa in quel modo atroce per cancellare la volontà di parlare. Musarò svela le violenze che subisce, la vita da segregata e umiliata che il sistema mafioso le impone e da cui prova a fuggire. A quel punto entra in azione la strategia diffamatoria della famiglia, millanta un inesistente stato depressivo, un’alterazione psichica. A tre giorni dalla morte Maria Concetta viene uccisa un’altra volta. I Cacciola, con un esposto, accusano i magistrati di aver estorto le dichiarazioni. Il tutto anche tramite la complicità di due avvocati che poi saranno condannati per questa calunnia. Dietro alla testa di Musarò ci sono la mappa del Salento e la foto con le colleghe con cui ha condiviso gli anni di Reggio Calabria. Sorride insieme a Beatrice Ronchi, il pubblico ministero che ha svelato la presenza della ’ndrangheta in Emilia, la sua migliore amica. Un ufficio arredato con le cose preziose che fanno compagnia nel silenzio rotto solo dai tasti e dalla musica di sottofondo. Lui sogna di guidare ancora l’auto, nella sua Squinzano: la libertà di una birra con gli amici d’infanzia e di un tuffo nel mare del Salento. Ma è un sogno impossibile, c’è sempre la scorta. In compenso quando parte per Roma la madre, come se fosse ancora studente, gli prepara una borsa con taralli, pasticciotti e altre prelibatezze: da dividere con i collaboratori nella cancelleria, tra stampante, timbri e cartelline. Un momento di familiarità che termina troppo rapidamente perché il telefono squilla. «Gianni ti dobbiamo parlare». Il procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino lo attendono giù al primo piano. Loro l’hanno visto crescere e lo conoscono bene. Sorridono quando si tocca la testa, perché sta riflettendo, alla ricerca di una soluzione al problema del momento. Scende le scale con una borsa stracolma di carte da cui sporge una copia di “Conversazione nella «Catedral»” di Mario Vargas Llosa. Un romanzo sulla dittatura e sull’abuso di potere, capace di infettare come un’epidemia ogni fascia sociale. Qualcosa di simile, seppur in dimensioni diverse, a quello che ha incontrato nelle sue indagini romane, con quel senso di impunità che sembra avere unito criminali di periferia e ufficiali dei carabinieri. E che lui non intende accettare.
Caso Cucchi, chiusa l'inchiesta per i depistaggi: rischio processo per 8 carabinieri. L'avviso di conclusione delle indagini, atto che precede solitamente la richiesta di rinvio a giudizio, riguarda tra gli altri il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo, scrive il 19 marzo 2019 La Repubblica. Falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia: sono questi i reati contestati, a seconda delle singole posizioni, a otto militari dell'Arma, coinvolti nell'inchiesta bis sui depistaggi legati al pestaggio di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato dai carabinieri per detenzione di droga. L'avviso di conclusione delle indagini, atto che precede solitamente la richiesta di rinvio a giudizio, riguarda tra gli altri il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, già responsabile del reparto operativo. Il 415 bis è firmato dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore Giuseppe Pignatone. Tra gli altri carabinieri che sono a rischio processo figurano Francesco Cavallo, già tenente colonnello nonché a suo tempo ufficiale addetto al comando del gruppo Roma, Luciano Soligo, all'epoca dei fatti maggiore e comandante della Compagnia di Montesacro, da cui dipendeva il comando di Tor Sapienza (dove Cucchi venne portato dopo essere stato picchiato al Casilino), Massimiliano Colombo Labriola, luogotenente e comandante di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, carabiniere scelto in servizio presso Tor Sapienza, il capitano Tiziano Testarmata, già comandante del nucleo investigativo, e Luca De Cianni, militare autore di una nota di pg. Casarsa, Cavallo, Colombo Labriola, Di Sano e Soligo sono accusati dalla procura di concorso nel reato di falso. Sabatino e Testarmata, invece, rispondono di omessa denuncia, mentre Testarmata ha anche l'accusa di favoreggiamento. A De Cianni sono attribuiti il falso e la calunnia. "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano) fosse modificato - è detto nel capo di imputazione - nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo i pm, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo e Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che "Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezzà omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Sabatino e Testarmata, invece, secondo la Procura erano stati incaricati di acquisire una serie di documenti nel novembre del 2015, nell'ambito dell'inchiesta bis sui depistaggi legati al caso di Stefano Cucchi, ma, resisi conto che le due annotazioni di servizio del 26 ottobre del 2009 sullo stato di salute dell'arrestato, una sottoscritta dal carabiniere scelto Francesco Di Sano e l'altra dal pari grado Gialuca Colicchio, "erano idelogicamente false", "hanno omesso di presentare denuncia per iscritto all'autorita' giudiziaria". "In questi momenti di difficoltà emotiva per la nostra famiglia è di conforto sapere che coloro che ci hanno provocato questi anni di sofferenza in processi sbagliati verranno chiamati a rispondere delle loro responsabilità. È un'enorme vittoria per la nostra famiglia e la nostra giustizia", ha detto Ilaria Cucchi commentando la chiusura indagini.
· Cucchi, ecco come e chi lo picchiò.
Cucchi, ecco come e chi lo picchiò. Il super test: "A Stefano schiaffi e calci in faccia, poi mi minacciarono". Tedesco, imputato per omicidio, davanti alla prima Corte d'assise di Roma nel processo ai cinque carabinieri: "Chiedo scusa alla famiglia e agli agenti della penitenziaria". Il vicebrigadiere: "La mia nota venne cancellata, ero terrorizzato". L'Arma è pronta alla svolta: "Ci costituiremo parte civile". Esclusiva di Repubblica: Nistri scrive una lettera alla famiglia di Stefano, scrive l'8 aprile 2019 La Repubblica. "Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile". E' iniziata così al processo Cucchi-bis la deposizione davanti alla Corte d'Assise del carabiniere Francesco Tedesco, il supertestimone che ha rivelato a nove anni di distanza che Stefano, 31 anni, venne "pestato" da due suoi colleghi Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, imputati come lui di omicidio preterintenzionale.
Il pestaggio di Stefano Cucchi. L'imputato-superteste ha raccontato le fasi del pestaggio di Stefano Cucchi nella caserma della compagnia Casilina la notte del suo arresto a Roma, il 15 ottobre del 2009, dopo essersi rifiutato di sottoporsi al fotosegnalamento. "Al fotosegnalamento - racconta Tedesco - Cucchi si rifiutava di prendere le impronte, siamo usciti dalla stanza e il battibecco con Di Bernardo è proseguito. Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D'Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all'altezza dell'ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: "Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete". Ma Di Bernardo proseguì nell'azione spingendo con violenza cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbattè anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra D'Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi "state lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più". Aiutai Stefano a rialzarsi, gli dissi "Come stai?" lui mi rispose "Sono un pugile sto bene", ma lo vedevo intontito".
Le annotazioni sparite del carabiniere Tedesco sul pestaggio di Stefano Cucchi. "Non era facile denunciare i miei colleghi. Il primo a cui ho raccontato quanto è successo è stato il mio avvocato. In dieci anni della mia vita non lo avevo ancora raccontato a nessuno". Poi aggiunge: "Ho scritto una annotazione il 22 ottobre parlando dell'aggressione ai danni di Cucchi e della telefonata a Mandolini ma non che era stato Nicolardi a consigliarmi di fare questa relazione". "Ho fatto due originali delle mie annotazioni - ha aggiunto - sono andato in questo archivio al piano di sotto della caserma. Ho protocollato un foglio scrivendoci 'Cucchi annotazione', poi ho preso i due fogli e li ho messi nel registro per la firma del Comandante, di colore rosso, che poi era destinata all'autorità giudiziaria. L'altra copia era destinata alla 'piccionaia', come la chiamavamo in gergo, dove conservavamo tutti gli atti dell'anno corrente". Poi Tedesco ha spiegato: "Non dissi nulla di questa cosa a nessuno, pensavo di essere convocato da solo. Invece nei giorni successivi andai nel registro e vidi che nella cartella mancava la mia annotazione. Mi sono reso conto che erano state cancellate due righe con un tratto di penna".
Cucchi, il verbale già pronto da firmare. "Quando arrivammo alla caserma Appia in ufficio il verbale era già pronto e il maresciallo Roberto Mandolini (imputato per calunnia) mi disse di firmarlo. Cucchi non volle firmare i verbali". E ha spiegato: "Mentre stavamo in auto per rientrare alla caserma Appia Cucchi era silenzioso, si era messo il cappuccio e non diceva una parola, chiedeva il Rivotril". Subito dopo avere assistito all'aggressione di Cucchi, Tedesco ha testimoniato di avere chiamato l'allora capo della stazione Appia, Roberto Mandolini (imputato per calunnia), e "gli dissi cosa era successo. Mandolini mi chiese 'Come sta?'. Io replicai: 'Dice che sta bene ma è successo questo, questo e questo. Cucchi - ha proseguito tedesco- sentì quella telefonata perchè lo avevo sotto braccio. Quindi salii dietro sul defender con lui, mentre Di Bernardo e D'Alessandro stavano davanti. Cucchi non disse una parola, teneva la testa abbassata, io ero turbato e lui era sotto shock più di me". Invece Di Bernardo e D'Alessandro (imputati per omicidio preterintenzionale) "erano tranquilli, non erano spaventati più di tanto. Non erano preoccupati della telefonata che avevo fatto a Mandolini e mi dicevano: 'Non ti preoccupare parliamo noi con Mandolini'. Arrivati alla stazione Appia, Mandolini chiamò D'Alessandro e Di Bernardo, io stavo con Stefano Cucchi, che era ancora stordito anche se cominciava a parlare un pochino con me". Mandolini poi chiamò me e Cucchi, disse: 'Fateli venire che bisogna fermare il verbale d'arrestò. Presi il verbale e mi disse: 'Firmalo che tra un paio d'ore devi andare in tribunale. Io lo firmai senza nemmeno leggere. Con me mandolini faceva sentire il grado, se dovevo entrare in ufficio io dovevo chiedere permesso, se lo facevano D'Alessandro e Di Bernardo no. Cucchi non voleva firmare il verbale di perquisizione nè il verbale d'arresto". "Dire che ebbi paura è poco - ha raccontato Tedesco - Ero letteralmente terrorizzato. Ero solo contro una sorta di muro. Sono andato nel panico quando mi sono reso conto che era stata fatta sparire la mia annotazione di servizio, un fatto che avevo denunciato. Ero solo, come se non ci fosse nulla da fare. In quei giorni io assistetti a una serie di chiamate di alcuni superiori, non so chi fossero, che parlavano con Mandolini. C'era agitazione. Poi mi trattavano come se non esistessi. Questa cosa l'ho vissuta come una violenza".
Cucchi, le minacce di Mandolini al carabiniere Tedesco. "Prima di andare dal pm per essere sentito dissi a Mandolini "ma ora cosa devo fare?" e lui mi rispose "non ti preoccupare, ci penso io, devi dire che (Cucchi, ndr) stava bene. Devi seguire la linea dell'arma se vuoi continuare a fare il carabiniere". E ha sottolineato il vicebrigadiere Tedesco: "Ho percepito quella minaccia come tanto seria- ha aggiunto- e poi vedevo i colleghi tranquilli".
La lettera del generale Nistri alla famiglia Cucchi. Clamore anche per la svolta raccontata da Repubblica sul caso Cucchi: il comando dei carabinieri è pronto a costituirsi parte civile. E il generale Giovanni Nistri ha scritto una lettera alla famiglia Cucchi. "Mi creda - scrive il generale - e se lo ritiene lo dica ai suoi genitori, abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà". E poi affronta l'onta che l'Arma porta nell'omicidio di Stefano: Comprendiamo l'urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno. Ciò vale per il processo in corso alla Corte d'Assise. E ciò varrà indefettibilmente anche per la nuova inchiesta avviata dal Pubblico Ministero nella quale saranno giudicati coloro che oggi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere".
Il processo ai cinque carabinieri del caso Cucchi. Sono cinque i carabinieri alla sbarra nel procedimento bis in corso davanti alla prima Corte d'Assise: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Tedesco e rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l'arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Altri otto carabinieri sono indagati nel fascicolo sui presunti depistaggi sul caso, e rispondono di reati che vanno dal falso, all'omessa denuncia, la calunnia e il favoreggiamento. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani. Clamore anche per la svolta raccontata da Repubblica sul caso Cucchi: il comando dei carabinieri è pronto a costituirsi parte civile. E il generale Giovanni Nistri ha scritto una lettera alla famiglia Cucchi.
Cucchi, stretta di mano tra Ilaria Cucchi e il superteste Tedesco: "Ha detto mi dispiace, lo ringrazio", scrive il 16 aprile 2019 Repubblica Tv. Al termine del suo esame nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi, l'imputato e superteste Francesco Tedesco, che nella scorsa udienza ha accusato i colleghi di aver pestato il geometra romano, si è alzato e si è diretto verso Ilaria Cucchi. "Mi dispiace", ha detto il vice-brigadiere alla sorella di Stefano. "E' stato un momento forte, quello che posso dire è che sono stata grata almeno per questo gesto", ha detto la donna. Nel corso dell'udienza inoltre, Maria Lampitella, la legale che difende Raffaele D'Alessandro, uno degli altri carabinieri imputati, ha chiesto a Tedesco se ricordava la frase pronunciata da Cucchi dopo il pestaggio 'Io muoio, ma a te tolgono la divisa'. Tedesco ha smentito la circostanza, ma per Ilaria Cucchi questo resta un passaggio significativo: "Ringrazio Lampitella, ha ribadito che Stefano era stato picchiato e stava molto male, tanto che è morto dopo sei giorni".
Caso Cucchi, il carabiniere stringe la mano a Ilaria. Nuova deposizione di Francesco Tedesco, imputato di omicidio preterintenzionale. A distanza di nove anni ha rivelato che il geometra romano venne “pestato” dai suoi ex colleghi, scrive Valentina Stella il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. “Mi dispiace”: con queste parole ieri, al termine dell’interrogatorio in Corte d’Assise a Roma, Francesco Tedesco si è rivolto a Ilaria Cucchi. Il carabiniere è imputato di omicidio preterintenzionale ed ha accusato gli altri due militari coimputati nel processo, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, per la morte di Stefano Cucchi. Al termine dell’interrogatorio l’uomo si è alzato ed è andato a stringere la mano alla sorella del geometra 31enne, morto nell’ottobre del 2009 sotto la custodia dello Stato una settimana dopo essere stato arrestato per droga. È dunque lontano quel gennaio del 2016 quando Ilaria Cucchi pubblicò sulla sua pagina Facebook una foto di Tedesco al mare, che esibiva un fisico palestrato e unto di crema solare in uno striminzito costume, aggiungendo il commento: “Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo, le facce di coloro che lo hanno ucciso…”. Ieri forse l’inizio di un nuovo percorso, segnato dal pentimento e della ricerca della verità. Tedesco, infatti, nella scorsa udienza, a distanza di 9 anni da quella tragica morte, aveva rivelato che Cucchi venne “pestato” da Di Bernardo e D’Alessandro. Ieri ai giudici ha aggiunto altri particolari, sfogandosi contro i suoi ex colleghi: “Si sono nascosti dietro le mie spalle per tutti questi anni, per dieci anni loro hanno riso e io ho dovuto subire, mi sono stancato. In tutti questi anni l’unica persona che aveva da perdere ero io, ero l’unico minacciato”. Rispondendo poi alle domande delle difese, Tedesco ha detto perché ha aspettato così tant. “Cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm ma ho voluto aspettare che uscissero le annotazioni mie falsificate e cancellate per corroborare le mie parole”. Subito dopo la morte di Stefano Cucchi “sono stato minacciato di essere licenziato quindi allora non chiesi nulla perché avevo capito l’andazzo. Dopo il 22 ottobre 2009 mi sono trovato incastrato ed ero l’unico ad avere tutto da perdere” ha concluso Tedesco. Intanto tre agenti della penitenziaria – Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici che sono stati assolti in via definitiva nel 2015, e al momento persone offese, hanno depositato un atto di nomina dei difensori al fine di costituirsi parte civile contro i rappresentanti dell’Arma indagati. Stessa cosa ha fatto la la famiglia Cucchi.
Il carabiniere superteste: "Per 10 anni colleghi nascosti dietro di me". E stringe la mano a Ilaria: "Mi dispiace". La stretta di mano tra il superteste Francesco Tedesco e Ilaria Cucchi oggi in aula. Francesco Tedesco ha ricostruito le fasi dell'arresto e il pestaggio del giovane geometra. "Non ha avuto tempo di lamentarsi e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra". Smentita in aula la frase riportata da Ilaria Cucchi: "Io muoio ma a te ti levano la divisa", scrive il 16 aprile 2019 La Repubblica. "Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo si sono nascosti per dieci anni dietro le mie spalle. A differenza mia, non hanno mai dovuto affrontare un pm. L'unico ad affrontare la situazione e ad avere delle conseguenze ero io. In tutti questi anni l'unica persona che aveva da perdere ero io, ero l'unico minacciato". Lo ha detto in aula davanti alla Corte d'Assise, Francesco Tedesco, il carabiniere superteste e imputato di omicidio preterintenzionale che ha accusato di pestaggio gli altri due militari coimputati coinvolti nel processo per la morte di Stefano Cucchi, il giovane geometra morto nel 2009. E al termine della sua deposizione, Tedesco si è avvicinato alla sorella del geometra, Ilaria dicendole "mi dispiace" e stringendole per la prima volta la mano. Rispondendo alle domande delle difese, Tedesco ha spiegato perché ha aspettato tanti anni per fare le sue rivelazioni. "Cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm", ha anche spiegato Tedesco, il quale in aula ha anche ricostruito tutte le fasi dell'arresto di Stefano dicendo di aver visto personalmente lo scambio droga-denaro di Cucchi con il suo cliente e indicando tutti i componenti del gruppo che realizzarono le varie perquisizioni (personale, dell'auto e domiciliare) del giovane quella notte. "Subito dopo la morte di Cucchi sono stato minacciato di essere licenziato quindi allora non chiesi nulla perché avevo capito l'andazzo. Dopo il 22 ottobre 2009 mi sono trovato incastrato ed ero l'unico ad avere tutto da perdere" ha aggiunto Tedesco, accusato anche di falso e calunnia insieme con il maresciallo Roberto Mandolini, mentre della sola calunnia risponde il militare Vincenzo Nicolardi. ""Dopo il primo schiaffo di Di Bernardo - ha detto il vicebrigadiere, ribadendo quanto già affermato nella precedente udienza - Stefano non ha avuto il tempo di lamentarsi, non ha gridato. E' caduto in terra, come fosse stordito, e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra da D'Alessandro. Poi, quando l'ho aiutato a rialzarsi, gli ho chiesto come stava e lui mi ha detto di stare tranquillo perché era un pugile. Ma si vedeva che non stava bene". "Vorrei ringraziare l'avvocato Lampitella, difensore di D'Alessandro, che ci ha fornito un ulteriore e rilevante elemento. Stefano in auto con i carabinieri al rientro dalla stazione Casilina avrebbe detto 'io muoio ma a te ti levano la divisa'. Stefano era stato appena picchiato e stava proprio male" lo ha scritto su Facebook Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, in merito ad una domanda formulata in aula dal legale della difesa. E oggi in aula, davanti alla Corte d'Assise, il legale ha chiesto al carabiniere Francesco Tedesco se Stefano avesse pronunciato la frase in questione. La risposta di Tedesco è stata negativa.
Stefano Cucchi, il carabiniere Tedesco in aula: «Chiedo perdono, mi ritrovai solo». Pubblicato martedì, 09 aprile 2019 da Corriere.it. «Tu devi dire che non è successo niente, che Cucchi stava bene. Se vuoi continuare a fare il carabiniere devi seguire la linea dell’Arma». Il vice brigadiere Francesco Tedesco — 37 anni, imputato per l’omicidio preterintenzionale del detenuto romano arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e morto una settimana più tardi — attribuisce a questa frase del maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca comandante supplente della stazione Roma-Appia, i nove anni di omertà con cui lui stesso ha taciuto e coperto il «violentissimo pestaggio» di Stefano Cucchi Confessato al pubblico ministero Giovanni Musarò solo l’estate scorsa, con una versione che accusa delle botte i suoi colleghi coimputati, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. «Vissi quell’esortazione come una minaccia, insieme a tanti altri comportamenti», racconta Tedesco davanti alla Corte d’Assise in una deposizione-fiume cominciata con la richiesta di perdono rivolta alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria processati e assolti in passato: «Chiedo scusa per i nove anni di silenzio, ma avevo davanti un muro insormontabile». Il muro costruito con intimidazioni mascherate da consigli che gli avrebbero impedito di svelare prima ciò che adesso racconta sollecitato dalle domande del pm e dei suoi avvocati difensori, Eugenio Pini e Stefano Petrelli. È la storia di un arresto notturno per droga uguale a tanti altri, trasformatosi prima in dramma e poi in uno scandalo. «Dopo la perquisizione domiciliare — ricorda Tedesco, offrendo il proprio volto a telecamere e fotografi — siamo andati alla caserma Casilina per il fotosegnalamento di Cucchi, ma al momento di prendere le impronte digitali Stefano ha avuto un battibecco con Di Bernardo, perché non voleva sporcarsi le mani con l’inchiostro. Hanno cominciato a insultarsi, Cucchi ha fatto il gesto di dare uno schiaffo a Di Bernardo. Era più una violenza verbale che altro. A quel punto D’Alessandro ha chiamato Mandolini, il quale ci ha ordinato di rientrare perché, essendo un italiano fornito di documenti, non c’era bisogno del fotosegnalamento. Mentre uscivamo Cucchi e Di Bernardo hanno continuato a offendersi, finché Di Bernardo gli ha dato uno schiaffo abbastanza violento. Poi D’Alessandro, che stava chiudendo il computer, gli ha dato un calcio all’altezza del sedere, facendolo cadere. Io ho detto “ma che cazzo fate?”. Poi ho spinto Di Bernardo, e D’Alessandro gli ha dato un secondo calcio, mi pare in faccia. Io l’ho spinto via dicendo “non vi avvicinate, non vi permettete”, ho preso sottobraccio Cucchi che mi ha detto “non ti preoccupare, sto bene, sono un pugile”». Da quel momento, rientrati tutti nella caserma Appia, è cominciato il calvario di Cucchi che l’indomani mattina è stato accompagnato in tribunale dallo stesso Tedesco: «Camminava lentamente, trascinando una gamba, e aveva gli occhi arrossati. Si capiva che era stato picchiato». Una settimana più tardi Cucchi morì nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini. E cominciò ad alzarsi il «muro impenetrabile» costruito anche con le bugie e i silenzi del vicebrigadiere che decise di attenersi alla «linea dell’Arma» emersa intorno a lui giorno dopo giorno: «In più occasioni mi fu fatto capire che non dovevo fare azioni isolate, né discostarmi dal comportamento degli altri. Per esempio quando davanti a me Mandolini chiamò un superiore della stazione di Tor Sapienza per dirgli che la relazione di servizio del piantone sulle condizioni di Cucchi non andava bene, dopo dieci minuti è arrivata quella modificata, e lui ha strappato la prima; io ho vissuto quell’episodio come una violenza». Non l’unica. «Quando seppi che Cucchi era morto — continua Tedesco —, scrissi un’annotazione di servizio in cui ricostruii ciò che avevo visto. Ne stampai due copie, ma dopo qualche giorno mi accorsi che nel fascicolo dove le avevo inserite non c’erano più». A questa versione c’è il riscontro di un registro che appare manomesso, come fu manomesso quello del fotosegnalamento dal quale fu cancellato il nome di Cucchi: «Erano tutti tranquilli». Poi Tedesco partì per la Puglia per un periodo di ferie prontamente concesso dal Mandolini, e ricevette una telefonata sospetta: «Mi chiamarono Di Bernardo e D’Alessandro per chiedermi come stavo, e D’Alessandro disse, a proposito della vicenda Cucchi, “mi raccomando, fatti i cazzi tuoi, occhio”». Tedesco si adeguò, anche dopo aver saputo di essere indagato nell’inchiesta-bis, nel 2015. Con un programma per ripulire il computer fece sparire le tracce della relazioni di servizio che oggi vorrebbe tanto ritrovare, e dalle intercettazioni risulta che fosse d’accordo con D’Alessio e Di Bernardo nel concordare le versioni e continuare a coprire la verità. «Mi fingevo loro amico per non destare sospetti, avevo paura di loro e delle conseguenze che potevo subire», spiega. Il controesame condotto dall’avvocato Bruno Naso, difensore di Mandolini, cerca di mettere in luce contraddizioni e smagliature nel racconto del carabiniere «pentito», che però si mostra granitico nella sua ricostruzione. E aggiunge: «Non dissi nulla ai superiori perché ebbi la sensazione che si volesse coprire tutto». La «linea dell’Arma» ha retto fino al luglio scorso quando Tedesco — evidentemente per alleggerire la propria posizione processuale e distinguerla da quella di chi oggi accusa essere i picchiatori di Cucchi, fornendo una versione che trova conferme nel racconto di un detenuto che parlò con Cucchi dopo l’arresto, a Regina Coeli — ha denunciato la scomparsa della relazione e accusato i colleghi del pestaggio. Proprio mentre il comando generale gli comunicava l’avvio della procedura disciplinare che potrebbe portarlo alla destituzione. Interrotta solo in seguito, in attesa della fine del processo.
· I carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia.
Caso Cucchi, il pm: i carabinieri avevano una relazione segreta sull'autopsia, scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Prima ancora che la procura conferisse l’incarico per l’esame medico legale sulla morte di Stefano Cucchi, i carabinieri erano già in possesso di una relazione ufficiosa e segreta, datata 30 ottobre 2009. L’ennesimo colpo di scena svelato nell’aula del processo bis dal pm Giovanni Musarò ha come conseguenza la richiesta della pubblica accusa alla corte D’Assise di revocare dalle prove di questo dibattimento le testimonianze rese dai vecchi periti. La prima consulenza medico legale su Stefano Cucchi «è stata farlocca, le testimonianze di consulenti e periti dell'altro processo introdurrebbero un vizio nel processo attuale», sottolinea Musarò. «Il precedente processo è stato giocato con un mazzo di carte truccate, ora il mazzo è nuovo», aggiunge il pm, ma la credibilità di quei testi «è irreparabilmente inficiata». Nella precedente udienza era emerso che sempre sulla base di false attestazioni mediche fornite dai carabinieri al ministro dell’Interno Angelino Alfano, il titolare del Viminale era stato indotto a dire il falso quando venne chiamato a riferire del caso in parlamento. Ora, il passo avanti ulteriore con cui la procura sostiene la sua accusa di depistaggio a carico di altri sette carabinieri, oltre ai cinque imputati per il pestaggio e i falsi. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, dice ancora il pm in aula, «erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm di allora non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell'autopsia». La relazione di cui parla l'Arma in documenti riservati del 2009, «era talmente segreta da essere negata anche alle parti», aggiunge Musarò.
Cucchi, il dossier sull’autopsia finito nelle mani dei carabinieri. Pubblicato venerdì, 08 marzo 2019 da Corriere.it. Di udienza in udienza, al processo per la morte di Stefano Cucchi i misteri si infittiscono anziché chiarirsi. O meglio, affiora con sempre maggiore chiarezza un intrigo — legato ai depistaggi del 2009 e del 2015 denunciati dall’accusa — che i protagonisti non riescono a spiegare. O si rifiutano di spiegare avvalendosi del diritto al silenzio essendo a loro volta indagati per falso o favoreggiamento. A cominciare dal generale dei carabinieri Alessandro Casarsa e dal capitano Tiziano Testarmata, che dopo aver risposto alle domande del pubblico ministero Giovanni Musarò nel corso dell’inchiesta-bis sulla manipolazione delle prove, nell’aula dove vengono giudicati cinque loro colleghi imputati di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso, scelgono di tacere. «Sono emerse altre circostanze inquietanti relative agli accertamenti medico-legali sul decesso di Cucchi», annuncia il pm Musarò aprendo l’udienza di ieri, per mettere in guardia: «Nell’altro processo (quello contro gli agenti penitenziari finiti assolti, ndr) è stata giocata una partita con le carte truccate; oggi ne giochiamo un’altra con un mazzo nuovo, ma vorrei evitare altri trucchi». Stavolta la novità è una relazione preliminare del medico che il 23 ottobre 2009, il giorno dopo la morte di Stefano, effettuò l’autopsia sul cadavere. Otto pagine consegnate dal consulente Dino Tancredi al magistrato che all’epoca svolgeva le indagini, Vincenzo Barba, alle 17.40 del 30 ottobre e negate agli avvocati della famiglia Cucchi. Segrete per tutti ma non per l’Arma, che già negli appunti redatti dall’allora colonnello Casarsa lo stesso 30 ottobre e dall’ex comandante provinciale Vittorio Tomasone il 1° novembre, ne davano conto. Enfatizzando conclusioni parziali e interlocutorie, redatte «con riserva di ulteriori approfondimenti». Prima ancora che a Tancredi venissero affiancati altri consulenti, i carabinieri spiegavano nel loro appunto trasmesso al comando generale (poi utilizzato per informare il governo chiamato a rispondere alle interrogazioni parlamentari) che il collegio peritale sarebbe stato ampliato per «valutare i risultati parziali dell’autopsia che sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi». In realtà Tancredi aveva ripetutamente scritto che «allo stato attuale» non emergevano elementi che collegassero le lesioni alla morte di Cucchi; e che «la definizione dei mezzi produttori della medesima necessita di ancor più approfondito esame» di tutti gli elementi a disposizione e ancora da raccogliere. Tuttavia la mancanza del famoso «nesso causale» tra le percosse e la morte di Cucchi verrà poi introdotta nelle successive consulenze e perizie che hanno condizionato il primo processo, e che oggi il pm non esita a definire «farlocche». Anche in virtù di un’altra relazione senza data, che lo stesso Tancredi non sa spiegare, in cui sparì una lesione vertebrale invece presente in quella preliminare; e delle anticipazioni elaborate dai carabinieri, sebbene non si capisca a quale titolo furono informati in tempo reale degli accertamenti medico-legali in corso. Perché avevano quella relazione segreta? E come poterono anticipare le mosse successive? Nell’udienza precedente il generale Tomasone disse di non ricordare perché nel suo appunto escluse il collegamento tra botte e decesso, essendosi limitato a trascrivere ciò che gli aveva indicato il colonnello Casarsa. Il quale nel frattempo è diventato anche lui generale e al pm — nell’istruttoria sui presunti depistaggi — aveva detto di non ricordare chi gli aveva trasmesso quelle informazioni; negando di aver dettato l’annotazione al suo sottoposto, come riferito dal colonnello Cavallo. Versioni contraddittorie, un carabiniere contro l’altro. E ieri, convocato davanti ai giudici, Casarsa ha cambiato atteggiamento: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Come il capitano Testarmata — che sulle acquisizioni di carte del 2015 aveva risposto al pm, sostenendo tesi smentite da altri — ma in aula resta zitto, se non per declinare le proprie generalità. L’unico ufficiale che deve parlare per forza in quanto testimone, il tenente colonnello Paolo Unali, ex comandante della compagnia Casilina, non sa spiegare perché negli atti redatti all’epoca non si fa mai cenno ai motivi del mancato fotosegnalamento di Cucchi la sera dell’arresto (quando avvenne il pestaggio, secondo l’accusa). «Mi avevano riferito che era stato poco collaborativo», dice. Ma allora come mai negli appunti il detenuto viene descritto come «remissivo», oltre che falsamente «anoressico e sieropositivo»? «Non lo so», risponde Unali. Quelle carte dei carabinieri sono rimaste nascoste per nove anni, e solo di recente sono state consegnate dall’Arma, inserite negli atti della nuova indagine e prodotte in aula. Ma, un po’ misteriosamente, la corte d’assise per adesso ha stabilito che non debbano entrare nel processo.
Caso Cucchi, il pm al processo: "I carabinieri avevano una relazione segreta precedente all'autopsia". E' la novità emersa nell'udienza del procedimento bis sui presunti depistaggi. Musarò: "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i militari già lo sapessero?" Scrive l'8 marzo 2019 Maria Elena Vincenzi La Repubblica. Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell'autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza. E' la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d'Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell'ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musarò, veniva evidenziato che la lesività delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell'Arma veniva esclusa la possibilità di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno. Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell'autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all'avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un'insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. "Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?" ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all'autopsia di Stefano Cucchi. "I legali di Cucchi nel 2009 - ha aggiunto - avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c'erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece - ha concluso - si sosteneva che non c'era un nesso di causalità delle ferite con il decesso". "Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall'inizio delle operazioni" spiega il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. "Per pervenire a delle conclusioni - ha aggiunto - io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perchè c'erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti. Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009". Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento "contiene un parere preliminare che è del tutto orientativo perché è' poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni".
Stefano Cucchi, il pm: “I carabinieri avevano una relazione segreta sui primi risultati dell’autopsia, scrive Il Fatto Quotidiano l'8 Marzo 2019. Il 30 ottobre 2009 era stata fatta una relazione preliminare sui primi risultati dell’autopsia di Cucchi tenuta segreta ma di cui il Comando Provinciale e il Gruppo Roma sapevano”. È quanto dichiarato dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo sulla morte di Stefano Cucchi. In quel documento preliminare (effettuato il giorno stesso del decesso del geometra 31enne) si sottolineava che “la lesività delle ferite allo stato non consentiva di accertare con esattezza le cause della morte”. Parole che marcano una differenza netta rispetto a quanto sostenuto sempre nell’autopsia e nella maxi-consulenza, in cui veniva escluso un nesso fra le ferite di Stefano Cucchi e la sua morte. Si tratta infatti di risultati completamente diversi, che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari – che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi – si parlava di due fratture (e non precedenti), oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula. In atti ufficiali del comando del gruppo dei carabinieri di Roma, “erano anticipate le conclusioni di consulenti che il pm non aveva ancora nominato con riferimenti e risultati parziali dell’autopsia” ha evidenziato il pubblico ministero. La relazione di cui parla l’Arma in documenti riservati del 2009, “era talmente segreta da essere negata anche alle parti” ha aggiunto. Il documento in questione era stato firmato dal medico legale Dino Tancredi, l’unico già nominato il 30 ottobre 2009, e vi si sottolineava come servissero ulteriori approfondimenti per definire le cause del decesso. Eppure già in quei giorni l’Arma sottolineò come i medici legali avessero escluso il nesso di causalità tra la morte del giovane e le percosse subite. Musarò ha fornito anche altri dettagli: nella relazione si spiega “che c’erano due fratture non precedenti alla morte e non si faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e che Cucchi era morto per cause da accertare”. Il pm ha sottolineato che però “nei verbali dei Carabinieri già si sosteneva che non c’era nesso di causalità tra le ferite e la morte”. Infine ha ripetuto: “Se nel 2009 non si conoscevano le cause della morte com’è possibile che i carabinieri nei loro documenti già lo sapessero?”. Una presa di posizione, quella del pm Musarò, che segue quanto avvenuto il 27 febbraio scorso durante l’audizione in aula come testimone del generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri. Tomasone ha detto di non essersi mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra 31enne, circostanza però smentita dal pm Musarò, che in aula gli ha mostrato un atto sua firma nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia, in particolare in merito a due fratture, che neanche la Procura di Roma ancora conosceva.”Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto il pm, con Tomasone che per rispondere ha chiamato in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha chiesto se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. E qui Tomasone ha replicato dicendo “questo non lo so”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia del geometra, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.
Caso Cucchi, nuove prove di depistaggio al processo: "Conclusioni mediche prima di perizia" . Tomasone: "Fu un arresto normale". Durissimo il pm: "Le carte acquisite a novembre 2018 dimostrano che si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia". Depone come teste l'allora comandante: "Chiesi relazione sui fatti, sono convinto che non ci siano responsabilità da parte dei carabinieri", scrive Maria Elena Vincenzi il 27 febbraio 2019 su La Repubblica. Si è aperta alla Corte di assise di Roma, con un nuovo e ultimo deposito, l'udienza del processo per la morte di Stefano Cucchiche vede imputati cinque carabinieri nell'ambito del nuovo filone di inchiesta sui falsi e sui depistaggi legati alle condizioni di salute del 32enne geometra arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e deceduto sei giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. Ma soprattutto è la giornata in cui è stato sentito Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti comandante provinciale di Roma. In apertura di udienza il pm Giovanni Musarò prende la parola. "È l'ultimo deposito di attività integrativa di straordinaria importanza. C'è stato depistaggio sia nel 2015 sia per il 2009 che è oggetto del procedimento. Pensiamo di essere riusciti a capire e dimostrare cosa accadde nel 2009, grazie ad acquisizione documentale resa possibile anche grazie alla leale collaborazione che ci è stata offerta dal comando provinciale dei carabinieri. "Due le circostanze - spiega il pm - la prima attiene alla ricostruzione dei fatti. Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio".
Al ministro Alfano documenti falsificati. "Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Ma a cosa servivano: non servivano per il pubblico ministero, servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti".
Conclusioni mediche prima della perizia. "Secondo aspetto - prosegue Musarò - che attiene agli esami medico legali. Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - aggiunge il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".
Anemia e epilessia diventarono anoressia. "Mi sono andato a risentire l'audio di quel processo per direttissima. Stefano Cucchi disse di avere l'anemia e l'epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni sulle condizioni di salute del ragazzo, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte". Lo ha sottolineato il pm Giovanni Musarò nel processo ai cinque carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. Il magistrato ha quindi spiegato che il comando provinciale dell'Arma nel gennaio del 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. "Non è vero, perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ha negato che accadde ciò - ha concluso il pm -. L'epilessia di Cucchi era da tempo in fase di rimessione, come hanno detto i medici. Eppure l'epilessia, nella relazione peritale del gip dell'ottobre del 2016, diventò la causa più probabile del decesso. Si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia, ma ormai qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema".
Tomasone: "Fu un arresto normale". Per l'allora comandante dei carabinieri, quello di Cucchi "fu un arresto normale". Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Lo ha riferito davanti alla corte d'assise il generale Vittorio Tomasone, all'epoca dei fatti (2009) comandante provinciale di Roma dei Carabinieri, sentito come testimone nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi. Una versione, quella dell'alto ufficiale dell'Arma, caratterizzata da tante ammissione di "non ricordo" e "non ho memoria dei fatti" che hanno suscitato la stizza del pm Giovanni Musarò. Tomasone ha spiegato così il significato della riunione del 30 ottobre del 2009, che il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, ha definito in udienza 'come quella degli alcolisti anonimi': "A tutti coloro che erano stati presenti nella vicenda dell'arresto di Cucchi - ha detto il generale - avevo chiesto di venire da me al Comando provinciale e, oltre a portare una relazione scritta, di dire quello che avevano fatto. All'esito di questi ulteriori accertamenti, ne deducevo il convincimento che non vi potevano essere responsabilità. Il motivo di fare venire i militari non era solo quello di cogliere il 'focus' del loro racconto ma anche, attraverso l'espressione del loro viso, capire se qualcuno stesse correggendo altri nella ricostruzione dei fatti. Sentire i militari singolarmente si sarebbe prestato a una interpretazione diversa. Mi sembrava cosa più logica guardarli negli occhi tutti assieme"...
· Il ministro Angelino Alfano indotto a dichiarare il falso.
Caso Cucchi, i pm: ''Angelino Alfano indotto inconsapevolmente a dichiarare il falso su atti falsi'', scrive Giovanni Bianconi su Corriere della Sera, 1 marzo 2019. Il procuratore di Roma ai carabinieri interrogati: "Qui di prassi non c'è nulla". Mentre cercava di orientarsi nel labirinto di dichiarazioni mai convergenti dei carabinieri coinvolti nel "caso Cucchi", il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è stato più volte sul punto di perdere la pazienza. E certe sue affermazioni contenute nei verbali d'interrogatorio degli ufficiali dell'Arma sospettati per i depistaggi del 2009 e del 2015 - ai quali ha voluto partecipare affiancando il sostituto Giovanni Musarò - suonano come un campanello d'allarme. Per la gravità dei fatti emersi nell'inchiesta sulle presunte deviazioni e coperture attivate per nascondere le responsabilità, e per le versioni poco credibili, contraddittorie o contrastanti fornite dagli ufficiali indagati. Chiamato a fornire una spiegazione dei falsi sulla salute di Stefano Cucchi da lui sottoscritti e finiti nell'informativa al Senato del ministro della Giustizia, il generale Alessandro Casarsa (all'epoca colonnello comandante del Gruppo Roma) non sa darne di convincenti e dice: "Quello che mi è stato prospettato io sicuramente l'ho letto, e sicuramente credevo in quello che stavo trasmettendo". Il procuratore commenta: "Rimane il problema che, lasciando perdere le responsabilità penali che sono personali, vengono costruiti in questa pratica che non è diretta alla Procura ma al ministero della Giustizia e poi al Parlamento, una serie di falsi. Questo è il dato fattuale. Dopodiché lei non ne era consapevole e quindi, fino a prova contraria, non se ne risponde penalmente. Andiamo avanti". "Non è una risposta" - Ma andando avanti le cose non cambiano. Quando gli viene chiesto come ha potuto scrivere particolari tanto precisi sui primi risultati dell'autopsia sul corpo di Cucchi ancora segreti, il generale afferma: "Questa qui sicuramente è stata comunicata al Gruppo... qualcosa che io ho trasmesso...", e Pignatone lo avverte: "Questa non è una risposta. Mi scusi...". Successivamente Casarsa sostiene di non aver dettato un appunto al colonnello Cavallo (che invece dichiara il contrario) perché "non è la prassi", e il procuratore sbotta: "Ma qua non c'è niente nella prassi, generale. In questa vicenda non c'è assolutamente nulla nella prassi, quindi...". Per esempio non sarebbe nella prassi che un capitano dei carabinieri come Tiziano Testarmata, dopo essersi accorto nel 2015 di due differenti versioni di altrettante annotazioni degli stessi carabinieri sullo stato di salute di Cucchi, le trasmetta agli inquirenti senza segnalare l'ipotetico falso. Quando il pm Musarò gliene chiede conto il capitano dice: "Non ho capito la domanda". Il procuratore interviene: "E gliela spiego io. Lei non è un mero commesso che va lì, trova due fogli diversi, li prende e li porta a chi l'ha mandata. È un ufficiale dei carabinieri, si è accorto che c'era almeno uno dei due che doveva essere falso, sarebbe stato logico, lasciamo perdere se doveroso o meno, che rappresentasse questa falsità". "Cerchiamo la verità" - Testarmata dice di averlo fatto con il colonnello Lorenzo Sabatino, già capo del Nucleo investigativo e poi del Reparto operativo, il quale nega: "Ribadisco che non mi ha mai parlato di falsi, che non abbiamo guardato... Io non ho guardato nessuno degli allegati alla nota di trasmissione a mia firma... Testarmata non mi parlò di annotazioni di servizio false". Pignatone: "Scusi, perché Testarmata dovrebbe mentire, riferire una cosa non vera dicendo che avete visto "carte alla mano" queste benedette relazioni?". Sabatino: "Questo, procuratore, non lo so". Il magistrato prova a insistere: "Lei può immaginare un motivo per cui Testarmata, un ufficiale che ha lavorato con lei tanto tempo, di cui lei aveva fiducia tanto che lo ha scelto per questo incarico, si sarebbe inventato questa circostanza?". Sabatino: "Io... non so, lui si stava ovviamente difendendo da un'accusa che riguardava altro...". Pignatone: "Vabbè, andiamo avanti". Al colonnello Francesco Cavallo, che ha ricevuto e rispedito indietro le annotazioni falsificate, e che a fatica ammette di aver "messo mano" a quei documenti "su indicazione del colonnello Casarsa", il procuratore ricorda: "Deve essere chiaro che a noi interessa solo ricostruire la verità, questo dev'essere chiaro e registrato, non abbiamo nessun altro scopo che questo. Dopodiché la vicenda è quella che è, drammatica, come tutti sappiamo". Più avanti il colonnello cerca di giustificare certe considerazioni "minimizzanti" sui falsi, da lui inserite in una relazione sul caso Cucchi, ma non pare troppo convincente. "Io sono fatto così, se posso dare più dettagli possibili e posso...", prova a dire Cavallo, ma Pignatone lo interrompe: "Lei non dà dettagli, dà spiegazioni sballate, se mi permette".
In aula ascoltato l’ex Comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone, scrive AntiMafiaDuemila il 28 Febbraio 2019. Nuovi inquietanti particolari sono venuti a galla dal processo bis sulla morte del trentenne Stefano Cucchi. Il pm Giovanni Musarò, ieri, durante l’apertura d’udienza, ha pronunciato parole al vetriolo: “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c'è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Il magistrato ha puntato il dito contro i continui depistaggi, posti in essere sulla morte di Stefano Cucchi dai vertici dell'Arma dei carabinieri, che via via sarebbero arrivati fino alle scrivanie del governo dell’epoca. In particolare a cadere nella trappola della manipolazione delle carte dell’Arma, sulla morte dell’ingegnere romano, sarebbe stato il ministro degli Interni di allora, Angelino Alfano. Questi “era stato inconsapevolmente indotto da atti falsi a riferire il falso” quando venne chiamato a rispondere davanti al Senato il 3 novembre 2009 su delle informative rinvenutegli dall’Arma. L'attività di depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi ebbe inizio il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell'agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che, al momento dell’arresto, stava bene e che non aveva segni sul volto, come invece vide il padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “Nei primi giorni successivi alla morte di Stefano, l'Arma non si mosse. - ha detto Musarò in aula- Dal 26-27 ottobre ci furono tutta una serie di annotazioni, tra cui anche quelle false. Il 26 ottobre, alle 15.38 del 26 ottobre 2009, Gonnella e Manconi fanno una dichiarazione pubblica sulla morte di Cucchi. Poi arriva un lancio Ansa in cui si indica un preciso lasso temporale che era chiaro. Questa agenzia scatena un putiferio”. Ed è da questa agenzia che si sarebbe mosso il meccanismo di depistaggio dei Carabinieri dal quale, grazie alle attività di indagine, sarebbero emerse due circostanze. La prima: “Alle 16.46 il comando legione chiede urgentissime spiegazioni. Che servivano per redigere un appunto per il ministro Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo. Ma soprattutto è stata utilizzata per un'informativa che il ministro fece al Senato il 3 novembre. L'appunto viene redatto sugli atti falsi redatti dal comando generale. E quindi cosa avviene? Che il ministro Alfano dichiara il falso davanti in aula: Stefano Cucchi è stato collaborativo, si omette ogni passaggio dalla compagnia Casilina e Cucchi già al momento dell'arresto era in condizioni fisiche debilitate. Tre cose non vere. Implicita ma chiarissima accusa agli agenti. Il primo ad accusarli, paradossalmente, fu il loro ministro. E, ancora più paradossalmente, il fascicolo è iscritto contro ignoti”. Mentre il secondo scenario riguarda le conclusioni mediche eseguite prima della perizia: “Fin dall'inizio da parte dei Carabinieri ci fu particolare attenzione all'aspetto medico legale. In estrema sintesi, due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all'Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Si asseriva inoltre che non c'era nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò - ha affermato il magistrato - era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati". Il rappresentante della Procura ha aggiunto, inoltre, che sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono "circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d'assise".
L’udienza di ieri ha visto come teste il Generale dei Carabinieri Vittorio Tomasone, al quale dipendevano tutti i militari che ebbero a che fare con il giallo di Stefano Cucchi (inclusi i 5 imputati al processo bis), poichè all’epoca dei fatti era Comandante provinciale di Roma. La testimonianza dell’ex comandante è stata ricca di amnesie dipinte da vari “non ricordo” e "non ho memoria dei fatti" che hanno scaturito la stizza del pm Giovanni Musarò. Secondo Tomasone “quello di Cucchi era stato un arresto normale, come tanti” e alla questione se si fosse mai interessato dell’aspetto medico-legale della morte del geometra il generale ha risposto negativamente. Negazione smentita però dal pm Giovanni Musarò che in aula gli ha mostrato un atto a firma proprio del generale nel quale si anticipavano le conclusioni sull’autopsia del giovane, in particolare in merito a due fratture, di cui neanche la procura capitolina era a conoscenza. “Come facevate ad avere già queste informazioni?” ha chiesto quindi il pm. Alla domanda del pm, Tomasone ha risposto chiamando in causa il suo sottoposto diretto, il colonnello Alessandro Casarsa. Quindi il pm gli ha domandato se sapeva se l’allora comandante del gruppo Roma avesse avuto contatti diretti con il consulente tecnico. Domanda alla quale il generale ha risposto brevemente: “questo non lo so”. Il pm ha riportato allora un’annotazione dalla quale emergeva che il 23 novembre 2009 fu disposta l’autopsia di Stefano, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicò la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando Generale, scriveva dei risultati parziali dell’autopsia che ancora non era stata fatta”, perché “non erano nemmeno stati nominati i periti”. A questo il generale si è difeso asserendo di “non avere memoria sul modo con il quale è stata assunta l’informazione”. Casarsa, ascoltato dai pubblici ministeri lo scorso 28 gennaio, aveva detto a riguardo: “Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni”. In quel documento Casarsa ha affermato, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia “sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse”. Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa ha detto di non essere in grado di affermare da chi ebbe “le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza”. Nella lista degli indagati è stato iscritto anche il colonnello Lorenzo Sabatino insieme a Casarsa, gli ufficiali si sono difesi sostenendo di “non essere a conoscenza” del contenuto delle note, che sarebbero emerse come modificate. “Da persona innocente mi sono trovato in una rete senza uscita ordita nei nostri confronti. Eravamo tre pecore mandate al patibolo”, ha detto l’agente della polizia penitenziaria Nicola Minichini, processato con altri due colleghi e assolti in via definitiva. La corte ha rinviato l’udienza al prossimo 8 marzo.
Cucchi, il ministro Alfano mentì perché ingannato dai carabinieri. Lo ha detto il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri, scrive Valentina Stella il 28 Febbraio 2019 su Il Dubbio. “In questa vicenda si è giocata una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Lo ha detto ieri il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, che vede imputati cinque carabinieri. Seconda l’accusa l’attività di depistaggio sulla morte del giovane geometra sarebbe iniziata il 26 ottobre del 2009 dopo un lancio dell’agenzia Ansa in cui Patrizio Gonnella e Luigi Manconi denunciarono che Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti invece poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. “A partire dal 26 ottobre del 2009 – ha precisato il pm – iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera il 3 novembre”. Di conseguenza “il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi”. Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Inoltre, il ministro Alfano disse, sulla base di quelle informative pervenutegli dalla Difesa seguendo la scala gerarchica dell’Arma, “che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato dai carabinieri. Da qui – ha sottolineato il pm – cominciò una difesa a spada tratta dell’Arma che si tradusse in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo”. A tal proposito è Nicola Minichini, uno dei tre agenti della penitenziaria accusati inizialmente del pestaggio di Cucchi, assolti nei tre gradi di giudizio e poi ora parti offese nel processo- bis in corte d’assise a sfogarsi: “Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Io non riesco ancora a capire come sia stato possibile”. E di questa rete di depistaggio farebbero parte anche le falsificazioni degli esami medico legali: secondo il pm, nelle note dell’Arma, l’anemia e l’epilessia dichiarate dal povero geometra diventarono anoressia. Inoltre “due dati devono essere registrati con inquietudine: tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, negli atti ufficiali interni all’Arma erano già scritte le conclusioni che arriveranno solo sei mesi dopo. I consulenti ancora non sono stati nominati. Inoltre, ci sono una serie di circostanze false. Tra cui quella in cui Stefano Cucchi dice di essere anoressico. Non è vero, non lo ha mai detto. Il comandante provinciale del 2016 dice che Cucchi ha avuto un attacco di epilessia in caserma. Non è vero. Tutto ciò – aggiunge il magistrato era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati”. Tutto in regola invece per il generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante provinciale di Roma dei Carabinieri per cui, come riferito ieri in qualità di testimone, quello di Cucchi “fu un arresto normale”. La sua versione dei fatti è stata caratterizzata da tante ammissione di “non ricordo” e “non ho memoria dei fatti” che hanno suscitato l’irritazione del pm Giovanni Musarò.
Caso Cucchi, il pm: “Alfano disse il falso in Aula ingannato dagli atti fasulli prodotti dai carabinieri”. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm oggi nel processo per la morte del geometra romano. Durante l'udienza ha testimoniato in generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane, scrive Il Fatto Quotidiano il 27 Febbraio 2019. L’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “dichiarò il falso” di fronte al Parlamento sul caso Cucchi, sulla base di una “serie di annotazioni falsificate” da parte dei carabinieri. È quanto emerge dai nuovi documenti depositati dal pm Giovanni Musarò nel processo per la morte di Stefano Cucchi. Durante l’udienza odierna, ha testimoniato il generale Vittorio Tomasone, comandante interregionale a Napoli, che all’epoca dei fatti convocò una riunione con tutti coloro trattarono la vicenda relativa all’arresto del giovane geometra romano, morto all’ospedale Pertini di Roma dove si trovava ricoverato dopo il fermo dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Secondo l’accusa, che indaga anche sul successivo presunto depistaggio portato avanti dai militari dell’Arma, nelle carte ci sono le prove dei “falsi e delle omissioni” dell’allora Comando provinciale dei carabinieri di Roma che hanno tratto in inganno anche l’ex ministro della Giustizia. Il 3 novembre 2009, al Senato, Alfano (sopra la foto di quel giorno, ndr) durante la sua informativa accusò implicitamente gli uomini della polizia penitenziaria, ha detto il pm spiegando come il “depistaggio” sarebbe partito subito dopo un dispaccio d’agenzia del 26 ottobre 2009 in cui il parlamentare Luigi Manconi “denunciava che i genitori del ragazzo lo avevano visto dopo l’arresto senza segni in viso mentre il giorno dopo era tumefatto”. Da quel momento, ha detto Musarò, “da parte dei carabinieri partono una serie di annotazioni falsificate” e Alfano “sulla base di atti falsi”, dichiarò “il falso in Aula, lanciando accuse alla polizia penitenziaria, quando ancora in procura non c’era nulla contro la penitenziaria”. Fino a quel giorno – ha ricordato il pm Musarò – il fascicolo dei pm Barba e Loy sulla morte di Cucchi “era a carico di ignoti e solo dopo le parole di Alfano partirà l’indagine sui poliziotti”. Per quello che il pm ha definito “un gioco del destino”, il 3 novembre 2009, “quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi”. Quella dichiarazione – ha detto il pm – “è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva”. Nel caso Cucchi, ha concluso Musarò, “si è giocata una partita truccata, con carte segnate”. Una partita “giocata sulle è spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema”. Durante il suo interrogatorio, il generale Tomasone ha spiegato, relativamente alla riunione convocata con molti dei carabinieri ora indagati per il depistaggio: “Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto”. Il pm ha fatto emergere anche che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, “ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati ‘parziali’ dell’autopsia che ancora non era stata fatta”. Ma il generale ha risposto: “Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria”.
· Le relazioni manipolate dai carabinieri superiori.
Caso Cucchi a Roma, a processo Casarsa e altri sette carabinieri per depistaggio. Ilaria: "Momento storico". Prima udienza il 12 novembre, si apre così un quarto processo per il decesso del geometra romano. L'allora comandante dei carabinieri della capitale aveva dichiarato di aver avuto informazioni solo dal suo superiore dell'epoca, Vittorio Tomasone. La sorella: "Tutto iniziato grazie a Casamassima". La Repubblica 16 luglio 2019. Sono stati rinviati a processo otto militari dell'Arma, tra cui alti ufficiali, imputati nell'ambito dell'inchiesta sui presunti depistaggi relativi alle cause della morte di Stefano Cucchi. Si apre un quarto processo che vede alla sbarra la catena di comando dei carabinieri che - secondo le accuse - avrebbe prodotto falsi per sviare le indagini. La prima udienza è fissata per il 12 novembre. Tra militari coinvolti, ci sono alti ufficiali come il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale. Gli otto sono indagati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. L'inchiesta coinvolge anche Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Cianni.
I capi di imputazione. Scrive il pm: "Casarsa, rapportandosi con Soligo, sia direttamente sia per il tramite di Cavallo, chiedeva che il contenuto della prima annotazione (redatta da Di Sano secondo cui Cucchi lamentava dolori al costato e che non poteva camminare, ndr) fosse modificato nella parte relativa alle condizioni di salute di Cucchi". Cavallo, dal canto suo, "rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest'ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato". Soligo, secondo Musarò, "veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che 'Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidita' della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi". Gli indagati rispondono di falso anche in merito alla annotazione di servizio, sempre del 26 ottobre del 2009 redatta dal carabiniere scelto Gianluca Colicchio (non indagato), "indotto a sottoscrivere il giorno dopo una nota in cui falsamente attribuiva allo stesso Cucchi 'uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza', omettendo ogni riferimento ai dolori al capo e ai tremori manifestati dall'arrestato". Il tutto "con l'aggravante di volere procurare l'impunità dei carabinieri della stazione appia responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso". Sabatino e Testarmata, che erano stati delegati dalla procura ad acquisire nuove carte nell'ambito dell'indagine bis, ebbero modo di rendersi conto (nel novembre del 2015) della falsita' di queste annotazioni del 2009 ma evitarono di segnalare la cosa all'autorita' giudiziaria, favorendo così gli autori degli stessi falsi. Testarmata poi, una volta scoperto che era stato alterato il registro di fotosegnalamento dell'epoca con il nome di Cucchi "sbianchettato", non solo non acquisi' il documento originale, come gli era stato ripetutamente detto da due colleghi, ma neppure riporto' la circostanza nella relazione di servizio. Tra gli otto militari dell'Arma rinviati a giudizio figura De Cianni che in una nota di pg accuso' Casamassima, pur sapendolo innocente, di aver fatto dichiarazioni gradite alla famiglia Cucchi dietro la promessa di soldi da parte di Ilaria, sorella di Stefano. Casamassima, che per aver collaborato con la magistratura e aver dato un impulso significativo alle nuove indagini ha subito pressioni e ritorsioni, compreso un trasferimento ad altro incarico e relativo demansionamento, gli avrebbe riferito che Cucchi la sera dell'arresto tento' gesti di autolesionismo e che fu solo schiaffeggiato, non certo pestato. Dichiarazioni false che De Cianni ha confermato anche in un interrogatorio fatto alla squadra mobile.
Ilaria Cucchi: "Momento storico grazie a Casamassima". "Possiamo dire che la decisione del gup rappresenta un momento storico e significativo per noi. Tutto è cominciato per merito di Riccardo Casamassima (il carabiniere supertestimone che ha fatto riaprire l'inchiesta, ndr)". E' il primo commento, a caldo, di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al rinvio a giudizio di otto militari dell'Arma per la vicenda legata ai depistaggi. "Dieci anni fa, mentre ci battevamo in processi sbagliati - ha aggiunto Ilaria - non immaginavamo neanche quello che stava avvenendo alle nostre spalle e sulla nostra pelle. Oggi poi abbiamo assistito a uno scaricabarile con il generale Casarsa che ha raccontato che le cause della morte di Stefano gli furono dettate dal generale Tomasone".
Casarsa si difende: "Uniche informazioni mediche dal mio superiore". "Io non ho mai avuto contatti con i magistrati né con i medici legali. Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi le ho ricevute il 30 ottobre 2009, quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti". Si era difeso così, nel corso di una dichiarazione spontanea resa di fronte al Gup, Alessandro Casarsa. Il generale aveva chiamato in causa il suo diretto superiore, il generale Vittorio Tomasone (ex comandante provinciale di Roma e da gennaio 2018 comandante interregionale Ogaden), pur senza mai nominarlo direttamente. Casarsa era il comandante del Gruppo Roma, quando Stefano Cucchi venne arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti, picchiato in caserma e poi deceduto all'ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo.
Tomasone: "Quello di Cucchi fu arresto normale". Fino a oggi Tomasone era entrato nella vicenda Cucchi solo in relazione alla sua deposizione avvenuta il 27 febbraio scorso, nella veste di testimone, nel processo in corso davanti alla corte d'assise dove figurano imputati cinque carabinieri, tre dei quali accusati dal pm Giovanni Musarò di omicidio preterintenzionale. "Per me quello di Cucchi era stato un arresto normale - aveva detto quel giorno in udienza Tomasone -. Fui informato da alcuni giornalisti, il giorno della sua morte, che l'arresto, avvenuto una settimana prima, era stato eseguito dai carabinieri. Quindi chiesi altre informazioni e mi fu detto che, a parte l'attivazione del 118, non c'erano stati problemi, che c'era stata un'udienza di convalida dell'arresto e la consegna di Cucchi alla polizia penitenziaria. Chiesi al comandante del Gruppo e agli altri ufficiali che venisse preparata una relazione di servizio da parte di coloro che avevano avuto un contatto fisico con Cucchi, dal momento del suo arresto fino alla sua consegna alla polizia penitenziaria. Volevo guardare tutti in faccia. E negli ultimi giorni di ottobre chiamai la signora Cucchi per esprimerle la mia vicinanza personale sulla scorta di quello che mi era stato riferito e degli accertamenti che erano stati fatti". Per l'attuale comandante interregionale Ogaden, "tutto portava ad escludere qualsiasi coinvolgimento dei carabinieri in questa storia". Rispondendo al pm, poi, Tomasone aveva escluso con forza di essersi mai interessato delle questioni medico-legali legate alle cause della morte di Cucchi. E a proposito di un atto interno all'Arma del primo novembre 2009, esibito in udienza dal magistrato, proprio a firma del generale, in cui venivano presi per buoni gli esiti (parziali) dell'autopsia, che la procura all'epoca non poteva conoscere anche perchè doveva essere integrato il pool dei suoi consulenti tecnici, il generale Tomasone aveva fornito questa spiegazione: "Confermo di non essermi mai interessato degli accertamenti medico legali così come escludo di aver mai parlato con i consulenti. Posso immaginare di aver raccolto queste informazioni sulla base di quanto giratomi dal comandante del gruppo Roma, ma non so se lui abbia interloquito con i medici".
Cucchi, l'inchiesta si allarga: indagato anche un colonnello. Avviso per favoreggiamento a Sabatino, all’epoca capo del nucleo operativo di Roma, scrive Carlo Bonini il 15 febbraio 2019 su La Repubblica. Prigionieri del vincolo di omertà con cui l’Arma dei carabinieri ha sequestrato per nove anni la verità sull’omicidio di Stefano Cucchi, cadono uno dopo l’altro. E tutti insieme. Ufficiali, sottufficiali, truppa. In una sequenza in cui i “morti” (marescialli e appuntati), abbandonati al loro destino giudiziario, si afferrano ai vivi (capitani, maggiori, colonnelli, generali), trascinandoli a fondo. E tocca ora, dunque, al colonnello Lorenzo Sabatino, ambiziosissimo ufficiale cresciuto all’ombra dell’ex Comandante generale Leonardo Gallitelli e oggi comandante provinciale dei carabinieri a Messina. Il pm Giovanni Musarò lo ha interrogato come indagato mercoledì pomeriggio, contestandogli il reato di favoreggiamento per l’attività di occultamento e manipolazione delle prove condotta nel novembre 2015 dal Reparto Operativo dell’Arma di Roma, di cui era allora comandante, che avrebbe dovuto far deragliare anche l’inchiesta bis dalla Procura sull’omicidio (quella per cui si sta celebrando il processo ai tre carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano). Al colonnello Sabatino, che in quel novembre del 2015 aveva ricevuto l’incarico di raccogliere e trasmettere alla Procura tutti gli atti interni all’Arma su Cucchi, il pm Musarò contesta infatti di non aver segnalato come in questo scartafaccio di carte che trasmise al suo ufficio fossero state “manomesse” due delle evidenze chiave in grado di ricostruire cosa fosse accaduto la notte del 16 ottobre 2009, quella dell’arresto e del pestaggio di Stefano. Si trattava delle relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano, due piantoni di guardia nella caserma di Tor Sapienza, quella dove Stefano trascorse la notte dell’arresto. A entrambi – come l’indagine della Procura ha recentemente documentato – venne imposto dalla catena gerarchica dell’Arma di correggere quanto avevano inizialmente annotato per iscritto nelle loro relazioni in modo tale che scomparisse ogni riferimento alle tracce, già in quella notte dell’ottobre 2009 evidenti, del pestaggio appena subito da Stefano dai carabinieri che lo avevano arrestato. E vennero dunque confezionati due falsi. Due nuove “annotazioni di servizio” che di quelle originali avevano la medesima veste grafica e lunghezza, riportavano la stessa data, ma erano appunto purgate nei contenuti. Ebbene, Sabatino, sulla carta un fine investigatore, almeno se si sta al suo curriculum (Comando del Nucleo Investigativo e del Nucleo operativo dei carabinieri di Roma, Comando di una delle sezioni del Ros, reparto di eccellenza dell’Arma, e quindi il comando a Messina), non notò quella discrepanza. Piuttosto, affastellò originali e falsi di quelle annotazioni in un unico malloppo di carte dove solo l’ostinazione del pm Musarò riuscì a scovarli, a notarne la “diversità”, e dunque a farli “parlare”. Né le omissioni dell’indagine di Sabatino si fermarono qui. A quella che, al momento, è per altro la sola contestazione formale che gli è mossa da Musarò. Per ordine dello stesso colonnello Sabatino, infatti, il capitano Testarmata (all’epoca in forza al Nucleo Investigativo e anche lui indagato per favoreggiamento), tra le carte da consegnare alla Procura, non acquisì in originale il registro “sbianchettato” del fotosegnalamento di Stefano la notte dell’arresto nella caserma Casilina (fu prodotta soltanto una fotocopia da cui il bianchetto non appariva). Né tantomeno raccolse lo scambio di mail con cui erano documentate le pressioni e le indicazioni dell’allora comandante del Gruppo Carabinieri (il colonnello Alessandro Casarsa) perché appunto le relazioni dei due piantoni della caserma di Torsapienza fossero manipolate. Il colonnello Sabatino, per quanto è stato possibile ricostruire, si è difeso durante l’interrogatorio scegliendo di indossare i panni dello sprovveduto. Ha provato infatti a scaricare la responsabilità della mancata segnalazione alla Procura delle “doppie annotazioni” prima sul povero capitano Testarmata, quindi sull’allora comandante del Nucleo Investigativo. A quanto pare senza riscuotere grande successo.
Cucchi, il registro "sbianchettato" che nessuno pensò di guardare in controluce. Processo bis. La testimonianza del maggiore Grimaldi: «L’originale non venne sequestrato, solo fotocopiato», scrive Eleonora Martini su Il Manifesto il 15.02.2019. La conferma che il nome di Stefano Cucchi venne «sbianchettato», e sostituito con un altro, dal registro dei fotosegnalamenti della caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, arriva dal processo bis che si celebra davanti alla I Corte d’Assise, a Roma, diventato ormai uno spaccato sul modus operandi dell’Arma dei carabinieri grazie all’attività investigativa sui tentativi di insabbiamento e depistaggio coordinata dal pm Giovanni Musarò. La riprova è arrivata dal maggiore Pantaleone Grimaldi, che di quella caserma fu comandante dal 2014 al 2016, nell’udienza di ieri, nella quale hanno testimoniato anche alcuni frequentatori della palestra dove Cucchi si allenava «regolarmente, con costanza, passione e grande intensità» malgrado fosse «magro e di bassa statura», e un agente di polizia penitenziaria che vide Stefano in una cella del tribunale, in attesa di comparire davanti al Gip, «con il volto tumefatto ed evidenti segni marrone scuro attorno agli occhi». Grimaldi ha ricordato di essere stato contattato nel novembre 2015 dall’allora Comandante del Nucleo operativo, colonnello Lorenzo Sabatino, che lo avvisava dell’imminente visita del capitano Tiziano Testarmata (ora indagato per favoreggiamento) volta ad acquisire i documenti contenuti nel fascicolo Cucchi, chiuso a chiave in un armadio della caserma. Fu Testarmata ad accorgersi dello sbianchettamento di tutti i campi relativi ad un fotosegnalamento avvenuto nello stesso giorno in cui venne arrestato Cucchi. «Questo modo di correggere un eventuale errore è vietato e comporta un procedimento disciplinare – riferisce Grimaldi – per questo suggerii a Testarmata di sequestrare il registro e acquisirne l’originale, invece delle fotocopie. Ma lui si allontanò per consultarsi con qualcuno e poi non accolse il mio invito». Davanti agli inquirenti che lo interrogarono, Grimaldi aveva riferito di essersi arrabbiato con Testarmata, ma ieri ha rettificato: «Mi fidavo completamente di lui, credevo lo avrebbe fatto in un secondo momento». Ma il pm Musarò, che è riuscito ad acquisire il documento originale senza aver mai ottenuto il nome di chi fece materialmente il fotosegnalamento di Cucchi e neppure dell’uomo arrestato il cui nome (straniero) è sovrapposto a quello di Stefano, lo incalza: «Quando in procura abbiamo visto quel foglio, abbiamo fatto la prima cosa che tutti farebbero: guardare in controluce attraverso lo sbianchettamento. Cosa che non si poteva fare con la fotocopia. Ed è apparso subito, evidente, il nome di Stefano Cucchi. Lei, o il capitano Testarmata, non avete pensato a fare subito questa verifica?». «No», è la risposta del maggiore Grimaldi. Elementare, Watson!
Caso Cucchi, un generale indagato per aver manipolato alcune relazioni. Si tratterebbe di note redatte da alcuni carabinieri sulle condizioni di salute del giovane morto dieci anni fa, scrive Tgcom24 il 6 febbraio 2019. Anche un generale finisce nel mirino degli inquirenti nel caso Cucchi. Alessandro Casarsa, capo dei corazzieri al Quirinale fino a un mese fa, risulta indagato per falso in atto pubblico. Si tratterebbe di manipolazioni di relazioni di servizio sulle condizioni di salute del giovane romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. Secondo il racconto del "Corriere della Sera" Casarsa, interrogato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, ha sostenuto di essere estraneo a qualsiasi manovra per ostacolare le indagini sulla verità, sia durante gli eventi sia dopo. Il generale è stato chiamato a rispondere sulle annotazioni riguardanti le condizioni di salute di Cucchi preparata dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano. Tali relazioni erano state modificate, secondo il racconto del comandante Massimiliano Colombo Labriola, dopo l'intervento del maggiore Luciano Soligo che le aveva giudicate "troppo particolareggiate" e con particolari "medico-legali che non competevano ai carabinieri". La telefonata e le modifiche via mail - A Colicchio e Di Sano, dopo la morte di Cucchi, fu chiesto di raccontare quello che era accaduto la notte dell'arresto. Secondo quanto riferisce Colombo Labriola, già inquisito per questo episodio, il maggiore, al telefono con un superiore che chiamava "signor colonnello", inviò via posta elettronica le annotazioni al tenente colonnello Francesco Cavallo, all'epoca capo dell'ufficio comando del Gruppo Roma, che le rimandò indietro dopo averle modificate con la postilla "meglio così". Non c'erano più i riferimenti a "forti dolori al capo e giramenti di testa", ai tremori e dolori al costato di cui Cucchi si lamentava. Di Sano firmò la relazioni dopo le modifiche, Colicchio no. Davanti ai pm, Cavallo avrebbe dichiarato di non ricordare quelle modifiche, aggiungendo che in ogni caso tutto era stato concordato con il comando del Gruppo Roma, legato a doppio filo con i comandanti di compagnia, senza quindi dover passare da lui. E avrebbe anche detto che del caso, visto il suo clamore, si era occupato anche il suo diretto superiore, Casarsa appunto. Ma il generale nega tutto - In seguito a tali elementi nel registro degli indagati è comparso anche il nome del generale. Da parte sua però l'alto ufficiale, oltre a negare ogni addebito, avrebbe detto di aver invitato tutti i carabinieri che avevano gestito il caso Cucchi a presentare ricostruzioni precise e dettagliate.
Un nuovo indagato per il caso Cucchi: è il generale Casarsa. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale, scrive il 6 febbraio 2019 La Repubblica. C’è un generale tra gli indagati del caso Cucchi. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a qualche settimana fa comandante dei Corazzieri. L’ufficiale nel 2009 era colonnello e comandava il gruppo Roma che sovrintende alle varie compagnie della capitale. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musaró, che coordinano l’inchiesta bis sulla morte del geometra romano per cui sono già a processo 5 carabinieri, accusano l’alto ufficiale di falso. E l’indagine fa un salto di passo, scalando piano piano, la gerarchia dell’Arma romana dell’epoca. La vicenda è quella delle annotazioni di servizio modificate dalle quali vennero fatti sparire una serie di dettagli rispetto alle condizioni di salute di Stefano la notte del suo arresto. Una storia per la quale nei mesi scorsi erano già finiti iscritti i diretti sottoposti di Casarsa, il comandante della compagnia Montesacro e il suo vice. Casarsa nei giorni scorsi è stato interrogato e ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle modifiche delle annotazioni, ma i pm hanno il sospetto che a coordinare l’operazione sia stato lui.
Caso Cucchi, carabiniere in aula: "Nota di servizio cambiata su dettatura di Mandolini". Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo che scrisse i verbali con l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto, scrive l'8 febbraio 2019 La Repubblica. Ancora il tema delle annotazioni di servizio 'sostituite' è stato al centro dell'udienza di oggi del processo che vede cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto nell'ottobre 2009 in ospedale, una settimana dopo il suo arresto per droga. Sul banco dei testimoni è ritornato il maresciallo dei carabinieri Davide Antonio Speranza, firmatario di due annotazioni di servizioche contengono l'indicazione delle condizioni di Stefano Cucchi la notte del suo arresto. Già un problema si ha nell'indicazione del giorno della redazione: la prima annotazione datata 16 ottobre 2009, in realtà fu "redatta dopo la morte di Cucchi, mentre la datai qualche giorno prima perché pensai si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio"; la seconda datata 27 ottobre 2009 "dettata dal maresciallo Mandolini", uno degli imputati di calunnia e falso. Una circostanza, quella dell'annotazione sotto dettatura, già raccontata da Speranza ai pm che lo sentirono come persona informata sui fatti il 18 dicembre scorso. "Quando Mandolini lesse la nota disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla - ha detto Speranza - perché avremmo dovuto redigere una seconda annotazione in sostituzione. Io quella nota non la feci sparire, anche perché già protocollata. Il contenuto fu dettato da Mandolini, alla presenza di Nicolardi (altro imputato di calunnia. Ndr)". Importante il contenuto delle due annotazioni, soprattutto per quel che riguarda le condizioni di Cucchi quella notte. Nella prima annotazione, infatti, si legge che "alle 5.25 la nostra Centrale operativa ci ordinava di andare in ausilio al militare di servizio alla caserma della Stazione di Tor Sapienza in quando il sig. Cucchi era in stato di escandescenza"; nella seconda si legge che "è doveroso rappresentare che durante l'accompagnamento, il prevenuto non lamentava nessun malore, né faceva alcuna rimostranza in merito". Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al Pm Barba (rappresentante dell'accusa nel primo processo) né in Corte d'assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu "perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su". Prima del maresciallo Speranza c'è stata la conclusione dell'esame del dirigente della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, il quale ha continuato a parlare del contenuto di una serie di intercettazioni effettuate per la nuova inchiesta sui depistaggi che ci sarebbero stati - secondo l'impostazione accusatoria - nella compilazione degli atti. Nel corso dell'udienza Carlo Masciocchi, professore ordinario di radiologia dell'Università dell'Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica ha ribadito che sul corpo di Stefano Cucchi "sicuramente c'erano due fratture vertebrali" a livello lombo-sacrale, entrambe "recenti" e "contemporanee". Masciocchi nel 2015 fu autore di una consulenza tecnica per conto dell'avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile, poi confluita agli atti dell'odierno processo, dove appunto rilevava la presenza delle fratture. Tant'è che oggi è stato sentito in aula, dopo essere stato chiamato a chiarimenti dal pm Giovanni Musarò.
Cucchi, «esami sbagliati» e «telefonate sparite». Processo bis. Masciocchi: «Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni», scrive Eleonora Martini l'8 febbraio 2019 su Il Manifesto. Un «unico evento» traumatico recente – «verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte» – e molto importante, «non riconducibile cioè ad una semplice caduta», sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture – della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) – riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo. A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio. Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena. Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli). Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) «su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura». Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio. Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. «Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)», ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. «Che fine abbiano fatto – ha detto Silipo – non lo so».
Morte Cucchi, il generale Nistri: "Verificheremo frasi su spirito di corpo". E il legale della famiglia: "Manomesse le radiografie". Il comandante generale dei carabinieri interviene dopo le nuove intercettazioni depositate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. L'avvocato Anselmo consegna nuovi documenti e i magistrati ascolteranno in merito Carlo Masciocchi, presidente della società italiana di radiologia, scrive Giuseppe Scarpa il 22 gennaio 2019 su "la Repubblica". "Quanto apparso oggi sui giornali dovrà essere valutato compiutamente dall'autorità giudiziaria. Quando lo avrà fatto, verificheremo i significati da dare a frasi come 'spirito di corpo'. Quando il quadro sarà chiaro, faremo quello che dovremo fare". Sempre molto prudente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, in merito al processo per omicidio preterintenzionale e alle indagini per falso che riguardano la morte di Stefano Cucchi e alle novità presentate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. Il generale di corpo d'armata non si sbilancia di fronte alle nuove intercettazioni depositate ieri dalla Procura di Roma. Inoltre Nistri aggiunge: "Non ho mai parlato di mele marce ma di persone che vengono meno al loro dovere. E il venire meno al dovere va accertato". Intanto l'appuntato Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni aveva contribuito a far riaprire le indagini sulla morte di Cucchi, indicando come responsabili del pestaggio dei suoi colleghi, ha deciso di denunciare Nistri per diffamazione. Un argomento su cui il comandante generale preferisce non parlare trincerandosi dietro un secco: "Non ho nulla da dire". Le novità dell'indagine per depistaggio rischiano di far esplodere un nuovo caso nell'Arma in merito alla vicenda Cucchi. "Bisogna avere spirito di corpo, se c'è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare" avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica è tra i due carabinieri in servizio alla caserma Vomero Arenella di Napoli del 6 novembre scorso: sono il maresciallo Ciro Grimaldi e il vice brigadiere Mario Iorio e la trascrizione è contenuta in una nota della Squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo per morte del geometra romano, deceduto il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo l'arresto. L'autore di quella frase, invece, sarebbe - secondo Iorio - il comandante Pascale. Nel 2009 Grimaldi era in forza alla caserma Casilina di Roma, cioè quella in cui venne portato Cucchi per il fotosegnalamento: secondo il racconto del carabiniere Francesco Tedesco, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati (per omicidio preterintenzionale) Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo picchiarono Cucchi. Pochi giorni dopo quell'intercettazione, Grimaldi doveva andare a testimoniare al processo Cucchi bis. Inoltre altre prove sono state depositate anche a carico di Mandolini, che sarebbe stato l'autore di una richiesta a un altro militare: modificare la relazione di servizio relativa alla notte in cui Cucchi fu arrestato. Ma c'è anche un altro versante: oltre alle numerose anomalie già emerse, ci sarebbero state "manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione che era stata fornita in ambito medico legale dopo la Tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi". In sostanza, ci sarebbero state anche irregolarità nelle radiografie del giovane geometra già cadavere. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia. Secondo la documentazione depositata agli atti, sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma della vertebra in questione (la L3) e il tratto di colonna vertebrale esaminato post-mortem non corrisponderebbe quindi a quello che andava radiografato. L'analisi comparata delle immagini radiografiche e delle Tac è stata eseguita attraverso il presidente della società italiana di radiologia, Carlo Masciocchi, che verrà sentito dalla Procura di Roma nei prossimi giorni.
Cucchi, il carabiniere: “Il maresciallo Mandolini mi dettò la nota di servizio dicendo che la mia non andava bene”. C'è anche la storia dei documenti che sarebbero modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento sbianchettato: i militari se ne accorsero già nel 2015. La notte in cui il geometra passò alla caserma Casilina - dove per l'accusa fu pestato - in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 21 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano". Due annotazioni di servizio: in una c’era scritto che “Stefano Cucchi era in stato di escandescenza”. Nell’altra, che “durante l’accompagnamento, non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito”. La prima per il maresciallo Roberto Mandolini “non andava bene”: chiese di scrivere la seconda. Anzi: ne dettò il contenuto al maresciallo Davide Antonio Speranza. C’è anche la storia dei documenti modificati dopo la morte del geometra romano tra gli atti depositati dalla procura al processo bis in corso a Roma. E pure quella del registro del fotosegnalamento cancellato col bianchetto: già nel 2015 i militari si accorsero che qualcosa in quel documento non andava. La notte in cui Cucchi passò alla caserma Casilina – dove per l’accusa è stato pestato – in quel diario era annotato solo il nome di Zoran Misic. Un’anomalia evidente ma nessuno fece nulla. Adesso, però, quei documenti e i verbali dei testimoni sono stati depositati dal pm Giovanni Musarò agli atti del procedimento a cinque carabinieri: sono Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale, e poi Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, che rispondono di calunnia e falso.
La prima annotazione: “Cucchi in escandescenza” – Parallelamente al processo, la procura continua a indagare sui depistaggi che vennero messi in atto per coprire le prove sul pestaggio di Cucchi. La storia della doppia nota di servizio s’inquadra in questo scenario. A raccontarla è il maresciallo Antonio Speranza, che nel 2009 lavorava alla stazione del carabinieri del Quadraro. “Fui contattato telefonicamente dal maresciallo Mandolini, il quale fece riferimento alla morte di Stefano Cucchi (disse: “Hai sentito il telegiornale?”) e mi comunicò che avrei dovuto redigere un’annotazione. Allora io redassi l’annotazione che mi esibite, nella quale scrissi che Cucchi era in stato di escandescenza perché interpretai in tal modo quanto mi aveva riferito Vincenzo Nicolardi, il quale la notte del 16.10.2009 (cioè quando venne arrestato Cucchi ndr) era in contatto con la Centrale Operativa”, ha detto il militare, sentito dal pm il 18 dicembre scorso come persona informata.
La seconda annotazione: “Dettata Mandolini” – Solo che quella ricostruzione dei fatti venne bocciata: “Mandolini – continua Speranza – quando lesse la nota di servizio disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima. Il contenuto di tale annotazione fu dettato da Mandolini e lo scrissi io, alla presenza anche di Nicolardi, quindi stampammo e la firmammo a nostro nome”. Dieci anni dopo la morte di Cucchi il militare ammette l’errore: “Ripensandoci a posteriori all’epoca peccai di ingenuità, perché mi fidai di Mandolini e Nicolardi che erano più anziani e avevano più esperienza di me”. La scritta “Bravi”. “Non so perché. Cucchi era morto” – Tra gli atti depositati dalla procura c’è il verbale dell’intervento alla stazione Appia dei militari per trasferire Cucchi a Tor Sapienza: in fondo, nello spazio riservato alle note dei superiori, compare la scritta a mano Bravi! Il maresciallo Sapienza nella sua deposizione ha commentato: “Non so dirvi per quale ragione, nella parte dell’ordine di servizio dedicata alle annotazioni dei superiori è scritto ‘Bravi‘, considerato che avevamo fatto una mera azione di routine e che nel momento in cui l’ordine di servizio fu redatto Cucchi era già morto”.
Il registro: “Era una prova. Presero solo una copia” – Ma non solo. Perché i pm hanno ricostruito anche come già nel 2015 gli stessi carabinieri si fossero accorti di un’anomalia nel registro del fotosegnalamento della Casilina. Per il carabiniere Tedesco, infatti, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati D’Alessandro e Di Bernardo pestarono Cucchi. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, già tre anni fa la procura aveva inviato il capitano Tiziano Testarmata a prendere quel registro: si tratta di un ufficiale del nucleo investigativo, dunque esperto d’indagini. E infatti si accorge di quelle grossolane discrepanze in quel documento ufficiale. Ad attenderlo c’era il comandante Pantaleone Grimaldi, che all’epoca guidava la caserma. “Mi fece presente che c’era qualcosa che non quadrava nel registro. Mi fece vedere che un nominativo era stato sbianchettato e sopra era stato scritto un altro nome. Visionandolo, mi resi conto immediatamente dell’anomalia, era evidente che era stato cancellato il passaggio di qualcuno dal foto-segnalamento, fu per questo che invitai il capitano Testarmata a portare con sé il registro in originale e, a quel punto, anche tutta la documentazione, perché era palese quel registro dovesse essere analizzato con maggiore attenzione”, ha raccontato ai pm il militare il 21 novembre scorso, spiegando di avere insistito col collega. “Lo invitai ripetutamente a portare con sé l’originale. Fra l’altro, nell’occasione evidenziai al Testarmata, per convincerlo, che non poteva essere casuale il fatto che quella anomalia riguardava proprio il giorno che interessava a loro, cioè il giorno in cui Stefano Cucchi poteva essere stato foto-segnalato”. Si accorse dell’anomalia anche il capitano Carmelo Beringhelli che aiutò i colleghi del nucleo operativo nell’esame dei documenti: “Il capitano Testarmata, oltre ad essere un mio superiore, era certamente più esperto di me. Nonostante ciò, mi permisi di dirgli che quel registro doveva essere sequestrato perché mi sembrava chiaro che poteva essere la prova di quello che stavano cercando, cioè il passaggio di Cucchi dai locali della compagnia Casilina per il fotosegnalamento”.
Il fotosegnalamento rimase nascosto – Testarmata, però, era titubante. “Ascoltando le mie obiezioni, il capitano si mostrò molto perplesso, non sapeva cosa fare e mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì dalla stanza per fare una telefonata. Non so a chi chiese direttive, so che poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale, cosa che a me non fece piacere perché compresi che non stava facendo un accertamento corretto”. Ovviamente dalle copie non si può notare l’anomalia che compare sotto al nome di Zoran Misic: in controluce è evidente il bianchetto usato per coprire un altro nome. Ma perché Grimaldi non fece cenno di quel particolare nella lettera di trasmissione degli atti? “Davo per scontato che Testarmata ne avrebbe comunque dato atto in un’annotazione in cui avrebbe dato conto dell’attività compiuta. Pensandoci ora, a posteriori, mi rendo conto di aver ragionato in modo notarile, ma visto che c’era un capitano del Nucleo Investigativo che era stato delegato a compiere accertamenti anche su quel registro io diedi per scontato che tutte le criticità che erano state rilevate le avrebbe attestate lui in un atto a sua firma”. Così non è stato. Perché nel caso Cucchi c’è sempre qualcuno che agisce con ingenuità, in modo notarile, senza riflettere. E pensandoci bene solo anni e anni dopo. Andò così anche per il fotosegnalamento di Cucchi: è rimasto nascosto per anni. Insieme al suo passaggio nella stanza in cui, con tutta probabilità, venne pestato. Morì sei giorni dopo che un bianchetto eliminò ogni traccia del suo nome.
Stefano Cucchi, il carabiniere al collega testimone: “Ha detto il comandante che dobbiamo aiutare i colleghi in difficoltà”, scrive Il Fatto Quotidiano il 21 Gennaio 2019. “Bisogna avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”. Questo avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica tra i due carabinieri è stata intercettata il 6 novembre scorso e la trascrizione è contenuta in una nota della squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo Cucchi. Nell’intercettazione presente nella nota della Squadra mobile di Roma si fa riferimento a due telefonate intercorse il 6 novembre tra il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Iorio e il maresciallo Ciro Grimaldi, entrambi in servizio presso la stazione Vomero-Arenella di Napoli. Grimaldi, nel 2009 in servizio presso la stazione Casilina, verrà sentito come testimone dal pm il 21 novembre. Nell’intercettazione Iorio riferisce al collega quanto dettogli dal colonnello Pascale: “Mi raccomando dite al Maresciallo che ha fatto servizio alla Stazione – afferma nella intercettazione Iorio riportando al maresciallo Grimaldi le parole del colonnello- lì dove è successo il fatto di Cucchi…di stare calmo e tranquillo…mi stanno rompendo, loro e Cucchi“. E ancora Iorio riferisce al collega le parole del comandante: “Mi raccomando deve avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”.
«Sul caso Cucchi ha fatto il suo dovere e ora la sta pagando». Parla la legale del carabiniere Riccardo Casamassima, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Sono un avvocato penalista. E sono orgoglioso di esserlo. Ho sempre svolto la professione forense senza mai chinare il capo, consapevole che davanti alla legge siamo tutti uguali». L’avvocato romano Serena Gasperini assiste l’appuntato Riccardo Casamassima nella sua personale “battaglia” contro il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. Casamassima è il teste chiave del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma. La sua testimonianza ha fatto riaprire l’inchiesta che, inizialmente, aveva visto sul banco degli imputati i medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che visitarono Cucchi dopo il suo arresto e gli agenti della polizia penitenziaria che lo tennero in custodia nelle celle del Tribunale di Roma il giorno del processo. Lo scorso maggio, a nove anni dai fatti, Casamassima ha raccontato davanti al pm Giovanni Musarò che Cucchi fu oggetto di un violento pestaggio all’interno della stazione carabinieri di Roma Casilina. E ha raccontato anche il successivo tentativo da parte dei colleghi di scaricare la responsabilità di quanto accaduto sugli agenti della polizia penitenziaria. Dopo le dichiarazioni di Casamassima la posizione dei cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e falso si è aggravata, coinvolgendo nell’inchiesta alcuni dei massimi vertici dell’Arma in servizio all’epoca a Roma. Per quest’ultimi l’accusa è di aver coperto i militari che avevano arrestato Cucchi, intralciando le indagini della magistratura. Depistaggi tutt’ora in corso, come emergerebbe da una telefonata intercettata il 6 novembre fra due carabinieri in servizio a Napoli, uno dei quali chiamato il mese successivo a deporre come teste. «Ci vuole spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare», gli avrebbe fatto sapere un suo superiore.
Avvocato, come mai la decisione di Casamassima di denunciare il comandante Nistri? Ricorda Davide contro Golia.
«Lo scorso 17 ottobre 2018, il ministro della difesa Elisabetta Trenta aveva incontrato il generale Nistri, Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo che l’assiste nel processo, al fine di confrontarsi su quanto era emerso fino a quel momento nel dibattimento. Al termine dell’incontro, Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo parlando con i giornalisti hanno riferito di uno “sproloquio” di Nistri nei confronti di Casamassima. Invece di concentrarsi su quanto era accaduto a Stefano Cucchi, il generale avrebbe detto che Casamassima era un delinquente, un bugiardo, uno spacciatore. Inoltre il generale aveva informato i presenti all’incontro che il mio assistito era anche indagato per reato di spaccio di stupefacenti, pur essendo all’epoca la notizia coperta dal segreto».
Crede che il generale Nistri volesse screditare Casamassima agli occhi del ministro Trenta?
«Mi pare evidente che le dichiarazioni di Nistri siano state alquanto scomposte».
Cosa avrebbe dovuto fare il generale?
«Se proprio non voleva chiedere scusa, forse doveva dirsi dispiaciuto per quanto accaduto. Invece è finito nel mirino Casamassima».
Dove presta servizio adesso?
«E’ stato trasferito, dopo venti anni di incarichi operativi, al cancello della Scuola allievi carabinieri di Roma. Apre e chiude la sbarra d’ingresso».
Non sembra un incarico di grande prestigio…
«Oltre ad essere stato demansionato, ogni giorno riceve una comunicazione di avvio di procedimento disciplinare».
Il motivo? Non apre bene il cancello?
«No, è accusato di raccontare su Facebook, senza autorizzazione, il trattamento di cui è oggetto da parte del Comando generale dell’Arma».
Pensa che l’Arma voglia congedarlo?
«Mi auguro di no. Casamassima ha fatto solo il suo dovere, raccontando la verità».
Il processo intanto prosegue. Ad ogni udienza emergono le coperture poste in essere dai vertici dell’epoca.
«La fortuna, se così possiamo dire, è di avere come pm il dottor Musarò. Un giovane magistrato coraggioso che non ha alcuna sudditanza psicologica nei confronti delle divise e che sta svolgendo il proprio ruolo con grande equilibrio».
Cosa crede che succederà?
«Mi auguro che la denuncia venga assegnata ad un magistrato come il dottor Musarò. Ho chiesto che tutti i presenti all’incontro di ottobre al Ministero, quindi anche Elisabetta Trenta, riferiscano su cosa disse Nistri».
· Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, anche qui tre sono carabinieri.
Omicidio Mollicone, la figlia del brigadiere querela per quell'accusa su suo padre. Le Iene il 13 dicembre 2019. Maria Tuzi ha querelato Carmelo Lavorino, il consulente della famiglia Mottola che ha gettato ombre sulla morte di Serena Mollicone. Dopo il terzo servizio di Veronica Ruggeri sull’omicidio ancora irrisolto della ragazza, la figlia chiede rispetto per il padre, morto in circostanze ancora da chiarire. Nuova guerra legale nell’inchiesta sull’omicidio di Serena Mollicone. La figlia del brigadiere Santino Tuzi ha querelato Carmelo Lavorino, il consulente criminologo della famiglia Mottola, accusata di avere responsabilità nella morte della ragazza avvenuta nel 2001. A distanza di 18 anni ancora non c’è il nome dell’assassino che ha ucciso Serena appena maggiorenne. Maria Tuzi ha querelato Lavorino dopo le sue dichiarazioni andate in onda domenica a Le Iene. A Veronica Ruggeri Lavorino ha detto: “È altamente inattendibile quello che Santino Tuzi ha detto". Il criminologo fa riferimento a quanto testimoniato dal brigadiere Tuzi, e cioè che Serena la mattina della sua scomparsa sarebbe passata dalla caserma di Arce, il paese in provincia di Frosinone in cui viveva. È il primo giugno del 2001, il brigadiere vede Serena entrare nella stazione dei carabinieri attorno alle 11.30, lui è in servizio come piantone fino alle 13.30. Agli inquirenti dirà di non averla mai più vista uscire almeno fino alla fine del suo turno. "Si è inventato quella balla per motivi psichici molto gravi”, sostiene Lavorino nel nostro servizio. Il brigadiere Tuzi è l’unico a testimoniare che l’omicidio di Serena sarebbe avvenuto in caserma gettando ombre sul comandante Franco Mottola e su suo figlio Marco, da molti indicato come lo spacciatore del paese. Anche Serena Mollicone sapeva di queste voci e aveva deciso di denunciarlo. Tuzi poche ore dopo la sua testimonianza è stato trovato morto in prossimità della diga di Arce. Il caso è stato chiuso come suicidio, ma sono in tanti a sollevare dubbi. Lavorino, che difende la famiglia del comandante Mottola, spiega l’omicidio di Serena come “tentativo di un’aggressione sessuale non riuscita”. E getta ombre su Tuzi, che in tutta questa vicenda è l’unica persona che non può più parlare: “Non gli è stato fatto l’esame del dna. Gli hanno chiesto se era disposto a fornire le impronte digitali. Lui acconsente ma poco dopo si spara”, sostiene Lavorino. “Ho chiesto la riesumazione di Tuzi per una nuova autopsia”. Per lui il colpevole sarebbe il brigadiere, tanto da ipotizzare così le ultime azioni di Serena: “Lei doveva andare dal dentista, lui le ha dato un passaggio”. Poi l’avrebbe uccisa, sempre secondo l'ipotesi del criminologo, per problemi psichiatrici. Dopo queste parole, la figlia di Tuzi ha deciso di querelare Lavorino: “Non temiamo alcun confronto dattiloscopico, perché non temiamo la verità. Santino ha volontariamente dato campioni di dna e le impronte digitali. Non solo, dopo la morte le sue impronte digitali sono state confrontate con quelle trovate sulla pistola d’ordinanza, quindi l’autorità giudiziaria ne dispone già dal 2008”, spiega Maria Tuzi. Che aggiunge: “Abbiamo chiesto e chiediamo un silenzio rispettoso perché con Guglielmo Mollicone in gravi condizioni, non riusciamo a capire la necessità di discutibili spettacoli mediatici”. Da due settimane il papà di Serena è ricoverato in ospedale dopo un grave malore (clicca qui per l’articolo). “Non accusiamo nessuno. Vogliamo rispetto per Santino [Tuzi, ndr.], per una famiglia che passerà un altro Natale senza la sua presenza”.
Omicidio Mollicone: quella porta nascosta e tutti i misteri della caserma. Le Iene il 9 dicembre 2019. Tra gli indagati per l’omicidio di Serena Mollicone figura Marco Mottola, figlio dell’allora comandante dei carabinieri e amico della ragazza uccisa nel 2001, appena maggiorenne, ad Arce (Frosinone). Veronica Ruggeri lo ha raggiunto per chiedergli dei misteri irrisolti da 18 anni. Mentre la famiglia Mottola indica come possibile assassino il brigadiere Tuzi, trovato morto a poche ore da una sua clamorosa testimonianza in procura: “La ragazza è stata uccisa in caserma”. È indagato per l’omicidio di Serena Mollicone, un mistero irrisolto da 18 anni. Marco Mottola, 37 anni, è sospettato di essere l’assassino della ragazza uccisa nel 2001. Veronica Ruggeri l’ha raggiunto per raccogliere la sua testimonianza. La ragazza è stata uccisa, appena maggiorenne, nel 2001. Dopo 18 anni non c’è ancora il nome dell’assassino. Marco Mottola non ha mai detto una parola su Serena e neanche suo padre, Franco, che ai tempi era il comandante della stazione dei carabinieri ed è indagato anche lui per l’omicidio che sarebbe avvenuto nella caserma di Arce, in provincia di Frosinone. La mattina della scomparsa Serena sarebbe andata alla stazione dei carabinieri per denunciare proprio Marco, indicato da molti come lo spacciatore del paese. “Picchiano Serena, cade e si fa male. Anziché aiutarla continuano a darle botte”, sostiene il papà di Serena (clicca qui per il primo servizio dell’inchiesta di Veronica Ruggeri). Come Guglielmo Mollicone, anche il brigadiere Santino Tuzi ha accusato i Mottola per l’omicidio della figlia. Il brigadiere ai tempi lavorava in quella caserma. Tuzi è stato il primo a dichiarare in procura di aver visto Serena all’interno della stazione dei carabinieri il giorno della sua scomparsa e di non averla vista più uscire. Pochi giorni dopo la sua testimonianza è stato trovato morto vicino alla diga di Arce (clicca qui per il secondo servizio della nostra inchiesta). “Mio padre è stato minacciato per non fargli confermare le dichiarazioni fatte in procura“, sostiene la figlia Maria Tuzi. Oltre a questa testimonianza, ci sarebbe anche una porta che confermerebbe la presenza di Serena in caserma. Sul pannello che la riveste c’è un buco che potrebbe essere stato aperto dalla testa della povera ragazza, come sostengono i consulenti della procura. Solo nel 2016 i Ris entrano nel locale dove sarebbe avvenuto l’omicidio di Serena. Si trova al primo piano della caserma, al terzo abitano i Mottola e proprio loro lo utilizzavano come ripostiglio. I Ris riesumano anche la salma di Serena per una nuova autopsia. “A far perdere conoscenza a Serena è stato un urto su una superficie piana e ampia come una parete, un pavimento oppure una porta”, è il responso di quelle analisi dopo 16 anni. Serena era alta 1.55 metri. Il buco sulla porta è stato misurato a 1.54 metri. “Nei capelli di Serena c’erano frammenti di quella porta”, sostiene il padre. Questo elemento si aggiunge alla testimonianza di Tuzi, il brigadiere che aveva testimoniato di aver visto Serena in caserma. Era stato informato, ha detto ai pm, del suo arrivo da un componente della famiglia Mottola. Il comandante della stazione inizialmente aveva detto di aver dato un pugno alla porta dopo una lite con il figlio Marco. Gli inquirenti hanno stabilito che quella porta è stata nascosta per anni nella casa dell’appuntato Francesco Suprano, anche lui indagato. “Ha spiegato agli inquirenti di averlo fatto per evitare che la spesa della rottura della porta fosse addebitata a lui”, dice Carmelo Lavorino, criminologo che difende la famiglia Mottola. Gli inquirenti oggi sospettano che l’avrebbe nascosta perché distruggerla avrebbe alimentato sospetti sulla caserma. Dopo i nostri primi servizi in redazione è arrivata un’email firmata dal direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl di Frosinone. Ci racconta che dopo l’omicidio, tra i tossicodipendenti del Sert si parlava molto di Serena. “Dicevano che la figlia del maresciallo l’aveva uccisa in caserma perché lei voleva sputtanarlo. Erano a conoscenza del delitto avvenuto per motivi di droga”, ci dice. Sostiene di averlo detto alle forze dell’ordine, ma l’elemento sarebbe stato ignorato. “Ci troviamo davanti a un tentativo di aggressione sessuale non riuscita”, sostiene Lavorino, difensore dei Mottola. E sulla testimonianza del brigadiere Tuzi ha il suo punto di vista: “Ha mentito ed è altamente inattendibile quello che lui ha detto. Si è inventato quella balla per motivi psichici molto gravi”, dice. Sostiene di conoscere anche il nome di quello che lui sospetta essere l’assassino, non ne rivela il nome ma aggiunge: “Non gli è stato fatto l’esame del dna”. I consulenti di Mottola vogliono chiedere una seconda autopsia di Tuzi perché sono convinti sia lui il colpevole. Secondo la loro ricostruzione, Tuzi avrebbe incontrato Serena Mollicone per strada. Le avrebbe dato un passaggio per portarla dal dentista, poi l’avrebbe uccisa. Nella famiglia Mottola c’è una persona totalmente estranea ai fatti: la figlia Anna. A lei si rivolge l’appello di Guglielmo: “Perché non parla? Che dicesse che cosa ha sentito in quei giorni nella sua famiglia”. Anche noi abbiamo incontrato Anna: “Siamo una famiglia stanca, abbiamo bisogno di pace e presto verrà fuori la verità. Chi ha ucciso Serena è ancora libero da qualche parte, ma non è nella mia famiglia”. Il prossimo 15 gennaio 2020 ci sarà l’udienza preliminare per il processo Mottola.
Omicidio Mollicone: Serena è morta in caserma? Il giallo del carabiniere. Le Iene il 2 dicembre 2019. Il brigadiere Santino Tuzi ha testimoniato di aver visto per l’ultima volta in vita Serena Mollicone all’interno della caserma di Arce. Dopo qualche giorno è stato trovato morto. Veronica Ruggeri incontra la figlia e insieme ricostruiscono quelle ore drammatiche. “Mio padre è stato l’unico a dire in procura che ha visto Serena Mollicone entrare in caserma”. Dopo il primo servizio di Veronica Ruggeri sul mistero di Arce (clicca qui per vederlo), a Le Iene parla la figlia di Santino Tuzzi, un brigadiere della caserma in provincia di Frosinone. L’uomo è un testimone chiave nell’inchiesta sull’omicidio della ragazza trovata morta nel 2001 appena maggiorenne e per cui dopo 18 anni ancora non c’è il nome del colpevole.
Tuzzi si era liberato di un segreto che teneva dentro da anni. Serena, secondo il suo racconto, prima di morire era entrata nella caserma di Arce. Era l’8 aprile 2008, con le sue parole aveva gettato un’ombra su tutti i suoi colleghi carabinieri. Aveva confermato i dubbi di Guglielmo, il papà di Serena che proprio in questi giorni è ricoverato in gravi condizioni per un malore improvviso. “Io credo che la morte di Serena sia avvenuta nella caserma di Arce”, ci aveva detto il padre. Santino Tuzzi non è riuscito a chiarire tutti gli aspetti della vicenda perché è stato trovato morto poco dopo la sua testimonianza in procura. Si sarebbe sparato allo stomaco con un colpo alla pancia, in auto vicino alla diga di Arce. Da subito si è parlato di suicidio. “Mi hanno sempre indicato come la figlia del carabiniere che è stato ammazzato”, dice Maria Tuzi. La morte di suo padre e quella di Serena Mollicone anche per la procura sarebbero collegate. Nel registro degli indagati sono stati iscritti: l’ex comandante della stazione Franco Mottola, il maresciallo che potrebbe essere coinvolto nell’omicidio, Francesco Suprano, appuntato scelto molto amico di Tuzi, che secondo gli inquirenti era in caserma quando Serena è morta. E infine Vincenzo Quatrale per lui potrebbe essere chiesto il rinvio a giudizio per aver istigato Tuzi a suicidarsi. “Dopo 7 anni dalla morte di Serena, mio padre fa delle dichiarazioni importanti”, ricorda la figlia. Secondo quanto testimoniato dal brigadiere, Serena sarebbe entrata in caserma attorno alle 11.30. Tuzi rimane in servizio per le 3 ore successive senza mai vederla uscire. Secondo Guglielmo Mollicone, Serena è arrivata in caserma in auto con Marco Mottola, il figlio del comandante. Lei voleva denunciarlo perché era coinvolto nello spaccio di droga nella zona. “Mio padre aveva paura per noi che eravamo piccoli. Si è trovato da solo a dover dire la verità”, spiega la figlia. Tutti i colleghi hanno negato che Serena fosse stata in caserma il giorno della sua morte, tutti tranne lui. La procura fissa un incontro per il 14 aprile 2008, avrebbe dovuto fare un confronto con il maresciallo Mottola. Ma tre giorni prima viene trovato morto. “Nella sua ultima giornata in vita mio padre aveva comprato una nuova scheda telefonica, forse perché temeva di essere intercettato su quella vecchia”, spiega la figlia. Dopo qualche ora viene trovato morto alla diga del paese. Era in auto con le portiere aperte e con sé aveva la pistola d’ordinanza. “Il comandante venne a casa nostra a dirci che si era ucciso perché l’amante non voleva più saperne di lui”, sostiene Maria. Una versione che fa sorgere dubbi per molti. “Nella pistola mancavano due colpi e lui ne aveva usato solo uno. E c’era solo l’impronta del pollice sinistro, quando invece lui usava la mano destra”, racconta la figlia. “Mio padre è stato mandato in quel posto con l’inganno per minacciarlo”. Veronica Ruggeri è andata dalla donna indicata come l’amante. Il brigadiere era stato con questa donna, Rita, per 12 anni. “Non si sarebbe mai suicidato per me”, dice. Rita riceve una serie di regali il giorno della morte del brigadiere. “Qualcuno mi ha lasciato sullo zerbino un mazzo di fiori e delle sigarette, ma non so chi li abbia portati”, racconta. Si confida con la vicina di casa che a noi però dà un’altra versione di quello che sarebbe successo: “Non ho mai visto nulla di tutto ciò. Si è messa d’accordo con qualcuno per farlo uscire fuori. Penso che l’hanno minacciata e l’hanno pagata”. Il racconto di Rita si arricchisce di un dettaglio: “Dopo qualche ora Santino è tornato da me, mi ha chiesto se volevo tornare con lui”. Anche questo particolare viene smentito dalla vicina di casa: “Che bugiarda, Santino non avrebbe mai lasciato la moglie”. Rita sostiene anche di aver ricevuto una chiamata da Santino proprio negli istanti prima della sua morte: “Mi ha chiesto se tornavo con lui. Mi ha detto addio e ho sentito il colpo. Lui si è suicidato”. La vicina dà un altro dettaglio: “Si è comprata la macchina nuova con i soldi che le hanno pagato per stare zitta”. Non ci sono prove che Rita dica il vero o il falso, ma le sue testimonianze hanno fatto perdere molto tempo agli inquirenti. Oggi le indagini sono state riaperte perché la procura pensa che Tuzzi abbia ricevuto pressioni tali da spararsi. Anche il suo amico Marco la pensa così tanto che il giorno della tragedia lo ha urlato ai telegiornali: “I Mottola l’hanno mandato a fare in culo. L’hanno spedito a casa del diavolo, i due assassini. Che poi la sera del funerale, il telefonino a casa di Mollicone lo aveva portato Mottola, il maresciallo”. Sul luogo del ritrovamento del cadavere di Serena mancava infatti all’appello proprio il suo cellulare. Dopo quelle dichiarazioni, l’amico di Tuzi non ha più parlato né ha testimoniato in procura. Siamo andati da lui per cercare di farlo parlare dopo anni. “Il compare non ha mai portato la pistola fuori dalla caserma. Guarda caso il giorno della sua morte non stava in servizio, è passato in caserma a prenderla”, sostiene Marco. “Dentro mancano due colpi. L’altro dove sta? Se esce il nome di Mottola, cadono minimo un paio di colonnelli e un generale. Quando ci sono i pezzi grossi sotto non si risolve mai, ecco perché non lo mettono dentro”. Secondo lui ad Arce c’è un’altra persona che sa tutto ma non parla: Francesco Suprano, appuntato scelto della caserma: “Secondo me Santino si è confidato troppo con lui”.
Omicidio Serena Mollicone, il papà ricoverato in ospedale: è grave. Le Iene il 27 novembre 2019. Guglielmo Mollicone è in gravi condizioni all’ospedale di Frosinone. Lotta tra la vita e la morte il papà di Serena, la ragazza uccisa 18 anni fa ad Arce. Un mistero rimasto ancora irrisolto come ci ha raccontato Veronica Ruggeri. È ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Spaziani di Frosinone. Il papà di Serena Mollicone lotta tra la vita e la morte. Abbiamo conosciuto Guglielmo nel servizio di Veronica Ruggeri, che vi riproponiamo qui sopra. Questa mattina è stato colto da infarto mentre era nella sua abitazione ad Arce in provincia di Frosinone. Noi de Le Iene siamo vicini a Guglielmo in questa sua battaglia e in quella sulla ricerca della verità per la morte della figlia. Ancora dopo 18 anni, il “delitto di Arce” non ha un responsabile. Nel servizio qui sopra, Veronica Ruggeri ricostruisce questa tragedia partendo dalle ombre che ancora avvolgono questo mistero. A raccontarci chi era Serena e che cosa è successo il giorno della sua scomparsa è proprio Guglielmo che ci ha aperto le porte della sua casa, dove stamattina si è sentito male. Il mistero di Arce inizia il primo giugno del 2001, quando Serena scompare. Tutti si preoccupano perché non era una ragazza solita fare tardi la sera. Non beveva, non fumava. E di certo, tutti escludevano che fosse scappata. La cercano dappertutto e dopo due giorni il paese si risveglia con la peggiore delle notizie. Serena viene trovata morta in un boschetto con le mani e i polsi legati e un sacchetto sopra la testa. In quel periodo frequentava il figlio dell’allora comandante della caserma dei carabinieri, Marco Mottola. In paese tutti sostenevano che fosse legato allo spaccio di droga. Una situazione a cui Serena voleva mettere fine. “Gli ha detto che l’avrebbe denunciato”, sostiene papà Guglielmo. Dopo giorni di ricerche la ragazza appena 18enne viene trovata morta a 600 metri dal bar dove sembra sia stata vista. La scena è orribile, la ragazza è abbandonata senza vita in mezzo ai rifiuti. Ha mani e piedi legati e un sacchetto sulla testa. Dall’autopsia emerge che ha subìto un forte colpo alla testa. Nei primi momenti le indagini per risalire all’assassino si concentrano su Guglielmo. Dopo un calvario di mesi in cui lui era l’unico sospettato della morte della figlia, viene scagionato. Inizia a credere che quella mattina, dopo la lastra in ospedale Serena abbia incontrato il figlio del maresciallo come sostenuto in un primo momento da alcuni testimoni. Ma questa tesi non trova conferma nelle indagini che per un anno e mezzo brancolano nel buio. Nel 2003 arriva la svolta improvvisa: il primo presunto colpevole è Carmine Belli, il carrozziere del paese. In quegli anni era un personaggio chiacchierato. C’era chi diceva che pagasse le ragazze per fare sesso. “Non ho mai creduto che fosse l’assassino. Belli non ha né la forza né la capacità di depistare le indagini”, dice Guglielmo. Inizia il processo a carico del carrozziere, il comandante viene sentito, le sue risposte però sono ritenute “frammentarie e lacunose”, come emerge dalle carte. Dopo un anno e mezzo, Belli viene scarcerato perché non ritenuto responsabile dell’omicidio. Il giorno in cui viene scarcerato davanti a casa sua lo aspetta Santino Tuzi, un brigadiere della caserma di Arce che si è scusato con il carrozziere. Il significato di quel gesto si capirà 4 anni dopo. Il 9 aprile 2008 il brigadiere Tuzi dichiara che il giorno della scomparsa Serena era andata in caserma e da lì non è più uscita. Tre giorni dopo viene trovato morto nella sua macchina. Tutti hanno detto che si trattava di suicidio. Dopo anni di battaglie per la ricerca della verità, Guglielmo ha ottenuto di riaprire il processo. Il prossimo 15 gennaio è fissata l’udienza preliminare: l’ex comandante Franco Mottola assieme al figlio Marco e alla moglie Annamaria sono accusati di omicidio aggravato e occultamento di cadavere, l’appuntato scelto Francesco Suprano di favoreggiamento personale in omicidio volontario, e il luogotenente Vincenzo Quatrale di concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio di un collega brigadiere. Un momento che Guglielmo ha atteso da 18 anni, ora però la sua lotta non è più solo per la verità ma anche per la vita. Tutti noi de Le Iene gli mandiamo un grande abbraccio.
Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2019. Dopo 18 anni di dolore, inganni, aspettative deluse e amarezza, nelle ultime settimane aveva finalmente affiancato alla determinazione, che non gli è mai mancata nella ricerca della verità sull' omicidio di sua figlia Serena, un filo di ottimismo e speranza. La stessa a cui ora si aggrappano le persone a lui care e i tanti che ne hanno seguito la battaglia giudiziaria. Apprezzandone il coraggio, la dignità e l' amore che hanno mosso i suoi passi quando tutto sembrava perduto. Dalla scorsa notte Guglielmo Mollicone, 71 anni compiuti quattro giorni fa, è ricoverato in terapia intensiva all' ospedale Spaziani di Frosinone. Un infarto lo ha colpito nella sua abitazione di Arce, proprio ora che l' inizio del processo ai presunti assassini (l' udienza preliminare di metà novembre è slittata a gennaio) sembra avvicinare il momento tanto atteso: «Questa volta ci siamo davvero», diceva con lo sguardo fiero e commosso non più di tre settimane fa. Il quadro clinico è di estrema gravità. Operato d' urgenza per una angioplastica, Mollicone è intubato e privo di coscienza. Con un gesto di grande valore simbolico e umano, già in mattinata, appena avuta la notizia, sono andati a fargli visita il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Fabio Cagnazzo, e il procuratore capo di Cassino Luciano d' Emmanuele che si sono detti «profondamente addolorati». Sono loro che assieme al comandante della stazione di Arce, Gaetano Evangelista, hanno riaperto l' inchiesta sul delitto fino a portare all' imputazione del predecessore di Evangelista, Franco Mottola, di sua moglie Anna, del figlio Marco e di altri due carabinieri lì in servizio nel 2001. Proprio in caserma la 18enne sarebbe stata aggredita e tramortita e poi lasciata morire soffocata in un campo che ora porta il suo nome: Fonte Serena. Vedovo prima ancora di perdere Serena, l' altra figlia Consuelo da anni trasferita a Trieste, Guglielmo, oggi con la nuova compagna Miriam, ha trascorso ogni giorno da quello del delitto a inseguire la verità. Finendo addirittura tra i sospettati quando fu portato in caserma mentre si svolgeva il funerale; respingendo allusioni e menzogne sulla vita della figlia; maturando con crescente chiarezza la percezione di quanto avvenuto, prima ancora che perizie e indagini sostenessero la sua tesi: «Serena mi aveva detto di voler denunciare il figlio di Mottola per una storia di droga. Nella sua ingenuità e coraggio andò in caserma e finì in pasto ai leoni». Nella sua cartolibreria in piazza nel paesino della Ciociaria sua figlia è ovunque. La foto sulla porta d' ingresso come un manifesto politico, il nome ricamato all' uncinetto in una cornice, il volto che spunta nei libri a lei dedicati. Quando due anni fa il corpo fu riesumato per nuovi accertamenti, Guglielmo avvertiva una privazione quasi fisica: «Mi manca non poterle portare i fiori al cimitero». Ma un successo alla fine l' ha già ottenuto: l' Arma sarà parte civile nel processo come gli aveva anticipato il comandante generale Giovanni Nistri in un incontro privato avvenuto prima dell' estate per chiedergli scusa. «Sarò in aula con il piglio combattivo di sempre per avere giustizia e far sapere a tutti chi era Serena. Ora so di non essere più solo», ripeteva soddisfatto Guglielmo.
Serena Mollicone uccisa a 18 anni: chi c'è dietro il delitto di Arce? Le Iene il 23 novembre 2019. Una ragazza trovata morta appena 18enne con un sacchetto sopra la testa e le mani. Un padre che da 18 anni sostiene che l’assassino sia nella caserma dei carabinieri di Arce, in provincia di Frosinone. Chi ha ucciso Serena Mollicone? Da qui inizia l’inchiesta di Veronica Ruggeri. Domenica dalle 21.15 su Italia1. È soprannominato come il “delitto di Arce”. Il paese in provincia di Frosinone dove 18 anni fa è stata uccisa Serena Mollicone, appena 18enne. Dopo tutto questo tempo ancora l’assassino non ha un nome. Veronica Ruggeri ricostruisce questa tragedia partendo dalle ombre che ancora avvolgono questo mistero. Qui sopra vi proponiamo un’anticipazione del servizio che andrà in onda domenica a Le Iene, dalle 21.15 su Italia1. L’omicidio è avvenuto ad Arce, un paese di pochi abitanti in cui c’è solo la chiesa, il bar in piazza e la caserma dei carabinieri. Un paese in cui non succede mai niente. È il primo giugno del 2001 quando Serena scompare. Era la figlia del maestro delle elementari che aveva anche una cartoleria in centro. Tutti si preoccupano perché non era una ragazza solita fare tardi la sera. Non beveva, non fumava. E di certo, tutti escludevano che fosse scappata di casa. La cercano dappertutto e dopo due giorni il paese si risveglia con la peggiore delle notizie. Serena viene trovata morta in un boschetto con le mani e i polsi legati e un sacchetto sopra la testa. Nessuno poteva immaginare che a ucciderla potrebbero essere stati quelli che dovevano proteggerla, cioè i carabinieri della caserma di Arce. “Noi andiamo lì per essere difesi non per essere ammazzati”, dice Guglielmo, il padre di Serena. Da 18 anni sostiene che la figlia sia stata uccisa nella stanza di quella caserma, ma nessuno l’ha mai ascoltato.
Omicidio Serena Mollicone:
innocenti in galera e ombra di depistaggi.
Le Iene il 25 novembre 2019. Chi ha ucciso Serena Mollicone? Da questa domanda
inizia l’inchiesta di Veronica Ruggeri e dal racconto del papà che dopo 18 anni
teme ci siano stati depistaggi dietro le indagini ed è convinto che la figlia
sia stata uccisa nella caserma dei carabinieri. È soprannominato come
il “delitto di Arce”, dal paese in provincia di Frosinone dove 18 anni fa è
stata uccisa Serena Mollicone, appena 18enne. Dopo tutto questo tempo
l’assassino non ha ancora un nome. Veronica Ruggeri ricostruisce questa tragedia
partendo dalle ombre che ancora avvolgono questo mistero. L’omicidio è avvenuto
ad Arce, un paese di pochi abitanti in cui c’è solo la chiesa, il bar in piazza
e la caserma dei carabinieri. È il primo giugno del 2001 quando Serena scompare.
Era la figlia del maestro delle elementari che aveva anche una cartoleria in
centro. Tutti si preoccupano perché non era una ragazza solita fare tardi la
sera. Non beveva, non fumava. E di certo, tutti escludevano che fosse scappata
di casa. La cercano dappertutto e dopo due giorni il paese si risveglia con la
peggiore delle notizie. Serena viene trovata morta in un boschetto con le mani e
i polsi legati e un sacchetto sopra la testa. Nessuno poteva immaginare che a
ucciderla potrebbero essere stati quelli che dovevano proteggerla, cioè i
carabinieri della caserma di Arce. “Noi andiamo lì per essere difesi non per
essere ammazzati” dice Guglielmo, il padre di Serena. Da 18 anni sostiene che la
figlia sia stata uccisa nella stanza di quella caserma, ma nessuno l’ha mai
ascoltato. Finché i carabinieri in servizio quella notte finiscono indagati. Tra
loro c’è Franco Mottola che ai tempi era maresciallo, che sarebbe stato coperto
da Francesco Suprano, così come il collega Vincenzo Quatrale. Serena a 6 anni ha
perso la mamma per una malattia. Accanto a lei c’erano il papà e tanti amici,
“che purtroppo facevano uso di droga, ne ho visti morire 6 o 7 di overdose”,
dice Guglielmo. Gli spacciatori si rifornivano nel paese vicino, Mondragone:
“L’eroina faceva vittime ma nessuno controllava. La colpa era della caserma che
non funzionava”. In quegli anni era diretta dal maresciallo Franco Mottola: “In
quel periodo non ha mai controllato ad Arce per coprire il figlio Marco che
spacciava droga”. Lo sapeva anche Serena molto amica del ragazzo tanto che gli
diceva di smetterla altrimenti lo avrebbe denunciato. “In sua difesa è
intervenuto il maresciallo dicendole di lasciar perdere il figlio”, sostiene
Guglielmo. L’ultimo giorno di Serena era iniziato con una visita in ospedale per
la lastra ai denti, poi doveva stampare la tesina per l’esame di maturità e
infine andare dal dentista. Alle 8 di sera però non si presenta a casa. E il
papà inizia ad aver paura. “Alle 10 sono andato subito in caserma e stranamente
c’era all’ingresso il maresciallo in borghese”. Guglielmo presenta denuncia per
la scomparsa e una volta uscito inizia a cercarla ovunque. Ma c’è un’altra
stranezza: “Rientrando a casa mi trovo il maresciallo che mi chiede degli
oggetti di Serena diceva che gli servivano per le ricerche. Mi sono fidato e gli
ho dato il diario e altre cose”. In quelle ore si aggiunge la testimonianza di
una barista. Sostiene di aver visto Serena quella mattina in compagnia del
figlio del maresciallo, Marco Mottola avevano comprato un pacchetto di sigarette
e viaggiavano sulla sua Ypsilon 10 bianca. Poche ore dopo però “ritratta tutto e
dice di averla vista da sola e nel pomeriggio”, sostiene Guglielmo. Alla
testimonianza della barista si aggiunge quella di Carmine Belli, il carrozziere
della zona. “Ha detto di averla vista la mattina”, ma anche lui ritratta. Serena
viene trovata a 600 metri dal bar dove sembra sia stata vista. La scena è
orribile, la ragazza è abbandonata senza vita in mezzo ai rifiuti. Ha mani e
piedi legati e un sacchetto sulla testa. Nonostante la pioggia incessante delle
ore precedenti, il suo corpo è asciutto. Dall’autopsia emerge che ha subìto un
forte colpo alla testa. Nelle ore della veglia funebre succede un’altra
anomalia. “Il maresciallo mi ha chiesto di verificare se a casa ci fosse il
cellulare di Serena”, racconta Guglielmo. “Io ero in chiesa, così ho mandato mio
cognato”. L’uomo sostiene di aver guardato dappertutto, senza trovare nulla.
“Qualche ora dopo, quando sono rientrato l’ho trovato subito in uno dei suoi
cassetti che era stato controllato poco prima. Qualcuno lo deve aver messo
durante la mia assenza”. Un altro fatto strano succede durante il funerale di
Serena: “Mottola si presenta e mi porta in caserma per firmare il ritrovamento
del cellulare. Chiedo di poter tornare in chiesa, ma mi dicono di aspettare.
Stavano architettando un depistaggio perché tutta Arce ha assistito al mio
allontanamento”. Dopo un calvario di mesi in cui lui era l’unico sospettato
della morte della figlia, Guglielmo viene scagionato. Inizia a credere che
quella mattina, dopo la lastra in ospedale Serena abbia incontrato il figlio del
maresciallo come sostenuto in un primo momento dalla barista. “Di questa vicenda
non voglio più parlare”, dice. E anche in paese si preferisce non commentare.
Guglielmo continua a sostenere che nell’uccisione della figlia c’entri Marco
Mottola che è stato coperto dal papà maresciallo. Ma questa tesi non trova
conferma nelle indagini che per un anno e mezzo brancolano nel buio. Nel 2003
arriva la svolta improvvisa: il primo presunto colpevole è Carmine Belli, il
carrozziere del paese. “Gli trovano un bigliettino del nostro dentista e una
busta simile a quella ritrovata sulla testa di Serena, ma tutti possono averla”,
dice Guglielmo. In quegli anni Belli era un personaggio chiacchierato. C’era chi
diceva che pagasse le ragazze per fare sesso. “Non ho mai creduto che fosse
l’assassino. Belli non ha né la forza né la capacità di depistare le indagini”,
dice papà Guglielmo. Inizia il processo a carico del carrozziere, il comandante
viene sentito, le sue risposte però sono ritenute “frammentarie e lacunose”,
come emerge dalle carte. Dopo un anno e mezzo, Belli viene scarcerato perché non
ritenuto responsabile dell’omicidio. Ora è tornato a fare il carrozziere in
paese. Noi siamo andati da lui e ci racconta di quella giornata del 1 giugno
2001. “Io da stronzo o da buon cittadino sono andato in caserma e al maresciallo
Mottola ho dichiarato di aver visto la ragazza la mattina davanti al bar. Avevo
detto che mi sembrava portasse una maglietta rossa e dei pantaloni neri”,
racconta Belli a Le Iene. Un dettaglio che ha sempre fatto pensare fosse il
colpevole. Altrimenti come faceva a essere così preciso. A telecamere spente
glielo chiediamo. “Andate a domandarlo al maresciallo Mottola”, ci risponde. “Mi
hanno interrogato dalle 2 del pomeriggio alle 6 di mattina e ho pure preso
qualche schiaffone”, sostiene il carrozziere. “Gli serviva il più stronzo per
l’opinione pubblica. E così hanno preso me che non so parlare, non ho soldi per
difendermi”.
Il giorno in cui viene scarcerato davanti a casa sua lo aspetta Santino Tuzi, un
brigadiere della caserma di Arce. “Si avvicina mi chiede scusa e mi dà una pacca
sulla spalla, poi risale in auto”, racconta Belli. Il significato di quel gesto
si capirà 4 anni dopo. Il 9 aprile 2008 il brigadiere Tuzi dichiara che il
giorno della scomparsa Serena era andata in caserma e da lì non è più uscita.
Tre giorni dopo viene trovato morto nella sua macchina. Tutti hanno detto che si
trattava di suicidio.
Serena Mollicone, il papà: «Tanti depistaggi, ora verso la verità». Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Guglielmo Mollicone parla dopo che l’Arma dei carabinieri ha deciso di costituirsi parte civile nel processo per la morte della figlia nel 2001. Nella cartolibreria di Guglielmo Mollicone, in piazza ad Arce, sua figlia Serena è una presenza viva più che un ricordo. La sua foto appare sulla porta d’ingresso quasi come un manifesto politico di questi anni di battaglia, il suo nome è ricamato all’uncinetto in una cornice di legno, il suo volto spunta tra astucci e diari nei libri a lei dedicati, nelle immagini che la ritraggono giovane e fiduciosa nei suoi 18 anni che non ha fatto in tempo a finire di vivere. Sotto una pioggia torrenziale il signor Guglielmo rientra da un incontro con il suo avvocato, a Cassino, per uno degli appuntamenti che hanno scandito gli altri diciott’anni passati dall’omicidio di sua figlia. Per il cui delitto l’Arma dei carabinieri si schiera ora al suo fianco, costituendosi parte civile nel processo che comincia la prossima settimana e vede imputati l’allora comandante della stazione del paesino del frusinate, Franco Mottola, sua moglie, suo figlio e altri due militari che erano alle sue dipendenze. Una rivoluzione copernicana, se pensiamo al punto di partenza: «Un mese fa circa ho incontrato di persona, su sua richiesta, il comandante generale Giovanni Nistri, che mi aveva anticipato questa scelta. Stava cambiando il governo e non la rendemmo pubblica. E apprezzo anche che non l’abbia voluta pubblicizzare. Mi ha chiesto scusa a nome dell’Arma e mi ha dato un’impressione di grande serietà. Mi sono sentito rincuorato, ho sempre pensato che poche mele marce non possono sporcare la divisa di tutti i carabinieri» .
Che cosa significa avere i vertici dei carabinieri schierati dalla sua parte?
«Che questa volta ci siamo davvero, che la verità è vicina».
Nell’omicidio di sua figlia lei è stato prima vittima per la perdita subita, poi indagato su prove rivelatesi false, infine inascoltato testimone quando denunciò la scomparsa di Serena nella caserma a poca distanza da casa vostra. Che cosa è cambiato da allora?
«È cambiata la volontà di indagare davvero e sono cambiati gli uomini incaricati di farlo. Il procuratore di Cassino e il maresciallo Gaetano Evangelista che ha preso il posto di Mottola e ha avviato indagini in prima persona, rischiato personalmente e la carriera perché toccare il caso di Serena Mollicone era come accendere una polveriera. E poi il comandante provinciale Cagnazzo, il maggiore Imbratta a Pontecorvo: ho avuto la fortuna di trovare tutte queste persone insieme che hanno sgomberato il campo da falsità e depistaggi portando a galla la verità».
Perché non fu ascoltato quando sollevò i sospetti messi oggi nero su bianco nella richiesta di processo?
«Perché ad Arce c’era un unico centro di potere fra carabinieri, amministrazione locale, chiesa. Pensi che il parroco di allora sosteneva l’idea dei riti satanici a cui avrebbe preso parte mia figlia. Mi rivolsi al capitano Luciano Soligo della caserma di Pontecorvo, gli raccontai come era andata secondo me: era una premonizione, perché non avevo tutte le prove raccolte negli anni, ma anche una traccia perché Serena mi aveva anticipato che sarebbe andata a denunciare per spaccio il figlio di Mottola (il movente del delitto, secondo l’accusa, ndr) ma non venni ascoltato».
Soligo, qui non coinvolto in nessun modo, è un altro punto di contatto con la vicenda Cucchi, dove è indagato per depistaggio. Il paragone tra sua figlia e Stefano è fondato?
«Ci sono punti in comune, ma Cucchi era stato fermato e forse sarebbe stato processato, mia figlia si presentò in caserma da persona libera, mossa dalla freschezza dei suoi 18 anni, dal coraggio e dagli ideali convinta di poter denunciare un fatto grave come lo spaccio che stava uccidendo i giovani del paese. Per aiutare gli altri si dimenticava di sé stessa ed è finita in pasto ai leoni».
Come affronterà il processo che sta per cominciare?
«Con il piglio combattivo di sempre per avere giustizia e far sapere a tutti chi era davvero Serena. Mi aspetto che altre atrocità verranno rilevate sul pestaggio che ha subito e su come è stata lasciata morire. Ma sono preparato e ora so che non sono solo».
Serena Mollicone, minacce di morte agli investigatori. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it. Una scritta a caratteri cubitali su uno dei cavalcavia che sovrasta l’autostrada Roma-Napoli tra i caselli di Cassino e Pontecorvo. Una frase inquietante, «Morte presto per...», seguita dal cognome di uno degli investigatori di punta che hanno risolto l’omicidio della diciottenne di Arce, Serena Mollicone, assassinata nella caserma dei carabinieri del paese nel giugno del 2001. A segnalarlo sono stati i tanti automobilisti che si sono trovati a transitare lungo le corsie dell’A1 nel ponte di Ognisanti. La scritta è stato immediatamente rimossa mentre sull’episodio sta indagando la Procura di Cassino. La frase, che arriva a meno di dieci giorni dall’udienza preliminare a carico dei 5 presunti assassini di Serena, suona come una minaccia: mercoledì 13 novembre in tribunale a Cassino, il gip Salvatore Scalera dovrà decidere se rinviare a giudizio per omicidio volontario ed occultamento di cadavere l’ex comandante della stazione dei Carabinieri, Franco Mottola, la moglie Anna Maria ed il figlio Marco. Rischiano il processo per favoreggiamento anche due carabinieri in servizio all’epoca presso la stazione di Arce. E resta aperto anche il caso del sospetto suicidio del carabiniere Santino Tuzi, che aveva testimoniato di avere visto entrare Serena in caserma il giorno della morte, ma senza vederla più uscire.
Processo per l’omicidio di Serena Mollicone, la mossa dell’Arma: «Noi parte civile». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Fiano. Come per il caso Cucchi. Carabinieri sotto accusa dopo 18 anni, il 13 novembre l’udienza preliminare. L’Arma dei carabinieri si costituirà parte civile nel processo per l’omicidio di Serena Mollicone. La richiesta in vista dell’udienza preliminare del 13 novembre è stata già depositata e toccherà al gip valutarla insieme all’eventuale rinvio a giudizio dell’allora comandante della caserma di Arce, Franco Mottola, accusato di omicidio in concorso con la moglie Anna e il figlio Marco. Imputati anche altri due militari in servizio all’epoca nel paesino del Frusinate. Un gesto, quello dell’Arma, dal grande valore simbolico che ricalca il solco tracciato nella vicenda di Stefano Cucchi. La notizia accresce l’attesa per l’udienza già caricata di ulteriore tensione dalla scritta comparsa nei giorni scorsi su un cavalcavia della A1, in cui si augurava la morte di uno dei carabinieri del comando provinciale che sotto la guida del colonnello Fabio Cagnazzo e il coordinamento del procuratore capo di Cassino, Luciano D’Emmanuele, hanno riaperto il caso. Un lavoro a ritroso enorme, fondato su perizie scientifiche condotte con sistemi all’avanguardia ma anche su una capillare indagine «vecchio stile»: recuperando registri di scuola (per dimostrare che Marco Mottola non era in classe il giorno del delitto), note di servizio falsificate per dare un alibi a Mottola padre, foto di compleanni passati per esaminare la scena del delitto. Come riassume il pm Beatrice Siravo nella richiesta di processo: «Durante i nuovi accertamenti si è proceduto all’ascolto di 118 testi, molti dei quali ponderatamente scelti tra i 1.137 più volte già sentiti nel corso dei 18 anni di indagine; sono state effettuate rogatorie in Francia, Polonia e Stato del Vaticano. Pertanto si ritiene che le prove scientifiche, insieme con le prove dichiarative, consentano di sostenere con fiducia l’accusa in giudizio». Insieme alla famiglia Mottola, risponde di concorso in omicidio il maresciallo Vincenzo Quatrale, mentre il brigadiere Francesco Suprano è accusato di favoreggiamento. A Quatrale è stata contestata anche l’istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, che per primo collegò il delitto alla caserma. Serena Mollicone scompare l’1 giugno 2001 e viene ritrovata cadavere 36 ore dopo in un bosco. Ha i polsi legati e la testa in una busta di plastica chiusa con il nastro isolante. Le prime piste sono tanto fumose quanto inconcludenti. Un carrozziere che si espone con dichiarazioni improvvide e prive di riscontri viene arrestato e poi prosciolto; la tesina della 18enne su «La Follia» che rimanderebbe all’azione di uno squilibrato; addirittura viene coinvolto suo padre Guglielmo, portato in caserma mentre si svolgono i funerali della figlia con prove che si riveleranno false, vero motore in tutti questi anni della ricerca della verità come Ilaria Cucchi per suo fratello Stefano. Nel 2011, quando le indagini sembrano ormai a un punto morto, cominciano in segreto i nuovi accertamenti. Vengono prelevati in caserma i frammenti di una porta degli alloggi degli ufficiali, compiuti accertamenti sui resti di vernice nel cortile della caserma, isolate 100 tracce vegetali «sub millimetriche» trovate sul cadavere, alle quali i microscopi del Ris restituiscono una «coerenza dei materiali» che è alla base dell’accusa. Il resto del lavoro è affidato al Labanof di Milano che rivela la compatibilità della ferita al capo della 18enne con i segni sulla porta sequestrata. Secondo l’accusa, Serena fu convocata in caserma per dissuaderla dal denunciare il presunto giro di stupefacenti che coinvolgeva Mottola jr e qui aggredita. Tramortita e in fin di vita per una frattura alla tempia, fu trasportata nel campo e lasciata morire. «Le perizie non sono univoche e negli stessi atti del pm ci sono prove a discolpa degli imputati», dice l’avvocato Francesco Candido, che difende Quatrale. Mottola, assistito da Francesco Maria Germani, starebbe invece valutando una conferenza stampa. La battaglia attorno ai 46 faldoni del pm si gioca anche sul nome di chi materialmente avrebbe spinto Serena contro la porta. Ma questo, forse, sarà il processo a stabilirlo.
Delitto Mollicone, svolta dopo 18 anni: ci sono cinque richieste di rinvio a giudizio. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 da Corriere.it. Cinque richieste di rinvio a giudizio per la morte della 18enne Serena Mollicone. La Procura di Cassino hachiuso le indaginie chiesto il processo per l’ex comandante della stazione di Arce, il figlio Marco, la moglie Anna, il luogotenente dei Carabinieri Vincenzo Quatrale e l’appuntato Francesco Suprano. I componenti della famiglia Mottola devono rispondere di omicidio volontario ed occultamento di cadavere. Il sottufficiale Quatrale di convincimento morale esterno in omicidio e dell’istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi. L’appuntato Suprano di favoreggiamento. Per l’omicidio della giovane, Diciotto anni di false piste, sospetti depistaggi e prove sparite. I carabinieri del Comando provinciale di Frosinone e i colleghi del Ris hanno riassunto questo lungo caso giudiziario nell’informativa consegnata al pm Beatrice Siravo e al procuratore Luciano d’Emmanuele. Le conclusioni sono ormai note: la ragazza fu uccisa nella caserma dei carabinieri di Arce in concorso tra l’allora comandante Franco Mottola, la moglie Anna e il figlio Marco. Sono tutti accusati di omicidio volontario.
L’omicidio in caserma. Secondo la ricostruzione, Serena fu convocata in caserma per la sua intenzione di denunciare un giro di stupefacenti che coinvolgeva Mottola jr e qui aggredita verbalmente, picchiata e spinta con violenza col capo contro una porta dell’appartamento dove alloggiava la famiglia del comandante. Tramortita e in fin di vita per una frattura alla tempia, fu prima tenuta nascosta e poi trasportata in un campo, legata, imbavagliata e lasciata morire. Da qui l’altra pesante accusa di occultamento di cadavere, anche se non è stato possibile risalire ad eventuali complicità nel trasporto del corpo. Era l’1 giugno 2001 e Serena, ritrovata 36 ore dopo, aveva 18 anni.
Delitto Arce: "Serena Mollicone fu uccisa nella caserma dei carabinieri". Chiesto il processo per i 5 indagati. Secondo la Procura di Cassino la ragazza, morta nel 2001, avrebbe avuto una discussione con il figlio dell'ex maresciallo e sarebbe morta sbattendo la testa alla porta. Clemente Pistilli il 30 luglio 2019 su La Repubblica. A distanza di diciotto anni dai fatti la verità sull'omicidio di Serena Mollicone, uno dei principali cold case italiani, questa volta potrebbe essere finalmente vicina. La Procura della Repubblica di Cassino, al termine della nuova inchiesta sul l'uccisione della diciottenne di Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, ha chiesto cinque rinvii a giudizio. A rischiare un processo l'allora comandante della stazione dell'Arma, la moglie, il figlio e altri due carabinieri. Gli inquirenti non hanno dubbi: la studentessa sarebbe stata uccisa proprio in caserma, nel luogo dove i cittadini dovrebbero essere protetti e nel quale sono state svolte le prime indagini che non sarebbero state altro che un enorme depistaggio. L'ex comandante della stazione dell'Arma di Arce, Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Annamaria sono accusati di omicidio aggravato e occultamento di cadavere, l'appuntato scelto Francesco Suprano di favoreggiamento personale in omicidio volontario, e il luogotenente Vincenzo Quatrale di concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio di un collega brigadiere. Serena Mollicone scomparve da Arce il primo giugno 2001 e il suo corpo senza vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica, venne trovato due giorni dopo in un boschetto ad Anitrella, una frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Nel 2003, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, un carrozziere di Rocca d'Arce, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. L'omicidio della 18enne sembrava destinato a restare un mistero, ma la Procura di Cassino non ha mollato e le indagini hanno ripreso vigore nel 2008 quando, prima di essere interrogato, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Gli investigatori ipotizzarono a quel punto che il militare si fosse ucciso perché terrorizzato dal dover parlare di quanto realmente accaduto nella caserma dell'Arma di Arce. Alla luce dei nuovi accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, andati avanti per undici anni, il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo si è convinta che la diciottenne il giorno della sua scomparsa si fosse recata proprio presso la caserma dei carabinieri, che abbia avuto una discussione con Marco Mottola e che lì, in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell'allora comandante, la giovane sia stata aggredita. Avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, venne portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Ora le cinque richieste di giudizio e la speranza che finalmente tutta la verità venga fuori.
SERENA MOLLICONE, UN MISTERO SENZA FINE. Fulvio Fiano per il “Corriere della sera” il 30 aprile 2019. «Se quei reperti sono scomparsi, un motivo ci sarà». Sospeso tra la sua infinita attesa di giustizia e il dolore per una vicenda che continua a regalare colpi di scena ancora oggi a 18 anni di distanza, Guglielmo Mollicone vive con la maturata propensione ad aspettarsi il peggio la notizia della impossibilità di compiere una autopsia completa su sua figlia Serena quando tre anni fa ne fu riesumato il corpo. Un dettaglio emerso dai 46 faldoni di atti depositati dalla procura di Cassino a chiusura delle indagini e portatore di nuovo mistero intorno a un delitto già ricco di depistaggi ed errori giudiziari. Ad essere spariti sono le parti più intime della 18enne, che il medico legale aveva asportato per accertare una eventuale violenza sessuale subita dalla studentessa prima di essere uccisa (ipotesi che fu esclusa) e di cui l' anatomopatologa Cristina Cattaneo, incaricata della super perizia alla riapertura delle indagini, non ha potuto disporre. «Purtroppo - scrive la specialista nella sua relazione - gran parte dei genitali e dell' ano è stata prelevata all' autopsia ma mai rinvenuta». A mancare sono anche i referti su alcune lesioni al cranio di Serena che, si legge nella relazione, «non sono stati più ritrovati in seguito ai vari passaggi avvenuti negli anni successivi». Dettagli di non poco conto per ricostruire le circostanze della morte e l' ora esatta del decesso. «Ci manca solo che ci accusino di aver profanato il cadavere», commenta l' avvocato Francesco Maria Germani, difensore dell' ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, accusato del delitto assieme a sua moglie Anna Maria e al figlio Marco. Per l' enorme quantità di atti da esaminare, i tre potrebbero rinunciare all' interrogatorio prima della probabile richiesta di processo. Il doppio indice delle fonti di prova prodotte dal pm Beatrice Siravo è ricco di riferimenti a questi anni di false piste. Una di queste nacque attorno alla tesina di diploma liceale di Serena, intitolata «La Follia» e rinvenuta nei pc della scuola. Serena lavorava alla rappresentazione della pazzia nella letteratura e questo interesse fu usato per sostenere che l' omicidio fu il gesto di uno squilibrato. Ma gli indizi ingannevoli sono disseminati ovunque. Ad esempio il talloncino strappato con l' intestazione del dentista dal quale Serena doveva recarsi il giorno in cui fu uccisa e rinvenuto nell' officina del carrozziere Carmine Belli, indagato e poi scagionato. O ancora il telefono della 18enne ricomparso misteriosamente a casa del padre la notte della veglia funebre per accusare proprio il genitore. E la bustina con dell' hashish che il carabiniere Vincenzo Quatrale (oggi accusato di concorso in omicidio) ritrovò in un cassetto di Serena. La ragazza voleva denunciare Mottola jr di spaccio e per questo sarebbe stata uccisa in caserma. «Dissi a Quatrale di non toccarla per tutelare eventuali impronte e si fece una risata», ricorda ora il papà Guglielmo. Chiamato in causa, il figlio del comandante di stazione provò all' epoca a crearsi un alibi, sostenendo di essere al bar con la sua fidanzata. Tesi smentita dalle nuove accurate indagini dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone, che hanno rinvenuto il registro della classe frequentata dalla ragazza al Ginnasio «Simoncelli» di Sora. L' 1 giugno 2001, mentre Serena veniva uccisa, la sua coetanea risulta presente. Falsificato, invece, è risultato l' ordine di servizio numero 1 del giorno del delitto, in cui Quatrale e Mottola dichiaravano di essere usciti dalla caserma per una missione inesistente. Decisivo per l' accusa è poi il ritrovamento della porta contro cui sarebbe stata sbattuta la testa di Serena fino a tramortirla (poi legata e imbavagliata e lasciata morire per soffocamento in un campo). La porta era parte dell' alloggio dei Mottola e fu sostituita, secondo il pm, con quella del bagno dell' appuntato Francesco Suprano (accusato di favoreggiamento). Verificata la compatibilità con le micro tracce di legno sul capo di Serena, preso atto della inverosimile spiegazione fornita dal carabiniere per quella sostituzione («Temevo un risarcimento danni»), gli inquirenti sono andati oltre. Così, nella perquisizione del maggio 2016 a casa dei Mottola sono state sequestrate le foto di una festa di compleanno della signora Anna Maria, tenuta negli alloggi ad Arce e con la porta ancora al suo posto. Quelle foto hanno permesso il confronto con altri segni che sarebbero compatibili con la scansione del pugno di Marco e Franco Mottola.
Mollicone, giallo sul corpo riesumato «Spariti alcuni organi». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Dal fascicolo giudiziario riguardante l’omicidio di Serena Mollicone, la ragazza trovata morta il 3 giugno 2001 in un bosco ad Arce, in provincia di Frosinone (dopo che era sparita il 1° giugno) potrebbero essere scomparsi alcuni reperti autoptici. Lo rivela il quotidiano il Messaggero che fa riferimento a una superperizia di Cristina Cattaneo, l’anatomopatologa (è la donna che lavora anche a tanti cold case e alla restituzione delle identità dei migranti annegati nel Mediterraneo) chiamata a condurre i rilievi sulla salma di Serena, riesumata nel 2016 a seguito delle nuove indagine. Proprio l’esame della specialista di «cold case» consentì di stabilire una potenziale compatibilità tra il trauma cranico della ragazza con l’ammaccatura della porta di uno degli alloggi della caserma dell’Arma in cui la ragazza si era recata per denunciare un traffico di droga. Dai successivi accertamenti la procura di Cassino ha notificato - tramite l’avviso di fine indagini - all’ex maresciallo dei carabinieri, Franco Mottola, allora comandante della stazione di Arce, e alla moglie Anna Maria e al figlio Marco il reato di omicidio volontario. Ma nella relazione conclusiva — scrive il Messaggero nell’articolo a firma Piefederico Pernarella — la professoressa Cattaneo sottolinea «il mancato svolgimento di esami fondamentali nei primi accertamenti medico-legali e la “sparizione” nel corso delle indagini di alcuni importanti elementi autoptici». Elementi che avrebbero potuto meglio chiarire la dinamica della presunta uccisione. Cattaneo «ha dovuto esaminare anche la possibilità di un contatto o di un rapporto sessuale», nota il Messaggero. Gli esami effettuati alla prima autopsia stabilirono l’assenza di liquido seminale. Questo però non esclude altri scenari da verificare con accertamenti autoptici che però sono stati effettuati solo parzialmente perché «purtroppo gran parte dei genitali e dell’ano — si legge nella relazione — è stata prelevata dall’autopsia ma mai rinvenuta per ulteriori indagini». Mancano dal fascicolo anche «lesioni prelevate sul cranio» di Serena, elementi che avrebbero potuto dare indicazioni sulla natura dell’oggetto con il quale è stata colpita. Perché i reperti siano spariti non si sa. Forse la distruzione può essere stata disposta dagli stessi investigatori che all’epoca ritennero che non potessero essere più utili alle indagini.
“DEVONO ARRESTARLI TUTTI”. Da “Radio Cusano Campus” il 24 aprile 2019. E' giunto al momento della verità il giallo di Arce. Diciotto anni dopo la morte di Serena Mollicone, uccisa nel paese in provincia di Frosinone il primo giugno del 2001, arriva l’avviso di chiusura delle indagini per un delitto ancora senza colpevoli. La Procura della Repubblica di Cassino nei giorni scorsi ha infatti notificato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari ai cinque indagati: tre sono carabinieri. Si tratta del maresciallo Franco Mottola, all'epoca comandante della stazione dell'Arma di Arce e indagato con la moglie Anna e il figlio Marco, del maresciallo Vincenzo Quartale e del brigadiere Francesco Suprano. Alla luce dei nuovi sviluppi, il caso è stato nuovamente approfondito a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus. Al microfono di Fabio Camillacci Guglielmo Mollicone, il papà di Serena, ha detto: “Sono quasi 18 anni che stiamo combattendo e finalmente si vede la luce in fondo al tunnel. E' comunque pazzesco e terribile se penso che mia figlia fu uccisa nella stessa caserma dei carabinieri in cui io la sera andai per denunciarne. E probabilmente il suo povero corpo era ancora lì nella caserma di Arce perchè immagino che solo di notte i responsabili avranno provveduto a spostare il cadavere nel bosco dell'Anitrella per inscenare un delitto opera di un maniaco. Divento pazzo se penso a questa cosa: se penso che magari avrei potuto ancora salvarla quando andai dai carabinieri a fare la denuncia. E divento ancora più pazzo se penso a tutto quello che hanno fatto dopo aver ucciso Serena: cioè provare a incastrare prima me e poi il carrozziere Carmine Belli che fortunatamente al processo venne assolto. Adesso - ha concluso Guglielmo Mollicone - mi auguro che il gip li rinvii a giudizio e li faccia arrestare tutti, visto che Carmine Belli fu arrestato per molto molto meno. Quindi se la legge è veramente uguale per tutti ora devono arrestare i veri responsabili della morte di mia figlia: devono arrestarli, processarli e condannarli. Devono iniziare a pagare perché sono stati fuori di galera anche troppo tempo, quasi 18 anni. Ora devono finalmente pagare per aver ucciso Serena”.
Omicidio di Serena Mollicone: chiusa l’inchiesta. Cinque indagati, tre sono carabinieri. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. Diciotto anni dopo la morte di Serena Mollicone, uccisa ad Arce il primo giugno del 2001, arriva l’avviso di chiusura delle indagini per quel delitto ancora senza colpevoli. La Procura della Repubblica di Cassino, secondo quando riporta «Il Messaggero» ha notificato mercoledì l’avviso di chiusura delle indagini preliminari ai cinque indagati, tre sono carabinieri.
Si tratta dell’allora maresciallo dei carabinieri della stazione di Arce Franco Mottola, della moglie Annamaria e del figlio Marco, che dovranno rispondere di omicidio volontario. Indagato per concorso in omicidio volontario il luogotenente dell’Arma Vincenzo Quatrale, per favoreggiamento in omicidio volontario il carabiniere Francesco Suprano. Secondo la ricostruzione degli inquirenti Serena sarebbe stata colpita all’interno della caserma dei Carabinieri di Arce, dopo con alcuni componenti della famiglia Mottola. Secondo l’informativa dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone e quelli del Ris, a colpire Serena sarebbe stato Marco Mottola, figlio dell’ex comandante della caserma di Arce.
Delitto Mollicone, 18 anni di bugie e coperture nella caserma di Arce. Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Fulvio Fiano su Corriere.it. «Tutti mi dicono che qui è tutto falso... per me quel giorno mi risulta che abbiamo fatto quello, perché quello abbiamo fatto... Santino, tu puoi dire questo qua però rifletti pure che comunque chi stava con te metti in mezzo ai pasticci». Siamo nell’aprile del 2008, Serena Mollicone è morta da sette anni e una settimana prima il brigadiere Santino Tuzi è andato dai magistrati a raccontare di aver visto la 18enne entrare nell’alloggio in uso alla famiglia di Franco Mottola, il suo comandante della stazione di Arce, e di non averla più vista uscire. Una dichiarazione potenzialmente devastante per smascherare le bugie e i depistaggi sopravvissuti fino ad allora. Così, il collega di Tuzi, maresciallo Vincenzo Quatrale, si rende disponibile a far installare sulla sua auto un microfono per offrire ai pm dell’epoca una verifica sulla veridicità di quanto dice il collega in contraddizione alla versione ufficiale fino ad allora circolata. Scopo di quella conversazione, in realtà, è indurre Tuzi a ritrattare per non mettere nei guai lo stesso Quatrale e il comandante Mottola. È una delle rivelazioni contenute nell’avviso di chiusura indagini con cui ieri, a un mese e mezzo dal 18esimo anniversario del presunto delitto, la Procura di Cassino (su indagine dei carabinieri di Frosinone) si appresta a chiedere il processo per i cinque indagati. Mottola è accusato dell’omicidio di Serena assieme alla moglie Anna e al figlio Marco e a Quatrale. In particolare, i due carabinieri sono accusati di non aver impedito «l’evento morte» pur essendo in potere di farlo. Per le stesse ragioni, Quatrale risponde anche dell’omicidio e dell’istigazione al suicidio di Tuzi perché con quel confronto in auto «esercitava — scrive il pm Beatrice Siravo — una pressione diretta a fargli sorgere il proposito di suicidio», che avverrà tre giorni dopo. In un’altra intercettazione Quatrale dirà di aver visto il collega «stonato», ma nondimeno gli ventilò l’ipotesi di finire indagato per l’omicidio, dato che nessuno gli avrebbe creduto. Un altro carabiniere, il brigadiere Francesco Suprano, di piantone quel giorno, è indagato per favoreggiamento. Avrebbe aiutato gli assassini sia affermando il falso quando disse a verbale che nelle ore del delitto era di pattuglia assieme a Mottola, sia accreditando l’ipotesi che Tuzi mentiva sulla presenza di Serena in caserma, sia soprattutto, nascondendo per due anni la porta contro cui la testa della ragazza venne sbattuta fino a farle perdere i sensi e prima di essere legata, imbavagliata e lasciata morire in un campo. «Temevo una causa per risarcimento danni», è la giustificazione offerta quando si scoprì che aveva scambiato la porta degli alloggi della famiglia Mottola con una del suo bagno.
Chi ha ucciso Serena Mollicone? Scrive Clemente Pistilli per La Repubblica il 19 febbraio 2019. Serena Mollicone è stata uccisa dal figlio dell’allora comandante dei carabinieri di Arce. È questa la convinzione dei carabinieri che indagano sulla morte della diciottenne e che hanno esposto in una monumentale informativa consegnata al sostituto procuratore della Repubblica di Cassino, Maria Beatrice Siravo. Dopo aver ricominciato a indagare da zero e aver raccolto tutti gli elementi scientifici utili, gli investigatori sembrano ora avere le idee chiare anche su chi materialmente assassinò diciotto anni fa la studentessa e sul ruolo preciso avuto da tutti i diversi indagati in quello che è da tempo tra i principali cold case italiani. Ora la procura potrebbe essere pronta a tirare le somme della nuova inchiesta e prepararsi a chiedere i rinvii a giudizio. Serena Mollicone scomparve da Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, il 1 giugno 2001 e venne poi trovata priva di vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica, in un boschetto ad Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Due anni dopo, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. L’omicidio della 18enne sembrava destinato a restare un mistero. Ma i dubbi, soprattutto quelli sui depistaggi da parte degli stessi carabinieri di Arce, erano troppi. La Procura di Cassino continuò così a indagare e nel 2008, prima di essere interrogato, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Gli investigatori si convinsero che il militare si fosse ucciso perché terrorizzato dal dover parlare di quanto realmente accaduto il giorno della scomparsa della studentessa. E da allora, ricorrendo anche a sofisticate indagini scientifiche, le nuove indagini non si sono mai fermate. Alla luce degli accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, il sostituto procuratore Siravo si è così convinta che la diciottenne il giorno della sua scomparsa si fosse recata proprio presso la caserma dei carabinieri, per denunciare dei loschi traffici che si svolgevano in paese. A quel punto, portata in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell’allora comandante, la giovane sarebbe però stata aggredita. Avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, sarebbe stata portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Un’inchiesta che vede indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l’ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi il luogotenente Vincenzo Quatrale, e con quella di favoreggiamento l’appuntato Francesco Suprano. Ora i carabinieri, nell’informativa conclusiva appena consegnata al sostituto Siravo, hanno sostenuto che a uccidere Serena Mollicone sarebbe stato il figlio del comandante della stazione di Arce, Marco Mottola, specificando anche il ruolo avuto dagli altri indagati. Un tassello fondamentale, sembra l’ultimo, per chiudere il cerchio sull’inchiesta. Utile anche a chiarire uno dei passaggi sinora rimasti più oscuri, quello del trasporto del corpo esanime della diciottenne dalla caserma al boschetto di Anitrella. E non si esclude che le indagini possano concludersi ufficialmente anche con un numero maggiore di indagati.
Silvia Natella per leggo 1 febbraio 2019. Ossa trovate in Vaticano, ecco a chi appartengono: l'incredibile scoperta. In un primo momento si era pensato che le ossa rinvenute nella Nunziatura Apostolica, in Vaticano, settimane fa potessero appartenere a Emanuela Orlandi o a Mirella Gregori. Un'ipotesi esclusa dalle prime analisi dei genetisti sui resti. Ora arriva la verità: erano di due antichi romani. Il giallo, come sottolineano anche a Chi l'ha Visto?, è stato risolto e gli scienziati di un istituto specializzato di Caserta sono riusciti a ottenere anche due Dna di incredibile valore. Le ossa sono di un periodo compreso tra il 90 e il 230 dopo Cristo. Si tratterebbe di costole, denti, frammenti di cranio, femore e mascella di due antichi romani dell’età imperiale. I resti sono stati rinvenuti durante i lavori di ristrutturazione a villa Giorgina, sede della nunziatura del Vaticano di via Po a Roma. Molto probabilmente quei resti fanno parte di un’antica necropoli nei pressi della via Salaria, importante strada di collegamento tra Roma e lo sbocco al mare Adriatico, tramite il porto di Ascoli. La Procura di Roma, che aveva aperto un’indagine per omicidio contro ignoti, dovrà così archiviare il caso.
Omicidio Serena Mollicone, gli investigatori: "Uccisa dal figlio del comandante dei carabinieri". Consegnata in procura l'informativa dei militari che indagano sulla morte della diciottenne scomparsa nel 2001 in provincia di Frosinone, scrive Clemente Pistilli il 19 febbraio 2019 su La Repubblica. Serena Mollicone è stata uccisa da Marco Mottola, figlio dell’allora comandante dei carabinieri di Arce. È questa la convinzione dei carabinieri che indagano sulla morte della diciottenne e che hanno esposto in una monumentale informativa consegnata al sostituto procuratore della Repubblica di Cassino, Maria Beatrice Siravo. Dopo aver ricominciato a indagare da zero e aver raccolto tutti gli elementi scientifici utili, gli investigatori sembrano ora avere le idee chiare anche su chi materialmente assassinò diciotto anni fa la studentessa e sul ruolo preciso avuto da tutti i diversi indagati in quello che è da tempo tra i principali cold case italiani. Ora la procura potrebbe essere pronta a tirare le somme della nuova inchiesta e prepararsi a chiedere i rinvii a giudizio. Serena Mollicone scomparve da Arce, piccolo centro in provincia di Frosinone, il 1 giugno 2001 e venne poi trovata priva di vita, con le mani e i piedi legati e la testa stretta in un sacchetto di plastica, in un boschetto ad Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano. Due anni dopo, con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere, venne arrestato Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, poi assolto dopo aver trascorso da innocente quasi un anno e mezzo in carcere. L’omicidio della 18enne sembrava destinato a restare un mistero. Ma i dubbi, soprattutto quelli sui depistaggi da parte degli stessi carabinieri di Arce, erano troppi. La Procura di Cassino continuò così a indagare e nel 2008, prima di essere interrogato, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita. Gli investigatori si convinsero che il militare si fosse uciso perché terrorizzato dal dover parlare di quanto realmente accaduto il giorno della scomparsa della studentessa. E da allora, ricorrendo anche a sofisticate indagini scientifiche, le nuove indagini non si sono mai fermate. Alla luce degli accertamenti compiuti dai carabinieri di Frosinone, dai loro colleghi del Ris e dai consulenti medico-legali, il sostituto procuratore Siravo si è così convinta che la diciottenne il giorno della sua scomparsa si fosse recata proprio presso la caserma dei carabinieri, per denunciare dei loschi traffici che si svolgevano in paese. A quel punto, portata in un alloggio in disuso di cui aveva disponibilità la famiglia dell’allora comandante, la giovane sarebbe però stata aggredita. Avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, sarebbe stata portata nel boschetto. Vedendo in quel momento che respirava ancora, sarebbe quindi stata soffocata e sarebbero iniziati i depistaggi. Un’inchiesta che vede indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l’ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi il luogotenente Vincenzo Quatrale, e con quella di favoreggiamento l’appuntato Francesco Suprano. Ora i carabinieri, nell’informativa conclusiva appena consegnata al sostituto Siravo, hanno sostenuto che a uccidere Serena Mollicone sarebbe stato il figlio del comandante della stazione di Arce, specificando anche il ruolo avuto dagli altri indagati. "Io, mio padre e mia madre non c'entriamo assolutamente nulla" si difende il giovane al Tg1. "La conoscevo ma non benissimo", aggiunge. "Abbiamo fatto analizzare le macchine ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma", ha detto Marco per poi ripetere "non c'entriamo nulla. Ma questo sembra il tassello fondamentale, l’ultimo, per chiudere il cerchio sull’inchiesta. Utile anche a chiarire uno dei passaggi sinora rimasti più oscuri, quello del trasporto del corpo esanime della diciottenne dalla caserma al boschetto di Anitrella. E non si esclude che le indagini possano concludersi ufficialmente anche con un numero maggiore di indagati.
Vive a Venafro l’uomo accusato di avere ucciso Serena Mollicone: “Io e la mia famiglia non c’entriamo nulla”, scrive Mercoledì 20 febbraio 2019 Primo Numero. “Io, mio padre e mia madre non c’entriamo assolutamente nulla con la morte di Serena Mollicone” ha detto Marco Mottola, figlio dell’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, che da anni vive in Molise gestendo un’attività commerciale a Venafro. E’ indagato insieme ai genitori per l’omicidio della 18enne trovata senza vita nel bosco dell’Anitrella, in provincia di Frosinone. Il ragazzo ha parlato di Serena al Tg1: “La conoscevo ma non benissimo” ha detto. E sulle accuse a suo carico ha spiegato: “Abbiamo fatto analizzare le macchine ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma”. Ma gli investigatori sono certi del contrario. A 18 anni dal delitto hanno depositato, in Procura a Cassino, l’informativa che ridisegna la scena del crimine, individuando 5 persone da mandare sotto processo. E, soprattutto, conferma che Serena Mollicone fu uccisa durante una discussione con Marco Mottola, figlio dell’ex maresciallo che lei aveva intenzione di denunciare proprio quel giorno per un presunto giro di spaccio di droga, all’interno della caserma dei carabinieri di Arce. Dunque, quel drammatico 1° giugno del 2001 Serena, 18 anni, fu colpita e poi sbattuta, con la testa, contro la porta di un alloggio, interno alla caserma, nella disponibilità dell’ex maresciallo Franco Mottola. Ora si attende la decisione del sostituto procuratore che potrebbe essere pronto a fare le proprie considerazioni e prepararsi a chiedere i rinvii a giudizio. Per l’omicidio di Serena Mollicone sono indagati, con le accuse di omicidio volontario, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, con l’accusa di concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, il luogotenente Vincenzo Quatrale, e con quella di favoreggiamento l’appuntato Francesco Suprano. Secondo quanto sostengono i carabinieri la giovane, al tempo dei tragici fatti, è stata portata in un alloggio in disuso a disposizione della famiglia dell’ex comandante Mottola, lì sarebbe poi stata aggredita. Serena avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta e, credendola morta, sarebbe stata condotta con la forza nel boschetto in località Fonte Cupa. Qui, ancora viva, è stata soffocata con una busta di plastica e uccisa. Serena Mollicone scomparsa e trovata morta a 18 anni. Quello ricostruito dai carabinieri è un quadro assolutamente indiziario che poggia su tre elementi: la dichiarazione resa in Procura dal brigadiere Santino Tuzj nel 2008 poco prima di uccidersi; la consulenza della professoressa Cristina Cattaneo (dell’Istituto di Medicina Legale di Milano) che ha concluso per la compatibilità della frattura cranica su Serena e il segno di effrazione sulla porta di legno sequestrata in caserma; e, infine, il terzo elemento è la consulenza dei Ris con la quale è stata riscontrata la presenza di frammenti di porta e tracce della vernice della caldaia della caserma, tra i capelli di Serena. Con la conseguente compatibilità di questi materiali con l’ambiente della caserma. Un quadro indiziario corredato di una ricostruzione video, eseguita dal Ris. Intanto Marco Mottola e la sua famiglia si sono trasferiti in Molise. A Venafro, nello specifico, dove il principale indiziato di uno dei delitti più misteriosi degli ultimi decenni, che ha lasciato una Paese intero col fiato sospeso, gestisce un bar.
Serena Mollicone, il padre: «Come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità», scrive il 20 febbraio 2019 Chiara Pizzimenti su vanityfair.it. Guglielmo Mollicone ricorda però anche il riscatto dei Carabinieri che hanno fatto le indagini che ora portano alla conclusione che la 18enne sarebbe stata tramortita nella caserma e lasciata a morire in un campo. «Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore, poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire. Come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo». Guglielmo, il padre di Serena Mollicone, racconta al Corriere della Sera tutta la sua rabbia, ma anche la soddisfazione per indagini che sono arrivate a una conclusione dopo 18 anni. Sarebbe stato Marco Mottola a uccidere Serena. È questa la conclusione a cui è giunta l’ultima perizia consegnata alla Procura di Cassino sull’omicidio avvenuto ad Arce nel 2001. Dunque il colpevole sarebbe il figlio dell’ex comandante della Stazione dei carabinieri del paese. Accusati di omicidio volontario anche l’allora comandante Franco Mottola e la moglie Anna. «Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere» ha aggiunto Guglielmo Mollicone che è stato sostenuto dall’avvocato Dario De Santis e dalla consulenza dell’ex comandante del Ris, Luciano Garofano. È stata l’ultima perizia a portare le prove definitive dopo 18 anni di false piste e depistaggi, tutti raccontati nell’informativa dei carabinieri del Comando provinciale di Frosinone. Serena, secondo quanto ricostruito, sarebbe stata in caserma il 1 giugno 2001. Voleva denunciare un giro di stupefacenti che probabilmente coinvolgeva anche Marco Mottola. Dopo una colluttazione con il ragazzo sarebbe stata sbattuta con violenza contro una porta dell’appartamento. Lo dicono i frammenti di porta e i resti di vernice del cortile trovati sul cadavere. Sarebbe stata poi tenuta per alcune ore in caserma ferita quindi portata nel campo in cui è stata trovata 36 ore dopo. Era legata e imbavagliata. Anche altri due carabinieri sono indagati, i sottufficiali Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale. Per il primo l’accusa è di favoreggiamento perché avrebbe inscenato una finta chiamata per un incidente stradale in modo da poter dire di non essere in caserma durante l’aggressione. Il secondo è accusato di concorso in omicidio e istigazione al suicidio di un altro carabiniere, il brigadiere Santino Tuzi, che si uccise nel 2008 prima di testimoniare sul caso. Aveva già detto di aver visto entrare Serena in caserma, ma mai di averla vista uscire. L’avvocato della famiglia Mottola dice che i suoi assistiti sono innocenti e Marco Mottola lo ha ribadito al TG1: «Io, mio padre e mia madre non c’entriamo assolutamente nulla. Conoscevo Serena ma non benissimo. Abbiamo fatto analizzare le nostre macchine ed è stato tutto negativo, non è vero che il Dna trovato su di lei è compatibile col mio, e poi chi lo dice che era negli alloggi della caserma?».
Serena Mollicone, uccisa dal figlio del Maresciallo. Il padre della ragazza: “Mia figlia lasciata morire come Stefano Cucchi”, scrive il 20 febbraio 2019 Gaia Catalani su Velvet. Svolta clamorosa sul caso di Serena Mollicone. Le indagini degli inquirenti si sono strette sempre di più intorno alla famiglia del Maresciallo indagato per l’omicidio della ragazza. La relazione finale è stata depositata dall’Arma; il collegamento sempre più stretto con la relazione dell’anatomopatologa e dei Ris non lascia spazio a dubbi. Le conclusioni: la ragazza fu uccisa nella caserma dei carabinieri di Arce in concorso tra l’allora comandante Franco Mottola, la moglie Anna e il figlio Marco. Tutti accusati di omicidio volontario. Le dichiarazioni del padre di Serena Mollicone, a poche ore dalla notizia sulla svolta nel caso: “Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore, poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo. Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere”.
Il suicidio di Santino Tuzi: cosa sapeva l’uomo? A rendere più inquietanti la vicenda è anche il suicidio di Santino Tuzi, il brigadiere è stato trovato senza vita nella sua auto nel dicembre 2008. L’uomo si sarebbe sparato un colpo con la sua pistola di ordinanza, in pieno petto. Cosa sapeva? Al settimanale Giallo, Guglielmo Mollicone rivela: “Il maledetto giorno in cui mia figlia è scomparsa, e poi è stata uccisa, era andata in Caserma. E’ lì che è stata assassinata. Sono diciotto anni che lo sostengo. […] Non potrò mai dimenticare la figura del brigadiere Tuzi, lui ha pagato con la vita il suo coraggio: Tuzi avrebbe voluto parlare, raccontare per la prima volta come sono andati i fatti. Si è tolto la vita perché, probabilmente, le sue dichiarazioni inguaiavano i responsabili del delitto di Serena. […] Serena, come hanno ricostruito gli investigatori, è stata violentemente picchiata. L’hanno ridotta in fin di vita e temendo le conseguenze del loro vile gesto, hanno pensato di liberarsi per sempre di mia figlia. […] Non è escluso, anzi io ne sono certo, che i responsabili della sua uccisione non siano nemmeno stati individuati tutti. Ma io non mi fermerò fino a quando non avrò scoperto la verità. L’ho giurato a Serena. Figlia mia, manterrò la promessa”.
SERENA MOLLICONE. Difesa Mottola “Su Tuzi bisognava indagare”, figlia “pressioni”. Serena Mollicone, il caso stasera a Chi l’ha visto: la difesa dei Mottola tira in ballo il brigadiere Tuzi, morto suicida, scrive il 20.02.2019 Emanuela Longo su Il Sussidiario. Dopo le ultime novità emerse, il maresciallo Franco Mottola accusato con il figlio Marco e con la moglie Anna dell’omicidio della giovane diciottenne di Arce hanno provato la loro disperata difesa presentando al pm la loro versione dei fatti in cui viene chiamato in causa il brigadiere Santino Tuzi, morto suicida nel 2008, prima di poter testimoniare. Come riporta Corriere.it, il ragionamento dell’ex comandante giunto attraverso il suo legale, l’avvocato Francesco Maria Germani, fu il seguente: “Se si accetta la tesi che la 18enne è stata uccisa in caserma è su Tuzi che bisognava indagare. Sulla nostra presenza in caserma non ci sono prove, mentre lui era sicuramente di piantone”. Per la morte di Tuzi è indagato un altro carabiniere in servizio nel paese in provincia di Frosinone, Vincenzo Quatrale, accusato di istigazione al suicidio. Sette anni dopo il delitto Tuzi riferì ai colleghi di aver visto entrare Serena in caserma, di aver ricevuto una chiamata sull’interfono per farla accedere agli appartamenti della caserma e non averla più vista uscire. Il suo nome fu annotato sul registro dove poi fu successivamente cancellato. Era pronto a riferirlo ai magistrati ma si tolse la vita in circostanze mai chiarite mentre era in auto al telefono con la sua amante. La figlia Maria ha sempre sottolineato le continue pressioni a cui il padre era stato sottoposto in merito al caso. Gli inquirenti al momento non hanno preso in considerazione la pista alternativa dei Mottola. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
“QUEL GIORNO È ENTRATA NELLA TANA DEL LUPO”. Dopo la svolta nelle indagini che, al termine di 18 lunghissimi anni, potrebbe presto portare a conoscere la verità sulla morte di Serena Mollicone, nella giornata di oggi il padre della ragazza, uno dei pochi che si sono battuti fin da subito per mantenere viva l’attenzione sul caso e che in cuor suo ha sempre saputo come erano andate le cose, è stato ospite a La Vita in Diretta. E parlando degli ultimi sviluppi e della perizia che incastrerebbe l’assassinio di Serena, il signor Guglielmo ha raccontato a Tiberio Timperi(nella puntata che si può rivedere a questo link) che oramai si è vicini alla verità: “Questa notizia per me era una conferma e io non ho mai fatto l’inquirente o il poliziotto ma ho solo agito per logica e per logica già un mese dopo la morte di Serena ho detto perché era stata uccisa” spiega l’uomo, ribadendo anche come la ragazza, che all’epoca frequentava l’ultimo anno delle superiori, non avesse nemici. Adesso tuttavia il rischio è che i tre indagati della famiglia Mottola, dichiaratisi sempre innocenti, possano beneficiare della prescrizione, specialmente se fossero formulati dei rinvii a giudizio coloro che non hanno materialmente ucciso la ragazza ma solo favoreggiato il crimine oppure occultato il cadavere dato che questi reati vengono prescritti dopo sei anni. “MI ha spinto ad andare avanti la voglia di giustizia e loro devono pagare per quello che hanno commesso” ha proseguito Guglielmo Mollicone che poi ricorda un triste episodio risalente al giorno dei funerali, quando fu portato per tre ore in Caserma per una firma e costretto a lasciare Serena da sola in chiesa. “Hanno dato adito a chi indagava di gettare un’ombra su di me” ha detto amaramente l’uomo, aggiungendo che il giorno in cui Serena si presentò per denunciare un giro di droga “entrò nella tana del lupo e non ne è uscita più viva”. (agg. di R. G. Flore)
“ARRESTO IMMEDIATO PER I RESPONSABILI”. La perizia degli inquirenti ha confermato ciò che Guglielmo, padre di Serena Mollicone, ripeteva da oltre 17 anni. Una convinzione nata anche dalle parole che la giovane aveva riferito pochi giorni prima della morte all’uomo, parlandogli di questa complessa situazione ad Arce in riferimento al problema legato alla droga. “Si è messa in testa di andare lì, in quella caserma, nella tana del lupo per denunciare questo smercio di droga”, aveva spiegato il padre alla trasmissione I Fatti Vostri alcuni mesi fa. Papà Guglielmo è intervenuto oggi alla trasmissione di Raidue, telefonicamente, commentando così le ultime novità su quanto emerso nelle ultime ore. L’inchiesta dei carabinieri dà ragione dopo 17 anni proprio al padre della vittima. Il perchè di tanta efferatezza, però, non è ancora ad oggi emerso: “Serena non è stata solo legata e imbavagliata ma è stata anche picchiata”, ha spiegato il padre, parlando di pugni e calci emerse nell’ultima perizia, a differenza di quanto avvenuto anni fa con l’analisi del medico legale che non aveva riscontrato nulla di tutto ciò. “E’ una cosa molto grave anche questa perchè vuol dire che chi ha analizzato il corpo di Serena non ha fatto bene il suo lavoro”, ha aggiunto. “Io non penso al depistaggio, assolutamente. Serena è stata picchiata brutalmente da quella gente ed aveva dei lividi evidenti, come fa un medico legale a non notare quei lividi che aveva addosso nei giorni seguenti?!, ha spiegato ancora Guglielmo, ribadendo le somiglianze con il caso Cucchi “siamo lì, sì”. L’uomo ha aggiunto: “Io sono per l’arresto immediato di quella gente perchè non dimentichiamo che il carrozziere fu arrestato per delle sciocchezze, questi hanno un carico di accuse non indifferente, cosa aspettano ad arrestarli? Che scappino lontano come Battisti?”, ha aggiunto Mollicone. “Ho avuto la pazienza di aspettare la giustizia, vedere attuare quello che è la vera giustizia”, ha chiosato Guglielmo dopo le ultime novità sul caso. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
PAPÀ GUGLIELMO OGGI A CHI L’HA VISTO. La morte di Serena Mollicone torna al centro della nuova puntata di Chi l’ha visto, in onda nella prima serata di oggi con le ultime novità emerse in queste ore. A distanza di quasi 18 anni, gli inquirenti sono giunti ad una clamorosa conclusione: Serena Mollicone sarebbe stata uccisa nella caserma dei Carabinieri di Arce da Marco Mottola, figlio dell’ex maresciallo Franco Mottola. Tra i due ci sarebbe stata una lite furibonda poi culminata nella morte della giovane dopo aver battuto – forse dopo essere stata colpita – la testa contro la porta della caserma. Quindi, credendola morta, il maresciallo, il figlio e la moglie l’avrebbero portata in un boschetto, legata, salvo accorgersi che era ancora viva. Quindi sarebbe stata strangolata. Sarebbero queste le tappe inquietanti della fine della diciottenne Serena, il cui delitto fu commesso il primo giugno 2001 per poi essere rinvenuta senza vita a distanza di due giorni. La padrona di casa del programma di Raitre, Federica Sciarelli, insieme al padre della vittima, Guglielmo Mollicone, ripercorreranno tutte le tappe della triste vicenda di cui Chi l’ha visto si è occupata sin dalle fasi iniziali della scomparsa. “La verità sta uscendo fuori, nonostante i depistaggi”: così l’uomo ha commentato le ultime novità ai microfoni dell’Adnkronos. Ed in merito agli indagati (Marco Mottola, il padre, la madre e due carabinieri) ha aggiunto: “Ho sempre avuto il timore che potessero anche scappare, ora devono pagare, voglio che li arrestino. Temo che possano scappare anche con dei passaporti falsi”. Oggi l’uomo è convinto che Serena “troverà finalmente pace, dopo più di 17 anni”. L’uomo ha lottato e continua a farlo senza sosta, con la sola speranza di poter finalmente vedere consegnati alla giustizia i responsabili della morte della figlia, in merito alla quale commenta oggi al Corriere della Sera: “Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore, poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire. Poi azzarda ad un paragone importante: “Come per Cucchi si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo. Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere”.
LA FIGLIA DI SANTINO TUZI A CHI L’HA VISTO. Ospite nella puntata di Chi l’ha visto di stasera, incentrata sul caso di Serena Mollicone, anche la figlia del brigadiere Santino Tuzi, testimone “scomodo” morto suicida in circostanze mai chiarite. Anche lui, sotto certi aspetti, fu vittima di questa incredibile quanto drammatica vicenda. L’uomo si tolse la vita nel 2008, il giorno prima di essere ascoltato sull’omicidio di Serena. Il brigadiere aveva già riferito ai colleghi di aver visto entrare la ragazza in caserma senza però vederla più uscire. Il nome appuntato sul registro di ingresso fu poi cancellato. “Si è tolto la vita perché, probabilmente, le sue dichiarazioni inguaiavano i responsabili del delitto di Serena”, ha commentato Gugliemo Mollicone. La figlia dell’uomo suicida, Maria, due anni fa in una intervista al quotidiano Il Mattino aveva commentato così la morte del padre: “Dietro la morte di mio padre c’è sicuramente la verità sul caso di Serena Mollicone. Sono certa che mio padre sapesse qualcosa e che era stato minacciato di ritorsioni nei confronti della famiglia. Per questo non disse nulla per sette anni. Il suo suicidio è stato l’ennesimo e l’estremo gesto di protezione nei nostri confronti”. La donna aveva aggiunto: “Forse lui sapeva, ma qualcuno lo ha costretto a tacere per tutto quel tempo”.
Da Radio Cusano Campus del 28 febbraio 2019. Un'informativa di centinaia di pagine nella quale si ricostruisce l'omicidio di Serena Mollicone. Per i carabinieri del comando provinciale di Frosinone ed i colleghi del Ris, a colpire la ragazza, il primo giugno del 2001, sarebbe stato Marco Mottola, figlio dell'ex comandante della caserma dei carabinieri di Arce. Il litigio sfociato poi in omicidio, sarebbe avvenuto in uno degli alloggi in disuso presso la struttura militare. Oltre a Marco Mottola, nel mirino degli investigatori ci sono anche: il padre, Franco Mottola, la madre Anna, e due carabinieri che all'epoca erano in servizio presso la stessa caserma di Arce. Il giallo, alla luce di questi nuovi clamorosi sviluppi, è stato approfondito a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus. Al microfono di Fabio Camillacci, il padre di Serena, Guglielmo Mollicone ha dichiarato: “Finalmente i nodi stanno venendo al pettine: cose che ripeto da quasi 18 anni ormai. Ho sempre fatto nomi e cognomi di chi uccise Serena, ho sempre detto dove era avvenuto l’omicidio, cioè nella caserma dei carabinieri di Arce, e ho sempre indicato chi poteva aver aiutato la famiglia del maresciallo Mottola a trasportare il corpo nel bosco dell’Anitrella. Resto allibito quando sento Marco Mottola affermare che non conosceva bene mia figlia, che non erano amici. Come fa a dire questo dopo che in passato venne per due mesi di fila a casa mia per delle ripetizioni di francese e dopo aver fatto la terza media nella stessa classe di Serena? Non solo: Marco Mottola invitò più volte mia figlia nell'appartamento del padre in caserma per delle spaghettate tra amici. Pertanto, Serena era amica di tutta la famiglia Mottola, la smettessero di raccontare bugie, anche perché sono certe affermazioni che rafforzano le conclusioni a cui sono arrivati gli inquirenti. Come se non bastasse, il maresciallo Mottola e suo figlio, stanno anche dicendo di sapere chi è stato a uccidere Serena, lasciando intendere che sia stato Santino Tuzi; ma dicono questo solo perché il povero brigadiere non si può più difendere in quanto morto nel 2008. Se sanno chi è stato lo dicano chiaramente, portino prove a loro discolpa ma abbiano almeno rispetto per i defunti. Guardi, solo perché siamo in Radio evito di dire una brutta parola per commentare questa cosa orribile. Si sciacquino la bocca: però, conoscendo i personaggi non mi meraviglio. Inizialmente provarono a incastrare me, poi Carmine Belli che fortunatamente, dopo essersi fatto tanti mesi di carcere, fu assolto. Ora stanno cercando di mettere in mezzo chi ormai è morto. E voglio ricordare che Marco Malnati, grande amico di Santino Tuzi disse chiaramente, urlandolo anche davanti alle telecamere, che Santino non si era suicidato ma che era stato ammazzato e aggiungendo che Tuzi gli rivelò che la notte in cui ci fu la veglia di Serena in chiesa, cioè subito dopo il ritrovamento del corpo, il cellulare di Serena, fu portato di nascosto in casa mia dal maresciallo Mottola per incastrarmi. Poi Marco Malnati, sicuramente minacciato, non ha più parlato. Un giorno mi disse: “Gugliè, ti prego capiscimi, io c’ho 3 figli”. Io invece ho ricevuto un'intimidazione macabra quando arrestarono Carmine Belli: la mia gatta, che poi era di Serena, sparì misteriosamente, la ritrovai morta vicino casa mia con una ferita mortale sulla tempia sinistra, proprio come Serena. Voglio ringraziare -ha concluso Guglielmo Mollicone- il maresciallo Gaetano Evangelista, il successore di Mottola alla stazione dei carabinieri di Arce, ovvero colui che avviò le nuove indagini mettendo a rischio la carriera, la famiglia e anche la vita, posso dirlo con certezza. Il rapporto che lui consegnò alla Procura, di fatto conteneva le stesse cose venute alla luce in questi giorni. Questo per ribadire che io ho sempre creduto e credo molto nell'Arma, purtroppo però le mele marce stanno ovunque”.
· Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia.
Empoli, aveva i piedi legati ed era ammanettato l'uomo morto nel corso del fermo di polizia. La procura apre un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. L'intervento della volante in un money transfer per un giovane di 32 anni che voleva pagare con una banconota falsa e dava in escandescenze, scrivono Gerardo Adinolfi e Luca Serranò il 18 gennaio 2019 su "La Repubblica". Ha accusato un malore mentre era a terra contenuto dagli agenti, Arafet Arfaoui, cittadino di origine tunisina di 32 anni deceduto ieri sera durante un controllo di polizia in un money transfer di Empoli (Firenze). L'uomo conosciuto alle forze dell'ordine per numerosi precedenti tra cui oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, aveva le manette ai polsi e i piedi bloccati con una piccola corda che gli era stata messa per impedirgli di scalciare. Adesso la procura di Firenze ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo e la pm Christine von Borries, che ieri sera è subito andata sul posto, sta ascoltando i poliziotti intervenuti e il personale sanitario del 118 chiamato dagli stessi agenti non appena l'uomo si è sentito male. La squadra mobile di Firenze ha sentito una decina di testimoni e i quattro agenti intervenuti sul posto. Lunedì ci sarà l'autopsia. La richiesta di intervento al 118 è delle 18,30 di ieri pomeriggio, 17 gennaio. Secondo quanto è stato ricostruito, il cittadino tunisino si era presentato in uno stato di alterazione forse dovuto all'assunzione di alcol, nel negozio Taj Mahal di via Ferrucci in centro a Empoli. Il Taj Mahal vende alimentari, spezie e svolge anche servizio di money transfer. Arafet Arfaoui voleva cambiare del denaro, 40 euro. Siccome il titolare del negozio, un cittadino indiano, temeva che una delle due banconote fosse falsa, ha rifiutato il servizio. Da lì è nata una discussione e il commerciante ha chiesto l'intervento di una volante della polizia. Durante il controllo il nordafricano è apparso molto agitato, poi, dopo aver mostrato i documenti, è schizzato fuori dal locale e si è rifugiato in una macelleria distante pochi metri. Gli agenti l'hanno raggiunto e hanno cercato di calmarlo, ma lui è corso di nuovo fuori ed è ritornato dentro al money transfer. Qui, dopo un breve parapiglia, i due poliziotti l'hanno ammanettato a terra e poi, visti i tentativi di liberarsi, hanno chiesto al titolare una corda per legargli le caviglie e impedirgli di scalciare. L'uomo è rimasto per diversi minuti a terra, ammanettato: secondo le prime testimonianze, gli agenti non avrebbero esercitato pressione sul suo corpo e si sarebbero limitati a contenere i suoi tentativi di divincolarsi. L'uomo sarebbe stato messo sul fianco e la cordicella, dicono gli investigatori, era "larga". Sul posto è arrivata una dottoressa del 118 per sedarlo, ma dopo pochi minuti più tardi l'uomo ha accusato un malore e ha perso conoscenza. I tentativi di rianimarlo sono andati avanti per circa un'ora, senza risultati. Gli accertamenti sono condotti dalla squadra mobile di Firenze e proseguono per incrociare le testimonianze con le immagini delle telecamere del negozio, che avrebbero ripreso tutte le fasi del fermo. "Totale e pieno sostegno ai poliziotti che a Empoli sono stati aggrediti, malmenati, morsi" è stato espresso dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che è intervenuto sulla vicenda. "Purtroppo un tunisino con precedenti penali, fermato dopo aver usato banconote false, è stato colto da arresto cardiaco nonostante gli immediati soccorsi medici. Tragica fatalità. Però se un soggetto violento viene ammanettato penso che la Polizia faccia solo il suo dovere", ha concluso Salvini.
Morto durante un fermo a Empoli, Ilaria Cucchi: "So già come va a finire". La sorella di Stefano Cucchi è intervenuta sul caso della morte dell'uomo di 32 anni avvenuta durante un controllo di polizia. Il direttore dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali Manconi: "Ci siano indagini accurate", scrive il 19 gennaio 2019 La Repubblica. "Dava in escandescenza? Questi fatti sono tutti uguali e sappiamo già come andrà a finire. La quarta sezione della Cassazione dirà che non c'è nessun colpevole". Lo ha detto all'Adnkronos Ilaria Cucchi, sorella di Stefano (il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell'ospedale Sandro Pertini di Roma) commentando la morte dell'uomo di 32 anni avvenuta a Empoli nel tardo pomeriggio di giovedì, durante un fermo di polizia. In merito alle prime ricostruzioni di quanto accaduto, da cui emerge che l'uomo sarebbe morto per arresto cardiocircolatorio, Ilaria Cucchi aggiunge: "Come Magherini". Lo scorso 15 novembre la quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la morte di Riccardo Magherini, quarantenne ex calciatore della giovanili della Fiorentina, avvenuta il 3 marzo 2014, dopo l'arresto in una strada del quartiere di San Frediano, a Firenze. Intanto, sul caso di Empoli, è intervenuto Luigi Manconi, direttore dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. Manconi ha fatto appello alla Procura di Firenze per chiedere che siano svolte indagini tempestive e accurate. "La vittima aveva, oltre che le manette ai polsi, le caviglie legate e si trovava, di conseguenza, in una condizione di totale incapacità di recare danno ad altri e a sé. Come è potuto accadere, dunque, che in quello stato abbia perso la vita e che non sia trovato modo di prestargli soccorso?", ha chiesto Manconi. "Sappiamo che le forze di polizia dispongono di strumenti per limitare i movimenti della persona fermata, ma mi chiedo se la corda usata per bloccargli le gambe sia regolamentare oppure occasionale, se fosse in quel momento strettamente indispensabile o se non vi fossero altri strumenti per contenere l'uomo. In altre parole, non si può consentire che vi siano dubbi sulla legittimità di un fermo o sulle modalità della sua applicazione. Tanto più qualora riguardi chi si trovasse, secondo testimoni, in uno stato di agitazione dovuto all'abuso di alcol, e tanto più che, negli ultimi dieci anni, sono state numerose le circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Peraltro, vi è qualche testimone che parla di una condizione di relativa calma del giovane tunisino e anche quest'ultimo fatto impone una indagine, la più rapida e incisiva", conclude il direttore dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.
· Stefano Furlan, gli altri e Stefano Cucchi, troviamo le differenze.
Papa Francesco contro sovranisti e legittima difesa: "Mi ricordano Hitler", bomba su Salvini e Meloni? Libero Quotidiano il 15 Novembre 2019. Sente puzza di "cultura dell'odio", Papa Francesco. Intervenendo al XX Congresso mondiale dell'Associazione internazionale di diritto penale il pontefice è ancora più esplicito: "Quando sento qualche discorso, qualche responsabile dell'ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi di Adolf Hitler nel 1934 e nel 1936". Secondo le anticipazioni del sito Vatican News, quella di Bergoglio è una condanna senza mezzi termini di episodi e azioni "tipiche del nazismo", e del "sentimento di antipolitica" di cui "beneficiano coloro che aspirano a esercitare un potere autoritario". Dal generale al particolare insomma, un intervento che sa tanto di dichiarazione politica molto "attuale" e mirata ai danni del sovranismo, che in estate in una intervista alla Stampa lo stesso Francesco indicò come causa di guerre nonché origine dello sfacelo dell'Unione europea. Altra lettura strettamente correlata, spot all'accoglienza, ai "porti aperti" e all'integrazione degli immigrati. Non a caso, Bergoglio ha chiesto espressamente ad avvocati e magistrati a "vigilare contro le nuove "persecuzioni degli ebrei, degli zingari e delle persone di orientamento omosessuale". La stessa legittima difesa (cavallo di battaglia, in Italia, di Lega e FdI) sarebbe per il Papa unn alibi per comportamenti estremi: "Si è preteso di giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza come forme legittime del compimento del dovere". La comunità giuridica deve invece difendere "i criteri tradizionali per evitare che la demagogia punitiva degeneri in incentivo alla violenza o in sproporzionato uso della forza".
L’incubo di Ismail, picchiato prima a Velletri poi a San Vittore. Valentina Stella il 14 Novembre 2019 su Il Dubbio. Rinviate a giudizio 11 persone per le violenze subite dal tunisino nell’istituto milanese. Sarebbe stato punito per aver denunciato agenti per furti nelle cucine dell’istituto laziale che lo hanno malmenato e sono stati condannati in primo grado. Undici persone, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria del carcere milanese di San Vittore, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Milano Alessandra Cecchelli per presunte intimidazioni e pestaggi, tra il 2016 e il 2017, ai danni di un tunisino di 50 anni, Ismail Ltaief, detenuto per tentato omicidio. Il processo avrà inizio per tutti il prossimo 12 febbraio davanti alla quinta sezione penale. Le accuse verso gli agenti ( non più in servizio nel carcere del capoluogo lombardo, ma in altri istituti) sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni imputati, in quanto in uno dei due pestaggi, datati 27 marzo e 12 aprile 2017, come si legge nel capo di imputazione, il 50enne, privato "della libertà" sarebbe stato ammanettato e trasferito in una stanza in uso ad uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato. Oltre a Ltaief, parte offesa nel procedimento è anche un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, il quale chiamato a rendere testimonianza ai magistrati milanesi sarebbe stato intimidito da uno degli imputati che per questo venne anche arrestato. Le aggressioni contro il recluso sarebbero state inflitte con l’obiettivo di "punire" l’uomo che nel 2011, quando era in cella a Velletri ( Roma), aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Ismail Ltaief all’epoca dei fatti lavorava nelle cucine del carcere laziale. Quando si accorse che alcuni agenti di polizia penitenziaria sottraevano regolarmente cibo destinato ai detenuti per portarlo fuori dal carcere, li ha denunciati. Da quel momento per lui iniziò un incubo, fino al brutale pestaggio. E violenza chiama violenza perché i pestaggi che avrebbe subito a San Vittore sarebbero avvenuti anche lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula in quell’altro processo. Invece Ismail, seguito a Roma dall’avvocato Alessandro Gerardi, in aula a testimoniare ci era andato e due agenti di polizia penitenziaria sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione per averlo pestato a sangue. Ora si è in attesa dell’appello. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Adesso come ci spiega il legale che segue Ismail a Milano, l’avvocato Matilde Sansalone «si apre un processo complicato ma abbiamo già superato delle fasi difficili: primo passo è stato quello di superare la soglia del farsi credere e di far fare le indagini, il secondo di andare a giudizio. Non è facile essere creduti perché c’è sempre il sospetto che si adottino certi comportamenti per avere dei benefici. Ma nel nostro caso addirittura il pubblico ministero ha mandato un medico esterno al carcere. Ha refertato che Ismail presentava delle lesioni compatibili con il suo racconto soprattutto quando Ismail gli aveva detto di essere stato picchiato con un tirapugni. E da lì le indagini sono state più pressanti. E poi ci sono state anche le dichiarazioni di due testimoni oculari e di una volontaria di San Vittore. Il pm si è convinto della veridicità della sua denuncia. L’aspetto interessante è che Ismail ha scritto le lettere di denuncia dei pestaggi al giudice che aveva in mano il fascicolo in cui era imputato per tentato omicidio. E lo stesso pm che lo stava accusando ha preso in mano le redini del procedimento in cui ora è parte civile. Questa è la cosa giusta perché giudice e pm sono andati oltre, ad esempio ai numerosi precedenti di Ismail, e hanno ritenuto credibili le affermazioni del mio assistito. Hanno deciso di indagare». Quello che l’avvocato tiene a precisare è che «non bisogna criminalizzare tutta la categoria degli agenti di polizia penitenziaria. Tra l’altro Ismail è il primo che dice “non sono tutti così”».
Ismail al giudice: “Mi picchiano e mi dicono di non testimoniare”. Valentina Stella il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. In esclusiva le lettere del tunisino detenuto nel carcere milanese di San Vittore. L’avvocato Michele d’Agostino che assiste quattro degli agenti rinviati a giudizio : «ci sono parecchie incongruenze nel racconto». Undici agenti di polizia penitenziaria rinviati a giudizio per aver picchiato un detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Ismail Ltaief sarebbe stato punito per aver denunciato altri agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere laziale di Velletri e per essere stato da loro malmenato. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Per l’avvocato Alessandro Gerardi che segue il procedimento a Velletri la vicenda di Ismail Ltaief, con la sua appendice milanese, «presenta caratteristiche peggiori rispetto a quella di Stefano Cucchi, l’unica differenza è che Ismail per fortuna è ancora vivo e può raccontarla. La domanda che dovremmo porci di fronte a episodi del genere è semplice: come si possono rieducare i "delinquenti" se si usano metodi molto simili a quelli usati da chi in carcere sta dall’altra parte delle sbarre?». Quando Ismail seppe che i due agenti erano stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione scrisse una lettera all’avvocato Gerardi: “Finalmente un senso di giustizia che sembrava non arrivarmi. Sono così felice soprattutto perché ho la netta sensazione che almeno quei due non picchieranno più detenuti». Ecco, in esclusiva, alcuni stralci delle lettere che Ismail ha scritto al gip Laura Marchiondelli del Tribunale di Milano, che emise il mandato di arresto per il tentato omicidio passato in giudicato, per denunciare i presunti pestaggi a San Vittore: “alle 21: 10 un ispettore e guardie carcerarie entrano in cella, mi saltano addosso, picchiano con arti marziali dicendo che se vado a testimoniare a Velletri ucciderebbero ( vi riportiamo fedelmente quanto scritto, ndr) mia moglie visto che, secondo loro, non mi importa della mia vita. Mentre mi pestavano hanno nominato il nome e cognome di mia moglie e la via dove abitiamo. Ho male in tutto il corpo e ho paura di avere delle rotture. La prego giudice aiuto!”. In una seconda lettera Ismail scriveva: “questa notte mi hanno fatto uscire nuovamente di cella. Hanno picchiato di nuovo, uno di loro ha tirato di tasca un aggeggio che si infila nella mano, anelli di ferro. Ho vomitato sangue, se riesco ad arrivare dal medico le dirò sono "caduto" nelle scale altrimenti saranno ancora più gravi le botte seguenti”. Se tutto ciò sia vero sarà il processo a stabilirlo. Infatti secondo l’avvocato Michele D’Agostino che assiste quattro agenti «ci sono parecchie incongruenze nel racconto del detenuto, ci sono tante cose non dimostrate, noi riteniamo di avere le prove della falsità delle sue dichiarazioni, alcune persone non erano neppure presenti al momento dei fatti denunciati, e l’uomo si è reso protagonista anche di atti di autolesionismo». Intanto adesso, come ci racconta l’avvocato Matilde Sansalone, Ismail è diventato “un vero talento” nel laboratorio musicale destinato ai detenuti del carcere di Opera, finanziato dall’associazione Xmito e condotto dai maestri Stefania Mormone e Alberto Serrapiglio del Conservatorio “G. Verdi” di Milano. «La vicenda di Ismail – conclude Sansalone ci richiama all’ideale che sorregge l’attività di tutti coloro che si occupano di giustizia: il rispetto della dignità e dei diritti dell’essere umano, che sia innocente o colpevole, libero o detenuto, dinanzi agli accusatori e ai giudici. Così come lo è Ismail che anche in carcere quando suona si sente un uomo libero».
Morte in carcere. «Siamo sicuri che il nostro Amir non si è suicidato». Detenuto tunisino trovato morto nella sua cella il 26 ottobre scorso. Il racconto dei parenti: «non aveva problemi, né psicologici né fisici. Sapeva, da musulmano, che la religione vieta di togliersi la vita». Damiano Aliprandi l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. Soprattutto se stranieri, i detenuti che muoiono in carcere rimangono senza nome. Dei perfetti sconosciuti, con i familiari che vengono a sapere della morte del loro caro dopo giorni e senza la possibilità di capire il motivo della morte, con la difficoltà oggettiva – soprattutto economica – di poter affidarsi ad un avvocato. Il 26 ottobre scorso, un detenuto tunisino è stato trovato morto nella sua cella poco prima delle 13 nel padiglione B del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Secondo la notizia data dal sindacato della polizia penitenziaria si sarebbe impiccato. L’ennesimo suicidio che avviene nelle patrie galere. L’ennesimo senza nome e senza capire effettivamente cosa sia accaduto davvero. In questo caso, però, Il Dubbio ha avuto la possibilità di conoscere il suo nome grazie a una segnalazione ricevuta da Rita Bernardini del Partito Radicale. A segnalare la tragica vicenda è stata la scrittrice pugliese Maria Miraglia che, grazie alla sua associazione World Foundation for Peace la quale conta, con i due rami nazionali in Kenia e Nigeria oltre 10.000 membri, ha ricevuto una telefonata dai parenti del ragazzo ritrovato impiccato nel carcere. Il ragazzo si chiamava Amir, aveva 33 anni, ed era stato tratto in arresto il 27 agosto scorso: condannato a un anno di reclusione per un reato che avrebbe commesso anni prima. A raccontare a Maria Miraglia la storia del ragazzo è lo zio da parte materna. «Amir ha avuto una lite con alcuni ragazzi nel luogo in cui viveva a causa di attacchi razzisti contro di lui», ha riferito. «Non ha partecipato al processo perché a quel tempo era in Tunisia, dove trascorse quattro anni – ha continuato a spiegare lo zio – successivamente è tornato in Francia per lavoro, ma sfortunatamente non lo trovò e decise di tornare in Tunisia. Fu allora che uno dei suoi parenti in Italia gli disse di tornare in Italia promettendogli di trovare un lavoro per lui». Arriviamo quindi al 27 agosto, quando «è stato arrestato mentre era su un autobus per recarsi in Italia», ha detto sempre lo zio. Maria Miraglia racconta a Il Dubbio che lo zio le ha riferito di aver appreso della morte di Amir solo dopo cinque giorni, il 31 ottobre, tramite la polizia tunisina. Subentra anche il discorso religioso. Alla madre di Samir è stato detto che è morto a causa di un infarto. «Non possiamo dire alla madre che si è impiccato – ha spiegato sempre lo zio di Amir -, visto che per la nostra religione è proibito essendo considerato un crimine» . Ma credono al suicidio? Miraglia spiega a Il Dubbio che per i parenti non è possibile che sia andata così. «Siamo abbastanza sicuri che non avrebbe commesso un simile crimine», ha detto ancora lo zio. Secondo i parenti, ci potrebbero essere stati altri motivi come la tortura o le molestie sessuali. «Amir era una persona amante della vita, era gentile, non ha mai fatto del male a nessuno, sorrideva sempre e tutte le persone qui lo adoravano», ha sempre spiegato il parente. «Non soffriva di alcun problema, né psicologico né fisico. Era anche musulmano e sapeva benissimo che il suicidio è proibito dalla religione», ha aggiunto. Amir risulta essere il maggiore di tre fratelli ( Mohammed è un ingegnere e Iheb ha un Master in inglese). Sua madre è insegnante in una scuola elementare e suo padre è un pensionato dal ministero degli Interni dove ha lavorato come governatore della polizia. «Amir era il più grande dei suoi fratelli e il più caro per sua madre – ha spiegato a Miraglia sempre lo zio -. Ha vissuto in ottime condizioni e non ha mai accettato umiliazioni o che qualcuno mortificasse la sua dignità. Era anche una persona molto rispettosa, educata e gentile». I familiari non vogliono credere alla versione ufficiale data dalle autorità. «Vogliamo che si apra un’indagine seria e chiedere agli italiani di supportarci in questo dramma. Non abbiamo i mezzi per permetterci un avvocato, ma crediamo che il popolo italiano rifiuti tali crimini terribili. Confidiamo nella giustizia e crediamo che la verità verrà rivelata», chiede a gran voce lo zio di Amir. I familiari, dalla Tunisia, facendo ricerche su internet avevano anche appreso la notizia dell’arresto con l’accusa di tortura di 6 agenti penitenziari del carcere di Torino. Ovviamente gli arresti si riferiscono a eventi che sarebbero accaduti dall’agosto al novembre del 2018, ma inevitabilmente per i familiari di Amir stesso è comunque un segnale che fa capire che qualcosa sicuramente non va. Cosa è accaduto al ragazzo tunisino? Non avendo un avvocato, il rischio che la vicenda finisca nel dimenticatoio e archiviata come suicidio, è più che concreto.
Stefano Furlan e Stefano Cucchi, troviamo le differenze, scrive l'8 Febbraio 2019 l'Indiscreto. Oggi sono 35 anni dall’episodio che costò la vita a Stefano Furlan. 8 febbraio 1984. La vicenda di questo ragazzo triestino è sempre nella nostra memoria, anche se non certo per merito dei media, che nelle loro rievocazioni dei cosiddetti “morti di calcio” (l’ultimo Daniele Belardinelli) si dimenticano sempre rigorosamente di Furlan, al quale è attualmente intitolata la curva Sud della Triestina, allo stadio Rocco. Partiamo dalla fine: Stefano Furlan è morto l’1 marzo del 1984 in seguito alle ferite dovute al pestaggio da parte di un agente di polizia, l’8 febbraio precedente. Contrariamente a quanto spesso avviene in questi casi, il ventenne Furlan non se l’era cercata: dopo la fine di Triestina-Udinese di Coppa Italia, giocata al vecchio Grezar, stava andando verso la sua auto, quando alcuni poliziotti, in particolare uno (quello che poi sarebbe stato condannato), vedendo la sua sciarpa pensarono di trovarsi di fronte a un ultras della Triestina (e lui ultras lo era davvero, le partite le vedeva in curva) coinvolto in tafferugli con quelli dell’Udinese. Tafferugli di pochissimo conto, fra l’altro, dopo una partita tranquilla finita 0-0, niente in rapporto a un’epoca in cui gli stadi erano davvero pericolosi (altro caso di anni Ottanta non da rimpiangere), ma al di là di questo il ragazzo non vi aveva preso parte nemmeno come spettatore. Furlan si trovava soltanto nel posto sbagliato nel momento sbagliatissimo. Il risultato fu una manganellata alla testa (come evidenziato dalle fratture craniche), seguita dall’interrogatorio in Questura, dove (così raccontò lui alla madre) avrebbe preso altre botte. Il giorno dopo si sentì male e dopo tre settimane in coma morì. Nel frattempo si era giocato il ritorno di quell’ottavo di finale e Zico con una doppietta aveva dato la qualificazione all’Udinese…Ne nacque un caso che stranamente ebbe un’eco quasi solo locale: il poliziotto che lo aveva colpito fu condannato a un anno e dopo rientrò in servizio, addirittura sempre a Trieste. Abbiamo scritto ‘stranamente’, ma di strano c’era poco: un clamoroso errore da parte della polizia, con il ‘se l’era un po’ cercata’ impossibile da applicare anche per i media più velinari. Da ricordare sempre che le notizie arrivano nel 99% da magistrati e forze dell’ordine, senza contare che molti italiani (noi fra questi) hanno fiducia a prescindere nella Polizia e quindi tendono a minimizzare eventuali suoi abusi. Non è che volessimo rivangare una vecchia storia, sia pure con il pretesto di una data, ma sottolineare la incredibile differenza di trattamento giudiziario e mediatico con il caso di Stefano Cucchi: come dire che un tifoso di calcio, per non dire un ultras, è meno degno di tutela rispetto a uno arrestato per spaccio di droga. Differente anche il comportamento dello Stato: nel caso di Furlan, in cui la polizia era indifendibile sotto ogni profilo e tutto era chiaro fin dall’inizio grazie a testimoni, si cercò (con successo) di indirizzare le responsabilità di una persona, che poi comunque ne uscì senza troppi danni, mentre nel caso Cucchi, pieno di zone d’ombra, la Polizia ha cercato di difendersi, in maniera legale e meno legale. In ogni caso con Cucchi il giornalista collettivo ha indirizzato l’opinione pubblica in una direzione colpevolista fin da subito, generando anche la solita letteratura da linciaggio. Quindi? Ci sono morti mediaticamente di serie B e Stefano Furlan è purtroppo uno di questi.
La Cedu: va tutelato chi è sottoposto a controlli di polizia. La Cedu ha ribadito che il ricorso alla forza fisica, che non sia imposto da comportamenti particolari, svilisce la dignità umana, scrive Damiano Aliprandi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Le persone sottoposte a fermo di polizia o che sono semplicemente condotte o invitate a presentarsi a un posto di polizia al fine dell’identificazione o dell’interrogatorio, e, più in generale, tutte le persone sottoposte al controllo della polizia o di un’analoga autorità, si trovano in una situazione di vulnerabilità e le autorità hanno conseguentemente il dovere di proteggerle. È un principio più volte ribadito dalla Corte europea di Strasburgo dei diritti umano (Cedu) in diverse sentenze (non solo per quanto riguarda l’Italia) relative ai maltrattamenti delle forze di polizia e autorità pubbliche in generale. Il caso di Arafet Arfaoui, il 31enne di origini tunisine, accusato di aver utilizzato una banconota falsa e deceduto giovedì scorso in un money transfer di Empoli durante un fermo di polizia, ha evocato altre circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Diversi casi di maltrattamento finiscono con l’archiviazione e in alcune circostanze, la stessa Corte Europea ha stigmatizzato tale azioni, perché «le autorità devono sempre compiere un serio tentativo di scoprire che cosa sia accaduto e non devono fare affidamento su conclusioni frettolose o infondate per chiudere le indagini o utilizzarle come base delle loro decisioni». Un mese fa, la Cedu ha presentato al Parlamento la sua relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce nei confronti dell’Italia, con riferimento al 2017. C’è un capitolo a parte dove viene ricordata la sentenza Pennino Tiziana contro l’Italia. La ricorrente fu fermata, mentre era alla guida della sua auto, dalla polizia municipale di Benevento, che aveva ritenuto, dalle condizioni di guida (frenate improvvise e bruschi cambi di corsia), che fosse in condizioni di alterazione per assunzione di alcool. Ne seguì un alterco con gli agenti che, convinti dello stato di ebbrezza della signora, chiesero l’intervento di una pattuglia della polizia stradale per sottoporla ad un test con l’etilometro. A causa dello stato di agitazione in cui versava non fu possibile effettuare il test e pertanto la signora Pennino fu condotta presso il Comando di Polizia municipale per la redazione del verbale di contestazione per guida sotto l’influenza dell’alcool. La condanna da parte della Cedu si basa sui fatti che si svolsero da questo momento in poi, sulle cui concrete modalità di svolgimento sono state registrate due versioni opposte: l’una, prospettata dalla signora Pennino sia in sede di denuncia nazionale che di ricorso alla Corte europea, l’altra, narrata in termini concordanti dagli agenti e funzionari di Polizia municipale e stradale. La ricorrente ha sostenuto di aver subito, presso il Comando di Polizia, maltrattamenti e ferite dagli agenti presenti (la frattura del pollice, a causa delle manette, ed ecchimosi alla coscia sinistra, ai polsi e al dorso delle mani sono state confermate dai referti medici prodotti dalla ricorrente che, dopo il rilascio, si era recata in ospedale). La versione dei fatti contenuta nel verbale redatto congiuntamente dall’ufficiale in servizio presso il Comando e dai due agenti riporta che la Pennino si trovava in un grave stato di agitazione che richiedeva un’azione di contenimento con l’uso di braccialetti contenitivi. La ricorrente sporse denuncia nei confronti degli agenti che l’avevano fermata durante la guida e di quelli presenti presso il Comando di Polizia, affermando di essere stata aggredita e picchiata, di aver subito lesioni personali, abuso d’ufficio e minacce. Fu avviata un’indagine per la quale, tuttavia, il Pm chiese l’archiviazione, confermata dal GIP. Di contro, la ricorrente fu accusata di diversi reati, fra i quali, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e guida sotto l’influenza dell’alcool, nonché lesioni personali a un agente di polizia. Sottoposta a processo per tali fatti, la Pennino scelse il patteggiamento e fu condannata ad una pena lieve. Nel ricorso alla Cedu la signora Pennino ha lamentato di essere stata maltrattata dalla polizia e che l’indagine relativa alle sue accuse non era stata esauriente né efficace. La Corte ha preliminarmente ribadito che, secondo la propria giurisprudenza, qualora una persona sia privata della libertà, o, più in generale, debba affrontare gli agenti delle forze dell’ordine, il ricorso alla forza fisica, che non sia rigorosamente imposto dal comportamento della stessa, svilisce la dignità umana e costituisce una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Convenzione. Ha ribadito, inoltre, che tutte le accuse di maltrattamenti contrari all’articolo 3 devono essere corroborate da prove ‘ al di là di ogni ragionevole dubbio’, ricordando, in relazione alle prove, che, qualora i fatti siano interamente, o in gran parte, di esclusiva conoscenza delle autorità, come nel caso di persone che si trovino in custodia sotto il loro controllo, sorgono forti presunzioni fattuali in ordine alle lesioni verificatesi nel corso di tale detenzione. L’onere della prova, in questi casi, spetta quindi al Governo, che deve fornire una spiegazione soddisfacente e convincente, conducendo indagini approfondite e producendo solide prove di accertamento dei fatti. Ciò è giustificato dal fatto che le persone sottoposte a custodia si trovano in una posizione vulnerabile e le autorità hanno il dovere di proteggerle. La Corte ha ricordato anche che l’articolo 3 della Convenzione pone a carico dello Stato l’obbligo positivo di formare le proprie forze dell’ordine in modo da garantire un elevato livello di competenza nel loro comportamento. Archiviazione frettolosa e standardizzata. Un altro aspetto che la Corte ha ritenuto problematico in ordine all’esaustività delle indagini condotte a livello interno, è la motivazione estremamente succinta della richiesta di archiviazione del procedimento formulata dal pubblico ministero, che appariva redatta in modo standardizzato, e della decisione del giudice per le indagini preliminari in tal senso. Ha rilevato, infine, che il GIP non aveva motivato il diniego opposto alla richiesta della ricorrente di ulteriori atti d’indagine. La Corte ha, quindi, concluso che vi è stata violazione dell’articolo 3, sotto il duplice profilo: procedurale, dal momento che le autorità inquirenti avevano omesso di condurre con la diligenza necessaria le indagini in relazione alle accuse formulate dalla ricorrente, sulle circostanze relative all’uso della forza da parte della polizia, durante il tempo in cui era trattenuta presso il comando di polizia e, conseguentemente, sulla necessità dell’uso di tale forza; sostanziale, poiché il Governo non aveva adempiuto al proprio onere di fornire una prova adeguata e soddisfacente, nè chiarendo le circostanze in cui si erano prodotte le lesioni subite dalla ricorrente né dimostrando che l’uso della forza era rigorosamente necessario nel caso di specie. Casi simili sono ricorrenti. La Corte ha ricordato che sono sotto monitoraggio altre situazioni, come la sentenza Alberti c. Italia del 24 giugno ( ove l’Italia è stata condannata per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per i maltrattamenti subiti dall’interessato durante l’arresto, eseguito dai Carabinieri), e per il quale il Segretariato ha sollecitato ulteriori informazioni, concernenti, in particolare, le eventuali procedure disciplinari avviate nei confronti dei responsabili dei trattamenti vietati dall’articolo 3 della Convenzione. In sede di predisposizione del piano d’azione per l’esecuzione della pronuncia in esame, la Corte dedica particolare attenzione alle informazioni concernenti i procedimenti disciplinari previsti, la loro applicazione, l’eventuale adozione di misure cautelari (quali la sospensione dal servizio), l’eventuale riapertura delle indagini. Tali informazioni sono state richieste ai competenti Uffici ministeriali e giudiziari e se ne darà conto nella prossima Relazione al Parlamento.
Botte in carcere a San Gimignano: 15 agenti indagati per abusi e torture. Le Iene il 22 settembre 2019. Avrebbero picchiato e umiliato un detenuto marocchino. Sono i primi dipendenti pubblici che devono rispondere del reato di tortura. Con Matteo Viviani ci siamo occupati delle violenze in carcere che avrebbe registrato un altro detenuto, Rachid. Sono accusati anche di tortura, i 15 agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano in provincia di Siena. Avrebbero picchiato e umiliato un detenuto tunisino costretto anche ad abbassarsi i pantaloni mentre veniva insultato con frasi razziste. Così per la prima volta dei dipendenti pubblici devono rispondere del reato di tortura introdotto due anni fa. I fatti risalirebbero a un anno fa. È l’11 ottobre 2018, quando i 15 agenti avrebbero accerchiato un 31enne di nazionalità tunisina, in isolamento per scontare un anno di reclusione per reati legati allo spaccio di droga. Le guardie penitenziarie, secondo le accuse dei pm, vanno a prenderlo per trasferirlo da una cella a un’altra, lo trascinano e iniziano a picchiarlo. "Il ragazzo gridava di dolore, sempre più forte", racconta un detenuto di San Gimignano. "Lo picchiavano con pugni e calci, una guardia gli ha messo un ginocchio alla gola mentre era a terra". La procura di Siena ha chiuso ora indagini definite “complesse e delicate”: in 15 sono accusati tortura, minacce, lesioni aggravate, falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale. Quattro agenti dei 15 autori della tortura sono già interdetti dall’attività giudiziaria. Con Matteo Viviani ci siamo occupati di un altro caso di torture nelle prigioni italiane, come potete vedere nel servizio qui sopra. Rachid Assarag, detenuto marocchino, ha raccontato le botte e i soprusi che avrebbe subìto, registrate dal suo telefonino. Un episodio gravissimo che sarebbe avvenuto in particolare nel carcere di Parma il 14 febbraio 2011. Rachid ancora una volta registra i lamenti disperati di un detenuto in cella, che si sta sentendo male. “Si ingoiava la lingua”, sostiene il detenuto. “Ho chiamato la guardia e ho detto di chiamare un dottore ma mi ha risposto di no, che stava bene”. Una risposta che gli sarebbe stata data anche dall’agente che dà il cambio al collega. Passano ore, anche il secondo agente, racconta ancora Rachid, smonta di turno mentre il medico continua a non essere avvisato. Arriva la terza guardia e Rachid insiste, ma anche quest’ultima non avrebbe fatto nulla. Al mattino il detenuto muore. Quando Rachid chiede spiegazioni all’ultimo agente di custodia, dicendogli che un suo intervento avrebbe potuto salvarlo, lui avrebbe risposto: “Pesa cinquanta chili la cornetta. Ci vuole troppo tempo, io non avevo voglia di lavorare, mettila così”. Il tutto è stato registrato. Le Procure di Prato e Firenze hanno indagato in totale 7 agenti di polizia penitenziaria per questo episodio.
Torture in cella, sospesi quattro agenti del carcere di San Gimignano. Il Dubbio il 22 Settembre 2019. Sospensione immediata per i quattro poliziotti penitenziari destinatari di provvedimento di interdizione da parte dell’autorità giudiziaria. Sospensione immediata per i quattro poliziotti penitenziari destinatari di provvedimento di interdizione da parte dell’autorità giudiziaria e doverose valutazioni disciplinari per i quindici che hanno ricevuto un avviso di garanzia. Non si fa attendere la reazione del Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria informato dalla Procura della Repubblica di Siena della conclusione di una attività di indagine svolta in collaborazione con la stessa Polizia Penitenziaria e riguardante presunti maltrattamenti ai danni di un cittadino tunisino operati agenti in servizio presso la Casa di Reclusione di San Gimignano, ai quali è stato contestato, fra gli altri, il reato di tortura. L’indagine, complessa e delicata, ha interessato 15 poliziotti penitenziari in servizio presso l’istituto toscano e trae origine dalla denuncia fatta da alcuni detenuti su presunti pestaggi avvenuti all’interno del carcere. Le accuse formulate dalla Procura di Siena vanno dalle minacce alle lesioni aggravate, al falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale, alla tortura. Nell’avviare l’iter dei provvedimenti amministrativi di propria competenza, il Dap confida in un accurato e pronto accertamento da parte della magistratura, ma al tempo stesso esprime la massima fiducia nei confronti dell’operato e della professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria.
San Gimignano, sospesi 4 poliziotti penitenziari accusati di torture. Pubblicato domenica, 22 settembre 2019 da Corriere.it. Minacce, lesioni aggravate, falso ideologico commesso da un pubblico ufficiale e tortura. Sono queste le accuse formulate dalla Procura di Siena contro 15 poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di San Gimignano. L’episodio trae origine dalla denuncia fatta da alcuni detenuti su presunti pestaggi avvenuti all’interno dell’istituto toscano ai danni di un uomo tunisino nell’ottobre del 2018. La vittima infatti si era rifiutata di denunciare gli agenti. Per quattro agenti è stata richiesta la «sospensione immediata» da parte del Dap — Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che dipende dal Ministero della Giustizia — e tutti e quindici hanno ricevuto un avviso di garanzia. Nell’avviare l’iter dei provvedimenti amministrativi di propria competenza, il Dap confida «in un accurato e pronto accertamento da parte della magistratura», ma al tempo stesso esprime «la massima fiducia nei confronti dell’operato e della professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria che svolgono in maniera eticamente impeccabile il loro lavoro».
Da Nextquotidiano.it il 22 settembre 2019. Quattro sono i poliziotti sospesi dal servizio per quattro mesi secondo quanto disposto dal gip Valentino Grimaldi e 15 in totale gli indagati per il pestaggio di un detenuto di nazionalità tunisina nel carcere di San Gimignano. Il reato ipotizzato è quello di tortura. «Gli hanno abbassato i pantaloni», lui «è caduto» e hanno continuato a picchiarlo. «Sentivo le urla» racconta un detenuto, «poi lo hanno lasciato svenuto» in un’altra cella. Nell’ordinanza si parla di «trattamento inumano e degradante», di «violenza» e «crudeltà», hanno raccontato altri, tra cui alcuni condannati per camorra. Racconta oggi Repubblica che il detenuto tunisino non ha mai denunciato il pestaggio, ha rifiutato di farsi visitare dai medici. E quando gli hanno chiesto del taglio sul sopracciglio ha detto di essere caduto in cella. Chi indaga pensa che lo abbia fatto per paura. A raccontare prima a un’operatrice penitenziaria, poi a scrivere direttamente delle lettere al tribunale di sorveglianza sono stati altri detenuti che si trovavano l’11 ottobre 2018 in quello stesso braccio dell’isolamento. Da lì partono le indagini. Cinque, tutti provenienti dalla sezione alta sicurezza, quindi in carcere per reati gravi. Camorristi e trafficanti di droga. Uno di questi (in isolamento perché trovato con un cellulare in cella, cosa vietata dal regolamento carcerario) ha riferito di aver assistito al pestaggio dallo spioncino e di essere stato colpito da una guardia con un pugno alla fronte: due giorni di prognosi. Altri hanno raccontato di minacce da parte delle guardie: «Adesso vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano». O di frasi, contro il detenuto tunisino: «Perché non te ne torni al tuo paese?» «Non ti muovere o ti strangolo», «ti ammazzo». Ad aiutare gli inquirenti nella ricostruzione di quanto accaduto, ci sono le immagini delle telecamere, benché siano schermate dai corpi degli agenti e le intercettazioni. Fra i reati contestati agli agenti, ci sono le minacce, le lesioni e anche la falsità ideologica per aver tentato di “addomesticare” i rapporti e seppellire le prove del pestaggio con pressioni e intimidazioni. Quello che sembra emergere dai fogli dell’inchiesta è che non si sarebbe trattato di un episodio isolato.
Da “la Repubblica” il 23 settembre 2019. Non un caso solo, seppure grave, seppure degno di far ipotizzare alla procura di Siena il reato di tortura. Sarebbero anche altri gli episodi di violenze sui detenuti ad opera della polizia penitenziaria nel carcere di San Gimignano, che allungano un' ombra inquietante sulla struttura. «Il problema è che lì i fatti si sono un po' susseguiti nel tempo. Hai visto come funziona? Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei», dice uno degli indagati a un collega nel gennaio scorso, prima di un' audizione al Dap. E proprio dal Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria si elencano più pestaggi. Francesco Basentini, capo del Dap: «I fatti di cui parliamo sarebbero concentrati in un ambito di tempo abbastanza ristretto e coinvolgerebbero due o tre detenuti del carcere di San Gimignano. Fatti abbastanza seri e gravi, per questo si è giunti ad adottare quel provvedimento di sospensione». Non lavorano più, per ora, quattro dei 15 poliziotti finiti nell' indagine di Siena partita dalle denunce di chi ha assistito al violento pestaggio di un tunisino di 31 anni o ne ha viste le conseguenze. È una delle prime volte che in Italia viene contestato il reato di tortura, in questo caso affiancato alle accuse di minacce, lesioni e falso. «Ovviamente siamo nella fase delle indagini, questa è la contestazione cautelare», prosegue Basentini, che promette trasparenza. Mentre i sindacati aggiungono che la penitenziaria non ha «nulla da nascondere». L'indagine non sembra però cogliere di sorpresa il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone: «Era ora che scoppiasse il bubbone. Da anni denunciavamo la situazione intollerabile del carcere, che ha origini nella pessima decisione di costruirlo in un luogo isolato, malamente raggiungibile, con gravi problemi addirittura nella fornitura dell' acqua. I fatti che la procura sta approfondendo risalgono a circa un anno fa e mi risulta che le prime indagini furono fatte dall' amministrazione penitenziaria in collaborazione con la procura, quindi non c' è stato tentativo di nascondere l' episodio, gravissimo». Il sindaco di San Gimignano, Andrea Marrucci, rincara la dose: «Da troppo tempo la casa di reclusione è abbandonata al suo destino, senza direzione stabile e da mesi senza comandante e vice comandante del corpo di polizia penitenziaria. Con la parlamentare Susanna Cenni abbiamo denunciato le difficoltà di agenti e detenuti, le carenze infrastrutturali e chiesto interventi urgenti agli enti preposti. Richiesta sfociata in una esplicita lettera di misure urgenti al ministro».
Michele Bocci per “la Repubblica” il 23 settembre 2019. L'assistente capo è contrariato. Alle 10 di mattina di un lunedì del gennaio scorso deve recarsi a Firenze, al Dap, «per quei fatti che sono successi ad ottobre - rivela a un collega indagato come lui - Cioè, andare a perdere una giornata lavorativa per andare eventualmente a giustificare l' operato delle persone, per uno che bisognerebbe pigliare la tanica di benzina, buttargliela addosso e dargli fuoco». Si riferisce al detenuto tunisino che è stato pestato da 15 persone San Gimignano. Gli agenti hanno fatto di tutto per non farsi vedere mentre tiravano calci e pugni: «Buona parte del personale operante si è posto in modo da creare una barriera all' inquadratura della telecamera», scrivono gli inquirenti. «Alla fine credevo che fosse svenuto - ha testimoniato un altro detenuto che ha in parte assistito alla scena - Un' agente, nel momento in cui si trovava a terra, diceva agli altri: "Fermi, così lo ammazzate"». Sembra una fine drammaticamente possibile a leggere la ricostruzione degli investigatori, secondo i quali quando viene riaccompagnato in cella, il detenuto cade e un assistente capo di 120 chili gli sale addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringe per un braccio e un terzo lo afferra per il collo. Ma dentro il carcere di San Gimignano, dove sono reclusi anche camorristi, 'ndranghetisti e trafficanti, le cose sarebbero difficili anche per altri detenuti. Soprattutto la notte. «Entravano in tanti nelle celle e avevamo paura - ha raccontato un testimone - In isolamento dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa». E un altro: «Spesso vengono gli agenti nelle celle e cercano di provocare per vedere se i detenuti reagiscono». Del resto uno degli indagati avvertiva: «Fate bene a non dormire la notte, torniamo in ogni momento, pedofili, mafiosi di merda, infami». Sono queste parole, e anche alcune frasi piuttosto chiare degli stessi intercettati («I fatti si sono un po' susseguiti nel tempo. Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei») a far ritenere che gli episodi violenti potrebbero essere stati tanti. Ad colpire è l' inquietudine con cui alcuni degli stessi coinvolti si riferiscono ai due o tre considerati i leader del gruppo. Dice un agente: «Lui, e anche l' altro, sono mine vaganti. Perché anche lui quando va dentro perde il capo. Io te lo dico. Perde completamente la testa». Qualcuno in servizio beve pure. «Perdono la testa anche perché spesso vanno carichi, non ragionano già di loro, figurati quando sono carichi ». E in effetti uno dei violenti si sfoga così con un compagno a gennaio, mesi dopo l' episodio al centro dell' indagine. «Sto troppo nervoso - dice - io mi arrabbio, hai capito o no? Questo continua a fare il malandrino, l' altra sera lo stavo ammazzando, io l' ho preso per i capelli dietro al collo, ho detto: io te la svito la testa, uomo di merda che sei. Hai capito che io ti ammazzo qui a terra? A casa nostra fai il malandrino?». Alcuni membri del gruppo avevano rapporti pessimi con il resto del personale impiegato in carcere, soprattutto con chi non rispettava le loro regole un po' omertose. Una dottoressa è stata presa di mira perché refertando le condizioni del tunisino pestato ha riportato le sue dichiarazioni. Non avrebbe dovuto, secondo uno degli agenti, che più volte ha polemizzato con lei. Durante una discussione, tra l' altro, le ha toccato, pare accidentalmente, il seno con una mano, lei ha protestato e lui l' ha presa ancor più di mira, offendendola pesantemente in varie occasioni. La paura dei prigionieri: "Guardie violente, dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa".
Quei pestaggi a San Gimignano che questo giornale denunciò un anno fa. Damiano Aliprandi il 24 Settembre 2019 su Il Dubbio. L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione di quattro agenti, sono 15 gli indagati. Il garante nazionale Mauro Palma: «il dap poteva intervenire prima senza attendere l’esito delle indagini». Il caso di san Gemignano è scoppiato. L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione immediata di quattro agenti penitenziari perchè accusati di tortura effettuata nei confronti di un detenuto straniero nel carcere di San Gemignano. Sono indagati in tutto 15 agenti penitenziari non solo pèer il reato di tortura (613 bis) e lesioni personali, ma anche falso ideologico, visto che i filmati della videosorveglianza hanno svelato che il loro racconto non combacerebbe con la realtà dei fatti. Il provvedimento del Gip dopo le indagini della Procura è di quasi 500 pagine ricostruisce la vicenda con tanto di elementi intercettazioni comprese che comproverebbero il reato commesso. Ricordiamo che la notizia del presunto pestaggio è stata riportata dalle pagine de Il Dubbio circa un anno fa. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, si è subito attivato segnalando il caso al provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, a sua volta, ha informato formalmente il Dap. Da lì le interlocuzioni tra quest’ultimo e la direzione dell’istituto penitenziario. Ma c’è voluto un anno, affinché si predisponesse la sospensione degli agenti e i provvedimenti disciplinari, per poi interromperli in attesa dell’esito delle indagini della procura. Questo sarebbe stato, molto probabilmente, un segnale forte, di intransigenza verso eventuali abusi. Questione ribadita dal garante nazionale Mauro Palma durante la conferenza stampa di ieri, che ha aggiunto una ulteriore nota negativa: ovvero che la direzione del carcere per un determinato periodo non ha segnalato il caso al Dap. C’è voluta la professionalità e il coraggio di una educatrice che ha intrapreso di sua spontanea volontà, l’iniziativa di mandare una nota al dipartimento. «Non sono episodi che rappresentano la consuetudine» ha precisato sempre Palma, ma «nello stesso modo bisogna essere reattivi quando arriva una denuncia di presunti abusi, ma soprattutto preventivi». Sono diversi i casi di presunte violenze. Non solo nel carcere di San Gimignano, ma anche ad esempio quello di Monza dove è intervenuta l’associazione Antigone, mandando un esposto alla procura, così come altri istituti dove è in corso un procedimento giudiziario. Tra i vari casi segnalati dal Garante nazionale, uno è quello di Tolmezzo, dove la video sorveglianza dimostrerebbe che alcuni agenti penitenziari avrebbero allagato la cella con idrante, lasciando il detenuto bagnato per tutta la notte. Ma, stando ad oggi, la Procura competente ancora non ha notificato eventuali avvisi di garanzia e quindi le indagini sono ancora in corso per verificare l’accaduto. Il caso è stato raccontato sempre sulle pagine de Il Dubbio.
LA DOTTORESSA INTIMIDITA PER I REFERTI. Ma torniamo a San Gimignano e su quello che sarebbe accaduto nel carcere toscano l’ 11 ottobre scorso. Come riportato in esclusiva da Il Dubbio il 23 novembre del 2018, c’è stata la lettera di denuncia indirizzata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore del presunto pestaggio nei confronti dell’uomo extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha riferito di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. Gli stessi inquirenti, confermando l’accaduto, scrivono che quando venne riaccompagnato in cella, il detenuto cadde e un assistente capo di 120 chili gli salì addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringeva per un braccio e un terzo lo afferrava per il collo. L’altra conferma, come riportato sempre dal nostro giornale il 7 dicembre scorso, è arrivata dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, ha trasmesso la notizia di reato alla competente Procura per le indagini. La dottoressa, per aver fatto il suo dovere, avrebbe ricevuto delle intimidazioni come ha chiarito Emilio Santoro dell’associazione l’Altro diritto e riportato nero su bianco anche dagli inquirenti. Un ruolo, il suo, non così scontato. Non sempre i medici denunciano. «Ma non per omertà – spiega in conferenza stampa Palma-, ma perché sono figure che cambiano spesso e quindi sono portate a ridimensionare alcuni referti». I documenti redatti dalla dottoressa si riferiscono a tre detenuti visitati il giorno dopo i presunti pestaggi. Un detenuto riferisce di avere un forte mal di testa e presenta una ecchimosi al livello frontale destro, la sua versione è che sarebbe stato aggredito da un agente il quale, secondo quanto riferito, puzzava di alcol. Il detenuto in questione sostiene che avrebbe aperto il blindo per chiedere agli agenti di non picchiare l’extracomunitario e per questo motivo avrebbe ricevuto un pugno in fronte. Un altro detenuto racconta addirittura che diversi agenti sarebbero entrati in cella insultandolo e minacciandolo. Uno di loro gli avrebbe messo le mani per stringergli il collo e lui, per liberarsi, sarebbe caduto sul letto. Il detenuto però non presenta nessun segno al collo. Un altro recluso, invece, presenta una ferita abbastanza grande al livello dell’occhio, ma ha riferito che se la sarebbe procurata cadendo in un posto non precisato e ha rifiutato di medicarsi. In realtà il Garante locale del carcere di San Gimignano – rappresentato dall’associazione L’Altro Diritto -, una volta avuta la segnalazione, aveva contattato la direzione del penitenziario. Ma quest’ultima gli ha fatto sapere che non c’era stato alcun pestaggio e tutta la documentazione era al vaglio dell’autorità giudiziaria. Ma venerdì 13 settembre, sono arrivati gli avvisi di garanzia. La procura di Siena ha indagato accuratamente, anche le immagini delle telecamere in parte schermate appositamente dai corpi degli stessi agenti – che confermano parzialmente l’avvenuto pestaggio.
«UNA RISERVA A SÉ STANTE». «Era ora che scoppiasse il bubbone», ha fatto sapere il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone. Ma cosa intendeva? Raggiunto da Il Dubbio, spiega che il grave episodio che sarebbe avvenuto al carcere toscano è il frutto di una situazione devastante che riguarda l’intero sistema penitenziario. «Parto proprio dall’esempio del carcere di San Gimignano – spiega Corleone -, essendo stato costruito in aperta campagna, lontano da tutti e tutto, dove gli stessi familiari dei detenuti che provengono da regioni diverse sono costretti ad organizzarsi con un pullman». Un carcere che ha cambiato spesso il direttore, perché nessuno auspica di andarci. «Non avendo una direzione forte e stabile, alla fine il potere diventa, di fatto, autogestito all’interno del carcere». Ma parliamo di un istituto che non ha nemmeno l’acqua potabile, tanto che il Garante è riuscito ad ottenere come magra soluzione la vendita di bottigliette di acqua minerale a basso prezzo. È un carcere che si trova tra i boschi, dove è facile che salti la corrente e problemi di collegamenti telefonici a causa degli eventi atmosferici. Il Garante Corleone, per rendere bene l’idea, definisce l’istituto toscano una «riserva a sé stante». Anche il garante nazionale Palma, in conferenza, ha parlato di tutte queste criticità che riguardano il carcere toscano. Oltre al fatto che vige il problema del sovraffollamento e, dato significativo, c’è un aumento esponenziale dei detenuti che compiono gesti di autolesionismo. Il garante regionale Franco Corleone, sempre a Il Dubbio, estende il discorso sull’intero sistema penitenziario, perché «a causa del governo precedente c’è stato un arretramento culturale per quanto riguarda il senso della pena». E aggiunge: «Mi auguro che ci siano segnali di discontinuità con l’attuale governo, perché finora ancora non li ho visti».
Torino, arrestati sei agenti della penitenziaria: sono accusati di torture ai detenuti. Sarebbero stati protagonisti di una serie di episodi di violenze tra aprile 2017 e novembre 2018 al carcere Lorusso e Cutugno. Federica Cravero il 17 ottobre 2019 su La Repubblica. Sono accusati di ripetuti atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti i sei agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere Lorusso e Cutugno di Torino che sono stati arrestati stamattina e ora sono ai domiciliari. L’ordinanza di custodia cautelare è stata eseguita dagli stessi colleghi del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria. Le indagini sono state condotte dal pm Francesco Saverio Pelosi, che ha ricostruito una serie di episodi di violenza tra aprile 2017 e novembre 2018. A far scattare l’inchiesta è stata una segnalazione di Monica Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, che era venuta a conoscenza di uno di quegli episodi in occasione di un colloquio in carcere. Il reato contestato alle sei guardie è il 613 bis che “punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale”. L’attività d’indagine, che riguarda non solo le persone oggi sottoposte a misura cautelare, ma anche altri indagati a piede libero, è ancora in corso per accertare eventuali responsabilità penali di altri soggetti e scoprire eventuali altri episodi analoghi, oltre a quelli finora denunciati. E per questo, essendoci il rischio di inquinamento delle prove, sono state applicate le misure cautelari.
Simona Lorenzetti per il “Corriere della sera” il 18 ottobre 2019. Detenuti costretti a rimanere in piedi per ore e a declamare a voce alta le colpe di cui si erano macchiati. Detenuti picchiati, insultati, umiliati. Succedeva nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Nel blocco «C», quello degli «incolumi», dove scontano la condanna gli uomini responsabili di crimini sessuali. In quei corridoi, spesso di notte, alcuni agenti di polizia penitenziaria infliggevano ai reclusi le punizioni che ritenevano più adeguate. Forti di un senso di impunità, agivano al di sopra della legge e della giustizia dei tribunali autoproclamandosi «giustizieri morali», come li definisce il gip nell' ordinanza. Ora sei di loro, tutti trentenni, sono finiti agli arresti domiciliari con l' accusa di tortura, perché «con violenza e minacce gravi, nonché agendo con crudeltà, cagionavano acute sofferenze fisiche nonché trauma psichico» a sei detenuti. Un' altra decina di persone è indagata per non aver impedito gli abusi o per aver preso parte in maniera marginale alle spedizioni punitive. L' inchiesta ha mosso i primi passi nel dicembre dello scorso anno, dopo la denuncia della garante delle persone private della libertà del Comune di Torino, Monica Gallo, che aveva raccolto lo sfogo di un detenuto: l' uomo le aveva confidato di essere stato maltrattato da tre agenti. Le guardie lo avevano brutalmente schiaffeggiato. E in un' altra occasione lo avevano costretto a rimanere faccia al muro per 40 minuti e a ripetere a voce alta «sono un pezzo di m...». Partendo da quella denuncia, i pm Enrica Gabetta e Francesco Pelosi hanno ricostruito numerosi episodi avvenuti tra l' aprile del 2017 e il novembre del 2018. Lo spaccato che emerge è una narrazione di crudeltà e sadismo. «Vivevo con l' ansia di incontrarli», ha ammesso una vittima. I reclusi venivano «battezzati» al loro arrivo. Il messaggio era chiaro fin da subito: «Ti renderemo la vita molto dura, ti faremo passare la voglia di stare qua dentro». E poi le botte, le perquisizioni arbitrarie delle celle fino a distruggere gli effetti personali o a imbrattare lenzuola e vestiti con il detersivo per i piatti. I detenuti hanno raccontato di come gli agenti li portassero in aree discrete, senza telecamere: dopo essere stati costretti a denudarsi, venivano colpiti nelle parti intime o sul costato. Scrive il gip: gli indagati si sono comportati con «spudorato menefreghismo e senso di superiorità verso le regole del loro pubblico ufficio», dimostrando di «non credere nell' istituzione di cui fanno parte». «Nei casi come questo non resta che augurarsi che si faccia al più presto chiarezza - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione per i diritti dei detenuti -. Avevamo più volte segnalato come il clima nelle carceri stesse peggiorando». «Uno Stato civile punisce gli errori, ma che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto mi fa girare le palle terribilmente. La mia massima solidarietà a quei sei padri di famiglia», è invece il commento del leader della Lega Matteo Salvini.
Claudio Laugeri per “la Stampa” il 18 ottobre 2019. «Per quello che hai fatto, devi morire qui». L' umiliazione, gli insulti e le minacce. Dopo le botte. Era il trattamento riservato a una mezza dozzina di detenuti delle quattro «sezioni incolumi», nel padiglione C del carcere «Lorusso e Cutugno» di Torino. Da ieri mattina, sei agenti di polizia penitenziaria sono agli arresti domiciliari per tortura, reato introdotto due anni fa nel codice penale. La pena è dai cinque ai dodici anni di carcere. A indagare sugli agenti sono stati i colleghi del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. Gli episodi sono avvenuti tra aprile 2017 e novembre 2018. Riguardano una mezza dozzina di detenuti, ma il sospetto degli inquirenti è che il fenomeno fosse più esteso. L' indagine è scaturita dalla segnalazione della Garante comunale per i diritti dei detenuti, Monica Cristina Gallo. È stata lei a raccogliere le confidenze di alcuni carcerati, tutti sotto i 40 anni e arrestati per reati sessuali. Pedofili e stupratori, la categoria più odiata in carcere. E sovente, anche fuori. Per questo, gli agenti avevano deciso di fare i «vigilantes», i «giustizieri» che applicavano pene anche prima della sentenza. Sapevano che quei personaggi non sono amati. Ma soprattutto, immaginavano che per loro sarebbe stato difficile trovare sostegno, dentro e fuori dal carcere. L' umiliazione era continua. A uno avrebbero spruzzato detersivo per i piatti sul materasso e strappato le mensole dal muro, un altro sarebbe stato costretto a dormire sull' asse di metallo del letto, senza il materasso, un altro ancora ignorato quando ha chiesto una visita medica. Poi insulti e minacce. Tutto reso ancora più cupo dai toni, dalla veemenza. Violenza verbale. «Figlio di puttana, ti devi impiccare», dicevano a uno. Per un altro, il trattamento era costringerlo a ripetere «sono un pezzo di merda». Un altro ancora veniva preso a calci nel sedere mentre scendeva le scale, con la litania di sottofondo: «Ti ammazzerei e invece devo tutelarti». C' è questo e altro nella quarantina di pagine dell' ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Sara Perlo, che ha esaminato il materiale raccolto dal Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, coordinato dal procuratore aggiunto Enrica Gabetta e dal pm Francesco Pelosi. Un' indagine senza intercettazioni, senza «pentiti». Gli inquirenti hanno raccolto testimonianze. Qualche compagno di cella dei detenuti picchiati. E poi, le parole di quelli che hanno preso le botte. Hanno raccontato le modalità di quei pestaggi. Gli agenti infilavano i guanti, per lasciare meno segni. Ma anche per intimidire. Sferravano pugni nello stomaco, sempre per non lasciare segni. Qualche volta, però, si lasciavano andare: un detenuto ha preso un pugno in faccia e gli è caduto un dente, un altro ha zoppicato tre mesi per un calcio su una gamba tesa. Poi, ci sarebbero sputi, schiaffi, calci nel sedere e nei testicoli, pestoni sui talloni. Dolore fisico e psicologico. Alimentato da frasi del tipo: «Per quello che hai fatto, devi morire qui». «È prematuro entrare nel merito, ma posso dire che va inquadrata in un problema più ampio», sostiene l' avvocato Antonio Genovese, difensore di un agente arrestato. E spiega: «La situazione diventa esplosiva quando in un carcere come quello di Torino ci sono mille e 523 detenuti anziché mille e 61. Bisogna risolvere questi problemi, per rendere più umana la vita in carcere. Per i detenuti, ma anche per chi lavora in quelle strutture». La vicenda ha scatenato anche la reazione di Matteo Salvini: «Uno Stato civile punisce gli errori, se uno sbaglia in divisa sbaglia come tutti gli altri. Però che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto a me fa girare le palle terribilmente».
Torino, altre denunce di maltrattamenti. Damiano Aliprandi il 3 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’inchiesta nata dalla segnalazione del garante comunale Monica Gallo. Al pm Francesco Pelosi sono stati raccontati I fatti che sarebbero avvenuti nel reparto dove sono reclusi I “sex offender”. Mentre due dei sei agenti penitenziari arrestati lo scorso ottobre con l’accusa di aver torturato alcuni detenuti del carcere di Torino sono tornati in libertà, si aggiungono altre denunce da parte dei reclusi. Tutti questi avrebbero riferito al pm Francesco Pelosi altri fatti gravi avvenuti all’interno del penitenziario, specificatamente al reparto dove sono reclusi i “sex offender”, ovvero i detenuti con l’accusa di reati a sfondo sessuale. L’inchiesta, nata dalla segnalazione di Monica Cristina Gallo, garante comunale dei diritti dei detenuti che aveva raccolto le confidenze di alcuni carcerati ristretti nella sezione del padiglione C della casa circondariale, si arricchisce dunque di nuovi capitoli e registra – nella sostanza – una conferma dell’impianto accusatorio anche dai giudici del tribunale del Riesame che si sono espressi sui ricorsi – contro la misura cautelare degli arresti domiciliari – presentata da quattro dei sei agenti indagati. Il dispositivo conferma gli arresti per quattro agenti e revoca l’ordinanza per altri due. Il Riesame riconosce che nel carcere di Torino si sono verificati diversi pestaggi e che le vittime sono attendibili; ritiene però che, per configurarsi la contestazione del reato di tortura, è necessaria una pluralità di condotte; quindi più condotte violente oppure una condotta violenta e altre vessatorie. Specificatamente per un poliziotto, a differenza degli altri, doveva rispondere di un solo episodio. Uno dei detenuti fu costretto a stare quaranta minuti in piedi a faccia al muro e a sentirsi dire “sei un pezzo di m…”; poi venne chiuso in uno stanzino e preso a schiaffi, calci e pugni. Il tribunale del Riesame, presieduto da Elisabetta Barbero, ha compiuto una lunga escursione nella giurisprudenza ( formata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo) e, basandosi soprattutto su un paio di sentenze del 1978 e del 2001 per vicende avvenute in Gran Bretagna, ha operato un netto distinguo fra “disumano” ( indubbiamente più grave) e “degradante”. E la legge sull’introduzione del reato di tortura messa a punto dal Parlamento italiano, secondo la lettura dei giudici torinesi, richiede che “a fronte di un’unica condotta”, come nel caso del poliziotto, “il trattamento sia inumano e degradante” nello stesso momento. Perché le due parole sono “unite dalla congiunzione coordinante”, la lettera "e". Resta il fatto che l’inchiesta della procura di Torino non ha comunque avuto alcuna flessione. I giudici infatti hanno affermato che i maltrattamenti, così come raccontati dai reclusi, ci sono stati. Almeno in alcuni casi. Il prigioniero nello stanzino ha detto che “viveva nell’ansia di incontrare i poliziotti perché ogni volta mi picchiavano o sbeffeggiavano”. Ma l’agente tornato in libertà ha preso parte a una sola spedizione punitiva: non può essere soltanto lui ad aver provocato quello stato d’animo.
Agrigento, aperta un’inchiesta sulle presunte violenze in carcere. I presunti abusi erano stati raccontati da Il Dubbio grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, del Partito Radicale. Damiano Aliprandi il 19 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il procuratore capo Luigi Patronaggio ha aperto un’inchiesta – al momento a carico di ignoti – sulle presunte violenze commesse al carcere di Agrigento riportate su Il Dubbio grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, del Partito Radicale. La Procura ha aperto quindi un fascicolo, coordinato dal capo dell’ufficio che, martedì scorso, secondo quanto si apprende da fonti giudiziarie, ha fatto un’ispezione nella struttura con i carabinieri, eseguendo riprese video e fotografiche. Il materiale raccolto verrà esaminato per l’ulteriore sviluppo delle indagini. Su Il Dubbio è stato riportato l’esito della visita effettuata il 17 agosto scorso da una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini e dall’Osservatorio carceri delle Camere penali. In particolare, si faceva riferimento alla situazione riscontrata nella sezione isolamento e puntualmente relazionata al Dap e al garante nazionale delle persone private della libertà. Oltre alle gravi criticità strutturali riscontrate, sono state raccolte diverse testimonianze di violenze, come ad esempio quella di un detenuto che sarebbe stato lasciato ammanettato nel passeggio per una giornata e una nottata intera senza mangiare né bere e che sarebbe stato preso a schiaffi e pedate. Altri ancora hanno riferito di essere stati testimoni di detenuti ammanettati e “strisciati” per terra. La vicenda, dopo la pubblicazione su Il Dubbio, è approdata in Parlamento con una interrogazione scritta depositata dal deputato di “Italia Viva” Roberto Giachetti.
Vittorio Feltri contro Bonafede: "Una cosa drammatica e disgustosa. Ministro, ecco di cosa ti devi occupare". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. La notizia è di ieri ma vale anche oggi perché ha una valenza drammatica e abbastanza disgustosa. Sei agenti di custodia del carcere di Torino sono stati arrestati. Motivo, torturavano i detenuti convinti forse di essere dei giustizieri anziché dei servitori dello Stato. Già la galera è un luogo orrendo dove la convivenza civile è solo una utopia. Gli uomini e le donne condannati sono ammucchiati in celle piccole nelle quali è pressoché impossibile avere un minimo di privacy e di rispetto per le persone. Infatti il governo se ne frega altamente della Costituzione che prevede, quale finalità della detenzione, la rieducazione di chi finisce dietro le sbarre. Chi è stato «dentro» fornisce racconti raccapriccianti di quanto vi accade senza che nessuno si impegni a migliorare le cose. Se poi ci si mettono pure i secondini a picchiare e umiliare chi sta scontando una pena, la situazione non è più sostenibile. Chi commette reati è ovvio che debba pagare per la propria colpa, il che deve avvenire mediante la privazione della libertà e non della dignità. Se invece a questa punizione si aggiungono esercizi di sadismo da parte degli agenti nei confronti dei reclusi è obbligatorio intervenire drasticamente onde ripristinare criteri di umanità nella gestione delle prigioni. Occorre grande severità nel reprimere certi abusi che offendono non soltanto chi li subisce ma anche i cittadini informati. Tocca al ministro della Giustizia agire in tale senso, e lo deve fare con urgenza al posto di occuparsi pedestremente di prescrizione da eliminare e scemenze del genere. Il nostro sistema giudiziario si regge quasi esclusivamente sulla restrizione entro quattro mura, tuttavia l' edilizia carceraria è inadeguata e i condannati sono ammassati in pochi metri quadrati e costretti a soffrire fisicamente. Ciò è detestabile. Le torture inflitte loro dal personale di custodia sono quindi un supplemento di pena che ripugna alla coscienza. La politica non può fare spallucce e infischiarsene. So che le nostre proteste cadranno nella indifferenza dei manettari, cioè i giustizialisti che auspicano l'inasprimento delle pene per qualsiasi violazione del codice, ma Libero starà sempre dalla parte di chi viene maltrattato. Vittorio Feltri
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Indimenticabile Avetrana
Caso Scazzi, alla sbarra dodici persone tra cui zio Michele e Ivano. Lo zio di Sarah rischia 4 anni di reclusione per autocalunnia e Ivano Russo, il ragazzo conteso tra le due cugine, rischia 5 anni di carcere per false informazioni al pm e falsa testimonianza dinanzi alla corte d'assise. Emanuela Carucci, Mercoledì 11/12/2019 su Il Giornale. Si riaccendono i riflettori su Avetrana e sul caso Scazzi. È in corso il processo bis, nel tribunale di Taranto, legato all'omicidio della 15enne avvenuto il 26 agosto del 2010. Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero, secondo quanto scrive Vittorio Ricapito sul quotidiano regionale "La Gazzetta del Mezzogiorno", ha chiesto la condanna per dodici imputati per aver mentito o nascosto particolari durante indagini per il processo sull’omicidio. In particolare Michele Misseri, zio della vittima, rischia la terza condanna con l'accusa, questa volta, di autocalunnia. In passato è stato già condannato in via definitiva ad otto anni di reclusione per aver gettato in fondo ad un pozzo nelle campagne di Avetrana il corpo di Sarah. Meno di un mese fa ha avuto la seconda condanna, emessa dalla corte d'appello di Taranto, ad un anno e mezzo di reclusione per diffamazione ai danni del suo ex avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone durante una puntata dell'Arena di Massimo Giletti. Adesso rischia di essere condannato per la terza volta, come detto, a quattro anni di reclusione per essersi preso le colpe dell'omicidio per scagionare la moglie e la figlia, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah, condannate all'ergastolo. Alla sbarra è finito anche Ivano Russo, il ragazzo di Avetrana conteso tra le due cugine Sarah e Sabrina, per aver dato "false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise" come si legge ancora sulla Gazzetta. Secondo il pm di turno, il ragazzo mentì per coprire Sabrina. Non è finita, sono dodici in tutto le persone che potrebbero essere condannate. Sono stati chiesti tre anni di reclusione per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza. Due anni e quattro mesi di reclusione per la mamma di Ivano, Elena Baldari, due anni per il fratello di Ivano, Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino accusati tutti di aver mentito dinanzi ai giudici sostenendo che il 26 agosto del 2010 Ivano fosse a casa e che fosse rimasto a letto tutto il pomeriggio. A finire sotto processo, con le accuse di menzogne e calunnie, c'è anche Dora Serrano, sorella di Cosima e Concetta, la mamma di Sarah, che avrebbe raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale da parte di Michele Misseri. Per lei il pm ha chiesto una condanna di tre anni e otto mesi di reclusione. Infine rischiano tre anni di carcere per falsa testimonianza anche Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo, cognata del fioraio del paese Giovanni Buccolieri e Giuseppe Augusto Olivieri. Insomma il giallo di Avetrana ha, in realtà, coinvolto più persone in paese e non solo i componenti della famiglia Misseri e Scazzi. Ora si aspetta il 7 gennaio per la prossima udienza del processo.
Caso Scazzi, troppe bugie: chiesti 5 anni per Ivano Russo, 4 per Misseri: a gennaio il verdetto. La ragazzina fu uccisa nell'agosto 2010. Vittorio Ricapito l'11 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Pesanti richieste di condanna al processo-bis legato all’omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa quindicenne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero ha chiesto la condanna per 12 imputati accusati di aver mentito o nascosto particolari durante indagini e processo di primo grado per l’omicidio della studentessa. Rischia una nuova condanna, la terza, Michele Misseri (difeso dall’avvocato Ennio Blasi Di Statte), già condannato in via definitiva a otto anni di reclusione per aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina di quindici anni nell’agosto del 2010, subito dopo l’omicidio. Delitto per il quale sono state condannate all’ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah. Stavolta Misseri, che quindici giorni fa è stato condannato in appello a un anno e mezzo per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone (assolto però dall’accusa di calunnia) rischia quattro anni di reclusione per autocalunnia, cioè per essersi incolpato ingiustamente dell’omicidio nel tentativo di scagionare moglie e figlia. La sua versione, tuttavia, non è mai stata creduta dai magistrati. A è finito anche Ivano Russo, l’amico conteso intorno al quale sarebbe nata una rivalità tra Sarah e sua cugina Sabrina, rivalità ritenuta uno dei moventi più forti alla base del delitto. Il pm ha chiesto la condanna a cinque anni di reclusione per Russo, accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise. Secondo il pm, in aula fu reticente, mentì per coprire Sabrina, cercando di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah e infine i contrasti fra le due cugine per il comune interesse sentimentale. Tre anni di reclusione è la condanna proposta per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza. A processo sono finiti anche la mamma di Ivano, Elena Baldari, per la quale il pm ha chiesto la condanna a due anni e quattro mesi, il fratello Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino, che rischiano condanna a due anni. Sono accusati di aver mentito sostenendo che il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio, Ivano era rimasto a casa, a letto per tutto il pomeriggio. Menzogne e calunnie, per l’accusa, sono anche quelle di Dora Serrano, sorella di Concetta (mamma di Sarah) e Cosima, che per dipingere il cognato Michele come un mostro, in aula ha raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale dal contadino. Per lei e per Giuseppe Serrano, il pm Buccoliero ha chiesto condanna a tre anni e otto mesi di reclusione. Rischiano infine tre anni di reclusione per falsa testimonianza, Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo (difesa dall’avvocato Pasquale Lisco), cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno) e Giuseppe Augusto Olivieri. Le discussioni dei difensori sono fissate il 7 gennaio del nuovo anno.
Omicidio di Sarah Scazzi, pena ridotta per zio Michele. Le motivazioni della condanna che è stata inflitta per il reato di diffamazione. Annalisa Latartara su tarantobuonasera.it lunedì 16 Dicembre 2019. L’inaffidabilità di Michele Misseri, sancita dai giudici nei tre gradi di giudizio, questa volta lo salva dalla pesante imputazione di calunnia. Malgrado la gravità delle accuse nei confronti dell’ex difensore Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone le dichiarazioni del contadino di Avetrana non possono essere ritenute calunniose ma solo diffamatorie. È quanto si legge nelle 32 pagine delle motivazioni della sentenza di appello che ha ridimensionato la condanna a 3 anni di reclusione rimediata in primo grado. Nel corso delle indagini e del processo sull’omicidio della nipote Sarah Scazzi Michele ha fornito versioni diverse, prima autoaccusandosi con moventi diversi (dal trattore che non partiva alla violenza sul cadavere), poi accusandoli in concorso con Sabrina, poi ancora addossando tutta la responsabilità a sua figlia e infine autoaccusandosi di nuovo di tutte le fasi del delitto. Ad un certo punto ha accusato il suo legale Galoppa e la sua consulente Bruzzone di averlo indotto ad accusare Sabrina. Una versione dei fatti stridente, come viene evidenziato anche nella sentenza di secondo grado, con la cronologia delle sue versioni. Infatti, Sabrina l’aveva già tirata in ballo in concorso il 15 ottobre 2010, mentre l’incontro con Bruzzone e Galoppa insieme si tenne un carcere il 5 novembre dello stesso anno. Inoltre il 19 novembre successivo ribadì le sue accuse contro la figlia spiegando l’omicidio come un incidente avvenuto durante un “gioco del cavalluccio” fra le due ragazze. Ma a far crollare l’accusa di calunnia, secondo i giudici di appello è l’assenza del dolo: “Manca la volontà dell’imputato di accusare le parti civili – ossia Galoppa e Bruzzone costituitisi parte civile nel processo per calunnia e diffamazione – posto che nei tre gradi di giudizio sull’omicidio di Sarah Scazzi i giudici si erano espressi sempre nel senso dell’inaffidabilità di Misseri e delle plurime versioni da lui narrate”. Quindi, “la mancanza di credibilità dell’imputato si riverberava anche sulle accuse rivolte all’ex difensore e all’ex consulente”. Come sottolinea nelle motivazioni depositate giovedì il giudice estensore Luciano Cavallone (presidente del collegio Antonio Del Coco, l’altro giudice a latere Andrea Lisi), l’assenza della “benché minima coscienza di ciò che stava facendo”, ossia l’esclusione del dolo sostenuta dalla difesa, per Misseri vale solo per la calunnia e non per le imputazioni di diffamazione. La Corte d’appello ritiene “indubbia la portata diffamatoria delle accuse ai due professionisti” anche in considerazione dell’interesse mediatico verso il caso Scazzi. Per questo Misseri è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione e a versare una provvisionale di 10.000 euro, più le spese legali, a Galoppa e Bruzzone. Misseri attualmente difeso dall’avvocato Ennio Blasi di Statte, rischia un’altra condanna, questa volta per autocalunnia, a quattro anni di reclusione. Per lui come per gli altri undici imputati, fra cui Ivano Russo e altri amici di Sabrina che rispondono di falsa testimonianza, la sentenza è prevista a gennaio prossimo.
"Sabrina Misseri attrice" in un’opera teatrale: dopo l’omicidio Sarah Scazzi l’inquietante adattamento della storia. Marilyn Aghemo su Lettoquotidiano.it il 10/08/2019. Sabrina Misseri e Sarah Scazzi in un’opera teatrale che prende vita per ripercorrere tutti gli step, del famoso e crudele omicidio. Ma di cosa stiamo parlando? Il delitto di Avetrana dove i protagonisti da sempre sono Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, oggi diventa una rappresentazione per ripercorrere tutto quello che la povera vittima ha subito in quelle ore. Cosa fa Sabrina Misseri in carcere? La cugina di Sarah Scazzi si trova in carcere insieme alla madre, per scontare la pena di ergastolo per l’omicidio della giovane avvenuto il 26 agosto 2010 ad Avetrana. Da quello che emerge fa alcuni lavoretti per tenersi impegnata, studia e passa le sue giornate leggendo e sperando in un permesso premio. Sono molti, ancora oggi, i misteri controversi di questa tragica vicenda in quanto nessuno abbia mai fornito una versione chiara e lineare di cosa sia accaduto quel pomeriggio di fine estate. Sarah era una ragazzina vivace e curiosa, sempre a casa degli zii e della cugina con la quale passava la maggior parte del tempo. Tante pedine per un unico spazio che fa sfociare tante domande senza una risposta certa. Ma quello che sta facendo pensare gli utenti è una rappresentazione teatrale, che metterà in scena questo macabro delitto.
La rappresentazione teatrale dell’omicidio di Sarah Scazzi. Il 6-7-8 settembre 2019 andrà in scena “Re di Donne” al Caio Melisso di Spoleto, con la produzione firmata dal Teatro Lirico Sperimentale. Sono tante le storie che verranno messe in scena e tra queste anche quella della piccola Sarah, un femminicidio – insieme agli altri rappresentati – crudo e violento il cui registra vuole mettere in primo piano gli aspetti principali di tale vicenda che ha scosso gli italiani. Gli utenti si sono divisi in due in merito a questa questione, con polemiche da una parte e curiosità dall’altro lato. Una Sarah rappresentata da una ragazzina dalla somiglianza incredibile e alcun commento dei familiari o dei Misseri, almeno sino ad oggi.
OMICIDIO SARAH SCAZZI. ROBERTA BRUZZONE: “NESSUNO GLI HA MAI RACCONTATO COME È ANDATA”. Marco Spartà su tuttomotoriweb.com il 27/08/2019. Roberta Bruzzone, nota criminologa italiana, ha espresso il proprio parere circa il coinvolgimento di Michele Misseri nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. Per lei, l’uomo avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere. La criminologa Roberta Bruzzone, in un suo commento pubblicato sul settimanale Giallo, ha voluto rimarcare la propria convinzione circa l’esclusiva colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. La nota criminologa ha, invece, relegato ai margini della vicenda Michele Misseri, zio della vittima, nonché rispettivamente padre e marito delle due donne condannate in via definitiva per l’efferato crimine. “A mio avviso non esiste alcun dubbio, tantomeno ragionevole, sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano in relazione al delitto di Sarah Scazzi” così esordisce su Giallo la nota criminologa Roberta Bruzzone. “E ci sono – prosegue – a oggi, considerando l’intera inchiesta, almeno una trentina di magistrati che l’hanno pensata esattamente come me, compresi i giudici della Corte di Cassazione che hanno confermato entrambe le condanne all’ergastolo nel febbraio del 2017. Non ci sarà mai modo di arrivare a una conclusione diversa e nulla e nessuno potrà modificare quanto è stato sancito dai tre gradi di giudizio“. Per la criminologa non ci sono dubbi, Michele Misseri avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere della giovane Sarah nel pozzo di Nardò: “Lui non ha avuto alcun ruolo nel delitto ed è questa la principale ragione per cui Misseri non è mai riuscito a fornire una versione coerente di quanto accaduto durante l’omicidio“. La Bruzzone ha poi concluso il suo commento dicendo: “ Lui non c’era e nessuno gli ha mai raccontato fino in fondo com’è andata“. Una spiegazione logica e coerente che eliminerebbe ogni dubbio in ordine al motivo degli innumerevoli cambi di versione forniti di Michele Misseri, poi per tale ragione finito anche sotto processo per calunnia ed autocalunnia. Il contadino di Avetrana aveva, infatti, accusato il suo ex avvocato Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone di averlo indotto a chiamare in causa la figlia Sabrina che lui, in un primo momento, accusò di avere ucciso Sarah. Successivamente Misseri si autoaccusò, per poi puntare nuovamente il dito contro sua figlia, finendo per perdere ogni sorta di credibilità.
Roberta Bruzzone età, altezza, peso, vita privata e carriera: tutto sulla criminologa italiana, scritto da Marilena De Angelis IL 27 Agosto 2019 SU Urban Post. Nella puntata di oggi, 27 agosto 2019, di Io e te, programma pomeridiano di Rai 1 condotto da Pierluigi Diaco, sarà ospite la criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone. La Bruzzone è conosciuta grazie alla partecipazione a diversi programmi che si occupano di cronaca nera. Roberta è abile nel suo mestiere e ogni volta riesce a dare un quadro chiaro della situazione e della vicenda anche ai non addetti ai lavori. Ma chi è davvero Roberta Bruzzone? Quanti anni ha? È sposata? Ha dei figli? Ecco tutte le curiosità sulla sua vita privata e sulla sua carriera da criminologa.
La vita privata di Roberta Bruzzone. Roberta Bruzzone è nata a Finale Ligure il 1º luglio 1973 ed è un personaggio televisivo, opinionista e psicologa forense italiana. Ha 46 anni, è alta 168 cm e pesa circa 62 Kg. È del segno zodiacale del Cancro. Ha due fratelli gemelli. Le sue caratteristiche sono: capelli lunghi biondi e sguardo glaciale e super attento. Psicologa forense, è divenuta nota principalmente per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana. La Bruzzone, inoltre, è stata consulente anche per altri casi di cronaca nera, fra cui la strage di Erba. Ha avuto incarichi a contratto presso la Libera Università Mediterranea “Jean Monnet” di Casamassima e l’Università degli studi “Niccolò Cusano” telematica di Roma. Roberta ama la velocità e soprattutto le moto, la prima le fu regalata da sua nonna a 12 anni. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, Roberta è stata sposata dal 2011 al 2015 con Massimiliano Cristiano. Dal 2017 è sposata con Massimo Marino. La Bruzzone non ha avuto figli.
La sua carriera. Roberta Bruzzone si è fatta conoscere per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana, quando le fu affidato il ruolo di consulente della difesa di Michele Misseri. In seguito fu chiamata a testimoniare proprio contro Misseri, dichiarando che l’uomo durante un colloquio in carcere aveva accusato dell’omicidio la propria figlia Sabrina. La Bruzzone, poi, dal 2008 è ospite fissa nell’ambito delle puntate dedicate alla cronaca nera del programma di Rai 1 Porta a porta. Roberta, inoltre, è stata autrice e conduttrice della trasmissione La scena del crimine, andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56, nonché conduttrice di Donne mortali, andata in onda per tre edizioni su Real Time. Nel 2012 ha pubblicato il libro Chi è l’assassino. Diario di una criminologa, edito da Mondadori. Dal 2017 è opinionista del programma di varietà Ballando con le stelle.
Delitto Scazzi, su Google maps la ricostruzione della scena. Immortalata la Set rossa e Saetta, il cane di Sarah Scazzi. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 27 agosto 2019. Come ieri, nove anni fa, nella villetta giallo ocra con le tegole rosse di via Grazia Deledda ad Avetrana, si compiva l’omicidio che per diverse ragioni è stato annoverato tra i delitti del secolo. Tre sentenze hanno stabilito che quel giorno, era un giovedì, tra quelle mura domestiche fu strangolata Sarah Scazzi, quindici anni allora, per mano di sua zia Cosima Serrano e di sua cugina, Sabrina Misseri. Le due donne, zia e cugina della vittima, affidarono il corpo senza vita a zio Michele, marito e padre delle due assassine che si preoccupò di caricarlo sulla sua Seat rossa e lo portò in contrada Mosca dove lo gettò in un pozzo d’acqua sorgiva lasciandolo lì per 42 giorni. Ieri, 26 agosto, è stato il giorno dei ricordi. Il più realistico, da far rabbrividire, lo offre inaspettatamente Google maps che permette di tornare indietro nel tempo, esattamente a dieci mesi prima quel tragico giovedì, mostrando ciò che erano quei luoghi prima che tutto si compisse. L’obiettivo della macchina «Street View» di Google ha immortalato la Seat rossa ferma davanti al garage dove Michele Misseri, secondo la ricostruzione fatta dalla procura e poi dai giudici, trascinò l'esile corpo della nipote caricandolo nel portabagagli dell’auto che posizionò con la parte posteriore a favore del grande portone di ferro. La stessa telecamera ha catturato un altro personaggio della triste storia: Saetta, il cane meticcio che seguiva Sarah ovunque andasse. Nella foto l’animale è accucciato davanti al portoncino dell’ingresso principale dove, probabilmente, era entrata la sua padroncina. Ci sono le rose selvatiche piantate nel viale interno dove si vede il tubo dell’acqua per annaffiare, la vegetazione fitta che nasconde il pianerottolo della veranda. Tutto si trova al suo posto. Come una ricostruzione cinematografica che libera l’immaginazione, non è possibile non pensare che quell’anonimo giorno di ottobre del 2009, la piccola Sarah si era recata come faceva spessissimo a casa degli zii lasciando sulla porta il suo Saetta. E che in casa, quel giorno, c’erano tutti i protagonisti della truce vicenda: la cugina Sabrina, zia Cosima e zio Michele e, fuori, la Seat Rossa che dieci mesi dopo si sarebbe trasformata nel carro funebre della povera Sarah. A nove anni di distanza, invece, niente è più come in quelle immagini conservate nell'immenso archivio di Google. La Seat rossa sarà stata rottamata dopo il dissequestro, di Saetta non si hanno più notizie da tempo. Quella famiglia non esiste più come non esiste Sarah. Le due donne assassine stanno scontando l’ergastolo e sono rinchiuse nel carcere di Taranto dove occupano la stessa cella mentre i loro avvocati, Franco Coppi e Nicola Marseglia, hanno presentato ricorso alla Corte Europea. Zio Michele deve pagare con otto anni di carcere per aver fatto sparire il cadavere che lui stesso, 42 giorni dopo, fece trovare dopo un drammatico interrogatorio finito nella notte. La villetta dalle pareti giallo ocra e le tegole rosse c’è ancora, ma è desolatamente vuota, coperta da una assurda e fitta rete di colore verde che il contadino di Avetrana allestì quando era ancora libero per difendersi dalle visite indesiderate e dai giornalisti. Nazareno Dinoi
"Così ho nascosto il corpo di Sarah", il video-racconto di quel 26 agosto di 9 anni fa. In questo eccezionale servizio video, realizzato dal giornalista Nazareno Dinoi per La Voce di Manduria, è lo stesso Michele Misseri, due anni dopo l’omicidio, a raccontare dettagliatamente...La Voce di Manduria lunedì 26 agosto 2019. Il 26 agosto di nove anni fa, la piccola Sarah Scazzi, quindici anni, di Avetrana, fu uccisa nella villetta di Via Grazia Deledda dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano (condannate entrambe all’ergastolo, i loro avvocati hanno presentato ricorso alla Corte Europea). Secondo la sentenza, il corpo senza vita di Sarah fu affidato dalle due donne allo zio Michele Misseri, marito e padre delle assassine, che lo gettò in un pozzo in contrada “Mosca”, nelle campagne tra Avetrana e Erchie. Dopo 42 giorni zio Michele fece ritrovare il corpo. In questo eccezionale servizio video, realizzato dal giornalista Nazareno Dinoi per La Voce di Manduria due anni dopo gli eventi, è lo stesso Michele Misseri (attualmente in carcere dove sconta una pena di 8 anni) a raccontare dettagliatamente quel terribile pomeriggio quando con la sua Seat Marbella rossa portò il corpo della nipote in contrada Mosca per sopprimerlo. Nell'esclusivo documento, il contadino di Avetrana spiega con fredda lucidità, minuto per minuto, tutti i movimenti di quel terrificante atto.
Diffamazione, condannato Michele Misseri. Quotidianodipuglia.it Giovedì 28 Novembre 2019. La Corte d’appello di Taranto ha riformato la sentenza a carico di Michele Misseri, padre e marito rispettivamente di Sabrina e di Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In primo grado, tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che avevano configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone, erano stati inflitti a carico all’agricoltore di Avetrana. In appello, la Corte ha ritenuto di assolvere Misseri dal reato di calunnia nei confronti del suo ex legale e della ex consulente. Tuttavia lo ha condannato per il reato di diffamazione a carico di entrambi, infliggendogli la pena di un anno e sei mesi di reclusione. Insieme con Misseri era sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo, in primo grado condannato a una multa di ottocento euro. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbe espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. La Corte d’appello ha dichiarato il non doversi procedere a carico di Gallo, in ordine alla diffamazione della Bruzzone per assenza della querela; mentre lo ha condannato a una multa di 700 euro per aver diffamato Galoppa. Quanto all’avvocato Galoppa, la Corte d’appello ha accolto il suo ricorso ed ha condannato sia Misseri che Gallo a pagare una provvisionale di 10mila euro ciascuno a titolo di “danno morale” patito. Daniele Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina. Proprio in virtù di questo fatto, le due parti offese avevano attivato una denuncia per calunnia. Reato, questo, che il tribunale, in primo grado, aveva ritenuto integrato dalle dichiarazioni di Michele Misseri. Con questa sentenza della Corte d’appello, si chiude il secondo grado di giudizio sulla vicenda, che costituì una ulteriore appendice del maxi-procedimento aperto sull’omicidio di Sarah Scazzi. Altri procedimenti, infatti, si innestarono all’interno della maxi-indagine aperta dal pm dottor Mariano Buccoliero sulla uccisione della povera Sarah, e poi del processo in Corte d’assise in cui alcuni testi, secondo l’accusa, si macchiarono di falsa testimonianza.
Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele". Quotidianodipuglia.it Mercoledì 7 Novembre 2018. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolto dall’accusa Ilaria Cavo.
Omicidio Sarah Scazzi: «Sabrina Misseri è innocente». L'avvocato Franco Coppi confessa il suo tormento: «In carcere da innocente da oltre dieci anni». Quotidianodipuglia.it Giovedì 1 Agosto 2019. «Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre». Lo dice in un'intervista al 'Fogliò l'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri e della madre Cosima, entrambe in carcere con una condanna all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. «Ho la certezza assoluta della loro innocenza - dice Coppi - sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d'accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento». La Corte di Strasburgo, da voi adita, ha giudicato il caso ammissibile. «Attendiamo di conoscere l'esito, i tempi non sono brevi. Poi non ci resterà che sperare nella revisione del processo».
Silenzio. Parla il prof. Coppi: "Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita". Il Corriere del Giorno il 2 Agosto 2019. “La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre”. Entrambe scontano una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi”. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”. In un’intervista al quotidiano IL FOGLIO il prof. Franco Coppi, ritenuto il “principe” degli avvocati e cassazionisti italiani, è tornato a parlare del “caso Scazzi” di Avetrana. “Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d’accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”.
Sabrina Misseri e Cosima Serrano non meritavano l’ergastolo? Parla Franca Leosini. Michela Becciu il 25 Agosto 2019 su Urban Post. Caso Sarah Scazzi: Franca Leosini, regina della cronaca nera, intervistata a Fq Millennium da Peter Gomez, tra i veri temi trattati è tornata sul delitto di Avetrana, cui dedicò diverse puntate del suo celebre programma “Storie maledette”. A proposito della sua abilità nel gestire le interviste, ha detto di non avere mai avuto paura di un suo interlocutore/assassino: “Mai. C’è però stato un momento nel quale il protagonista della puntata "Aprite quella tomba", nel corso dell’intervista, ha fatto un salto e ha tentato di aggredirmi mettendomi le mani al collo. Voleva strozzarmi. Gli ho fatto una domanda scomoda e lui non l’ha sopportata. Mi saltò proprio addosso. Io rimasi impassibile. Purtroppo il regista di allora, sbagliando, staccò e invece avrebbe dovuto continuare a registrare …”.
Sabrina Misseri e Cosima Serrano non meritavano l’ergastolo? Sul caso Sarah Scazzi, a proposito delle interviste a Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, la giornalista ha pronunciato parole inequivocabili: “Per dare l’ergastolo devono esserci la premeditazione e il vilipendio del corpo”. “Intanto le sentenze si rispettano e io non dò mai giudizi e non faccio capire quello che penso, direi riuscendoci. Nel delitto Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima Serrano si sono sempre professate innocenti anche se condannate all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Uccidere quella povera creaturina di Sarah sarebbe stato delitto d’impeto, forse preterintenzionale, e manca il vilipendio del corpo perché la vittima è stata inabissata in un buco da Michele Misseri. Mancano quindi i due presupposti per l’ergastolo”.
Salvatore Parolisi: i dubbi di Franca Leosini. La Leosini ha detto la sua anche sul caso Salvatore Parolisi, condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea: “Lui si è sempre professato innocente e in primo grado con il rito abbreviato (che ti permette di evitare l’ergastolo) ha avuto trent’anni; in secondo grado diciotto perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. E’ una questione di parametri. Dobbiamo alla magistratura tanto, anzi tutto. I magistrati fanno anche una vita pericolosa, ma il libero convincimento dei giudici mi lascia perplessa, crea interrogativi ai quali non so dare risposte”.
FRANCA LEOSINI: “Cosima e Sabrina Misseri? Non c’erano presupposti per ergastolo”. Dario D'Angelo su Il Sussidiario il 10.08.2019. Franca Leosini: “Quella volta che un assassino mi mise le mani al collo per strozzarmi. Il mostro del Circeo? Sono ancora arrabbiata, mi ha ingannata”. Franca Leosini si racconta a tutto tondo nell’intervista rilasciata a Fq Millennium di Peter Gomez. In procinto di iniziare la 18esima stagione di “Storie maledette”, il programma che ha fatto di lei una vera e propria icona del giornalismo di cronaca nera, la Leosini parla di com’è cambiato il modo di raccontare il crimine:”La cronaca nera non è cambiata in meglio. (…) Te la ritrovi ovunque, a tutte le ore del giorno. Se accendi la tv, su tutte le emittenti, compresa la Rai, dalla mattina alla sera, trattano, ad esempio, la vicenda di Marco Vannini. Prendiamo questa come sinnedoche. Se ne parla ad ogni ora e lo si fa in modo inesatto. D’altronde io che ho il vantaggio di leggere gli atti processuali, diecimila pagine solo il caso di Avetrana (…) riesco ad essere precisa. Chi invece tutti i giorni deve portare la merce sulla bancarella magari dice anche tante inesattezze”. Diplomatica ma pungente… L’intervistatore chiede a Franca Leosini come mai non abbia deciso di occuparsi di delitti di Stato nei suoi tanti anni di carriera. La giornalista spiega: “Da autore ho scelto fin da subito un target preciso. I miei interlocutori sono dei non professionisti del crimine che come me e come te ad un certo punto cadono nel vuoto di una maledetta storia. Ad esempio non percorrerei mai un caso nel quale il motivo scatenante dell’atto omicida è esclusivamente economico. Mi è capitato che mi venisse chiesto di seguire quello di un industriale che fa uccidere un altro industriale per rivalità. Ma a interessarmi sono l’anima e le passioni umane. Per questo mi tengo lontana da omicidi e stragi di stato”. Su questo punto la Leosini torna anche in un altro passaggio dell’intervista: “Da tutte queste storia ho capito solo una cosa: in ognuno di noi può scattare quel clic. Siamo solo stati più fortunati, protetti dal destino. C’è come un momento particolare in cui la realtà può deformarsi. Può succedere anche a te. E’ quell’attimo in cui dici a te stesso: ‘Ora potrei veramente uccidere, commettere un gesto terribile'”. Sono tanti i casi seguiti da Franca Leosini nel corso della sua carriera. Parlando con “Millennium” ammette che uno di questi le brucia ancora per il fatto di essere stata ingannata: stiamo parlando di Angelo Izzo, il mostro del Circeo, che giusto una settimana fa le ha inviato una nuova lettera. La Leosini spiega: “La cosa che più mi fa arrabbiare, e non è facile ingannarmi, è che mi ero convinta che lui fosse davvero cambiato in carcere (Izzo nel 2004 ottenne la semilibertà ma poi uccise due donne nel 2005, ndr). (…) In altre lettere mi scriveva che aveva decine di progetti positivi per quando sarebbe uscito. Insomma, non ci sono cascata solo io, ma anche i magistrati. Quando nelle rare volte gli rispondo, gli dico: ‘ricordati che rispondo a quella parte di te in cui ho creduto’. Lui allora una volta replicò. Voglio dirle che non l’ho ingannata, perché esiste quella parte di me a cui ha creduto, ma purtroppo esiste anche quell’altra parte che quando prende sopravvento mi porta dove mi ha portato”.
Franca Leosini dice di non aver mai avuto paura di un suo interlocutore/assassino: “Mai. C’è però stato un momento nel quale il protagonista della puntata "Aprite quella tomba", nel corso dell’intervista, ha fatto un salto e ha tentato di aggredirmi mettendomi le mani al collo. Voleva strozzarmi. Gli ho fatto una domanda scomoda e lui non l’ha sopportata. Mi saltò proprio addosso. Io rimasi impassibile. Purtroppo il regista di allora, sbagliando, staccò e invece avrebbe dovuto continuare a registrare”. Uno degli ultimi casi trattati è quello di Avetrana in cui la Leosini ha intervistato Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri. La giornalista fa un’ampia premessa e si schiera contro il libero convincimento dei giudici: “Perché è vero che i crimini non sono mai sovrapponibili, non sono decalcomanie, ma ci sono dei fondamentali. Per dare l’ergastolo devono esserci la premeditazione e il vilipendio del corpo”. E qui si entra nel vivo:”Intanto le sentenze si rispettano e io non do mai giudizi e non faccio capire quello che penso, direi riuscendoci. Nel delitto Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima Serrano si sono sempre professate innocenti anche se condannate all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Uccidere quella povera creaturina di Sarah sarebbe stato delitto d’impeto, forse preterintenzionale, e manca il vilipendio del corpo perché la vittima è stata inabissata in un buco da Michele Misseri. Mancano quindi i due presupposti per l’ergastolo. Altro esempio il paragone con il caso Parolisi, paragone detto davanti ai magistrati. Lui si è sempre professato innocente e in primo grado con il rito abbreviato (che ti permette di evitare l’ergastolo) ha avuto trent’anni; in secondo grado diciotto perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. E’ una questione di parametri. Dobbiamo alla magistratura tanto, anzi tutto. I magistrati fanno anche una vita pericolosa, ma il libero convincimento dei giudici mi lascia perplessa, crea interrogativi ai quali non so dare risposte”.
Indimenticabile Avetrana. Fai.informazione.it dal 18/07/2019. Avetrana, un paese lanciato verso l’estremità del “tacco” dell’Italia, come chiamavano la Puglia una volta, al nord; ché poi, di logica, si sarebbe dovuto pensare alla Calabria come punta, ma si traslava la metafora, e tutto il sud era “quelli del tacco”. Una provincia baciata dal dolce Ionio, circondata da piane a perdita d’occhio, assolate, coltivate, punteggiate da pozzi non censiti, che forse solo i proprietari conoscono. Taranto è lontana con i suoi problemi. Si parlano dialetti curiosi, qualcuno dice messapici, contaminati dal salentino, appena parente del tarantino: quando gli abitanti si esprimono in italiano, molti li scambiano per siciliani, chissà perché. La Puglia è la regione meno sudista del mezzogiorno, si dice. Non che siano mancate le storiche emigrazioni, né una organizzazione malavitosa di tutto rispetto come la Sacra Corona Unita; tuttavia non si sono formate cosche o archetipi come, per esempio, per i siculi o i napoletani, parodiati tanto spesso nei film. La regione sconta il problema della scarsità d’acqua, ma è risultata sempre produttiva nel campo agricolo, della pesca, e del turismo di varia natura, come quello religioso nell’area di Monterotondo, patria adottiva di Padre Pio, polo mistico e medico per i devoti. Lontani culturalmente dal “settentrione” foggiano e barese, i pugliesi meridionali vantano altri blasoni, come la barocca Lecce e la sua fama di città dove si parlerebbe l’italiano con l’accento ideale.
Sarah Scazzi non nacque, però, in questa terra, ma in Lombardia, durante una trasferta della madre in visita al papà Giacomo, colà emigrato; la bambina tornò al sud verso i sette anni. Un colibrì, minuta, diafana, la quindicenne sparì il 26 agosto 2010, con il popolo ancora distratto dall’ultima coda delle vacanze. Forse, come tante coetanee, il paese le stava stretto: dicono sognasse di fare la barista in qualche città o all’estero, e intanto studiava all’istituto alberghiero. Che succede, dal 26 agosto al momento in cui il corpo della ragazzina verrà ritrovato? Lo abbiamo ascoltato mille volte e in varie salse. Analizzeremo i protagonisti della storia e gli aspetti del crimine e della storia processuale che più ci hanno colpito. Le fonti sono mediatiche.
Concetta Serrano Spagnolo. La mamma di Sarah ha due cognomi perché adottata dagli zii. Poco aveva frequentato i veri genitori, era una ragazza di famiglia, che un giorno incontra Giacomo Scazzi e lo sposa. Ma Giacomo partirà per lavoro dopo la nascita del primogenito Claudio e Concetta, divenuta Testimone di Geova, resterà in compagnia della sua nuova religione e degli altri fedeli: ciò che, secondo molti, la renderà forte e poco incline a piegarsi al dolore dopo il dramma, convinta della prossima riunificazione con le anime dei defunti. L'abbiamo conosciuta sempre bella, dalla fiammeggiante chioma, sobria, ma incisiva nell'eloquio. Inviterà da subito a indagare sul nucleo familiare, se stessa compresa; apprenderà la sorte della figlia in modo fumoso e scoordinato, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”.
Sarah, la vittima. Quando ancora si pensa a una fuga e non alla tragedia, in attesa di sviluppi, Concetta ci mostra la stanza della fanciulla, emula di Avril Lavigne, di cui tiene i poster in camera; spuntano dei video della sua ultima gita a Roma con la cugina/sorella Sabrina, di una festicciola dove l’adolescente sorride e punta il dito verso la telecamera, o di lei che guarda come si fa una messa in piega, magari pensando, in alternativa, a una carriera da hair stylist. La madre spiega il tipo di educazione che impartisce: niente computer, per esempio. Tuttavia ci viene svelato che Sarah va a chattare in casa di amiche e, per qualche giorno, si puntano i fari su un fornaio di diversi anni più grande, che si giustifica affannosamente: appena saputa la vera età dell’interlocutrice, aveva cessato i rapporti, peraltro rimasti rigorosamente virtuali. Concetta è contraria anche alle feste, a suo dire ormai solo espedienti per attività inappropriate, ma nulla può per frenare Sarah, sola come si ritrova nel fronteggiarne i primi ansiti di ribellione; la definisce tremenda, permalosa, un po’ eccentrica, ritratto che emerge anche dai resoconti sulla condotta scolastica. Forse a quindici anni è normale essere irrequieti ma, se davvero la donna intendeva imporre a Sarah una condotta a briglie più tirate, perché la faceva praticamente vivere in casa degli zii e in compagnia delle cugine? Laggiù, l’atmosfera pareva essere più adattata ai “tempi moderni” e Concetta non poteva ignorare che la compagnia di ultraventenni comportava delle conseguenze, rischiando di farle perdere il controllo sulla ragazzina. Tuttavia Concetta ha sempre riferito di sentirsi tranquilla, perché aveva fiducia in Sabrina Misseri, unica “mentore” di Sarah, dopo il matrimonio della sorella Valentina.
Giacomo Scazzi. Il papà di Sarah fa una curiosa impressione, con le sue palesi difficoltà espressive, mentre la moglie ha evidentemente compiuto un percorso evolutivo; intervistato con difficoltà, in qualche modo afferma che, anche se abita in Lombardia, ciò non significa che sia separato da Concetta. Lo si vedrà poco, a parte in qualche udienza. I media hanno fatto trapelare che Giacomo avesse la fama di correre dietro alle gonne, in modo anche un po’ invasivo. La sorella Cosima, nelle sue dichiarazioni spontanee alla Corte, affermerà che la loro famiglia non si è mai permessa di parlare male di Giacomo alla figlioletta, lasciando intendere che il resto del paese, invece, sussurrava cattiverie al riguardo. Sul punto, mamma Concetta avrebbe sostanzialmente risposto a Sarah in lacrime, toccata da questi pettegolezzi, che le doveva interessare solo il comportamento di Giacomo come padre e di non ascoltare il chiacchiericcio.
Claudio Scazzi. Il giovane, precocemente calvo e dall’aspetto “urban”, residente a San Vittore Olona, dove ha seguito il padre, è solito scendere al paese per una ventina di giorni ad agosto ed è già ripartito quando Sarah scompare. Simile alla madre nella parlata sciolta e di acute osservazioni, dopo la disgrazia allestirà una piccola mostra incentrata sull’amore della sorellina per gli animali, affermando, alla fine, che di lei non parlerà più.
Michele Misseri. Emigra con la moglie in Germania circa nel 1979, dopo le nozze: una vita di sacrifici, una attitudine al lavoro mai messa in dubbio, forse un po’ succube della consorte, fama di puritano, anche un po’ timido. Dopo le note vicende viene dipinto come una sorta di Pacciani del sud, un primordiale contadino frustrato e incline ai raptus: pregiudizio di classe che si infila sempre nelle cronache criminali provinciali e rurali. L’unica immagine serena di lui che abbiamo visionato lo ritrae, elegante come tutti, al matrimonio della primogenita Valentina, mentre, fiero, la accompagna all’altare. Nello stesso video compare fugacemente Sarah, di rosso vestita. Serpeggia, da alcuni anni, un’ atroce diceria secondo cui il padre di Michele fosse violento, anche sessualmente, in famiglia.
Cosima Serrano in Misseri. Da ragazza molto somigliante a Sarah, precocemente invecchiata per la fatica e – detto a Franca Leosini – perché “ non voglio essere schiava della tinta” ( una frecciata a Concetta?), ci spiega che la loro famiglia è sempre stata normalissima; che tra lei e Michele erano corse incomprensioni negli ultimi tempi, come succede in molti nuclei familiari; di essere stata una madre di larghe vedute, e per nulla legata a costumi ancestrali visto che, d’altronde, la realtà odierna obbliga ad adeguarsi e – sempre da Leosini - fa l’esempio del gran numero di ragazze madri ad Avetrana: piccola rivalsa di una donna fatta oggetto di insulti, sputi, e invocazioni al linciaggio da parte di una folla di compaesani, al momento dell’arresto. I leoni da tastiera avevano lasciato per un momento la postazione, per dar vita ad una scena rivoltante, che fa il paio con il turismo dell’orrore scatenatosi in particolare attorno a questo delitto. Cosima ribadisce lo smisurato affetto per la nipotina scomparsa, da sempre considerata una terza figlia e praticamente da lei cresciuta.
Sabrina Misseri. Ventiduenne al tempo, estetista con cabina in casa, viene descritta come “cocca di papà”. Pensiamo se non lo fosse stata, cosa di peggio le sarebbe accaduto…Propensa a confidarsi con tutti, pagherà cara la sua sete di comunicazione. La giovane appare molto legata alla “comitiva” di amici, protettiva verso Sarah, probabilmente talora anche un po’ aggravata dalla responsabilità di averla sempre appresso; unica in famiglia, non aveva la patente, particolare che più avanti assumerà un suo rilievo. Provocata dalla Leosini, risponde che non intende aderire alla religione dia zia Concetta, la quale l’ha invitata a convertirsi per espiazione, e si rammarica che la mamma di Sarah possa ancora considerare colpevoli lei stessa e Cosima; anche se, come si vedrà, forse nel tempo le circostanze hanno portato Concetta ad altre considerazioni.
Ivano Russo. Il bello del paese, si è detto spesso: un brunetto dallo sguardo intenso e, osservando le famose foto con le cugine, dalla gradita villosità. Ventisette anni all’epoca dei fatti e, si immagina, alquanto conteso da nutrita compagnia femminile, in effetti viene attratto nell’orbita di Sabrina Misseri, una ragazza che ha sempre ammesso di sentirsi complessata per un eccesso di peso e di peluria. Fatto “il colpaccio” di agganciare Ivano, iniziano i problemi.
In questa storia la fanno da padrone gli sms, predecessori dei whatsapp, ovvero i messaggini, che i giovani di oggi ( e non solo loro) si scambiano a raffica: ricostruirli, nel fatto di specie e considerando alcune cancellazioni a opera degli interessati, intorbidirà la ricostruzione, già di per sé problematica, degli eventi. Tuttavia l’episodio che più interessa è il famoso “rapporto mancato” del 21 giugno 2010 tra Ivano e Sabrina, su cui Franca Leosini infierirà con apprezzamenti sarcastici. In effetti non è ancora chiaro se il coniugio carnale, appena iniziato, fosse stato interrotto perché, all’ultimo secondo, Sabrina aveva ammesso di non assumere o portare anticoncezionali e lui non aveva dietro un preservativo, o per il timore del ragazzo che la partner potesse illudersi di avviare, con l’atto sessuale completo, una storia seria. Sabrina ha sempre disperatamente ribadito di non aver mai pronunciato la parola “amore”, e sfidato chiunque a trovarla in una delle migliaia di messaggi da lei scritti a Ivano stesso o ad altri, Né, in effetti, i testimoni anche più maliziosi hanno mai potuto affermarlo. La Misseri ha sempre parlato di attrazione fisica. C’è però un altro aspetto che investe prepotentemente Ivano, anche solo di riflesso: Sarah era innamorata di lui? E lui, che sponda le offriva? Che la adolescente avesse preso la sua prima vera cotta per Ivano è normale: in qualità di chaperon della cugina, stava spesso in sua compagnia, ne ascoltava gli sfoghi; Ivano era belloccio e di esperienza, vista l’età; ma che lui abbia potuto anche solo farle balenare un feed back, tendiamo a escluderlo, qualunque cosa la giovinetta avesse scritto nel suo famoso diario che, ricordiamolo, da giovani rappresenta l’amico immaginario, il libro dei sogni, il “muro del pianto” (e delle malignità inespresse) delle menti acerbe e degli ormoni in rivolta. Piuttosto, ci chiediamo se Ivano frequentasse con la stessa intensità altre ragazze, con foto di pomeriggi lieti e grande cameratismo. Se l’ha fatto, non sono uscite prove materiali; se invece prediligeva la compagnia delle cuginette diverse, ha scherzato davvero col fuoco, in un paesone di gole profonde.
Dopo i protagonisti, si passa ai comprimari che, talora, finiscono per assumere un rilievo smisurato a seconda della “sceneggiatura”. Maria Ecaterina Pantir. Badante rumena dello zio/padre di Concetta (l’uomo, che viveva con la figlia/nipote, morirà nel settembre successivo alla scomparsa di Sarah). La governante, proprio in agosto, aveva ricevuto la visita del fratello e pare che costui avesse anche dato una mano in lavoretti di riparazione e manutenzione. Subito nel mirino, il Pantir viene scagionato perché già ripartito prima della sparizione di Sarah, ma le Misseri vi avevano alluso, dunque Maria Ecaterina andrà ad aggiungersi alle parti civili contro di loro. E fosse solo questo. Dirà qualcosa di determinante per l’accusa, come vedremo: vendetta?
Mariangela Spagnoletti. Amica intima di Sabrina, molto coinvolta nel suo giro di “vasche” serali, e giri per pub e birrerie, è sulla scena dei fatti, unica estranea al nucleo familiare, nell’arco di tempo fatale.
Anna Pisanò. Altrimenti detta “supertestimone”. Nelle cronache criminali, se ne trova spesso uno, che riferisce molte impressioni non avvalorate e pochi fatti: sembra questo il caso. Testimone di Geova come Concetta, non si rivela altrettanto riservata, come da dettami del culto.
Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe sognato la scena del ratto di Sarah da parte di Cosima, per strada; sua dipendente era la figlia della Pisanò, Vanessa Cerra.
Alessio Pisello, amico di Sabrina, molto attivo nelle ricerche subito dopo la scomparsa di Sarah.
Valentina Misseri. Sorella maggiore di Sabrina, fresca sposa al momento della disgrazia, in quei giorni si trovava a Roma, dove abita. Ha sempre sostenuto che, per sfortuna si fosse trovata ad Avetrana, sarebbe finita in carcere anche lei. Ha spiegato accuratamente che la logistica di casa Misseri escludeva una dinamica come quella descritta in sentenza.
I fatti
Sarebbe quantomeno consolante poter riferire di un crimine in termini di certezze, almeno in percentuale accettabile. Sarà che le vite sono complicate e il loro racconto le riflette, quando non le deforma; che la pistola fumante è rara; che i testimoni a volte si esaltano per il momento di celebrità: vuoi per questo, che per altro, la sentenza non ha offerto evidenze schiaccianti.
Interpelliamo per primo Claudio Scazzi, il quale ci fa sagacemente notare l’assurdità del ritrovamento del telefonino di Sarah ( in parte bruciato e privo di Sim) nei pressi del pozzo dove l’hanno gettata: perché non disfarsi di un oggetto incriminante? Dove era stato fino a quel momento? Dal 26 agosto fatidico alla “confessione” di zio Michele, che fece rinvenire il cadavere il 6 ottobre, nessuno si è preoccupato di perlustrare le proprietà dei Misseri, a iniziare dal villino di abitazione con annesso il fatidico garage o le campagne dove erano soliti lavorare, né di setacciare un territorio che, pur vasto, presenta il vantaggio di snodarsi in pianura, senza fratte o pendii, né tantomeno di valutare la presenza dei pozzi? Ce n’erano molti, si è detto. Vero: ma qui si parla dei terreni di una sola famiglia e non dovevano essere sterminati: alberi da frutto, pomodori, fagiolini, queste le principali colture cui si dedicavano Michele e Cosima, e lì si doveva andare insieme a loro, battendoli metro a metro. Concetta stessa aveva già direzionato le indagini verso l’ambito familiare, dunque…Claudio però è attenzionato dai media abbastanza da far sorgere delle domande, alcune forse un po’ oziose, altre ancora senza risposta. Qualcuno osserva che, saputo della scomparsa della sorella, il giovane non si è subito precipitato ad Avetrana per aiutare nelle ricerche: ma è ipotizzabile che, appena rientrato al lavoro, contasse su ( e sperasse in) una soluzione meno tragica, magari un rientro dopo una scappatella, pronto a dare una mano in ogni caso. Più interessanti, invece, appaiono le riflessioni sul suo ruolo nella cerchia in cui erano coinvolti i giovani parenti, sorellina compresa. Sceso per le ferie di rito, anziché godersi il riposo e il divertimento, egli si infila subito nel chiacchericcio più hard (Sabrina dirà di lui “ Claudio non si fa mai i fatti suoi”). Se il teorema accusatorio si basa da una parte sulla feroce gelosia di Sabrina verso Sarah a causa di Ivano, è pur vero che esso è stato puntellato dall’idea che la piccola Scazzi avesse parlato in giro sul “due di picche” che Sabrina si era presa da Ivano in procinto di far l’amore, ma non sarebbe andata proprio così. In realtà la giovinetta ne avrebbe accennato in casa, Claudio aveva saputo ed era andato, in un certo senso, a “sfottere” Russo sull’incidente erotico. Quindi non era Sarah la “colpevole” di aver diffuso il “pastiche”: giovanissima, non “si teneva” niente e si era confidata con il fratellone che per poco ancora avrebbe avuto vicino. La stessa Sabrina, poi, avrebbe avuto di che riflettere sulla sua propensione a raccontarsi senza freni. In ogni caso, notiamo che l’accusa ha un piano A e un piano B, due moventi intercambiabili o integrabili.
Sentiamo Concetta: molto presto si dichiara convinta della colpevolezza di Cosima e Sabrina. Addirittura, seguendo, a suo dire, le confidenze di un’altra sorella, avrebbe affermato - “Mia sorella Emma mi parlò di una corda che aveva visto in bocca a un cane e le era sembrato strano, era come se il cane le volesse indicare qualcosa e mi disse di parlarne con i giornalisti. Dopo l'arresto di Sabrina, Emma non si è più fatta vedere". Bari.repubblica.it. - Insomma, questa Emma Serrano prima appare solidale con Concetta, poi parrebbe prendere le distanze e schierarsi con Cosima. Ma che significa una corda in bocca a un cane che “ le indica” qualcosa? Qui si inizia a scivolare nell’immaginazione, magari dopo aver appreso che l’accusa non parla più di omicidio a mezzo corda (come da autopsia), ma mediante una cintura. Torniamo a Concetta che, in uno speciale dedicato al caso su TV 9, siamo ormai nel 2018, all’ascolto dell’interrogatorio di Mariangela Spagnoletti, trova che il PM sia pressante e la ragazza “pilotata”.
Ivano Russo che ne dice? Sfiorato dai sospetti, ha l’alibi della madre, anche se i due fanno un po’ di confusione sugli orari; qualche sms, vivisezionato dagli inquirenti, potrebbe adombrare delle discrepanze, ma, a parte l’imbarazzante deposizione in aula sulla famigerata “ notte del rifiuto”, il ragazzo non viene più disturbato fino ai giorni nostri. Purtroppo il suo nuovo sodalizio sentimentale, da cui è nato un figlio, si rompe con strascichi astiosi e la sua ex, Virginia Coppola, avrebbe dichiarato che di quel 26 agosto Ivano non ha raccontato tutto, che era uscito nelle ore incriminate. La donna viene catalogata come ex vendicativa e il capitolo Ivano potrebbe chiudersi un’altra volta. Forse, vedremo.
Cosa dunque sarebbe accaduto, quel giorno? Scremate le divagazioni di zio Michele, quando ormai la Procura è concentrata su moglie e figlia, apprendiamo che la versione definitiva disegna una certa scena, ovvero: Sarah esce di casa alle quattordici, arriva dai Misseri, dove Michele se ne sta da qualche parte, ma non è chiaro dove ( la teoria del trattore che lo ha fatto infuriare è svanita e con essa anche la sua esatta posizione in quel frangente); si scatena una lite furiosa tra le due padrone di casa e la povera Sarah ( motivo, la gelosia o la spiata su Sabrina e Ivano?); la ragazzina, quaranta chili di leggerezza e gioventù, scappa lesta, ma le due Misseri prendono l’auto; Cosima (peso oltre i cento chili, in piedi dalle tre e mezzo di notte dopo una giornata passata nei campi) guida a tutto gas, la raggiunge, esce dall’auto, la rincorre, la afferra senza che alcuno senta nulla, la riporta a casa, dove, in qualche maniera, con una cintura, la povera quindicenne viene strangolata a quattro mani. A quel punto, non si sa bene come (su eventuali risultanze di tabulati in merito ci hanno lasciato a bocca asciutta), vengono chiamati i rinforzi, ovvero zio Michele, suo fratello Carmine e suo nipote Cosimo Cosma: i tre, senza fare una piega, né essere visti da qualcuno, arrivano come fulmini, si infila il corpo nel bagagliaio della Panda di Michele e via, tutti, a disfarsi del cadavere nel famoso pozzo di contrada Mosca. Poi, si suppone, ognuno sarebbe tornato tranquillo a casa propria, perché……perché la Spagnoletti, arrivata per la gita al mare, circa tra le quattordici e trenta e le quattordici e quarantacinque, non ha visto nessuno, non cita terzi, non si accorge di alcuna agitazione.
Come si è arrivati a questo finale. Sulle prime, le dichiarazioni di Michele venivano prese sul serio, perfino l’assurda idea di uno stupro post mortem sul corpo di Sarah: non che non siano esistiti tristi figuri capaci di atti simili, ma si doveva quantomeno attendere l’autopsia, che infatti proverà l’inequivocabile verginità della giovane defunta (Cosima, ancora libera mentre va a trovare il marito in carcere, glielo obietta, durante una intercettazione ambientale); dopo aver verificato l’inattendibilità dello zio più famoso d’Italia, gli si offre, tuttavia, ancora abbastanza credito da seguire la sua lenta svolta verso le congiunte: ora diventa un incidente casalingo. Ossia, Sabrina e Sarah, mostrando un intelligenza vicina al minimo sindacale, avrebbero giocato a cavalluccio: con la Scazzi sopra, si sarebbe pensato. No, Sarah faceva il cavallo e Sabrina, di tripla consistenza, il cavaliere, che con una improvvisata briglia (la cintura, che ora fa capolino?) per sbaglio l’avrebbe strozzata (casomai, fosse mai stato vero, Sarah avrebbe rischiato sì, grosso, ma per il peso della cugina sul suo esile corpicino…). Altra giravolta di Michele: non giocavano, ma hanno litigato. Come lo sa? Si è visto arrivare in garage Cosima e Sabrina, cadavere in braccio, transitate per un passaggio interno, sempre chiuso ermeticamente fino a quella data, e in pochi secondi avrebbe dato il via alla congiura per l’occultamento. DNA di Sarah? Nemmeno un po’.
Perplessità. La rincorsa di Cosima è attestata dal famoso sogno/visione/percezione del fioraio Giovanni Buccolieri, sul modello di quanto avviene nella cultura degli indios, che considerano i sogni realtà. L’uomo non avrebbe avuto di meglio da fare che dirlo alla sua dipendente Vanessa Cerra, che ovviamente sarebbe andata subito a “sbrodolare” la succosa confidenza alla madre Anna Pisanò. Buccolieri però, a breve, ritratta tutto; in questo caso non viene creduto, e si becca una condanna a due anni e otto mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma non tornerà indietro: non era vero niente, era solo una sua ipotesi, nel mare di supposizioni paesane che si incrociavano in quei giorni. Anna Pisanò, a sua volta, non è stata certo lineare. Prima ha parlato di certi operai che stavano ristrutturando un edificio scolastico e fischiavano alle donne (anche a lei, precisa), quasi alludendo alla possibilità che tra loro si dovesse indagare; poi sterza di brutto, parlando della tristezza di Sarah la sera del 25 agosto, e di un suo malumore anche il 26, giorno in cui, vedi caso, la Pisanò si sottopose a trattamenti estetici da Sabrina (e Sarah era sempre lì), notando il suo pallore, le lacrime trattenute, perché bistrattata da Sabrina. In realtà l’umore altalenante dei giovanissimi è la regola e se la Pisanò la sera non era al pub, quindi parlerebbe de relato, il 26 nessuno oltre lei notò Sarah corrucciata. Le amiche di Sabrina picchiano duro sulla infatuazione di Sabrina per Ivano, ma quanto a Sarah, ne riferiscono in modo non significativo: ogni giorno tra giovani, specie giovani donne e ragazzine, si litiga e si fa pace. L’indomani Sarah in mattinata era già dalla cugina, andò a comprare un prodotto in profumeria per lei, ed era vestita di nero; dopo mangiato, entusiasta alla prospettiva di andare al mare, provocando anche un po’ di disappunto in Concetta, mise il costume da bagno e si cambiò, indossando la famosa maglietta rosa come testimoniato anche da Concetta……ma no. Un manutentore, che l’avrebbe notata per strada, parla di lei vestita di nero nel primo pomeriggio, e le parole di Concetta passano in secondo piano. Né conteranno di più riguardo all’orario: Concetta ha sempre sostenuto che sua figlia era uscita alle quattordici e trenta, ma sul punto verrà ritenuta più affidabile la badante Maria Pantìr, che è fissata con l’uscita alle quattordici. Né varrà più che tanto la testimonianza dei due fidanzati di passaggio, che hanno notato Sarah camminare sul marciapiede e propendono anch’essi per le quattordici e trenta. E perché mai, nel correre dietro a Sarah, si sarebbe impegnata la stanca e pesante Cosima, unica a saper guidare, lasciando in auto l’imperturbabile Sabrina, mentre sarebbe stato del tutto logico che la più giovane si mettesse alla rincorsa e la patentata Cosima aspettasse in auto col motore acceso, pronta a ripartire? Nel giro di circa venti minuti dunque Sabrina avrebbe: ucciso Sarah insieme alla madre, chiamato rinforzi per farla scomparire, mandato messaggi al telefonino della cugina e con lo stesso dispositivo, ora in suo possesso, risposto con uno squillo per far credere che la poveretta fosse ancora viva; inoltre, scambiato altri messaggi con una cliente che nel frattempo l’aveva contattata, per poi scendere in strada dove l’attendeva la Spagnoletti, fingere preoccupazione e dirottare tutti verso casa Scazzi, mentre Michele, incorporeo, si dileguava con la salma in auto. Sembrerebbe una macchinazione davvero fortunata, per un delitto d’impeto, che si suppone lasci l’assassino un minimo sconvolto e poco lucido nell’immediatezza: ci vogliono sempre alcuni minuti per decidere sul da farsi, tempo a disposizione e un luogo non frequentato o isolato.
In questa sede non è il caso di aggiungere altro, che già non si sappia, a parte considerare gli ultimi sussurri al riguardo – “ …intercettato, Ivano dialoga con un amico, Alessio Pisello, e pronuncia una frase inquietante: «Qualcuno di noi ha parlato». Parlato di che cosa? Nella villetta al mare c’è forse un segreto da nascondere? Anche il 29 novembre, sempre intercettati, Ivano e i suoi amici discutono animatamente di quanto dovranno dire agli inquirenti, di che cosa vada corretto e di che cosa andrebbe nascosto” Panorama.it 27 novembre 2018 – Esisteva, in effetti, questa villetta, di proprietà del nonno di Sarah, e pare che su certe feste che vi si svolgevano nessuno abbia raccontato la verità: Sarah c’era o no? Circolava droga? La ragazzina aveva visto qualcosa? Per ora, è tutto: ergastolo per Cosima e Sabrina, otto anni per Michele, che ha ripreso a dichiararsi colpevole ed è stato anche condannato per la diffamazione nei confronti del suo primo avvocato Daniele Galoppa e la consulente Roberta Bruzzone, che a suo dire lo avrebbero convinto ad accusare la figlia, in quanto rassicurato sul fatto che le avrebbero dato solo un paio d’anni di carcere….Se solo Sabrina non fosse stata sentita da tutti, nei convulsi momenti in cui Sarah non arrivava, mentre proclamava sicura “ l’hanno presa, l’hanno presa”, forse non avrebbe attirato su di sé quell’attenzione che i suoi detrattori, vedendola così spesso in televisione, hanno bollato impietosamente, additandola quale ovvia pertinenza caratteriale di un’assassina narcisista; se solo Cosima non avesse spintonato il marito dietro la porta del garage, per indurlo a non dire pericolose scemenze dinanzi ai giornalisti, gesto interpretato come volontà di insabbiare la verità…se, se solo Sarah fosse ancora qui. Maria Lucia Monticelli, la giornalista che seguiva la vicenda per “Chi l’ha visto” ci regala a sua volta una visione: prima del ritrovamento del corpo aveva sognato la ragazzina che la avvolgeva in un abbraccio “dolente”: così aveva intuito che lei non c’era più. Se fosse stato tutto un brutto sogno.
Carmine Misseri vuole lasciare il carcere. Carmine Misseri, lo zio acquisito di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannato anche lui per...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 07 agosto 2019. Carmine Misseri, lo zio acquisito di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannato anche lui per soppressione di cadavere in concorso con il fratello Michele, vuole lasciare il carcere e trasformare la pena detentiva con l’affidamento ai servizi sociali. Ma per i giudici è ancora presto. Non solo per quelli del Tribunale d sorveglianza di Lecce che hanno respinto la prima richiesta, ma anche per gli ermellini della Corte di Cassazione che hanno rigettato il ricorso. Il fratello del principale protagonista della triste vicenda di Avetrana, che secondo i tre gradi di giudizio il 26 agosto del 2010 lo ha aiutato a nascondere il corpo della nipote in un pozzo in contrada «Mosca», sta scontando nel carcere di Lecce, dal 21 febbraio 2017, una condanna di quattro anni e undici mesi di detenzione. In primo grado i giudici gli avevano assegnato sei anni. Rendendo inammissibile il ricorso, i giudici della suprema corte hanno avvalorato le argomentazioni dei giudici leccesi che ritengono prematura la misura alternativa. Intanto per la natura e gravità dei reati per i quali è stato condannato, ma anche per non aver mai ammesso la propria colpevolezza. La difesa di Carmine Misseri sosteneva invece che per usufruire della messa in prova anticipata non fosse necessaria la confessione «avendo il condannato il diritto di non ammettere le proprie responsabilità». Misseri, tra l’altro, si è sempre dichiarato estraneo all’imputazione di soppressione di cadavere «pur accettando e rispettando la decisione emessa nei suoi confronti». A dar forza alla tesi dei giudici ha concorso anche il parere contenuto in una nota del commissariato di polizia che ad un parere richiesto aveva sollevato dubbi per la presunta pericolosità sociale dell’individuo. Anche la direzione del penitenziario di Lecce dove è detenuto si era espressa non favorevolmente all’anticipato affidamento ai servizi sociali ritenendo utile, prima, sperimentare un ciclo di permessi premio di cui Carmine non ha ancora mai goduto. «Anche in ragione della non vicina scadenza della pena – si legge nella relazione del servizio penitenziario -, sia indispensabile un approfondimento dell’osservazione scientifica della personalità del condannato, all’esito della quale, in un’ottica di gradualità nella concessione dei benefici penitenziari, sperimentare, per un congruo periodo, banco di prova per l’ammissione ad una misura alternativa così ampia quale quella invocata in questa sede dall’interessato».
A poco è servita per il momento la buona condotta del detenuto che ha sempre sostenuto la sua innocenza accusando il fratello Michele di averlo coinvolto nella brutta storia con la telefonata fatta nel momento in cui trasportava il corpo di Sarah Scazzi per sopprimerlo. Secondo la sentenza, con quella chiamata i due fratelli si diedero appuntamento in contrada Mosca dove avrebbero trovato il pozzo in cui gettarono il cadavere. Carmine Misseri ha invece sempre sostenuto che in quella breve conversazione il fratello gli raccomandava di dire una bugia alla moglie nel caso lo avesse chiamato per chiedere dove si trovasse il marito. (Famosa la storia: «se chiama Cosima dì che sono scappati i cavalli»). Nazareno Dinoi
· La sensitiva Rosemary Laboragine.
“Generali è nel lago” Rose lo aveva detto. Dilei.it il 20 maggio 2019. Intervista alla sensitiva Rosemary Laboragine, impegnata nella ricerca di persone scomparse. Il pomeriggio dell’8 novembre 2010 hanno ritrovato in fondo al lago dell’Enel di Pavana il corpo di Carlo Generali, l’imprenditore titolare del marchio Carla G di cui si erano perse le tracce dalla notte tra giovedì e venerdì. In mattinata la sensitiva Rosemary Laboragine, in una lunga chiacchierata, ci aveva detto che l’uomo era morto e si trovava in profondità, dentro l’acqua. Divenuta famosa alle cronache per avere aiutato a risolvere il caso di Melania La Mantia, la paracadutista annegata a febbraio, Rosemary Laboragine ha iniziato ad avere i suoi flash a due anni e mezzo quando predisse la morte della nonna e negli ultimi tempi aveva anticipato l’esito del caso Sarah Scazzi. Ma il suo unico obiettivo divita, ci ribadisce più volte, è aiutare a ritrovare le tante persone scomparse di cui si occupa. Come Denise Pipitone e Angela Celentano, che sono vive e torneranno.
Anche per Carlo Generali un’altra visione azzeccata.
«Sì, io l’avevo detto che aveva avuto un incidente, dovuto a un malore. Per me quell’uomo non ha nemmeno toccato i freni, nei miei flash lo vedevo incastrato in profondità, in mezzo a fango, acqua. Ho detto da subito che non si trattava di rapimento».
Come avvengono i suoi flash?
«Se ho la persona davanti, non la guardo negli occhi ma le prendo la mano se è al telefono sento la voce e guardo altrove: un muro bianco può darmi un viso o un nome. Nel caso di Petriti, per esempio, la donna scomparsa a Torino trovata murata nella casa dell’ex amante del marito, vedevo il nome Andrea, che è quello di uno degli arrestati. Quando mi chiedono di analizzare un caso posso avere un flash immediato oppure dopo 3, 4 giorni. Sull’imprenditore Generali guardavo la televisione e ho detto: “Entro domani (8novembre, ndr) lo trovano”. Vedevo una grossa automobile, vedevo che andava veloce e che aveva avuto un offuscamento alla vista. Ho visto anche una cosa che non so se la sua famiglia sapeva: quest’uomo un paio di giorni prima aveva avuto qualche sintomo, soffriva di pressione alta e non so se l’ha rivelato ai famigliari. Un piccolo malore che ha preso sottogamba. Aveva problemi fisici e con i suoi impegni di lavoro li ha sottovalutati».
Quando ha capito di avere questo “dono”?
«Il primo flash l’ho avuto a 3 anni. Mia nonna ne aveva 45, mio nonno 49. Vivevamo insieme, eravamo in cucina, mi sono alzata ho abbassato la persiana salendo sulla sedia, perché ero davvero piccolina, e ho detto: “Muore la nonna”. Si sono messi a ridere, mezz’ora dopo si è accasciata per un infarto. Dopo qualche giorno ho detto a mia mamma: “Voglio andare via col treno, muore il nonno”. E così è stato. Poi fino a 16 anni non ne ho più avute. Mia mamma non mi ha mai detto nulla, ma in paese lo sapevano tutti. A 16 anni ero seduta sui gradini di casa e vedo passare un vicino che sta partendo in Vespa. Corro e cerco di fermarlo. Lui non mi ascolta, dopo un quarto d’ora ha avuto un malore e si è piantato un freno in gola. A quel punto mia mamma mi ha raccontato quello che era successo quando ero piccola, riportato anche sul Gazzettino locale. Da allora i miei flash sono continuati».
Anche per Sarah Scazzi aveva avuto dei flash veritieri: vedeva acqua, prima ancora che la ritrovassero, su confessione dello zio, nel pozzo.
«Sì, pensi che Misseri lo presero di mercoledì e io avevo registrato una puntata di Pomeriggio sul 2 che non mandarono in onda per rispetto della madre in cui dicevo che la vedevo morta, in posizione fetale, con acqua intorno. Vedevo anche qualcuno che lei conosceva, un uomo, ma non riuscivo a identificarlo. Poi l’ho visto, era Michele».
Come?
«Il venerdì prima che lo prendessero e confessasse vado al ristorante, guardo un quadro e vedo la sua faccia e dico al mio compagno: “È stato lui, è lo zio”. Torno a casa e comincio a mandare mail a giornalisti, è tutto registrato. Il mercoledì guardo Chi l’ha visto e scopro in diretta del suo arresto. Se solo mi avessero ascoltata! Una sola cosa mi ha frenata dal chiamare la mamma di Sarah per dirglielo, una sua frase…»
Quale?
«“Di tutti sospetto fuorché di mio cognato”. E lì ho pensato: se chiamo io, da perfetta sconosciuta, mi manda a stendere».
Aveva anche predetto il coinvolgimento di Sabrina.
«Sì, avevo detto anche che Misseri non aveva fatto tutto da solo, che vicino a lui c’era una donna complice, della famiglia. Feci una intervista fatta per Matrix che non è andata in onda proprio la sera prelevarono Sabrina. Se penso che Sarah avrebbero potuto trovarla dieci giorni prima se mi avessero ascoltata! Io l’avevo detto: la vedo con gli occhi chiusi, in posizione fetale, c’è acqua intorno e non è lontana da casa. Non l’hanno mandata in onda per timore che la madre potesse restarne provata».
Il movente del delitto?
«Per me è stato un raptus. Poi ha chiamato il padre per farsi aiutare a sbarazzarsi del corpo. È Ivano, il fidanzato, la causa della gelosia di Sabrina, che vedeva Sarah crescere farsi carina, la vedeva come un pericolo. E ha perso la testa. L’ha uccisa con quella cinta bianca. Io continuo ad avere dei flash su Sarah, la bambina non è in pace, è morta di morte violenta. La sento vicina e le dico sempre: “Non preoccuparti che finché non vado a fondo non mollo”».
Su un altro caso di cronaca di questi giorni, quello di Marina Patriti, aveva detto la sua
«Sì, non appena sentii la figlia della donna in tv, vidi subito due uomini e lei sepolta. Ho tutto archiviato, lo posso dimostrare. Vidi anche il nome del complice Alessandro, figlio dell’assassina. Anche su un altro caso ho delle certezze».
Quale?
«Alessandro Ciavarella, scomparso l’11 gennaio 2009. A mio sentire è morto, era un ragazzo timido ed è stato adescato da amici. È stato ucciso per un atto di bullismo e io vedo che tra quelli che l’hanno preso c’è un “Pio”. È sepolto a 10-15 km da casa. E ci sono 3, 4 ragazzi coinvolti».
Omicidio di Garlasco: ha detto pubblicamente che secondo lei Stasi è colpevole.
«Sì, ogni volta che lo vedo in video mi viene la nausea, mi preme lo stomaco. Non dice la verità. Solo che secondo me è protetto da personaggi potenti. E la famiglia di Chiara mi fa una pena incredibile. L’ha uccisa perché lei aveva scoperto le sue foto pedopornografiche e minacciava di rivelare la cosa».
Sostiene invece che la Franzoni sia innocente.
«Ci ho messo un anno prima di avere i flash definitivi su Cogne. Mi creda, non la conosco e non mi ha certo pagata ma l’ho già detto: è stato un uomo, che vive lì, dimagrito di 10-15 kg dall’epoca del delitto e l’arma è custodita in una casa, nel secondo cassetto di un mobile. Annamaria non ha rimosso come dicono, è in carcere ingiustamente. Io vorrei chiamare il suo avvocato per farle avere il mio libro appena uscito: Oltre ogni ragionevole dubbio. Un domani, lo dissi a Mentana, farete una trasmissione per chiederle scusa. Si ricordi, è stato un uomo».
Il movente?
«È uno psicopatico, si era invaghito di Annamaria, aveva capito che non poteva averla e si è accanito sul bambino. I pazzi non sempre hanno un vero movente, guarda quel carabinieri che qualche giorno fa ha ucciso la figlia, ferito gravemente l’altra e poi si è suicidato. Io la sera prima avevo avuto un flash, avevo detto: “Prevedo un delitto grave in una famiglia bene”».
Lei è diventata famosa alle cronache per aver aiutato a ritrovare il corpo di Melania La Mantia, la giovane paracadutista morta a inizio anno, annegata nel lago Cà Bianca.
«Quando la vidi in un flash in fondo al lago fui attaccata da tutti. Ma io sono mamma, ho due gemelle delle sua età, potrei mai dire una cosa del genere se non fossi più che sicura delle mie visioni? Quando la cercavano nel lago e non la trovavano e mi dicevano: “Guarda che non c’è, non troviamo nemmeno il paracadute”, io rispondevo “Certo, perché è con lei!” E loro “impossibile”. Ma io insistevo. “È in acqua, ci passate sopra”. Infatti il fondale, che era come sabbia mobile, l’aveva risucchiata. Melania l’hanno ritrovata lì sotto, col suo paracadute».
Sostiene anche che Angela Celentano e Denise Pipitone siano vive.
«Sì, lo sono, sono state vendute. Di Denise si saprà e la mamma Piera Maggio avrà la sua soddisfazione, perché cuore di mamma non sbaglia. Angela sarà lei a mettersi in contatto con la famiglia. Perché la bambina ricorda, un giorno vedrà su internet qualcosa e tornerà da loro, da adulta. Ma la mamma di Denise fa bene a sperare, perché quando uno è morto lo dico, come ho fatto per Sarah, metto da parte l’emotività, non mi faccio frenare dal fatto che sono anch’io mamma. Poi magari dopo piango, ma lì per lì cerco di essere obiettiva. E comunque il settimo senso della Maggio sarà confermato».
In che senso?
«Piera maggio ha sviluppato il settimo senso, che è diverso dal mio dono. Sono quelli che hanno sogni premonitori o che sentono cose che poi si avverano. Che è diverso dall’essere sensitivi come me. Io ho i flash. So che Denise è stata venduta dalla sorellastra. Inizialmente, secondo me era in Italia, ora la sento in Francia o in Spagna. Solo che è cresciuta, è molto alta per la sua età, ha i capelli corti, è difficile riconoscerla per uno che ha in mente le sue foto da bambina. Ma è viva. C’entrano gli zingari, quelli ricchi, che hanno pagato profumatamente per comprarla».
Il suo potere, lo considera più un dono o una sventura?
«50 e 50. Pensi che mia mamma, che è scomparsa pochi anni fa, mi diceva: “Se potrò, da lassù ti aiuterò”. E credo lo abbia fatto, prima non riuscivo a vedere solo tramite le foto. Dovevo sentire la voce o toccare le persone. Dopo che è morta ce l’ho fatta. Ma la mia è una missione».
Ci spieghi meglio.
«Ci sono due Rosemary: una che lavora per vivere, infatti faccio le mie trasmissioni televisive, ho delle cartomanti selezionate. E poi c’è la Rosemary che si occupa, non per soldi, delle persone sparite nel nulla. Perché il mio obiettivo è aiutare gli scomparsi. Collaboro con le forze dell’ordine. Mi occupo degli scomparsi: ho tutti i loro volti appesi alle pareti, li guardo, ci parlo. Questa è la mia missione».
(Ieri sera Rosemary aveva scritto sulla sua bacheca: “Sta arrivando un terremoto lieve in Italia e uno forte all’estero”. Stamattina le agenzie hanno segnalato un sisma in Basilicata di magnitudo 3.4 e uno 5,4 a Giava)
Aggiornamento del 12 novembre 2010 ore 15 – In un flash del 17 ottobre alle ore 01.45 Rose scriveva: “UNO MORIRA’ PRESTO..DI LORO… DEI MISSERI… ” (Michele oggi ha avuto una crisi cardiaca)
· Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed avvocati di ufficio.
La Strage di Erba, il delitto di Avetrana e gli altri casi di cronaca. Cosa accomuna i casi giudiziari forieri di dubbi sulla colpevolezza dei condannati?
La strategia difensiva. La presenza dei consulenti mediatici. La nomina di avvocati di ufficio. La loro sudditanza ai Pubblici Ministeri.
Picozzi, Meluzzi, Bruzzone. Le Iene. Due Pesi e due Misure. Perché le Iene per Olindo Romano e Rosa Bazzi credono nella manipolazione delle loro testimonianze e la stessa cosa non vale per Michele Misseri?
Da Le Iene del 23 febbraio 2019. Le Iene entrano in possesso di un documento inedito, dal contenuto clamoroso e che tutti hanno cercato e avrebbero voluto pubblicare in questi anni. È un video girato due mesi dopo la stage, in cui Olindo Romano racconta i particolari della strage al criminologo Massimo Picozzi, allora consulente del difensore d'ufficio. Il filmato, mai pubblicato prima d'ora e mai entrato a processo, aggiunge nuovi fondati dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la “Strage di Erba”. Il video viene girato circa un mese dopo che i due coniugi si autoaccusano del delitto, a un mese esatto dal massacro, avvenuto l'11 dicembre del 2006. Il contenuto delle confessioni è carico di incredibili inesattezze ed errori grossolani nella ricostruzione della dinamica. Rosa e Olindo sbagliano o non ricordano. Tra le altre cose: l’orario della strage; il fatto che non ci fosse illuminazione; l’ordine e la dinamica di aggressione delle vittime, in pratica chi avrebbe ucciso chi; le armi del delitto utilizzate; il loro abbigliamento; la loro via di fuga. Oggi Le Iene sono in grado di aggiungere un nuovo tassello nella ricostruzione degli eventi, questa volta con un nuovo e prezioso documento, fino ad oggi rimasto assolutamente inedito per la televisione. Olindo Romano ha accettato di rendere pubblico, esclusivamente attraverso il nostro programma, (vedi lettera di Olindo Romano in fondo all'articolo) i filmati realizzati due mesi dopo la strage dal criminologo Massimo Picozzi, che incaricato dal difensore d’ufficio Pietro Troiano, dovevano servire a dimostrare l’infermità mentale dei due coniugi e, pertanto, ottenere la loro non punibilità.
Il criminologo Picozzi “intervista” Rosa e Olindo nel corso di tre incontri ciascuno avvenuti tra febbraio e aprile 2007. Da questi incontri all'epoca viene fuori solo il più noto di questi filmati: quello dove Rosa Bazzi racconta, tra le lacrime, il movente e la dinamica dell’efferato pluriomicidio. Un filmato che non sarà considerato una prova valida dai Giudici, ma che comunque verrà proiettato in aula al processo e diffuso da ogni televisione, rafforzando in tutti la convinzione di avere di fronte una spietata assassina. Eppure anche in quel racconto, registrato diverse settimane dopo la confessione davanti ai pubblici ministeri, non mancano le enormi inesattezze e le assolute incongruenze. I contenuti del filmato inedito di Olindo Romano, sono ancora più clamorosi. Perché confrontati con il racconto di Rosa, ma soprattutto con la dinamica certificata dalle sentenze, rendono i dubbi sulla loro reale colpevolezza ancora più forti. Quello che all’epoca dei fatti era il difensore d’ufficio dei coniugi, l’avvocato Pietro Troiano, non sa che le prove in mano alla Procura sono meno solide di quello che sembra. La perizia del Ris di Parma che stabilisce con assoluta certezza che nessuna traccia di Rosa e Olindo è presente sulla scena del crimine e che nessuna traccia delle vittime è presente in casa dei due, verrà infatti depositata molto più avanti. Per questo motivo l’avvocato Troiano avrebbe deciso la strategia difensiva che puntava ad ottenere l’infermità mentale. Da qui il suggerimento, a Rosa e Olindo, di essere molto convincenti davanti all’obbiettivo della telecamera del criminologo Massimo Picozzi.
PICOZZI E RAMPONI. Da Le Iene il 30 aprile 2019. “Lui mi faceva le domande e mi spiegava quello che avevo da dire…mi spiegava “perché guarda Rosy, che vai contro o vai a fare, fai questo fai quello, devi dire così devi fare così, quando è il momento ti devi agitare, cioè muovi le braccia così, muovi le braccia così”. “Lui” è il criminologo Massimo Picozzi, all'epoca consulente della difesa, e la donna a cui avrebbe dato dei suggerimenti nel raccontare disperata i dettagli della strage di Erba, è proprio lei: Rosa Bazzi. Sarebbe la nuova tesi che la donna, condannata insieme al marito all’ergastolo per la strage dell’11 dicembre 2006 che costò la vita a 4 persone, 3 donne e un bambino, farebbe dal carcere di Bollate, dove è reclusa da 12 anni, nell’intervista esclusiva concessa a Le Iene, della quale vedrete un nuovo capitolo martedì a partire dalle 21.10 su Italia 1. Quel video ha un'importanza strategica sugli sviluppi della strage di Erba, perché finito nelle mani dei pm e poi di una trasmissione tv: nato come strumento voluto dalla difesa, una volta reso pubblico convinse tutta Italia che Rosa Bazzi fosse colpevole, molto tempo prima che fosse effettivamente condannata. Riguardo ai colloqui psichiatrici video registrati con Massimo Picozzi la detenuta racconta ad Antonino Monteleone particolari difficili da credere, perché se fossero veri, consentirebbero di vedere quel video sotto un’altra prospettiva. “Lui aveva spento la telecamera… mi aveva detto come muovere le mani come agitarmi, cioè… tutte queste cose. questo me l’aveva detto Picozzi”. E ci sarebbe un altro punto di questa vicenda che coinvolgerebbe ancora al consulente la difesa dei coniugi Romano, sempre riguardo a questi video- appunti per una perizia psichiatrica a Rosa e Olindo. Non solo il video in cui Rosa racconta la strage tra le lacrime finirà nelle mani della pubblica accusa, senza che venga depositata alcuna perizia psichiatrica, unica finalità per la quale erano stati realizzate quelle riprese. Ma buona parte dei contenuti del video di Rosa e anche di quello di Olindo, che non è mai stato depositato in Procura, sarebbero finiti non si sa come in un libro scritto dal giornalista Pino Corrias e pubblicato prima ancora che il processo a marito e moglie cominciasse. E questo denunciano i nuovi avvocati difensori di Rosa e Olindo, sarebbe una cosa molto grave. Chi fece vedere, abusivamente, i video al giornalista Corrias? Nel libro “Vicini da Morire”, oltre al contenuto trascritto di quei colloqui tra i detenuti e Massimo Picozzi, troviamo virgolettati attribuiti sia all’avvocato difensore Troiano, sia allo stesso consulente Picozzi, che compare anche tra i ringraziamenti dell’autore: loro, i componenti del collegio difensivo, erano gli unici che all'epoca sarebbero stati in possesso di quei video. E lo stesso Corrias, sentito in aula, ha raccontato: “ho visto un video, che è stato registrato in sede di perizia psichiatrica da Massimo Picozzi”. Quando però gli viene chiesto chi gli abbia mandato quei video e se fosse stato Picozzi, Corrias preferisce non rivelare la sua fonte. Antonino Monteleone decide allora di andare a sentire proprio il professor Picozzi per capire cosa ne pensa e qual è la sua versione dei fatti. “Professore una cosa molto importante, che quando Olindo e Rosa ritrattarono, lei consegnò tutto il materiale… ma in realtà il materiale presenta dei tagli, lei ha nella sua disponibilità il materiale?”, gli chiede la Iena. Ma Picozzi non ha intenzione di rispondere, neanche alla seconda domanda di Monteleone: “L’altra cosa che volevo chiederle è come mai Rosa chiede se era andata bene o era andata male in testa e in coda a dei tagli e delle dissolvenze che ci sono nel filmato…”. Niente, ancora nessuna risposta. E quando gli chiediamo come sia possibile che il giornalista e autore del libro Pino Corrias abbia visto il video di Olindo, tanto da contenerne alcuni estratti, Massimo Picozzi resta in silenzio, guardando fisso nel vuoto.
LETTERA DI EDOARDO MONTOLLI A DAGOSPIA il 30 aprile 2019. Caro Dago, in concomitanza con la nuova puntata de Le Iene di stasera sulla strage di Erba, Il Giorno riporta la clamorosa notizia che la Corte d’Assise di Como ha bocciato definitivamente le istanze di Olindo Romano e Rosa Bazzi di esaminare i reperti della strage mai analizzati, scrivendo testualmente, che la sentenza è «in applicazione dell’orientamento della Cassazione su ciò che attiene le attività di investigazione difensiva». Tutti i quotidiani e i tg, come quasi sempre capita in questa vicenda, si sono buttati a riprendere la news, talmente clamorosa e fresca che Oggi l’ha pubblicata tre settimane fa e Le Iene l’hanno contestualmente mandata in onda all’epoca. Anche se le cose non stanno esattamente come le raccontano in queste ore: la Corte d’Assise di Como, infatti, è tutt’altro che allineata con la Cassazione, che anzi aveva autorizzato gli esami. I giudici lariani scrivono però che il parere della Suprema Corte non è «vincolante per questo giudice dell’esecuzione, in quanto pronunciato in diverso procedimento definito dalla Corte d’Appello di Brescia». A Como, in sostanza, finchè non arriverà un parere delle Sezioni Unite, non vogliono saperne di autorizzare le analisi e quindi chiedono di distruggere anche ciò che in tribunale è stato dimenticato dall’incenerimento illecito della scorsa estate, quando la gran parte del materiale fu bruciato pure di fronte a due espressi divieti dei giudici e in attesa della decisione della Suprema Corte. A beneficio dei tuoi lettori, ti allego l’articolo di Oggi di tre settimane fa e il documento in oggetto della Corte d’Assise, in modo che ognuno possa farsi un’opinione. Già che ci siamo, ti allego anche l’opposizione fatta a Como dalla difesa di Olindo e Rosa, che, come riporto domani su Oggi, ha chiesto stavolta un’udienza pubblica, cosicchè il cittadino constati di persona quanto sta accadendo. La difesa rileva nel provvedimento in parte una “nullità assoluta” e in parte “abnormità”, fermo restando che non si capisce perché siano stati confiscati e per la gran parte distrutti oggetti come pc, telefonini, indumenti che erano estranei al reato e che andavano restituiti ai legittimi proprietari o eredi quale che fosse il loro valore. Non a caso, nei processi sulla strage, non fu predisposta alcuna confisca. Questo, giusto per correttezza d’informazione. Non vorrei infatti che la vecchia notizia data da Il Giorno proprio stamane e fatta risaltare in maniera esorbitante da tutti i quotidiani e i tg, distraesse il pubblico dal lavoro d’inchiesta sul caso svolto dalle Iene e che stasera, come hai dato conto, andrà avanti, approfondendo la questione Rosa Bazzi-Massimo Picozzi. Perché purtroppo è molto facile distrarsi in una vicenda del genere, vuoi con una notizia vecchia, vuoi con un gossip. A proposito di tale argomento, debbo rilevare che nel frattempo si sono perse le tracce delle notizie sul falso amante di Rosa Bazzi, che, giornali e tg a parte, non è mai esistito, se non nel breve frangente temporale di un’altra puntata de Le Iene sulla strage. Cordialmente, Edoardo Montolli.
MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI. Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare. Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso. Come estorcere una confessione.
HOW TO FORCE A CONFESSION: Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto.
MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza. La promessa di una via d’uscita.
THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia. Offrire una ricompensa.
OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo. Suggerire le parole per la confessione.
FORCING LANGUAGE
Video tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00. Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...
Yara Gambirasio e quelle confessioni mai rese. Rosa, Olindo, Sabrina Misseri e gli altri, scrive il 22/06/2014 L'Huffington Post. La storia di Yara ha diviso e scatenato le polemiche. Chi difende Massimo Giuseppe Bossetti e chi invece lo vede come il colpevole dell'omicidio della piccola. La sua confessione negata però non è la prima. La Stampa rivive tutti i casi di cronaca dove i colpevoli hanno negato sempre tutto. Nel reticolo di dolori che percorre l’indagine sulla fine di Yara lascia due gocce di stupore e di tenerezza la voce della madre di Giuseppe Bossetti, in carcere perché accusato dell’omicidio: «La scienza ha sbagliato». Difende il figlio, la famiglia di ieri e di oggi, il proprio passato e il proprio onore. L’ostinato negare è una costante del processo, per innocenza o per fede nell’effetto del dubbio, per un attimo d’ombra della mente o per vergogna sociale.
Rosa e Olindo Romano: all'inizio avevano confessato, poi ritrattato parlando di "lavaggio del cervello". Non è bastato. Sono stati condannati all'ergastolo nel 2011.
Anna Maria Franzoni: Ha sempre negato, in tribunale come in Tv, rifiutando l'ipotesi della rimozione mentale. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio Samuele.
Paolo Stroppiana: ha sempre negato, ma le sue menzogne lo hanno alla fine condannato: sta scontando 14 anni per la morte di Marina di Modica.
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: omicidio colposo 6 anni e favoreggiamento (2 anni) per l'omcidio di Marta Russo. Teorizzavano il delitto perfetto.
Sabrina Misseri: Tutti la ricordano sempre in TY per la scomparsa della cugina Sarah Scazzi. Poi la condanna senza confessione.
Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive il 17 novembre 2010 La Repubblica. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all' incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull' omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrinae sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l'inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.
Roberta Bruzzone, la criminologa da fiction che difende Misseri, scrive Benedetta Sangirardi Sabato 13 novembre 2010 su affaritaliani.it. Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Aiuta anche le donne e le vittime di violenza. E' consulente tecnico di Telefono Rosa nell’ambito di casi di violenza domestica, violenza sessuale, di stalking e di omicidio. Ha maturato numerose esperienze formative in Italia e all’estero, tra cui un periodo di training in USA presso l’University of California nella sede di San Francisco. E' membro del comitato scientifico della Polizia Postale e delle Comunicazioni. Svolge attività di docenza in vari corsi di perfezionamento e master universitari di numerose Università italiane. Ma non è tutto. La bionda acclamata da diversi blog per la sua bellezza è anche docente universitario, Presidente dell'Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell'International Association of Crime Analysts, Direttore Scientifico de “La Caramella buona Onlus” (associazione di volontariato contro la pedocriminalità). E poi è conduttrice tv, la sua, forse, vera inclinazione. Autrice e conduttrice del Programma TV "La scena del crimine" su un'emittente locale romana e del programma "Donne mortali" su Sky. Insomma, la signora Bruzzone sa il fatto suo. Ed è entrata a gamba tesa nel delitto forse più seguito di tutti i tempi, togliendo spazio ai legali vari, da Vito Russo a Daniele Galoppa. D'altra parte lei non si concede troppo alle tv, come invece fanno gli avvocati e tutti gli altri protagonisti di questa vicenda. Lei resta in disparte, parla quando lo ritiene necessario, mostra la sua bellezza anche un po' provocante. E difende Michele Misseri, assicurando che è una persona dolce "che ha molto a cuore sua figlia Sabrina". Anche se fino a un mese fa era uno sporco pedofilo.
La criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone inizialmente fu consulente della difesa di Michele Misseri, poi lasciò l’incarico per divergenze con la linea difensiva. L’uomo si autoaccusò dell'omicidio della piccola Sarah Scazzi e accusò la criminologa e il suo primo avvocato, Daniele Galoppa, di averlo indotto a incolpare la figlia Sabrina del delitto, motivo per cui la Bruzzone accusò di calunnia Misseri.
Strage di Erba, video inedito di Rosa Bazzi. Confessione è una messinscena? (Le Iene 26 febbraio 2019).
Antonino Monteleone: «Eppure quel video di Rosa, a cui non crede nemmeno suo marito, è girato per far ottenere ad entrambi l’infermità mentale, finì in mano ai Pubblici Ministeri e convinse tutta Italia della loro colpevolezza».
Avv. Fabio Schembri, il nuovo difensore di Rosa ed Olindo: «Che sia finito nel fascicolo del Pubblico Ministero prima di un processo, un colloquio psichiatrico, mi sembra che non è un fatto scorretto, è un fatto incredibile. Diciamola così. Cioè…»
Antonino Monteleone: «Lei dice che è un fatto grave…»
Avv. Fabio Schembri «Ho appreso che è stato detto che quel video sarebbe finito nel fascicolo del Pubblico Ministero perché c’era la denuncia da parte di Rosa di uno stupro. D’accordo? Bene. La denucnoia di stupro si può fare senza video. Uno denuncia uno stupro, poi si fa sentire, se si vuol far sentire, appunto dai pubblici ministeri. Io non so per quale motivo si sia fatta questa scelta».
Antonino Monteleone «Che bisogno c’era di depositare quel video di Rosa. Non sarebbe bastato presentare una denuncia per stupro? Perché il difensore d’ufficio, Pietro Troiano fece quella scelta che poi si sarebbe rivelata davvero disastrosa?»
Roberta Bruzzone: "Io, il crimine e la Tv". La psicologa forense: "Al male non ci si abitua mai. Ballando? Una boccata d'ossigeno". Luca La Mantia, In Terris 5 maggio 2019. "Considero questa professione, per certi versi, una vera e propria missione che lascia solo briciole alla vita 'fuori dal campo di battaglia'. Anche perché il mio lavoro di certo non facilita lo sviluppo di fiducia nei confronti del genere umano...". Roberta Bruzzone il male lo conosce bene. Nella sua attività di criminologa investigativa e psicologa forense si è occupata di casi complessi, spinosi. Due su tutti: la strage di Erba e il delitto di Avetrana. Storie nere, come il colore che la vediamo spesso indossare nelle ospitate televisive o che ha scelto per lo sfondo del suo sito personale. Ma quale vocazione porta a scegliere un mestiere che ti fa entrare nei meandri più oscuri della psiche umana? Come si affrontano tensioni e scene raccapriccianti? Lo ha raccontato a In Terris.
Come ha scoperto la passione per la psicologia? C'è sempre stata o si è trattato di un incontro casuale?
"La scelta è avvenuta in maniera molto naturale perché rappresentava la sintesi perfetta dei miei interessi sin da bambina. Ero infatti attratta da eventi e situazioni che meritavano un spiegazione e quindi ero molto curiosa e determinata soprattutto quando si trattava di fare luce su situazioni poco chiare o, addirittura, misteriose. Ho semplicemente assecondato una predisposizione naturale in me e, un passo dopo l'altro, ho compreso che la psicologia, la criminologia e le scienze forensi sarebbero diventati i pilastri della mia vita professionale. Lo studio e l'impegno hanno fatto il resto. Del resto l'unico modo di raggiungere un obiettivo nella vita è avercelo chiaro".
Serie tv come 'Lie to me' stanno portando alla ribalta il ruolo dello psicologo e del criminologo in ambito giudiziario. Le capita mai di confrontarsi con la pretesa di risposte immediate, frutto di una certa cultura massmediatica?
"Si, purtroppo molto spesso c'è un'aspettativa quasi 'magica' di avere risposte o soluzioni rapidissime ma questo genere di lavoro, soprattutto quello che riguarda l'analisi della scena del crimine e dei vari reperti impone tempi che certo non hanno nulla a che fare con quelli mostrati nelle serie televisive di grande successo. Occorrono tempo, occorre calma e precisione. Per far bene questo lavoro, vista la posta in gioco, serve pazienza, da parte dei committenti e dell'opinione pubblica".
Lei deve spesso confrontarsi con delitti efferati, frutto di menti deliranti. Riesce sempre a mantenere un certo distacco professionale o qualcosa, in termini di emozioni negative, finisce per portarselo a casa?
"Non ci si abitua mai a confrontarsi con il peggio del peggio che gli esseri umani sono in grado di fare ai loro simili, per questo occorre attrezzarsi emotivamente per evitare di essere fagocitati da tali atrocità. E' molto difficile staccare la spina fino in fondo rispetto ai vari casi di cui mi occupo. Dopo ormai 20 di attività ho però imparato a convivere con questo genere di complessità".
Da tempo frequenta i più importanti talk show televisivi. Come si raccontano le dinamiche complesse di cui si occupa al grande pubblico?
"Bisogna farlo con onestà intellettuale e rappresentare tutte le informazioni disponibili. Purtroppo non tutti i talk show dedicati ai fatti di cronaca nera sono all'altezza di un compito così delicato e complesso. E i risultati si vedono, anche in termini di ascolti. Il pubblico vuole interlocutori credibili e affidabili, altrimenti cambia canale".
Lei ha partecipato, in qualità di consulente tecnico di parte, al processo sul delitto di Avetrana. Si è trattato di un caso di cronaca nera che ha fatto emergere in modo prepotente il lato oscuro di una parte della provincia italiana, fatto di maldicenze, invidie, gelosie e lancinanti divisioni familiari. Che clima c'era in aula?
"Le indagini, prima, e il processo, poi, sono stati durissimi, senza esclusione di colpi come si suol dire in questi casi. Omertà e menzogne di ogni genere l'hanno fatta da padrone e ci hanno reso la vita davvero difficile ma non ci hanno impedito di ottenere verità e giustizia per la piccola Sarah (Scazzi ndr)".
Il racconto mediatico di quella vicenda è stato oggetto di critiche e di severi interventi da parte di Agcom e Ordine dei giornalisti. Ora che conosce bene il mondo della televisione si sarà fatta un'idea se siano stati commessi errori o meno...
"Non è a me che deve fare questa domanda. Io ho fatto il mio lavoro e piuttosto bene direi...viste le condanne".
Una criminologa come arriva a "Ballando con le stelle" e, soprattutto, cosa fa?
"Mi proposero di partecipare come concorrente ma rifiutai per tutta una serie di ragioni. Poi Milly Carlucci mi propose il ruolo di profiler per valutare la performance dei vari concorrenti, come si rapportavano alla gara e come gestivano lo stress che il programma genera a profusione. 'Ballando' è un programma costruito per 'svelare' gli aspetti più interessanti e controversi della personalità dei vari concorrenti, quindi la cosa mi ha subito catturato ragion per cui ho accettato l'offerta. Ed eccomi qui alla terza mia edizione che è stata premiata da ascolti stellari".
Si tratta di un'esperienza che, in un certo senso, alleggerisce il carico di tensioni proprie del suo lavoro?
"E' la mia boccata di ossigeno. Un po' di sano divertimento non guasta nemmeno per una criminologa dalla scorza dura come me".
La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.
· Il Fioraio condannato.
CONFERMATA LA CONDANNA DEL FIORAIO DI AVETRANA. La Corte d'Appello di Lecce ha emesso la Sentenza, scrive Carmela Linda Petraschi su iltarantino.it il 26 Gennaio 2019. E’ stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione Giovanni Buccolieri, accusato di aver mentito a investigatori e magistrati. L’uomo aveva raccontato di aver assistito al sequestro di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima, condannate all’ergastolo in via definitiva. Buccolieri aveva descritto con dovizia di particolari ciò che aveva visto il 26 agosto del 2010, ma poi aveva ritrattato, asserendo che si era trattato solo di un sogno. Aveva raccontato di aver visto Sarah triste camminare per strada e poi giungere una Opel Astra con a bordo Cosima Serrano che scesa, aveva sgridato in malo modo Sarah e l’aveva costretta a salire in macchina, strattonandola. Nel sedile posteriore vi era seduta una figura femminile seminascosta. Il Giudice monocratico, Elvia Di Roma ha condannato a due anni, in primo grado, oltre al testimone chiave anche un altro imputato, Michele Galasso amico di Buccolieri, con il quale avrebbe concordato al telefono la versione del sogno da raccontare agli investigatori. Galasso non ha impugnato la sentenza che è divenuta definitiva. Che non si è trattato di un sogno è scritto anche nelle sentenze di 1° e 2° grado. Buccolieri al processo ha preferito tacere. Il suo avvocato, Lello Lisco ha affermato che il suo cliente era rimasto suggestionato dall’attenzione mediatica del caso.
· Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.
Taranto, parroco “tassista” inquisito in vasto giro di prostituzione. Nelle intercettazioni risulterebbe evidente il ruolo svolto da padre Calabrese, il quale aveva un rapporto diretto sia con le giovani prostitute che con la “maitresse” che si occupava della loro gestione, scrive Federico Garau, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Gravissime accuse nei confronti di padre Saverio Calabrese, sacerdote della parrocchia di Monteparano (Taranto). L’uomo risulta coinvolto in un’inchiesta nella quale gli inquirenti tentano di far luce su un vasto e ben organizzato giro di prostituzione che vede come protagoniste alcune ragazze originarie dell’est Europa. Le indagini hanno portato all’incriminazione di diversi connazionali delle giovani, che si occupavano della gestione degli affari, ma anche di alcuni italiani che avrebbero dato il loro appoggio in cambio di denaro. Questi ultimi, tra cui lo stesso padre Calabrese, avevano il compito di condurre le giovani nei luoghi in cui si prostituivano e di occuparsi delle loro necessità primarie. Il parroco di Monteparano, già conosciuto per aver ricevuto la confessione in carcere di Michele Misseri in merito al delitto di Avetrana, si trova ora agli arresti domiciliari per il reato di favoreggiamento alla prostituzione. Come riportato dal quotidiano “Libero”, la posizione di padre Calabrese, soprannominato “il tassista”, è ben nota al tribunale di Taranto. Il parroco, come si legge nell’ordinanza emessa dal giudice, “frequentemente accompagnava (le ragazze) sul luogo del meretricio fornendo assistenza, anche portando ivi cibo”. Innegabile, per gli inquirenti, il filo diretto mantenuto fra lui e la “maitresse” delle giovani prostitute. A dar conferma in tal senso le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti di Nadia Radu, in arte “Smeranda”, 31enne romena considerata un fondamentale punto di riferimento per l’organizzazione criminale. “Non me la sento ancora di uscire cucciolotta, ma se avete bisogno domattina poi esco, non c' è problema”. Queste le parole riferite alla donna da padre Calabrese nell’ottobre del 2017, che inchioderebbero il religioso alle sue responsabilità di “tassista”. In attesa del processo, il parroco è stato sospeso dai suoi incarichi pastorali. Al momento risultano 12 indagati, tra stranieri ed italiani, che sono inquisiti per i reati di associazione a delinquere, sfruttamento, agevolazione e favoreggiamento della prostituzione ed infine estorsione.
· Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.
Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto. Calabria News 25 Maggio 2019. Il giudice della I Sezione Penale del Tribunale di Taranto, Chiara Panico, ha assolto “perché il fatto non sussiste” il giornalista calabrese Filippo Marra Cutrupi, 49 anni, dal reato di falsa testimonianza avendo opposto il segreto professionale alla richiesta di rivelare la fonte di una notizia pubblicata dall’agenzia di stampa per la quale lavorava. Filippo Marra Cutrupi, difeso dall’avvocato Gianluca Pierotti, aveva seguito per la sua testata tutta la vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana in Puglia, e, tra le altre notizie, aveva pubblicato quella relativa alla richiesta di una rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Taranto all’autorità giudiziaria tedesca per l’audizione di una persona che la Procura riteneva “informata dei fatti”. La notizia, peraltro, era stata pubblicata già da vari giornali locali e da altre testate. Interrogato su quella che la Procura di Taranto riteneva una “fuga di notizie” e richiesto di rivelare la fonte, il giornalista aveva opposto il diritto/dovere professionale di non rivelare la fonte stessa. Al fianco del giornalista si erano schierati il segretario generale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria, e il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, ricordando che “il segreto professionale dei giornalisti è finalizzato a garantire i canali informativi del professionista al fine di portare vantaggio alla libertà e alla completezza della informazione”. Il segreto giornalistico non è, dunque, un privilegio della categoria, ma uno strumento di tutela delle libertà democratiche e dei diritti individuali del cittadino. Non a caso il segreto giornalistico è salvaguardato da varie disposizioni di legge. Nel processo penale, in particolare, è richiamato dagli articoli 200, 256 e 362 del codice di procedura penale. E la giurisprudenza ormai consolidata ribadisce che se il giornalista oppone il segreto professionale rispetto ad informazioni che possono condurre alla identificazione della fonte della notizia non commette il reato di false dichiarazioni. Considerazioni ribadite da una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta anche in relazione ad una vicenda che ha riguardato un giornalista pubblicista e non professionista. Il procedimento a carico di Filippo Marra Cutrupi si è, dunque, concluso con la piena assoluzione del giornalista e, soprattutto, con la conferma – qualora ve ne fosse bisogno – che il segreto professionale è una garanzia per la libertà di stampa. “Finalmente – afferma Filippo Marra Cutrupi – si chiude un incubo giudiziario e per questo voglio ringraziare il segretario generale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, con il Sindacato Giornalisti della Calabria, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, l’avvocato Gianluca Pierotti del Foro di Taranto per avermi difeso e quanti mi sono stati vicini in questa vicenda”.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi.
Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi. «Nelle autopsie cerco l’invisibile, come per Yara». Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. Sull’architrave un cartello, donato da un’antropologa giunta dal Guatemala: «Welcome to paradise». O benvenuti all’inferno? «Entrambi. Qui s’incrociano i destini di criminali e santi», risponde Cristina Cattaneo, professore ordinario di Medicina legale alla Statale di Milano. Le narici ti avvertono che sei nel regno dei morti. Oltre la porta, 101 celle freezer. Dentro, sconosciuti congelati anche da 18 mesi. Il carrello teleguidato apre lo sportello, preleva il cadavere e, scorrendo su una monorotaia, lo trasferisce nella sala degli esami autoptici. Istituto di medicina legale dell’Università, via Mangiagalli 37. Quando non tiene lezione nell’aula magna, dove la cattedra è una teca trasparente che custodisce il tavolo anatomico di ceramica su cui il 30 aprile 1945 fu deposta la salma irriconoscibile di Benito Mussolini, la direttrice del Labanof — il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, unico in Europa — è quaggiù a eseguire autopsie, finora circa 500, molte per i casi giudiziari più controversi: Bestie di Satana, Yara Gambirasio, Serena Mollicone, Elisa Claps, Stefano Cucchi, Davide Rossi. L’ultima su Imane Fadil. «Voi giornalisti mi fate imbestialire con questa mania dei delitti celebri», avvampa in viso. «Se a tutti i morti fossero riservate le stesse attenzioni, il mondo sarebbe un posto migliore. Il giorno in cui è arrivata la signora Fadil ero semplicemente di turno. Non esistono autopsie di serie A e autopsie di serie B». Nel caso esistessero, Cattaneo ha dato prova di preferire le seconde, come si capisce leggendo Naufraghi senza volto(Raffaello Cortina editore), il libro in cui racconta i tre mesi di lavoro nella base Nato di Melilli per identificare una parte dei circa 1.400 migranti affogati nel Mediterraneo il 3 ottobre 2013 e il 18 aprile 2015. «Contando tutte le tragedie dei profughi, stiamo parlando di almeno 30.000 vittime. Il più grande disastro di massa dal dopoguerra a oggi».
Morgue sul mare per una crociata.
«L’ho definita così. Dare un nome ai morti prima di seppellirli è un dovere di civiltà che si assolve soprattutto per i vivi. E un fatto di salute mentale».
In che senso?
«I parenti hanno bisogno di piangere su una tomba per elaborare il lutto. Altrimenti impazziscono, com’è accaduto a molte madri degli oltre 8.000 musulmani bosniaci trucidati a Srebrenica. Per i morti del secondo barcone colato a picco a sud di Lampedusa erano giunte richieste di notizie da 190 famiglie di dodici Paesi africani e da 90 residenti in Europa. Si poteva non dar loro una risposta?».
Quanti cadaveri c’erano nella stiva?
«Ne sono stati estratti 528, con 20.000 ossa sparse di altre 200 persone».
È riuscita a identificare il ragazzino con la pagella che ha commosso papa Francesco e il presidente Mattarella?
«Non ancora, purtroppo. Indossava una giacca leggera. Ho scucito la fodera ed è saltato fuori un foglio prestampato avvolto nel nylon. Era il “Bulletin scolaire” con i voti di matematica, fisica e scienze, vicini alla media del 10. Che aspettative avrà avuto questo quattordicenne del Mali o della Mauritania? E il ragazzo di 17 anni partito dal Gambia che teneva in tasca la tessera dei donatori di sangue? E quello che s’era annodato un angolo della maglietta con uno spago rosso? Credevo che dentro il rigonfiamento ci fosse hashish. Invece era un pugnetto della terra natia».
Che ricordi ha della sua infanzia?
«A 7 anni mungevo le vacche del Bigin, vicino di casa di mia nonna, un bevitore. Ero la sua parrucchiera, gli tagliavo i capelli. Quando cessò di vivere, chiesi a mia madre: di che cosa è morto? “Ha smesso di respirare”. La risposta mi lasciò la voglia di capirne di più».
Di chi era la prima salma che vide?
(Ci pensa). «Non lo ricordo. Strano».
E la prima su cui mise le mani?
«Un’anziana all’obitorio di Lambrate, deceduta per la rottura del cuore. Il mio tutor continuava a ripetermi: “Non vedi che muore? Non vedi che muore?”».
Mi scusi, ma non era già morta?
«Certo. Ma in gergo si dice: “Questo cadavere non mi muore”. Significa che non scorgiamo le cause del decesso. Avrei dovuto vedere il colore violaceo del pericardio invaso dal sangue».
Il Labanof è stato fondato nel 1996. Prima che cosa accadeva?
«I morti senza nome erano di serie B».
Mettete sul Web le foto dei cadaveri ignoti. Non è uno sfregio alla pietà?
«È una necessità. Grazie a queste immagini, nel 2018 le figlie residenti in Croazia hanno riconosciuto il loro padre che era scomparso 20 anni prima. Quando manca il volto, il biologo Davide Porta, che è più bravo di uno scultore, dalla forma del cranio riesce a ricostruire i lineamenti del viso. Ha appena ultimato la testa in creta di sant’Ambrogio».
Stupefacente.
«L’anno scorso la curia ci aveva chiesto d’investigare sui resti del santo, perché si stavano degradando, e su quelli dei gemelli Gervasio e Protasio, posti nello stesso sarcofago per desiderio del patrono di Milano. Pareva una leggenda. Invece l’esame autoptico ha accertato che si tratta di due fratelli di 20 anni, alti 1 metro e 80, uno decapitato e l’altro morto per i colpi di flagello, proprio come descritto nel martirologio. Adesso vorrei ricostruire la storia della città attraverso i 4.000 scheletri custoditi in questo istituto e presso la soprintendenza».
Da piccola dissezionava animali?
«Mai fatto, né ieri né oggi. Altrimenti non riuscirei più a guardare in faccia Ricki, il cane randagio che mi sono portata a casa dalla base di Melilli. Mi sono sempre rifiutata di lavorare su cavie da laboratorio. Anzi, come direttore di Forensic science international sto decidendo con i miei colleghi di rigettare tutte le ricerche basate su esperimenti animali. In ambito medico-legale sono inutili».
L’odore della morte non le resta appiccicato addosso?
«All’inizio, appena tornavo a casa la sera, buttavo tutti i vestiti in lavatrice, non riuscivo a farmelo passare. Poi ho capito che ce l’avevo nella testa».
Qui ci sono più colleghi o colleghe?
«Nelle autopsie siamo metà e metà. Ma ho più allieve che allievi. È una professione umanitaria, richiede una forma di accudimento femminile. Lavori per le Procure e le istituzioni, ci vivi ma difficilmente diventi ricco. Il patologo forense è a rischio di estinzione. Eppure è fondamentale per giustizia e salute pubblica. Pensi ai segni di violenza sul vivente. O alla tossicologia negli incidenti stradali. Un tempo era routine, oggi non si fa quasi più, con il risultato che nessuno sa di che cosa muoiono i nostri giovani».
Quanto dura un’autopsia fatta da lei?
«Da un minimo di cinque ore fino a due giorni. Sono molto cauta. E lenta. Il caso di Yara Gambirasio mi ha insegnato che le cose più importanti sono invisibili».
Si spieghi meglio.
«A occhio nudo non mi sarei mai accorta della presenza di calce. Solo gli stub delle ferite, tamponi adesivi che noi chiamiamo scoccini, hanno permesso di trovarla al microscopio. Da allora li faccio a campione sulla pelle di ogni salma».
Il Dna è sempre una prova regina?
«Una prova forte. Che ci ha viziato un po’ tutti. È una scorciatoia che fa perdere di vista altri elementi importanti».
Il caso più difficile che le è capitato?
«Un omicidio in Lombardia. Stavano per archiviarlo come trauma cranico. La vittima era stata bruciata, i resti dispersi nell’ambiente. Da un osso carbonizzato abbiamo recuperato i frustoli del proiettile e ricostruito il foro d’ingresso».
Sbaglio o lei evita i salotti televisivi?
«Mi vengono i brividi quando in video gli esperti si accapigliano su presunte prove di casi che sono ancora aperti».
Che cosa pensa delle serie tv tipo «Csi: crime scene investigation»?
«Una volta mi davano fastidio. Ora ritengo che siano utili a far conoscere la nostra professione».
Le capita di guardarle?
«Dopo 10-12 ore trascorse a vederle dal vivo?».
È normale che esista un canale satellitare dedicato solo al crimine?
«Non ci ho mai riflettuto. È un aspetto interessante della natura umana».
La morte è «’a livella» di Totò?
«Non direi. Colpa della stampa».
Qual è il lato peggiore dell’autopsia?
«La chiusura. Non sei mai sicuro di aver espletato tutti i prelievi utili».
Si commuove mai nell’eseguirla?
«No. Però mi capita prima, quando vado sul luogo del delitto. O durante il riconoscimento del defunto da parte dei parenti, il momento più straziante».
Sottoporrebbe ad autopsia un suo congiunto?
(Tace per 14 secondi). «Eeeh... Mah! Non lo so. Sarei molto dibattuta».
Non le pesa il contatto con il male?
«È logorante, sì, te ne accorgi dopo 15 anni di obitorio. Ma è controbilanciato dal bene che sta intorno ai morti: quello che hanno compiuto in vita».
È riuscita a spiegarsi l’origine del «mysterium iniquitatis»?
«Al prossimo giro voglio fare la neuroscienziata. La risposta è lì, nel cervello».
Dopo la morte è tutto finito?
«E chi lo sa? Vedremo».
Lo scopriremo solo vivendo.
(Scoppia a ridere).
E se le dicessi che lei non morirà mai?
«Essere immortale perdendo chi ami? Che resti qui a fare, se intorno a te non hai più le persone care?».
Per cui il senso della vita qual è?
«Aver contribuito. A che cosa, non l’ho ancora ben capito. Aver dato».
· Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.
Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”. “Assolto ma screditato in processo Bossetti”. Ezio Denti, consulente difesa Bossetti, “un Pm può perseguitarti senza prove”: assolto sui falsi titoli, “sono stato screditato nel processo Gambirasio”, scrive il 18.03.2019 Niccolò Magnani su Il Sussidiario. Lo aveva ben spiegato in una lunga intervista a Radio Cusano Campus tre giorni fa, oggi lo ribadisce con un post molto polemico su Instagram: è Ezio Denti, ingegnere, consulente e criminologo investigativo, impegnato tra gli altri nei processi-casi Bossetti, Trifone e Teresa, Silvana Pica e Renata Rapposelli. Per mesi ha dovuto districarsi tra le consulenze e le accuse invece rivolte a suo carico per presunti falsi titoli di laurea, e dopo l’ultima assoluzione il consulente ha voluto dare un messaggio fortissimo al mondo giudiziario e anche ai colleghi giornalisti. «In Italia un P.M. può perseguitare ingiustamente una persona e i media mettono il carico da novanta puntando il dito e condannando senza alcuna prova», attacca durissimo Ezio Denti, accusato negli scorsi mesi di avere titoli di studio non validi per svolgere la professione di criminologo e consulente nella difesa, specie nell’ultima fase del processo a Massimo Bossetti per il delitto di Yara Gambirasio. «Assolto perché il fatto non sussiste. I media colpevolisti sono stati sempre pronti a condannare e ostracizzare l’Ing. Denti, enfatizzando la situazione, salvo poi non parlare mai delle sue assoluzioni né “riabilitare” la sua immagine, su cui loro stessi avevano contribuito a gettare ombra».
IL CASO BOSSETTI PUÒ RIAPRIRSI? 4 processi, 4 assoluzioni con la stessa formula, “il fatto non sussiste”: «Perché non hanno scritto niente sull’esito dei processi? È facile accusare e denigrare un consulente solamente perché ha compiuto il suo lavoro con massima professionalità andando a cercare la verità. Chi ripagherà l’Ing. Denti per i danni di immagine subiti?», scrive ancora Ezio Denti su Instagram nel post al veleno che richiama anche tanti altri casi magari meno conosciuti in cui errori giudiziari hanno poi portato sul lastrico gli accusati ingiustamente, «soprattutto, chi pagherà le spese processuali affrontate per un ennesimo processo inutile, che si poteva evitare, e di importanza secondaria rispetto a tutti processi ancora aperti in Italia?». A Radio Cusano Campus lo stesso consulente e criminologo aveva spiegato nel dettaglio il suo personalissimo caso: «La mia figura era in qualità di consulente tecnico ed investigatore nel procedimento penale a carico di Massimo Giuseppe Bossetti. Mi ero occupato del furgone di Bossetti. Dopo la mia relazione di oltre 4 ore nel contraddittorio da parte della PM non ci fu nulla nel merito dell’attività svolta ma si cercò esclusivamente di screditare la mia persona partendo dai titoli di studio che secondo la PM non risultavano presenti. Ovviamente aveva ragione semplicemente perché mi sono laureato all’estero, a Friburgo. Da qui è nata la guerra. Anche se un consulente è antipatico come sia possibile fargli sostenere quattro processi? Credo sia una cosa vergognosa». In merito allo specifico caso Bossetti, è Denti a lanciare un’ultima clamorosa “bomba” sempre dai microfoni di Radio Cusano: «Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle».
· Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?
Massimo Bossetti, agguato a tarda notte: esplode il muro dell'abitazione dell'attivista che lo sostiene. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019.
Un caso inquietante, che si lega a doppio filo a Massimo Bossetti - all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio - e che arriva da Capriate San Gervasio. Un'esplosione, infatti, ha distrutto la cassetta della posta e danneggiato gravemente il muro della casa di Pietro Pangoncelli, il fatto è avvenuto sabato sera attorno alle 23.30, ma ne dà notizia soltanto ora Il Giorno. Chi è, Pietro Pagnoncelli? Presto detto: amico della famiglia di Bossetti, da tempo sostiene l'innocenza del carpentiere di Mapello, ormai condannato in via definitiva. Pagnoncelli ha presentato denuncia ai carabinieri e ha spiegato: "Un mortaretto non avrebbe causato un danno del genere". Insomma, il sospetto è che si trattasse di un ordigno ben più strutturato. "Non ho nemici, non ho problemi con nessuno. Mi batto da sempre per Massimo e ultimamente lo sto facendo su Facebook". Il sosetto, dunque, è che sia stato colpito da qualcuno contrario alla campagna a favore dell'innocenza di Bossetti e che mira, in primis, alla riapertura del processo.
Lettera di Massimo Bossetti a “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2019. Ill.mo Dott. Feltri buongiorno, Le chiedo gentilmente di non tralasciar nulla di quanto continuo a dover subire dalla giustizia italiana. Com' è possibile che venga trasmessa alla mia difesa l'autorizzazione da parte della Corte, successiva all' istanza depositata dall' avvocato Salvagni qualche giorno fa, di poter accedere ai reperti, ad indagare sui reperti di DNA ancora disponibili, e ad esaminarli con i miei consulenti; conservandoli per i futuri esami. E dopo 48 ore la procura di Bergamo mi nega di fare ulteriori accertamenti e le dovute indagini sui reperti consentiti, non solo nel fare una "ricognizione" senza poterci mettere mano. Scandaloso tutto questo!! Io mi chiedo, come posso difendermi nel provare la mia estraneità, se non mi permettono di difendermi a dovere indagando sui reperti nell' accertare l' assoluta granitica certezza, che quel DNA non mi appartiene. Per favore Dott. Feltri, mi aiuti nel gridare facendosi sentire quanto d' inumano continuo a dover subire, e per quanto tutti noi cittadini "Purtroppo" restiamo nelle loro mani. I miei figli soffrono e hanno bisogno del loro padre. Certo in una sua collaborazione, la ringrazio come sempre di cuore a tutto. Mi permetta di salutare caramente la sua giornalista Azzurra Barbuto che mi ha dedicato la risposta in una mia lettera pubblicata sul suo quotidiano con un bellissimo suo pensiero: «NON PERDERE LA SPERANZA, NOI SIAMO CON TE». È confortante questa vostra bella frase nonostante quello che si vive all'interno di quattro mura. A tutta la redazione un forte abbraccio, vi voglio bene. Grazie a lei Dott. Feltri e a tutta la sua direzione di Libero. I miei cordiali saluti.
Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “Telelombardia”. Di seguito uno stralcio delle lettere di diffida mandate tramite raccomandata da Massimo Bossetti agli avvocati e al consulente nominato dalla moglie Marita Comi per effettuare indagini sul caso del marito. Il testo integrale delle raccomandate sarà mostrato questa sera nel corso della trasmissione “Iceberg Lombardia” su Telelombardia a partire dalle 20.30. “Gentilissimi avvocati, Ho appreso da mia moglie Marita Comi che la stessa ha firmato una nomina a vostro favore contrariamente alla mia volontà. Gli unici avvocati che possono lavorare sul mio caso sono l’avvocato Salvagni e l’avvocato Camporini. Vi diffido pertanto dal compiere qualsivoglia attività processuale o extraprocessuale nonché eventuali indagini difensive in mio favore. Mi riservo di valutare il vostro comportamento e se del caso denunciarlo in ogni sede agli organi competenti. Egregio signor Infanti, Ho recentemente appreso che si sta occupando del mio caso. Non capisco a quale titolo non avendo ricevuto da me alcun incarico in tal senso. Non ho autorizzato nessun altra persona, nemmeno mia moglie, ad assumere decisioni in tal senso così importanti per la mia vita. Le intimo pertanto di cessare qualsivoglia attività con effetto immediato, diversamente la denuncerò alle autorità competenti.”
Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “Radio Cusano Campus”. L’avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sugli ultimi sviluppi del processo. “Finalmente, dopo 5 anni e oltre, la Corte d’Assise di Bergamo ha dato un ok ad un primo step, che è quello di una ricognizione dei reperti. Abbiamo evidenziato come ora la tecnologia consenta di avere risultati più affidabili per quanto riguarda il test del dna. La corte ci ha autorizzato su tutto, anche se ha messo un recinto un pochino più stretto concedendoci di fare una ricognizione, quindi capire innanzitutto quali sono i reperti ancora disponibili con la supervisione della polizia giudiziaria. E’ una prima fase indispensabile senza la quale non si può accedere a quella successiva delle analisi, che è il nostro obiettivo. Siamo convinti che quel dna di ignoto 1 non è di Massimo Bossetti. Secondo me questo porterà a un clamoroso colpo di scena e si potrebbe arrivare alla revisione del processo. E’ gravissimo che finora non ci abbiano mai concesso una nuova perizia affermando che non erano più disponibili i campioni di dna, cosa ampiamente smentita dai fatti. Sono contento che quantomeno si sia ristabilito che i campioni ci sono. La moglie di Bossetti ha nominato altri due avvocati per condurre indagini difensive nei confronti del marito, che però non vuole tutto questo ed ha intimato a questi avvocati di non fare alcuna attività che possa andare in contrasto con i suoi avvocati ufficiali”.
Bossetti, guerra tra pool difensivi: è crisi con Marita? L'ex muratore di Mapello, in carcere per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha smentito la presunta decisione della moglie Marita Comi di ingaggiare un nuovo pool difensivo. Marco Della Corte, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale. È iniziata una guerra tra pool difensivi per Massimo Giuseppe Bossetti, l'ex muratore di Mapello condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio avvenuto nel 2010. Marita Comi, moglie di Massimo, avrebbe incaricato un nuovo team di consulenti per occuparsi del caso incentrato sulla figura del marito in qualità di assassino della ragazzina residente a Brembate (Bergamo). Del caso se ne è occupato Gianluigi Nuzzi nella puntata di Quarto Grado del 13 novembre 2019. Nel corso della trasmissione è stata mostrata una lettera inviata da Bossetti, in cui sarebbe stata smentita la decisione da parte della consorte riguardo la nomina di un nuovo pool per la difesa. Una situazione abbastanza ingarbugliata e controversa, che lascerebbe intendere dei contrasti ideologici tra marito e moglie. Il programma ha, inoltre, ipotizzato una possibile mancanza di fiducia nei confronti degli attuali due legali di Bossetti: Claudio Salvagni e Paolo Camporini. I due, che hanno assistito l'uomo nel suo lungo iter giudiziario, non sono riusciti a ribaltare la decisione dei giudici nel corso dei tre gradi di giudizio. Si è parlato inoltre della possibile intenzione di Marita di dare una svolta alla sua vita, senza approfondire ulteriormente la spinosa (ed annosa) questione riguardante Massimo. Giorgio Sturlese Tosi, inviato di Quarto Grado, ha chiesto alla Comi di spiegare la scelta del nuovo pool difensivo per il marito Massimo Giuseppe Bossetti. La donna si è rifiutata di parlare. Tuttavia, utili informazioni le ha fornite Agostino, fratello di Marita e cognato di Massimo, il quale ha chiarito: "Certe persone si sono presentate e hanno detto: "Possiamo dare una mano?". Mia sorella ha detto, ed ero presente anch’io, "l’importante è non andare ad intromettersi nel lavoro degli altri avvocati che han fatto fino adesso". Questi qua non han chiesto niente. Niente! E infatti si è visto non si voleva neanche far sentire chi erano, giusto?". L'uomo ha infatti precisato come il pool difensivo in questione starebbe lavorando senza percepire compensi: "Non è andata a cercare nessuno mia sorella. Io sinceramente non li conosco". Agostino ha inoltre affermato come Marita continui a fidarsi di Massimo e per questo motivo avrebbe riposto fiducia nei nuovi legali. E la diffida da parte di Bossetti? Potrebbe significare qualche crepa nel rapporto tra lui e Comi? A smentire qualsiasi diceria è stato lo stesso fratello della donna: "Ma no, non cambia niente!".
Dagospia il 27 novembre 2019. Anticipazione stampa da “Oggi”. «Il Dna di Ignoto 1 è sempre stato al San Raffaele. L’abbiamo conservato. E c’è ancora. Anche se proprio in questi giorni stiamo restituendo il materiale genetico alla Procura di Bergamo che lo ha richiesto», rivela Giorgio Casari, docente di genetica e consulente dell’Accusa per l’omicidio di Yara Gambirasio, al settimanale «Oggi» in edicola da domani. Una rivelazione clamorosa perché, spiega l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei difensori di Massimo Bossetti, le richieste di una superperizia che confrontasse il Dna di Bossetti, condannato all’ergastolo per il delitto, con quello di Ignoto 1 sono sempre state respinte sostenendo che i reperti erano esauriti. Salvagni preannuncia una denuncia per frode processuale alla quale seguirà la domanda di revisione del processo: «Grazie al vostro settimanale scopriamo che non è vero. Il materiale genetico c’è sempre stato e c’è ancora. E la Procura lo ha sempre saputo. La superperizia si può e si deve fare. E se le notizie saranno confermate anche da una indagine difensiva per la quale ho già ricevuto mandato da Bossetti, verrà valutata ogni possibile azione per il ripristino della giustizia violata, non esclusa una denuncia penale per frode processuale».
Massimo Bossetti, l'avvocato Claudio Salvagni a Libero: "Si riapre tutto, proveremo la sua innocenza". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 3 Dicembre 2019. Il 26 novembre ricorre la data di un terribile omicidio, quello di Yara Gambirasio. Nove anni fa tutta l'Italia si era fermata davanti alla notizia della scomparsa di questa ragazzina di 13 anni. Oggi la giustizia italiana ha condannato in via definitiva all'ergastolo "fine pena mai" Massimo Bossetti, il muratore di Mapello. Nonostante la Corte di Cassazione abbia sancito la fine dell'iter processuale pare che qualche nuovo scenario si possa aprire. È di qualche giorno fa la notizia che la Corte D'Assise di Bergamo abbia autorizzato i legali di Bossetti a esaminare tutti i reperti d' indagine e tutte le tracce di Dna.
Avvocato Salvagni, hanno detto che ci sono nuovi legali a seguire Massimo Bossetti in questa istanza di revisione del processo.
«Assolutamente no», e mostra l'atto con cui Bossetti riconferma la nomina per questa ulteriore azione legale al team composto oltre che da lui anche dall'avvocato Camporini, più dieci consulenti coordinati dal dottor Bianco. «Oggi sono stato in carcere da Massimo e ci ha riconfermato la fiducia per portare avanti questa decisiva istanza».
Avvocato, quando lei ha conosciuto Massimo Bossetti?
«L'ho conosciuto una settimana dopo l'arresto avvenuto il 16 giugno del 2014 chiamato da Fabio, il fratello, che mi chiedeva di occuparmi della vicenda penale».
Lei quindi conosceva la famiglia Bossetti?
«Io conoscevo Fabio perché l'avevo seguito in qualche procedimento civile».
Si era fatto una idea sulla sua posizione prima di incontrarlo?
«Non sono abituato, forse per deformazione professionale, a costruirmi giudizi prima di leggere le carte. Così dissi alla famiglia di Bossetti che prima di accettare l'offerta di difenderlo avevo almeno bisogno di incontrarlo anche se, non nascondo, ero rimasto molto colpito dalle notizie riguardanti il caso di Yara Gambirasio; così accettai con riserva l'incarico».
E quando lo incontrò che idea si fece?
«Il nostro fu un lungo incontro, credo che durò molte ore e Massimo mi convinse anche senza guardare le carte».
Perché?
«Piangeva ed era un uomo disperato. Mi giurò che mai aveva visto o incontrato Yara e che nulla le aveva fatto. Era stato messo in isolamento e gli avevano detto che suo padre naturale non era Giovanni Bossetti, colui che lo crebbe, ma Guerinoni. Inoltre era disperato per i tradimenti che gli inquirenti, senza alcun motivo processuale, gli rivelarono riguardo alla moglie Marita. Era un uomo che mi chiedeva aiuto e che non riusciva a capire cosa potesse accadergli».
Lei si fidò?
«Mi fidai del mio istinto e sono convinto ancora adesso di aver fatto bene supportato dalle carte processuali».
Bossetti pensava di essere liberato velocemente?
«Certamente sì, colui che si proclama innocente pensa che nel giro di pochi giorni può riassaporare l'aria della libertà».
Anche lei era ottimista su una libertà immediata?
«Sinceramente ogni atto che io faccio è perché credo che sia foriero di notizie positive e quindi anche con Massimo valeva la stessa cosa, anche se c' erano alcune anomalie che non comprendevo».
Tipo?
«Intanto c'è da ricordare che il nostro team legale aveva fatto opposizione alle misure cautelari in carcere al tribunale del Riesame, e che quest'ultimo rigettò affermando che solo all'interno del contraddittorio durante un processo si poteva approfondire tutto il tema legato alla genetica».
Lei parla del Dna trovato sul corpo di Yara?
«Quel Dna è ancora oggi oggetto di valutazione e forse adesso, dopo più di quattro anni e tre gradi di giudizio, possiamo finalmente analizzarlo».
Ma riguardo al Dna quali anomalie ci sono state?
«In prima istanza non può esistere che la difesa non veda quello che viene dichiarata essere per tutti la "prova regina".
È secondo me una violazione del diritto di difesa. Inoltre a me risulta anomalo che un omicida riesca a lasciare una goccia di sangue (così dicono le sentenze) sulle mutandine e in corrispondenza dei leggins della povera Yara e nessun altro segno in tutto il corpo».
Cosa vuol dire?
«Non esiste alcun altro segno riconducibile geneticamente a Bossetti se non quello sulle mutandine. Un assassino tocca la vittima sul giubbotto, sul corpo, ovunque. Ebbene, nessuna traccia di Bossetti».
C'erano altre tracce di Dna?
«Ve ne erano altre undici. Soltanto una riconducibile a una persona nota, l'insegnante di ginnastica Silvia Brena (sangue o saliva), e poi altre denominate "uomo 1" e "donna 1", e alcuni ritrovamenti piliferi».
Altri elementi anomali?
«È un omicidio senza un movente e senza una dinamica chiara».
Cosa vuole dire?
«Che non conoscendo Yara l'omicida avrebbe dovuto caricarla in auto con la forza senza farsi vedere da nessuno e senza mai toccarla. Le sembra possibile e realistico? Inoltre nella famosa traccia 31g20 non c'è il mitocondriale di Bossetti, e oltre ad esistere nella stessa traccia anche una parte di Dna di Yara esiste un'altro incognito che non è né Yara né Bossetti».
L'assenza del mitocondriale nella traccia di Dna lo considera un elemento decisivo?
«Certamente sì! Pensi che fu grazie alla parte mitocondriale del Dna che si riuscì a comprendere a chi appartenevano alcuni corpi dopo l'attentato alle torri gemelle di New York l'11 settembre 2001. Perché la parte mitocondriale è quella più resistente a qualsiasi elemento, sia fuoco che acqua. In questo caso invece inspiegabilmente manca!».
Poi c'è il camioncino che incastrerebbe Bossetti, o no?
«Pensi che anche in questo sono riusciti in qualcosa di unico, quello di mettere insieme immagini di diversi furgoni per motivi di comunicazione in accordo con la Procura».
E adesso cosa succede?
«Succede che il professor Casari ha dichiarato di avere del materiale di Dna di "ignoto 1" e da qui si riapre tutto».
Perché si riapre?
«Perché finalmente la Corte d'assise di Bergamo ha concesso alla difesa di vedere e analizzare tutti i reperti, cosa che per cinque anni c'era stato negato, e questa è una grandissima prova di giustizia perché ci consente di richiedere (visto che ci sono nuovi elementi) la revisione del processo».
E Bossetti come sta?
«È felice, ci ha sempre detto che non può esserci una sua traccia di Dna su Yara perché lui non è stato e non l'ha nemmeno mai incontrata; noi abbiamo fatto presente l'importanza di questa sua dichiarazione, ma lui è sicuro di questo».
Anche lei è convinto che questa prova aiuterà Bossetti?
«Sono convinto che "ignoto 1" non sia Massimo».
E pensa che analizzando la traccia potrete capire realmente chi è stato?
«Penso che potremo avvicinarci nel capirlo, perché mi creda, anche noi avvocati che difendiamo Bossetti vogliamo sapere la verità su chi ha ucciso una ragazzina di 13 anni. Ma bisogna trovare il colpevole, non un colpevole». Giovanni Terzi
Denuncia per frode processuale. Caso Yara, Bossetti spera: si può ripetere il test del dna. Tiziana Maiolo il 30 Novembre 2019 su Il Riformista. Lo scatolone è di cartone bianco e un po’ malandato. Porta la scritta “plico 3” e la sigla TI_00205. Sull’esame, anzi il riesame, del suo contenuto poggiano oggi le speranze di Massimo Bossetti, il muratore bergamasco condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un pool di tecnici, avvocati, genetisti, informatici, docenti universitari, persone capaci di coltivare il “ragionevole dubbio” anche in presenza di una sentenza di condanna, si è messo spontaneamente a disposizione della famiglia per nuove perizie sui reperti che languivano sugli scaffali dove venivano conservati gli oggetti corpo di reato della procura della repubblica di Bergamo. Non si sa chi abbia fatto la richiesta, se Bossetti in persona o la moglie Marita Comi, visto che l’avvocato Salvagni, difensore storico dell’ergastolano, dice di non saperne niente. Lo scatolone è stato presentato giovedì scorso nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, la stessa, condotta da Marco Oliva, in cui un mese fa il professor Taormina aveva annunciato di aver presentato un’istanza alla procura generale di Brescia perché verificasse se all’ospedale san Raffaele di Milano esisteva ancora materiale genetico di Yara, come affermato in aula dal professor Giorgio Casari, consulente della procura di Bergamo. Il particolare non è secondario, perché la difesa di Bossetti nel corso dei processi aveva ripetutamente chiesto che fosse ripetuto l’esame del dna, l’unica prova su cui l’imputato è stato condannato, ma le era sempre stato risposto che non c’era più materiale disponibile. Un falso, evidentemente, che risulta anche scritto nella sentenza. Ma nei giorni scorsi il professor Casari, intervistato dal giornalista Giangavino Sulas per il settimanale Oggi, ha confermato che il materiale genetico esiste ancora. Ha anche aggiunto che (si presume in seguito all’istanza del professor Taormina) gli stessi magistrati ne hanno richiesto la consegna. «Stiamo restituendo le rimanenze alla procura di Bergamo» ha annunciato, aggiungendo che è meglio quel
materiale vada nelle mani giuste». Come a dire: si assumano i magistrati le loro responsabilità. Lui ha già dovuto rinunciare, negli anni scorsi, a un’intervista televisiva, proprio dopo la sua deposizione in aula, a causa di interventi “superiori”, proprio dal mondo investigativo. E la corte di cassazione ha dichiarato fuorvianti» le sue dichiarazioni. Comprensibile che un genetista stimato e consulente della procura chiami oggi la magistratura ad assumersi i suoi oneri, dopo tanti onori. C’è un accanimento incredibile contro chiunque osi mettere in dubbio quel processo e quella sentenza ripetuta ormai per tre volte. Ma stranamente, benché Massimo Bossetti non sia certo una persona potente capace di muovere intorno a sé il mondo intero, è incredibile anche quante siano ormai le persone che hanno dubbi sulla sua colpevolezza. Nel corso di questi anni si sono formati comitati e gruppi di suoi sostenitori che operano al di fuori della stretta difesa nel processo. Soprattutto perché emerge sempre più quanto quel processo costoso ( sono stati spesi 6 milioni di euro solo per gli esami del dna, cui sono state sottoposte tutte le persone di un’intera valle) non abbia portato a nessuna prova né sul movente né sulla dinamica dei fatti. C’è solo la prova del dna, quasi la giustizia abbia abdicato in favore della scienza. Ma oggi, con il riesame dei reperti ( in particolare computer e cellulare) che furono sequestrati a Bossetti e su cui si è a lungo favoleggiato su particolari che in seguito sono evaporati, e con la certezza che nella sentenza c’è scritto il falso sulla disponibilità di materiale genetico su cui rifare l’esame del dna, si apre più di uno spiraglio, forse un portone, per arrivare alla revisione del processo.
Lettera di Massimo Bossetti a “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2019. Gentile Direttore Feltri, forse rimarrà sorpreso che io Le scriva, ad essere sincero lo avevo in mente da molto tempo, ma la pressione della vicenda che mi ha travolto e il massacro mediatico mi hanno messo alle corde come un pugile che le ha prese di santa ragione. Ritengo che lei, da bergamasco doc, sia un uomo di sani principi. Io Direttore, non sono né l' assassino della povera Jara, né il mostro che i media e i social hanno dipinto. Sono un uomo normale, semplice che pensava al lavoro e a non far mancare nulla alla propria famiglia. Arriva quel maledetto giorno che ha sconvolto la mia vita e quella della mia famiglia, e dei miei cari che oggi mi guardano dal cielo, e sono convinto che questa vicenda li ha provati moltissimo. Non voglio entrare in questa lettera nei dettagli, però non posso fare a meno di dire che il trattamento che la giustizia italiana mi ha riservato è stato scorretto e ha calpestato ogni diritto alla difesa, e mi riferisco anche a quell'ex ministro dell' Interno incapace, che gridava al mondo che era stato preso l' assassino di Jara, calpestando la Costituzione. Poi in carcere a Bergamo, la P.M. e vari responsabili dell'organo penitenziario, mi pressavano a confessare in continuazione un delitto proponendomi benefici. Come potevo confessare un delitto che non ho commesso? La P.M. più volte ha provato a propormi benefici, se erano così sicuri di aver preso l'assassino, non li proponevano con insistenza, né benefici e tanto meno facevano produrre filmati manipolati da distribuire ai media. Poi, il non far assistere i miei legali alle prove più importanti dei reperti e del Dna. Grido dall' inizio di ripetere la prova del Dna e sono sicuro che Le verrebbe ogni ragionevole dubbio. Perché è stato commesso "UN GRAVE ERRORE GIUDIZIARIO" (tutto maiusolo nela lettera, ndr), non sono io il colpevole, e il codice di procedura penale dice chiaramente all' articolo 533 C.P.P. 1° comma che «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l' imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Direttore, La prego di porgermi la Sua mano d'aiuto, non è giusto essere dipinto un mostro, non è giusto che mi abbiano affibbiato un ergastolo, non è giusto che venga commesso un errore giudiziario, per l'incapacità professionale. Confido che Lei possa capire cosa ho e sto provando. Gentile Direttore, La prego di prendere in considerazione la mia richiesta d' aiuto, restando a sua completa disposizione per ulteriori chiarimenti. Le porgo i miei più cordiali saluti, sperando di ricevere Sue notizie. In fede MASSIMO BOSSETTI.
Lettera di Massimo Bossetti pubblicata da “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Dott. Feltri, lei è un grande! Grazie davvero di cuore per quanto lei umanamente di buon cuore bergamasco, decisamente come me, si è evidenziato. Per favore, di fronte a lei c' è un uomo disperato, che non sa più a chi e cosa aggrapparsi, ovunque mi trovo c' è solo sempre più terreno arido. Le chiedo semplicemente di non smettere MAI nel gridare quanto di disumano mi è stato fatto, agli occhi di tutti voi, del mondo intero. Sto soffrendo tantissimo per quanto non ho commesso. I miei figli, sempre mi chiedono: «Papà, quando vieni a casa, ci manca il tuo amore, l' affetto quotidiano come una vera famiglia, ci manchi tantissimo papà». Io di fronte a tutta questa sofferenza cerco di virare il discorso, dicendo di non preoccuparsi, strozzando il pianto in gola, ma poi la sofferenza prende il sopravvento e mi fa tracimare come un fiume in piena che appena ha rotto gli argini. Sto soffrendo tantissimo, soffro in silenzio, perché ho paura che io non riesca più a intravvedere l' azzurro del cielo, senza le sbarre tra i miei occhi, paura di perdermi quanto ancora lì fuori ho di più caro, per colpa di questo vergognoso, disumano, marcio, corrotto sistema, che interamente mi ha avvolto, senza il diritto di replica. Spero che questa ingiustizia non uccida pure me, come ha fatto con papà e mamma, che da "lassù" mi guardano e mi incoraggiano sempre più nel lottare, e non di farmi chiudere gli occhi per sempre. Caro Dott. Feltri, non le nego che faccio fatica a trovare le parole giuste per ringraziarla. Vedere martedì mattina la mia faccia sul suo giornale, un quotidiano da me sempre e molto apprezzato per come lei si esprime nei diversi temi trattati, il giorno dopo che arriva il mio legale l' avvocato Salvagni che mi abbraccia anche a suo nome, e la sera vedere lei su "La vitain diretta" che prendeva le mie difese, organizzando anche un intervista... Beh dott. Feltri, spero che io possa ricambiare presto con un sincero abbraccio. GRAZIE, GRAZIE MILLE, mi ha tirato su di morale sentire che non sono solo a pensare e ribadire che è stato commesso un "GRANDE ERRORE GIUDIZIARIO"! Sarà un piacere per me in futuro poterla incontrare, anche assieme al mio legale, sperando che la direttrice dia il suo consenso ad un incontro qui a Bollate. Io e il mio pool difensivo, al completo, siamo fiduciosi che venga dimostrata la mia innocenza, perché io mai mi rassegnerò per quanto di disumano ingiustamente ho subito. Non ho commesso nulla di quello di cui mi si accusa, e mi auguro che chi di dovere faccia il proprio lavoro in modo professionale, e dica la verità. Mi riferisco al dott. Casari (consulente della procura, ndr), che una volta per tutte dica che c' è ancora del Dna per ripetere il test, affinché si possa levare "OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO" e che la procura dia il suo benestare alla revisione del processo. Resto a sua disposizione per eventuali chiarimenti, ringraziandola di cuore per avermi porto la sua mano, che stringerò con immenso piacere. Con affetto cordiali saluti Bollate, 24.10.2019
PS: Dott. Feltri, il gadget che le ho inviato e che lei ha messo in bella mostra (la maglietta con la scritta “al di là di ogni ragionevole dubbio, ndr) è stata pensata accuratamente per sensibilizzare quanto in me non è accaduto dalla giustizia, e per lanciarla in vendita nel dare un aiuto economico ai miei figli (visto che ancora non lavoro) per poter partecipare alle spese nella continuazione agli studi. Ancora un immenso GRAZIE!!
Azzurra Barbato per “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Caro Massimo, per lenire il suo sconforto ci piacerebbe rinfrancarla con la speranza che un dì, prima o dopo, la sua innocenza salterà agli occhi del mondo intero, pronto a porgerle sentite scuse, e lei sarà considerato non più quel mostro che uccise una ragazzina indifesa, la quale stava tornando a casa, bensì un martire. Ossia un uomo che ha subìto il delitto atroce di essere reputato nonché giudicato quale omicida pur non essendolo. Tuttavia, non sarebbe onesto ricorrere alle solite frasi fatte, che si utilizzano per rincuorare chi è disperato: «Vedrai che tutto si risolverà», «Devi credere nella giustizia» e così via. Sciocchezze! La verità è che finché non interverranno fatti nuovi - come lei sicuramente sa - non esiste alcuna possibilità, neanche minima, che abbia luogo una revisione del processo. Dunque, è probabile che in cella ci trascorra tutta l' esistenza. Però sappia che noi non l' abbandoneremo. Le staremo al fianco. Continueremo a darle voce, a pubblicare i suoi scritti, a risponderle. Ad un essere umano si può togliere la libertà e pure la vita, ma non la parola. Essa è indistruttibile ed eterna. Il suo urlo ci giunge silenzioso, mesto, eppure assordante. Ci fracassa il petto. E ci fa rabbrividire l' ipotesi che lei davvero non c' entri un bel niente con quella brutta faccenda, con la scomparsa tragica di Yara, alla quale tutti noi ci siamo affezionati pur non avendola mai conosciuta. Se così fosse, là fuori, da qualche parte, c' è qualcuno, o più di uno, che ha massacrato sia una bambina abbandonandola in un campo, al gelo, ferita e terribilmente spaventata, sia un padre di famiglia, un marito, un individuo semplice, su cui è ricaduta la colpa di un gigantesco crimine. Qualora ci fosse un autentico responsabile, diverso da lei, sulla coscienza di questi ogni giorno deve pesare pure la sorte di Massimo Bossetti, condannato all' ergastolo per una nefandezza mai compiuta. Codesto pensiero non deve dargli tregua. Si può sfuggire alla giustizia degli uomini, ma io credo in una giustizia più grande che tutto vede e tutto conosce, persino i più impercettibili moti del cuore. Non abbia paura, Massimo. E scriva. Le darà sollievo nelle notti insonni, nella insostenibilità delle giornate infinite, nei momenti più bui, che sono quelli, come spiega, in cui le mancano i suoi figli e la sua famiglia tutta. Anch' essi sono vittime, a prescindere dalla sua colpevolezza o meno. E comprendo che la vera pena è stare loro lontano, non partecipare, non essere presente, non potere contribuire anche materialmente alla loro formazione. Desidero raccontarle una storia lieta, magari la risolleva un po', chissà. Io ci provo. Qualche anno fa mi è capitato di intervistare un signore, Giuseppe Gulotta, sessantunenne di Certaldo, il quale nel 1976, all' età di 18 anni, fu condannato all' ergastolo per duplice omicidio: era ritenuto colpevole dell' uccisone di due giovani carabinieri ad Alcamo. Giuseppe, muratore come lei, ha passato in gattabuia decenni, fino al 2012 quando è stato proclamato innocente per non avere commesso il fatto. La revisione del processo fu aperta nel 2011 grazie alle dichiarazioni rese da un ex brigadiere il quale testimoniò che la confessione di Gulotta era stata estorta per mezzo di atroci torture, dall' elettroshock all' annegamento simulato, dai pestaggi alle minacce di morte. La strage di Alcamo, tuttora irrisolta, rappresenta uno dei più gravi casi di errore giudiziario nonché di ingiusta detenzione nella storia italiana. Nel gennaio del 2017, quando finalmente Gulotta ottenne il risarcimento di 6,5 milioni di euro da parte dello Stato per il periodo trascorso dietro le sbarre, lo sentii al telefono e il suo pensiero andò proprio a Massimo Bossetti. Mi disse affranto: «Riguardo la vicenda di Bossetti nutro alcuni dubbi e me ne interesserò direttamente insieme ai miei avvocati. Nessuno può calcolare il costo di un solo giorno di vita strappato via. Soltanto chi patisce questo abuso può capire cosa si prova». Massimo, rammenti che non è solo. Le auguro che pure il suo "fine pena mai" muti in lieto fine. Un abbraccio.
Respinto il ricorso alla Corte Europea di Massimo Bossetti. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha ritenuto inammissibile il ricorso dei legali di Massimo Bossetti contro la sentenza di ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Lo ha comunicato la trasmissione Quarto Grado, che venerdì 27 settembre ha dato la notizia.Per il carpentiere di Mapello, condannato in via definitiva all’ergastolo, a questo punto resta solo la strada della revisione. «Ovviamente — il commento in trasmissione dell’avvocato Claudio Salvagni — una sentenza positiva della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sarebbe stata la più grande soddisfazione per noi avvocati che abbiamo sempre protestato per una violazione giuridica di questo processo. Però non cambia nulla perché la strada maestra rimane comunque la revisione: il legislatore ha ben compreso che i giudici sono uomini e possono sbagliare, ci sono tanti casi revisionati in Italia, di persone che hanno fatto anche 20 anni di carcere per poi essere dichiarate innocenti. A Bossetti ho detto che abbiamo raccolto degli altri sassolini che vanno a creare una piccola montagnetta, non abbiamo trovato una pietra gigantesca che possa ribaltare la sentenza in un attimo. Ci stiamo lavorando ma è un lavoro di tessitura molto difficile. Quello che posso dire è che abbiamo ulteriori elementi che vanno ad aggiungersi a quelli vecchi che ci confortano sulla nostra strada. Difficile dire che tempi ci saranno, tutto dipende dalla risposta che ci verrà data sull’analisi dei reperti. Vogliamo vedere questi reperti, vogliamo condurre degli esami su questi reperti e ci aspettiamo dei responsi. Una volta ottenuti questi responsi possiamo completare il quadro».
“BOSSETTI? E’ UN POVERO DISGRAZIATO, UN GIORNO LA VERITÀ SALTERÀ FUORI...” Anticipazione stampa da OGGI il 3 luglio 2019. «Bossetti? Un povero disgraziato. Mi fa pena. Vorrei guardarlo negli occhi e parlargli. Un giorno la verità salterà fuori. Temo che sia diversa da quella che ci hanno raccontato». E poi: «Siamo stati utilizzati perché qualcuno potesse coprirsi di gloria e di riconoscimenti. E qualcuno non ha fatto onore alla sua professione». E ancora: «Mio marito lo conoscevo troppo bene. Non ha lasciato figli in giro. Mi sarei accorta se mi avesse nascosto qualcosa». Queste alcune affermazioni di Laura Poli, 80 anni, vedova di Giuseppe Guerinoni, padre naturale di Massimo Bossetti, l’uomo il cui Dna, dopo un’inchiesta durata quattro anni, ha consentito alla giustizia di identificare e condannare l’assassino di Yara. L’ha intervistata per la prima volta il settimanale OGGI. Nel numero in edicola da domani, anche il racconto di come la signora aiutò gli inquirenti a prelevare il Dna del marito, defunto molti anni prima.
LA VERITÀ SU YARA. Da Notizie.yahoo il 23 settembre 2019. Omicidio Yara Gambirasio, emergono nuovi dettagli. Parla l’avvocato di Massimo Bossetti, l’uomo accusato della morte della giovane e in carcere per scontare l’ergastolo: “E’ un processo che mi ha cambiato la vita”. E continua: “Nulla sembra essere chiaro“.
Omicidio Yara Gambirasio. Della morte di Yara Gambirasio tanti sono i dettagli che sono rimasti nell’ombra, sconosciuti, nella complicata vicenda che ha visto la scomparsa della giovane il lontano 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, ritrovata poi abbandonata in un campo. Un processo lunghissimo e doloroso, per familiari e amici, conclusosi solamente il 12 ottobre 2018 con la condanna all’ergastolo di quello che è stato dichiarato l’unico colpevole del caso, Massimo Giuseppe Bossetti. Ma la vicenda sembra tornare nuovamente sotto i riflettori, con l’avvocato del colpevole che si fa avanti e torna a parlare, rivelando dettagli destinati a far discutere e che potrebbero aprire nuove strade sul terribile caso. Claudio Salvagni, l’avvocato, avrebbe rilasciato alcune importanti dichiarazioni nel corso di una trasmissione radiofonica di “Radio Cusano Campus”, riportando parte dei colloqui avuti in carcere con Bossetti: “Da una parte lui vuole esternare tutta la sua rabbia per la mancata possibilità di difendersi, dall’altra parte ci sono io. Questo è un processo che mi ha cambiato la vita”.
Le parole dell’avvocato di Bossetti. Salvagni ha anche parlato dell’idea, da parte di entrambi, di produrre un libro/memoriale sugli eventi del drammatico omicidio. L’avvocato avrebbe quindi fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per la violazione dei diritti di difesa: “Strasburgo potrebbe dire che Bossetti non ha mai avuto la possibilità di difendersi”, cosa che – se dovesse realmente verificarsi – darebbe la possibilità di chiedere e ottenere una nuova revisione del processo e di tutte le carte. E non sarebbe tutto. Per Salvagni sarebbero ancora tantissimi i dettagli su cui lavorare e su cui non sarebbe stata fatta la giusta chiarezza, in particolare sulla perizia per il Dna chiesta dal pool difensivo e negata diverse volte. “Non sappiamo se quegli slip esistono davvero o se hanno i buchi, perché sono stati fatti i prelievi del Dna“. Esami che secondo l’avvocato potrebbero essere stati falsificati, con il test condotto dal Ris che – sempre secondo il legale – potrebbe essere sbagliato: “Siamo convinti che rifacendo quell’esame verrebbe fuori un risultato completamente diverso. Nulla sembra essere chiaro”. Infine, il difensore di Bossetti si è detto convinto che la ragazza – la sera della scomparsa – non sarebbe mai uscita dalla palestra dove si sarebbe recata proprio nella tragica data del 26 novembre 2010.
“IO COME OLINDO E ROSA”. Anticipazione di Oggi il 4 settembre 2019. «Voglio fare un appello pubblico a chi di dovere, a chi custodisce i reperti del mio caso: chiedo che venga garantita la massima custodia e conservazione, che non vengano distrutti come accaduto in altri casi, affinché un domani la mia difesa possa fare un’ulteriore accurata indagine. Il timore che possano andare irrimediabilmente distrutti è alto, basti vedere quanto è avvenuto nel caso di Rosa e Olindo… Non per niente – scrive il carpentiere di Mapello – come me sono stati allegramente condannati all’ergastolo due sprovveduti, i coniugi di Erba». Così scrive Massimo Bossetti in una lettera-appello scritta al conduttore di «Iceberg» su Telelombardia Marco Oliva e che OGGI è in grado di anticipare nel numero in edicola da domani. Bossetti ribadisce la sua innocenza: «Lo ripeto e lo ribadirò finché ne avrò le forze, non sono io la persona che ha ucciso la piccola Yara, non ho minimamente idea di cosa potrebbe essere successo. Confermo la fiducia al mio legale, l’avvocato Claudio Salvagni e a tutto il suo pool che stanno percorrendo tutte le piste alternative senza tralasciare nulla di intentato». Si firma «Massimo Bossetti, prigioniero di Stato». Racconta cosa fa nel carcere di Bollate dove è stato trasferito: «Sto intraprendendo un percorso rieducativo, occupo il mio tempo in modo utile attraverso lo studio e le attività lavorative che il contesto qui offre». E annuncia di stare scrivendo un libro: «Dopo quanto abbiamo subito io e la mia famiglia, è inevitabile la stesura di un memoriale, non crede?».
"Io come Olindo". E Bossetti scrive un libro. Condannato all’ergastolo per il delitto: sono innocente, ecco il mio memoriale. Gabriele Moroni il 5 settembre 2019 su Il Giorno. Ha iniziato a scrivere nell’ottobre dello scorso anno, nel carcere di Bergamo, all’indomani del pronunciamento della Cassazione che aveva reso definitiva la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Ha proseguito dopo il trasferimento a Bollate, lo scorso maggio. Massimo Bossetti scrive ogni giorno, per più ore giorno, riempiendo con la sua scrittura, spesso a stampatello, decine e decine di fogli protocollo. E’ un memoriale, che parte dal giorno dell’arresto, il 14 giugno del 2014, mentre era al lavoro in un cantiere a Seriate, con frequenti flash-back agli anni felici che il muratore aveva vissuto nella casa di Mapello, accanto alla moglie Marita e ai tre figli. L'intenzione è quella di farne un libro, anzi un libro scritto con il suo storico difensore, l’avvocato Claudio Salvagni. «L’idea - dice Salvagni - è quella di un libro a quattro mani, alternandoci un capitolo io e uno Massimo. In quello che ha scritto finora Massimo ha messo non solo i fatti, ma anche i suoi sentimenti, le sue emozioni, le speranze deluse, la rabbia che prova, da innocente. Da parte mia sarà il racconto di una battaglia che, nelle fasi iniziali, non era neppure lontanamente prevedibile. Si è rivelata come qualcosa di immenso, una battaglia contro il sistema che si è chiuso a riccio e non ha consentito di esercitare appieno la difesa. Ma non sarà una riproposizione di atti giudiziarie di ricorsi. Nel libro ci sarà anche la mia storia personale, ci saranno le mie emozioni private, intime, per quello che è stato un lavoro incredibile e nello stesso tempo una grande esperienza umana». Il penalista si rivolge al mondo dell’editoria: «Per la casa editrice che decidesse di pubblicare il libro sarebbe una scelta di civiltà e non solo una scelta editoriale». Massimo Bossetti ha indirizzato una lunga (sette facciate) lettera a Marco Oliva, conduttore di ‘Iceberg’ sull’emittente Telelombardia, firmata ‘Massimo Bossetti, prigioniero di Stato’. «Voglio - è una delle frasi - fare un appello pubblico a chi di dovere, a chi custodisce i reperti del mio caso: chiedo che venga garantita la massima custodia e conservazione, che non vengano distrutti come accaduto in altri casi, affinché un domani la mia difesa possa fare un’ulteriore accurata indagine. Il timore che possano andare irrimediabilmente distrutti è alto, basti vedere quanto è avvenuto nel caso di Rosa e Olindo (i coniugi Romano, condannati al carcere a vita per la strage di Erba)». «Lo ripeto e lo ribadirò finché ne avrò le forze, non sono io la persona che ha ucciso la piccola Yara, non ho minimamente idea di cosa potrebbe essere successo». Il detenuto, l’ergastolano, il bandito che scrivono. Altri come Bossetti. In scena nella Milano violenta negli anni Settanta, Vincenzo Andraous ha scoperto nei “braccetti” del carcere di Voghera una vocazione di delicato poeta. Poi l’impegno di saggista, la fede, il volontariato. Si sono raccontati nei libri Luciano De Maria (rapina di via Osoppo a Milano), Angelo Epaminonda il Tebano, Saverio Morabito, pentito di ‘ndrangheta. Esordì nella letteratura nel 1963 con “La traduzione”. Silvano Ceccherini, livornese, basava quel crudo romanzo sulla sua vita di vagabondo, anarchico, rapinatore. Famoso il caso di Caryl Chessman. Condannato alla camera a gas nello Stato della California per rapina, sequestro di persona e violenza sessuale, riuscì a rinviare l’esecuzione per otto volte in dodici anni. Scrisse quattro libri di successo prima di essere giustiziato, il 2 maggio 1960.
"Sono un prigioniero dello Stato": Bossetti, libro bomba in cui urla la sua innocenza. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. Massimo Bossetti sta scrivendo un memoriale (un libro in cerca di editore, in pratica) sin dal giorno in cui la Cassazione l' ha condannato all' ergastolo per l' omicidio di Yara Gambirasio nel bergamasco, a Brembate di Sopra. Ci lavora da Bollate, dov' è rinchiuso. Ed è normale, i condannati lo fanno spesso per dimostrare di essere innocenti a dispetto dell' esito processuale: ma nel suo caso - forse anche perché è scritto a quattro mani col suo avvocato, Claudio Salvagni - forse nel libro potremo leggere anche un esercizio di difesa che in parecchi, a parte i giudici e qualche colpevolista televisivo, hanno avuto l'impressione che non sia stato esercitato appieno. Oltre a materiale da ricorso, ci saranno le sue emozioni private e un appello affinché il materiale probatorio del suo processo sia ben custodito, questo in vista di una possibile revisione giudiziaria e come, per esempio, non è accaduto - scrive Bossetti - nel caso di Rosa e Olindo, ergastolani per la strage di Erba. Insomma: che a margine di uno degli omicidi più mediaticamente coperti che si ricordino - il caso Yara - debba ricorrersi a un libro per apprendere chiaramente la posizione di Bossetti, in definitiva, non corrisponde per niente a una battuta e pare semmai emblematico. Di che cosa? Anzitutto del fatto che in Italia l' espressione giuridica «in dubio pro reo» (nel dubbio, giudica in favore dell' imputato») si applica solo a processi lontani dai riflettori. È sempre più forte l' impressione che ci sia una relazione quasi matematica tra la celebrità di un caso giudiziario e lo sforzo profuso per risolverlo: nel caso di Yara Gambirasio, però, forse si è toccato l' acme. Giornali e televisioni ne fecero un caso talmente percussivo da spingere le Forze dell' ordine a un dispendio di mezzi che senza la pressione dell' opinione pubblica, forse, avremmo continuato a vedere solo nei telefilm: battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, intercettazioni, rilevazioni satellitari, georadar, sensitivi, testimoni fatti tornare dal Centro America, 18mila campioni di Dna prelevati, e una spesa - pare - attorno ai tre milioni di euro. Prima ancora che valutazioni giuridiche, cioè, il caso Bossetti - o Yara - evidenzia una clamorosa disparità di trattamento rispetto ad altri casi, ma, soprattutto, ufficializza che le indagini e i processi di grande impatto mediatico hanno una celebrazione più rapida. D' un tratto sparisce la cronica lentezza della giustizia italiana: i casi Yara (o Cogne, o Boettcher) filano via come lippe e si concludono sempre con pene molto alte, come si dice: esemplari.
L'ergastolo - Nel caso di Bossetti, l' ergastolo è stato confermato a margine di un processo che più indiziario non si può, ergo: senza delle prove propriamente dette. Ci fu l' arresto e il frettoloso proscioglimento di un primo sospettato, poi le strane circostanze del ritrovamento del corpo (l' ha trovato un tizio a caso, dopo mesi di affannose ricerche dei carabinieri) e ci fu una pressione popolare fuori dalle righe. Nel giorno del funerale di Yara, fu letto un messaggio del presidente della Repubblica mentre tuttologi come Roberto Saviano ritennero di dover suggerire piste camorristiche, ovviamente infondate. Poi, a tre anni dall' omicidio, eccoti spuntare Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello (incensurato) a cui gli inquirenti arrivarono per esclusione di tanti altri e per sovrapponibilità del suo Dna con quello rinvenuto sugli indumenti intimi di Yara: e qui si entra nel mondo complicatissimo delle perizie genetiche. Poi ci fu che alcune telecamere di sorveglianza avevano filmato il furgone di Bossetti nella strada in cui Yara frequentava una palestra, o così pare. Sulle prove genetiche non proviamo neppure a pronunciarci: basti che furono contestatissime e che la procura rifiutò di ripeterle, sicché il processo dovette attenersi solo agli accertamenti parziali dell' accusa. Anche la faccenda del furgone con cui Bossetti avrebbe adescato Yara: a molti parve un caricamento improbabile e immotivato dopo il quale, oltretutto, lui avrebbe guidato per una decina di chilometri senza che lei, intanto, riuscisse a ribellarsi o provasse a fuggire. Comunque Bossetti è stato condannato con l' aggravante della crudeltà e la revoca della potestà sui tre figli. La Cassazione ha parlato di «evidenza scientifica» e di «prova piena». Resta la libertà di pensare che qualsiasi tribunale anglosassone l' avrebbe assolto per mancanza di prove o, forse, più probabilmente, non sarebbe neppure arrivato a un processo. Perché poi i processi bisogna concluderli: presto e male, in questo caso. Intanto Bossetti scrive. Ne ha tutto il tempo. Filippo Facci
Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso? Dna e nuovi elementi (Quarto Grado). Il caso sul delitto di Yara Gambirasio potrebbe essere riaperto. La difesa di Massimo Bossetti afferma di avere elementi sufficienti, le novità stasera a Quarto Grado, scrive il 22.03.2019 Emanuela Longo su Il Sussidiario. Il caso sull’omicidio di Yara Gambirasio, nonostante tre gradi di giudizio abbiano indicato in Massimo Bossetti il suo assassino, potrebbe non essersi ancora del tutto concluso. La trasmissione Quarto Grado torna anche questa sera a porre l’attenzione su uno dei delitti tra i più mediatici della storia, quello della 13enne di Brembate, promessa stella della ginnastica artistica, uccisa il 26 novembre 2010. Per quell’omicidio, il carpentiere di Mapello, Massimo Bossetti, è stato condannato in via definitiva alla pena dell’ergastolo ma sin dal giorno del suo arresto non ha mai smesso di ribadire la sua totale estraneità rispetto alle accuse che gli sono state mosse. Bossetti tuttavia è sempre stato il solo indagato per l’uccisione della giovane Yara e soprattutto ad incastrarlo è stata quella prova regina tanto contestata dalla sua difesa, ovvero il Dna. Dopo cinque mesi dalla sentenza emessa dai giudici della Cassazione, però, potrebbe ora giungere un clamoroso colpo di scena che farebbe riaprire nuovamente l’intero caso. La difesa di Bossetti ritiene infatti di avere tra le mani elementi sufficienti per capovolgere le carte in tavola e, forse, riuscire dopo anni di tentativi a scagionare il proprio assistito dalle pesanti accuse di fronte alle quali i giudici di ben tre gradi di giudizio non hanno mai avuto alcun dubbio circa la colpevolezza del solo imputato.
MASSIMO BOSSETTI, REVISIONE PROCESSO? A sperare in una svolta che potrebbe essere rappresentata dalla riapertura del processo ora è anche Massimo Bossetti. La sua difesa non ha mai smesso di credere nella sua innocenza e lo dimostra il duro lavoro mai cessato anche dopo l’ennesima condanna all’ergastolo che lo ha bollato a tutti gli effetti ed “al di là di ogni ragionevole dubbio” come l’assassino di Yara Gambirasio. “Per un processo di revisione serve qualcosa di forte, fortissimo. Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle”, sono state le parole pronunciate di recente da Ezio Denti, uno dei consulenti tecnici che fa parte del team difensivo di Bossetti, intervenendo a Radio Cusano Campus. Denti ha confermato di non essersi mai fermato anche di fronte alle dure sentenze nei confronti del carpentiere di Mapello ma di essere ora pronto a ridare battaglia.
OMICIDIO YARA GAMBIRASIO: LA QUESTIONE DEL DNA. Su cosa si baserà la difesa di Massimo Bossetti nel richiedere la revisione del processo resta ancora un mistero. Ciò che trapela però, stando alle parole di Denti, è che “l’errore di questo processo è all’inizio. C’è un errore che si son portati fino alla fine”. Il riferimento è forse al Dna che ha portato ad incastrare il carpentiere? Il consulente ha aggiunto che nel revisionare le carte sono trapelate “delle anomalie che potrebbero portare a riaprire il caso. Ci servono elementi forti e concreti, li stiamo classificando uno ad uno e credo che questa possibilità possa esserci”. Al centro dell’attenzione della difesa, non solo le questioni scientifiche più volte ribadite, ma anche “attività di soggetti interessanti”. La difesa in passato aveva lanciato un appello ai cittadini di Brembate chiedendo loro di farsi avanti se avessero saputo qualcosa di importante. “Abbiamo quindi ricevuto diverse informazioni che sono interessanti”, ha confermato ora il consulente. Tornando invece all’annosa questione del Dna e al mancato accoglimento della richiesta di poter eseguire una nuova perizia, sarebbe emersa una tesi discordante in merito alle quantità di Dna rinvenuto sugli abiti di Yara Gambirasio. Se nell’interrogatorio in carcere gli inquirenti ammisero che il Dna era tanto, al punto da poter riempire un flacone, differente fu quanto sostenuto in seguito dal Procuratore del Tribunale di Bergamo, Eugenio Meroni, che invece ritenne l’esigua quantità del Dna, tale da non poter permettere di poter ripetere il test.
Massimo Bossetti, "possibile la revisione del processo". Yara Gambirasio, svolta clamorosa? Scrive il 15 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il processo contro Massimo Bossetti, condannato per l'omicidio della 13enneYara Gambirasio, potrebbe riaprirsi clamorosamente. "Per un processo di revisione serve qualcosa di forte, fortissimo. Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle". Lo ha rivelato Ezio Denti, uno dei consulenti tecnici della difesa del carpentiere di Mapello, comune della Bergamasca, condannato in via definitiva all'ergastolo. Intervenuto ai microfoni della trasmissione L'Italia s'è Desta in onda su Radio Cusano Campus, ha spiegato: "Non mi sono mai fermato. Abbiamo ricominciato da capo. Il tempo ci darà ragione". "L'errore di questo processo è all'inizio. C'è un errore che si son portati fino alla fine". Ecco perché "nel revisionare le carte ci sono delle anomalie che potrebbero portare a riaprire il caso. Ci servono elementi forti e concreti, li stiamo classificando uno ad uno e credo che questa possibilità possa esserci. Al di là delle questioni scientifiche, comunque centrali, ci stiamo concentrando sulle attività di soggetti interessanti. Noi avevamo fatto un appello ai cittadini di Brembate per chiedere loro di farsi avanti se sapevano qualcosa. Abbiamo quindi ricevuto diverse informazioni che sono interessanti".
L’ultra petitum della sentenza Bossetti: la Cassazione e il “contenitore mediatico”, scrive il 22 Febbraio 2019 Giulio Vasaturo su articolo21.org. Con la sentenza n. 52872 del 23 novembre 2018 (udienza 12 ottobre 2018), la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha definitivamente stabilito la verità (giudiziaria) sul brutale omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, avvenuto a Chignolo d’Isola, in provincia di Bergamo, il 26 novembre del 2010. Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, è stato riconosciuto come il responsabile dell’atroce delitto, commesso con efferate sevizie e crudeltà, e per questo destinato all’ergastolo. Le argomentazioni con cui la Suprema Corte ha confutato, uno ad uno, i rilievi difensivi, volti ad insinuare un “ragionevole dubbio” circa la colpevolezza dell’imputato, appaiono insuperabili, sia sotto il profilo logico che squisitamente giuridico. Colpisce, però, nel tessuto motivazionale della decisione, l’approccio a dir poco inusuale con cui il giudice di legittimità si è soffermato, a tratti in maniera sferzante, nel vagliare le deduzioni del ricorrente. Il sommo Collegio lascia trasparire la volontà di respingere non solo le «pseudo-valutazioni tecniche che sono estranee alle argomentazioni sviluppate dagli esperti (anche della difesa)», in quanto «frutto» – secondo il lapidario giudizio della Corte – «della scienza privata del difensore» (punto 13.1), ma anche ed a tratti – viene da dire – soprattutto, quelle congetture che negli anni si sono rincorse nei salotti televisivi ove si è celebrato, contestualmente, il “processo mediatico”. A fronte della preliminare declaratoria di inammissibilità del ricorso, la meticolosa ponderazione con cui la Corte ha demolito l’intero costrutto difensivo viene fatta discendere, per espressa ammissione degli stessi giudici, dall’esigenza non secondaria di replicare alle semplificazioni diffuse dai talk show serali. Vi sono alcuni passaggi della pronuncia in esame in cui viene ad infrangersi apertamente, per la prima volta, la regola aurea della giurisdizione penale che vuole che lo ius dicere appaia, almeno nella forma, impermeabile rispetto a quel che viene detto al di là ed al di fuori delle aule di giustizia (quod non est in actis non est in mundo). Nel contestare le asserzioni con cui la difesa, con «sorda ostinazione» (punto 2 della sentenza), ha tentato di ribaltare la duplice e conforme condanna di merito, con particolare riguardo al nodo centrale della validità scientifica e processuale della prova del DNA, la Corte di Cassazione, da un lato, ribadisce l’irricevibilità di simili eccezioni nel giudizio di legittimità ma, dall’altro, si dichiara ben «consapevole delle reiterate mistificazioni di cui è stato alimentato il dibattito tecnico e pubblico sulla vicenda» (punto 7) per cui ritiene di dover comunque valicare i limiti del sindacato giurisdizionale, strettamente imposti dal devoluto. Attraverso il consapevole ricorso all’ultra petitum, il giudice di nomofilachia vuol tacitare così, insieme alla perorazione difensiva «spesso caotica e sempre ripetitiva e priva di una effettiva autocritica» (punto 1.1), ogni ulteriore illazione ripresa dai social, dai giornali, dalle tv. La Cassazione procede con intransigente severità critica, «tenuto conto dei reiterati tentativi di mistificazione degli elementi di fatto che caratterizzano numerose censure contenute nel ricorso, amplificate – ed è questa la sottolineatura più emblematica – da improprie pubbliche sintetizzazioni» (punto 12). Eloquente è ad esempio l’inciso con cui la Corte rileva, «visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extraprocessuale», che «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del DNA dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica» (punto 16.5.4 della sentenza). L’intento esplicito del Collegio è quello di mostrare la «strumentalità» delle tesi difensive, «non infrequentemente esposte anche al di fuori del contenitore processuale» (punto 16.5); vale a dire in quel tanto vituperato “contenitore mediatico” a cui i giudici di Cassazione lasciano clamorosamente intendere di aver guardato, per l’intero corso del dibattimento, con estrema attenzione e con cui, al termine della vicenda giudiziaria, si confrontano apertamente per esplicare le ragioni (indubbiamente persuasive) che impongono la condanna del reo. Dal punto di vista comunicativo, la sentenza Bossetti costituisce un unicum giurisprudenziale e non tarderà a richiamare l’attenzione, oltre che dei giuristi, di quanti studiano l’impatto dei media nel processo penale e, più in generale, nella società del nostro tempo.
Bossetti dal carcere: “Mi hanno offerto benefici in cambio di una confessione”, scrive Bergamo News il 31 gennaio 2019. Le parole di Massimo Bossetti in una lunga lettera inviata a Marco Oliva, conduttore della trasmissione di Telelombardia "Iceberg Lombardia" che giovedì sera ne trasmetterà la versione integrale. Massimo Bossetti torna a parlare. Lo fa dal carcere di Bergamo, con una lunga lettera indirizzata a Marco Oliva, conduttore della trasmissione “Iceberg Lombardia”, in onda su Telelombardia: nella puntata di giovedì sera, a partire dalle 20.30, verrà diffusa la versione integrale di cui vi proponiamo qui di seguito uno stralcio. “Avrei potuto usufruire di benefici se mi fossi proclamato colpevole, molte volte mi sono state fatte delle proposte dalle persone che hanno indagato, ma il sottoscritto ha sempre declinato. Ho sempre declinato la proposta di confessare perché come padre devo poter guardare negli occhi i miei figli. Qualcuno si è mai chiesto cosa hanno subito e cosa continuano a subire i miei famigliari? Non credo. Sono quattro anni e sette mesi che sono detenuto e che chiedo un test del dna che sgombri ogni dubbio. Nei tribunali ho sentito solo ipotesi senza che siano state portate prove serie, granitiche e concrete. Questo non danneggia solo me e la mia famiglia, ma non rende giustizia neanche alla povera Yara. Continuo a ripetere e griderò no a quando avrò forze che non sono io la persona che ha ucciso Yara e se qualcuno pensa che io nasconda altre persone si sbaglia. Sono stati spesi milioni di euro e bisognava trovare un capro espiatorio, ma si è tralasciato di cercare altre piste che avrebbero portato la reale verità e non una verità costruita mediaticamente. Io sono padre di tre gli, di cui due bambine. Se fosse stata coinvolta in una vicenda simile una delle mie figlie io non mi sarei dato pace. Aspetto con pazienza perché sono certo che prima o poi la verità salterà fuori. Massimo Bossetti, Prigioniero di Stato”.
L'avvocato di Bossetti: "Cerchiamo un uomo misterioso". Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, non si arrende e di fatto apre nuovi scenari sul delitto, scrive Luca Romano, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". Il legale, secondo quanto riporta Como News 24 avrebbe affermato di aver ricevuto un dossier da una persona vicina a lui che potrebbe di fatto riscrivere la storia del processo. Una pista alternativa a quella che ha portato in carcere con condanna all'ergastolo il muratore di Mapello, Massimo Bossetti: "Cerchiamo un uomo misterioso la cui posizione va valutata attentamente", ha affermato in una intervista a Telelombardia. Una nuova ipotesi investigativa dunque su cui si sta concentrando il legale di Bossetti. Di fatto l'avvocato non ha accettato la sentenza della Cassazione che ha condannato il muratore di Mapello al carcere a vita. Subito dopo il verdetto dei giudici aveva detto: "Riteniamo questa sentenza in violazione della convenzione dei diritti dell’uomo perché non è stato rispettato il diritto di difesa. Ricorreremo a Strasburgo. Le sentenze della Suprema Corte di Cassazione non sono distillati di verità, anche loro sbagliano. Sono umani, ma la scienza è scienza: una cellula senza Dna mitocondriale non esiste. Bossetti non si è potuto difendere perché non ha mai partecipato a nessuna perizia. Io gli atti di fede li faccio in chiesa. Io non mi fido e voglio partecipare alle perizie, non mi interessa dei risultati". Adesso per il legale si apre una nuova strada investigativa da seguire.
La genetica non ha dato scampo a Bossetti, scrive LF, Martedì 22/01/2019, su "Il Giornale". Una possibilità su 3.700 miliardi di miliardi di miliardi: a questa cifra quasi impronunciabile ammontano secondo la Cassazione le possibilità che il Dna trovato sui leggins e sugli slip di Yara Gambirasio non sia quello di Massimo Bossetti, il muratore che per l'omicidio della ragazzina (26 novembre 2010) è stato condannato all'ergastolo. Tanti indizi, contro di lui, ma una sola prova: il Dna. Tanto da fare del «caso Yara» un caso di scuola, studiato in tutto il mondo per l'applicazione delle analisi genetiche al diritto penale: approdando a quello che la Cassazione definisce «un processo dominato dal sapere scientifico». Nelle 155 pagine della sentenza che il 12 ottobre scorso ha reso definitiva la condanna di Bossetti, il peso del Dna grava come un macigno su due passaggi chiave delle accuse contro il muratore di Mapello. Il primo riguarda il percorso dell'inchiesta, ed è importante perché garantisce che ad accusare Bossetti si è arrivati seguendo una traccia precisa: l'identificazione certa di «Ignoto 1», il titolare del Dna trovato sui resti della ragazzina, come figlio illegittimo di Ester Azzuffi e Giuseppe Guerinoni: la prima analisi dà una compatibilità al 99,87 per cento, quando poi dal bollo di una vecchia patente si estrae il vero Dna di Guerinoni (morto da tempo) la compatibilità sale al 99,9999929%; quando si esuma Guerinoni, si arriva al 99,99999987%. Da quel momento il cerchio di stringe progressivamente, dall'indizio più vago fornito dal Dna - l'assassino ha gli occhi azzurri - fino ad incastrare Bossetti. Se - come ricorda la sentenza - in astratto la possibilità di due individui con lo stesso Dna è di 1 su 20 miliardi, nel caso concreto, incrociando i dati sui genotipi dei 36.500 campioni genetici in mano al Ris di Parma, la percentuale di errori scende a ridosso dello zero assoluto: 10 alla meno trentunesima. Quella possibilità su 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di cui parla la sentenza. Certo, esiste in astratto l'ipotesi che qualcuno abbia ricostruito in laboratorio il Dna di Bossetti e lo abbia sparso sui resti di Yara: «Idea priva di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà».
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La vittoria di Amanda Knox Giustizia italiana condannata.
Da ilfattoquotidiano.it il 24 novembre 2019. Raffaele Sollecito ha un nuovo amore. È lui stesso a rivelarlo in un’intervista al settimanale Oggi in cui ha presentato ufficialmente la sua nuova compagna: Andreea Mihaela Gheorghe, 22 anni, di origini romene. Proprio lei ha confessato che si sono conosciuti in università grazie alla sua somiglianza con Amanda Knox, la ragazza americana accusata e poi assolta assieme a lui per l’omicidio di Meredith Kercher nel 2007. “Ero in Spagna per l’Erasmus – ha raccontato Andreea al settimanale – e un giorno un professore mi disse che avevo uno sguardo da Amanda Knox. Non sapevo chi fosse questa Amanda Knox e sono subito andata a vedere su internet. E lì ho scoperto Raffaele. Con tutta la sua storia. Ho guardato dei video, l’ho ascoltato in alcune interviste e mi è subito piaciuto tantissimo. Era carino, aveva quest’aria pulita da ragazzino e nonostante tutto quello che aveva passato mi colpiva la calma con cui si esprimeva”. Così, ha cercato Sollecito su Facebook e gli ha scritto: “Non volevo essere invadente – prosegue la 22enne – gli ho scritto un messaggio, lui mi ha risposto e a forza di scriverci è nato il desiderio di sentirci. Ci siamo parlati al telefono ed è venuto il desiderio di vederci. Quando Raffaele mi ha invitato a Milano non ho avuto il minimo dubbio – spiega Andreea -. Sapevo d’andare alla ventura in una grande città dove non ero mai stata, dove non avevo amici o conoscenti. Raffaele era il mio unico riferimento. Lo conoscevo da poco, ma ero sicura che fosse una persona sensibile, incapace di fare del male, incapace addirittura di concepirlo”. Dovevano vedersi solo per qualche giorno e invece alla fine la ragazza si è fermata a Milano per un mese: i due si sono innamorati e così, anche se lei ai primi di ottobre è dovuta tornare in Romania per finire gli studi, già non vede l’ora di tornare “dalla persona più stabile, gentile, e carina che abbia mai conosciuto in vita mia“. ”Finalmente riesco a vivere un amore vero, svincolato da qualsiasi preconcetto o pregiudizio – ha aggiunto Raffaele Sollecito -. Finalmente ho qualcuno che mi aiuta a guardare davanti a me. E se guardo al futuro mi vedo con lei. A luglio 2020 si laurea, il giorno dopo raccoglie armi e bagagli, viene a Milano e andiamo a vivere insieme”.
FUGGITE, PRESTO: AMANDA KNOX E LORENA BOBBITT SI SONO ALLEATE! DAGONEWS il 12 novembre 2019. La strada coppia: Amanda Knox e Lorena Bobbitt stanno conducendo una battaglia insieme per denunciare di essere state “diffamate e umiliate”, condannando il modo in cui le loro vicende sono state trattate. Le due donne hanno partecipato al festival del crimine “Death Becomes Us”, a Washington D.C. ma prima hanno dato un’intervista a FOX 5 in cui hanno parlato di come le loro esperienze le hanno fatte incontrare. «Lorena e io abbiamo molto in comune - ha detto Knox – la nostra partecipazione al festival è stato un momento storico per le donne che si sono sentire umiliate. Non vedi donne diffamate farsi avanti sostenendosi a vicenda». Knox ha puntato il dito contro «coloro che hanno sfruttato il nostro trauma per profitto e divertimento. La gente si aspetta che persone come noi striscino sotto una roccia per la vergogna. Stiamo dimostrando che non siamo i personaggi che pensavate». Lorena ha aggiunto che ora le persone conosceranno la verità visto che saranno loro in prima persona a parlare di ciò che è accaduto.
Amanda Knox diventa commentatrice per un giornale (del suocero). Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Collaborazione gratuita al Westside Seattle: «I 4 anni passati in galera in Italia da innocente le hanno dato una visione particolare della vita. «Ask Amanda Knox» (Chiedi ad Amanda Knox). È il nome della rubrica che l’americana 32enne, prima condannata e poi assolta per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia esattamente dodici anni fa (nella notte tra il 1 e il 2 novembre 2007), terrà su un quotidiano locale della zona di Seattle, nello Stato di Washington. Il Westside Seattle, mensile che ha anche una sezione online, è di proprietà della famiglia di Christopher Robinson, che nel prossimo febbraio diventerà marito di Amanda. Una nota del settimanale spiega che «i quattro anni di Amanda passati in galera in Italia per un omicidio che non aveva commesso le hanno dato una visione particolare della vita. E quindi è in grado di offrire la sua prospettiva ai lettori sulla vita, l’amore, la sofferenza e il loro significato». Gratis, viene sottolineato. Non tutti i lettori hanno apprezzato. Qualcuno ha scritto al giornale dicendo «no, grazie». Il direttore Patrick Robinson ha risposto che «se qualcuno mette ancora in dubbio l’innocenza di Amanda dopo tutto quello che ha passato, dico che basta incontrala e parlare con lei per avere ammirazione per questa donna sincera, capace e brillante». Non è stato chiarito quando inizierà la collaborazione.
Usa, Amanda Knox avrà una rubrica su amore e vita. L'editore: "È stata in carcere in Italia. Ha una visione unica". La 32enne americana, che ha trascorso quasi quattro anni in una prigione italiana dopo la condanna per l'omicidio del 2007 di Meredith Kercher, trovata senza vita proprio il primo novembre di 12 anni fa a Perugia, risponderà a domande dei lettori su varie tematiche. E sui social partono le critiche: "Vergognoso". Katia Riccardi il 31 ottobre 2019 su La Repubblica. "Ask Amanda Knox", Chiedi ad Amanda Knox. Si chiamerà così la rubrica del Westside Seattle in cui la 32enne americana, che ha trascorso quasi quattro anni in una prigione italiana dopo la condanna per l'omicidio del 2007 di Meredith Kercher, trovata senza vita proprio il primo novembre di 12 anni fa a Perugia, risponderà a domande dei lettori su varie tematiche. Amore, sofferenza, vita, tristezza. Magari amicizia. L'editore del settimanale Westside Seattle ha annunciato l'avvio della rubrica, in una nota, spiegando che i quattro anni che Knox ha trascorso in carcere in Italia "per un omicidio che non ha commesso", le hanno dato "una prospettiva unica sulla vita". "Completamente scagionata, questa autrice di besteller e attivista per la riforma della giustizia penale offre le sue opinioni, così come sono, rispondendo alle domande del lettore su vita, amore, sofferenza e il loro significato", ha aggiunto l'editore. Sui social sono cominciate le critiche. Non solo dall'italia, non solo sull'omicidio di Meredith. Amanda Knox è criticata per essere "una raccomandata". Il quotidiano è di proprietà della famiglia del marito, Christopher Robinson. Ma il Westside Seattle continua a difendere la sua posizione, tenendo a specificare che Amanda non sarà pagata per questa rubrica e che lei stessa ha semplicemente "scelto di usare la sua esperienza di vita in modo positivo".
Meredith Kercher fu trovata morta con la gola tagliata a Perugia la sera del primo novembre 2007. Domani, 12 anni fa. Era una studentessa inglese arrivata in Italia con l'Erasmus e condivideva la casa con altri studenti. Per l'omicidio è stato condannato in via definitiva con rito abbreviato il cittadino ivoriano Rudy Guede come unico responsabile. Il processo ha avuto un iter giudiziario travagliato. In primo grado, come concorrenti nell'omicidio, furono condannati dalla Corte d'Assise di Perugia anche Amanda Knox e l'italiano Raffaele Sollecito. Il 30 gennaio 2014 la Corte d'Assise d'Appello di Firenze sancì la colpevolezza degli imputati condannando Knox a 28 anni e 6 mesi di reclusione e Raffaele Sollecito a 25 anni. L'anno dopo la quinta sezione penale della Corte suprema di cassazione annullò le condanne.
Da ilmessaggero.it il 31 Ottobre 2019. Dubbi esistenziali, domande o nodi da sciogliere? Se siete nell'area di Seattle, potrete parlarne con Amanda Knox. Si chiamerà «Ask Amanda Knox» la rubrica con cui la 32enne americana, due volte condannata e due volte assolta, l'ultima in via definitiva, per l'omicidio di Meredith Kercher, risponderà alle domande dei lettori di un giornale della città della West Coast. A colpire il fatto che il Westside Seattle - un settimanale locale di proprietà della famiglia di Christopher Robinson, il marito della Knox - abbia annunciato la nuova rubrica a pochi giorni dell'anniversario della morte della 21enne studentessa britannica, uccisa a Perugia il primo novembre 2007, come fa notare oggi il Daily Beast. Ed alla vicenda fa direttamente riferimento la nota con cui, nei giorni scorsi, il direttore del giornale della città dove Knox è tornata a vivere dopo essere stata scarcerata nel 2011, ha scritto che i quattro anni trascorsi in una prigione italiana «per un delitto che non aveva commesso» le hanno dato «una prospettiva unica sulla vita». «Ora completamente prosciolta da ogni accusa, questa scrittrice di bestseller ed attivista per la riforma della giustizia penale offre la sua visione per rispondere alle domande dei lettori sulla vita, l'amore, il dolore ed il suo significato», conclude il Westside Seattle sulle sue pagine social. Non sono mancate le proteste di un lettore, a cui il direttore, Patrick Robinson, ha risposto: «per chi abbia avuto dubbi, o ha ancora dubbi, dopo tutto quello che è emerso, sulla sua innocenza, tutto quello che posso dire è che se la incontraste, avendo l'occasione di parlare con lei e conoscerla, non avreste altro che ammirazione per lei». Robinson ha poi aggiunto che Knox non sarà pagata dal giornale con il quale ha deciso di collaborare semplicemente per «usare l'esperienza della sua vita in modo positivo».
Da I Lunatici Radio2 il 20 giugno 2019. Raffaele Sollecito è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Sollecito ha parlato del ritorno in Italia di Amanda Knox: "Mi è dispiaciuto molto vederla sofferente dopo il suo intervento. Come era in tribunale, 12 anni fa. Dopo il convegno l'ho chiamata, prima no. Io non sono stato invitato, quindi all'inizio mi sono disinteressato. Non so perché non mi abbiano invitato, non ne ho idea. In un'occasione del genere, in cui si parla di quel caso, mi aspettavo che invitassero tutti i protagonisti, anche me. E' andata così, amen. Con Amanda non ci sentivamo da un mesetto, mi aveva già annunciato che sarebbe venuta in Italia. Quando ci siamo sentiti dopo il convegno le ho detto che mi è dispiaciuta vederla così sofferente. Ha detto delle cose giuste, sacrosante. L'ho seguita, mi è dispiaciuto non aver partecipato". Sollecito ha aggiunto: "Io e Amanda siamo stati assolti, siamo innocenti, ma secondo me la gente non l'ha ancora capito. Dipende da come i media hanno descritto sin dall'inizio la situazione. Io sono stato sempre descritto come il lacchè di Amanda. E soprattutto perché tutto quello che c'è stato dopo l'assoluzione non è stato altro che un clamore mediatico dove anche gli inquirenti non hanno mai chiesto scusa, anzi hanno detto che abbiamo avuto fortuna, quando loro hanno commesso un errore clamoroso, sbattendo in carcere per quattro anni due persone innocenti e rovinandogli la vita. Gli inquirenti e i pubblici ministeri non hanno mai chiesto scusa, non hanno mai detto di aver sbagliato, continuano a dire di avere sospetti, ma secondo me si dovrebbero vergognare. Quando chi dice che siamo colpevoli fa parte delle istituzioni, si investe di una certa autorità, di cui mediamente l'italiano si fida. Il popolo si è fidato delle autorità. E poi c'è anche secondo me un pizzico di invidia ingiustificabile, dovuta al fatto che magari invidiano che siamo giovani, belli, con una buona famiglia alle spalle. Io da ingegnere per fortuna delle opportunità professionali le ho. Solo che dopo quello che mi è successo, se ci sono 100 possibilità, per me diventano 40 o anche meno. Ci sono aziende che mi hanno fatto domanda d'assunzione, mi hanno chiesto di trasferirmi e poi mi hanno rifiutato perché mi hanno detto espressamente che non volevano trovarsi ad affrontare la mediaticità che mi porto dietro". Sul suo rapporto con le donne: "L'amore? Per me è l'ultimo dei problemi. Quello che più mi fa rabbia e più mi pesa è legato a questioni professionali. In ambito sociale, ci sono ragazze che mi vedono un po' come il Ted Bundy della situazione. Alcune credono che io sia un personaggio oscuro e sono più attratte da me per questo. Ma alcune, per fortuna. Non tutte". In chiusura, Sollecito rivela: "Amanda ha detto di aver pensato al suicidio? Io ho affrontato più volte periodi di depressione molto forte. In uno degli ultimi periodi ci ho pensato. Quando mi trovo ad affrontare delle situazioni drammatiche vado in depressione e può capitare che pensi basta, non ce la faccio più. Io oggi sto discretamente, ho sempre le persone che mi conoscono davvero accanto. Mi sostengono. Solo che certe volte devo affrontare delle situazioni drammatiche, come quando mi sono trasferito per un nuovo lavoro e poi mi hanno chiuso la porta in faccia, facendomi perdere un sacco di soldi. Anche perché in Italia a me è stato negato un risarcimento. Quello che è successo a me può capitare a tutti".
Cara Amanda, (anche se in ritardo) ti chiediamo scusa…Lei e Raffaele Sollecito hanno subito non solo cinque gradi di giudizio ma l’accanimento mediatico. La stampa americana ha parlato, per il suo caso, di una nuova, moderna, caccia alle streghe. Ma tutto questo è davvero finito? Angela Azzaro il 7 Maggio 2019 su Il Dubbio. Se c’è una persona a cui dovremmo chiedere scusa, per aver subito un accanimento mediatico, questa è Amanda Knox. La giovane donna americana, accusata e poi assolta per la morte di Meredith Kercher, ha subito non solo cinque gradi di giudizio, ma per anni è stata vittima della condanna a priori da parte dell’opinione pubblica. Insieme all’altro imputato, anche lui assolto, l’allora fidanzato Raffaele Sollecito, ha dovuto sopportare il linciaggio mediatico e la denigrazione, a tal punto che i giornali statunitensi parlarono per il suo caso di una nuova, moderna, caccia alle streghe. Meredith Kercher venne uccisa il 1 novembre del 2007 a Perugia e per il suo omicidio l’unico colpevole è stato giudicato Rudy Guede, condannato con il rito abbreviato. Diversa è la vicenda processuale di Amanda e Raffaele, fatta di numerosi colpi di scena fino al 2015, quando la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze. Fino a quel momento la vita di Amanda viene presa di mira, vivisezionata, data in pasto al pubblico televisivo. L’Italia si divide in ( molti) colpevolisti e ( pochi) innocentisti. Passa allora il convincimento nell’opinione pubblica che la colpevolezza si fonda non sulle prove, ma sul “carattere” della persona, sul suo ritratto psicologico, peraltro affidato a improvvisati psicologi ospiti negli studi televisivi. Rispetto a Raffaele Sollecito, anche lui preso di mira, Amanda ha un’altra “colpa”: è una donna, è carina e appare sicura di sé. I suoi occhi non sono abbastanza contriti, non sono abbastanza umili. Ma questo per i giudici spietati del processo mediatico ha lo stesso effetto di una confessione. Con il contributo dei giornali e in particolare della tv, ogni fattore viene piegato a questa rappresentazione del caso. I giorni subito dopo il ritrovamento del cadavere, Amanda, che viveva con la vittima, si reca insieme al fidanzato in un negozio di biancheria intima. Spiegherà di averlo fatto perché aveva tutti gli indumenti nella casa sequestrata. I media non si fanno sfuggire l’occasione e quel dettaglio diventa lo stimolo per rappresentare i due come una coppia dedita ai giochi erotici, interessata solo al sesso, al tal punto da ignorare la morte dell’amica. Versione che del resto diventa movente secondo la pubblica accusa. In quegli anni ne sono state dette e scritte di tutti colori, a partire dal Dna che appariva e spariva sulla scena del delitto. L’assoluzione, come avrebbe dovuto, non ha però messo la parola fine e ancora oggi i colpevolisti continuano a farsi sentire, a non demordere. Per questo dobbiamo chiedere scusa ad Amanda Knox. Perché nonostante tutto quello che ha subito, nonostante una sentenza definitiva avrebbe dovuto levare ogni ombra, c’è chi continua a giudicarla, chi non si arrende all’evidenza. Tra gli effetti negativi del processo mediatico, oltre al colpo inferto alla presunzione di innocenza, c’è anche questo: non si smette mai di essere colpevoli, non si finisce mai di essere sotto osservazione. Per fortuna, Amanda vive lontano da qui, lontano dai riflettori dei media italiani. Ma le scuse gliele dobbiamo ancora tutte.
Amanda torna in Italia. L’icona del processo in tv parlerà di giustizia. Il presidente Sola: «Siamo convinti che il populismo oggi sia un problema profondo dal punto di vista giudiziario e politico e l’unico antidoto è di matrice culturale». Greta Marchesi 7 Maggio 2019 su Il Dubbio. Contrastare il populismo giudiziario, le cui degenerazioni sono il processo mass- mediatico e gli errori giudiziari. Con questo obiettivo la Camera penale di Modena insieme all’Italy Innocence Project ha organizzato per il 14 e 15 giugno la prima edizione del Festival della giustizia penale. Con un’ospite controversa: il 15 infatti ci sarà Amanda Knox. Contrastare il populismo giudiziario, le cui degenerazioni sono il processo mass- mediatico e gli errori giudiziari. Con questo obiettivo la Camera penale di Modena ha organizzato per il 14 e 15 giugno la prima edizione del Festival della giustizia penale. Con un’ospite controversa: il 15, infatti, il panel centrale ospiterà Amanda Knox, assolta dalla Corte di Cassazione in uno dei processi più mediatizzati degli ultimi anni. Con l’occasione, Knox tornerà in Italia per la prima volta in assoluto dopo sua scarcerazione e ha scelto di farlo ad un evento di valore scientifico, in un dibattito sul “Processo mediatico al cospetto dell’errore giudiziario”. «Il senso di organizzare un evento del genere è quello di analizzare il tema scelto dalla Camera penale per l’anno in corso: l’obiettivo di sconfiggere il populismo giudiziario», ha spiegato il presidente della Camera penale di Modena, Guido Sola, «Lo facciamo perché siamo convinti che il populismo oggi sia un problema profondo sia dal punto di vista giudiziario che politico e l’unico antidoto sia di matrice culturale. Dobbiamo ricostruire un dibattito pubblico che consenta di toccare temi fondamentali, uscendo dalle logiche della politica attuale che parla solo per proclami e slogan». Quanto alla presenza di Amanda Knox, il legame è stato intessuto dall’associazione Italy Innocence Project, parte nell’organizzazione del convegno insieme alla Camera Penale di Modena, con il professor Luca Luparia Donati, e associazione no profit che si occupa di studiare le problematiche collegate agli errori giudiziari e alle ingiuste detenzioni in Italia. Martina Cagossi, membro dell’associazione, ha spiegato come «la conoscenza con Amanda sia nata nel 2014, in America, durante le conferenze annuali dell’Innocence Network, che si occupa delle vicende giudiziarie di persone ingiustamente condannate e poi assolte in seguito a errori giudiziarie». Il senso della presenza di Knox, però, si declina a prescindere dalla sua vicenda prettamente giudiziaria: «Il suo caso è stato analizzato dai media in modo quasi patologico. Questo sarà al centro del dibattito scientifico, con l’obiettivo di ascoltarla sul tema di cosa sia trasparso all’opinione pubblica della sua immagine e come sia stata recepita». Inoltre, ha spiegato Martina Cagossi, Knox – pur non essendo più tornata in Italia – ha continuato a seguire con grande interesse le vicende degli Innocence Projects al di fuori degli Stati Uniti. Dello stesso avviso, Guido Sola, che ha spiegato come «La presenza di Knox si spiega alla luce del fatto che lei è oggettivamente un’icona del processo mass mediatico. Il suo processo si è di fatto certamente svolto quasi più fuori dalle aule che dentro le aule giudiziarie ed è stato uno dei processi in cui le indagini preliminari hanno avuto più risalto rispetto al dibattimento, cortocircuitando lo schema processuale». Il presidente della Camera penale modenese ha spiegato come «Uno dei problemi del processo penale sorge quando i magistrati e la polizia giudiziaria dialogano con media e televisione, fornendo anche materiali unilateralmente raccolti, in cui la difesa ha pochissimo margine di manovra». L’obiettivo, dunque, è quello di continuare sulla scia dell’analisi delle conseguenze del processo mediatico sulla società ma anche sul sistema giustizia, puntando a fare informazione corretta nel ricordare che un giusto processo è tale quando accusa e difesa si incontrano in dibattimento davanti a un giudice terzo e imparziale, non davanti alle telecamere dei telegiornali nella fase preliminare, in cui prevale la mediaticità dell’evento rispetto all’analisi giuridica e alla corretta ponderazione dei fatti, veri o presunti. Oltre alla presenza di Knox, il convegno prevede una due giorni intensa di lavori, cui prenderanno parte avvocati, professori e giornalisti. I dibattiti in programma il primo giorno riguardano “l’errore giudiziario, oggi”; “storie di innocenti in carcere”, “la prova scientifica e dna fingerprint”, “l’intelligenza artificiale e il rito penale”, la proiezione del docufilm “Non voltarti indietro”, che racconta sei storie di errori giudiziari e ingiuste detenzioni; la presentazione del “Caso Dreyfus”. Il secondo giorno, invece, il focus sarà sul processo penale mediatico, con un dibattito sul “giornalismo di inchiesta come supporto alla riapertura di casi giudiziari”, uno sulla pena di morte; una conversazione sulla “blind justice” la giustizia americana e i fattori psicologici nei casi di ingiusta detenzione; il diritto alla privacy come strumento per controllare i comportamenti. Per concludere si terrà la lettura dell’arringa in difesa del re di Francia, Luigi XVI. Un programma ricco di eventi e di incontri, che punta a fare di Modena il centro dell’analisi sul sistema penale e il suo cortocircuito con i mass media. Il tema, di piena attualità in Italia, è al centro del dibattito in molti paesi – non ultimi gli Stati Uniti da cui viene Amanda Knox: «Si tratta di un progetto ambizioso, di respiro anche internazionale, che punta a portare l’attenzione di giuristi e cittadini sui temi propri della giustizia penale», hanno spiegato gli organizzatori, «soprattutto in un’epoca storica e politica in cui i diritti di libertà e le primarie garanzie delle persone sembrano essere sempre più messi in discussione, se non addirittura vilipesi, da crescenti ondate di populismo giudiziario».
Amanda, la supertestimonial. Pierfrancesco De Robertis il 13 giugno 2019 su Quotidiano.net. "Vengo in Italia da donna libera", ha spiegato Amanda Knox (foto) ai giornalisti che le chiedevano i motivi della sua partecipazione a un convegno organizzato a Modena sugli errori giudiziari. Difficile darle torto, visto che la ragazza di Seattle è stata assolta in maniera definitiva dopo un lungo e alterno iter processuale dall’accusa di aver ucciso nel 2007 Meredith Kercher, dando vita a uno dei casi giudiziari più seguiti degli ultimi vent’anni, secondo solo al delitto di Cogne. Inutile dire che rivedere Amanda nel nostro Paese per la prima volta dopo otto anni ha scatenato la curiosità generale, ed è forse quello che comprensibilmente dal loro punto di vista gli organizzatori dell’evento volevano, e rinnovato il dibattito tra innocentisti e colpevolisti che in questi casi la sentenza definitiva non spegne mai del tutto. Quanto ti sei fatto un’idea, non basta una Cassazione qualunque a togliertela dalla testa. Ma al di là del pesticcìo mediatico sulla figura di Amanda e del di lei ex fidanzato Raffaele Sollecito, anche lui alla fine assolto, resta il fatto che questo arrivo in Italia non farà che strofinare sale sulle ferite mai rimarginate delle vittime innocenti di questa storia. I genitori di Meredith, prima di tutto, che avranno provato senza riuscirci a dimenticare la vicenda, e non ultimo anche Patrick Lumumba, il giovane di colore che da innocente finì due settimane in carcere proprio per le accuse false di Amanda (poi prosciolta dall’incriminazione di calunnia, ma le accuse e il carcere per Lumunba restano). C’è addirittura chi aveva ipotizzato un ritorno di Amanda a Perugia, tipo quelli di Maradona a Napoli, che per il momento è slittato. Ora, è evidente che sia la ragazza americana sia Sollecito sono liberi di partecipare agli eventi che credono, ma in molti hanno fatto notare anche una questione di opportunità. Forse non a torto. I convegni sugli errori giudiziari si celebrano in tutto il mondo, inviti le saranno arrivati da un po’ dovunque. Sta a lei accettare quali. Per non dare l’idea di voler sfruttare l’onda mediatica alle spalle di chi ancora fatica a darsi pace per quanto successo.
Amanda Knox in Italia per il Festival della Giustizia: «Torno da donna libera». A Modena parlerà della sua vicenda, ovvero del suo punto di vista su uno dei casi mediatico-giudiziari che hanno più appassionato l'opinione pubblica, quello dell'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. di Redazione lacnews24.it venerdì 14 giugno 2019. Ieri mattina Amanda Knox è atterrata all’aeroporto di Linate insieme al fidanzato Christopher Robinson e la madre Edda Mellas, schivando a capo chino telecamere e cronisti, si è infilata velocemente in una berlina bianca. Ad accompagnarla anche alcuni avvocati, e Martina Cagossi dell'Italy Innocence Project. È la prima volta dal 4 ottobre 2011, quando fu assolta e scarcerata per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Solo in serata è riapparsa a Modena, all’aperitivo inaugurale del Festival della Giustizia penale di cui è la vera star e dove, sabato, parlerà della sua vicenda, ovvero del suo punto di vista su uno dei casi mediatico-giudiziari che hanno più appassionato l'opinione pubblica, non solo italiana, negli ultimi decenni.
Il racconto di un’esperienza umana. In occasione dell'evento si parlerà, in particolare, dei processi mediatici e l'intervento di Amanda Knox è il fiore all'occhiello del programma. Nessun riferimento - assicurano gli organizzatori dell’evento, Camera penale di Modena e Italy Innocence Project - al merito delle vicende processuali che la videro prima condannata in primo grado per omicidio con l’ex fidanzato Raffaele Sollecito, poi assolta in appello otto anni fa, quando fu scarcerata e se ne tornò a Seattle, quindi condannata nuovamente a Firenze e infine assolta con sentenza definitiva nel 2015. Racconterà, hanno spiegato i promotori, come ha vissuto quel periodo sotto i riflettori, del fatto che una larga fetta dell'opinione pubblica la considerava un'assassina e solo quando venne assolta si parlò di un errore. Sarà, insomma, il racconto di un'esperienza umana, senza entrare nel merito del procedimento giudiziario. La 32enne di Seattle invece è rimasta ligia all’impegno per cui non dirà una parola pubblicamente fino a domattina, quando racconterà la sua esperienza di imputata di omicidio sotto i riflettori dei mass media di mezzo mondo durante il forum «Il processo penale mediatico». A quanto si sa, per il suo intervento al Festival della giustizia penale non riceverà alcun pagamento: «Le sono state rimborsate soltanto le spese di viaggio», spiega l’avvocato Martina Cagossi, dell’associazione Italy Innocence Project. In attesa del discorso della protagonista, gli organizzatori del festival ribadiscono le ragioni della partecipazione di Amanda: «L’abbiamo invitata perché è un classico esempio di processo mediatico, e le polemiche conseguite sono la plastica rappresentazione degli irreparabili danni che la mass-mediaticità del processo causa», dice l’avvocato Guido Sola, presidente della Camera penale di Modena.
L’omicidio di Meredith Kercher. Il calvario giudiziario di Amanda iniziò la notte del primo novembre 2007, quando Meredith Kercher venne uccisa con una coltellata al collo in un'abitazione di Perugia presa in affitto con la Knox e due ragazze italiane. Su di lei sono rimaste accuse sempre respinte e quasi quattro anni di carcere, ribaltamenti di sentenze fino all'assoluzione definitiva, pronunciata il 27 marzo 2015 dalla Cassazione quando la giovane di Seattle però, era già tornata da tempo in America. «Torno in Italia da donna libera», aveva scritto lei su Twitter qualche giorno fa. E sabato è pronta a raccontare anche all'opinione pubblica italiana, la sua esperienza con la giustizia, conclusasi, alla fine, con la sola condanna per calunnia per aver accusato Patrick Lumumba.
AMANDA KNOX IN ITALIA. Emanuela Longo 13.06.2019 su Il Sussidiario. Amanda Knox torna in Italia in occasione del Festival della giustizia penale e questa volta lo farà da donna libera: il fidanzato “sono orgoglioso di lei”. Ha riassaporato l’attenzione dei media italiani Amanda Knox, atterrata questa mattina a Linate e subito accerchiata dai giornalisti, ai quali ha deciso di sottrarsi anche con l’aiuto “vigoroso” del suo fidanzato, Christopher Robinson, che ha scacciato per come ha potuto i fotografi che cingevano d’assedio la sua compagna. Ed è stato proprio lui in un tweet a scrivere: “Orgoglioso della mia donna, la mia eroina, e orgoglioso del suo libro ‘Your Content, My Lifè”. La stessa Amanda Knox poco fa ha motivato la sua decisione di non rilasciare alcun commento ai giornalisti questa mattina con un post su Twitter:”Ho scelto di non rilasciare interviste prima del mio arrivo in Italia, perché credo che le parole che dirò a Modena parleranno da sole”. L’americana sarà infatti ospite sabato del Festival della Giustizia penale a Modena per partecipare a un dibattito sul «Processo mediatico al cospetto dell’errore giudiziario». (agg. di Dario D’Angelo)
“QUI DA DONNA LIBERA”. Ressa di fotografi, microfoni puntati attorno e, per quanto riguarda la protagonista, testa bassa e (raccontano) pure qualche lacrima: il ritorno di Amanda Knox in Italia da “donna libera”, come la diretta interessata ha tenuto a far sapere prima del suo viaggio dal proprio profilo Twitter, è stato una sorta di evento mediatico oltre al fatto che nelle ultime ore sta destando scalpore la sua partecipazione in quel di Modena al Festival della Giustizia Penale. Quasi ‘scortata’ dal suo fidanzato che l’ha protetta dalla ressa della stampa e senza rilasciare dichiarazioni, la ragazza americana che assieme a Raffaele Sollecito è stata dichiarata innocente in merito all’omicidio di Meredith Kercher, potrebbe raccontare la sua esperienza giudiziaria e dialogherà anche con dei giuristi del suo caso, che l’ha portata pure a restare rinchiusa quattro anni nel carcere di Perugia. (agg. di R. G. Flore)
AMERICANA QUASI IN LACRIME A LINATE. Amanda Knox è atterrata questa mattina a Milano Linate con il volo Aer Lingus delle 11:40 proveniente da Dublino. Otto anni dopo l’ultima volta in Italia, la studentessa americana assolta in Cassazione nel 2015 dall’accusa di aver ucciso Meredith Kercher nel delitto di Perugia, è stata accolta da una folla di giornalisti e fotografi. Un’accoglienza forse inaspettata da parte della stessa Knox, che si è rifiutata di rispondere a tutte le domande, anche a quelle di chi le chiedeva soltanto se era felice di essere ritornata in Italia da donna libera, e che è apparsa molto spaurita, per non dire provata, di fronte all’assedio dei vari inviati. Momenti di tensione hanno interessato lo stesso fidanzato di Amanda, Christopher, arrivato in Italia insieme alla mamma della ragazza, che ha scansato le telecamere e le macchine fotografiche con ampi gesti prima di salire in macchina e cingere le braccia attorno alla sua ragazza, in procinto apparentemente di scoppiare in lacrime. Clicca qui per il video dell’arrivo di Amanda Knox fornito da “La Repubblica”. A distanza di otto anni dalla sua ultima volta, Amanda Knox si accinge a fare rientro in Italia e lo farà esattamente oggi, giovedì 13 giugno. Un ritorno speciale, poichè avverrà priva da ogni accusa e da ogni eventuale limitazione della libertà. Il suo rientro nel nostro Paese non sarà casuale ma avverrà esattamente in concomitanza con il Festival della giustizia penale annunciato nelle scorse settimane e che si terrà a Modena dal 13 al 15 giugno prossimi e che la vedrà in una delle giornate in programma nei panni di relatrice, pronta a raccontare il suo coinvolgimento in uno dei casi di cronaca più controversi d’Italia nonché uno dei più grandi casi giudiziari internazionali. Perchè Amanda Knox, studentessa americana all’epoca dei fatti appena ventenne, nel 2007 fu accusata di aver ucciso insieme all’allora fidanzato Raffaele Sollecito e a Rudy Guede la coinquilina inglese Meredith Kercher in quello che fu ribattezzato come il delitto di Perugia. Per sette lunghi anni, la Knox è stata considerata l’assassina più ricercata dai media mondiali. Quattro gli anni trascorsi in carcere, tra condanne e assoluzioni, fino alla sua assoluzione definitiva avvenuta solo nel 2015. Nonostante l’assoluzione e la definizione di donna finalmente libera, Amanda Knox libera forse non lo è più ritornata ad essere, almeno in Italia. Schiava dei pregiudizi e spesso al centro dell’attenzione mediatica che ha portato a dedicare alla sua figura numerosi servizi ed addirittura un documentario targato Netflix. Ora Amanda fa di mestiere la giornalista ed è attiva in una associazione che si occupa di vittime di errori giudiziari, “Innocent Project”. Ha un fidanzato scrittore di nome Christopher con il quale farà ritorno in Italia insieme alla madre in vista dell’impegno che la vedrà protagonista il prossimo sabato 15 giugno, nell’ultima giornata dedicata al festival di Modena. “Il processo penale mediatico”, questo il tema dell’incontro nell’ambito della prima edizione del Festival della giustizia penale che la riporterà nuovamente al centro dell’attenzione dei media. Alla vigilia della sua partenza per il nostro Paese, la Knox – come riferisce Corriere.it – ha pubblicato un lungo articolo nel quale parla della sua storia e dei trattamenti a lei riservati non solo da parte dei media ma anche dalla gente comune sui social. “Quello che mi dà più speranza adesso, mentre limo il discorso che terrò davanti al pubblico potenzialmente ostile in Italia – scrive Amanda -, è pensare a quando una donna mi ha avvicinato, piangendo, dopo un mio discorso, e mi ha detto una cosa che mi era già stata scritta su Twitter: “Mi dispiace di averti trattato come intrattenimento””.
I capricci da superstar di Amanda (che è pure scortata dalla polizia). Passeggiata blindata per le vie di Modena. Il suo staff tiene alla larga i giornalisti. Lei: «Non rispondo a nessuna domanda». Nino Materi, Sabato 15/06/2019, su Il Giornale. È già un must della commedia all'italiana il soggiorno modenese di Amanda Knox, la «ragazza di Seattle» («ragazza mica tanto visto che ormai veleggia verso i 33 anni) che dall'America è tornata nel nostro Paese per darci lezioni di «processo mediatico». Ad invitarla sono stati gli avvocati modenesi attraverso il loro presidente della Camera penale e col supporto di un'associazione chiamata Italy Innocence Project. E che, per il delitto di Meredith Kercher, Amanda sia innocente lo ha sancito definitivamente la Cassazione al termine di una vicenda giudiziaria cominciata nel 2007 (anno in cui la 21enne studentessa britannica Meredith Kercher fu trovata uccisa nella sua casa di Perugia) e terminata nel 2015 (con l'assoluzione «per non aver commesso il fatto» disposta dalla Suprema corte). Il 4 novembre 2007 (tre giorni dopo la scoperta del cadavere di Meredith) Amanda e il suo fidanzato di allora, Raffaele Sollecito, furono arrestati e due anni dopo (nel 2009) arrivò la prima condanna: 26 anni per sollecito e 25 per Amanda. Knox e Sollecito finiscono in carcere ma nel 2011 il processo di appello li scagiona entrambi: lui resta in Italia, mentre lei torna negli Usa; nel 2015 la Cassazione pone la parola fine, confermando l'assoluzione d'appello. Contro Amanda resta agli atti solo una condanna per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, proprietario di un pub di Perugia, tirato inopinatamente in ballo dalla Knox durante le prime fasi dell'inchiesta. L'unico che oggi è stato condannato per «concorso in omicidio» (un «concorso» di cui, incredibilmente, restano però ignoti i complici) è l'ivoriano Rudy Guede, condannato con rito abbreviato a 16 anni. Fin qui il quadro che riguarda i protagonisti del «giallo di Perugia». Ci si chiede ora: alla luce di tutto ciò era opportuno, da parte degli organizzatori del Festival della giustizia, far salire in cattedra Amanda Knox per darci una lezione sul «processo mediatico»? Il buon senso (e il rispetto per la memoria di Meredith e la sua famiglia) farebbe rispondere «no»; ma quelli del Festival la pensano diversamente: «Amanda è una donna libera e la sua testimonianza è significativa». E così, questo pomeriggio, sentiremo da Amanda (che ha sottolineato di «piangere per le tante vittime della malagiustizia») ciò che ha da rimproverarci; del resto noi italiani siamo campioni del mondo nel prendere pesci in faccia da tutti. Ed ora è arrivato perfino il turno della Knox. Lei, infatti, si atteggia a «vittima dei mezzi di informazione» che - a suo dire - l'avrebbero sempre dipinta «pregiudizialmente colpevole». Una «campagna di stampa negativa» che non ha impedito ad Amanda di beneficiare di un marketing pubblicitario che le ha fatto guadagnare soldi e popolarità nel mondo della tv, dell'editoria e della moda. Non a caso qui da noi Amanda sembra una star con capricci da diva. Nel party dell'altroieri a Modena ha preteso che i giornalisti rimanessero a debita distanza, idem durante la prima giornata del Festival della giustizia con in prima fila lei e il fidanzato (protagonista - pare - di una mezza lite con un fotografo, «reo» di essersi avvicinato troppo alla coppia). E che dire della discreta, ma sempre presente, scorta di poliziotti che seguono ogni suo movimento? Che Amanda sia diventata un «obiettivo sensibile» bisognoso della protezione delle nostre forze dell'ordine? Intanto oggi gustiamoci la beffa della Knox che fa la morale all'Italia. Silenzio, parla Amanda.
Il ritorno di Amanda Knox in Italia dopo 8 anni: «Vengo da donna libera». Al festival della giustizia penale a Modena. Simona Musco il 14 giugno 2019 su Il Dubbio. Otto anni dopo l’ultima volta, Amanda Knox è tornata in Italia. Da «donna libera», come ospite del Festival della Giustizia penale a Modena, dal 13 al 15 giugno, per partecipare a un dibattito sul “Processo mediatico al cospetto dell’errore giudiziario”, in programma per sabato. Per raccontare la sua storia, quella dell’omicidio della sua coinquilina di Perugia, Meredith Kercher, per il quale è rimasta anni sotto processo. Condannata, poi assolta dalla Corte d’assise d’appello, dunque scarcerata a ottobre 2011, quando tornò senza voltarsi indietro negli Usa, da dove ha seguito il resto del processo. Un’assoluzione annullata in Cassazione, che ha portato ad un nuovo processo, una nuova condanna e, infine, all’ultimo verdetto: la sua irrevocabile assoluzione. Ma non senza scontare un’altra sentenza definitiva, piombata su lei e sull’allora fidanzato Raffaele Sollecito: quella dell’opinione pubblica, che li bollò subito come colpevoli, a prescindere da tutto. Amanda è atterrata ieri a Milano Linate, con il volo Aer Lingus delle 11.40 proveniente da Dublino, in compagnia della madre Edda Mellas, del fidanzato Christopher e dei suoi legali. Ha dribblato gli scatti dei fotografi e i microfoni, che hanno tentato invano di strapparle una dichiarazione, rifugiandosi poi tra le braccia del suo fidanzato, dove poi è scoppiata in un pianto liberatorio. Senza lasciarsi sfuggire nemmeno una parola: quelle che pronuncerà al dibattito, ha chiarito via Twitter, diranno tutto ciò che c’è da sapere. A Modena Amanda «parlerà della sua esperienza di donna ritenuta assassina da mezzo mondo e poi assolta in via definitiva», ha spiegato il presidente della camera penale modenese, Guido Sola. Una presenza inopportuna, secondo l’avvocato Francesco Maresca, legale della famiglia Kercher, che ha invitato a portare «rispetto» anche per i giudici che l’hanno «ritenuta colpevole» in diversi gradi di giudizio. Parole alle quali ha replicato Sollecito, che a Modena, invece, non ci sarà. «Io e Amanda siamo vittime e da persone libere abbiamo diritto a partecipare ai convegni ai quali ci invitano – ha dichiarato all’Adnkronos – Non ci vedo nulla di inopportuno». E a commentare il suo ritorno in Italia è stato anche Claudio Pratillo Hellmann, il presidente della Corte d’assise d’appello di Perugia, che l’assolse. «Torna in Italia da libera cittadina come tanti altri – ha sottolineato – Quella sentenza ha contribuito a evitare un grande errore giudiziario. Ancora più grave visto che gli imputati erano molto giovani». Prima di arrivare a Modena, Amanda ha affidato il suo commento ad un lungo articolo, pubblicato su Gen Medium. Dove ha raccontato del documentario sulla sua storia, disponibile su Netflix, col quale, ha spiegato, credeva di poter far capire «qualcosa sui pericoli dei media senza scrupoli» e di far «vedere almeno un assaggio della me reale». Ma anche la pubblicizzazione dello stesso l’ha fatta diventare, senza volerlo, «il contenuto di qualcun altro». Nel suo articolo Amanda parla dei media, della cannibalizzazione della vita privata. Come accaduto a lei, le cui abitudini, paure, perfino il diario segreto scritto in carcere, sono stati dati in pasto all’opinione pubblica. E una volta libera, costretta ad essere famosa senza poter essere “social”, salvo accettare insulti e minacce. E così, per un po’ di tempo, è rimasta nel buio. Fino a quando non ha deciso di esporsi, pagando il prezzo di dover «assorbire gli insulti e l’odio e di nutrire la mia vita nella macchina dei contenuti che sembra infinitamente affamata, specialmente ora che torno in Italia». Un meccanismo irreversibile, forse. Anche se qualcuno, nel flusso continuo dei commenti sulla sua vita, le ha dato speranza. Una donna che, piangendo, le ha detto: «mi dispiace di averti trattato come intrattenimento».
“AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO ERANO SULLA SCENA DEL CRIMINE…” Da “Nuova Cronaca” il 14 giugno 2019. “Quando arrivai in via della Pergola (la villetta di Perugia dove Meredith viveva e fu uccisa) chiesi al medico legale di misurare subito la temperatura rettale della vittima: è un esame molto utile per stabilire l’ora della morte. Ma la dottoressa Stefanoni, della Polizia Scientifica, mi pregò di aspettare. Se tornassi indietro non accoglierei quella richiesta”. Lo rivela Giuliano Mignini, il magistrato che nel 2007 indagò sull’omicidio di Meredith Kercher, attualmente sostituto alla Procura generale dell’Umbria, in un’intervista esclusiva concessa al mensile Nuova Cronaca, diretto da Marco Gregoretti, in edicola da venerdì 14 giugno in allegato alla rivista Voi. Il ritorno di Amanda Knox in Italia, in occasione del Festival della giustizia penale di Modena, in programma dal 13 al 15 giugno, consentirà all’ex studentessa americana - assolta nel 2015 con formula dubitativa insieme a Raffaele Sollecito - di parlare del suo processo mediatico al cospetto dell’errore giudiziario. “Non ho mai avuto alcuna ostilità nei confronti dei tre imputati. E di Amanda in particolare” ha detto Mignini a Nuova Cronaca. Aggiungendo, tuttavia, che “non si è trattato di errore giudiziario. Negli Stati Uniti stentano a capire che in Italia abbiamo tre gradi di giudizio. Opzione che io mi sentirei di mantenere”. Il magistrato perugino, a proposito della sentenza di assoluzione stabilita il 27 marzo 2015 dalla Quinta sezione penale della Cassazione, si è espresso criticamente: “La Cassazione”, ha proseguito Mignini nell’intervista a Nuova Cronaca “è entrata nel merito senza poterlo fare. E comunque anche quest’ultima sentenza colloca Amanda e Raffaele sulla scena del crimine”. Mignini ha quindi affrontato anche il tema della condanna in concorso nei confronti di Rudi Guede, l’unico responsabile. “Guede”, ricorda il pm “di fatto accusò Amanda e Raffaele. Però lo fece in termini opinabili. Come fosse una sua opinione. Ma se sei presente devi dire o sì o no!” Il pm del caso Meredith ha poi smentito che vi siano stati errori da parte della Polizia Scientifica, come invece sosteneva una perizia di parte durante il processo di appello a proposito del gancetto del reggiseno e del coltello. Precisa Mignini: “La prima sentenza della Cassazione annullò definitivamente quella perizia. Erano stati disposti precedentemente controlli proprio per accertare l’assenza di contaminazione. Il documento che li escludeva fu consegnato all’ufficio del Gup. Dove si trovava quando fu fatta la famosa perizia”. Mignini, nel corso dell’intervista, ha anche confermato che durante il processo non sono mancate le pressioni degli Stati Uniti: “Devo ammettere che, in effetti, il mio lavoro di pm si svolse sotto i riflettori degli States. Con un condimento di pregiudizio. Durante il secondo grado una signora urlò verso di me: 'You are evil'. Amanda, invece, disse che ero il sindaco di Perugia. Difendevano Amanda aggredendo me”.
INTERVISTA INTEGRALE
È il magistrato che più di tutti è andato a un passo dalla soluzione di uno dei misteri più oscuri legati alla vicenda del Mostro di Firenze, quello della morte di Francesco Narducci, noto medico perugino scomparso dal 1985. Ma è anche il pubblico ministero che si è trovato sotto i riflettori internazionali, non sempre amici, per aver chiesto, e ottenuto, il rinvio a giudizio di Amanda Knox e di Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher (Perugia, 1 Novembre 2007) poi assolti il 27 marzo 2015 dalla Quinta sezione penale della Cassazione. Giuliano Mignini, perugino, 69 anni, dal 2013 è sostituto alla procura generale presso la corte d'appello dell'Umbria, non ha molto da dire sulla presenza di Amanda Knox al convegno di Modena :”È una libera cittadina può fare e dire quello che vuole”. Ha ancora molto da dire, invece, sul “delitto di Perugia”. E lo fa, in esclusiva, con Nuova Cronaca
Da dove cominciamo?
«Da qui. E, ci tengo: non ho mai avuto alcuna acrimonia, ostilità o malevolenza nei confronti dei tre imputati. E di Amanda in particolare. I media a questo proposito fecero passare un messaggio che non corrispondeva alla verità».
Una riflessione sul processo e sulle quattro sentenze, condanna, assoluzione, condanna, assoluzione.
«Intanto voglio dire una cosa: non si é trattato di un errore giudiziario. Negli Stati Uniti stentano a capire che in Italia abbiamo tre gradi di giudizio. Opzione che io mi sentirei di conservare. Si è trattato dello svolgimento di un processo, niente di più. Il processo di appello riformò la sentenza di condanna per omicidio (per la calunnia nei confronti di Patrick Lumumba la condanna è definitiva) espressa in primo grado: è un fatto normale per la nostra procedura. Così come è assolutamente usuale che un terzo giudice, quello della Cassazione, per motivi tecnici e non di merito, confermi quanto deciso al termine del primo gado di giudizio e riconfermi la condanna. Quello che, invece, pur nel rispetto delle sentenze che si sempre si deve, mi lascia un po’ perplesso è la quarta sentenza, quella con cui la Quinta sezione ha assolto i due imputati».
Perché? Che cosa non la convince del tutto?
«Il fatto che si tratti di una sentenza senza rinvio e, diciamo così, un po’ particolare».
In che senso?
«Nel senso che la Cassazione è entrata nel merito senza poterlo fare. E, comunque, nonostante siano state annullate le due sentenze ordinarie (la prima condanna e la prima assoluzione ndr), anche per l’ultima Amanda e Raffaele restano collocati sulla scena del crimine. Infatti sono stati assolti con formula dubitativa».
L’omicidio di Meredih è diventato un fatto internazionale, non solo dal punto di vista mediatico. Amanda è una cittadina americana…
«Partendo dal fatto che all’opinione pubblica degli Stati Uniti sembrava stranissimo che il processo d’appello avesse ribaltato la sentenza del primo grado (da loro non è così), devo ammettere che, sì, in effetti il mio lavoro di pm si svolse sotto i riflettori degli States. Con un condimento di pregiudizio e, a volte di ignoranza non indifferenti. Ricordo che durante il secondo grado una signora statunitense urlò verso di me :”You are evil”. Una volta, invece, Amanda disse che io ero il sindaco di Perugia… Non furono giorni semplici. Difendevano Amanda aggredendo me».
Dottor Mignini, la domanda che si fanno tutti: ma se Rudy Guede, che ha scelto il rito abbreviato, è stato condannato per concorso in omicidio, con chi avrebbe agito, con i fantasmi?
«Rudy Guede di fatto accusò Amanda e Raffaele. Però lo fece in termini “opinabili”. Lo diceva come se fosse una sua opinione. Però lui era presente. Ma se sei presente devi dire o sì o no! Fu anche conseguenza della scelta del rito abbreviato, comunque. Decisione azzeccata dal punto di vista della difesa. Ma poco utile all’accertamento della verità».
E veniamo a quello che fu il gol messo a segno dalla difesa di Sollecito e di Amanda durante il processo di appello: la contaminazione del gancetto del reggiseno e del coltello. Una perizia smontò il lavoro della Polizia scientifica.
«Non è vero! Guardi che la prima sentenza di Cassazione annullò definitivamente quella perizia. Pensi che i due periti (Stefano Conti e Carla Vecchiotti) non scrissero che i materiali erano stati contaminati ma che “c’era la possibilità di contaminazione”. Capisce? Ma non basta, c’è dell’altro».
Sempre sulla contaminazione di gancetto e reggiseno?
«Sì».
Cioè?
«Che erano stati disposti precedentemente i “controlli” negativi sui due reperti proprio per accertare l’assenza di contaminazione. Li fece la Polizia scientifica che redasse un documento che li escludeva e che fu consegnato all’ufficio del Gup. Dove si trovava quando fu fatta la famosa perizia. I periti neanche chiesero se esistessero accertamenti. Io lo dissi alla dottoressa Vecchiotti. Anzi, le feci proprio vedere la relazione. Ma quella perizia era il fondamento della prima assoluzione».
Rifarebbe tutto lei?
«Sicuramente. Le sentenze si devono rispettare, dico ancora, però si possono criticare. Ben vengano le discussioni su questo processo».
Ripensando a quei giorni ha qualche rammarico “investigativo”??
«Io arrivai in via della Pergola, se non ricordo male, intorno alle 14 del due novembre. Notai subito quella che era l’evidente simulazione del furto fatta da qualcuno per sviare i sospetti da se stesso. Verso il tramonto mi raggiunse il medico legale, il dottor Lalli. Gli chiesi di misurare subito la temperatura rettale della vittima: è un esame molto utile per stabilire l’ora della morte. Ma la dottoressa Steffanoni, della Polizia scientifica, mi pregò di aspettare per non correre il rischio di contaminare i reperti. Le diedi ascolto. Ecco, se tornassi indietro non accoglierei la sua richiesta: farei misurare la temperatura rettale il prima possibile».
Franco Giubilei per “la Stampa” il 14 giugno 2019. Simile a un fantasma, ieri mattina Amanda Knox si è materializzata all' aeroporto di Linate insieme al fidanzato Christopher Robinson. Con aria dimessa e a capo chino ha schivato le telecamere, si è infilata velocemente in una berlina bianca e solo in serata è riapparsa a Modena, all' aperitivo inaugurale del Festival della giustizia penale di cui è la vera star. Nel cortile del chiostro di San Geminiano, sede della facoltà di Giurisprudenza, è sembrata molto più distesa e a suo agio mentre sorseggiava uno spritz mano nella mano col promesso sposo: lei in vestito lilla senza maniche, capelli sciolti, e lui in casual look come solo gli americani sanno abbigliarsi. «Sono orgoglioso della mia donna, la mia eroina, e orgoglioso del suo libro "Your Content, My Life"», ha scritto Christopher in un tweet. Cameramen e giornalisti, tenuti a debita distanza, facevano quel che potevano da un angolo remoto del chiostro, compresa la Cnn che era lì fuori ad aspettarla dal pomeriggio. La 32enne Amanda invece è rimasta ligia all' impegno per cui non dirà una parola pubblicamente fino a domattina, quando racconterà la sua esperienza di imputata di omicidio sotto i riflettori accesi dei mass media di mezzo mondo durante il forum «Il processo penale mediatico». Nessun riferimento - assicurano gli organizzatori dell'evento, Camera penale di Modena e Italy Innocence Project - al merito delle vicende processuali che la videro prima condannata in primo grado per omicidio con l' ex fidanzato Raffaele Sollecito, poi assolta in appello otto anni fa, quando fu scarcerata e se ne tornò a Seattle, quindi condannata nuovamente a Firenze e infine assolta con sentenza definitiva nel 2015. Solo l' ivoriano Rudy Guede è rimasto in carcere con la condanna passata in giudicato per omicidio in concorso e violenza sessuale.
L' altro protagonista di questa storia, Raffaele Sollecito, anche lui assolto, ha detto a Il Corriere dell' Umbria che non incontrerà Amanda: «Lei mi ha solo parlato dell' evento di Modena, dove tra l' altro io non sono stato invitato, e non abbiamo in programma di vederci. Se mi dispiace? Direi di no, non abbiamo più tutto questo gran rapporto, ci sentiamo piuttosto sporadicamente». Secco il commento del legale della famiglia di Meredith, Francesco Maresca, sulla visita della giovane americana: «Una decisione inopportuna, dovrebbe tenersi stretta la sentenza di assoluzione senza tentare di trovare consensi». A Modena, intanto, gli organizzatori fanno di tutto per stendere una cortina protettiva intorno ad Amanda: segreto il ristorante dove ha pranzato ieri, ignoto l' albergo dove ha passato la notte, e giornalisti tenuti il più possibile alla larga. Ieri non volevano neanche farli avvicinare al chiostro, c' è voluto l' intervento del direttore del dipartimento di Giurisprudenza e del rettore, che non erano a conoscenza dell' esclusione dei cronisti, per permettere un ingresso fugace nel cortile della facoltà universitaria. A quanto si sa, per il suo intervento al Festival della giustizia penale non riceverà alcun pagamento: «Le sono state rimborsate soltanto le spese di viaggio», spiega l' avvocato Martina Cagossi, dell' associazione Italy Innocence Project. Il budget della manifestazione non è certo faraonico, assicurano, e le spese sono contenute anche per ristoranti, hotel e cocktail d' inaugurazione, condito da musica live e spettacolo di danza di bambini. Un clima leggero su cui si riaffaccia la cronaca dura di un delitto e di un processo che fece discutere tutta l' Italia: la Knox «è una cittadina libera e come tale può andare dove vuole - dice Giuliano Mignini, sostituto procuratore alla corte d' appello di Perugia e pubblica accusa al processo per la morte di Meredith -. Io ragiono in termini di legalità: lei ha ritenuto di tornare in Italia ed è una posizione legittima. Immagino che dirà delle pressioni mediatiche nel processo, che purtroppo ci furono davvero. All'inizio la pressione ha giocato contro di lei. Ora giocano a suo favore e le vittime sono diventate gli inquirenti e la città». Il pm ricorda che «l' ultima sentenza fu una sorpresa per tutti noi esperti, nessuno avrebbe scommesso su un' assoluzione definitiva della Cassazione. Ne abbiamo preso atto». In attesa che parli la protagonista, gli organizzatori del festival ribadiscono le ragioni della partecipazione di Amanda: «L' abbiamo invitata perché è un classico esempio di processo mediatico, e le polemiche conseguite sono la plastica rappresentazione degli irreparabili danni che la mass-mediaticità del processo causa», dice l' avvocato Guido Sola, presidente della Camera penale di Modena. «Stiamo ragionando di una persona assolta con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste. Premesso che anche chi è condannato ha diritto di esprimere la sua opinione in privato e in pubblico, a maggior ragione penso debba spettare a chi è assolto».
Repubblica Tv il 14 giugno 2019. Modena, Amanda Knox si commuove ascoltando le vittime di errori giudiziari. Momento di commozione per Amanda Knox durante gli interventi di Peter Pringle, irlandese che ha trascorso 14 anni nel braccio della morte accusato di un omicidio dal quale poi è stato scagionato, e di Angelo Massaro, tarantino assolto - e scarcerato - dopo una condanna per omicidio. Dal palco del Forum Monzani, Pringle e Massaro hanno portato le loro testimonianze. Amanda Knox, seduta in platea accanto al fidanzato Christopher Robinson, ha preso un fazzoletto e si è asciugata lacrime, visibilmente commossa. Poi si è stretta in un abbraccio con Pringle al termine dell'intervento e ha scambiato qualche parola con Massaro. Domattina, nel confronto sul “processo penale mediatico”, la 31enne di Seattle parlerà in prima persona e per la prima volta, pubblicamente, da quando è tornata in Italia.
Amanda, tra lacrime e accuse: «Sono vittima, non un mostro». Pubblicato sabato, 15 giugno 2019 da Marco Imarisio, inviato a Modena, su Corriere.it. Lei non doveva venire, noi non dovevamo andare. «Giornalista? Venga, se la vuole vedere deve passare da qui...». Amanda Knox è seduta in fondo a una sala sotterranea del Forum Monzani. A gentile richiesta, viene offerta ai cronisti presenti uno sguardo fugace sul momento di raccoglimento di una donna che sta con ogni evidenza cercando le forze per salire sul palco. E mostrarsi, e parlare. «Non so se ci riesco» pare abbia sussurrato a chi le stava vicino. L’avvocato e docente universitario Guido Sola, uno dei direttori scientifici del convegno, introduce il dibattito. «L’idea di aprire il mondo della giustizia penale ai non tecnici si è rivelata giusta», dice scrutando il folto pubblico presente. Nel discutere del processo penale mediatico, e delle sue distorsioni, l’amo per i media, per i «non tecnici», è la donna che ha trascorso quattro anni in carcere da innocente, condannata per l’omicidio della sua coinquilina di Perugia Meredith Kercher, poi definitivamente assolta dopo una lunga odissea giudiziaria. Infatti, funziona. Abbiamo abboccato. Fin dal suo arrivo dopo 8 anni di assenza, la donna che ha fatto discutere l’Italia è stata inseguita, fotografata, ancora una volta discussa. Venerdì pomeriggio è stata costretta ad allontanarsi dal centro convegni di Modena a causa dei flash che le venivano scattati in faccia. L’obiettivo del purché se ne parli è stato raggiunto. Alla fine il coraggio lo ha trovato. I segni di quel che ha patito appaiono chiari. Appare fragile, con la voce tremante. Piange, divorata dall’emozione. Ma il suo discorso è davvero potente. Nonostante il leggio, non sale in cattedra. Oggi che ha trentadue anni, torna a essere la ragazza ventenne vittima di indagini sbagliate e dei pregiudizi sul suo conto, che dai media si sono trasmessi all’opinione pubblica. Sa che accanto al suo nome è come ci fosse ancora un invisibile asterisco. «Ho paura di essere qui in Italia, un Paese che prima sentivo come casa. Ho ancora paura di essere derisa, molestata, umiliata. Un uomo che si chiama Rudy Guede ha violentato, derubato e ucciso la mia amica Meredith. È stato condannato, eppure un numero sorprendente di persone pensa che io sia colpevole, nonostante l’assoluzione della Cassazione». Amanda ha raccontato con tono dolente la sua caduta nell’ingranaggio che muove quello che una volta si chiamava il circo mediatico-giudiziario, e ieri bastava anche solo guardarla per capire quali possono essere le conseguenze per chi si trova dentro. «Per anni ci sono stati titoli sulle orge. sui giocattoli sessuali. E così io sono diventata “foxy Knoxy”, Amanda la furba, la psicopatica, sporca e drogata, la puttana. Questa immagine diffamatoria fornita dai media è entrata in aula con me. Mi hanno sepolta sotto fantasie da tabloid. L’inchiesta è stata contaminata. Ho pensato al suicidio. Per me è stato impossibile avere un processo giusto». La genesi del personaggio Amanda, della femme fatale manipolatrice che nasconde chissà quale segreto, per quanto sbagliata, ha un’origine precisa. La falsa testimonianza sull’operaio Patrick Lumumba, da lei indicato come l’assassino di Meredith, che si fece 23 giorni in carcere da innocente, le è valsa una condanna a tre anni per calunnia. Nessuno in sala lo ha fatto notare. A distanza, da Perugia, ne ha chiesto conto il legale dei Kercher. «Spieghi perché lo fece» intima l’avvocato Francesco Maresca. Un modo per sottolineare come l’assoluzione definitiva non abbia cancellato i forti dubbi dei familiari della studentessa inglese sulla versione di Amanda, alimentando invece i dubbi sull’opportunità della sua presenza. Ma forse non era il caso, perché al netto delle convinzioni di ognuno, Amanda Knox, e Raffaele Sollecito, erano e restano vittime anch’esse, di un grave errore giudiziario, sanato soltanto dopo anni di ingiusta sofferenza. «Un giorno mi piacerebbe avere un confronto con il pubblico ministero Giuliano Minnini. Non lo considero più un mostro, ma un uomo con motivazioni genuine che voleva dare giustizia a una famiglia in lutto». Purtroppo neppure la prima edizione del Festival della giustizia penale, organizzato dall’associazione degli avvocati di Modena, si è rivelata la sede giusta per parlare in modo obiettivo delle storture dell’ingranaggio di cui sopra. I media sbagliano, sempre e comunque, per definizione. I magistrati, ogni tanto. In platea c’erano anche avvocati protagonisti di celebri casi di cronaca nera, che hanno scelto di cavalcare i media per trasformare il loro processo in un avvenimento mediatico. A chi gli faceva notare l’omissione, sottolineando come siano spesso gli studi legali i principali dispensatori delle carte giudiziarie che alimentano le cronache, il professor Sola ha detto che non gli risultava. «È sempre la parte inquirente che fa filtrare atti e notizie». La povera Amanda credeva di essere tornata in Italia, ma in realtà è atterrata su Marte.
Amanda in lacrime a Modena: «Guede uccise Meredith, io non sono un mostro». Pubblicato sabato, 15 giugno 2019 da Corriere.it. «Tanta gente pensa che io sia pazza a venire qui, mi hanno detto che sarò attaccata, accusata e rimandata in prigione. E che non sarà servito a nulla. Oggi ho paura di essere molesta, e derisa: molti pensano che la mia presenza qui possa profanare la memoria di Meredith». Sono le prime parole di Amanda Knox, entrando sabato mattina al Forum Monzani di Modena da un ingresso secondario, per evitare l’assedio di cronisti e fotografi. «Sono tornata perché lo dovevo fare, l’Italia è diventata parte di me nonostante la tragedia che ho vissuto - aggiunge dal palco del festival della Giustizia penale -. Perché sono stata invitata e una volta questo Paese per me era una casa e un giorno spero di sentirlo di nuovo così». Per la 32enne di Seattle, arrivata giovedì a Linate, è la prima volta in Italia dalla scarcerazione, a 4 anni dalla assoluzione dall’accusa di avere partecipato a Perugia all’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, insieme all’ex fidanzato Raffaele Sollecito. E, tra lacrime e singhiozzi, Amanda entra subito nella dinamica di quello che resta uno dei delitti che ha più scosso l’opinione pubblica italiana: «Il primo novembre 2007 un ladro, Rudy Guede, è entrato nel mio appartamento, ha violentato e ha ucciso Meredith. Ha lasciato tracce di dna e impronte. Nonostante ciò pm, polizia e giornalisti si sono concentrati su di me. Hanno indagato me mentre Guede fuggiva, senza basarsi su prove o testimonianze». L’ivoriano è attualmente in carcere, condannato definitivamente in rito abbreviato a 16 anni per concorso in omicidio, senza che sia mai stato individuato l’ipotetico complice: dietro le sbarre sta prendendo la sua seconda laurea e dovrebbe uscire nel 2023. «Avevo zero motivazioni per uccidere la mia amica - prosegue nella sua arringa -, sul luogo del delitto hanno trovato zero tracce del mio dna. Raffaele ed io non eravamo in quella casa, non sapevamo niente. Poi ho sentito il giudice pronunciare la parola “colpevole”: il verdetto (di primo grado, ndr) mi ha schiacciato come un macigno, non potevo respirare. Le telecamere lampeggiavano mentre uscivo dal tribunale». Un verdetto già scritto, secondo l’americana: in un crescendo di commozione Amanda ribadisce di essersi sempre sentita vittima sacrificale di stampa e inquirenti, che con la loro morbosità e il loro sensazionalismo avrebbero inquinato l’inchiesta. «Ero innocente ma il resto del mondo aveva deciso che ero colpevole - attacca -, sul palcoscenico mondiale io ero una furba, psicopatica, drogata e puttana. Passato, presente, futuro non contavano più. Pm e media hanno creato una storia falsa e infondata, che ha scatenato le fantasie della gente, e una versione di me adatta a quel racconto, che parlava alle paure della gente , la mia famiglia era descritta come un clan». Per questo Amanda è «grata» alla Corte di Cassazione e alla Corte Europea per averla «rivendicata», ma non assolve lo Stato italiano, per averla «condannata per 8 lunghi anni».
Amanda: "Guede uccise Meredith, io trattata da mostro volevo suicidarmi. Vorrei incontrare il pm. In Italia ho paura". La Knox si sfoga al festival della giustizia penale di Modena. Assolta 4 anni fa per l'omicidio Kercher del 2007. Il legale della famiglia: "Perché calunniò Lumumba?". La notizia della testimonianza sui siti Cnn e Bbc. Giuseppe Baldessarro il 15 giugno 2019 su La Repubblica . Ha professato la sua totale innocenza, lasciando intendere di volersi riconciliare con l’opinione pubblica. Ma non ha rinunciato a puntare l’indice contro i giornalisti che l’hanno dipinta come “un mostro”, la polizia che le ha strappato una confessione “perché cercava un colpevole per chiudere il caso”, e la Procura che l’ha “accusata senza avere nessuna prova”. Si è difesa edha attaccato Amanda Knox intervenuta al Festival della Giustizia penale di Modena. Tono di voce fermo e discorso interrotto più volte dalle lacrime, la 31enne americana ha raccontato la sua vicenda personale e giudiziaria, la sua verità. La notizia della testimonianza di Amanda Knox conquista le apertura delle home page dei network americani e britannici, in particolare Cnn e Bbc. Il network americano la infila tra gli avvenimenti di Hong Kong e i fatti relativi alla tensione tra Stati Uniti e Iran. "Non sono un mostro", è il titolo sotto la foto della donna. Bbc - il canale televisivo diel Paese di Meredith Kercher, la giovane del cui omicidio Amanda Konox venne accusata per poi finire assolta - tiene l'articolo molto in alto, accanto alla notizia della morte di Franco Zeffireli, appena sotto le notizie relative alla crisi nel Golfo: "Temevo attacchi e nuove acccuse", è il titolo sotto la foto della donna che si è mostrata in lacrime. "L'Italia ha raccontato Amanda Knox - è diventata parte di me, nonostante la tragedia che ho vissuto, sono tornata perché lo dovevo fare. Perché sono stata invitata e una volta questo Paese per me era una casa e un giorno spero di sentirlo di nuovo così. So che nonostante le assoluzioni della Cassazione io rimango una figura controversa al cospetto dell'opinione pubblica, soprattutto in Italia. So che molte persone pensano io sia cattiva. Tanta gente pensa che io sia pazza a venire qui, mi hanno detto che sarò attaccata e che sarò falsamente accusata e rimandata in prigione. E che venire qui anche se sarò incolume non sarà servito a nulla. Oggi ho paura di essere molestata e derisa e incastrata e ho paura che nuove accuse mi saranno rivolte. Molti pensano che la mia presenza qui possa profanare la memoria di Meredith. Quando ero in carcere ho meditato sul suicidio". Così Amanda Knox al festival della Giustizia penale di Modena ha iniziato a ricostruire la vicenda giudiziaria che la ha coinvolta. E' la prima volta in Italia per Amanda dalla scarcerazione, a 4 anni dalla assoluzione dall'accusa di avere preso parte all'omicidio di Meredith Kercher, studentessa inglese.
La versione di Amanda Knox: "Guede entrò come un ladro e uccise Meredith. Ma per tutti io ero una puttana psicopatica". "Il primo novembre 2007, un ladro, Rudy Guede è entrato nel mio appartamento, ha violentato e ha ucciso Meredith. Ha lasciato tracce di dna e impronte. È fuggito dal Paese, processato e condannato. Nonostante ciò un numero importante di persone non ha sentito il suo nome, questo perché pm, polizia e giornalisti si sono concentrati su di me. Giornalisti chiedevano di arrestare un colpevole. Hanno indagato me mentre Guede fuggiva. Non basandosi su prove o testimonianze. Solo su un'intuizione investigativa". Nel frattempo Rudy Guede si prepara a prendere la sua seconda laurea e intanto continua a lavorare all'esterno del carcere di Viterbo: l'ivoriano condannato a 16 anni che ha sempre negato di avere ucciso la studentessa inglese pur ammettendo di essere stato presente in casa al momento del delitto. Guede, che ha già ottenuto la laurea triennale (con 110 e lode) in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale, si prepara a discutere la tesi in narrazione cinematografica presso la facoltà di Storia e società dell'Università di Roma Tre.
"Pensavo di aiutare la Polizia - ha detto Amanda - ma sono stata interrogata per 50 ore in una lingua che non conoscevo bene. Dicevano che mentivo". "Sul palcoscenico mondiale io ero una furba, psicopatica e drogata, puttana. Colpevole. È stata creata una storia falsa e infondata, che ha scatenato le fantasie della gente. Una storia che parlava alle paure della gente. Non potevo più godere del privilegio della privacy. La mia famiglia veniva descritta come un clan. Io prima del processo ero sommersa da una montagna di fantasie da tabloid". "Amanda Knox spieghi come mai ha calunniato Patrick Lumumba": lo chiede l'avvocato Francesco Maresca, legale dei familiari di Meredith Kercher. Che chiede "il rispetto necessario" per la vittima. Knox è stata definitivamente condannata a tre anni di reclusione per avere coinvolto con le sue dichiarazioni alla polizia Lumumba nel delitto al quale è risultato totalmente estraneo, venendo prosciolto già nelle primissime fasi dell'inchiesta.
Festival Giustizia Modena, Amanda Knox con la voce rotta: "Amavo l'Italia, oggi qui ho paura". A causa dell'intervento dei media - prosegue Amanda nel suo discorso - "l'inchiesta è stata contaminata. Era impossibile avere per me un processo giusto. L'opinione pubblica non deve rispondere a nessuno, non ci sono regole se non che il sensazionalismo vince: nella Corte dell'opinione pubblica non sei una persona umana, sei un oggetto da consumare". "Avevo zero motivazioni per uccidere la mia amica, zero tracce del mio dna sono state sul luogo del delitto. Poi ho sentito il giudice pronunciare le parole 'colpevole'. Il verdetto mi è caduto addosso come un peso schiacciante, non potevo respirare. Le telecamere lampeggiavano mentre uscivo dal tribunale". "Ero innocente, ma il resto del mondo aveva deciso che ero colpevole, avevano riscritto la realtà. Passato, presente, futuro non contavano più. I pm e i media avevano creato una storia e una versione di me adatta a quella storia". "Sono grata alla Corte di Cassazione e agli altri giudici per avermi rivendicata; la Corte Europea mi ha rivendicato oltre" per l'assenza di legali e interpreti: "sono grata ma tutto questo non assolve lo Stato per avermi condannato per 8 lunghi anni". Inoltre, "non assolvo i media che hanno raccolto un immenso profitto" da questa storia e "anche oggi trattano la mia vita come contenuto per i loro introiti. Non mi basta che la mia vicenda si sia conclusa bene, abbiamo bisogno di fare bene prima". "Di recente sto pensando al mio pm, Giuliano Minnini, vorrei avere un faccia a faccia con lui, al di fuori dalle aule, al di fuori del ruolo di buono e di cattiva. Ho sempre pensato che fosse questa contrapposizione che rendeva impossibile la comprensione".
Modena, Amanda Knox si commuove ascoltando le vittime di errori giudiziari. "Per me a vent'anni quel pm era come un mostro con un solo obiettivo, distruggere la mia vita. So che questa immagine di lui è sbagliata. Sono stati i media ad aiutarmi a rendermene conto. Nel documentario di Netflix non ho visto un cattivo, un mostro, ma un uomo con motivazioni nobili, che voleva rendere giustizia a una famiglia in lutto. Un giorno mi piacerebbe incontrare Minnini - ribadisce Amanda Knox - e spero che, se ciò accadrà, anche lui riesca a vedere che anche io non sono un mostro, ma semplicemente Amanda". "Sono sorpreso. Prendo atto delle dichiarazioni di Amanda Knox - dice Mignini all'Adnkronos - io non volevo distruggere nessuno, ho fatto le indagini valutando tutti gli elementi e non c'era nessuna ostilità. Adesso sono magistrato e fra un anno andrò in pensione. Non mi occupo più di questa vicenda, quello che dovevo dire l'ho detto in requisitoria, io non ho mai avuto nessun rancore verso chicchessia". Con Raffaele Sollecito "siamo stati marchiati dai titoli dei giornali, per sempre colpevoli. Io sarò sempre legata alla tragedia della morte della mia amica. Vengo insultata ogni volta che parlo della sua morte. Come se il fatto di essere viva fosse un affronto a Meredith". "Sono grata ai Kercher per l'amore che hanno infuso in Meredith, un'amicizia che ho vissuto per troppo poco. Meredith ha avuto giustizia? No, perché non ha vita. Mi dispiace per la famiglia Kercher. Mi dispiace per loro. Il sistema giudiziario ha fatto quello che ha potuto. L'assassino è in carcere e per questo si può avere soddisfazione". "A vent'anni io ero una ragazza felice e vivace e sono stata costretta a trascorrere da sola quegli anni, in carcere, in un ambiente disumano, malsano e imprevedibile. Tutti i membri della mia famiglia hanno visto sconvolte le loro vite: prestiti e fondi pensionistici per pagare la mia difesa. I miei familiari erano autorizzati a vistarmi per sei ore al mese. Una volta mio padre è venuto", "non ce la facevo più. Ero così stanca dalla paura, dall'incertezza. Ho cominciato a singhiozzare, mio padre mi ha abbracciato". Così Amanda Knox ha ripercorso la sua detenzione commuovendosi più volte. "Ho implorato mio padre, gli ho pregato di salvarmi anche se sapevo che lui era impotente quanto lo ero io. Gli avvocati avevano detto che potevano passare anni prima della libertà e lui ha cominciato a piangere e allora ho capito quanto fosse grave la situazione". "Se ho tratto beneficio economico dall'essere qui? No, non sono stata pagata per esserci. A ripagarmi è stato questo invito". Amanda ha risposto così alla domanda sulle polemiche in merito a suoi presunti guadagni a seguito del caso Meredith Kercher. "Posso dire che molte persone hanno preso profitto dalla mia storia. Ci sono tanti autori della mia vita ma io sono solo una". Successivamente Knox ha ribadito la sua innocenza con forza, sul palco del Forum Monzani: "Raffaele ed io non c'eravamo in quella casa. Io non c'ero e lui nemmeno. Non avevamo fatto niente e non sapevamo. Mi dispiace che dobbiamo ripeterlo sempre - ha concluso -: significa, ogni volta che mi viene chiesto, che la mia risposta non conta nulla in realtà". Amanda Knox è giunta al Forum Monzani di Modena, entrando da un ingresso secondario che le ha permesso di evitare i numerosi cronisti e fotografi che erano in attesa del suo arrivo. La Knox interviene al dibattito sul tema "Il processo penale mediatico". Ieri, in platea, si era mostrata infastidita per i flash dei fotografi per poi sciogliersi in commozione nel pomeriggio quando ha ascoltato le testimonianze di alcune vittime di errori giudiziari.
Dopo 8 anni Amanda Knox torna in Italia: l'arrivo a Milano. Omicidio Meredith Kercher, Guede in carcere prende seconda laurea. L'ivoriano condannato a 16 anni per la morte della studentessa inglese a Perugia è da tempo ammesso al lavoro esterno. Discuterà una tesi sulla narrazione cinematografica. La Repubblica il 15 giugno 2019. Rudy Guede, l'ivoriano condannato a 16 anni di reclusione per l'omicidio di Meredith Kercher, sta per prendere la sua seconda laurea mentre è in carcere a Viterbo e lavora anche all'esterno del penitenziario. Guede, che ha sempre negato di avere ucciso la studentessa inglese pur ammettendo di essere stato presente in casa al momento del delitto, ha già ottenuto la laurea triennale (con 110 e lode) in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e si prepara a discutere la tesi in narrazione cinematografica presso la facoltà di Storia e società dell'Università di Roma Tre. Ha infatti terminato gli esami con una media intorno ai 28 trentesimi. L'ivoriano è stato da tempo ammesso al lavoro esterno al carcere presso la biblioteca del Centro per gli studi criminologici di Viterbo. Ha inoltre usufruito di diversi permessi premio ed è tornato più volte a Perugia ospite della famiglia della sua maestra delle elementari. Arrestato pochi giorni dopo l'omicidio Kercher, Guede è stato l'unico imputato processato, su sua richiesta, con il rito abbreviato. Potrebbe chiedere a breve di essere ammesso alla semilibertà, ma l'istanza non sarebbe stata ancora presentata dai difensori. Dal suo entourage non sono trapelati commenti su quanto detto da Amanda Knox a Modena. Claudio Mariani, direttore dell'area criminologia del Csc, ha però rivolto "un pensiero a Meredith e alla sua famiglia". "Ogni volta che si parla dei protagonisti di questa brutta storia - ha aggiunto - sopportano il loro dolore con grande dignità e soprattutto in silenzio".
Omicidio Kercher, Rudy Guede si laurea per la seconda volta. Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 su Corriere.it. Si prepara a prendere la sua seconda laurea e intanto continua a lavorare all’esterno del carcere di Viterbo Rudy Guede, l’ivoriano condannato a 16 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher. Che ha sempre negato di avere ucciso la studentessa inglese pur ammettendo di essere stato presente in casa al momento del delitto. Secondo quanto appreso dall’Ansa, Guede, che ha già ottenuto la laurea triennale (con 110 e lode) in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale, si prepara a discutere la tesi in narrazione cinematografica presso la facoltà di Storia e società dell’Università di Roma Tre. Ha infatti terminato gli esami con una media intorno ai 28 trentesimi. L’ivoriano è stato da tempo ammesso al lavoro esterno al carcere presso la biblioteca del Centro per gli studi criminologici di Viterbo che lo segue. Ha inoltre usufruito di diversi permessi premio ed è tornato più volte a Perugia ospite della famiglia della sua maestra delle elementari. Arrestato pochi giorni dopo l’omicidio Kercher Guede è stato l’unico imputato processato, su sua richiesta, con il rito abbreviato. Potrebbe chiedere a breve di essere ammesso alla semilibertà ma l’istanza non sarebbe stata ancora presentata dai difensori. Dal suo entourage non sono trapelati commenti su quanto detto da Amanda Knox a Modena. Claudio Mariani, direttore dell’area criminologia del Csc, ha però rivolto «un pensiero a Meredith e alla sua famiglia». «Ogni volta che si parla dei protagonisti di questa brutta storia - ha aggiunto - sopportano il loro dolore con grande dignità e soprattutto in silenzio».
Omicidio Meredith Kercher, semilibertà per Rudy Guede. È stato l’unico condannato: tutte le tappe della vicenda. Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 da Corriere.it. Il tribunale di Roma ha respinto l’istanza con la quale Rudy Guede (che sta scontando nel carcere di Viterbo 16 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel novembre 2007) ha chiesto di essere affidato ai servizi sociali. I giudici però non hanno accolto l’istanza che avrebbe consentito i domiciliari, o almeno l’hanno accolta in parte, concedendo la semilibertà. Rudy potrà lasciare il carcere per qualche ora al giorno per collaborare con il e dovrà rientrare in carcere la sera. Il provvedimento è scaturito dall’udienza che si è tenuta il 20 settembre davanti al tribunale, e che è stato notificato oggi, lunedì 30 settembre, a Guede. Secondo i pareri degli operatori e gli psicologi della casa circondariale di Viterbo, presso la quale è già stato detenuto per 12 anni, esaminati nel procedimento davanti ai giudici romani, Guede si è sempre comportato «in maniera esemplare» e il tribunale ha «preso atto» della qualità del percorso didattico e umano dell’ivoriano. L’uomo si è laureato con il massimo dei voti in Storia (laurea triennale)a Roma Tre e ha poi conseguito anche la magistrale. Il tribunale ha stabilito che possa collaborare con il Centro studi criminologici di Viterbo. Cosa per altro che già avveniva ma in base all’articolo 21 del regolamento carcerario.
Rudy Guede ottiene la semilibertà: «Ora penso alla laurea». Viterbo: l’unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuta nel 2007 a Perugia, è considerato un «detenuto modello». I legali avevano chiesto l’affidamento ai servizi sociali, ma la richiesta è stata respinta. Stefania Moretti e Virginia Piccolillo il 30 settembre 2019 su Il Corriere della Sera. Sorride. È emozionato. Al telefono con il suo avvocato che gli comunica di aver ottenuto la semilibertà Rudy Guede è di poche parole: «Sono contento. Molto. Ora ti lascio che devo finire un lavoro prima di rientrare a Mammagialla».
La laurea. Era iniziata come una giornata qualunque quella di ieri per il 32enne ivoriano condannato a 16 anni per l’omicidio di Meredith Kercher, in concorso con i due imputati poi assolti in Cassazione Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Colazione in carcere e 4,5 chilometri in bici dal penitenziario viterbese al palazzetto di piazza San Francesco, sede del Centro studi criminologici dove da due anni lavora come bibliotecario. Poi la telefonata del suo legale Fabrizio Ballarini. Quindi l’affetto dei volontari dell’associazione Gavac, che lo segue in un percorso «finora di successo»: in carcere ha preso prima il diploma, poi una laurea in Scienze storiche con 110 e lode e ora si appresta a conseguire la magistrale in Storia. Lo ha promesso ieri alla sua tutor Cristiana Cardinali quando, felice, le ha comunicato della semilibertà: «Adesso mi dedicherò anima e corpo alla tesi». «Ha finito gli esami ma, — spiega Cardinali —, lavorando al Centro studi e dovendo sempre rientrare a pranzo in carcere, non si sta concentrando sulla tesi. Oggi ho sentito la sua gioia. È un ragazzo generoso e affettuoso. Si merita questo passo avanti». Un passo avanti a metà: a Guede sono stati negati i servizi sociali. Ma per la difesa resta la soddisfazione: «Per lui, dopo l’assoluzione di Amanda e Raffele, avevamo chiesto la revisione del processo. Ci è stata respinta. Oggi finalmente una buona notizia».
Detenuto modello. In tanti descrivono Rudy Guede come un ragazzo modello. Proprio lui che, secondo le sentenze definitive, ora è l’unico responsabile della tragica fine di Meredith Kercher, trovata morta con la gola tagliata a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007. Guede ha sempre ammesso di essere stato nella villetta dell’omicidio, ma di non aver preso parte all’omicidio, compiuto mentre lui era in bagno. «Io non ho la certezza della sua innocenza ma ho molti dubbi sulla sua colpevolezza. In ogni caso, ha ripreso in mano la sua vita», dice Claudio Mariani, docente di Criminologia del centro studi e volontario nel carcere viterbese che, con Guede, ha instaurato un legame speciale. «Non dovremmo — ammette —, il nostro ruolo ci imporrebbe una giusta distanza. Ma siamo umani: capita di prendersi a cuore il destino di alcuni detenuti in particolare. Con Rudy è stato così: ora mi chiama “zio Claudio”». Hanno capito subito che aveva delle potenzialità, per questo l’associazione Gavac dei volontari in carcere gli ha proposto di rimettersi sui libri: nel carcere Mammagialla era entrato con tre anni di istituto tecnico e niente diploma. «È intelligente. Veloce nell’apprendimento. Fantasioso. E anche molto disordinato... Non fa altro che parlare di libri. Sicuramente la dimostrazione che il reinserimento nella società previsto dalla Costituzione può dare risultati positivi».
«Affidabile e rigoroso». Sono d’accordo anche gli agenti di polizia penitenziaria al lavoro nel difficile carcere di Viterbo, dove le strutturali carenze di personale devono fare i conti con un’ulteriore diminuzione di organico assorbita dal reparto del 41-bis. Oltre al tasso elevato di malati psichiatrici con soli 4 educatori e 2 psicologi: «Guede è sempre stato educato, rispettoso delle regole e in occasione di momenti di tensione si è sempre dimostrato affidabile e rigoroso», riferisce Luca Floris, ispettore di polizia penitenziaria a Mammagialla. Ora Rudy ha un sogno: tornare in Umbria. Era arrivato lì a 5 anni con il padre. Ma non ha mai avuto la cittadinanza. A fine pena potrebbe essere espulso. È il tormento di Mariani: «Dopo gli sforzi che abbiamo fatto per formarlo e reinserirlo sarebbe davvero uno spreco».
Amanda Knox e l’omicidio di Meredith Kercher: la storia del delitto di Perugia e la verità giudiziaria. La sera del 1° novembre 2007 la studentessa britannica di 22 anni venne assassinata con una coltellata alla gola. Dopo oltre 7 anni di processi Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti definitivamente, l'unico condannato rimane Rudy Guede. Cosa fanno oggi i protagonisti del giallo che ha diviso l'opinione pubblica di tre Paesi. Angela Geraci il 15 giugno 2019 su Il Corriere della Sera.
2 novembre 2007: la scoperta del corpo. Il primo lancio di agenzia su quello che diventerà “il delitto di Perugia” arriva alle 16.03 di venerdì 2 novembre: «Ragazza straniera morta con taglio alla gola, pista omicidio». Da subito si sa che la vittima, uccisa la sera del 1° novembre, era una studentessa inglese arrivata da poco in città per l’Erasmus. Si chiamava Meredith Kercher, aveva 22 anni e studiava storia del cinema, letteratura inglese e lingua francese. Il primo lancio dell’agenzia Ansa e, nel riquadro, la prima foto diffusa di Meredith Kercher. Indossa il costume di Halloween: lo scatto è stato fatto a una festa la sera prima che la 22enne fosse assassinata.
Amanda e Raffaele. Le circostanze del ritrovamento del corpo sono particolari: a scoprire il cadavere - senza vestiti, insanguinato e parzialmente coperto da un piumone, nella camera da letto della ragazza - sono state verso l’ora di pranzo quattro persone: l’americana Amanda Knox, 20 anni, una delle coinquiline della vittima; Raffaele Sollecito, 23 anni, da pochi giorni fidanzato con la giovane di Seattle, e due agenti della polizia postale chiamati dai ragazzi perché hanno trovato due telefoni cellulari di Meredith nel giardino di una casa vicina. Amanda e Raffaele - lei studentessa di scrittura creativa all’Università per stranieri, lui iscritto a informatica - con il loro comportamento attirano subito l’attenzione, sia quella degli inquirenti che quella dell’opinione pubblica. Davanti alla scena del crimine, la casetta di via della Pergola, si tengono per mano e si abbracciano come se non si rendessero conto della gravità della situazione. Due giorni dopo il delitto vengono anche sorpresi a fare shopping in un negozio di intimo, sorridenti e complici si baciano. E poi ci sono i rilievi della polizia scientifica: alcune cose non quadrano. Per esempio il fatto che la finestra della stanza di un’altra coinquilina di Meredith - non in casa in quei giorni - abbia un vetro che sembra rotto dall’interno, come per depistare. A quattro giorni dall’omicidio Amanda e Raffaele vengono fermati. E si dicono innocenti: la notte in cui Meredith è stata assassinata erano insieme a casa di lui dove hanno visto un film, «Il favoloso mondo di Amelie».
Patrick Lumumba. Il delitto internazionale calamita immediatamente l’interesse dei media, sia quelli italiani che quelli britannici e statunitensi. Si inizia a scavare nelle vite di Amanda e Raffaele e le foto dei loro profili social finiscono in prima pagina e in prima serata in tv. E sono destinate a rimanere impresse nella memoria come lo scatto in cui lei, in un abito corto giallo, ride a crepapelle facendo finta di sparare con un mitra (vero) o l’immagine di lui avvolto dalla carta igienica e con una mannaia in mano a una festa in maschera. Poi arriva la svolta: Amanda accusa del delitto Patrick Lumumba, proprietario del pub in cui l’americana lavora di tanto in tanto. Lumumba, 37enne congolese, viene arrestato e anche il suo volto finisce sulla stampa di mezzo mondo. L’uomo, padre di un bambino piccolo, passerà circa due settimane in carcere prima di essere riconosciuto estraneo alla vicenda e prosciolto (grazie alla testimonianza di un professore svizzero che lo scagiona). Amanda Knox è stata condannata a tre anni per averlo calunniato.
Rudy Guede. Il giorno in cui Lumumba viene liberato, il 20 novembre 2007, entra in scena un nuovo protagonista del caso che sta appassionando tutta Italia e non solo. Si chiama Rudy Guede, è un ivoriano di 21 anni che fin da piccolo vive a Perugia e viene arrestato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere di Meredith e diverse tracce di Dna in casa. Tra l’altro c’è il suo cromosoma Y sul tampone vaginale fatto alla vittima: sono segni da “strofinamento”, la violenza sessuale non può essere provata. In casa c’è anche l’impronta di una sua scarpa, all’inizio attribuita erroneamente a Raffaele Sollecito. Il ragazzo fornisce una ricostruzione dei fatti bizzarra. Dice che la sera del 1° novembre è andato a casa con Meredith e fra loro è iniziato un rapporto sessuale consenziente. All’improvviso però lui si è sentito male perché aveva mangiato un kebab ed è dovuto scappare in bagno. Quando esce dopo aver sentito un urlo non riesce a guardare bene gli aggressori, poi vede Meredith in un lago di sangue si spaventa e scappa via senza chiamare aiuto. Guede è stato processato con il rito abbreviato e condannato a 30 anni di carcere - ridotti poi a 16 anni - per concorso in omicidio (con Amanda e Raffaele, secondo l’accusa).
La battaglia di perizie sui reperti. Nella storia lunga e complicata del delitto di Perugia l’arma che ha ucciso Meredith Kercher non è mai stata identificata con certezza. A un certo punto tracce del Dna della studentessa londinese e di Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Raffaele ma questi risultati vengono smentiti in una serie di perizie arrivate negli anni successivi, tra cui una dei carabinieri del Ris che rintraccia sulla lama soltanto il codice genetico della americana. Intanto oltreoceano si organizzano campagne in difesa di Amanda Knox, cittadina statunitense rimasta incastrata e stritolata - secondo la stampa - negli strani meccanismi della giustizia italiana. Vengono anche prodotte delle borse con la scritta «Free Amanda». E i genitori accusano la polizia di Perugia di aver maltrattato la figlia e averla lasciata senza un traduttore durante i primi interrogatori. Altro oggetto diventato famoso è il gancetto del reggiseno di Meredith, repertato addirittura 46 giorni dopo il delitto e su cui viene rintracciata una piccolissima traccia del Dna di Raffaele Sollecito. L’accusa crede di avere incastrato il pugliese; per la difesa invece quella modesta porzione di Dna è finita lì per «contaminazione» perché il gancetto è stato toccato da tante, troppe mani. Su questo punto procura e difensori combatteranno per anni e alla fine l’accertamento tecnico sarà considerato «non attendibile».
La sentenza di primo grado: la condanna. Il 5 dicembre 2009, a poco più di due anni dall’uccisione di Meredith Kercher, la corte d’Assise di Perugia pronuncia la sentenza di primo grado: Amanda Knox viene condannata a 26 anni, Raffaele Sollecito a 25. Il 22 marzo 2010 vengono depositate le motivazioni: secondo i giudici i ragazzi hanno ucciso Meredith spinti da un movente «erotico, sessuale, violento».
Il secondo grado: l’assoluzione. Passano altri mesi e a fine novembre 2010 inizia il processo di secondo grado. Vicino a Raffale Sollecito c’è anche l’avvocato Giulia Bongiorno, Amanda Knox continua a catturare i flash dei fotografi quando entra in aula con i suoi vestiti colorati e i suoi occhi azzurri. Il 3 ottobre 2011 arriva la sentenza che i due ragazzi sognavano da quattro anni: la corte assolve i due imputati dall’omicidio «per non avere commesso il fatto» e ne dispone la scarcerazione. Il procuratore aveva invece chiesto l’ergastolo.
Amanda parte per gli Stati Uniti il giorno dopo. Sia lei che Raffaele rilasciano interviste, scrivono libri e provano a riconquistare una vita il più possibile “normale”, sempre tenuti d’occhio come sono dai fotografi. Il 15 dicembre 2011 vengono depositate le motivazioni della assoluzione: secondo i giudici di secondo grado i «mattoni» su cui si è basata la condanna «sono venuti meno»: c’è una «insussistenza materiale» degli indizi e l’ordinamento «non tollera la condanna dell’innocente».
La Cassazione: tutto da rifare. Meno di un anno e mezzo dopo l’assoluzione, il 26 marzo 2013, la doccia fredda: la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado e rinvia tutto alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo di appello.
Il processo di appello bis: un nuovo ribaltone. Il 30 settembre 2013 inizia a Firenze il secondo processo di appello. Amanda rimane negli Stati Uniti per paura di finire di nuovo in carcere se si troverà in Italia e il verdetto sarà sfavorevole. Lo scrive proprio in una lettera che manda alla Corte. Invece Raffaele segue le udienze e rilascia dichiarazioni spontanee: «Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso». L’accusa chiede 30 anni per Amanda e 26 per Raffaele. Ma - a quasi 5 anni dal delitto - il movente adesso è cambiato: non si tratterebbe più di un gioco erotico finito male ma di una lite legata a vecchie ruggini fra Amanda e Meredith per le pulizie di casa. La sentenza arriva il 30 gennaio 2014 dopo quasi 12 ore di camera di consiglio. Poco prima delle 22 viene letto il verdetto (il quarto) che ribalta l’assoluzione stabilita dal precedente appello. I due ragazzi vengono condannati per concorso nell’omicidio di Meredith: Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi, Raffaele Sollecito a 25 anni . Per Amanda, che è negli Stati Uniti, non c’è ovviamente alcuna misura restrittiva; per Raffaele viene disposto il divieto di espatrio con ritiro del passaporto. Il giovane viene rintracciato all’alba in un hotel della provincia di Udine, dove era con un’amica: «Ho fatto un giro in Austria, poi sono rientrato in Italia: mi sono fermato lì a riposare», spiega ai poliziotti che gli ritirano i documenti. Si torna in Cassazione.
Il ritorno in Cassazione e l’ultimo verdetto. Il giorno che segna la svolta definitiva nella storia giudiziaria del delitto di Perugia e nelle vite dei protagonisti è il 28 marzo 2015. Sono passati quasi sette anni e mezzo dalla notte del 1° novembre 2007, quando Meredith Kercher è stata uccisa con una profonda coltellata alla gola. È il giorno in cui la Cassazione annulla senza rinvio le condanne di Amanda Knox e Raffaele Sollecito: assolti per non aver commesso il fatto. Restano i tre anni di condanna a Knox per calunnia ai danni di Patrick Lumumba, ma li ha già ampiamente scontati.
I protagonisti oggi: l’americana. Amanda Knox, 31 anni, vive sempre negli Stati Uniti dove si è laureata, fa la giornalista, ha scritto un libro («Waiting to be heard», nel 2013) ed è impegnata in un’associazione che si occupa di vittime di errori giudiziari. Netflix le ha dedicato un documentario nominato agli Emmy. Ha un fidanzato, lo scrittore Christopher Robinson. In queste ore è in Italia dove ha raccontato la sua vicenda all’Innocence Project di Modena, con un intervento nel quale ha ripetuto la sua versione dei fatti e ha detto: «Molti pensano che la mia presenza qui possa profanare la memoria d Meredith. Non è così» Il 3 ottobre 2017 ha celebrato con un tweet l’anniversario della sua scarcerazione.
I protagonisti oggi: il pugliese. Raffaele Sollecito, 35 anni, si è laureato in ingegneria informatica nel 2014 con una tesi su se stesso. Il tema era «Innocentisti e colpevolisti sul web», voto 88 su 110. Poi ha creato il sito «Memories» (BeOnMemories.com), una specie di social network/app per commemorare i defunti. Anche lui, come Amanda, ha scritto un libro e si batte per i diritti civili. Nel 2016 scorso ha partecipato al congresso dei Radicalidove ha detto la sua sul sistema penitenziario in Italia che «così com’è non serve a nulla: lasciare una persona in una stanza 2 metri per 3 dalla mattina alla sera è un’aberrazione umana e serve solo a mettere la polvere sotto il tappeto». Ha aggiunto anche che abolirebbe subito il carcere preventivo. Per i quasi 4 anni che ha trascorso in carcere non gli è stato riconosciuto il risarcimento per ingiusta detenzione: la Cassazione il 28 giugno 2017 ha respinto la sua richiesta di indennizzo di 516 mila euro. Per Raffaele Sollecito è stata una decisione «inspiegabile»: «Se ancora non trovo un lavoro - ha sottolineato - è per quanto mi è successo. Sto ancora subendo le conseguenze degli anni passati in carcere da innocente e non capisco perché questo non venga compreso».
I protagonisti oggi: l'ivoriano. Rudy Guede, 31 anni, resta l'unico condannato per l'omicidio di Meredith. Anche se in concorso con qualcuno la cui identità a questo punto - dopo l'assoluzione di Raffaele e Amanda - rimane ignota. Oggi sta finendo di scontare la sua pena a 16 anni (ha scelto il rito abbreviato e in appello ha avuto uno sconto di pena) nel carcere Mammagialla di Viterbo; dovrebbe uscire dal carcere nel 2023. Nel gennaio 2016 la giornalista Franca Leosini gli ha fatto una lunga (e controversa) intervista nel suo programma «Storie maledette» in cui Rudy ha ripetuto di essere innocente e ha annunciato di voler presentare un’istanza di revisione del processo. Rudy Guede si affaccia a una finestra della struttura d'accoglienza del gruppo assistenti volontari animatori carcerari (Gavac) dove è stato ospitato per il permesso di 36 ore (Ansa) Intanto a giugno dello stesso anno ha avuto un permesso premio ed è uscito di prigione per 36 ore. «Aveva paura di attraversare la strada, ha visto uno smartphone e si è chiesto cosa fosse. Guardando un televisore a schermo piatto all’interno della casa ha chiesto: “Che cos’è, un quadro?”», ha raccontato Claudio Mariani, criminologo e fermo sostenitore dell'innocenza di Guede. Il 16 luglio 2016 si è laureato con 110 e lode in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale all’università di Roma Tre. La discussione della tesi («Storia e mass-media. I mezzi e i luoghi della divulgazione storica») è avvenuta nel carcere di Viterbo da cui Rudy dovrebbe uscire nel 2023.
Amanda Knox: «Io sono stata assolta, ma lo Stato e i media no». L’intervento della giovane americana al Festival della Giustizia penale a Modena: «Meredith uccisa da Guede». Il Dubbio il 16 giugno 2019. «Nonostante alla fine sia stata assolta, lo Stato italiano non è assolto per avermi tenuto quattro anni in carcere e avermi tenuto sotto processo per 8 anni senza nessuna prova contro di me. E non sono assolti i media, che hanno venduto una storia scandalosa». Amanda Knox si è rivolta sabato così alla platea del Festival della Giustizia penale a Modena, teatro del suo ritorno in Italia a otto anni dalla sua scarcerazione. La giovane americana ha raccontato gli effetti del processo mediatico, di cui assieme all’ex fidanzato Sollecito, all’epoca, fu vittima senza appello. La sua storia, una delle più controverse della cronaca italiana, è quella dell’omicidio della sua coinquilina di Perugia, Meredith Kercher, per il quale è rimasta anni sotto processo e per il quale oggi è in carcere Rudy Guede. Giudicata ancor prima del processo, condannata, marchiata a vita. Al punto che, ancora oggi, nonostante l’assoluzione, la sua presenza in Italia fa ancora discutere. Condannata, poi assolta dalla Corte d’assise d’appello, dunque scarcerata a ottobre 2011, quando tornò senza voltarsi indietro negli Usa, da dove ha seguito il resto del processo. Un’assoluzione annullata in Cassazione, che ha portato ad un nuovo processo, una nuova condanna e, infine, all’ultimo verdetto: la sua irrevocabile assoluzione. Ma non senza scontare un’altra sentenza definitiva, piombata su lei e sull’allora fidanzato Raffaele Sollecito: quella dell’opinione pubblica, che li bollò subito come colpevoli, a prescindere da tutto. Una presenza inopportuna, secondo l’avvocato Francesco Maresca, legale della famiglia Kercher, che ha invitato a portare «rispetto» anche per i giudici che l’hanno «ritenuta colpevole» in diversi gradi di giudizio. Ma Amanda, con la voce rotta dall’emozione e dal pianto, ha voluto comunque raccontare la sua versione dei fatti.
«Sono stata per la prima volta in Italia da bambina e mi sono innamorata di questo paese. Quando sono tornata, a 20 anni, ho incontrato la tragedia e la sofferenza. Nonostante ciò, e forse per questo, l’Italia è diventata parte di me. E sono tornata questa terza volta perché lo dovevo fare. Perché una volta in questo bellissimo paese mi sentivo come a casa. E spero di sentirlo di nuovo così un giorno. Tanta gente pensa che io sia pazza a venire qui, che sarò nuovamente accusata e rimandata in prigione. La verità è che ho paura oggi di essere molestata, derisa e di essere nuovamente accusata. Ma soprattutto temo che mi mancherà il coraggio. So che nonostante la mia assoluzione emessa dalla Corte di Cassazione, rimango una figura controversa per l’opinione pubblica, soprattutto qui in Italia. So che molte persone pensano che io sia cattiva, alcuni hanno affermato che solo stando qui con la mia presenza sto traumatizzando la famiglia Kercher e profanando la morte di Meredith. Non è così. Il mostro è quanto possono essere potenti le illazioni false, specialmente quando sono rafforzate dai media. I media possono anche rafforzare la verità, se i giornalisti ne hanno il coraggio. Il primo novembre 2007 un ladro di nome Rudi Guede è entrato nell’appartamento e di Meredith e ha violentato e ucciso Meredith, lasciando le sue impronte digitali. è stato catturato, processato e condannato. Eppure la polizia, il pubblico ministero e i media hanno concentrato la loro attenzione su di me. Come mai? Con i furgoni della tv ammassati davanti alla nostra casa, i poliziotti erano sotto una pressione immensa che chiedeva loro di arrestare al più presto un colpevole. Hanno deciso di indagarmi, ma non sulla base di prove o testimonianze, ma su nient’altro che su una intuizione investigativa. Pensavo di stare aiutando la polizia, in realtà per 5 giorni sono stata sottoposta a un interrogatorio per 50 ore senza un avvocato e in una lingua che non era la mia. Mi hanno accusato, ero a 3mila miglia da casa, priva di sonno, spaventata e davanti a figure autoritarie che avevano il doppio della mia età. Ho così accettato di firmare una dichiarazione che accusava Patrick Lumumba. Ore dopo ho ritrattato, ma nonostante lui avesse un alibi sicuro lo hanno arrestato e il giorno dopo in una conferenza stampa hanno parlato di caso chiuso. Questo è stato il momento in cui media avrebbero potuto evitare quanto poi è successo. Perché i media almeno begli Usa sono la nostra arma di difesa davanti all’autorità. Avrebbero potuto chiedere: in base a quali prove? Invece i media hanno pompato il gas. Nel corso delle indagini per mesi i media, anziché esaminare le prove, si sono concentrati su un via vai di colpi di scena e testimoni che poi si sono rivelati essere tutt’altro. Per loro ero una furba, psicopatica e drogata puttana, colpevole fino a prova contraria. Era una storia falsa e infondata, ma parlava alle paure e alle fantasie della gente. All’improvviso sono diventata una figura pubblica. Io e i miei genitori siamo stati dipinti come un clan. Questa immagine fornita dai media è entrata anche in aula, creando un circolo vizioso. Prima ancora che iniziasse il mio processo io ero sepolta da una montagna di fantasie da tabloid. L’inchiesta è stata contaminata, la giuria è stata corrotta, era impossibile per me avere un processo giusto. L’opinione pubblica non deve rispondere a nessuno, non ci sono regole, se non il fatto che il sensazionalismo vince, non ci sono nemmeno i diritti umani per l’opinione pubblica. Io non me ne sono resa conto allora. Io avevo fiducia che la mia innocenza mi avrebbe salvata. Avevo zero motivazioni per uccidere la mia amica. Poi ho sentito il giudice pronunciare: colpevole. E il verdetto l’ho sentito addosso come un peso schiacciante. Ero disorientata. Ero innocente, ma il resto del mondo aveva deciso che ero colpevole. E avevano riscritto la realtà. La mia innocenza non mi ha salvata, perché i pubblici ministeri e i media avevano creato una storia. E alla gente piaceva questa storia: la sporca psicopatica mangiatrice di uomini. Quella persona confezionata, disegnata dagli altri, è stata condannata a 26 anni di carcere. Ma ad essere stata ammanettata realmente non era quella persona, ero io. Se avessi lasciato che la prigione prendesse il sopravvento su me, sarei emersa come un cane rabbioso. Questo sarebbe successo se non fosse stato per il cappellano della prigione, Don Saulo Scarabattoli. La prima volta che l’ho incontrato gli ho chiesto se lui credeva che fossi innocente e la sua risposta mi ha spezzato il cuore: mi ha detto ‘credo che la tua risposta sia sincera’, ma non ha detto ‘ti credo’. Nemmeno il cappellano mi credeva. Ma nel corso degli anni Don Saulo e io siamo diventati amici, abbiamo discusso temi filosofici insieme e lui non mi ha mai giudicato. Ha sempre ascoltato e io non dimenticherò mai l’ultima volta che sono stata con lui, il giorno del verdetto d’appello. Io non ero sicura di poter sopravvivere al crepacuore di un altro verdetto di colpevolezza, ma don Saulo era convinto che stavo finalmente per tornare a casa. Il sistema giudiziario italiano alla fine ha stabilito la verità. Sono grata alla Cassazione e agli altri giudici per avermi vendicato. E quest’anno la Corte europea dei diritti dell’uomo mi ha vendicato condannando la Repubblica italiana perché non ha garantito i miei diritti. Ma tutto questo non assolve lo Stato per avermi processato per 8 lunghi anni senza nessuna prova. E non assolve i media, che hanno venduto una storia scandalosa, trasmettendo uno spettacolo mentre il mio processo era ancora in corso. Ancora oggi i media trattano la mia storia come contenuto per i loro introiti. In quei 4 anni di carcere e 8 di processo e ancora oggi ho dovuto sostenere molti costi per gli errori degli altri. A 20 anni ero una ragazza felice e vivace e sono stata costretta a trascorrere il mio ventesimo compleanno in un ambiente malsano: anziché sognare una carriera o una famiglia, meditavo il suicidio. I miei famigliari hanno dovuto chiedere prestiti per sostenere i costi della mia difesa. Questo non è un problema dell’Italia, gli errori giudiziari accadono ovunque. Nel sistema giudiziario i media sono strumenti, non buoni o giusti in se stessi ma a seconda di come è la persona che li maneggia. Di recente sto pensando al mio pubblico ministero, il dottor Giuliano Minnini: da molto tempo spero di avere un confronto con lui faccia a faccia, al di fuori della stanza dell’interrogatorio, dove lui è il buono e io la cattiva. Per me lui era una figura mostruosa che aveva un solo obiettivo: distruggere la mia vita senza una ragione. So che questa mia immagine di lui è sbagliata, è piatta e falsa come l’immagine di Foxy Knoxy. Nel documentario di Netflix non ho visto in lui un uomo cattivo, ho visto un uomo con motivazioni forti e nobili che voleva dare verità alla famiglia Kercher. Spero che lui un giorno possa vedere che io non sono un mostro».
«Il mondo decise che ero colpevole». Pubblicato il 16 giugno 2019 da Vincenzo Malara su Il Resto del Carlino. Entra da un ingresso secondario per evitare l’assedio di fotografi e cronisti. E dal momento che appare nella sala grande del Forum Monzani, gli occhi rimarranno puntati su di lei per quasi tre ore. Fissi, a rapirne sguardi, tensioni e singhiozzi. E’ la prima volta che Amanda Knox racconta in pubblico la sua verità sui fatti di Perugia. Vestita con un abito rosa confetto, si accomoda a fianco degli altri relatori sul palco del Festival della Giustizia Penale. In platea sono sedute circa 700 persone, metà dei quali avvocati (tra loro Luca Cianferoni che difese Totò Riina e Paolo Camparini, legale di Bossetti), il restante normali cittadini e studenti.In prima fila ci sono la mamma Edda e il suo fidanzato Chris. Ci sono anche gli altri innocenti, vittime di odissee giudiziarie, che Amanda chiama «amici ed eroi»: in particolare Peter Pringle e Angelo Massaro. Capelli sciolti e sguardo visibilmente teso, Amanda segue con grande coinvolgimento emotivo l’intervento introduttivo dell’avvocato Guido Sola, incentrato sul processo penale mediatico. La (quasi) 32enne di Seattle ritrova se stessa in quelle considerazioni, annuisce decisa e scossa quando il legale parla di «opinione pubblica che crea un mostro ancora prima che si apra il processo penale». L’americana stringe i pugni, trattiene un sospiro di sofferenza nel momento in cui Sola la definisce «un’icona del processo massmediatico, una persona vera che ha subito un linciaggio». Pochi secondi e sarà Amanda prendere la parola: è rigida, chiede alla moderatrice Raffaela Calandra se tocca a lei, fa per alzarsi ma poi la giornalista fa una breve introduzione e la ragazza si risiede tradendo (sarà l’unico di giornata) un impercettibile sorriso d’imbarazzo. Poi inizia il suo sfogo, il suo racconto che per un’ora scuoterà, appassionerà e prenderà per mano il Forum Monzani, creando un’empatia unica. All’inizio la voce è tentennante e rotta dal pianto. «Scusate», dice, mentre con un fazzoletto si asciuga le lacrime. Amanda si blocca, le tremano le labbra, è agitata. «L’Italia è diventata parte di me e sono tornata questa terza volta perché dovevo farlo». Amanda beve un sorso d’acqua e guadagna coraggio. «Tanta gente pensa che sia pazza a venire qua, che sarò attaccata per strada e falsamente accusata». La commozione lascia spazio alla rabbia, al j’accuse contro i media che «possono diffondere narrazioni false e minare la giustizia. Sono stata ribattezzata Foxy Knoxy, descritta come un mostro, furba, psicopatica, sporca e drogata». La ragazza di Seattle ripercorre in maniera serrata quella sera del 1 novembre 2007 quando «un ladro di nome Rudy Guede è entrato nel mio appartamento e ha violentato e ucciso Meredith». In platea il silenzio è irreale. Le sue parole cariche di emotività hanno l’effetto di immobilizzare e tramortire gli sguardi. «Per cinque giorni sono stata sottoposta a oltre 50 ore di interrogatorio senza dormire e senza un avvocato». Amanda riprende fiato, il flusso di ricordi la sta provando. «In prigione potevo diventare un cane rabbioso e sarebbe finita così se non avessi incontrato il cappellano don Saulo Scarabattoli». Amanda cede a un altro pianto incontrollabile. Lo sfogo sfocia in disperazione quando parla della sua famiglia. Il rumore dei flash si fa incessante, la 32enne si piega sul leggio travolta dai singhiozzi. «Una volta mio papà venne per stare un’ora, una sola ora in cui dovevamo cercare di essere felici. L’ho abbracciato e gli ho chiesto di salvarmi. Ha iniziato a piangere, non l’avevo mai visto versare una lacrima nella sua vita…». «Ero innocente, ma il resto del mondo aveva deciso che ero colpevole, avevano riscritto la realtà». C’è poi il prosieguo della sua esistenza, l’assoluzione, il ritorno negli Stati Uniti e l’adesione a Innocence Project. Sono quasi le 12.30 quando torna a sedersi. Al Forum Monzani esplode un applauso collettivo. Qualcuno si alza in piedi, ma in tanti decidono di non tributarle la standing ovation, preferendo rimanere seduti. E’ il destino della vicenda di Amanda Knox: spaccare in due l’opinione pubblica.
Risarcimento ad Amanda. Il governo prepara il “ricorso”. La giovane era stata risarcita per violazione del diritto alla difesa. Simona Musco il 19 giugno 2019 su Il Dubbio. Il governo italiano vuole riaprire il caso Amanda Knox. Ed è per questo che Palazzo Chigi ha chiesto alla Corte per i diritti umani di Strasburgo di ripronunciarsi sul risarcimento riconosciuto lo scorso 24 gennaio alla giovane americana per violazione del diritto di difesa, chiedendo un rinvio del procedimento davanti alla Grande Camera, istanza sulla quale la Corte si pronuncerà lunedì prossimo. Una richiesta, quella del governo, presentata proprio dopo il ritorno in Italia, a 8 anni dall’ultima volta, della giovane, assolta definitivamente dalla Cassazione insieme a Raffaele Sollecito dall’accusa di aver ucciso la sua coinquilina Meredith Kercher a Perugia e ospite, lo scorso week end, del Festival della Giustizia penale a Modena, dove ha raccontato il processo mediatico subito negli anni del processo. I giudici di Strasburgo, a gennaio, avevano condannato l’Italia a versare 18.400 euro ( di cui 8mila per le spese legali) alla Knox, per aver violato l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel corso dell’interrogatorio del 6 novembre 2007, quando la giovane fu sentita senza la presenza di un avvocato, circostanza sulla quale le autorità italiane non sono state in grado di fornire spiegazioni adeguate. Ma per i giudici, la violazione, seppur grave, non avrebbe compromesso l’equità complessiva del procedimento. L’altra infrazione riguarda invece l’assenza di un traduttore nel corso del processo, pregiudicando la capacità della Knox di comprendere le accuse che le venivano rivolte. La giovane aveva chiesto 500mila euro di danni morali e oltre due milioni per le spese sostenute durante il processo, denunciando di essere stata colpita alla testa durante un interrogatorio e di aver subito pressioni psicologiche per estorcerle una confessione, senza tener conto, come evidenziato anche dalla sentenza, dello stato di profondo choc emotivo e di confusione in cui si trovava la donna. Per tale motivo, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 sotto il profilo procedurale, in quanto il governo non avrebbe indagato su possibili trattamenti disumani o degradanti o atti di tortura commessi a danno della giovane, ma non sotto il profilo sostanziale, in quanto, in assenza di prove, i maltrattamenti non risultano dimostrati. «Sono stata interrogata per 53 ore in 5 giorni, senza un avvocato, in un linguaggio che capivo forse come un bambino di 10 anni. Sono stata schiaffeggiata sulla nuca mentre mi dicevano “Ricorda!” – aveva spiegato Amanda – La Corte di Cassazione ha già riconosciuto che gli investigatori e inquirenti di Perugia hanno contaminato, manomesso e distrutto prove materiali. Quello che non è stato riconosciuto è stato il fatto che gli stessi investigatori e inquirenti hanno sottoposto persone innocenti, Raffaele e me, a torture psicologiche e abusi fisici mentre eravamo sotto interrogatorio».
Definitiva la condanna per l’Italia: «Violati diritti di difesa di Knox». Pubblicato martedì, 25 giugno 2019 da Angela Geraci su Corriere.it. La Corte di Strasburgo ha rigettato la richiesta del governo italiano di pronunciarsi di nuovo sul caso di Amanda Knox. L’Italia, a gennaio, è stata condannata per aver violato il diritto alla difesa dell’americana che fu accusata, condannata e poi assolta per il delitto di Perugia. Il panel che ha valutato la richiesta ha rifiutato infatti di inviare il caso alla Grande Chambre, una specie di Cassazione della Corte. La sentenza emessa contro l’Italia diventa quindi definitiva. Il nostro Paese dovrà dunque versare ad Amanda 10.400 euro per danni morali - lei ne aveva chiesti invece 500mila - e 8mila euro per le spese legali. La giovane aveva anche chiesto 30mila euro per la procedura davanti alla Corte e più di due milioni di euro per le spese sostenute dai suoi genitori per i tanti processi in Italia: in tutto sette anni di battaglie legali in cui i verdetti sono stati ribaltati più volte fino all’assoluzione finale. Oggi per il delitto di Meredith Kercher resta in carcere Rudy Guede, condannato a 16 anni. La sentenza della Corte di Strasburgo riguarda la procedura con cui la giustizia italiana ha condannato Amanda Knox per calunnia: durante l’interrogatorio al centro del ricorso - quello del 6 novembre 2007 - l’americana accusò Patrick Lumumba, cittadino congolese, di avere ucciso Meredith ma dopo pochi giorni l’uomo fu assolto e lei condannata per calunnia a tre anni di reclusione. Durante quell’interrogatorio però non erano presenti né legali né interpreti che potessero aiutare la ragazza, da poco in Italia. In tutto Amanda ha trascorso in carcere quattro anni. Da innocente. Lo scorso 15 giugno è tornata per la prima volta nel nostro Paese, ospite del festival della giustizia penale di Modena. Adesso la principale occupazione della 31enne è la lotta agli errori giudiziari attraverso l’associazione «Innocent project» e, soprattutto, la sua testimonianza.
La Corte di Strasburgo condanna l'Italia a risarcire Amanda Knox. Il tribunale dei diritti dell'uomo ha respinto il ricorso. L'americana accusata dell'omicidio di Meredith Kercher nel 2007 "ha subito un danno morale perché è stato violato il suo diritto alla difesa durante le indagini". La Repubblica il 25 giugno 2019. L'Italia dovrà risarcire con circa 10 mila e 400 euro il danno morale subito da Amanda Knox, la giovane americana arrestata, condannata, scarcerata (dopo poco meno di quattro anni in cella) e quindi definitivamente assolta dall'accusa di avere partecipato all'omicidio di Meredith Kercher, compiuto a Perugia la sera del primo novembre del 2007. La Corte di Strasburgo ha infatti rigettato la richiesta del Governo di pronunciarsi di nuovo sul caso dopo che l'Italia era stata condannata per avere violato il diritto alla difesa della ormai ex imputata. Il panel che ha valutato la richiesta ha rifiutato di inviare il caso in Grande Camera. Diventa quindi definitiva la sentenza emessa contro l'Italia il 24 gennaio scorso. Con essa la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto l'Italia colpevole della violazione del diritto alla difesa di Amanda Knox chiedendo allo Stato di risarcire la giovane, tornata recentemente in Italia, per i danni morali subiti. Un indennizzo complessivo pari a 10 mila e 400 euro (a fronte dei 500 mila richiesti dalla parte in causa), oltre a circa 8 mila di spese legali. La Corte non aveva invece ritenuto che ci fossero prove dei maltrattamenti, alcuni "scappellotti", che Knox aveva denunciato di avere subito durante l'interrogatorio in questura. L'avvocato Dalla Vedova ha ricordato che la violazione del diritto di difesa è stata riconosciuta perché la sua assistita non fu avvertita di essere indagata, non le venne fornito un avvocato e nemmeno un interprete. "Tutto questo - ha aggiunto - negli interrogatori che andarono avanti per circa 54 ore tra il 2 e il 5 e 6 novembre del 2007. Amanda venne sentita inizialmente come testimone ma la sua posizione divenne rapidamente di indagata". Il legale ha sottolineato che Knox "non fu avvisata che era sospettata". "Se lo avessero detto subito - ha aggiunto - e le avessero fornito un difensore e un interprete le cose sarebbero andate diversamente". Secondo il legale la decisione di Strasburgo "chiude il discorso". "Siamo soddisfatti - ha aggiunto - ma non sorpresi. Questa è una sentenza giusta". Amanda Knox è stata definitivamente assolta per il delitto per il quale resta in carcere Rudi Guede, condannato a 16 anni di reclusione. Di recente la donna è tornata in Italia per partecipare a un convegno sulla giustizia e spesso i suoi commenti sulla vicenda hanno scatenato polemiche.
Maltrattamenti, Amanda Knox accusò l’Italia: oggi decide la Cedu. Nel ricordo si evidenza che il suo diritto a un equo compenso è stato violato perchè non informata in tempi brevi in una lingua a lei comprensibile e della natura e dei motivi delle accuse, scrive Damiano Aliprandi il 24 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Oggi la Corte Europea dei diritti umani pubblicherà la sentenza sul ricorso della statunitense Amanda Knox, la quale ha accusato l’Italia di aver violato il diritto europeo sull’equo processo e di aver subito maltrattamenti da parte della polizia durante l’interrogatorio quando era imputata insieme a Raffaele Sollecito per l’omicidio della sua coinquilina Meredith Kercher. Il 27 marzo 2015 la quinta sezione penale della Corte suprema di Cassazione annullò senza rinvio le condanne a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, assolvendoli per non aver commesso il fatto, affermando la mancanza di prove certe e la presenza di numerosi errori nelle indagini, e ponendo così fine al caso giudiziario. Nel 2016 la CEDU ha ritenuto valido il dossier presentato dai legali della Knox ed ha comunicato il ricorso al governo italiano affinché possa difendersi. Ricordiamo che nel gennaio del medesimo anno, il tribunale di Firenze aveva assolto con formula piena la Knox dall’accusa di avere calunniato alcuni agenti della squadra mobile di Perugia che indagavano sull’omicidio di Meredith. In particolare la Knox era accusata di calunnia per avere sostenuto di essere stata “forzata” dagli investigatori a dire che era stata nella casa dell’omicidio insieme a Patrick Lumumba, che fu coinvolto nell’inchiesta proprio a causa delle frasi dell’americana e poi riconosciuto estraneo alla vicenda. Il procedimento avviato dalla procura di Perugia era stato poi trasmesso a Firenze in quanto tra le persone offese dal presunto reato ci sarebbe stato anche l’ex pm Giuliano Mignini, titolare dell’indagine. Il pm di Firenze aveva chiesto per la Knox una condanna a due anni e otto mesi di reclusione. La sentenza di assoluzione però parla chiaro. Nelle motivazioni, il giudice ha scritto che la Knox fece il nome di Lumumba agli agenti perché «dando quel nome in pasto a coloro che la stavano interrogando così duramente, sperava di porre fine a quella pressione». Il giudice ha ritenuto che le parole della studentessa di Seattle abbiano rappresentato «la narrazione confusa di un sogno, sia pure macabro» e «non la descrizione di una vicenda davvero accaduta». Per il tribunale questo conferma lo stato in cui si trovava Amanda Knox in quel momento ed esclude che la sua finalità potesse essere di tacere il nome dell’effettivo autore del delitto. Il giudice di Firenze ha anche parlato in tale ambito di indagini caratterizzate da «numerose irritualità procedurali» e dalla durata ossessiva degli interrogatori. Sempre secondo il tribunale, il contesto nel quale sono state rese le dichiarazioni della Knox «era chiaramente caratterizzato da una condizioni psicologica divenuta» per lei «davvero un peso insopportabile». È quindi «comprensibile – si legge nelle motivazioni – che cedendo alla pressione e alla stanchezza abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando a coloro che la stavano interrogando quello che in fondo volevano sentire dire: un nome, un assassino». Cosa ha denunciato nel ricorso alla CEDU Amanda? Ha affermato che il suo diritto a un equo processo è stato violato perché «non è stata informata in tempi brevi in una lingua a lei comprensibile della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico». Inoltre ha affermato di non essere stata assistita da un legale durante gli interrogatori del 6 novembre 2007. Infine ha ribadito di non essere stata assistita da un interprete professionale e indipendente nel corso degli interrogatori e che l’agente di polizia che l’ha assistita durante gli interrogatori del 6 novembre 2007 ha fatto le funzioni di mediatore «suggerendo così delle ipotesi su come si erano svolti i fatti». Amanda Knox ha invocato inoltre la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani affermando che «gli scappellotti» che avrebbe ricevuto alla testa hanno costituito un trattamento inumano e degradante. Oggi conosceremo il responso.
La vittoria di Amanda Knox Giustizia italiana condannata. La Corte di Strasburgo: «Violati i diritti della difesa: pagate 18mila euro». E lei: «Speriamo sia finita qui», scrive Stefano Zurlo, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale". È il 6 novembre 2007. Meredith Kercher è morta da cinque giorni. Amanda Knox, studentessa americana di Seatte, viene portata in questura, a Perugia, e sottoposta ad un lunghissimo interrogatorio. Urla. Minacce. Forse, anche se non è mai stato provato, schiaffoni. Inesorabilmente, la sua posizione scivola: da testimone a indagata. Ma avvocati non se ne vedono, pure se si intuisce che l'arresto è solo questione di tempo. Ora quell'atto giudiziario viziato, quasi un peccato originale dell'inchiesta, si ritorce contro il sistema giudiziario: l'Italia viene condannata dalla Corte di Strasburgo per aver violato i diritti di Amanda. Non fu chiamato un difensore e nessuno ha saputo spiegare e tantomeno giustificare il perchè di quella gravissima mancanza. Inoltre, anche l'interprete che in quella partita difficilissima giocava un ruolo delicatissimo, sarebbe andato oltre il proprio compito. Insomma, la Knox si trovò in una situazione insostenibile, di sudditanza psicologica. Una circostanza decisiva che aiuta a capire le mille contorsioni e i tanti, troppi colpi di scena di un procedimento travagliatissimo. Un crudele gioco dell'oca che ha sconvolto e diviso l'opinione pubblica internazionale e si è concluso con l'assoluzione della Knox e dell'ex fidanzato Raffaele Sollecito e la condanna, in rito abbreviato, del solo Rudy Guede in concorso con ignoti. Quel giorno, l'americana cerca di salvarsi da tanta pressione puntando il dito contro il congolese Patrick Lumumba che però' con l'omicidio non c'entra niente e verrà in seguito completamente scagionato da ogni accusa. Per quell'episodio la giovane è stata condannata a 3 anni per calunnia. La pena rimane, naturalmente, ma ora pure lo Stato italiano viene punito per le procedure non ortodosse, anzi scorrette e sleali, utilizzate per far capitolare la ragazza. La sentenza di Strasburgo è pesantissima: Amanda fu sentita quando erano già state formulate accuse nei suoi confronti, ma nessuno si preoccupò di chiamare un difensore. E il governo italiano non ha «fornito prove per dimostrare che esistessero circostanze eccezionali per giustificare tale assenza e che questa non abbia irrimediabilmente minato l'intera procedura». Qualcosa di simile è accaduto poi con l'interprete che si è spinto troppo in là, in qualche modo come longa manus dell'apparato giudiziario, falsando dunque il match fra accusa e difesa. Un terzo punto contestato è invece caduto: non è provato che Amanda Knox sia stata vittima di maltrattamenti. Di quelle torture psicologiche di cui parlavano i suoi legali. Per questo l'Italia viene condannata, ma la pena è modesta: un risarcimento di 10.400 euro per i danni morali. Più altri 8mila per le spese di giustizia: in totale 18 mila euro circa. Dicono che da Seattle Amanda abbia accolto la notizia trattenendo a stento le lacrime: «Spero - le sue parole - che sia l'ultima puntata di questa storia». Lo speriamo tutti. Lei comunque aveva chiesto due milioni e mezzo. L'incredibile altalena di condanne e assoluzioni inquieta, il susseguirsi vertiginoso di cinque verdetti, che fanno a pugni l'uno con l'altro, lascia sconcertati. Il «complesso probatorio - scrivono i giudici - era talmente contraddittorio» da trasformare tutta la vicenda in un rebus insolubile. Resta la colpevolezza di Guede, e con quella la certezza che giustizia non è stata fatta. Ora, come se non bastasse, si aggiunge quest'altra reprimenda. Una pagina nera per la nostra magistratura.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Dentro ad un divorzio.
Alberto Mattioli per ''la Stampa'' il 24 dicembre 2019. Sembra fatta apposta. È una perfetta storia di Natale, anche tecnologicamente aggiornata: l' happy end è infatti arrivato grazie alla geolocalizzazione, insomma è una lieta novella 2.0, un' agnizione hi-tech. In sintesi: la bambina di 11 anni «rapita» venerdì scorso dal papà nella sua scuola milanese è stata ritrovata. O meglio: si è fatta ritrovare, telefonando alla mamma angosciata nella tarda serata di lunedì e mandandole sempre via cellulare delle foto del luogo che hanno permesso di identificarlo. Era stata portata, stranamente, in Danimarca, ad Aarhus, non in Siria come si era temuto in un primo momento. La madre è partita per Copenaghen ieri e oggi dovrebbe riportare la figlia a casa. Giusto in tempo, appunto, per il Natale. Sembra la sceneggiatura di uno di quei film di buoni sentimenti che vengono riprogrammati ad oltranza per le Feste («Una figlia per due»?), ma stavolta è una storia vera. Il resto sono dettagli di cronaca, compresi i molti aspetti ancora non chiari in una vicenda comunque esemplare dei minori sballottati fra genitori in guerra. Nel caso, due figure molto lontane come il padre siriano, Maher Balle, 42 anni, e la mamma ecuadoriana ma da sempre a Milano, Mariana Veintimilla, 53 anni. In comune, ormai, dopo la fine di una relazione lunga diciassette anni, soltanto quella bambina. E sempre un' abissale differenza di mentalità, almeno secondo la madre: lui è un tradizionalista dalla mentalità maschilista, lei una donna indipendente. Che accusa il padre anche di aver montato la bambina contro di lei, di averle fatto credere che la mamma è cattiva. Incredibile: la figlia Balle se l' era già portata via tre anni fa, per la precisione il 31 dicembre 2016. Ragazzina sparita, poi ritrovata in Siria, e inizio di una lunga battaglia burocratica e legale, con interventi dell' Interpol e delle ambasciate e la mamma che va direttamente in Siria a cercarla, trovandola a casa dei nonni. Soltanto il 29 novembre scorso, dicendosi pentito del sequestro, Balle ha riconsegnato la figlia alla madre. Nel frattempo, entrambi si sono rifatti una vita: lei ha un nuovo compagno; lui anche un altro figlio, in Siria. Fin qui l' antefatto. La cronaca ricomincia venerdì. Alla scuola media della ragazzina, in porta Romana, poco lontano dalla boutique della mamma, c' è la recita di fine anno seguita dal solito brindisi di auguri. Si presenta Balle che alla fine porta via la ragazzina senza nessun problema. In effetti, la madre aveva ritirato la denuncia, e il padre aveva quindi il diritto di frequentare la figlia, peraltro legatissima a lui. Come i due siano fuggiti, non si sa, probabilmente in treno: un lunghissimo viaggio fino allo Jutland. Perché Aarhus lo si è capito dopo: lì vive lo zio, il fratello di Balle. A questo punto iniziano le indagini, dirette dal capo della Mobile di Milano, Marco Calì. La signora Veintimilla viene intervistata dai telegiornali dai quali urla la sua angoscia: «Ti prego, non farle del male e riportarla da me». Il pm Cristian Barilli apre un' inchiesta per sottrazione internazionale di minori. Finalmente, arriva la telefonata della bambina, da un cellulare danese, seguita da due foto fatte con lo stesso telefonino. Bastano per geolocalizzare la città. «La telefonata - spiega l' avvocato della mamma, Angelo Musicco - è stata fatta in presenza del padre. A mio parere, l' uomo ha voluto in qualche modo far ritrovare la figlioletta. Forse aveva capito che il cerchio si stava stringendo». La mamma sale sul primo aereo per la Danimarca. Per chi è andata fino nella Siria straziata dalla guerra civile, quasi un viaggio di piacere. La ministra dell' Interno, Luciana Lamorgese, si dichiara «orgogliosa per il lavoro e la professionalità della Mobile di Milano e della Criminalpol». La Polizia, dice la ministra, «ha fatto il regalo di Natale più bello a una mamma distrutta dal dolore e dall' angoscia per tre lunghissimi giorni». Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Lo si diceva, che era una perfetta storia di Natale...
Dentro ad un divorzio. Cosa può succedere ad una coppia, una famiglia, figli compresi, quando si comincia un percorso legale spesso peggio dell'assurdo. Daniela Missaglia il 12 luglio 2019 su Panorama. Malcom X diceva che “Non si può separare la pace dalla libertà perché nessuno può essere in pace senza avere la libertà.” Analogamente, in una famiglia non può esserci pace se qualcuno, anche se è il tuo Giudice, ti priva della libertà, costringendoti a seguire teorie e percorsi terapeutici che, di fatto, non condividi o, peggio, disapprovi profondamente. La dignità umana, infatti, si basa sul rispetto di se stessi e dei principi morali sui quali la vita di ognuno di noi si fonda e nessuno dovrebbe avere il diritto di calpestarla. In nessun caso. Eppure su circa 90.000 separazioni avvenute nel 2018, almeno il 20% finisce con uno scontro giudiziale dove la pace, la libertà e, soprattutto, la dignità individuale delle persone coinvolte rischia di lasciare il passo ad altre priorità che, nella maggior parte dei casi, hanno poco a che vedere con diritti di pari valore. Se pensate che la dignità personale sia un diritto fondamentale dell’uomo e che, se irriso e ostacolato, sia giusto rivolgersi ad un Tribunale per ottenere giustizia, sappiate che non è tutto “rosa e fiori”. La giustizia incarnata da quell’apparato fatto di giudici e tribunali può serbare sgradevoli sorprese. A chi non comprende ancora bene cosa cerchi di dirvi, legga quanto segue. Una storia “semiseria” o “tragicomica”, certo, ma più illustrativa di mille premesse. Immaginate di essere all’inizio di un percorso giudiziario dove la vostra anima gemella cerchi di mettervi in ginocchio, magari chiedendo il collocamento dei figli senza aver mai fatto prima un giorno intero con loro. Immaginate anche di aver scoperto di essere stati traditi, a vostra insaputa, divenendo lo zimbello degli amici. Immaginate anche di scoprire che le difficoltà economiche sempre lamentate in casa celavano un occultamento progressivo di beni e sostanze, sottratti a voi e ai vostri figli. Cosa fareste? Una persona onesta, che ha fede nella giustizia, sceglierebbe un bravo avvocato per cercare di tutelare sè ed i figli, invocando a gran voce l’intervento del Tribunale in sostituzione di un accordo che non arriverebbe mai da una persona che, improvvisamente, è diventata nemica. Fine della storia? No. Tenetevi forte e allacciate le cinture.
Prima udienza: “capiamoci bene” - il Giudice si protende con i palmi appoggiati allo scranno - “vi do venti giorni per mettervi d’accordo, o trovate un’intesa generale, anche sui figli, o ci penso io e vi dico subito che scontenterò tutti”. Perché è qui che tutto comincia. Ed è qui che tutto si sgretola. Il Giudice, anima sua, veste i panni di Salomone e, non sapendo che pesci prendere e a chi dar ragione sulla base dei soli atti contrapposti, dopo aver esortato “caldamente”, ma inutilmente, a trovare un accordo, dispone che i Servizi Sociali facciano un’indagine psico-sociale. Ma siccome i Servizi Sociali non sempre rispondono in modo solerte, il Giudice decide di fare una bella consulenza tecnica d’ufficio sul nucleo familiare incaricando uno psicoterapeuta di sua fiducia scelto nella “ristretta” cerchia di nomi. A sua volta il Consulente, con o senza autorizzazione, associa altri esperti per poter meglio approfondire la vicenda familiare. In un sol colpo ci si trova davanti ad un numero imprecisato di psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, mediatori, testisti, assistenti sociali a loro volta divisi in gruppi di responsabili e sotto-responsabili che, al confronto, lo squadrone della morte è una riunione oratoriale. E così, pagato il fondo spese all’avvocato, partono altri bonifici al CTU (come acconto sul maggior dovuto) al proprio consulente di parte e a tutti gli altri emeriti esperti incaricati di indagare sulla vostra idoneità genitoriale e sanità mentale, manco foste Hannibal Lecter, famoso mangiatore di fegati umani in piatti conditi con fave e accompagnati da un buon Chianti. Nel frattempo, il vostro conto corrente si assottiglia notevolmente ma è solo l’inizio. E forse non il male maggiore. Iniziano le sedute, la somministrazione di test, audizioni per mesi e mesi: stress, permessi di lavoro, ferie bruciate, litigi con i colleghi ed i capi, baby-sitter profumatamente stipendiate a far le veci per le assenze legate a questi impegni. Poi arriva l’esito: la montagna partorisce il topolino, almeno in apparenza. Il Consulente, con un bel ‘pari e patta’, denunzia un’eccessiva conflittualità della coppia, affida i figli al Servizio Sociale, prescrivendo a ciascuno un percorso di sostengo individuale, alla coppia di intraprendere un supporto genitoriale congiunto, ai figli - destabilizzati da tanto livore reciproco - l’ascolto da parte di un professionista, magari un neuropsichiatra da oltre 100 Euro all’ora. Ma, insomma, visto che uno dei due non si è mai occupato dei figli e pensa soltanto a farsi gli affari propri, a chi spettano i figli? Cosa c’entra la conflittualità? E la paranoia ossessiva compulsiva che avevate denunciato essere la causa dei litigi coniugali? E perché il Consulente non ha tenuto conto della volontà dei figli? Ma non doveva ascoltarli? E perché al Giudice non interessa il tradimento che avete subito? Quest’ultimo, forse oberato da altre questioni, accoglie de plano il suggerimento del suo consulente. Affidamento ai Servizi Sociali. Se la sbrighino loro a lavare i panni dei due livorosi. Altro giro di giostra. Nuova convocazione della coppia e ripresa di un iter che assomiglia molto a quello appena conclusosi: mattine polverizzate nell’attesa su anonime sedie di corridoi zeppi di volantini e disegni di bambini, due occhi inquisitori dietro occhiali senza montatura dell’Assistente Sociale che, d’imperio, pur con l’elaborato della CTU e il decreto del Giudice sotto l’avambraccio, riporta al povero “genitore” ormai sfinito una sua “personale” interpretazione del decreto. Ed ecco il risvolto surreale. “Mi scusi ma l’avvocato mi ha detto che io non ho perso l’esercizio della responsabilità genitoriale e, comunque, a breve farà un ricorso al Giudice perché la relazione che Lei ha depositato è piena di errori ed omissioni, io per esempio non ho mai detto quello che lei ha scritto”, osa dire l’ingenuo genitore. “Le do un consiglio: cambi avvocato o il Giudice potrebbe prendere decisioni drastiche. E io con il Giudice ci parlo molto spesso”. È una freccia letale quella lanciata dall’Assistente dei Servizi Sociali allo sventurato genitore, colpevole di essersi affidato ad un avvocato sgradito e troppo severo. Così, tra angoscia, paura, confusione, il tempo passa attraverso ricorsi, udienze, contestazioni. E i figli? A fatica - e all’ultimo momento - vengono iscritti alle scuole dell’obbligo, a fatica riescono ad avere la loro vita. A fatica riescono ad esprimere i loro desideri. Altri permessi, altre ferie sacrificate, altri soldi. Tanti. Le certezze e la baldanza originaria vacillano. L’unica cosa che sembra essere certa è la minaccia, tutt’altro che velata, dell’Assistente Sociale che in caso di violazione a queste prescrizioni sibila di poter prendere decisioni ancora più drastiche. Peccato che, a detta della Cassazione, imporre percorsi terapeutici non sia costituzionalmente legittimo, perché lede il diritto alla libertà personale. Ma così è se vi pare, di Pirandelliana memoria. Non c’è più logica, non c’è più nesso, non c’è più competenza specifica e ormai i più svariati esperti si affacciano, rivestendo ruoli confusi, esprimendo pareri che tracimano le loro competenze. Ormai la famiglia è denuclearizzata, i bambini strattonati e destabilizzati, i genitori sono totalmente esautorati da ogni decisione e han finito ogni risparmio e si sono persino indebitati. Ed ora voi avete paura e pervasi di delusione e confusione.
Qui la storia è finita. Male, come avrete ben percepito. Avviso ai naviganti: non tutte le separazioni finiscono come quella che ho raccontato, lo dico a chi – leggendo – ha già pronta la telefonata al proprio legale per “bloccare tutto" perché vuole riconciliarsi o trovare subito un accordo consensuale. Ho solo voluto presentare uno spaccato iperbolico e narrativo di una vicenda familiare che si incaglia in un altrettanto ipotetico Tribunale italiano. Cosa che può succedere. Eccome se può succedere. Morale: riflettete e, se del caso, pigiate quel tasto di "chiamata" sul telefono. Qualcuno disse: “una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà”.
· Padri separati (dai figli).
“SEI UN HANDICAPPATO E NON PUOI PIÙ VEDERE TUA FIGLIA”. Antonella Torra per La Stampa il 13 settembre 2019. «Sei un handicappato e non puoi più vedere tua figlia». Parole come macigni quelle contenute nella lettera che qualche giorno fa Piero, il nome è di fantasia, un piccolo imprenditore agricolo di Albugnano, ha ricevuto dall’avvocato dell’ex compagna. «Mi è crollato il mondo addosso» mormora l’uomo mentre, nell’orto dietro casa, raccoglie gli ultimi peperoncini. E aggiunge: «Mia figlia è tutto quello che ho». Piero ha 42 anni e una malattia degenerativa, si chiama morbo di Husher, che colpisce la vista e l’udito. «Ci convivo da quando sono bambino – racconta l’uomo – ho cominciato ad essere ipovedente e poi verso i vent’anni è diventato più debole anche l’udito. Ma sono assolutamente autosufficiente». Damiano coltiva nocciole, le sguscia e le fa tostare per poi venderle: «E’ una piccola attività ma mi permette di vivere dignitosamente e di mantenere la mia famiglia». Una famiglia nata dieci anni e che si è rotta da qualche mese: «Io e la mia compagna ci siamo conosciuti al mercato: io vendevo nocciole e piantine di basilico, lei marmellate e antipasti». L’amore è nato tra i banchi ed è cresciuto nella cascina in mezzo ai boschi sopra Albugnano che hanno ristrutturato e dove i due sono andati a vivere con il figlio di lei. Dopo due anni è nata la loro bambina che ora ha 7 anni. «Io lavoravo a casa – dice Damiano – e quindi mi sono occupato io di più dei bambini. Sempre. Non guido più, ho rinunciato prima che mi togliessero la patente perché all’imbrunire non vedo bene. Ma andavo tutti i giorni a prenderli al pullman, preparavo da mangiare e aspettavamo la mamma che rientrava per cena». I problemi cominciano un anno fa: «Non so cosa sia successo, lei ha cominciato a dire che voleva andarsene, spesso non rientrava a dormire. Ma io potevo stare con la mia bambina e tanto mi bastava. Riesco a badare a lei, a casa mia è tutto illuminato, anche l’interno degli armadi soprattutto quelli dove tengo gli abiti della piccola. L’ho sempre vestita perfettamente, magari non azzeccavo un colore…» sorride. E racconta spezzoni di vita felice: le vacanze al mare, in montagna ad Ala di Stura dove i nonni hanno una casa. «I miei genitori mi hanno accompagnato, ma io non ho alcun problema a gestire la bambina. D’altronde vivo solo, cucino, faccio le pulizie e lavoro». Qualche mese fa la donna decide di trasferirsi a Cocconato, iscrive la bambina a scuola lì. «Io ho tentato di oppormi, ma non ha voluto sentire ragioni». Per Damiano è sempre più complicato vedere la bambina, si fa accompagnare ma l’ex compagna le concede incontri di non più di un’ora: “Come in carcere” commenta amaro. L’associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti e l’associazione Filo D’Oro hanno denunciato la situazione: «Mi sono rivolto anche io ad un avvocato, sono disposto anche a lasciare la mia cascina e venire in città. Ma voglio veder crescere mia figlia» dice Piero.
Il dramma dei padri separati: "Noi, genitori di serie B abbandonati dalle istituzioni". Depressi e sul lastrico: quella dei padri separati è una vera e propria emergenza sociale. In Italia secondo la Caritas su 4 milioni di papà che si separano 800mila finiscono sotto la soglia di povertà. E c'è anche chi compie gesti estremi. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. “Avevo deciso che mi sarei buttato dal quel ponte, che non sarei tornato indietro, sono salvo soltanto grazie ai carabinieri che passavano di lì per caso”. Il calvario di Michele è iniziato nel momento in cui il suo matrimonio ha cominciato a vacillare. L’insofferenza, le liti e poi la decisione di separarsi. I due figli della coppia restano con la madre. Per Michele, originario di Foggia e trapiantato nell’hinterland bolognese, vederli è sempre più difficile. Arriva la depressione, poi il tentativo di uccidersi e il ricovero in una struttura psichiatrica ad Imola. Ci resta due mesi, nel frattempo perde il lavoro. E così, una volta terminato il percorso di riabilitazione si ritrova in mezzo ad una strada. Deve scegliere, o l’affitto o l'assegno di mantenimento. “Alla fine mi hanno sfrattato e per nove mesi sono stato costretto a vivere in macchina, mangiavo alla Caritas – ci racconta - i miei figli continuavo a vederli un week end sì e uno no e quando mi chiedevano perché non li portavo mai a casa mia dovevo mentirgli continuamente”. Michele ora sta cercando di cambiare vita. Ha trovato una casa e avviato una piccola attività. Fa il falegname e ogni due fine settimana percorre oltre 50 chilometri in auto per andare a prendere i suoi bambini a scuola e passare un po’ di tempo con loro. “Ormai però – ci confessa – mi vedono come un estraneo, non come un papà, e questo fa veramente male”. In Italia i genitori che si trovano nelle sue stesse condizioni sono tantissimi. Secondo l’organismo pastorale della Cei per la carità su 4 milioni di padri separati presenti nel nostro Paese 800mila sarebbero sotto la soglia di povertà. Tra loro c'è anche chi si arrende e si abbandona a gesti estremi come il suicidio. Lo scorso luglio, ad esempio, a Roma un uomo di 45 anni si è lanciato dal tredicesimo piano del palazzo delle Poste, all’Eur, perché non riusciva più a sostenere la sua "difficile situazione familiare”. “I padri separati sono uomini fatti a pezzi, sotto il profilo prima morale e poi finanziario – denuncia Anna Poli, psicologa, blogger e presidente di Ancore (Associazione Nazione Cogenitorialità Responsabile) che incontriamo a Bologna – quando si affronta un divorzio ormai gli uomini hanno soltanto da perdere, sul fronte della separazione non esistono le pari opportunità”. “La verità è che è diventato un grande business, tra avvocati, cooperative e case famiglia”, denuncia Roberto Castelli, padre separato che ha fondato Genitori Sottratti, organizzazione attiva a Bologna, che si occupa di supportare i papà in difficoltà durante e dopo le cause di divorzio. “La legge 54 del 2006 disciplina l’affido condiviso ma lascia ampia discrezionalità al giudice, che nella stragrande maggioranza dei casi decidono di collocare i bambini presso le madri, così – ci spiega – si innesca un processo di alienazione parentale che trasforma i papà in genitori di seconda classe che servono soltanto a pagare il mantenimento”. “Il padre – continua Castelli - diventa una figura di servizio che non riesce più ad avere un vero rapporto con i figli, mentre il diritto dei bambini, che dovrebbe essere garantito proprio da questa legge, sarebbe quello di poter avere entrambi i genitori”. “La separazione spesso viene vissuta come un lutto, e vi assicuro che si muore interiormente”, ci confessa Mariano. Dopo un matrimonio naufragato, due figli da vedere a orari prestabiliti e lo stalking da parte della ex moglie, ha deciso di scendere in campo per aiutare chi ha vissuto il suo stesso dramma attraverso dei gruppi di self-help. “È un percorso molto difficile dal quale non si esce facilmente – precisa – spesso questa gente non può contare su nessun tipo di sostegno, li aiutiamo proprio perché sappiamo bene che chi viene lasciato solo alla fine soccombe”. “Le somme che devono essere versate per gli assegni di mantenimento sono cifre standard che non tengono conto del reddito dei papà, così un genitore si ritrova a dover pagare il mutuo della casa coniugale, l’affitto di una nuova casa, e a fine mese rimangono pochi spicci per vivere – spiega Anna Poli – per questo in più di un caso si finisce a dormire in macchina o in mezzo alla strada”. “Non è possibile che all’interno di una separazione, evento che già di per sé impoverisce la famiglia, ci sia una figura che viene letteralmente annientata”, ragiona la psicologa. A contestare la prassi utilizzata dai giudici in materia di affido è anche Castelli. “Non è possibile spendere migliaia di euro in avvocati e consulenti per vedersi riconosciuta una cosa ovvia: ovvero il diritto di mantenere un rapporto con i propri figli”. “Bisogna fare qualcosa per cambiare questa situazione”, chiosa. Il precedente esecutivo aveva tentato di applicare dei correttivi alla normativa vigente con il cosiddetto ddl Pillon che, tra le altre cose, si proponeva di introdurre l’obbligo per i figli di vedere ciascun genitore non meno di 12 giorni al mese e l’eliminazione dell’assegno di mantenimento. Al suo posto il senatore leghista firmatario della proposta aveva previsto un "contributo diretto" da parte degli ex coniugi che sarebbe stato utilizzato in favore dei figli durante il tempo trascorso insieme. Ma il disegno di legge è stato aspramente criticato da più parti. L'accusa principale è quella di mettere in difficoltà le donne, che spesso si trovano nella situazione economica o lavorativa più svantaggiata e quindi in posizione di sudditanza rispetto ai mariti. Per questo una delle prime decisioni della nuova ministra della Famiglia, Elena Bonetti, è stata quella di chiudere in un cassetto la proposta del senatore della Lega. Ma proprio dalle istituzioni questo esercito di invisibili aspetta una risposta. "Ad oggi non esiste una rete di supporto che si occupi di queste persone", denunciano le associazioni, che chiedono allo Stato di intervenire.
Padri separati (dai figli). In Italia sono 4 milioni ed in estate le tensioni aumentano. Conflitti e ripicche cha a volte finiscono in tragedia. Terry Marocco il 29 agosto 2019 su Panorama. «Ho visto cose che voi sposati non potete neanche immaginare». Non è un replicante di Blade Runner a dirlo, ma un padre separato. Sono quattro milioni in Italia, secondo gli ultimi dati Istat. E per la Caritas 800 mila si trovano sotto la soglia di povertà. D’estate i conflitti tra ex diventano più aspri. La posta in gioco sono le vacanze con i figli, gli agognati 15 giorni. Ma spesso ai padri viene negata questa possibilità. «Sono situazioni che si ripetono ogni agosto e a Natale» racconta Tiziana Franchi, presidente dell’associazione Padri Separati, la prima nata in Italia nel 1991. «Con i quattro soldi risparmiati comprano il biglietto aereo per portare il bambino al Sud dai nonni paterni. Ma la ex moglie nel giorno stabilito non risponde al telefono. Disperati chiamano i carabinieri. Ma neanche loro possono fare niente. L’avvocato è in vacanza e così il giudice. E poi, anche se riuscissero a fare ricorso, la risposta, se va bene, arriverebbe a ottobre. E intanto l’estate è perduta e nessuno pagherà». Il primo problema è accordarsi sul periodo. Ci sono dipendenti di aziende private che raccontano come debbano comunicare le ferie a inizio anno, mentre le ex mogli insegnanti li tengono in scacco fino all’ultimo rendendogli impossibile organizzare qualcosa di decente. Anche quando si trova un accordo, continuano i dispetti: non vengono consegnati nella data prestabilita adducendo malanni inesistenti, c’è chi se li porta dall’altra parte del Paese e non rispetta gli accordi. Madri che chiedono di tardare un giorno «perché il bambino ha una festa di compleanno» e poi denunciano gli ex compagni, dicendo che non si sono presentati. Continua Franchi, che in 28 anni dentro l’associazione ha visto ogni genere di scorrettezze: «Cosa può fare un padre? L’unica cosa che noi sconsigliamo: iniziare a chiamare. Lei spegne il cellulare e lui continua. Ma alla terza telefonata scatta la denuncia per stalking. E da lì inizia il calvario nel «penale». L’uomo che soffre è una figura non contemplata. Nei tribunali non viene creduto. Gli ex mariti sono i violenti, gli stalker, gli inadeguati». Nell’ultimo anno si è parlato di oltre 200 suicidi. A metà luglio, a Roma, un 45enne si è buttato dal 13° piano all’Eur. Su Facebook aveva lasciato un messaggio: non riusciva più ad andare avanti per la situazione familiare. «Non ci sono stime ufficiali, ma credo a questo numero. È una strage silenziosa. Mi ricordo anni fa, in Valle d’Aosta, un papà si diede fuoco. Lo avevano accusato di avere molestato i suoi bambini. O a Bologna un noto medico cui avevano portato via la figlia di 12 anni per presunti abusi. Quando ha capito che avrebbero fatto lo stesso con la più piccola, l’ha uccisa e si è ucciso» conclude la presidente di Padri Separati. Per molti è un calvario. «L’affido condiviso, stabilito dalla legge n. 54 del 2006, ormai è la regola, ma troppo spesso resta solo sulla carta. La norma è vaga e lascia ampia interpretazione ai giudici», spiega il sociologo Eraldo Olivetta, autore di Separazione e bigenitorialità (Bonanno). «Per cinque anni ho frequentato numerose associazioni e ascoltato centinaia di casi. I padri sono sempre più giovani e vogliono fare davvero i genitori. Quello che ho riscontrato è che l’alienazione parentale esiste. Ne ho visto gli effetti devastanti. Ma non è facendosi la guerra che si risolvono i problemi». Una guerra lunga ed estremamente costosa, come racconta M.V., 61 anni, napoletano: «Quando mia moglie mi ha lasciato la bimba aveva 8 mesi. Oggi ha 11 anni e mezzo. In questo tempo sono passato attraverso tre giudici, ho cambiato otto avvocati e, per cinque anni ho incontrato la mia bambina solo in presenza degli assistenti sociali. Due volte alla settimana per un’ora e mezza. Dopo di che mia figlia ha cominciato a dare segni di rifiuto nei miei confronti». Padri con il timer, riflette l’avvocato Salvatore Dimartino, presidente di Mantenimento Diretto, associazione che ha una seguitissima pagina Facebook: «Ci contattano padri frustrati, in difficoltà economica e con un profondo malessere psicologico. Tutto nasce dalla disapplicazione della legge sull’affido condiviso. La responsabilità deve essere di entrambi i genitori. Tempi paritetici e mantenimento diretto. Il DdL Pillon tocca molti punti su cui occorre fare una riforma. Ma finché i bambini saranno considerati come premi della lotteria non andremo da nessuna parte». Mantenimento Diretto ha fatto un sondaggio tra 1.271 padri chiedendo quante notti trascorrono in un mese con i figli. Matteo Bernini, responsabile scientifico dell’associazione, illustra i risultati: «Il 40 per cento ha dichiarato mai, il 50 meno di dieci notti e solo il 10 per cento ne trascorre di più». Non è sempre così. Come racconta Leyla Ziliotta, 26 anni, campionessa italiana di bocce, nel suo libro Mia madre mi odia (Tabula fati), dove racconta non solo la propria esperienza, ma anche quella di anni di lavoro come vicepresidente in un’associazione. Lei e suo fratello hanno fatto una scelta controcorrente: «Quanto i miei si sono separati dieci anni fa abbiamo chiesto al giudice di essere affidati a nostro padre. Ricordo ancora lo scetticismo nelle aule del tribunale». Moltissimi i casi di affidi ai servizi sociali. Alcuni durano anni, anche fino alla maggiore età. «Nelle separazione con un’alta conflittualità è la prassi, almeno qui in Emilia Romagna» dice l’avvocato matrimonialista Stefano Cera. «Soprattutto al Centro Sud d’estate, tra ferie, turni e riduzione del personale, è difficile trovare gli assistenti. E il diritto di visita resta sulla carta. Bibbiano è il caso limite, ma i problemi degli affidi nelle separazioni conflittuali sono la regola». L’avvocato racconta di servizi sociali latitanti anche per un anno e mezzo: «Finché con il mio cliente non siamo stati costretti a tornare davanti al giudice per chiedere che fosse fatto quello che già aveva ordinato». I tempi della giustizia sono lunghissimi, basta una falsa denuncia per vedersi arrivare il provvedimento di allontanamento. Possono passare anche due anni, e i figli si distaccano. Come è successo a E.V., 52 anni, provincia di Milano: «Abbiamo convissuto 12 anni e nel 2007 è nata una bambina. Tre anni fa il rapporto si è deteriorato. La vigilia di Natale, dopo l’ennesima litigata, la cosa ci è sfuggita di mano. Lei mi ha insultato. Io per la prima volta l’ho minacciata con un vaso. Ha chiamato i carabinieri. Me ne sono andato e non ho più visto mia figlia. La casa che avevo comprato è andata a lei e le passo 400 euro di mantenimento. Sono andato a vivere da mia nonna. Alla fine ho potuto incontrare mia figlia attraverso i servizi. Ma lei era sempre più chiusa. Poi la mia ex è finita in comunità e dopo essersi rifiutata di seguire il percorso stabilito le è stata tolta la bambina. L’hanno messa in una casa famiglia. L’ho incontrata e la prima cosa che mi ha chiesto è di portala via da lì. Lotterò finché non ci sarò riuscito». Crescono le denunce: dallo stalking all’abuso sessuale. Spesso è una strategia processuale consigliata da avvocati spregiudicati. Otto su dieci si rivelano false. È la «sindrome di Medea», così la chiama la psichiatra Liliana Dell’Osso, presidente del Collegio dei professori ordinari di Psichiatria italiani: «Tutto ciò si rifletterà sullo sviluppo dei figli. La situazione è drammatica e merita un’urgente rivisitazione critica che prenda le mosse da una casistica di interesse psichiatrico per individuare soluzioni più adeguate». Così è successo a P.M., padre torinese: «Mi sono separato nel 2008. La bimba aveva 18 mesi. All’inizio collaboravamo. Poi mi sono trovato i carabinieri alla porta. Hanno perquisito la casa, sequestrato tablet e cellulari. La madre aveva portato la bambina all’Ospedale infantile Regina Margherita, riscontrando dopo la giornata passata con me i genitali arrossati. Lì c’era il team di Hansel e Gretel, la onlus di Bibbiano. Mandarono una segnalazione alla Procura ipotizzando abusi. Per due anni ho potuto incontrarla solo in luoghi neutri e anche quando tutto è stato archiviato, ho avuto difficoltà a rivederla». «Conosciamo il problema dei figli tolti alle famiglie molto prima che scoppiasse lo scandalo di Bibbiano» dice l’avvocato Walter Buscema, presidente di «Nessuno tocchi papà». «La giustizia minorile è kafkiana, irragionevole. E le coppie separate sono quelle che rischiano di più. Sul semplice assunto della conflittualità un tribunale può portare via i figli e sbatterli in una casa famiglia. Sono casi diffusissimi in Italia». La conflittualità è aumentata anche a causa della crisi economica. Secondo l’ultimo rapporto Caritas, oltre il 46 per cento dei padri separati è in una situazione di povertà. Il 66,1 non riesce a provvedere alle spese per i beni di prima necessità. Michele Ricotta, presidente di Papà Separati Torino Onlus racconta: «Tanti vivono con 150 euro al mese, il resto va nel mutuo, magari hanno un finanziamento sulle spalle, l’assegno di mantenimento e poi il nuovo affitto. Sono disperati». I nonni paterni hanno sempre aiutato, ma oggi è difficile ospitare il figlio in casa, perché si ripercuote negativamente sull’indice Isee e così perdono le agevolazioni fiscali che li aiutano a tirare avanti. Si finisce a dormire in automobile. In Lombardia sono stati messi a punto interventi di sostegno abitativo, canoni agevolati per genitori separati in difficoltà. Lo chiedono anche le altre Regioni. Ormai è un’emergenza sociale.
· La mamma non può impedire al figlio di vedere il papà separato.
La mamma non può impedire al figlio di vedere il papà separato. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Corriere.it. I figli come campo di battaglia tra genitori separati; come arma di vendetta dell’un coniuge contro l’altro. Una sentenza della Cassazione pone ora uno scudo a difesa del minore ma ribadisce anche l’assoluta parità tra padre e madre di fronte al figlio. la Suprema Corte ha infatti condannato una donna che nell’arco di due anni e mezzo aveva concesso all’ex marito di vedere solo tre volte il bimbo nato dalla loro unione. A quest’ultimo andranno 5.000 euro a titolo di risarcimento per «lesione del diritto alla bigenitorialità». La prima sezione civile della Cassazione, con un’ordinanza depositata oggi, venerdì, ha rigettato il ricorso di una signora contro il decreto con cui la Corte d’appello di Torino aveva ampliato le modalità di incontro del figlio con il padre, condannandola a versare un risarcimento al minore, danneggiato dal «clima di conflittualità esistente tra i coniugi a seguito della separazione». La mamma, nel suo ricorso, affermava di essere stata «ingiustamente» condannata al risarcimento, perché «aveva sempre collaborato per rendere possibili gli incontri con il padre, mentre era proprio il figlio a non voler vedere da solo il padre e pretendere in ogni incontro con il genitore anche la presenza della madre». I giudici di piazza Cavour, invece, hanno condiviso le conclusioni della Corte d’appello: per circa due anni e mezzo, emergeva dagli atti del procedimento, il papà aveva incontrato il figlio «solo 3 volte, nonostante gli accordi intervenuti tra i genitori che prevedevano una più ampia frequentazione». La Cassazione, in proposito, ricorda che «le misure sanzionatorie» previste dall’articolo 709 del codice di procedura civile, dedicato alla responsabilità genitoriale, e, in particolare, «la condanna al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria» sono «suscettibili di essere applicate facoltativamente dal giudice nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento». Nel caso in esame, conclude l’ordinanza, i giudici di Torino hanno ritenuto «comprovato un atteggiamento ostruzionistico della madre e il condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di affidamento del minore, nonché il disagio, le sofferenze e i conflitti derivati al minore dall’atteggiamento della madre».
Bimbo vede il papà separato solo 3 volte in un anno: la mamma deve risarcire il figlio. La Cassazione conferma una sentenza della Corte d'appello di Torino: 5 mila euro di danni per "lesione del diritto alla bigenitorialità". Aveva tenuto "comportamenti ostativi" sulla frequentazione. La donna: "Era mio figlio a non volerlo vedere". Ottavia Giustetti il 17 maggio 2019 su La Repubblica. Un risarcimento dovuto al figlio per aver ostacolato i suoi rapporti con il padre. La mamma, secondo i giudici della Cassazione, ha causato un danno del valore di 5 mila euro per "lesione del diritto alla bigenitorialità". La prima sezione civile della Cassazione, con un'ordinanza depositata oggi, ha rigettato il ricorso di una signora contro il decreto con cui la Corte d'appello di Torino aveva ampliato le modalità di incontro del figlio con il padre, condannandola a versare un risarcimento al minore, danneggiato dal "clima di conflittualità esistente tra i coniugi a seguito della separazione". La mamma, nel suo ricorso, affermava di essere stata "ingiustamente" condannata al risarcimento, perché "aveva sempre collaborato per rendere possibili gli incontri con il padre, mentre era proprio il figlio a non voler vedere da solo il padre e pretendere in ogni incontro con il genitore anche la presenza della madre". I giudici della Suprema corte, invece, hanno condiviso le conclusioni della Corte d'appello: per circa due anni e mezzo, emergeva dagli atti del procedimento, il papà aveva incontrato il figlio "solo 3 volte, nonostante gli accordi intervenuti tra i genitori che prevedevano una più ampia frequentazione". La Cassazione, in proposito, ricorda che "le misure sanzionatorie" previste dall'articolo 709 cpc, dedicato alla responsabilità genitoriale, e, in particolare, "la condanna al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria" sono "suscettibili di essere applicate facoltativamente dal giudice nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento". Nel caso in esame, conclude l'ordinanza, i giudici di Torino hanno ritenuto "comprovato un atteggiamento ostruzionistico della madre e il condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di affidamento del minore, nonchè il disagio, le sofferenze e i conflitti derivati al minore dall'atteggiamento della madre".
· Figli nullafacenti: niente mantenimento.
La bugia dentro una paghetta. Ha fatto notizia la sentenza del Tribunale di Torino sulla "paghetta" che un padre dovrebbe versare alla figlia. Daniela Missaglia il 20 dicembre 2019 su Panorama. Se un accento o un apostrofo possono cambiare il senso ad una parola, figuriamoci cosa potrebbe accadere se si lasciasse interpretare liberamente una sentenza a chi non ha gli strumenti per comprenderla e, magari, cerca solo lo scoop.
“Figlia vuole la paghetta a 33 anni: il tribunale le dà ragione e condanna il papà”.
“Figlia 33enne guadagna 700 euro al mese: "Papà le dia la paghetta".
“Torino, il verdetto del giudice: "Papà le dia la paghetta anche se ha 33 anni".
Ma quale paghetta e paghetta ! Il messaggio veicolato è sbagliato perché ciò che è accaduto, a Torino, è cosa ben diversa da quanto raccontano questi fuorvianti titoli di stampa. Andiamo al sodo: il Tribunale penale di Torino non ha sancito alcun diritto all’argent de poche di una figlia trentatreenne che lavora, ma solo comminato una pena ad un padre che, dal 2012, cioè ben sette anni prima, si era sottratto all’obbligo di mantenimento. Esisteva, infatti, una sentenza che lo condannava a corrispondere un assegno alla figlia - poco o tanto che fosse è irrilevante - e lui non lo ha fatto. Punto. Il codice penale punisce queste condotte e l’accertamento che il Tribunale di Torino ha effettuato concerneva solo l’omissione di questo papà e le eventuali giustificazioni dello stesso, senza poter certamente decidere altro. E’ solo il Giudice civile, nell’ambito di un procedimento di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, a poter modificare o revocare le precedenti decisioni: il Giudice penale può solo limitarsi a prendere atto di un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria civile. Siamo quindi totalmente fuori contesto: nessuno ha statuito il diritto divino alla "paghetta", tantomeno i figli maggiorenni fannulloni o coloro che già lavorano, quand’anche precari. L’obbligo di mantenere i figli, nel nostro ordinamento, non è ancorato ad un’età determinata ma permane, indipendentemente dal raggiungimento della maggiore età, fino al conseguimento della cosiddetta “autosufficienza economica”, ossia quella condizione di indipendenza tale da consentire ai ragazzi di provvedere da soli alle proprie esigenze di vita. Con ciò non significa che i figli possano appendere il "cappello al chiodo" di mamma e papà e crogiolarsi in eterne prebende dei "fessi" che li hanno generati. Con ordinanza del 29 marzo 2016, il Tribunale di Milano ha persino provato a stabilire l’età, 34 anni, oltre la quale il figlio non possa più pretendere il mantenimento e debba attivarsi autonomamente per diventare indipendente, anche se non è un orientamento vincolante ma solo un riferimento di massima, da valutare caso per caso. Ma tutto questo non centra con la vicenda di Torino. Spettava a questo padre rivolgersi al Giudice civile e far revocare la precedente decisione. Non lo ha fatto e posso anche comprenderlo (disoccupato ed in difficoltà, come si legge), ma senza una revoca del precedente titolo non si può apparecchiare la tavola in casa d’altri: il Tribunale penale di Torino ha solo applicato la legge. Sarebbe bastato un consulto legale, ma pare che molta gente sia allergica, un po’ come andare dal dentista. Forza papà di Torino, non è mai troppo tardi.
Azzurra Barbuto per “Libero Quotidiano” il 20 dicembre 2019. Li chiamiamo "bamboccioni" e "mammoni", ci lamentiamo del fatto che si comportano da eterni adolescenti pure quando entrano negli anta, ché di riuscire a schiodarli dalla casa dei genitori, più confortevole di un hotel 5 stelle, non se ne parla. Troppo comodo campare sugli altri, come fanno i parassiti. Eppure se tanti giovani italiani non diventano maturi mai e rinviano sine die decisioni e responsabilità, come quella di pagarsi da soli le bollette, la colpa è soprattutto degli adulti e di una società che, invece di favorirne la crescita, li preserva e li coccola e li giustifica e li pasce, trasformandoli in pappemolli: da soli sono persi e hanno difficoltà persino ad accendere un fornello per cucinare un uovo al tegamino. Codesta mentalità tipicamente italiana è talmente interiorizzata e sedimentata che conduce addirittura a sentenze che fanno accapponare la pelle a chi conserva miracolosamente un minimo di buonsenso. È accaduto a Torino: un padre, 63 anni, il quale si è dichiarato nullatenente e attualmente risulta addirittura disoccupato, è stato condannato in primo grado a due mesi di galera - pena sospesa, naturalmente - per avere smesso da qualche annetto di versare ogni mese alla figlia, la quale ha un lavoretto, la somma di 258 euro. È stata la donna, che non è mica una bimbetta, avendo 33 anni suonati e nessuna disabilità che la renda inabile alla fatica, a denunciare il babbo nel 2014, specificando che l'uomo aveva smesso di contribuire al suo sostentamento dal 2012, ossia quando la signorina era ventiseienne. Peraltro il papà, come ci ha spiegato il suo avvocato, Carmine Ventura, ha aiutato la ragazza ad acquisire autonomia trovandole un impiego come segretaria, attività che ella ha perduto per motivi non imputabili al babbo. La domanda sorge spontanea: ma a 33 anni, come a 26 del resto, non è il caso di smetterla di pretendere le poppate e la paghetta da chi ci ha messi al mondo? Insomma, fino a quando su un padre ed una madre grava il dovere di provvedere materialmente ai discendenti e, soprattutto, è accettabile che codesto obbligo si protragga a vita, pure allorché il figlio diventa adulto ed il genitore versa in grave difficoltà economica, pena il ritrovarsi in gattabuia? Quando anche un tribunale riconosce ad un uomo ed una donna in buona salute e sopra i trent' anni il diritto di ricevere un assegno dal padre, si legittima, si appoggia e si avalla un atteggiamento di parassitismo sociale, il quale induce il soggetto a non darsi da fare per la propria esistenza e il proprio futuro, poiché tanto tocca a coloro che lo hanno concepito di provvedere al suo benessere, riempirgli il frigo e soddisfare i suoi capricci. Ecco perché la sentenza del tribunale di Torino, a nostro avviso, è fortemente diseducativa non solo per la diretta interessata il cui babbo, secondo la giustizia, dovrebbe in teoria finire in cella alla stregua di un criminale, bensì per generazioni di giovani che, invece di essere riconoscenti a genitori che ne finanziano studi e passatempi, con arroganza esigeranno tutto ciò che ritengono sia loro dovuto e non fino alla laurea e all' inserimento lavorativo ma persino ben oltre.
UN PRECEDENTE. Una sentenza infatti crea un precedente, fa giurisprudenza, incide sui costumi, sulla civiltà, talvolta peggiorandola, anziché migliorandola come sarebbe opportuno. Insomma, stiamo allevando degli inetti e la nostra unica preoccupazione è come rendere loro l' esistenza ancora più comoda. In questa smania collettiva di autoflagellazione ed autocolpevolizzazione che ha preso gli italiani si è affermata la visione distorta in base alla quale se ai giovanotti mancano lavoro ed opportunità la responsabilità è delle vecchie generazioni, le quali devono pagare, anzi devono essere punite. Come in questo caso: il babbo merita la prigione, la figlia trentatreenne l' assegno. Nessuno osa dire a quest' ultima: "Sei abbastanza grande per provvedere da sola a te stessa". I giudici ci spieghino almeno fino a quale età corre l' obbligo di mantenere la prole che potrebbe benissimo essere autosufficiente se solo la smettesse di contare sulla "borsetta di mammà" e si rimboccasse le maniche. Purtroppo qui c' è in ballo qualcosa di molto più importante dei 200 o dei 300 euro mensili per mangiare. È in gioco la dignità della persona. E per la tutela di codesto decoro la faccenda familiare non sarebbe dovuta arrivare in aula. Invece di pagare gli avvocati e perseguitare il padre, buono o cattivo che sia stato, per ottenerne i denari, l' agguerrita signora avrebbe fatto meglio a conservare l' orgoglio e ad adoperarsi per incrementare da sé le proprie entrate, qualora reputate insufficienti. I genitori ci hanno donato la vita, non succhiamogli il sangue.
FANCAZZISMO SENZA LIMITISMO. Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2019. Se a 26 anni non studi, fai la bella vita con gli amici, non lavori né hai mai lavorato e te ne guardi bene dal cercare un impiego, come puoi pretendere che tuo padre, che per giunta fa l' operaio, continui a mantenerti? Se non c' è limite alla vergogna qualcuno deve pur mettere un freno al fancazzismo militante. E quel qualcuno, stavolta, è stato il giudice di Pordenone che ha stabilito che tra un anno la signorina in questione dovrà dire addio all' assegno di mantenimento del genitore che si era rivolto al tribunale perché non tollerava più di dover sborsare 200 euro al mese alla figlia fannullona. Certo, non si tratta di una grande cifra, ma si dà il caso che il papà, come detto, non abbia un lavoro particolarmente remunerativo. Se poi aggiungiamo che il padre, separato dalla moglie, sgancia la somma da dieci anni all' ex consorte per il sostentamento della ragazza, be', il totale supera i 20 mila euro. La sentenza, dunque, tra dodici mesi metterà fine a un vero e proprio salasso. E dire che in questi casi i magistrati si sono spesso schierati dalla parte dei figli secondo il principio per cui la prole va mantenuta fino al raggiungimento dell' indipendenza economica: l' orientamento però, come vedremo, negli ultimi anni è cambiato. Nel caso specifico il giudice non ha potuto ignorare le centinaia di foto che la ragazza, la quale peraltro ha abbandonato la scuola non ancora maggiorenne, ha pubblicato nel tempo sul proprio profilo Facebook, scatti che la ritraggono quasi sempre mentre fa festa con gli amici, compra vestiti nuovi e si dà alla pazzia gioia in vacanza. Alla caccia a un impiego molti ormai preferiscono la caccia ai "mi piace", i tempi purtroppo sono questi. «Si voleva far capire al tribunale che la giovane non si dà da fare per cercare un lavoro, questa situazione non poteva durare all' infinito» spiega l' avvocato del papà. «Se la ragazza non è autosufficiente è colpa della sua inerzia. Il padre è contento», continua il legale, «è convinto che sia una sentenza educativa e che alla figlia sia stata data una lezione di vita». Già. La controparte invece sperava che il giudice tenesse conto di un' altra sentenza, emessa un anno fa sempre dal tribunale di Pordenone, in base a cui un padre è stato obbligato a versare 350 euro al mese alla figlia, anche lei 26 enne, perché non aveva raggiunto l'indipendenza economica. Il padre si era reso disponibile a farsene carico soltanto in caso di bisogno, ma non era più disposto a scucire la somma solo perché la ragazza non voleva trovarsi un lavoro dopo aver scelto di abbandonare l' università. Il giudice ha deciso diversamente. E però di recente la Cassazione, in più occasioni, ha stabilito lo stop all'assegno di mantenimento dei figli maggiorenni nei casi in cui l'indipendenza economica non sia stata raggiunta per un atteggiamento di inerzia o per un ingiustificato rifiuto di occasioni di lavoro. C'è stato il caso del figlio di 30 anni che pretendeva ancora la "paghetta" dal papà nonostante il lungo periodo trascorso a bighellonare all' università e quello della signora di 33 che dopo aver conseguito la laurea in medicina e aver ottenuto l' abilitazione per fare l' odontoiatra chiedeva ancora i soldi al padre perché non aveva voglia di cominciare a lavorare. E ancora, una 36 enne laureata in architettura, pur non avendo uno straccio di lavoro e vivendo ancora con la madre, ha rifiutato un impiego offertole dal padre nel settore dell' edilizia: anche lei voleva continuare a scroccare, ma le è andata male e la cosa non ci dispiace neanche un po'.
Il 19 settembre del 2012 un secchio pieno di acido lanciato dalla sua ex compagna, Elena Perotti, insieme a un complice lo sfigurò. Allora, William Pezzulo aveva 26 anni. Oggi, dopo una lunga lotta fra interventi chirurgici e battaglie legali, dovrà anche pagarsi le spese dell’avvocato che lo ha assistito. Condannati a pagare le spese legali, i suoi aggressori risultano nullatenenti. La parcella è arrivata a lui, con tanto di sentenza. Quasi 50000 euro da pagare entro 10 giorni, altrimenti si rischia il pignoramento della casa di famiglia. Nessun politico o difensore dei diritti ha mai lanciato una battaglia per aiutarlo e difenderlo. Perchè la violenza di genere è importante combatterla solo quando è verso l'altro genere. Sfortunatamente William Pezzulo è solo un uomo.
· L’amore acido.
L’amore acido. Pubblicato giovedì, 9 maggio 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. A Sara non sta bene che lui l’abbia lasciata dopo nemmeno un mese. Lo implora, lo minaccia, lo perseguita con messaggi minatori. Quando arriva a tagliargli le gomme dell’auto, lui la denuncia ai carabinieri e, per competenza, alle Iene. L’Italia gode di un efficiente sistema giudiziario televisivo: le Iene indagano, Forum giudica e dei latitanti si occupa Chi l’ha visto? L’inviata del programma di Italia Uno si mette sulle tracce di Sara e cerca di farla ragionare. Lei promette, ma poi bofonchia: «Non mi ha mai chiesto scusa». Così martedì sera lo pedina con l’auto. Lui se ne accorge e chiama i rinforzi, la madre e il fratello, perché lo aspettino sotto casa a Legnano. Ma non fa in tempo a scendere dalla macchina che Sara gli rovescia un bicchiere di acido in faccia. Lei finisce in carcere. Lui in ospedale, con un occhio a rischio. Se una storia come questa fa notizia, significa che è ancora poco frequente. Rovescia lo schema tradizionale, dove il maschio veste i panni del carnefice. Io però temo che il virus dell’orgoglio ferito - per cui uno pensa di trovare pace solo se si vendica di chi lo ha fatto soffrire – possa colpire indistintamente uomini e donne, perché è il frutto di un modello patriarcale basato sul possesso. Il cambiamento, suggeriva già Jung, richiederebbe l’adesione a un modello matriarcale basato sull’accettazione. Non significa farsi guidare dalle donne, ma dal femminile presente in ciascuna persona, uomo o donna che sia.
800 telefonate in un giorno e sms con foto di bare: così Sara perseguitava l’ex. Pubblicato giovedì, 9 maggio 2019 da Andrea Galli su Corriere.it. Le 16.40 del 19 aprile. Stazione dei carabinieri di Legnano. Da una parte, un maresciallo; dall’altra, un 29enne italiano, Giuseppe Morgante, arrivato per denunciare una 38enne italiana, Sara Del Mastro, conosciuta in chat su Internet, frequentata da inizio ottobre a metà novembre, una relazione che lui ha voluto interrompere e che lei ha trasformato in una persecuzione. Pedinamenti, minacce di morte, ottocento chiamate da numeri sconosciuti nell’arco di un unico giorno. Domanda del maresciallo a Morgante: «Può dirci se lei ha nutrito paura per possibili comportamenti da parte di Del Mastro?». Risposta di Morgante: «Io vivo con l’ansia che Sara possa crearmi seri danni. Temo inoltre possa fare del male alle persone che mi stanno accanto e mi vogliono bene». Da quella stazione dei carabinieri, la denuncia fu subito trasmessa alla Procura di Busto Arsizio. In quella stessa caserma, alle 21.50 dell’altroieri, Sara Del Mastro si è presentata dicendo di «aver fatto un gestito orribile nei confronti del ragazzo». Non di un ragazzo, ma del ragazzo, convinta che fosse o dovesse essere il suo fidanzato. Pochi minuti prima, aveva gettato un bicchiere di acido sul volto di Morgante, ricoverato in prognosi riservata per ustioni di secondo e terzo grado su torace, addome, mano sinistra e soprattutto il viso: rischia di perdere l’occhio sinistro. Davanti ai carabinieri che l’hanno arrestata e accompagnata in carcere, Sara Del Mastro ha urlato: «Quello lì mi ha rovinato la vita». Nella confessione in caserma, la donna, occupata in un’impresa di pulizie, ha ricostruito l’agguato. Nel primo pomeriggio di martedì, «in previsione di incontrare» Morgante, ha acquistato una boccettina di acido. Alle 16 ha chiamato sua madre per avvisarla che, se le fosse successo qualcosa, si sarebbe dovuta occupare della figlia di otto anni. Poi ha atteso a bordo della sua Fiat Punto. Ha incrociato Morgante in via Dei Pioppi a Legnano, la cittadina dove entrambi abitano, è scesa, e quando il 29enne ha abbassato il finestrino della macchina, Del Mastro gli ha rovesciato addosso la sostanza. Se n’è andata e ha raggiunto la caserma, dove ha alternato atteggiamenti d’insofferenza (si alzava e sedeva, toccava freneticamente mani e naso) a lunghi silenzi, e dove ha consegnato due iPhone e una sim; in mattinata, si era sbarazzata di un terzo telefonino lanciandolo nel fiume Olona. Ritorniamo sulle date, adesso. Il 19 aprile la denuncia di Morgante, il 7 maggio l’aggressione. Sono diciotto giorni, durante i quali i magistrati hanno avuto sul tavolo un cristallino quadro della situazione. Nel riportare le frasi di un avvocato che tratta molti casi di stalking come Domenico Musicco («Troppo lente le indagini, troppo lunghe le inchieste, nessun provvedimento preventivo, come il braccialetto elettronico obbligatorio nei casi più gravi, che però in Italia il giudice non dispone mai»), conviene tornare ancora su quella denuncia di Morgante, operaio in un centro commerciale. «Con Sara avevo messo in chiaro che la nostra sarebbe stata esclusivamente una frequentazione, poiché le avevo detto che mi stavo vedendo con altre persone... Ogni mio spostamento è seguito da Sara come se sapesse in anticipo dove intenda recarmi... L’ho notata in numerose occasioni nei pressi della mia abitazione... L’ho notata nel parcheggio dove lavoro... La mia speranza è quella che la smetta... Una volta le ho chiesto perché faceva così, e mi ha detto di essere “marcia dentro”... Ha chiamato la ragazza che frequento e la detto di essere incinta di me... Attraverso falsi profili dei social, mi insulta: “Viscido, bast..., figlio di..., idiota... Uomo di m.. tu sei morto...”. Mi ha anche inviato foto di bare». Domanda del maresciallo a Morgante: «Può dirci se lei è stato costretto a modificare le sue abitudini?». Risposta di Morgante: «Ho dovuto modificare le mie abitudini. Esco di meno. Cerco di fare strade alternative». Mercoledì, con Morgante, c’era il fratello gemello Filippo, che non è riuscito a impedire l’agguato, talmente è stato veloce. Una sera, mentre bucava le gomme della Clio di Giuseppe, la sua ossessione («Ci penso ininterrottamente giorno e notte» ha ripetuto), Del Mastro era stata sorpresa dal fratello. Pensando che fosse Giuseppe, gli aveva puntato addosso il coltello, promettendo: «Mi hai rovinato la vita, io ti uccido». Poi era scappata, l’arma in mano.
Ha sfregiato l’ex con l’acido. Alle Iene raccontò lo stalking contro di lui: «Deve soffrire». Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Corriere.it. «È stalking questo, lo capisci?», chiede l’inviata de Le Iene. «Lo so...», mormora Sara Del Mastro. Poi, come sappiamo, tre giorni dopo la 38enne avrebbe sfregiato con l’acido un 29enne con cui aveva avuto una breve relazione. La trasmissione televisiva di Mediaset l’aveva incontrata prima dell’agguato e dopo aver raccolto la denuncia di lui, preoccupato per le continue minacce. «Dopo che ho deciso di lasciarla, a causa della sua gelosia ossessiva, mi mandava in continuazione messaggi, dalla mattina alla sera. Nonostante io sia riuscito a bloccarla, lei mi telefonava con l’anonimo oppure cercava di agganciarmi sulle chat usando falsi profili». Profili da cui arrivavano messaggi come «uomo avvisato sei morto». Il giovane l’aveva denunciata per stalking e atti persecutori e l’aveva successivamente incontrata per provare a farla ragionare. Sara Del Mastro aveva ammesso lo stalking, dicendo di averlo fatto «perché volevo che passassi un quarto del male che avevo io dentro» e confessando di avere «assoldato» un ragazzo siciliano per farlo seguire, un uomo che«arriva dai bassifondi».
Poi, l’incontro con l’inviata: «Se anche lui si fosse comportato male...».
«Eh, l’ha fatto».
«Non si sarebbe meritato lo stalking che gli stai facendo. Le minacce, le gomme tagliate, non si sarebbe meritato tutta questa serie di cose».
«Ma quante volte gli ho chiesto anche scusa, ma lui ha mai detto “Scusa Sara?»
«A maggior ragione vuol dire che è una persona che non può stare vicino a te. Pensa a stare bene».
«Ma sono tranquillissima».
Tre giorni dopo questa conversazione, Sara Del Mastro, 39 anni, di Legnano, seguirà il 29enne sotto casa, lo inviterà ad avvicinarsi al finestrino della sua macchina e gli scaglierà su faccia e petto un bicchiere di acido. Lui rischia di perdere un occhio. Sara Del Mastro ha riportato a sua volta ustioni alle mani, è stata arrestata dai carabinieri per lesioni personali aggravate e atti persecutori ed è stata portata nel carcere di Busto Arsizio.
Acido in faccia per delusione d'amore: Le Iene a tu per tu con la donna prima dell'aggressione. Le Iene 8 maggio 2019. Noi de Le Iene stavamo per mandare in onda martedì sera il servizio che raccontava l’inferno di persecuzioni vissute da Giuseppe, un ragazzo minacciato di morte da Sara Antonella Del Mastro, con cui aveva avuto una brevissima conoscenza. E ieri sera la donna, che a Veronica Ruggeri aveva fatto intendere di essersi messa l’anima in pace, ha sfigurato con l’acido l’uomo, riducendolo in gravissime condizioni. Domenica sera a Le Iene potrete vedere in esclusiva tutta la storia, con il racconto di Giuseppe e la versione di Sara, oltre che conoscere i dettagli del’assalto con l’acido. “Lo sai che è stalking questo?”. “Sì”. Il faccia a faccia fra Veronica Ruggeri e Sara era avvenuto solo tre giorni fa. E ieri intorno alle 21.30 ci è arrivata la tragica notizia: la 38enne di Legnano ha sfigurato con l’acido Giuseppe, il ragazzo con cui aveva avuto una brevissima storia di un mese e mezzo, e che aveva deciso di dire basta per la sua pesante gelosia. Ora il ragazzo si trova all’ospedale di Legnano, in attesa di essere trasferito a Niguarda, in gravi condizioni, a causa delle pesanti ustioni al petto e anche a un occhio, che potrebbe forse perdere. A chiamare Le Iene era stato proprio Giuseppe. “Dopo che ho deciso di lasciarla, a causa della sua gelosia ossessiva, mi mandava in continuazione messaggi, dalla mattina alla sera”, ha raccontato a Veronica Ruggeri nel servizio che abbiamo bloccato dalla messa onda il 7 maggio e che trasmetteremo nella puntata di domenica 12. “Nonostante io sia riuscito a bloccarla, lei mi telefonava con l’anonimo oppure cercava di agganciarmi sulle chat usando falsi profili”. Falsi profili che secondo Giuseppe fanno riferimento sempre a Sara, e che iniziano a insultarlo pesantemente con frasi come “stai attento a cosa fai, qualcuno prima o poi te lo mette in culo” e addirittura “uomo morto”. E poco dopo, sempre sui social, erano iniziati a comparire falsi profili di Giuseppe con nick name molto preoccupanti: “peppemorto”. Profili che lo minacciano pesantemente: “uomo avvisato sei morto”. Giuseppe l’aveva denunciata e poi aveva deciso di incontrarla di persona. E lei stessa, registrata a sua insaputa, aveva ammesso lo stalking: E dopo avere ammesso di aver combinato di tutto di più, aveva spiegato di averlo fatto "perché volevo che passassi un quarto del male che avevo io dentro”. E gli aveva anche confessato di avere “assoldato” un ragazzo siciliano per farlo seguire, un uomo che “arriva dai bassifondi”. Veronica Ruggeri aveva allora incontrato Sara. “Perché l’hai fatto?”, le aveva chiesto. E lei a bruciapelo aveva risposto: “Per colpa di quello stronzo di merda. Era l’unica persona buona in tutto lo schifo che avevo avuto. È la prima delusione forte. È stata la delusione del ti adoro facciamo una famiglia e poi?”. Prima di congedarsi, Sara aveva fatto intendere di volersi rassegnare, dicendo di dover pensare solo a stare bene. Poi però, ieri sera, la notizia dell’attacco con l’acido. Sono stati i familiari di Giuseppe a raccontare a Le Iene la dinamica dell’accaduto. Il ragazzo era uscito da lavoro intorno alle 20.30 e subito si era reso conto di essere seguito in auto dalla sua ex Sara. Attorno alle 21.30 la madre lo chiama preoccupata, non vedendolo arrivare e Giuseppe le racconta di essere pedinato. Decide così di andare verso casa, con il fratello gemello e la madre che lo attendono per sicurezza davanti al portone. Quando Giuseppe parcheggia e scende dall’auto Sara, dietro di lui, lo invita dal finestrino ad avvicinarsi, “ per chiedere scusa” e in una frazione di secondo gli scaglia in faccia e sul petto un bicchiere con un liquido scuro e denso, un acido potentissimo. Davanti agli occhi esterrefatti del fratello gemello di Giuseppe. Sara scappa di corsa con la sua macchina, mentre i familiari accorrono e il giubbotto dell’uomo, per colpa dell’acido, si squaglia. Potrete vedere il servizio di Veronica Ruggeri in esclusiva nella puntata de Le Iene in onda domenica 12 maggio. Nel frattempo Sara si è consegnata alla stazione dei carabinieri di Legnano, ed è ora in arresto con l'accusa di lesioni personali gravissime e stalking.
· William Pezzullo. Due acidi, due misure?
Due acidi, due misure? da Movimento degli Uomini Beta del 23 novembre 2013. Riceviamo e sottoscriviamo.
Associazione-Onlus
A Sua Eccellenza
Il Presidente della Repubblica
Dott. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
Piazza del Quirinale
00187 Roma
Signor Presidente, abbiamo appreso dai media come Ella abbia conferito l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana a Lucia Annibali, l’avvocatessa di Pesaro sfregiata con l’acido da due sicari assoldati dal suo ex fidanzato. È lecito chiedersi per quale motivo Presidente – ma non solo Lei, anche stampa e televisioni – non dedichi uguale attenzione ad un episodio analogo nel quale la vittima è di genere maschile.
Sfigurato con l’acido: marchiato a vita dalla vendetta della ex. Travagliato (BS) – il 26enne William Pezzullo ha perso entrambe le orecchie, l’occhio sinistro ed il 90% del visus al destro. La madre, Fiorella Grossi: ” è meglio che non possa vedere come quella disgraziata l’ha sfigurato, altrimenti si ammazzerebbe”. Gli esiti del gesto criminale sono, per William, enormemente più gravi rispetto a quelle subite da Lucia. Entrambi sono vittime di aggressione con l’acido, per entrambi si tratta di una malsana vendetta dell’ex, entrambi hanno subito un gravissimo choc ed hanno riportato danni estetici evidenti; tuttavia la differenza sostanziale per gli esiti dell’aggressione è nella perdita delle funzioni primarie, prova ne sia che la neocavaliera è autonoma, non ha bisogno di accompagnamento può continuare a svolgere normali attività quali guidare l’auto ed esercitare la professione di avvocato; il ragazzo invece ha perso la vista e l’udito, ha perso autonomia e dignità, ha avviato le pratiche per l’invalidità permanente al 100% e vivrà con un sussidio di circa 400 euro al mese. Giova ricordare che il fattore numerico non rileva ai fini della gravità di ogni singolo episodio criminoso; sarebbe aberrante dimenticare le vittime maschili perché “le vittime femminili sono di più”, esattamente come sarebbe aberrante dimenticare le vittime omosessuali perché “le vittime etero sono di più”, dimenticare i diritti dei diversamente abili perché “i normodotati sono di più”, calpestare la dignità degli immigrati perché “gli italiani sono di più” . Le chiediamo ufficialmente, Signor Presidente:
- se ritiene che ogni tipo di violenza, a prescindere da genere, etnia, religione, stato sociale ed orientamento sessuale di autori e vittime, debba suscitare una dura presa di posizione da parte dell’intera cittadinanza;
- se è a conoscenza della violenza subita anche da soggetti di genere maschile;
- se ritiene che alla doverosa attenzione per le vittime femminili debba corrispondere una altrettanto doverosa attenzione per le vittime maschili;
- se ritiene che l’onoroficienza conferita a Lucia Annibali – pur se in rappresentanza di tutte le donne vittime di violenza – se confrontata con l’indifferenza nei confronti di William Pezzullo, non sia un insulto alla dignità del ragazzo e dei suoi familiari, anche quale simbolo di tutti gli uomini vittime di violenza.
In attesa di un cortese riscontro cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri distinti saluti.
Roma 28.11.2013 Il Presidente Avv. Paola Tomarelli
Travagliato, sfregiato con l'acido dalla ex: Pezzulo deve pagare le spese dell'avvocato. Condannata a saldare ma risulta nullatenente e presto ritornerà libera. Alla vittima il conto del legale: il Tribunale vuole 50mila euro, scrive Milla Prandelli il 13 aprile 2019 su Il Giorno. Oltre il danno la beffa. Il 19 settembre del 2012 un secchio pieno di acido lanciato dalla sua ex compagna, Elena Perotti, insieme a un complice lo sfigurò. Allora, William Pezzulo aveva 26 anni. Oggi, dopo una lunga lotta fra interventi chirurgici e battaglie legali, dovrà anche pagarsi le spese dell’avvocato che lo ha assistito. Condannati a pagare le spese legali, i suoi aggressori risultano nullatenenti. E la parcella è arrivata a lui, con tanto di sentenza. William e i suoi famigliari hanno avuto l’ultima di una serie di cattive notizie proprio l’altro ieri. Sono rimasti allibiti. «L’altro ieri mattina mi è stata recapitata un’ordinanza dal tribunale, in merito alla vicenda che ho avuto qualche mese fa con l’avvocato civilista che ha seguito il mio caso – dice Pezzulo –. Mesi fa sono stato convocato in tribunale per risolvere la controversia tra le parti che mi condannava a pagare la parcella per il lavoro svolto contro la Perotti. Questo accade perché per legge, se i convenuti non possono pagare, prevede che il legale possa rivalersi su di me, che però non ho soldi. La sentenza mi condanna a pagare 50mila euro entro 10 giorni, il che metterà a rischio anche la casa di famiglia». Pezzulo ha pubblicato un video su Facebook nella pagina “Io sto con William”, dove chiede aiuto ai suoi amici e sostenitori. «Non è possibile che le cose debbano sempre andare male a me – dice Pezzulo –. Prima ho incontrato una donna che mi ha rovinato la salute e la vita, poi ho dovuto sottopormi a decine di interventi». «Quelli necessari per la mia salute sono stati pagati dalla mutua – aggiunge –. per sostenere i costi di quelli estetici, la mia famiglia è rimasta sul lastrico. abbiamo pure dovuto vendere il bar di famiglia. e le cure a cui dovrò sottopormi non sono ancora finite. l’ultimo intervento è stato molto invasivo e ancora non mi sono ripreso. per mettere la ciliegina sulla torta, ora mi accade questo. sono letteralmente a pezzi e con me lo sono i miei genitori, mia sorella, mio cognato e i miei nipotini. un atto fatto contro la mia persona ne ha ferite tante altre e i segni non li porto addosso solo io, ma anche loro, che si prodigano per farmi stare bene». Intanto la ex di Pezzulo Elena Perotti in questi giorni termina la pena principale e si laurea. Nei prossimi mesi il Tribunale le restituirà il figlio maggiore e forse la più piccola, avuta dal marito conosciuto mentre era in comunità a scontare il suo periodo di detenzione e da cui oggi è separata poiché lui l’ha picchiata. «Non ho più parole – conclude Pezzulo –: il colpevole, quello che sta pagando tutto sono io. Io mi sento in carcere e ogni giorno che passa tutto è più difficile».
Travagliato, Elena Perotti chiede perdono: "Sono cambiata". La donna chiede scusa all’ex William che ha sfigurato con l'acido, scrive Milla Prandelli il 14 febbraio 2019 su Il Giorno. Elena Perotti, la donna che fa ha sfregiato con l’acido l’ex fidanzato William Pezzulo, oggi è una donna diversa. Mentre lui è in ospedale, dove si è sottoposto all’ennesima dolorosissima operazione, lei è agli arresti domiciliari dove vive in trepidante attesa di sapere quando potrà riabbracciare la figlioletta Rebecca, che la Corte di Cassazione ha definito non adottabile e che le sarà resa. Non solo: aspetta di conoscere quale sarà la sentenza relativa al primogenito Gabriel. «Il percorso fatto in questi anni, assistita da persone esperte, mi ha cambiata. Quando ho agito contro William non ero in me. Non lo rifarei. Le cose dovevano essere risolte in modo diverso. Vorrei poter chiedergli perdono di persona – ha raccontato Elena Perotti con vicino il suo legale Maria Cristina Tramacere – Ogni giorno rivivo il dolore per quello che ho fatto. Me ne pentirò sempre. Sto pagando ed è giusto. Voglio però ricominciare come madre e ora che lo sono capisco ancora di più il dolore provocato non solo a William ma alla sua famiglia. Anche a loro vanno le mie scuse». Oggi è agli arresti domiciliari nell’appartamento di famiglia: una casa pulita e accogliente con due camere, tra cui quella dei bimbi dove di sono due letti e tanti disegni fatti da lei e Gabriel oltre che alcune gigantografie dei Minions, che lui adorava. Ci sono tanti giochi le foto dei piccoli, che la donna non vede a due anni. Nel frattempo Elena, che ha sofferto di due forme tumorali ed è stata operata e sottoposta a operazioni e radioterapie, si è messa a studiare. La scorsa settimana ha dato l’ultimo esame e prossimamente si laureerà con una tesi dedicata al “ruolo del pedagogo e della nutrice nel periodo attico”. «Il mio desiderio, ora, è occuparmi dei bambini, lavorare ed essere dimenticata – sottolinea – anche se io non scorderò mai ciò che ho fatto. Ai piccoli nel modo opportuno lo spiegherò». Da qualche settimana Elena non vive più col marito, che la picchiava e che per decisione dei giudici deve starle lontano. William, che nei giorni scorsi ha chiesto di incontrare Matteo Salvini, ieri dal suo letto di ospedale ha detto che «Elena è già stata perdonata». Sua madre Fiorella ha sottolineato che «Per la famiglia è una vicenda chiusa, che i Pezzulo non perdonano quanto accaduto ma che perdonano Elena, con cui, però, preferiscono non avere a che fare».
Ospitaletto, sfregiò l'ex con l'acido: Elena Perotti può tornare a essere madre. Dopo due anni, i giudici della Corte di Cassazione restituiscono la potestà genitoriali alla donna, scrive Milla Prandelli il 29 gennaio 2019 su Il Giorno. Dopo due anni i giudici della Corte di Cassazione hanno deciso che Elena Perotti potrà riavere la potestà genitoriale della figlioletta secondogenita Rebecca avuta nel gennaio del 2016 da un uomo conosciuto nella comunità in cui stava trascorrendo gli arresti domiciliari dopo avere sfregiato con l’acido l’ex fidanzato William Pezzulo. La sentenza è stata notificata all’avvocato Maria Cristina Tramacere: legale per la parte civile di Elena Perotti. "È stato un processo complesso – ha commentato Tramacere – finalmente i giudici hanno deciso. Il prossimo passo sarà l’istanza al Tribunale per i Minori affinché Elena possa vedere Rebecca. Poi discuteremo il caso del figlio primogenito Gabriel". Lunedì Elena Perotti era raggiante: "Voglio vedere i miei bambini il prima possibile – ha detto – Sono due anni che non li incontro e che non ho loro notizie. Non so dove e con chi siano, anche se sono certa che siano stati trattati molto bene. Voglio abbracciarli prima possibile e ringraziare chi li ha curati. Sono la loro mamma e li rivoglio, ma non mi opporrò se queste persone vorranno avere con loro un rapporto di amicizia e affetto". Elena Perotti non sa se i suoi bimbi si ricordano di lei: "Rebecca mi è stata tolta che aveva poche settimane – ha rimarcato – e poi l’ho frequentata fino a un anno e due mesi. Temo che non abbia che una vaga memoria di me. Gabriel, invece, è un ometto: ha sei anni e fa la prima elementare. Sono sicura che io sia nel suo cuore, me lo ha promesso". Intanto, Perotti lunedì prossimo sosterrà l’ultimo esame e a marzo si laureerà in conservazione dei beni culturali. La sua vita dal 2012 è cambiata in modo deciso. E’ consapevole di quello che ha fatto a Pezzulo. Nemmeno lei ha vissuto momenti facili, dato che il padre di Rebecca qualche tempo fa l’ha aggredita con violenza, afferrandola per il collo e causandole lesioni che hanno impiegato un mese e mezzo a guarire. "Ora vivo sola e appena sarò laureata cercherò un lavoro – spiega Perotti – voglio dimostrare che sono in grado di prendermi cura di Gabriel e Rebecca da tutti i punti di vista. Sono stata sottoposta a tanti test, la mia capacità genitoriale non è mai stata messa in dubbio. Ora voglio dimostrare che questo è vero. Ho compiuto degli errori in passato. Ma questo coi miei bimbi non c'entra. Nei prossimi mesi terminerò di scontare la condanna principale, poi sarò pronta a prendere in mano le redini della mia vita e ad utilizzare il titolo di studio che otterrò". Il marito di Elena Perotti, intanto, ha avuto dai giudici il divieto di avvicinarsi alla casa di famiglia e alla donna.
Gessica Notaro e il dramma segreto: «Mio fratello si è tolto la vita». La violenza? «Può succedere a tutti». Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 da Corriere.it. Intanto il no alla violenza sulle donne, poi il successo a «Ballando con le stelle», il suo amore per i delfini e gli animali marini con cui lavora. Gessica Notaro si è raccontata a «Vieni da me», la trasmissione pomeridiana condotta da Caterina Balivo nel salotto di Rai1. Ha svelato il nome del nuovo ragazzo, Marco, di cui «da un annetto» è innamorata. Ma soprattutto ha accennato a un dramma famigliare di cui finora aveva parlato poco, il suicidio del fratello, otto mesi dopo la morte del padre, quando lei aveva vent’anni. Nella puntata del 2 ottobre, la modella ha ripercorso le tappe della sua vita, compresa la terribile esperienza dell’aggressione subita dall’ex fidanzato, che le sfregiò il volto con l’acido. Quell’Edson Tavares, condannato a 15 anni di carcere, di cui pensava di essere innamorata. «I manipolatori ti isolano dagli altri, ti fanno credere di non essere abbastanza. Attaccano le donne forti e indipendenti, perché nutrono complessi interiori», dice. E mette in guardia tutti quelli che si trovano in situazioni complicate e relazioni malate. «Può succedere a tutti - rivela la ragazza - soprattutto alle persone forti». Tra i ricordi più dolorosi, il suicidio del fratello, otto anni fa. «Se ne è andato 8 mesi dopo mio padre. Per scelta sua, non sappiamo ancora oggi per quale motivo, ma ha preso questa decisione». Ho sempre pensato - dice Gessica - che non avesse retto la morte di mio padre, che avesse esaurito le forze». «Oggi per fortuna ho ancora mio fratello Massimo - continua - cocciuto come me. Siamo tutti la copia di mio padre». La ex miss Romagna ripercorre poi, ancora una volta, l’aggressione del 10 gennaio 2017, in cui venne sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato, e Caterina Balivo, si commuove. «Purtroppo non abbiamo tutti li stessi tempi di reazione», racconta Gessica, che a lungo ha cercato di non vedere la violenza che le cresceva accanto. Lei ha deciso che il momento di dire basta era quando l’ex le ha chiesto di sposarlo. «In quel momento ho realizzato che con quella persona avrei dovuto passare tutta la mia vita. E mi sono chiesta: mio padre sarebbe felice? Avrebbe voluto un uomo che si prendesse cura di me almeno quanto ha fatto lui nella sua vita. Lui non c’era più, non era più qui per poter impedire tutto questo. E allora ho fatto le valigie e me ne sono andata». Il resto è cronaca: lui non accetta il rifiuto e inizia a seguirla, a perseguitarla. «L’ho denunciato più volte e alla fine mi ha aggredita». Oggi Gessica ha riconquistato la libertà, la felicità. Partendo, dice, proprio da quella trasmissione che ha senato la sua rinascita: «A “Ballando con le stelle” ho trovato una famiglia - ha raccontato - mi sono sentita libera e rinata». Marco, l’attuale compagno, le ha permesso di tornare a dare fiducia a un uomo: «Non farlo sarebbe stato darla vinta a quell’altro», dice Gessica, senza nominare l’ex violento. Intanto, continua a ballare: «Con il mio maestro, il ballerino Vito Coppola, campione di danza: ci stiamo preparando per una tournée in giro per l’Italia. Intanto, da due anni Gessica si occupa di seguire donne («ma anche uomini») vittime di violenza. «A breve - annuncia - fonderò la mia associazione».
William Pezzullo sfregiato con l'acido: "Giustizia di serie b se la vittima è un uomo". Parla il trentaduenne della provincia di Brescia sfregiato con l'acido dalla ex fidanzata: "La legge dovrebbe tutelare maggiormente chi subisce queste aggressioni", scrive Cristina Verdi, Lunedì 29/10/2018, su Il Giornale. Non solo Lucia Annibali, Filomena Lamberti e Gessica Notaro. Tra le vittime dell’acido c’è anche William Pezzullo, 32 anni di Travagliato, in provincia di Brescia. Solo che la sua storia a parti inverse non ha avuto la stessa eco mediatica. Una sera di settembre del 2012 viene colpito in pieno volto con un secchio pieno di liquido corrosivo. Un’aggressione premeditata, stabilirà il giudice. Da quel giorno la sua vita cambia radicalmente. Nei panni del carnefice c’è la sua ex fidanzata, che non si rassegnava al fatto che la storia tra i due fosse finita. Ma la vicenda, spiega in un’intervista al quotidiano Libero, non finisce in tv, né sui giornali. Forse perché “siamo abituati a vedere l'uomo carnefice e la donna vittima”, denuncia. La giustizia, quindi, per William Pezzullo, è arrivata a metà. Se da un lato c’è stata la soddisfazione per la condanna, dall’altro la beffa è insopportabile: pochi giorni dietro le sbarre e poi i domiciliari. Così la donna che ha rovinato la sua esistenza ha potuto rifarsi una vita e ora è sposata, con due figli e abita a pochi chilometri da casa sua. Per William neppure un centesimo di risarcimento. “È nullatenente”, spiega. “A pagare sono solamente io”, continua l’uomo, che dopo l’aggressione ha perso il lavoro e ha dovuto investire tutti i suoi risparmi in medicine e avvocati. Oltre 35 interventi, l’ultimo lo scorso settembre. Ma neppure il trapianto di cornea che ha subito all’occhio destro è riuscito a ridargli completamente la vista. Oggi le sue giornate le passa tra le cure mediche e il computer. Non può più lavorare, né andare in palestra e così la vita trascorre per lo più tra le mura domestiche, dove ha allestito anche una piccola palestra. “In parte l'ho perdonata”, confessa. Ma rimane la sete di giustizia: “La legge, siano donne o uomini le vittime, dovrebbe tutelare e aiutare maggiormente chi subisce questo tipo di aggressioni”.
Uomo, quindi ignorato: la storia di William, scrivono Stelio Fergola e Tommaso Longobardi il 10 Novembre su oltrelalinea.news. Nel giorno dell’ultimo incontro con la madre il bimbo le aveva promesso: «Non so dove andrò, ma quando sarò grande ti cercherò perchè ti voglio bene». Il bambino non ha dovuto aspettare la maggiore età e già nei prossimi giorni potrà tornare ad abbracciare il genitore. Sembra un passaggio tratto direttamente da un racconto strappalacrime di Charles Dickens, invece è la curiosa romanzata che Il Giornale di Brescia fa riguardo il figlio di Elena Perotti, la cui adottabilità è stata revocata proprio ieri. Il motivo per cui Elena era stata ritenuta non proprio idonea ad avere un bambino in affidamento sta nel fatto che nel settembre 2012 ebbe la “sana idea” di andare dal suo ex, William Pezzullo, e sfregiarlo con dell’acido. Il motivo? L’aveva lasciata incinta, aveva troncato la relazione e non riconosceva il figlio (il giovane da par suo racconta degli atteggiamenti ossessivi della donna, capace secondo lui di dichiarare precedenti gravidanze mai avvenute). Secondo la ragazza, allora studentessa di economia, l’atteggiamento di William costituiva una forma di “maltrattamento”. La donna era stata condannata in via definitiva a 8 anni di carcere, e le era stato tolto l’affido dei due figli (il primo, nato nel 2013, nel 2015, il secondo, di un anno, concepito con un altro uomo conosciuto durante la detenzione in comunità, nel marzo 2017). La donna fa ricorso, oggi la Corte d’Appello le da ragione, perché l’adottabilità andrebbe “decisa solo quando non sono praticabili tutte le altre misure”. Tribunali e quotidiani locali insomma vanno a braccetto: per Il Giornale di Brescia altro non è se non la storia romantica di bambino che può “riabbracciare la propria madre”. Nel frattempo, William è sfigurato: il 30% del suo corpo non è recuperabile ed è invalido al 100%. Si è sottoposto a decine di interventi chirurgici, costati una fortuna che non si poteva permettere se non tramite il crowdfunding. La stampa nazionale, che sulla vicenda mantiene il più stretto riserbo, sta da anni portando in primo piano i casi delle donne sfigurate, violentate, oppresse: Lucia Annibali, Gessica Notaro, Domenica Foti e altre. Niente da dire, ci mancherebbe. Ma il “soggetto uomo”, in questo caso, viene ignorato dai più. Sulla carta e anche in tv (ne parla giusto qualche programma di rotocalco pomeridiano come Pomeriggio 5 e a Le Iene). Almeno per ciò che concerne il mainstream nazionale. In quello locale serpeggia il “romanzo” citato nell’introduzione: qualcuno racconta anche dei bambini con le madri da “riabbracciare”, qualcun altro ricorda che la donna è malata di tumore e strumentalizza decisamente una tragedia che rimane tale, ma resta una circostanza per cui la legge già è stata applicata, concedendo ad Elena gli arresti domiciliari: non credo sia necessario ricordare che ciò non allontana il problema di un bambino che dovrebbe essere protetto. “In aula Elena Perotti parla con la voce rotta dal pianto e gli occhi pieni di lacrime”, scrive BresciaToday. Una vittima, perché si allude anche a questo, con il melodramma che la fa da padrone, dimenticando che esistono i reati e dovrebbero esistere anche le pene. Elena è la donna “che lotta per riavere i suoi figli” (titolo precedente, poi editato dal giornale). Noi intanto ci abbiamo parlato, con William, ovvero la vittima ignorata dai media di questa triste vicenda. Tommaso Longobardi gli ha posto delle domande cruciali. Quelle che dovevano essere fatte a un uomo che i media e i sedicenti “difensori contro la violenza” dimenticano, a seconda dei casi disponibili.
William, come hai reagito alla revoca dell’adottabilità? Pensi che ad oggi abbia pagato per ciò che ha commesso nei tuoi confronti?”
«Ha ricevuto una condanna ad 8 anni di reclusione e a risarcirmi di 1.280.000€, ovviamente non ho visto un euro di questa somma in quanto nullatenente, ha scontato 3 mesi in carcere, se questo è aver pagato per ciò che ha commesso…»
«Il fatto che presto la sua vita sarà quasi tornata alla normalità come ti fa sentire?
Beh non credo abbia avuto una vita difficoltosa in questi anni, a differenza mia che ho dovuto affrontare 30 interventi e ne dovrò affrontare ancora, non appena troverò i soldi».
Pensi che lei si senta in colpa per quello che ti ha fatto? Credi che in questi anni si sia pentita?
«Credo di no, nonostante in un’intervista fatta poco tempo fa per giornale di Brescia, abbia detto di essersene pentita. Ma ascoltando le sue parole, ho potuto notare che non è cambiata in questi anni».
Sono passati ormai 5 anni dal giorno di quella terribile violenza, tra processi e condanne varie. Ad oggi che pensiero hai della giustizia italiana?
«Nel mio caso ci sarebbe da stendere un velo pietoso, nonostante l’avvocato abbia svolto un ottimo lavoro. Purtroppo la giustizia ottenuta non è stata altrettanto degna di nota».
(di Stelio Fergola e Tommaso Longobardi)
· Bibbiano e Angela Lucano. "Amore strappato": “Rapita dalla giustizia”.
Pedofilia, Fiesoli condannato e libero. “L'ho visto con dei ragazzini”. Le Iene l'11 settembre 2019. Juri Gorlandi, coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana sostiene, mostrando le foto, di aver visto il “profeta” della comunità agricola il Forteto, condannato per abusi sui minori e ancora in libertà, avvicinare in maniera sospetta dei ragazzini. Uno di loro: “Faceva discorsi strani”. Rodolfo Fiesoli, il “profeta” del Forteto, sarebbe stato avvistato mentre chiacchierava con ragazzini ad Aulla (Massa-Carrara), spacciandosi per uno scrittore. A sostenerlo è Juri Gorlandi, coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana. Gorlandi che ha anche scattato delle foto pubblicate su Facebook che vedete qui sotto e che ritraggono l’orco della comunità agricola in Toscana travolta dagli scandali per le accuse di abusi e molestie sessuali sui minori, mentre chiacchiera con giovani ragazzi.
La corte d'appello di Firenze ha assolto, perché il fatto non sussiste, Rodolfo Fiesoli nel cosiddetto "Fiesoli bis", un procedimento che lo vede accusato di violenze sessuali simili a quelle del processo principale, ma ai danni di un solo minore che frequentava saltuariamente la comunita' di Vicchio. In primo grado, Fiesoli era stato condannato a 8 anni col rito abbreviato. Nell'altro processo, ovvero quello principale, Fiesoli è stato condannato a 14 anni e 10 mesi in un nuovo processo d'appello. Attualmente è libero in attesa del giudizio della Cassazione. Ora Rodolfo Fiesoli vive ad Aulla, in una residenza per anziani. Durante una delle sue passeggiate sarebbe stato avvistato da Gorlandi. “L’ho visto un giorno al bar”, racconta al quotidiano La Verità il coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana. “Si è avvicinato ad alcuni ragazzini, ho sentito che raccontava di essere uno scrittore, che scriveva libri bellissimi. Mi sono alzato e ho chiesto che cosa stesse facendo, e allora si è allontanato”. “Si è avvicinato solo, non sapevo chi fosse”, ha raccontato un ragazzo sempre a La Verità. “Mi ha parlato per circa 10 minuti mentre le mie colleghe si erano assentate. I discorsi che faceva mi parevano parecchio strani. Si è presentato come psicologo e scrittore”. Noi de Le Iene, nell’inchiesta di Pablo Trincia, già nel 2013 abbiamo cominciato a occuparci della terribile vicenda del Forteto. Siamo partiti proprio dalle testimonianze degli ospiti della comunità agricola, all’epoca dei fatti tutti minorenni. Bambini che venivano affidati a quella struttura dal Tribunale dei minori poiché con situazioni familiari difficili. A Pablo Trincia hanno raccontato i veri e propri lavaggi del cervello a cui erano sottoposti, come potete vedere nel video qui sopra. “A 13 anni sono arrivato al Forteto perché mio padre era stato accusato di abusi sessuali”, racconta Paolo, uno dei ragazzi della comunità, nel primo dei tre servizi dedicati a questo caso. “Rodolfo Fiesoli mi diceva: ‘Vieni in camera mia, si discute’. Mi diede un bacio a stampo”. Ma “il profeta”, racconta Paolo, non si limita a questo. “Dopo il bacio comincia a toccare. Mi prendeva la mano, se la metteva sui pantaloni e faceva su e giù. Mi toccava i pantaloni e mi ha messo un dito nel sedere”. “Sono arrivato al Forteto a 14 anni e sono stato abusato dal Fiesoli. Erano rapporti completi”, ha raccontato un altro dei ragazzi cresciuti nella comunità. A cui si aggiunge la testimonianza di Marika: “Ebbi un rapporto orale completo con Fiesoli, da quella volta non riuscì più a guardarlo come mio padre affidatario”. Si attendono le valutazioni della Cassazione.
CHE MARCIO IN DANIMARCA! Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 14 agosto 2019. C'è del marcio in Danimarca. La citazione dall' Amleto shakespeariano è d' obbligo dinanzi alla notizia che il primo ministro Mette Frederiksen ha voluto rivolgere pubbliche scuse per gli orribili abusi commessi in istituti statali per i minori dal 1946 e il 1976, nel pieno splendore dei governi della socialdemocrazia e del sogno libertario che i paesi del Nord Europa rappresentavano. «Per chi è qui, per quelli che c’erano, voglio dire scusa a nome della Danimarca. Voglio guardare ciascuno di voi negli occhi per dire l'unica cosa giusta: scusa, scusa per le ingiustizie che vi sono state fatte», ha dichiarato, commossa, la premier socialdemocratica, durante una cerimonia organizzata nella sua residenza ufficiale a Marienborg, alla presenza di alcune delle vittime. Molti di loro provenivano dall' istituto statale per ragazzi di Godhavn, nel nord della Danimarca. Nel 2005 è stato un documentario della televisione danese a rivelare quegli orrori nascosti: abusi fisici e sessuali, vessazioni psichiche, e persino sperimentazioni, da parte di uno psichiatra, dell'Lsd con bambini che bagnavano il letto. Inutile dire che molti di questi ragazzi, in seguito, sono diventati dipendenti da stupefacenti. Nel 2010 fu così avviata un' inchiesta che ha documentato casi di abusi in 19 istituti per minori. Le violenze non si sono fermate quando i ragazzi e le ragazze uscivano dagli istituti. Li hanno segnati e seguiti per sempre, perché, come emerge da molte testimonianze raccolte, per molti di loro la vita è stata costellata da difficoltà di ogni genere: uso di droghe, alcolismo, lavori ottenuti e persi continuamente, matrimoni falliti. Per tutto questo in realtà nessuno ha pagato, perché quando il velo è stato sollevato su questi tragici fatti erano passati già molti anni, quasi tutti i responsabili erano scomparsi e i vari governi succedutisi dal 2010 hanno realizzato che si trattava di vicende troppo lontane per essere affrontate giuridicamente. Una storiaccia insomma che ricorda i casi che hanno coinvolto ordini, sacerdoti e alti prelati della Chiesa cattolica scuotendo l' opinione pubblica mondiale. Tanto che è diventato quasi automatico avvicinare al termine "prete" quello di "pedofilo". Capiterà lo stesso con gli "educatori laici" danesi? Scommettiamo di no.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Affidati alla sinistra. Alesandro Bertirotti l'1 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. Certo, rimanere sconcertati di fronte a notizie come queste è il minimo. Anche il Cristo esprime parole durissime quando si riferisce a coloro che avrebbero osato “scandalizzare” i bambini. E dice, al tempo stesso, che per entrare nel Regno dei Cieli occorre farsi, appunto, come bambini. Questi sono i due concetti dai quali parto per il ragionamento che segue, perché penso siano non solo concetti cristiani ma appartenenti alla sensibilità che l’Occidente credeva di aver conquistata e mantenuta. Non siamo nuovi in Italia a notizie del genere, perché sono sicuro che molti di voi ricorderanno esattamente quello che è stato scoperto sul Forteto di Firenze. E potete trovare ancora materiale in rete, oltre a questo. Ma abbiamo di più, e cioè la presenza di una organizzazione a delinquere contro la famiglia tradizionale, la figura paterna per avvantaggiare famiglie alternative, ossia omosessuali et similia (anche bisessuali, tanto non fa male un po’ di creatività…), come si evince da questo articolo ulteriore. Coloro che conoscono la legge Cirinnà sulle unioni civili sanno perfettamente che penalizza qualsiasi unione eterosessuale a vantaggio di quelle omosessuali, perché ovviamente questo significa voti, per quella sinistra che appoggia da sempre la creatività evolutiva. È ovvio, mi riferisco alla creatività che ghettizza, attraverso le manifestazioni come il Gay Pride, i circoli con tessera Arci e altre amene iniziative ricreative. Quindi, possiamo sostenere che per la sinistra la famiglia tradizionale è qualche cosa da superare, desueto, démodé e quindi reazionario. Un padre che fa il padre, amando una madre che fa la madre, con la colpa di essere eterosessuali, sono sicuramente inadatti all’educazione dei figli. Ecco perché è utile organizzare il peggio possibile, per condurre questi bambini ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con sevizie psicologiche e fisiche. Io sono convinto che non tutta la sinistra sia in queste condizioni, almeno la poca che ancora pensa, e che non sia piegata all’ideologia di qualche multinazionale. È anche vero che gli esponenti politici attuali non hanno rivolto nessuna attenzione a quanto sta uscendo fuori da questa scandalosa storia emiliana. E non si sono assolutamente recati in Emilia, magari con qualche dichiarazione di condanna, preferendo, giustamente secondo loro, imbarcarsi per difendere bambini, famiglie, padri e madri del tutto normali, ma poveri ed immigrati. È evidente, che esiste una normalità che a loro piace, e che magari proviene dal mare. Mentre la normalità di una Emilia che lavora duramente è assolutamente da evitare, visto che si inventano persino storie per sottrarre i bambini alle proprie famiglie, e attraverso un interessantissimo giro di denaro, affidarli a famiglie creative. In questo caso, il termine “creative” è sinonimo di delinquenti, almeno queste sono le accuse. Vedremo se ci sarà un rinvio a giudizio e dunque un giudizio. Intanto, “la politica progressista per il bene dell’umanità intera” (locuzione che esprime tutto l’amore possibile per la povera gente…) prende il sole in Sicilia e se ne frega dei criminali che alimenta in patria. Cosa dovremmo pensare di tutto ciò?
Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo.
La guerra contro l'infanzia. Bambini vittime di violenza o indifferenza, abusati o considerati intralci alla vita degli adulti. E le culle si svuotano. Marcello Veneziani l'8 agosto 2019 su Panorama. Omofobia, xenofobia, islamofobia...E se l’emergenza dei nostri giorni fosse invece la puerofobia? Non sopportiamo più i bambini, li maltrattiamo, li usiamo e li abusiamo, calpestiamo i loro affetti primari, la loro natura e la loro indole infantile. Meglio i cani o i gatti che avere bambini tra i piedi. Siamo alla guerra civile contro l’infanzia. La triste storia di Bibbiano dei bambini sottratti con la forza e la menzogna alle loro famiglie è la punta di un iceberg inquietante ma anche l’emblema di una guerra ai bambini e alla famiglia naturale. Su altri piani sono quotidiani i casi di violenze e sevizie, anche mortali, inflitte ai bambini nella più tenera età. Genitori solitamente tossici si accaniscono coi loro figli con crudeltà inumane, insofferenti alla loro minime turbolenze. Nello stesso tempo emergono periodicamente siti pedofili, traffici di bambini e tentativi di adescarli su strada. Intanto perdura inattaccabile l’industria dell’aborto, la soppressione dei bambini indesiderati. E il racket delle adozioni, le battaglie contro la fertilità, la maternità e le famiglie naturali. Storie diverse, piani differenti, ma vanno tutte in una direzione: la guerra molecolare contro i bambini. È ormai a pieno regime l’Opera Nazionale contro la Maternità e l’Infanzia. Il bambino è considerato l’Intruso, l’Intralcio alla nostra vita e alla nostra libertà, o semplicemente un pacco postale da rispedire, un materiale da smaltire, come un rifiuto tossico, o un oggetto di consumo, di sfogo sessuale, di perversione o una vittima sacrificale su cui scaricare la vita, il lavoro e il mondo che non ci piace. Ma quando metti insieme la campagna assordante contro la famiglia naturale e tradizionale, il pregiudizio che si cresca meglio demolendo le figure genitoriali e ripudiando i padri e le madri naturali più il controllo invasivo della struttura pubblica sulle famiglie, il risultato è quello. Quel che resta della brutta storia di Bibbiano, oltre le responsabilità penali e civili dei protagonisti, è il rifiuto della famiglia. Non è più considerata il focolare ma il focolaio di tutte le infezioni sociali, dal sessismo al razzismo, dal familismo all’omofobia. Dunque sottrarre i figli alla famiglia naturale è progresso, è emancipazione. Meglio genitori adottivi, magari omosessuali o lgbt, meglio le strutture pubbliche, le costosissime case-famiglie, che l’alveo naturale in cui sono nati. A tutto questo si aggiunge il connotato di fondo, la denatalità, l’assenza di futuro delle nostre società imbevute di presente, l’egoismo dei genitori, eterni ragazzi che non vogliono cedere quote di vita e piacere all’egocentrismo sovrano dei bambini che competono coi capricci degli adulti ed esigono rinunce. L’unica forma di natalità compatibile è quella dell’utero in affitto; tutto meno che la procreazione secondo natura. Gli unici bambini su cui si esercita ancora una tenerezza umanitaria sono migranti; i bambini restanti in Africa nella miseria più nera, interessano assai meno. Lontani dal video, lontani dal cuore. Bambini plagiati e venduti nel nome dell’infanzia guidata da assistenti sociali e psicologi, bambini violentati nel nome del piacere sessuale, perfino bimbi malati eliminati nel nome dell’eugenetica o della dolce vita dei loro genitori. E bambini vietati nei luoghi della vacanza e del divertimento. Un posto fashion è per definizione proibito ai bambini, ai passeggini, alle famiglie tradizionali coi marmocchi. A malapena sono ammessi i vecchi, purché potenti, abbienti o travestiti da giovani. Ma i bimbi no, in assoluto, perché sono per definizione proletari, non sono elettori e tantomeno eletti, e non sono consumatori attivi della droga, del sesso, dei viaggi, dei consumi, ma solo vittime passive. I pochi superstiti del regno infantile sono trattati coi guanti bianchi, ipernutriti, benvestiti e tecnologicamente accessoriati, anche se poco educati alla vita reale e alle buone maniere; sono specie protetta, tecnologicamente avanzata, macchinette accessoriate, dotate di ogni comfort, eccetto i genitori e la comunità intorno. Certo, è meglio vivere in società avare di bambini e piene di fobie, come la nostra, che in società in cui i bambini muoiono di fame o sono mandati a morire in guerra. Meglio vivere in una società come la nostra, dove vedi bambini confinati nei recinti dell’idiozia, squallida o lussuosa che sia, piuttosto che in Paesi dove li usano come agnelli sacrificali, sgozzati o mandati a morire nel nome di Allah. Nei Paesi islamici ho visto il sangue e i dolore dei bambini portati al piccolo macello rituale, per l’infibulazione o più frequentemente la circoncisione; li ho visti avvolti in panni di sangue, tra le lacrime; e ho pensato al sereno rituale dei nostri battesimi cristiani, prime comunioni e cresime, dove il massimo era un po’ d’acqua in faccia alla creatura in fasce o il buffetto rituale per diventare soldati di Cristo. Ma per il catechismo dominante, il male principale da rimuovere è la nostra religione coi suoi simboli e riti. Per questa ragione ai nostri bambini si preferisce negare pure il presepe e i canti di Natale, visti come segni di xenofobia...Insomma su piani diversi siamo alla guerra all’infanzia. I bambini sono visti come i nemici dell’umanità perché ricacciano nel passato, ipotecano il presente e usurpano il futuro. E invece dovremmo riaprire le frontiere famigliari e accogliere i bambini, dar loro asilo. Mai parola fu più azzeccata per un popolo di piccoli profughi clandestini, costretto a lasciare la madrepatria e a vivere sotto mentite spoglie perché indesiderati. Di loro sarà il regno dei cieli; ma in terra da noi scarseggia chi è disposto ad accoglierli secondo natura e umanità.
La teoria partecipativa. Ossia: La legge del più forte.
L’Europa unita nel diritto? Con l’On. Cristiana Muscardini e Marinella Colombo si parlerà di Jugendamt e regolamenti europei. Jugendamt0.blogspot.com martedì 12 maggio 2015. Domani, giovedì, 16 aprile, presso l’Istituto Zaccheria di Milano, in via della Commenda 5, si svolgerà il convegno Europa unita nel diritto, realtà o utopia? La questione dello Jugendamt tedesco organizzato dall’associazioni Vivimi, al quale parteciperanno l’On. Cristiana Muscardini, la dott.ssa Marinella Colombo, l’Avv. Laura Cossar, l’Avv. Laura Irene Gonnelli, l’Avv. Laura Tusa Salvetti. Di Jugendamt in Italia se ne parla da pochissimo, spesso in maniera sommaria data la scarsità di conoscenza dell’istituzione, da quando, nel 2009, alla dott.ssa Marinella Colombo sono stati sottratti dalla Germania i due figli a lei affidati dal tribunale tedesco dopo la separazione dal marito tedesco. Della vicenda se ne occupò tra i primi l’On. Cristiana Muscardini, eurodeputata, che con interrogazioni e interventi in aula portò all’attenzione del Parlamento europeo la questione che non riguardava solo la dott.ssa Colombo ma centinaia di genitori non tedeschi che si erano visti sottrarre dallo Jugendamt, dopo la separazione dal coniuge tedesco, i figli. La cosiddetta “Amministrazione per la gioventù”, Jugendamt appunto, opera da oltre 20 anni in Germania e controlla i tribunali familiari di quel paese e, attraverso i regolamenti europei, anche i nostri e quelli dei restanti paesi dell’Unione. Nessuno ne sa nulla e soprattutto dicono di non saperne nulla i nostri giuristi e magistrati che dunque consegnano ingenuamente, o in modo volontariamente inconsapevole, i nostri bambini, cioè il nostro futuro e supportano le autorità tedesche nel processo di criminalizzazione dei genitori italiani che perdono i figli, la relazione con loro, ma anche ogni avere e la futura pensione. Giovedì sarà affrontato questo tema per permettere ai giovani avvocati di reperire gli strumenti per difendere efficacemente i loro clienti italiani e ai media di svelare una realtà provata, ma fino ad ora troppo ben dissimulata. L’ingresso è libero e aperto al pubblico.
Fonte: Il Patto Sociale.
Estratto dall'intervento di Cristiana Muscardini, europarlamentare per 5 legislature, veramente impegnata nel sostegno dei suoi concittadini, anche contro lo Jugendamt: "“Dobbiamo cominciare a dire, noi europeisti, che gli Italiani non devono sposare nessuno che sia di lingua tedesca? Dobbiamo cominciare a dire che non ci sia può fidare, all’interno dell’Unione europea, di un paese che è nostro alleato? Il bambino portato via dal padre marocchino non è diverso dal bambino portato via dalla mamma tedesca! Questo dovrebbero capire gli amici che a volte fanno discorsi sull’immigrazione. Il discrimine è all’interno dell’Europa. Non possiamo pensare solo a discrimini con altre religioni o con altre cultura, il discrimine è all’interno della stessa cultura europea, della stessa religione e della stessa Unione politica ed economica. Come fai ad avere ragione del terrorismo se non sei capace di avere ragione del terrorismo psicologico di un paese che si fa forza del proprio potere economico per costringere il resto dell’Europa a cedere i propri figli nell’interesse della grande Germania? Questo quesito va posto alle autorità politiche e alla stampa (che tace) … Va formulata una richiesta al Santo Padre affinché si affronti questo tema per fare chiarezza … perché non è possibile che i Cristiani si facciano la guerra all’interno dell’Unione europea … “ La finalità del diritto di famiglia tedesco non è il “bene del bambino”, ma il “bene della comunità dei tedeschi attraverso il bambino”, quindi la possibilità di trattenere tutti i bambini in Germania.
Estratto dall’intervento del 16 aprile 2015 all’incontro “Europa unita nel diritto, realtà o utopia? La questione dello Jugendamt tedesco”. Ciò che per noi è illegale, è legale in Germania, cioè deutsch-legal. Intervento dell’avvocato Irene M. Gonnelli con il contributo del dott. A. Ferragni.
Un sentito grazie all’avv. Laura Tusa Salvetti che ha confermato i nostri timori, riportandoci le parole dei magistrati di Milano in relazione ai casi italo tedeschi: “Speravo in una smentita, almeno parziale da parte dei tribunali italiani, sull’essere pedissequi a questo tipo di scempio giudiziario che viene perpetrato ai danni di persona come la dott.ssa Colombo. Purtroppo mi è stato risposto, con un mezzo sorriso sulle labbra: “quello che noi stiamo cercando di comprendere e di approfondire è la cosiddetta teoria partecipativa”. Mi si è aperto un mondo. La teoria partecipativa è una modalità attraverso la quale i nostri tribunali, le nostre corti di merito e, in tendenza, la Corte di Cassazione, desiderano conformarsi, nel rispetto della normativa e dell’applicativa dei tribunali di famiglia di tutti i vari stati membri, ma che poi sostanzialmente devono ridursi ad una adesione pedissequa al diktat dello Stato membro più forte. Questa è la teoria partecipativa. Alla mia domanda “ma voi concretamente che cosa fate?” è stato risposto. “Cerchiamo di temperare le necessità contingenti e stiamo facendo dei corsi di tedesco”.
Adozioni, le famiglie scrivevano e nessuno rispondeva: la responsabile non ha guardato la posta ufficiale per 10 mesi. La pubblica amministrazione dovrebbe rispondere entro 60 giorni. La Commissione Adozioni non rispondeva da 316. Motivo? L'indirizzo di posta ufficiale era nelle sole mani della vicepresidente Silvia Della Monica che dal 10 agosto 2016, per 10 mesi, non si è curata di darne lettura fino a intasare la casella di posta. L'ex magistrato evita anche il passaggio di consegne, mettendo a rischio di decadenza gli atti che devono essere ratificati. E negli uffici Cai è partita la corsa contro il tempo. di Thomas Mackinson il 22 Giugno 2017 su Il Fatto Quotidiano. Adozioni, il lato oscuro dello Stato: cambio al vertice dopo tre anni di ombre, veleni e conflitti politico-giudiziari. Avevano anche lanciato l’hashtag #cairispondi. Le coppie adottive erano andate sotto Palazzo Chigi per farsi sentire, perché nessuno si degnava di rispondere alle loro mail. Ora che è saltato il tappo si scopre la banalità del male: semplicemente nessuno le leggeva, da mesi, tanto che molte sono andate perdute per sempre. Cai, Commissione Adozioni Internazionali, comunicazione secca sul sito ufficiale: “In data 20 giugno 2017 si è rilevato che la casella di posta elettronica istituzionale risultava piena con restituzione al mittente delle email in arrivo. E’ emerso che tale situazione si protraeva da tempo e precisamente dal agosto 2016; tale casella di posta poteva essere visionata esclusivamente dalla ex Vice Presidente dott.ssa Silvia Della Monica con password riservata. Si è provveduto pertanto a svuotare la relativa casella che ora è pienamente operativa”. Fuori dal gergo istituzionale e garbato significa che la vicepresidente uscente della Cai, che predicava trasparenza e legalità come un mantra, per quasi un anno si è ben guardata dallo scaricare la posta elettronica della Commissione di cui lei sola deteneva l’accesso. Figurarsi rispondere. Sembra una barzelletta e non lo è. Non solo perché la Pubblica amministrazione avrebbe l’obbligo di rispondere entro 60 giorni mentre qui la sola in condizioni di farlo, dalla poltrona più alta dell’autorità pubblica, non lo faceva da 316: dalla verifica è infatti risultato che molti messaggi in giacenza non erano stati neppure letti e che tutte le mail inviate dopo il 10 agosto 2016, quando la casella ha esaurito lo spazio, si sono materialmente perse. Poi ci si lamenta che le adozioni in Italia sono crollate del 50% in una manciata di anni. L’amara scoperta è stata fatta pochi giorni dopo l’insediamento della nuova vicepresidente della Cai, il giudice minorile Laura Laera, a seguito della presa di possesso dell’ufficio. Due dirigenti sono stati ora incaricati di leggere e controllare le mail in giacenza per fornire in ogni caso una riposta tempestiva laddove sarebbe stato necessario. Sui messaggi non recapitati però questo non sarà possibile. A parte un problema di comunicazioni, banale fin che si vuole ma pur sempre lesivo del diritto dei cittadini a una leale collaborazione da parte dell’amministrazione pubblica, sta emergendo un problema ben più sostanziale sempre determinato dalla condotta poco lineare dell’ex vicepresidente, già magistrato ed ex senatore Pd, nella bufera per le rivelazioni del Fatto sul suo coinvolgimento nella vicenda Airone, tra intercettazioni compromettenti e accuse dei pm di “volersi sottrarre”, di voler “sindacare l’orientamento delle indagini” e di aver “sparso una cortina fumogena” attorno alle vicende oggetto della loro inchiesta penale. Muovendo la superficie dell’acqua del pozzo è venuto a galla il tema dell’operatività e insieme quello della legittimità della Commissione adozioni. Della Monica non ha mai convocato la commissione nell’arco di tre anni di gestione sostanzialmente monocratica. Per avere efficacia di legge però molti degli atti disposti, firmati e sottoscritti dalla vicepresidente nel corso di tre anni di gestione sostanzialmente monocratica. Ebbene quegli atti, ai sensi del regolamento, per essere pienamente efficaci devono essere ratificati dall’organismo collegiale, pena la decadenza. Anche per questo Laera ha subito annunciato la volontà di convocare la Commissione prima dell’estate. C’è però un problema: il 15 giugno ha preso possesso dell’ufficio ma non c’è stato alcun passaggio di consegne utile anche a individuare – nella mole dei 150mila numeri di protocollo dell’ufficio – gli atti che rischiano di diventare carta straccia. Per il semplice fatto che Della Monica, avvisata da tempo e ricontattata quella stessa mattina dalla segreteria, non si è presentata all’appuntamento fissato da mesi (la nomina di Laera risale al 19 febbraio). Era tutto pronto con il capo dipartimento, il segretario generale, il capo dell’ufficio del personale; mancava giusto colei che per tre anni ha condotto in sostanziale autonomia la delicatissima macchina in consegna. Così a villa Ruffo è partita anche una revisione delle carte che si annuncia monumentale. E potrebbe riservare altre scoperte clamorose.
Come funziona il sistema degli affidi di minori. Giulia Giacobini su wired.it il 25 luglio 2019. Dato che si torna a parlarne a causa di Bibbiano: contrariamente all'adozione, l'affido è una misura temporanea e il minore mantiene contatti con la famiglia d'origine. Possono diventare affidatari coppie conviventi o sposate, ma anche single e anziani. Angeli e Demoni, l’indagine che la procura di Reggio Emilia ha aperto per far luce su un presunto sistema illecito riguardante l’affidamento di alcuni minori a Bibbiano, ha portato molte persone a interessarsi di un tema che solo raramente trova spazio sui giornali e nel dibattito politico: quello degli affidi, per l’appunto. L’affido è un istituto previsto e regolato in Italia dalla legge 184 del 1983 poi modificata dalla 149 del 2001. Contrariamente all’adozione, si tratta di una misura temporanea e non prevede un distacco totale tra il bambino e la famiglia originaria. La legge specifica che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Vengono quindi dati in affido i neonati, i bambini e i ragazzi, anche stranieri, che hanno meno di 18 anni e provengono da una situazione familiare cosiddetta “difficile”. Si può optare per questa misura se, per esempio, il minore è vittima di abusi fisici o psicologici o se il genitore non può o non riesce a prendersene cura perché, per esempio, è tossicodipendente, detenuto o soffre di una malattia fisica o mentale. L’affido può avvenire con o senza il consenso dei genitori. Nel primo caso il provvedimento è disposto dal giudice tutelare, ovvero un magistrato che si occupa delle tutele, al termine di un iter che coinvolge i servizi sociali territoriali. Nel secondo caso, invece, interviene il Tribunale dei minorenni.
La famiglia affidataria. Il minore solitamente viene affidato ad un familiare o ad un parente (per esempio, un nonno o uno zio). Nel caso in cui ciò non sia possibile, si pesca dalla rete dei servizi sociali territoriali. L’affidatario può essere una singola persona o una coppia, sposata o convivente, con o senza figli. La legge non stabilisce vincoli di età né di reddito. L’importante è che la persona o la famiglia abbia uno spazio in casa per ospitare il minore e sia in grado di accudirlo, educarlo e mantenerlo. Naturalmente, non si diventa affidatari in maniera automatica: bisogna proporsi ai servizi sociali e sottoporsi a un serie di incontri e colloqui, durante i quali gli esperti valutano l’ambiente familiare e la propria capacità di prendersi cura di un minore. Se arriva l’ok, si viene inseriti in una lista e, al momento opportuno, si diventa affidatari.
Come funziona l’affido. La durata dell’affido varia di caso in caso. Può essere disposto per sei mesi, 18 mesi, per due anni ed essere eventualmente prorogato se il problema iniziale, per cui era stato disposto, non è stato ancora risolto. Durante questo periodo, il minore mantiene comunque i rapporti con la famiglia originale della quale tornerà a far parte non appena terminerà l’affido. Tuttavia, l’autorità giudiziaria può anche porre a carico della famiglia d’origine vincoli di non frequentazione, ovvero vietarle di vedere il minore. Come spiega La Legge per tutti, questo avviene quando i genitori del minore abbiano tenuto una condotta pregiudizievole per lo stesso tale da sfociare in provvedimenti di dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c. L’affido può anche terminare prima del previsto se la famiglia affidataria non si è rivelata adeguata per il compito e l’esperienza per il minore è risultata negativa o se, al contrario, questa misura è stata trasformata in adozione. In quest’ultimo caso, gli affidatari diventano genitori a tutti gli effetti. L’affido, infine, può anche essere professionale. In questo caso la famiglia affidataria firma un contratto di collaborazione con una cooperativa e partecipa a un progetto elaborato appositamente per il minore per il quale riceve anche un indennizzo. Negli altri casi, le famiglie affidatarie ricevono solo, su richiesta, un contributo economico pari alla somma decisa dal comune.
TUTTI I DATI SUGLI AFFIDI IN ITALIA. Valentina Maglione e Selene Pascasi per Il Sole 24 ore l'1 agosto 2019. Nascosto dietro l’inchiesta sui presunti affidi illeciti di Bibbiano c’è un mondo che coinvolge circa 26mila bambini e ragazzi con genitori in difficoltà: 14mila accolti da famiglie diverse da quella di origine e 12mila collocati nei servizi residenziali per minorenni. Un dato che rappresenta il 2,7 per mille del totale degli under 18 che vivono in Italia e a cui vanno aggiunti i minori stranieri che arrivano non accompagnati, perlopiù collocati in comunità. L’incidenza degli affidi varia da un’area all’altra, senza - per una volta - differenze nette tra Nord e Sud Italia: le regioni dove gli affidamenti sono più frequenti sono la Liguria (con il 5,8 per mille dei ragazzi e bambini coinvolti) e il Molise (dove l’affido riguarda il 3,9 mille dei minori). A scattare la fotografia più recente è l’indagine a campione realizzata dall’Istituto degli Innocenti di Firenze per il ministero del Lavoro. I dati risalgono al 2016 ma l’andamento degli affidi familiari e dei collocamenti nelle residenze per minori è rimasto stabile nei dieci anni precedenti: è probabile che non ci siano stati scostamenti eccessivi anche nel periodo successivo. È proprio dai numeri che è partita l’indagine della Procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Il sospetto è che i servizi sociali - con relazioni false e prove manomesse - abbiano allontanato alcuni minori dai genitori per consegnarli ad altre famiglie. In realtà l’affido - in base alla legge 184 del 1983, modificata dalla legge 149 del 2001 - è una soluzione estrema, a cui la giustizia minorile si vede costretta quando la vita e l’educazione di bambini e ragazzi sono a rischio nelle famiglie d’origine. Non bastano motivi economici per decidere l’affido: in caso di bisogno si deve intervenire con sostegni che consentano ai genitori disagiati di occuparsi comunque dei figli. Quali sono, allora, le ragioni per cui viene disposto l’affido? La legge 184/83 non fa un elenco. A fornire dei criteri è l’articolo 403 del Codice civile, che consente l’allontanamento dei minori dalla famiglia da parte della «pubblica autorità» quando sono in stato di abbandono morale o materiale, vivono «in locali insalubri o pericolosi» o sono allevati da persone incapaci di provvedere alla loro educazione.
La procedura. L’affido è deciso dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori (o di chi esercita la potestà o del tutore), ma deve essere il giudice tutelare a renderlo esecutivo. Se invece genitori o tutori non sono d’accordo, a decidere è il tribunale per i minorenni. Mentre nella procedura urgente dell’articolo 403 del Codice civile, i servizi sociali decidono da soli e poi avvisano il tribunale per i minorenni, ma a volte a distanza di mesi. Bambini e ragazzi possono essere affidati a una famiglia, formata da una coppia sposata, convivente o da una persona singola (ma sono preferite le coppie stabili con figli minori), o a una struttura. Nei casi più gravi si ricorre all’affido “professionale”, in cui i servizi sociali incaricano una cooperativa di selezionare una famiglia affidataria con cui stipulare un contratto e prevedendo un contributo: il genitore affidatario, individuato come “referente professionale” deve avere sufficiente tempo disponibile e seguire un percorso di formazione. L’affido è una misura “a tempo”, pensata per tamponare una difficoltà momentanea: salvo proroghe nell’interesse del minore, non può superare i 24 mesi, ma nella pratica il 60% degli affidi in famiglia dura più di due anni. E l’obiettivo del rientro nella famiglia d’origine è centrato solo nel 40% dei casi. Un impianto che, secondo Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, mostra criticità nell’applicazione: Ronzulli denuncia l’eccessiva discrezionalità dei servizi sociali e le prassi discordanti sul territorio. Per riformare l’affido, la senatrice ha presentato la scorsa settimana una proposta di legge (atto Senato 1389) che mira ad aumentare i controlli dei giudici e il contraddittorio con i genitori.
Bibbiano: l'inchiesta di Reggio Emilia sugli affidi dei bambini. Tutto quello che c'è da sapere sull'inchiesta legata agli affidi di minori in provincia di Reggio Emilia. Barbara Massaro il 19 agosto 2019 su Panorama. Le intercettazioni ambientali diffuse nei giorni scorsi dal TgR Emilia Romagna aggiungono nuovi tasselli al quadro del cosiddetto "Caso Bibbiano", ovvero l'inchiesta circa un presunto articolato traffico di affidi illegali di minori che sarebbero stati strappati con l'inganno alle loro famiglie d'origine a scopo di lucro.
Cosa riportano le intercettazioni ambientali. L'inchiesta, che al momento vede indagate 27 persone, coinvolge psicologi, politici locali, neuropsichiatri, medici e assistenti sociali (oltre che le famiglie d'origine e quelle affidatarie dei bambini). Il sistema sarebbe stato talmente collaudato e le persone coinvolte si sarebbero sentite talmente forti che in un'intercettazione ambientale tra una neuropsichiatra e una psicologa dell’Ausl di Reggio Emilia si sentono le due donne sbeffeggiare un maresciallo dei carabinieri che stava indagando su di loro e che aveva chiesto loro dei documenti circa gli affidi. Una delle due donne dice all'altra: "E comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai..." Si tratterebbe di una minaccia neppure troppo velata di poter agire anche sui figli del militare cercando di far sì che gli venissero tolti. Un'altra intercettazione mandata in onda dal telegiornale riporta la registrazione avvenuta nell'auto di una delle madri affidatarie di una minore. La donna avrebbe fatto scendere la bambina dalla macchina in pieno novembre e sotto la pioggia perché la bambina si sarebbe rifiutata di accusare i genitori naturali di averla molestata o maltrattata. "Vai da sola a piedi, scendi! Scendi! Non ti voglio più!" si sente nell'audio. La stessa donna poi aggiunge: "Anziché dire 'io sono così perché mi è successo questo!', piuttosto che dare la colpa a quelli che ti hanno fatto male, dai la colpa a quelli che ti vogliono bene!' Anziché dire “sono stati loro (i genitori naturali, ndr) a farmi male, (dici che) sono [Omissis] e [Omissis2] (nomi della coppia affidataria, ndr)” che mi sgridano… troppo comodo". Secondo gli inquirenti, però, a riempiere la bambina di "Urla e parolacce" non sarebbero stati i genitori naturali quanto piuttosto quelli affidatari. Un passo indietro. L'inchiesta è lunga, articolata e complessa, ma per capire tutti i punti passo per passo bisogna fare un passo indietro.
Estate 2018. I Carabinieri del comando provinciale di Reggio Emilia notano che da un po' di tempo a quella parte le denunce dei servizi sociali dei 7 comuni dell'Unione di Val D'Enza (Reggio Emilia) sono aumentate in maniera esponenziale. Si tratta di una serie di esposti per casi di abusi sessuali su minori, abusi che hanno avuto come diretta conseguenza quella di determinare l'allontanamento dalle famiglie d'origine di una settantina di bambini con conseguente affidamento dei minori ad altre famiglie.
"Angeli e Demoni". E' partita in questo modo l'inchiesta denominata "Angeli e Demoni" che ha portato alla luce un presunto sistema illecito di gestione dei minori in affido alla comunità terapeutica di Bibbiano, Reggio Emilia, La Cura, che si avvaleva, a sua volta, della consulta esterna della Onlus piemontese Hansel e Gretel il cui psicanalista è l'ultra accreditato Claudio Foti (68 anni), autore di libri, luminare nell'analisi di casi abusi su minori, colui che ha determinato l'apertura di una serie di atti processuali in ogni angolo del Paese a tutela di bambini che sarebbero stati abusati.
L'ordinanza di revoca dei domiciliari. Il Tribunale del Riesame, giorni fa, ha disposto per Foti la revoca degli arresti domiciliari. Un fatto che alcuni avevano visto come una perdita di forza della Procura. Invece l'ordinanza dei giudici appare ancor più dura e drammatica nelle sue accuse. Il giudice trova discutibili alcuni aspetti dell'operato e del Metodo Foti: «Appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’». E pesanti dubbi vengono sollevati dal Riesame sulla preparazione di Foti per esercitare la professione. Su di lui, considerato un luminare in Val d’Enza - dove i servizi sociali inviavano i minori alla sua équipe nella sede della ‘Cura’ -, il giudice parla di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro - evidenzia - non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta».
Chi è Claudio Foti. Il cosiddetto metodo Foti parte dell'assunto che i "bambini non mentono mai" e che, scopo del terapeuta è "l’emersione del ricordo dell’abuso e la rielaborazione del trauma". Foti è colui che ha definito la Carta di Noto - un protocollo di psicologia forense redatto per la prima volta nel 1996 da esperti del settore - un Vangelo Apocrifo solo per il fatto che si sottolinea come, al contrario di quanto sostiene Foti, un bambino sia molto influenzabile e il terapista ne deve tenere conto nella sua analisi per evitare, in primo luogo, di influenzare a sua volta lo stesso minore di cui dovrebbe occuparsi.
Cosa sostiene l'accusa. Secondo l'accusa assistenti sociali e terapeuti che giravano intorno al sistema Bibbiano avrebbero manipolato le testimonianze dei bambini allo scopo di toglierli alle famiglie d'origine e affidarli a nuclei di propria conoscenza lucrando illecitamente sui fondi pubblici destinati alla tutela dei minori. La tesi è che per farlo venivano manipolati disegni, documenti e le stesse testimonianze dei ragazzini che arrivavano a essere a tal punto condizionati mentalmente da credere di aver subito abusi che in realtà non si erano verificati (si era parlato anche di elettrochock, tesi presto smentita dagli stessi inquirenti). In questo modo la Procura dei minori di Bologna si trovava di fronte a fascicoli firmati da assistenti sociali e psicologi accreditati che dimostravano in maniera esplicita l'avvenuto abuso e quindi firmava l'affido in comunità e poi in famiglia.
Cosa è emerso dall'inchiesta e il ruolo di Carletti. Dopo un anno di inchiesta il 27 giugno scorso 29 persone sono state indagate e di queste 17 hanno ricevuto misure cautelari. Tra questi ci sono lo stesso Foti (prima ai domiciliari e poi rilasciato con l'obbligo di dimora) e la moglie Nadia Bologni, anch'essa psicoterapeuta, l'ex sindaco di Bibbiano il piddino Andrea Carletti, l'ex responsabile dei servizi sociali dell'Unione di Val D'Enza Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale Francesco Monopoli. Nell'inchiesta sono indagati anche gli ex sindaci di Montecchio Emilia e Cavriago, Paolo Colli e Paolo Burani, in carica all’epoca dei fatti. Secondo gli inquirenti, infatti, affinché il sistema Bibbiano funzionasse così bene tutti sarebbero stati informati a vario titolo dell'illecito che si stava commettendo sulla pelle dei bambini e dei genitori. In particolare l'ex sindaco Carletti sarebbe stato accusato di aver "omesso di effettuare una procedura a evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di psicoterapia che aveva un importo superiore a 40mila euro procurando intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel". Carletti, secondo i pm, avrebbe inoltre agito "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema sopra descritto e dell’assenza di qualunque forma di procedura ad evidenza pubblica". Non solo avrebbe invitato Foti e Bolognini, retribuiti, a convegni in cui lui stesso era relatore sostenendo l'attività di Hansel & Gretel. Nell'ordinanza del giudice delle indagini preliminari Luca Ramponisi legge che gli indagati sono accusati a vario titolo di frode processuale, depistaggio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, abuso d’ufficio, peculato d'uso e lesioni gravissime.
I filoni dell'inchiesta. I filoni dell'inchiesta sono, in realtà due: da una parte c’è l'affidamento illecito di incarichi di psicoterapia a privati con l'utilizzo di fondi pubblici quando le stesse Asl avrebbero potuto ricoprire simili compiti; dall’altra, invece, c’è la questione relativa ai bambini e ai metodi utilizzati per accertare gli abusi. Il sistema, secondo la procura funzionava così: si partiva da una segnalazione che presentasse elementi indicativi anche labili di una precoce erotizzazione del minore. Secondo la Procura le testimonianze dei minori venivano manipolate dai terapeuti che firmavano le relazioni. In seguito queste relazioni venivano inviate all’Autorità Giudiziaria Minorile e alla Procura della Repubblica del tribunale di Reggio Emilia. Vista l'evidenza dei casi la procura affidava i bambini alla comunità terapeutica La Cura. Una volta al centro i bambini sarebbero stati sottoposti a ulteriori sedute di psicoterapia che al Comune costavano 135 euro a seduta di fondi pubblici a fronte della media di 60-70 euro e nonostante il fatto che l’Asl potesse farsi carico gratuitamente del servizio. Il danno economico per l'Asl di Reggio Emilia e per l'Unione, secondo le indagini, sarebbe quantificabile in 200mila euro. I bambini, poi, venivano affidati a famiglie della zona il più delle volte di conoscenza degli stessi vertici dei Servizi Sociali.
Il caso Bedogno-Bassmaji. E' il caso, ad esempio, di una coppia gay unita civilmente dal 2018. Si tratta di Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji. Le due donne hanno ricevuto in affido una bambina sottratta alla famiglia d'origine col presunto metodo Bibbiano.
Una delle due donne, la Bassmaji, sarebbe stata l'ex fidanzata della responsabile dei servizi sociali di Val D'Enza Francesca Anghinolfi(tra gli indagati) che avrebbe facilitato l'affido alla coppia di amiche. Non solo: le famiglie affidatarie ricevono un contributo pubblico mensile che varia dai 600 ai 1300 euro a seconda dell'impegno che il minore va a dare al nuovo nucleo. Secondo quanto riporta Corriere della Sera, invece, le due donne avrebbero percepito un assegno pari a 6000 euro mensili. In tutto sarebbero una settantina i casi sospetti dove l'allontamento dalla famiglia d'origine sarebbe stato pilotato. I Carabinieri di Reggio Emilia si sono trovati, ad esempio, a compiere sopralluoghi in case definite nei fascicoli degli assistenti sociali "fatiscenti e con cibo avariato sui mobili" mentre in realtà si trattava di appartamenti assolutamente ordinati e normali. O, così si legge nei documenti, venivano virgolettate frasi del minore che poi si sono rivelate invece essere elaborazione degli assistenti sociali ora indagati. Nel fascicolo, ad esempio, si parla di una bambina che sarebbe stata abusata mentre sarebbe stato stato omesso che i suoi comportamenti "strani" potevano essere la conseguenza dell'epilessia della quale soffriva. Un altro caso riguarda l’affido di una bambina tolta alla famiglia di origine per presunte violenze sessuali. Tra i documenti presentati al Tribunale dei minori ci sarebbe stato un disegno realizzato dalla minore in cui la piccola si ritraeva accanto all’ex compagno della madre e le mani dell'uomo sembravano toccare le aree genitali della bambina. Il grafologo che ha analizzato il disegno non ha dubbi nel dire che quelle mani sono state disegnate in un secondo momento rendendo contraffatto il disegno della piccola. Il tutto per dipingere il nucleo d'origine come inadeguato, criminoso e pedofilo, inadatto alla crescita del minore e giustificare l'affidamento esterno.
Non solo Bibbiano. Il Presidente del Tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spadaro sta avviando una revisione imponente di tutti i casi nei quali negli ultimi 20 anni ha collaborato Foti non solo quelli della comunità La Cura. Il nome Hansel e Gretel, infatti, ricorre in altri casi di cronaca. Negli anni '90 c'era ancora la onlus Hansel & Gretel dietro al caso dei diavoli della bassa modenese con l'inchiesta giornalistica Veleno firmata da Pablo Trinca. Sedici bambini erano stati allontanati dalle loro famiglie per presunti abusi e riti satanici. E Foti allora aveva contestato la ricostruzione di Veleno visto che centro torinese era lo stesso da cui provenivano le psicologhe accusate di aver manipolato i bambini dei comuni della Bassa modenese. Non solo: Hansel e Gretel avrebbe anche firmato la perizia del 1996 nel biellese quando quattro adulti – padre, madre e due figli – si suicidarono in seguito alle accuse di terribili abusi sessuali su due bambini, figli e nipotini. A quanto pare il caso Bibbiano avrebbe aperto il vaso di Pandora su un modus operandi portato avanti da una parte malata di coloro che si dovrebbero occupare del bene dei bambini che, invece di mettere al primo posto l'interesse del minore ha lucrato per anni sul dolore delle famiglie sottraendo soldi pubblici all'erario e causando danni irreversibile a bambini strappati dalle braccia delle proprie madri. Il Presidente Spadaro si è dichiarato parte offesa al pari dei minori in quanto Procura e Tribunale dei minori sono stati frodati da parte di coloro che dovevano essere i garanti del diritto alla gioia e al benessere dei bambini. L'inchiesta è ancora aperta e la strada è lunga, ma già 4 bambini sono stati restituiti alle proprie famiglie.
I bambini di Bibbiano ci riconducono al Novecento. Angelo Santoro su 24emilia.com il 10 Agosto 2019. Nulla di nuovo rispetto al secolo scorso e quelli che lo hanno preceduto. Le giovani puerpere non sposate, o facenti parte di famiglie povere in canna, venivano fatte partorire direttamente negli orfanotrofi e già i nascituri avevano trovato una nuova mamma e un nuovo papà che, dopo aver pagato una lauto compenso all’istituto religioso, se ne prendevano cura. Non c’era affidamento all’epoca ma, in quattro e quattr’otto, venivano completate quelle pratiche segretissime che davano direttamente in adozione i bambini. Certo, le cose oggi sono cambiate e per certi aspetti anche in peggio, perché non solo i buchi delle maglie del malcostume sociale consentono il perpetuarsi di questi abusi sulle categorie più deboli della società, ma tutto ciò avviene con una sfacciataggine sconcertante, dopo aver stravolto il concetto di famiglia. I vecchi e ricchi sporcaccioni si sono mischiati con gli amici degli amici che non sono neanche benestanti; tanto ci pensano alcuni assistenti sociali ad affidargli quei bambini sottratti alle famiglie con l’inganno, fornendo loro i contributi economici per mantenere gli stessi piccoli e tutta la famiglia (si fa per dire) allargata. Eppure l’informazione senza veli, nel tempo della digitalizzazione, dovrebbe smascherare ogni cosa. Invece per certi aspetti le complica, in quanto versioni diverse e fantasiose si mischiano attraverso i social con la realtà dei fatti. Tutto finisce in una frenetica danza infernale di parole finalizzate a strumentalizzare la vicenda a fini politici e propagandistici. Gli unici a rimetterci, come sempre, sono i bambini, le sole vittime innocenti del caso Bibbiano che in molti sembrano aver dimenticato, tanto sono presi a sfoderare i forconi contro coloro che si presume siano i responsabili. Lo scandalo di Bibbiano, dunque, diviene carburante per i giustizialisti d’ogni risma. Ma anche sul lato giustizialista le cose si complicano. Un tempo c’erano le guardie e i ladri, ciascuno con i propri specifici ruoli. Oggi non si capisce più nulla in questo otto volante digitale. Nel senso che le prime non riescono più ad esercitare con autorevolezza e assunzione di responsabilità il loro ruolo, perché se prendono delle iniziative di buon senso finiscono nei guai e rischiano anche lo stipendio, mentre i secondi, i ladri, oggi hanno tante di quelle sfumature di “furfante” che se non fai notizia diventando famoso ti cacciano fuori dalla galera in un baleno. Ecco, sulla faccenda di Bibbiano, su questa macchina ben oliata dell’orrore, dove ogni cosa era “quasi” legale, il narcisismo dentro un cocktail di potere d’altri tempi, ancora una volta, condanna i bambini che sembrano essere stati rimbalzati nel secolo scorso. Ma non nella comunicazione, però, che ne tiene saldamente la prima pagina sui giornali, bensì da quegli eminenti studiosi in ogni campo che si stanno preparando a vergare le loro conclusioni nella stesura di libri pronti ad essere presentati e venduti per Natale. E i bambini? Che fine faranno i bambini di Bibbiano? Ecco che, un po’ imbarazzati, tutti ci guardiamo in faccia smarriti perché, in effetti, il grande spettacolo li ha usati e dimenticati allo stesso tempo come fossero cose. Angelo Santoro (consigliere comunale centrodestra a Scandiano)
I genitori di Bibbiano avevano ragione. Ma non se ne parla! Alessandro Gnocchi il 15 settembre 2019 su Nicolaporro.it. Buongiorno. Bibbiano ancora ancora Bibbiano. Ma non per fare un favore a Salvini come qualcuno crede. Ci interessa della vicenda perché rivela una certa mentalità. Il sindaco di Bibbiano, ad esempio, ha dichiarato tempo che in Italia c’è ancora troppa fiducia nella famiglia patriarcale (!). Vi riassumo cosa è successo: un bambino viene sottratto alla famiglia naturale perché secondo i servizi sociali è stato costretto ad assistere ad atti sessuali tra la madre e il padre. Quest’ultimo, inoltre, avrebbe abusato del figlio. Questa seconda accusa è già caduta da tempo: adesso che è caduta anche l’altra e quindi il bambino potrà far ritorno alla sua famiglia naturale. Vi leggo un piccolo passo da un articolo: “nel caso del bambino sono stati indagati a vario titolo (falsità ideologica, violenza privata, frode processuale, falsa perizia) diverse figure confluite nell’indagine Angeli & demoni. Anghinolfi, Gibertini, Monopoli e la psicoterapeuta di Torino Nadia Bolognini, accusata anche di essersi travestita da lupo cattivo davanti al piccolo associandolo al padre.” Monopoli, poi, avrebbe tramato per convincere i giudici che tutto andava bene e che il bambino nella nuova famiglia stava finalmente rifiorendo. Insomma, alla fine salta fuori che il reato addirittura non esiste: l’accusa rivolta ai due genitori naturali è stata archiviata. Noi vi diamo la notizia come l’abbiamo letta sul Resto del Carlino e speriamo che questo in qualche modo possa essere utile. Molti dicono che le luci sulla vicenda di Bibbiano sono destinate a spegnersi perché al governo ci sono il Partito Democratico e i Cinque Stelle. Noi crediamo e speriamo che non sia così. Nell’incertezza tutte le volte che troveremo una notizia su Bibbiano come promesso ve ne daremo conto. Alessandro Gnocchi, 15 settembre 2019
Bibbiano, la notizia che i giornali nascondono. Alessandro Gnocchi, 15 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Relegata nello spazio dedicato di solito al prete di Paese che cade dalla bicicletta sui giornali di oggi (neanche tutti) trovate una notizia interessante sulla vicenda di Bibbiano e su Claudio Foti il guru della onlus Hansel e Gretel al centro di una indagine su affidi illeciti di minori. Trascrivo, senza commenti, le motivazioni del tribunale del riesame di Bologna che ha revocato gli arresti domiciliari di Foti ma imposto l’obbligo di residenza. Non commento perché non tocca certo ai giornalisti fare i processi. Ma informare sulle motivazioni del tribunale, questo sì, toccherebbe ai giornalisti. Foti agiva per una “commistione di motivi ideologici o professionali e soprattutto economici”. La sua tecnica “invasiva e suggestiva” era applicata alla “trattazione di questioni delicatissime” riguardanti bambini. Foti “non risulta in modo certo dotato delle competenze professionali e scientifiche necessarie”. La Hansel e Gretel svolgeva le sue attività in una struttura pubblica di Bibbiano “senza alcuna procedura”. A me sembra una notizia interessante ma molti giornali hanno deciso di seppellirla dopo mille pagine di politica in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto.
Bibbiano: abbiamo pagato tutto noi. Alessandro Gnocchi, 17 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buongiorno. Seconda puntata su Bibbiano (dopo la prima in cui racconto la notizia nascosta dai giornali). Continuiamo nella lettura delle motivazioni consegnate dal giudice del tribunale del riesame di Bologna che ha revocato i domiciliari allo psicoterapeuta Claudio Foti imponendo però l’obbligo di residenza. Questa volta ci aiuta un lungo articolo di Francesco Borgonovo su La Verità di oggi. Borgonovo riporta le parti delle motivazioni relative all’interesse economico (oltre che ideologico) alla base della incredibile vicenda degli affidi “facili” di minori abusati. Scrive il giudice: “Foti ha approfittato del suo ascendente per svolgere alcuni anni psicoterapia su un numero elevato di minori, al fine di perseguire un ingente profitto economico, con parallelo danno degli Enti pubblici”. Sentite come funzionava il sistema Bibbiano, a parere del giudice: “L’assegnazione del servizio di psicoterapia di minori abusati, individuati dai servizi sociali a soggetti privati quali Foti, Bolognini e Testa (i responsabili del centro Hansel e Gretel, ndr) è avvenuta di fatto senza alcuna regolare procedura pubblica, senza apposita gara o provvedimento motivato”. Continuiamo: “vi è stata una perdita economica per l’ente pubblico e uno sviamento dei beni pubblici dal loro uso tipico, rappresentati dalla sostanziale concessione a soggetti privati dei locali de La Cura, immobile destinato a uso pubblico e per cui l’amministrazione pagava un canone di locazione, senza ricevere alcun contributo dagli psicoterapeuti privati che da solo la utilizzavano e che percepivano alte remunerazioni per ogni seduta di psicoterapia ivi svolta, tra l’altro pagata interamente da soggetti pubblici”. Tradotto: Hansel e Gretel non pagava una lira di affitto agli enti pubblici per locali a proprio uso esclusivo; gli affidatari dei minori pagavano con soldi rimborsati con bonifico dai servizi sociali “senza che la reale destinazione del denaro fosse palesata”. Così era più difficile ficcare il naso. Foti aveva fondato una Srl per gestire “la psicoterapia su larga scala” per cui, secondo il giudice, conosceva le questioni tecniche relative ai pagamenti della pubblica amministrazione. Insomma: questo giro di soldi sulla pelle dei minori l’abbiamo pagato noi contribuenti.
Bibbiano, le intercettazioni horror. Alessandro Gnocchi, 19 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buongiorno. Ancora Bibbiano? Ancora Bibbiano. Fino a quando leggeremo nuove notizie sui giornali, ve ne daremo conto. Non certo per coprire le magagne di Matteo Salvini come sostiene qualche complottista. E comunque i media si occupano già a tempo pieno del ministro dell’Interno. Le carte dell’inchiesta di Bibbiano il presunto sistema illecito di affidi dei minori nella val d’Enza escono alla spicciolata e confermano episodi da film dell’orrore. In questi giorni sono uscite due intercettazioni. La prima al Tg3. Parlano due indagate al telefono, una neuropsichiatra e una psicologa. Si sono fatti vivi i carabinieri ma le due donne non sembrano preoccupate. Anzi: «Comunque potevi anche dirgli ‘guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai…’». Segue una risata canzonatoria. Insomma, il suggerimento, non si sa quanto ironico, è di minacciare il carabiniere. Il TgR Emilia-Romagna ha mandato in onda un’altra intercettazione: negli audio si sente una madre affidataria che lascia una bimba sotto un temporale e la sgrida perché non parla degli abusi subìti, abusi che in realtà non sarebbero mai avvenuti. “Scendi, io non ti voglio più”, le grida la donna nell’intercettazione ambientale dei carabinieri.
Bibbiano, le prove manomesse. Alessandro Gnocchi, 22 agosto 2019 su NicolaPorro.it. Buonasera. Bibbiano quarta parte. Ho promesso di riportare ogni notizia proveniente dai giornali o da altri media e intendo onorare l’impegno. Il Tg1 di oggi, mercoledì 21 agosto, ha trasmesso un servizio con due notizie. La prima: l’inchiesta sui presunti affidi illeciti si allarga, ci sono altri tre indagati. La seconda: una nuova intercettazione suggerisce (ripeto: suggerisce) un tentativo di nascondere o di inquinare le prove. Ascoltate con le vostre orecchie il servizio del Tg1. I carabinieri si sono presentati dagli assistenti sociali e hanno chiesto i fascicoli relativi a sei minori. Parte una telefonata mentre i carabinieri fotocopiano “tutto ma proprio tutto”. Un’assistente chiede consiglio all’altro. E l’altro le risponde di mostrare i fascicoli ma di non consegnare gli appunti. Cosa contengono gli appunti? Secondo gli inquirenti contengono le prove della avvenuta falsificazione dei fascicoli. Le prove che i bambini sono stati indotti a confessare di aver subito abusi mai avvenuti ma necessari per giustificare l’affido. Alcune precisazioni: le intercettazioni ci sono. Sarebbe assurdo da parte mia non riportarle, come qualcuno forse vorrebbe. Le intercettazioni non condannano nessuno. Saranno i giudici a stabilire come stanno le cose. Infine, questa storia è brutta a prescindere da qualsiasi considerazione politica. La sua diffusione non è strumentale ma doverosa.
Caso Bibbiano, verifiche sugli affidi anche in Veneto. In allarme i servizi sociali di molti Comuni. A Verona emergono ombre sulla gestione degli allontanamenti dei figli dalle proprie famiglie e il loro affidamento a realtà esterne. Da anni un'associazione si occupa della difesa dei minori. Angelo Pangrazio TGR Veneto il 19 agosto 2019.
Caso Bibbiano anche a Verona: "Usavano lo stesso metodo". Partono le indagini sul sistema degli affidi nel veronese. Un'operatrice: "Ci sono sempre delle soluzioni che tendono a mettere a lato il bambino, non c' è attenzione per le loro relazioni e la loro sofferenza". Costanza Tosi, Sabato 31/08/2019, su Il Giornale. Non solo Bibbiano. Bambini portati via dalle proprie famiglie con pretesti infondati, strappati dalle braccia delle proprie madri tra i pianti e le urla dei piccoli o ancora prelevati dai carabinieri in divisa mentre si trovano a scuola, sotto la vista dei propri compagni. Nei casi denunciati, dalla Procura di Reggio Emilia, nella recente inchiesta che ha scandagliato il losco sistema di affidi illecito e che prende il nome di “Angeli e Demoni”, questi fatti sono quasi una costante che descrive il modus operandi dei servizi sociali. Atteggiamenti sistematici che adesso, dopo che Bibbiano ha fatto accendere i riflettori sugli affidi dei minori, sembrano tornare familiari a molti tra coloro che se ne sono occupati, in tantissime città d’Italia. Nell’occhio del mirino ci sono spesso famiglie con problemi economici, situazioni familiari al limite, le cui debolezze finiscono per essere sfruttate come pretesto per definire i genitori incapaci di gestire i propri figli. Tanto che, denunciare le proprie difficoltà, in troppe occasioni ha fatto tramutare una richiesta di aiuto in una condanna dalla quale non si riesce a fuggire. A Bibbiano come a Verona. A raccontarlo, in un’intervista a La Verità è un’operatrice di Verona. “C’ è un target particolare - spiega - famiglie particolarmente disagiate, generalmente non radicate nel territorio, che hanno delle difficoltà dal punto di vista sociale, economico e culturale”. Non hanno il modo di difendersi, queste persone, e così rimangono progioniere nel labirinto delle ingiustizie. “Non sono in grado di difendere la propria condizione, a volte costrette a rinunciare agli avvocati perché costano troppo” racconta ancora la fonte, che poi scende nei dettagli: “generalmente è la madre la parte debole. Di solito viene in qualche modo giudicata dai servizi sociali. Faccio l' esempio di una situazione che abbiamo seguito. Abbiamo avuto una signora che era stata picchiata dal marito, il quale è finito poi in carcere. I servizi sociali hanno considerato la madre poco adeguata perché, secondo loro, aveva un rapporto simbiotico con la bambina di 8 anni. Secondo i servizi, se una madre si fa picchiare non è adeguata a crescere una figlia. Di fronte a vicende come queste mi chiedo da che parte stia il servizio sociale”. Una disattenzione inaccettabile, forse una superficialità che rischia di far male come una spada che ha il potere di trafiggere il cuore di intere famiglie. “Diciamo che c' è una attenzione scadente riguardo alle situazioni di difficoltà delle madri. E poi il bambino non viene messo al centro. Ci sono sempre delle soluzioni che tendono a mettere a lato il bambino, non c' è attenzione per le loro relazioni e la loro sofferenza”, spiega l’operatrice. Eppure la tutela del minore dovrebbe essere sempre al primo posto, in questo, come in tanti altri settori. Ma, troppo spesso non è così. “La sensazione è che ci sia scarsa sensibilità nei confronti delle condizioni famigliari disagiate, mettiamola così. Nel senso che è come se venissero giudicate la mancanza di lavoro, la casa inadeguata... Come se fossero un motivo sufficiente per portare via i bambini. Viene fatta una valutazione su dei criteri che non sono criteri educativi o relazionali”. Nelle tante storie che, noi de IlGiornaleit, abbiamo raccontato negli ultimi mesi, uno dei tanti punti interrogativi comuni a tutte le esperienze denunciate dai genitori è stato: perchè l’allontanamento e non un supporto per aiutare queste persone? C’erano forse interessi economici? Ancora una volta pare proprio che sia così. La professionista che racconta la propria esperienza spiega che “da un punto di vista economico si tende a optare per una soluzione costosissima come quella della comunità a fronte di situazioni dove potrebbe essere molto più semplice mandare un consulente alla famiglia, un educatore”. Sembra di assistere ad un film già visto. E ad aggiungere sospetti sulla mala gestione degli affidi da parte dei servizi sociali anche a Verona, qualche settimana fa era stata ancora un’altra testimone. L’ ex dirigente dell' Usl Scaligera, ora in pensione, ha lavorato per 25 anni nei servizi a Verona, assistendo in prima persona a “dieci casi di allontanamento dei bambini dai propri genitori privi di motivazioni corrette”. Una storia che si ripete. “Bambini prelevati a scuola, senza informare i genitori” e operatori che consentono che i piccoli vengano mandati, guardacaso, “sempre nelle stesse strutture”.Una denuncia che non è passata inosservata alle autorità veronesi, che dopo essere venute a conoscenza del caso, hanno fatto partire le indagini. Sul tema degli affidi familiari “c' è l' inchiesta della Procura (pur senza indagati e senza ipotesi di reato) e c' è quella, interna, da parte dell' Usl. E c' è anche una presa di posizione ufficiale dell' assessore regionale ai Servizi sociali, Manuela Lanzarin”. Riporta il Corriere del Veneto. Consegnato il “mandato alla Direzione regionale dei servizi sociali di verificare la situazione degli affidi nel proprio territorio”, mentre “l' Usl Scaligera è incaricata di approfondire e controllare eventuali situazioni controverse”. Ha spiegato l’assessore, che dichiara di aver “inviato le segnalazioni relative alla Procura della Repubblica”. Se c’è una cosa che però la Lazarin non ha gradito è l’anonimato: “È contrario alla deontologia professionale che una ex dirigente muova delle accuse così gravi restando nell' anonimato. Avrebbe dovuto denunciare i propri sospetti durante il suo incarico. Non posso accettare che venga gettato fango, in modo gratuito, su come vengono gestiti gli affidi in Veneto”. Forse sì, era necessario denunciare prima, e magari sarebbe servito ad evitare moltissimi casi amari. Ad ogni modo il coraggio di denunciare non spesso riesce a scavalcare la paura delle ritorsioni e, in ogni caso, “meglio tardi che mai”. Adesso, finalmente, si cercherà di portare a galla le magagne da troppo tempo nascoste sul fondo di un sistema che esige la massima trasparenza. Anche il Pd, ore, chiede chiarimenti alla regione e lo fa tramite la consigliera Anna Maria Bigon. Ma, ahimè, lo stile dei dem sembra essere lo stesso utilizzato a Bibbiano. “Il sistema veneto dei servizi sociali”, ha detto la Bigon, “ha formato, negli anni, una fondamentale e positiva rete di famiglie affidatarie. Queste ombre rischiano di minare la credibilità di quanti si prodigano per trovare una soluzione a carenze educative e a difficoltà familiari che possono compromettere il futuro di tanti bambini”. Insomma, così detto, sembra che non ci siano neanche i presupposti per indagare. É pur vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, ma i fatti di Bibbiano dovrebbero suggerire che elogiare prima di sapere fino in fondo come stanno le cose, non sempre porta a grandi risultati.
Affidi, da Bibbiano lo scandalo si allarga. A Genova altri casi analoghi e la Liguria si rivela la prima regione d'Italia per casi di minori "allontanati". Simone Di Meo il 12 settembre 2019 su Panorama. Quando Laura, con la mano che le trema, sottoscrive il verbale dell’udienza conclusiva, è convinta che il peggio sia passato. Non le avrebbero più tolto il bambino di nemmeno due anni, nato da una burrascosa relazione con un marito col quale condivideva ormai solo i problemi di tossicodipendenza. Hanno già «perso» due figlie, andate in affidamento, il terzo bimbo è stato dichiarato adottabile dal Tribunale dei minori di Genova. È certa che non le toglieranno pure il piccolo S. quando i giudici della Corte d’appello le chiedono la disponibilità a «entrare in comunità con il minore seguendo le disposizioni dei giudici». È l’occasione che attende da mesi per dimostrare di voler cambiar vita. E lei, 28enne, con la speranza di uscire dall’aula col bambino abbracciato al collo, ha preso la penna e, con una grafia minuta e incerta, ha messo la propria firma. Quel che poi è successo, purtroppo, è stato molto diverso da ciò che aveva immaginato. La stessa firma, dopo qualche giorno, Laura l’avrebbe apposta a una denuncia contro i cinque magistrati che hanno scelto di affidare il figlio ai servizi sociali del Comune di Genova. A tradimento, secondo la mamma. Perché la sentenza, sostiene, era già pronta, e la discussione finale sarebbe stata solo una finta. I giudici, secondo quanto riportato nell’esposto che Panorama ha avuto modo di visionare, non avrebbero voluto - per pigrizia - cambiarla. Assistita da un avvocato penalista, Laura ha depositato nei giorni scorsi in Procura, a Genova, una denuncia per falso ideologico e abuso d’ufficio. Il ragionamento della mamma è semplice: la sentenza riporta la stessa data dell’udienza collegiale. In poche ore di camera di consiglio, dice la donna nell’esposto, i giudici non possono aver discusso e compilato le 14 pagine del verdetto, letto e valutato le oltre 120 pagine della consulenza tecnica d’ufficio (richiamandola 26 volte nel provvedimento), le «relazioni dei servizi sociali» e quella del direttore del dipartimento di Salute mentale dell’Asl 1 che ha in cura la giovane madre. Il verdetto menziona poi «quattro diverse sentenze della Cassazione» e le posizioni delle parti provenienti da altri due fascicoli paralleli - il papà e i nonni paterni si erano costituiti contro la conferma del giudizio di primo grado, sostenuto invece dagli assistenti sociali - per un totale di altre centinaia di pagine da approfondire. Possibile che i giudici siano riusciti a valutare tutto questo materiale in così poco tempo, pur sapendo che da quelle scelte dipendeva la vita di un bambino di appena due anni? La risposta di Laura è no. «Sembra quasi che la sentenza, firmata e datata, sia stata scritta prima dell’udienza collegiale... e non sia frutto di una regolare e approfondita riunione in camera di consiglio» accusa la madre. Soprattutto perché non si fa mai riferimento alla proposta dei giudici di trasferirsi in comunità con il bambino, nonostante l’impegno - nero su bianco - della stessa Laura. Come mai? «La Corte era ovviamente libera di cambiare idea in camera di consiglio, ma a questo punto perché non fare alcuna menzione in sentenza di un passaggio così importante per la madre e per suo figlio? Forse perché la sentenza di rigetto dell’appello era già pronta? (…) Mio figlio viene quindi dato in adozione nonostante in aula, in sede di udienza, mi fosse stata data la possibilità di entrare in comunità con lui». La droga è l’ombra che si allunga anche sulla storia di Dalila, alla quale un drappello di 13 agenti di polizia ha sottratto il figlio all’uscita dall’allenamento di calcetto dietro la minaccia, sostiene lei, di un taser (la pistola elettrica). Davanti a tutti. Con un furgone blindato ad attendere un dodicenne trattato come un latitante. Da cinque mesi, il ragazzino si trova in una comunità in Piemonte, a 200 chilometri da casa. In attesa che il tribunale decida se affidarlo alla cugina della mamma, che si è detta disponibile ad accoglierlo nella sua famiglia, o ai nonni materni dove prima viveva. Il minore è già scappato una volta dalla struttura di accoglienza. Si è lanciato dal secondo piano rischiando di morire o di restare paralizzato. Ha preso un treno per tornare a Genova, ma è stato fermato dalla polizia ferroviaria che ha avvisato i genitori e le forze dell’ordine. Quando è stato interrogato, ha spiegato di essere evaso dalla comunità come gli aveva consigliato uno dei poliziotti che lo aveva preso in custodia. Dalila ha deciso di rivolgersi all’avvocato del foro di Genova, Lars Markus Hansen, per chiedere la revisione del processo. Tutto incentrato sulle valutazioni assai negative - «esagerava su tutto per aggravare la nostra situazione» sostiene lei - dello psicologo che ha in cura il bambino. Come nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia sui minori sottratti ai genitori a Bibbiano, pure in questa storia l’incubo inizia con un disegno. Il 12enne avrebbe fatto il suo ritratto sotto la pioggia, senza occhi e mani. Mancanze gravissime, secondo lo psicologo che per questo ha deciso di tenere il minore fuori dalla portata del papà, che però già se ne disinteressava, e della madre. Della cui dipendenza da stupefacenti il ragazzino viene informato proprio dal terapeuta, che gli racconta anche delle difficoltà di curarla in un Sert. Provocando di fatto una rottura tra madre e figlio. Perché? «La Liguria risulta essere la prima regione in assoluto per minori allontanati, più dello 0,5 per cento di affidi e/o internamenti in istituto sulla popolazione minorile, circa il doppio della media nazionale» spiega a Panorama l’avvocato Hansen, fondatore e dirigente del Comitato «Salviamoli da Erode». «Se questa percentuale nasconda o meno una precisa scelta ideologica, che privilegi soluzioni alternative rispetto al supporto della famiglia naturale, non è dato sapere. Ma il sospetto è plausibile». E aggiunge: «Riteniamo indispensabile un approfondimento nel merito e nella sostanza da parte delle autorità competenti e supporteremo le persone coinvolte per il riconoscimento e le conseguente repressione, quando se ne confermi la veridicità, di eventuali irregolarità da parte degli enti pubblici preposti, in relazione alla perdita o riduzione della potestà genitoriale». Per questo «il Comitato si è prefisso l’obiettivo di raccogliere e monitorare informazioni e testimonianze, denunziando i casi di abusi o maltrattamenti». Ma cosa si può fare se non si conosce chi ti accusa, e di cosa? È il dubbio che dilania Giovanni, un operaio di 58 anni che, dopo 35 anni di vita matrimoniale, non può più vedere liberamente il figlio, portatore di handicap. Un giorno, come accade al signor K. del Processo di Franz Kafka, due poliziotti e due assistenti sociali gli portano via il ragazzo da scuola. Senza un apparente perché. Quarantott’ore dopo, il Tribunale dei minorenni lo accusa di violenze fisiche e psicologiche sulla consorte e sul minore, nel frattempo trasferito in una struttura protetta di La Spezia. Nessuno ha convocato Giovanni, nessuno gli ha detto dell’avvio di un iter giudiziario, si è tutto messo in moto indipendentemente da lui. Giura alla polizia di non aver fatto nulla, decide di denunciare l’abuso in tv. Prende contatti con una redazione locale e quando preannuncia la sua intervista alle assistenti sociali, queste lo invitano alla cautela. «Stia attento ai passi che fa» è l’avvertimento. Lui capisce, e rinuncia. Ora cerca - attraverso un ricorso all’autorità giudiziaria - di conoscere le accuse che lo continuano a tenere lontano dal figlio. Ha il sospetto che la psicologa e l’assistente sociale responsabili della cura del minore abbiano tenuto un comportamento «professionalmente non corretto». Un piccolo ma significativo episodio, come racconta Giovanni: «Il primo incontro con mio figlio, dopo settimane, mi è stato fissato dagli assistenti sociali su un foglietto bianco, scritto a penna. Come quelli che si usano in salumeria». L’amore di un padre un tanto al chilo.
SARDEGNA COME BIBBIANO: 640 MINORI STRAPPATI ALLE FAMIGLIE. Chenews.it l'11 Settembre 2019. Il caso Bibbiano colpisce anche la Sardegna: 640 minori strappati alle famiglie. Il ruolo del Coordinamento Nazionale contro la sottrazione minori. Il caso Bibbiano, che ha scioccato l’Italia circa un anno fa, ha aperto il vaso di Pandora e ha portato alla luce una serie di episodi simili riscontrati in tutta Italia; tra gli ultimi fatti scoperti emerge la tragica situazione in Sardegna di 640 minori che sono stati strappati alle loro famiglie, alcune delle quali non vedono i figli da oltre due anni. Il caso Bibbiano si delinea sempre più come la sola punta dell’iceberg del traffico di affidi illegali di minori. I casi in cui bambini, anche di pochi anni, sarebbero stati sottratti ai genitori con l’inganno e con solo scopo di lucro si moltiplicano giorno dopo giorno e per scoprire ed analizzare i possibili casi sospetti è nato il Coordinamento Nazionale contro la sottrazione di minori alle famiglie e ai genitori in separazione. Barbara di Donato, referente regionale per la Sardegna, ha dichiarato in un’intervista sul sito Cagliari Casteddu che i minori sottratti nell’isola “sono circa 640, per le più svariate motivazioni”. La situazione è resa ancora più tragica dal fatto che alcuni genitori biologici, che di norma hanno diritto a vedere i figli ogni 15 giorni, hanno affermato di non vedere i propri figli da oltre due anni e mezzo. “Questo lo trovo drammatico perché fa perdere pure la speranza”, ha affermato la Di Donato. Il Coordinamento Nazionale si prefigge come scopo quello di far luce sulle eventuali anomalie negli interventi sociali, assistenziali e socio sanitari. Il Caso Bibbiano si sta espandendo a macchia d’olio e la Sardegna, con i suoi 640 minori sottratti alle famiglie è solo un altro triste esempio di affidi illegali. Gli atteggiamenti sistematici che contraddistinguono il modus operandi dei servizi sociali stanno aprendo gli occhi a quanti sono stati coinvolti in situazioni simili e hanno visto una richiesta di aiuto trasformarsi in una condanna a cui è difficile sfuggire. La referente del Coordinamento Nazionale per il Trentino Alto Adige Gabriella Maffioletti sta organizzando per il 14 settembre una manifestazione pacifica per sensibilizzare la comunità su questo tema ancora troppo sottovalutato.
Affidi, ora tutti si scandalizzano. Ma ci sono casi difficili ovunque. Mario Alberto Marchi, Giornalista, consulente di comunicazione, il 6 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Era sette mesi prima che esplodesse il caso di Bibbiano. Malgrado il legale che curava la vicenda fosse l’arcinoto avvocato Miraglia, malgrado egli si facesse in quattro bombardando redazioni e social di comunicati e denunce, a parte me in questo spazio su ilfattoquotidiano.it, nessuno si degnò di parlare della vicenda del piccolo Marco di Verona. Un bambino di tre anni che aveva cambiato casa quattro volte. Lasciato solo pochi mesi alla madre ex tossicodipendente – anche se con lei in una comunità – era stato affidato ai nonni materni. Poi tolto anche a loro, perché accusati di non voler fare l’improponibile scelta di voler bene al piccolo o alla figlia. Accolto da una coppia affidataria era quindi stato tolto anche a questa, perché aveva rapporti di conoscenza con la famiglia d’origine, in spregio alla legge che in realtà quei rapporti li suggerisce e perfino impone. Messo in casa famiglia, a ridosso delle feste di Natale, per essere reso adottabile. Vennero organizzati comitati. Sotto le finestre del Comune di Verona venne organizzata una fiaccolata per chiedere al sindaco della città scaligera e all’assessore ai servizi sociali, semplicemente di fare una verifica sull’operato dell’assistente sociale che aveva stilato tutte le relazioni. L’avvocato Miraglia continuò a denunciare e inviare comunicati. Chi scrive, continuò a farlo. Il risultato sono stati sette mesi di silenzio, con Marco in casa famiglia. Sette mesi, cioè un quinto della sua vita. Oggi, mentre tutta Italia è giustamente sconvolta per i fatti di Bibbiano, mentre una parte d’Italia è meno giustamente impegnata ad attribuire a tutti i costi una valenza politica quell’orrore, mentre un’altra parte ancora tace, dando quindi valore alle strumentalizzazioni, a Marco è stato revocato lo stato di adottabilità e quindi la permanenza in casa famiglia. Un risultato a metà – come lo stesso legale della famiglia ha sostenuto – perché il bambino è tornato non dai nonni, ma dalla coppia affidataria. A Marco qualcuno dovrà spiegare perché sette mesi prima quella condizione non andava più bene e adesso sì. Qualcuno dovrà anche spiegargli perché ora i genitori affidatari dovranno stare comunque attenti a non avere rapporti troppo stretti con i suoi nonni e perché la sua vita continui comunque ad essere appesa al filo dell’incertezza, anche se ha un madre che è ormai uscita dalla droga e si sta ricostruendo un vita, anche se ha dei nonni che lo avevano accudito con amore. A noi qualcuno dovrà invece spiegare altro. Perché mentre perfino dei cantanti lanciavano appelli affinché si “parlasse di Bibbiano”, Marco rischiava di essere uno dei tanti bambini che scompaiono nel sistema dell’ “infanzia di Stato”. Perché addirittura qualche sera fa nel centro di Verona, esponenti dell’amministrazione comunale abbiano pensato bene di manifestare “contro Bibbiano”, ma erano stati totalmente assenti sulla vicenda di Marco. Forse un’altra Bibbiano già c’è, se è vero che in Veneto viene allontanato dalle famiglie lo stesso numero di minori della famigerata Emilia Romagna. Circa duemila, come rilevato dall’interrogazione fatta in Regione dal Consigliere del Movimento 5 Stelle Manuel Brusco. Numero evidentemente fino ad ora sconosciuto al governatore leghista Luca Zaia, oppure solo ora giudicato degno di qualche verifica, visto che ha fatto eco al suo leader di partito Salvini nell’annunciare una commissione d’inchiesta, anche territoriale. Meglio tardi che mai? Certamente, ma rimane il fatto che fino ad ora si sono consumati nel silenzio più totale chissà quanti casi come quello di Marco e che – anzi – quando qualcosa era stato detto da chi oggi dichiara di volere chiarezza, era esattamente del senso opposto. Era il 29 maggio del 2018, quando l’assessore regionale dichiarava che “L’affido di un minore resta la via privilegiata per affiancare un ragazzino e la sua famiglia in situazioni di difficoltà” e annunciava lo stanziamento di sette milioni di euro per le case famiglia e le famiglie affidatarie. Il Veneto è l’unica regione di cui si conosca il dato attuale degli affidi, ma è appena un poco superiore a quello – noto a livello nazionale – del 2013. I minori fuori dalle famiglie erano quasi duemila anche nell’allora leghista Piemonte, oltre quattromila nella Lombardia amministrata dal centrodestra, con numeri alti in Campania e Sicilia, governate della sinistra. A dimostrazione che chi chiude gli occhi lo fa a prescindere dall’appartenenza politica, ma se poi aspetta l’occasione per scandalizzarsi a comando, lo fa in virtù dell’appartenenza al grande partito degli ipocriti.
«Decine di minori affidati senza motivo». Parla l'ex dirigente. Luca Fiorin su L’Arena 18.08.2019. Allontanamenti e affido di minori, un tema che fa ancora discutere. Ombre sulla gestione nel Veronese degli allontanamenti dei minori dalle proprie famiglie e il loro affidamento a realtà esterne. Le fa emergere, mentre fa ancora discutere il caso del piccolo Marco, il racconto di una persona che alle difficoltà di bambini e ragazzi ha dedicato la propria vita professionale. Una testimone diretta che fa riferimento a situazioni che per alcuni aspetti ricordano il cosiddetto “sistema Bibbiano”, come ormai si identificano le pratiche volte a dare in maniera illecita bambini in affido messe in atto in quel Comune emiliano, grazie alla complicità di istituzioni e professionisti. Da noi non si ha notizia di inchieste in corso, ma la persona che abbiamo intervistato si dice pronta a dire quanto sa anche all'autorità giudiziaria. A parlare di casi che definisce di «violenza istituzionale» è una ex dirigente dell’Ulss 9 Scaligera che ha da poco lasciato l'incarico che la vedeva impegnata nell'ambito dei servizi sociali in provincia. La professionista, che non vuole apparire con nome e cognome perché teme ritorsioni, spiega che non ce la faceva più a mantenere il silenzio su una serie di avvenimenti. «In 25 anni di lavoro ho visto personalmente almeno dieci allontanamenti di bambini dai propri genitori privi di motivazioni corrette e ho saputo di molti altri episodi, a decine, da colleghi», racconta la dottoressa. La quale spiega che a queste misure, che rientrano in procedimenti giudiziari, viene dato corso con veri e propri blitz. I minori vengono prelevati su ordine del giudice dalle forze dell'ordine quando sono a scuola, o comunque fuori casa, senza informare i genitori, i quali a volte nemmeno sanno dove vengono portati i loro figli. «L'allontanamento dovrebbe essere solo “extrema ratio“ a cui ricorrere quando ci sono situazioni di violenza e abbandono o quando i minori sono in pericolo o hanno genitori non in grado di garantire un'educazione», dice. «Molte volte però le istituzioni, compiendo abusi, applicano questa misura in maniera indiscriminata; avviene di solito quando ci sono genitori con limitate disponibilità economiche o che non possono contare su famiglie vicine». Stando a quanto afferma l’ex dirigente, queste situazioni sono dovute a una serie di concause. Da una parte, i servizi sociali, sia dei Comuni che dell’Ulss, invece di cercare di aiutare i genitori a superare i loro eventuali problemi, si trovano a dover fare attività di tutt'altro genere, perché devono rispondere alle continue richieste che fa loro il tribunale. Dall'altra, gli assistenti sociali danno pareri senza avere il tempo di approfondire le situazioni o cercano addirittura di non esprimersi, perché non sono sicuri di essere tutelati dai loro superiori. «Senza contare che sono considerati come requisiti per stabilire se i genitori abbiano o no la capacità di seguire i figli anche cose che invece non dovrebbero essere prese in considerazione», continua. «Ad esempio, vengono dati in maniera impropria giudizi sui modelli educativi, per cui succede che siano tolti i figli a genitori che sono solo più o meno rigidi nella propria educazione rispetto a quello che ritiene corretto chi valuta la famiglia, o perché i genitori sono per l'alimentazione vegana». Questo, però, sarebbe solo un lato della medaglia. «A dire quasi sempre la parola definitiva sono i consulenti tecnici d'ufficio (Ctu) del tribunale, che esprimono pareri di solito poi accolti integralmente dai giudici», dice l'ex-dirigente. I Ctu, per quanto riguarda i minori, sono spesso psicologi, in ogni caso liberi professionisti, che hanno fatto corsi specifici e sono iscritti a un albo. «A Verona sono pochi e, di fatto, fanno il bello e il cattivo tempo, indicando anche le realtà in cui vanno portati i minori allontanati», precisa la dottoressa. «Questi ultimi vengono accolti in strutture accreditate e, se va bene, i genitori possono vederli una o due volte alla settimana, magari solo con la presenza di educatori; se va bene, perché in alcuni casi essi nemmeno sanno dove sono», aggiunge. «Dovrebbero esserci progetti per mantenere e poi eventualmente riportare i minori nelle loro famiglie, ma nessuno li porta avanti». Ma perché tutto questo? «Per mancanza di tempo o di volontà di prendersi responsabilità, superficialità e persino incompetenza». Solo per questo? «Io non posso dire che ci sia dell'altro, non ne ho le prove, però è vero che ci sono consulenti che fanno ospitare sempre nelle stesse strutture i minori, che spesso vi restano anni, con costi a carico della collettività e superiori rispetto a quelli necessari per realizzare sostegni a casa». Non avrebbero quindi solo rilevanza giuridica e morale, ma anche economica, i fatti raccontati dal medico. «Sono situazioni che a Verona non accadono di rado», conclude, «e vorrei ricordare che solo riuscendo a far trasferire la competenza giuridica a tribunali di altre città alcuni genitori sono riusciti a far annullare gli allontanamenti».
Piccolo Marco, l'avvocato: «Dopo Bibbiano, caso veronese». Bertacco: «Diffama una città». Scontro durissimo dopo la sentenza della corte d'appello sul caso del "piccolo Marco". Verona Sera il 27 luglio 2019. Sentenza Corte d'Appello, il piccolo Marco torna a casa. Sboarina: «Giusta conclusione». «Ma ci rendiamo conto che anche Verona, se non fosse stato per la forza dei parenti supportati dal movimento raccontato puntualmente dal giornale cittadino, potrebbe essere una Bibbiano due?». Sono le parole colme di indignazione che l'avvocato Francesco Miraglia ha rilasciato al quotidiano L'Arena, commentando il caso del "piccolo Marco" dopo la sentenza della corte d'appello di cui si è avuta notizia ieri. Uno sfogo nel corso del quale è inoltre emersa la volontà da parte dell'avvocato difensore della famiglia del bambino finito al centro di questo complesso caso di affido, di «chiedere il risarcimento dei danni all’assistente sociale e alla psicologa». «Marco torna in famiglia e di questo non possiamo che essere contenti. - aveva commentato l'avvocato Miraglia nell'immediato della sentenza - Abbiamo vinto su tutta la linea e questo sta a significare che non c’è soltanto il caso di Bibbiano, ma si profila anche un caso veronese di immotivato allontanamento di un bambino da far adottare a chissà chi. Sulla base della decisione assunta dalla Corte di Appello di Venezia, chiederemo ora la revoca del provvedimento di affidamento e che il piccolo venga assegnato ai nonni materni. Ci rivolgeremo, inoltre, alla Procura perché una situazione simile, un provvedimento assolutamente immotivato e ingiusto come quello assunto da questa assistente sociale, devono essere verificati e sanzionati nelle maniere opportune».
Nell'immediato non si è fatta attendere la replica da parte dell'assessore ai Servizi sociali del Comune di Verona, nonché senatore, Stefano Bertacco: «Paragonare il caso del piccolo Marco a quello di Bibbiano è schifosamente strumentale. Invito l’avvocato Miraglia ad andare lunedì stesso in Procura per dare avvio alle verifiche di cui parla. Ricordo a tutti che, nell’immediatezza dell’allontanamento, il Sindaco scrisse una lettera al Ministro della Giustizia Bonafede e io stesso presentai un’interrogazione parlamentare che attende ancora risposta (chiedo al Ministro Fontana di intervenire), per segnalare l’ingiustizia perpetrata nei confronti del piccolo Marco». «La verità, spero, sia accertata al più presto e difenderò in ogni sede la mia reputazione. Non ci sto ad essere diffamato. - incalza ancora l'assessore Bertacco - Chi mi conosce sa con quanta dedizione svolgo il mio incarico. Sono pronto a rispondere a qualunque cosa nelle sedi competenti. Il tema della tutela minorile è un problema serio e delicato, è evidente a tutti che deve essere profondamente riformato. Io ci sto provando in Parlamento, ed insieme ad altri miei colleghi, ho depositato un disegno di legge per l’abolizione del Tribunale dei minori e, conseguentemente, per l’istituzione del Tribunale della famiglia. Quindi, avvocato Miraglia, - attacca l'assessore ai Servizi Sociali del Comune di Verona - la invito a citare anche me in Tribunale, perché le sue parole sono pesanti ed io ora mi aspetto da lei coerenza e non solo annunci ad effetto. Sono mesi che dice di voler denunciare l’assistente sociale e i responsabili dei Servizi sociali del Comune di Verona e non l’ha ancora fatto, perché? Intanto rilascia interviste dicendo inesattezze sulla decisione della Corte, ma ognuno risponde prima di tutto alla propria coscienza e poi del suo operato. Aspetto con trepidazione la sua denuncia - conclude veemente l'assessore Stefano Bertacco - perché, oggi, lei ha ingiustamente diffamato un’intera città».
Bibbiano, altri tre indagati per gli affidi illeciti. Sarebbero accusati di abuso d’ufficio. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val d’Enza, accusati di aver redatto false relazioni. Il Dubbio il 21 agosto 2019. Tre nuovi indagati nell’inchiesta sul presunto giro di affidi illeciti di minori in Val d’Enza, denominata “Angeli e Demoni”. Tre persone, secondo quanto si apprende, sarebbero indagate con l’accusa di abuso d’ufficio dopo il caso delle consulenze affidate alla psicologa Nadia Bolognini, coinvolta nell’inchiesta sugli affidi e moglie dello psicoterapeuta Claudio Foti, successivamente al suo arresto, quando si trovava ai domiciliari. La vicenda era stata segnalata dal consigliere di Forza Italia in Provincia a Modena, Antonio Platis, e dal capogruppo di Fi nell’Unione dei Comuni dell’Area Nord modenese, Mauro Neri, attraverso esposti: secondo quanto riportato dagli esponenti forzisti, l’Unione Comuni Modenesi Area Nord avrebbe affidato a Bolognini l’incarico il 3 luglio, quando la psicologa era ai domiciliari da una settimana. Pronta la replica dell’avvocato Francesco Guazzi, legale della Bolognini: «Un incarico mentre la mia assistita è ai domiciliari? Non ne sapevo nulla e sicuramente è all’oscuro di tutto pure la dottoressa. L’unica persona con cui ha contatti sono io». Prossimamente è previsto un incontro tra le Procure di Reggio Emilia e Modena, che coordinano le indagini dei carabinieri. L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. La vicenda lo scorso 27 giugno aveva visto coinvolte sedici persone tra politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una nota onlus di Torino, raggiunti da misura cautelare per affidamenti illeciti di minori. Secondo gli investigatori, quello svelato dall’inchiesta “Angeli e Demoni” è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Secondo gli accertamenti svolto dai carabinieri alcune vittime dei reati contestati dall’inchiesta, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo". Le indagini sono iniziate alla fine dell’estate del 2018 dopo l’anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori.
Bibbiano, tre nuovi indagati per abuso d'ufficio. La vicenda era stata segnalata dai consiglieri di Forza Italia di Modena, Antonio Platis e Mauro Neri, attraverso degli esposti alla Corte dei conti e una segnalazione alle procure di Modena e Reggio Emilia. Costanza Tosi, Mercoledì 21/08/2019, su Il Giornale. Continuano le indagini per fare chiarezza sul “caso Bibbiano” e si allargano i presunti colpevoli. Si allunga la lista degli indagati nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti nel reggiano. Altre tre persone sarebbero indagate di abuso d’ufficio perchè ritenute responsabili di aver affidato pazienti in cura alla psicologa Nadia Bolognini nonostante si trovasse agli arresti domiciliari. La vicenda era stata segnalata dai consiglieri di Forza Italia di Modena, Antonio Platis e Mauro Neri, attraverso degli esposti alla Corte dei conti e una segnalazione alle procure di Modena e Reggio Emilia. L’evento, che ha fatto scoppiare il caso e reso necessarie ulteriori indagini, è il caso di una minore di Mirandola. La ragazzina, prima in terapia presso il centro “La Cura”, dopo la pubblicazione dell’inchiesta della procura di Reggio Emilia che aveva compromesso il nome del centro di Bibbiano finito sotto accusa, venne mandata in uno studio privato, per continuare il suo percorso di psicoterapia con la dottoressa Bolognini. Ex moglie di Claudio Foti, che il 3 luglio, giorno in cui l'Unione Comuni Modenesi Area Nord affidò le affidò l’incarico, si trovava agli arresti domiciliari già da una settimana. Forza Italia, che ha fatto un accesso agli atti, ha parlato di un incarico “mascherato” e di una determina “retroattiva” che, scrive il consigliere Platis sulla sua pagine Facebook, “a norma di legge non si può mai fare e che costituisce un debito fuori bilancio”. L'amministrazione, ha scritto il partito, "impegna i fondi, 13.589 euro, dal 1 giugno 2019” e, così facendo, aumenta, in modo retroattivo, l'importo a una casa famiglia “da 110 a 127 euro al giorno per coprire i maggiori costi per le sedute della moglie di Foti (170 euro all'ora). Tecnicamente - continua - siamo davanti ad un debito fuori bilancio, perchè mai e poi mai una amministrazione pubblica può impegnare soldi per prestazioni effettuate nel passato". Nell’inchiesta, esplosa lo scorso 27 giugno, Nadia Bolognini è, tra gli indagati, una delle figure di maggior rilievo. Il suo nome, infatti, era già balzato alle cronache quando vennero riportate alcune sue intercettazioni pubblicate nell’ordinanza della Procura. Durante uno dei suoi incontri con i piccoli pazienti in cui, la Bolognini, cercava di cancellare dalla mente del minore i ricordi del proprio papà ad un certo punto arrivò persino a dire al piccolo: "E' come se dovessimo fare un funerale!”. E poi ancora: “Dobbiamo fare una cosa grossa.. Sai qual è? Gli psicologi la chiamano elaborazione del lutto (...) Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papa' non esiste più”. Ma c’è di più. La psicologa chiedeva continuamente al bambino di ricordare i momenti in cui il padre “lo umiliava”, atteggiamento che, secondo il gip, si descrive nel tentativo di indurre falsi ricordi. Adesso, tra le due Procure emiliane che coordinano le indagini dei carabinieri, è previsto un incontro per decidere come proseguire con le nuove indagini.
La moglie di Foti e le sue sedute da 170 euro l'ora. Una ragazzina di Mirandola venne mandata in terapia presso lo studio privato della moglie di Foti per una cifra ancora maggiore rispetto a quelle concordate al centro "La Cura". Costanza Tosi, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Più passano i giorni e più si aggiungono pezzi al gigantesco puzzle che descrive i presunti orrori del “caso Bibbiano”. Aumentano i dettagli sulla storia di Sara. La ragazzina che nel 2011 venne affidata ai servizi sociali dell’Unione Comuni modenesi area nord, e poi, nel 2013, trasferita e affidata ad una casa famiglia. A gestire la struttura, dal nome Madamadorè, situata nel Parmense, i coniugi Paolo Dioni e Romina Sani Brenelli. Ma chi sono i due responsabili? Romina Sani è una stretta conoscente di Claudio Foti, nonchè ex-allieva del suo master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive”. Come, lei stessa, scrive sul quotidiano online diretto dallo stesso terapeuta. Ma non basta. Il nome della Sani compare anche tra quelli dei dirigenti dell’Associazione “Rompere il silenzio. La voce dei bambini”, proprio accanto ai profili di Claudio Foti e Nadia Bolognini entrambe indagati nell' inchiesta “Angeli e Demoni”. Ma torniamo a Sara. Durante la permanenza all’interno della casa famiglia le condizioni della ragazza iniziano, a poco a poco, a peggiorare. Come riportato da La Verità, la piccola soffre di forti crisi, conseguenza, si legge in una delle relazioni, dei “traumi profondi che ha subito”. Motivo per cui, gli assistenti sociali, decidono di proporre, a Sara, un percorso di terapia presso il centro “La Cura” di Bibbiano. Lo stesso finito nelle carte della Procura di Reggio Emilia perchè identificato come il luogo in cui, gli psicologi della Hansel e Gretel, poi finiti sotto accusa, manovravano le menti dei bambini per indurli a confessare abusi e maltrattamenti inesistenti. Come emerge dalle pagine dell’ordinanza il costo delle sedute con i professionisti di Foti era molto elevato rispetto alla media. Di fatti, anche per Sara, furono accordati 135 euro per ogni incontro. Ma perchè la piccola venne mandata proprio a Bibbiano? Secondo il giudice che ha seguito le indagini preliminari è “verosimile che Romina Sani Brenelli frequentando Foti, Nadia Bolognini e Federica Anghinolfi, ne segua gli orientamenti e le idee in termini di “ricerca” dell’abuso sessuale anche davanti a qualsivoglia e seppur minimo sintomo specifico”. Dunque, sembrerebbe, che persino nel parmense ci fossero individui a capo di intere comunità, pronti a seguire la “pseudo-psicologia” del padre della onlus torinese. Il 3 luglio 2019, dopo solo una settimana dall’uscita dell’inchiesta, gli stessi servizi sociali dell’Unione dei comuni modenesi dell’area nord, attraverso una determina, decisero di “aggiornare il progetto relativo alla minore collocata presso la struttura Madamadorè”. Nella lettera, firmata dalla dirigente Romina Sani Brenelli, si richiede che Sara continui il suo percorso di terapia, per il quale la Comunità Madamadorè, “si rende disponibile ad intervenire come intermediaria rispetto al pagamento della psicoterapia privata per la minore in oggetto ai fini di garantire la continuità terapeutica”. La struttura “La Cura”, finita sotto gli occhi dei riflettori, non poteva più essere luogo idoneo dove far svolgere a Sara le sue sedute, dati i rapporti con gli indagati di “Angeli e Demoni”. E così, per la ragazza, si doveva trovare una soluzione alternativa. Detto fatto. L’amica di Foti suggerisce di mandare la paziente presso uno studio privato e di farla seguire - come scritto nella lettera - dalla “dottoressa Nadia Bolognini al costo di 510 euro totali per due interventi mensili di 90 minuti”. Dunque, non solo la moglie di Foti, mentre era agli arresti domiciliari, avrebbe accettato di lavorare con la ragazza nonostante il metodo da lei utilizzato fosse appena stato messo in discussione dalla Procura, ma lo avrebbe fatto ad un prezzo ancora più elevato. 170 euro l’ora. Vale a dire 35 euro in più rispetto alla tariffa del centro “La Cura”, già accusata, dal giudice per le indagini preliminari, di fissare tariffe ampliamente al di sopra della media.
Da Mirandola venne mandata in cura a Bibbiano, ora invece può essere seguita dall'Asl. A Mirandola partono le indagini e l’Unione dei Comuni Area Nord cambia le carte in tavola e tenta di pararsi le spalle. Costanza Tosi, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. A Mirandola si corre ai ripari. Proprio ieri, i carabinieri si erano recati nel municipio della cittadina in provincia di Modena per venire in possesso di alcuni documenti utili ad andare a fondo sulla questione dei nuovi indagati per l’inchiesta “Angeli e Demoni”. Poco dopo, ecco che spuntano nuovi accordi. L’Unione dei Comuni Area Nord cambia le carte in tavola e tenta di pararsi le spalle. Invano. Qualche settimana fa, avevamo raccontato la storia della minore di Mirandola che, il 3 luglio, era stata affidata alle cure della terapeuta Nadia Bolognini mentre, l’indagata nel caso Bibbiano, si trovava, già da una settimana, agli arresti domiciliari. Dopo l’intervento della Procura di Modena, che ha deciso di provare a vederci chiaro, ecco che arriva una nuova determina che cancella tutti gli accordi, tra la terapeuta e gli affidatari della minore, presi esattamente due mesi fa. Così l’Ucman prova a salvarsi. “Sono state assunte – recita l’atto - decisioni circa la presa in carico sanitaria e psicoterapeutica dell'utente in tutela succitato, che coinvolgeranno direttamente il Servizio Sanitario Pubblico, che si è dichiarato temporaneamente disponibile, al fine di assicurare la prestazione sanitaria, ad attivare un intervento senza oneri di spesa a carico degli enti sottoscrittori del progetto, ovvero la Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza e l’Unione Comuni Modenesi Area Nord, con decorrenza dal prossimo 1°settembre 2019”. La ragazzina è stata affidata alle cure, gratuite, degli psicologi dell’Asl. La stessa ragazzina per la quale, nel 2017, la casa famiglia Madamadorè che la teneva in affido, aveva ritenuto indispensabili le cure a Bibbiano, presso il centro “La Cura”. Secondo i dirigenti della casa d’accoglienza dunque, la bambina aveva una situazione talmente grave da dover essere curata da specialisti privati, tramite sedute da 135 euro l’ora. Ora, si potrebbe pensare, che nel giro di due anni la situazione potesse essere cambiata. Ma, ancora una volta, i conti non tornano. Solo a luglio infatti, tramite una dichiarazione congiunta dei Servizi Sociali e dell’Asl, si richiedeva che la paziente potesse continuare ad essere seguita dalla stessa psicologa della "Hansel e Gretel" che l’aveva curata a Bibbiano, dichiarando che, vista la situazione, era necessario persino un rafforzamento del costo delle sedute, pari a 170 euro l’ora. Adesso, tutto d’un tratto, la situazione non è più così grave e la bambina può essere seguita da uno psicologo a costo zero. Perchè non farlo prima? Erano veramente necessari tutti quei soldi spesi in due anni per farla seguire dalla onlus di Foti? Sembrerebbe di no. Ma c’è di più. I Servizi Sociali e la dirigente della Madamadorè erano così preoccupati che la ragazza perdesse il suo supporto terapeutico, dopo lo scoppio del caso degli affidi di Bibbiano, che chiedevano di farla seguire nello studio privato della Bolognini a causa dello stop delle attività de “La Cura”. Adesso, da alcuni documenti, rintracciati dal consigliere di Forza Italia Antonio Platis, si scopre che, da quel giorno, la piccola non ha più partecipato a nessuna seduta. Fino al primo di settembre. Giorno in cui è stata affidata agli psicologi del Servizio Sanitario Pubblico. A questo punto, le ipotesi sono due e, entrambe, portano ad evidenze raccapriccianti. O la bambina, affidata alla Madamadorè nel 2013, non si trovava in una situazione così grave da doversi sottoporre per anni a sedute presso psicologi privati con costi elevatissimi costretta a spostarsi da Parma a Bibbiano. Nel caso, sarebbe da domandarsi perchè aggravare la situazione per rimpolpare le tasche della onlus di Torino. Oppure, se la piccola avesse veramente avuto bisogno di tale assistenza, come è potuto accadere che la lasciassero per mesi senza le proprie cure? Se così fosse verrebbe messa in dubbio, non solo la professionalità di chi avrebbe dovuto occuparsi di lei, ma persino l’umanità di chi dovrebbe lavorare per salvare i minori dalle difficoltà. “La cosa ancora più paradossale - ci riferisce, sconcertato, il consigliere Platis - è che, in tutto questo, la bambina rimane affidata alla stessa casa famiglia, nonostante la dirigente sia finita nel registro degli indagati”. Vengono revocate le terapie alla Bolognini, ma nessuno si preoccupa di revocare l’affido alla Madamadorè. Dopo aver scoperchiato l’ennesima beffa del sistema, Platis non ha dubbi, “o siamo davanti ad incompetenti o c’e’ della malafede”. Difficile non essere d’accordo.
Ecco il giro d'affari di Foti&Co. "150mila euro per 18 ragazzi". In una mail spuntano i compensi di Foti per gestire gli affidi: ecco quanto guadagnava l'associazione Hansel e Gretel per seguire 18 minorenni. Costanza Tosi, Lunedì 26/08/2019, su Il Giornale. Una ventina di bambini in terapia portava nelle casse della onlus Hansel e Gretel 150mila euro. Un guadagno sopra la media, se si considera che i costi delle singole visite con i terapeuti dell'associazione superavano, di gran lunga, il "prezzo di mercato" per la stessa terapia, pari a 60/70 euro l'ora. Numeri che confermerebbero, ancora una volta, che il presunto “business dei bambini” di basava su un’ideologia, ma non escludeva gli interessi economici. A scovare l’ennesimo documento che inchioderebbe la onlus torinese fondata dal terapeuta Claudio Foti, finito nel registro degli indagati per l’inchiesta "Angeli e Demoni", è un giornalista del Tg3 Emilia Romagna, venuto in possesso di una mail recapitata nell’aprile del 2018 a Foti da parte di Cinzia Salemi, segretaria dello stesso centro. Nel documento emergono diverse strategie di gestione del denaro “fai da te”. La Salemi elencava a Foti alcuni metodi per la buona gestione dei fondi derivanti dal sistema degli affidi. Al primo posto, un planning che prevedeva, per 18 bambini in terapia, quattro incontri mensili di un’ora ciascuno tutti fissati al costo di 135 euro l’ora. Esattamente come quelli organizzati al centro La Cura di Bibbiano. Soldi ai quali vanno aggiunti i guadagni derivanti dal lavoro di supervisione e dai vari corsi di formazione di cui si occupava il centro di Foti, oltre alle terapie per altri 4 bambini. Ed ecco che si arriva ad un totale di 144mila euro l’anno. Una cifra non proprio irrisoria, ma che, secondo la Salemi, poteva ancora essere gonfiata. Nel documento emergerebbe, infatti, un secondo suggerimento: aumentare il costo degli incontri da 135 a 180 euro l’ora. Soldi che, in parte, sarebbero andati al terapeuta che si occupava del minore (60 euro), e in parte sarebbero invece finiti nelle tasche della Sie. La società fondata da Foti. Con questo metodo, scrive la segretaria, “Sie avrebbe un margine di profitto di 3980 euro al mese”. Ma c’è ancora una terza alternativa: 160 euro l’ora. Una via di mezzo che avrebbe portato ad un incasso annuo di 166.400 euro. E se i numeri già di per sè sciolgono qualche altro nodo dell’orribile groviglio che descrive il sistema di affidi illecito nel reggiano, dalla mail emergerebbero anche altri indizi. Sembra difficile che Foti, destinatario dei calcoli matematici della Salemi, potesse non essere a conoscenza dei guadagni della Hansel e Gretel. Tesi sostenuta, invece, dal legale del terapeuta. Ma quale ruolo aveva Cinzia Salemi nell’azienda di Foti? Come spiega il tribunale del Riesame, era colei che teneva i legami con i servizi sociali di Bibbiano. Gli stessi che - come descritto nell'ordinanza della Procura - avrebbero passato i soldi, pubblici, alle associazioni e alle famiglie affidatarie a cui venivano dati i bambini tolti alle proprie famiglie per pagare le terapie dei piccoli presso La Cura. Ma torniamo alle carte. Nella mail la Salemi farebbe cenno ad un contributo da versare all’associazione Rompere il silenzio che, suggerisce la segretaria di Foti, sarebbe potuto arrivare tramite la cooperativa Si può fare. Oppure nel caso fossero aumentati i costi delle sedute, anche direttamente dalla Sie. Ed ecco che rispuntano sempre gli stessi nomi. Tra cui Romina Sani Brandelli. Ora indagata, la signora Sani è una ex allieva di Foti, oltre che dirigente della casa famiglia Madamadorè di Mirandola dove, la terapeuta, ospitava la ragazza che poi mandò in cura presso lo studio privato di Nadia Bolognini, nonostante questa fosse già agli arresti domiciliari, dando persino il benestare alla richiesta di aumento del costo delle sedute che, in quell'occasione, passarono da 135 euro l'ora a 180. Caso che poi, ha portato ad allargare il diametro delle indagini sull’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. Ma questo, già era noto. Ciò che invece tocca sottolineare, è che la Sani era anche responsabile di “Si può fare”. E non è ancora tutto. Ecco che l’amica di Foti compare anche nel direttivo dell’associazione “Rompere il silenzio” assieme a Francesco Monopoli, assistente sociale dell’Unione Val D’enza e fidato collaboratore di Federica Anghinolfi. Dunque, se le ipotesi venissero confermate in aula di tribunale, i soldi delle terapie che non finivano nella società di Foti, andavano a ingrassare il portafogli dell’associazione di cui Foti faceva parte, assieme a dirigenti delle case famiglia, ex allievi e assistenti sociali. In effetti i conti della Salemi, viste le circostanze, sembrano meno utopici: dopotutto ad essere d’accordo sul costo delle terapie, oltre a Foti, dovevano essere proprio coloro che facevano parte della stessa associazione del terapeuta.
Bibbiano, non solo ideologia. Foti prolungava le terapie anche per ottenere più soldi pubblici. Il Tribunale di Bologna ha dichiarato che il terapeuta ha ricavato "un ingente profitto economico" grazie al sistema di Bibbiano. Costanza Tosi, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Strappavano i bambini alle proprie famiglie con false accuse e finte relazioni per poi affidarli ad amici e conoscenti e inserirli in lunghi percorsi di psicoterapia con gli psicologi della Hansel e Gretel presso il centro La Cura. Era questo l’obiettivo dei "demoni" di Bibbiano, di cui la Procura di Reggio Emilia ha scoperchiato un presunto giro d’affari. Un metodo ben collaudato che sarebbe stato portato avanti non solo per ideologia, ma anche per soldi. Il “guru” Claudio Foti, padre della onlus torinese che si era appropriata degli spazi del centro pubblico La Cura, in cui venivano mandati in terapia i bambini affidati ai servizi sociali, senza partecipare a nessuna gara pubblica, con questo meccanismo faceva cassa. Lo scrive, nero su bianco, - come riportato da La Verità - il giudice del Tribunale del riesame di Bologna, nell’ordinanza contenente le motivazioni del provvedimento che impone a Foti, prima ai domiciliari, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Secondo il Riesame, Foti, ha “approfittato del suo ascendente per svolgere, per alcuni anni, psicoterapia su un numero elevato di minori, al fine di perseguire un ingente profitto economico, con parallelo danno per gli enti pubblici”. Anni di psicoterapia a bambini e ragazzi che non ne avevano bisogno. All’ombra di un’ideologia questo è certo, ma anche lucrando sulla pelle di vittime innocenti. Come nel caso della ragazzina che Foti ha seguito, in terapia, fino a novembre del 2018, per riuscire a “far riaffiorare un passato abuso sessuale da parte del padre”. Secondo le carte, per ben tre anni, il terapeuta ha lavorato con la bambina incontrandola due volte a settimana e cercando di plagiare la minore al fine di farle raccontare abusi sessuali che, in realtà, non erano mai avvenuti. Le sedute con la paziente sono proseguite anche quando la giovane era ormai diventata maggiorenne, dopotutto, ogni incontro, erano soldi che finivano in tasca alla onlus del terapeuta. E il “luminare” non se li lasciava scappare facilmente. Che il terapeuta avesse l’obiettivo di accumulare denaro è “pacifico, poiché per ogni seduta il suo guadagno era di 135 euro, tariffa ben al di sopra e quasi doppia rispetto alla tariffa media di uno psicoterapeuta, pari a 70 euro” sostiene il giudice. Tutti soldi pubblici. Ebbene sì, il teatrino paradossale messo in piedi da psicologi e assistenti sociali avrebbe provocato anche un danno ingente alle casse dello Stato. Come spiega il Riesame, “vi è stata una perdita economica per l’ente pubblico e uno sviamento dei beni pubblici dal loro uso tipico, rappresentati dalla sostanziale concessione a soggetti privati dei locali de La Cura, immobile destinato a uso pubblico e per cui l’amministrazione pagava un canone di locazione, senza ricevere alcun contributo dagli psicoterapeuti privati che da soli la utilizzavano e che percepivano alte remunerazioni per ogni seduta di psicoterapia ivi svolta, tra l’altro interamente pagata da soggetti pubblici”. Di fatto, secondo quanto scrive il Tribunale, “è stato violato il principio di trasparenza e di buona amministrazione”, poichè “l’assegnazione del servizio di psicoterapia di minori abusati, individuati dai servizi sociali, a soggetti privati è avvenuta senza alcuna regolare procedura pubblica, senza apposita gara o provvedimento motivato”. Motivo per cui, adesso Claudio Foti, si ritrova indagato per abuso d’ufficio. Come si legge dalle carte della Procura di Reggio Emilia, il meccanismo era sempre lo stesso: “Gli affidatari venivano incaricati dai Servizi Sociali di accompagnare i bambini alle sedute private e di pagare le relative fatture a proprio nome”. Soldi che poi gli affidatari ricevevano mensilmente attraverso rimborsi sotto una finta causale di pagamento. In questo modo, si riuscivano anche a falsificare i bilanci dell’Unione dei Comuni coinvolti. Le sedute di psicoterapia, “venivano pagate dalla Asl con denaro destinato agli affidatari di minori bisognosi, senza che la reale destinazione del denaro fosse palesata”. Ma c’è di più. Nel momento in cui i servizi sociali della Val d’Enza assegnavano l’incarico delle sedute di psicoterapia all’interno del centro La Cura agli psicologi della Hansel e Gretel, in una delle delibere, specificavano che non vi sarebbero state spese aggiuntive provenienti dalla collaborazione con la onlus di Foti. Fatto smentito dalle carte. Tutto questo nonostante, come specificano i magistrati, l'Asl di Reggio Emilia avrebbe potuto offrire lo stesso servizio gratuitamente. Cosa che però non è successa e che ha provocato un danno alla Pubblica amministrazione di 200mila euro. Ma Claudio Foti non ne sapeva niente secondo il suo avvocato. Che continua a sostenere che l’assistito fosse ignaro di tutto ciò che riguardava denaro e pagamenti. Dal canto suo, il terapeuta agiva in buona fede, non curandosi della parte economica. Secondo i giudici però, e a fare attrito con le ragioni riportate dal legale dell’indagato è un fatto avvenuto nel lontano 2003, anno in cui Foti, “aveva formato una Srl per gestire la psicoterapia su larga scala, di cui lui era amministratore delegato, socio di maggioranza e diretto destinatario di ingenti somme elargite senza titolo dalla pubblica amministrazione per le prestazioni private camuffate da pubbliche a cui aveva preventivamente dichiarato che avrebbe rinunciato, ma aveva invece dato direttive alla segretaria per fissare le tariffe”. Ora come allora. Il meccanismo è esattamente lo stesso utilizzato per le sedute a La Cura. Insomma, pare che, il terapeuta torinese, con i soldi sapesse bene come muoversi e che i sotterfugi per fregare le casse dello Stato non fossero per lui cosa nuova. Per di più, secondo il giudice del Riesame, “la circostanza che vi fossero precedenti rapporti di conoscenza e collaborativi di Foti con Federica Anghinolfi, la dirigente amministrativa che aveva introdotto Hansel e Gretel nella realtà emiliana importandovi le persone che la rappresentavano, in primo luogo Foti, da Torino, induce a ritenere evidente che tra essi vi sia stato precedente accordo finalizzato a raggiungere il risultato concreto descritto”. Rapporti che il terapeuta della Hansel e Gretel avrebbe sfruttato, anche per ricavare denaro. Secondo il tribunale di Bologna dopo essere “riuscito a inserirsi nel territorio emiliano potendo contare sulla totale dedizione a lui e al suo gruppo da parte degli assistenti sociali e responsabili dell’Unione Comuni Val d’Enza” Foti avrebbe approfittato di “tale ascendente per svolgere per alcuni anni psicoterapia di un numero elevato di minori, protratta il più a lungo possibile, al fine di perseguire un ingente profitto economico con parallelo danno per gli enti pubblici”.
All’avvocato Scarpati si contesta una raffica di incarichi fiduciari. Niente bandi né rotazione Per anni è stato il legale dei minori abusati, dell’Unione Val d’Enza e perfino dell’Anghinolfi. Am. P. il 2 luglio 2019 su La Gazzetta di Reggio. Avvocato dei minori abusati, avvocato dell’Unione Val d’Enza parte civile nei processi e avvocato di fiducia di Federica Anghinolfi. Il che equivale a dire controllato e controllore. Al di là di quelli che saranno gli esiti penali, la posizione di Marco Scarpati, stimato esperto di abusi minorili e storica figura di riferimento in questo campo, all’interno della struttura “La Cura” presenta quantomeno un conflitto di interessi. Da sottolineare che l’avvocato Scarpati viene definito dall’accusa come un «concorrente extraneus al reato», non coinvolto direttamente nella gestione dei singoli casi. Tuttavia ai cinque indagati – Anghinolfi (in quanto dirigente del servizio), Carletti (assessore politiche sociali dell’Unione), Campani (responsabile dell’Ufficio Piano dell’Unione) e Canei (istruttore amministrativo del Servizio Sociale dell’Unione) e infine lo stesso Scarpati – si imputano «affidamenti intuitu personae», cioè incarichi fiduciari a raffica in virtù delle acclarate qualità del libero professionista, in barba a parecchie normative e in violazione alle linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac). Incarichi «in contrasto con la natura occasionale», che avrebbero procurato «intenzionalmente a Scarpati un ingiusto vantaggio patrimoniale»: liquidati «12.830 euro nel 2016, 18.593 euro nel 2017, 27.287 euro nel 2018 (per un totale di oltre 50mila euro)». Nulla di male, né cifre esorbitanti, senonché tali somme vengono erogate «simulando una formale procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dell’incarico di consulente giuridico del Servizio Sociale Val d’Enza, procedura in realtà intrisa di macroscopiche e gravissime irregolarità volte a favorire Scarpati», al quale sono stati affidati «sia l’incarico di consulente giuridico sia singoli incarichi di fiducia dei minori affidati al Servizio sociale». Condotte che avrebbero procurato a Scarpati «non solo l’ingiusto vantaggio patrimoniale pari a 20mila euro(rilevata la nullità del bando), bensì anche le ulteriori somme da quest’ultimo percepite con riferimento ai singoli incarichi di difesa dei minori». Non solo: Federica Anghinolfi, «in presenza di un interesse proprio», non si è astenuta dal nominarlo (il 20 giugno 2018) suo difensore di fiducia per un procedimento penale che la riguardava. Ad Andrea Carletti e Nadia Campani, in particolare, l’accusa muove l’addebito di essere «pienamente consapevoli della totale illeicità del sistema» e «della sistematica violazione della trasparenza e rotazione nelle nomine fiduciarie», sostenendo altresì «il legale anche attraverso l’invito a pubblici convegni tenutisi a Bibbiano», con Scarpati relatore. Mentre all’avvocato si addebita «la totale illeicità non solo della procedura amministrativa, ma anche della cumulabilità economica». — Am. P.
Il Riesame boccia Foti: "Non risulta dotato delle competenze professionali". È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Bologna che ha disposto, nei confronti di Foti, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Costanza Tosi, Mercoledì 14/08/2019, su Il Giornale. Il Riesame “boccia” Claudio Foti. Secondo il giudice, lo psicologo “non risulta dotato delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta”. È quanto emerge dall’ordinanza del tribunale di Bologna che ha disposto, nei confronti di Foti, l’obbligo di dimora a Pinerolo. Secondo il tribunale, il metodo utilizzato dal padre della onlus torinese, finita sotto accusa nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori, “appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’”. Pertanto, il Riesame - come riportato da Il Resto del Carlino - definisce il “metodo Foti”, tanto decantato dai vertici della Val D’enza, “una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Eppure, Claudio Foti era considerato un luminare della materia, nonostante, come suggeriva il curriculum vitae del professore che ilGiornale.it aveva consultato, non disponesse neppure di una laurea in psicologia. A confermalo è quanto emerso dall’interrogatorio di garanzia, dove Foti, “a fronte di domande incalzanti del pm sui titoli in base a cui esercita l’attività”, aveva ammesso di essere dottore in Lettere e di poter esercitare la sua attuale professione grazie ad “un riconoscimento ex articolo 85 per l’esercizio della psicoterapia”, aggiungendo di aver seguito anche svariati corsi specialistici e aver conseguito molti titoli, in ottemperanza delle leggi vigenti. “Il caso sembra rientrare nella regolamentazione della legge 56 del 1989, che ha regolarizzato le situazioni incerte fino a quell’epoca”, osservava il giudice. Ma ciò non è bastato a convincere il Riesame sulle competenze dell’indagato, che sottolinea la "trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro - evidenzia - non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta". Due, le ipotesi di reato formulate a carico di Claudio Foti, ricorso al Riesame per chiedere la revoca dei domiciliari. Il terapeuta è finito nel registro degli indagati, per i fatti di Bibbiamo, con l’accusa di abuso d’ufficio, in concorso con Federica Anghinolfi, Francesco Monopoli, Andrea Carletti, Nadia Campani, Barbara Canei, Nadia Bolognini e Sarah Testa. Secondo la Procura di Reggio Emilia, lo psicologo avrebbe tenuto sedute di psicoterapia all’interno del centro La Cura, a titolo oneroso, senza però essersi aggiudicato il ruolo partecipando all’obbligatoria gara pubblica. Ipotesi di reato per la quale il giudice individua i pericoli e di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Motivo per cui decide di sostituire i domiciliari, con l’obbligo di dimora. “Perchè - spiega - rappresenta una misura minore, ma assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere psicoterapia, e soprattutto mantenere e stringere contatti con personalità pubbliche, quali amministratori di enti territoriali, altri professionisti, assistenti sociali con la cui partecipazione potrebbe realizzare reati analoghi”. Considerando che “l’attività professionale, sia sui casi oggetto del presente procedimento sia su altre persone da lui seguite con psicoterapia, veniva svolta in Emilia e in altre città, senza che risulti lo svolgimento di attività dove abita, cioè a Pinerolo”. L’altra accusa alla quale Claudio Foti era chiamato a rispondere è quella di frode in processo penale e depistaggio, riguardante la vicenda avvenuta tra il 2016 e il 2017, di una ragazza che sarebbe stata plagiata e indotta a ricordare abusi sessuali subiti da parte del padre e di un giovane dante la sua infanzia. Caso per il quale c’è stato l’annullamento del Riesame, dato che, nel frattempo, la ragazzina avrebbe compiuto 18 anni e il procedimento giudiziario sui presunti abusi sessuali si è chiuso prima.
“Una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Il Resto del Carlino il 14 agosto 2019. In un’intervista al Corriere del 19 luglio 2019 aveva dichiarato: «Per me è caduta l’accusa più grave e infamante, relativa alla manipolazione della ragazza e alla terapia, così hanno scritto, “brutale e suggestiva” che io avrei eseguito. Ma per fortuna il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e la grazia del Signore mi ha consentito di ricordarmi che io quegli incontri li avevo registrati. Venti ore di filmati per 15 sedute mi hanno salvato». Adesso però che è nota l’ordinanza che ha revocato i domiciliari (ma imponendo l’obbligo di dimora) la posizione di Claudio Foti appare diversa da quanto dichiarato ai giornali a fine luglio. Bibbiano, il Riesame. “Ingerenza nella vita dei bambini” – il Resto del Carlino di Alessandra Codeluppi su Il Resto del Carlino il 14 agosto 2019 – “Una tecnica invasiva e suggestiva posta in essere nella psicoterapia dei minori”. Il Riesame la definisce così, attribuendola alla “scuola Foti“, come la definisce lo stesso giudice, cioè il gruppo di professionisti che faceva capo al centro ‘Hansel e Gretel’ di Moncalieri (To) e di cui tre esponenti sono indagati nell’inchiesta sugli affidi di Bibbiano: Claudio Foti, la moglie Nadia Bolognini e Sarah Testa. È uno dei passaggi dell’ordinanza con cui il tribunale bolognese motiva l’obbligo di dimora disposto per Foti a Pinerolo, mentre prima il 68enne si trovava ai domiciliari. Il giudice trova discutibili alcuni aspetti del metodo di Foti: «Appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della ‘Carta di Noto’». E pesanti dubbi vengono sollevati dal Riesame sulla preparazione di Foti per esercitare la professione. Su di lui, considerato un luminare in Val d’Enza – dove i servizi sociali inviavano i minori alla sua équipe nella sede della ‘Cura’ -, il giudice parla di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti, da parte di una persona che, tra l’altro – evidenzia – non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l’attività di psicoterapeuta». E si richiama quanto emerso dall’interrogatorio di garanzia, dove Foti aveva detto di avere la laurea in Lettere: «A fronte di domande incalzanti del pm sui titoli in base a cui esercita l’attività, ha addotto di avere "un riconoscimento ex articolo 85 per l’esercizio della psicoterapia", nonché di aver seguito molti corsi specialistici e aver conseguito molti titoli, in ottemperanza delle leggi vigenti. Il caso – osserva il giudice – sembra rientrare nella regolamentazione della legge 56 del 1989, che ha regolarizzato le situazioni incerte fino a quell’epoca». Il giudice accenna poi al «picco statistico di presunti abusi individuati sulla base di questa tecnica, non verosimile – rimarca – che ha dato luogo all’indagine». Due le ipotesi di reato che sono state formulate a carico di Foti, che era ricorso al Riesame contro i domiciliari. Una era la frode in processo penale e depistaggio, per la vicenda tra il 2016 e il 2017 di una ragazza che sarebbe stata da lui convinta a ricordare di aver subito abusi sessuali da parte del padre e di un giovane quand’era piccola: per questa parte c’è stato l’annullamento del Riesame perché nel frattempo la ragazzina sarebbe diventata maggiorenne e il procedimento giudiziario sui presunti abusi sessuali si è chiuso prima. L’altra riguarda l’abuso d’ufficio, in concorso con Federica Anghinolfi, Francesco Monopoli, Andrea Carletti, Nadia Campani, Barbara Canei, Nadia Bolognini e Sarah Testa, perché avrebbe esercitato la psicoterapia a Bibbiano ricavandone guadagno, ma senza che si passasse dalla necessaria gara pubblica per l’affidamento. Per quest’ultima ipotesi di reato, il giudice ravvisa i pericoli e di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. E motiva la decisione di sostituire i domiciliari, che erano a Pinerolo, con l’obbligo di dimora nella stessa località, «perché rappresenta una misura minore, ma assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere psicoterapia, e soprattutto mantenere e stringere contatti con personalità pubbliche, quali amministratori di enti territoriali, altri professionisti, assistenti sociali con la cui partecipazione potrebbe realizzare reati analoghi». Ciò alla luce del fatto che «l’attività professionale, sia sui casi oggetto del presente procedimento sia su altre persone da lui seguite con psicoterapia, veniva svolta in Emilia e in altre città, senza che risulti lo svolgimento di attività dove abita, cioè a Pinerolo». Fonte: Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino 14.8.19
L'infanzia difficile. Due scuole di pensiero duramente contrapposte. È guerra tra le associazioni che difendono i bimbi dagli abusi. Jenner Meletti il 27 febbraio 2002 su La Repubblica. La guerra prima sotterranea - o chiusa nelle aule dei tribunali - è scoppiata all´improvviso su una pagina di giornale. Un genitore di Ferrara viene assolto dall'accusa di violenza su un figlio adottivo e un consulente della difesa - il dottor Giovanni Battista Camerini, coordinatore del corso di perfezionamento sulle strategie di prevenzione degli abusi all´università di Modena - dichiara papale papale: "Le valutazioni sono state fatte solo per provare le accuse. Siamo a questo punto perché ci sono operatori che si rifanno alla metodologia Cismai: a tale categoria appartengono anche la psicologa dei servizi e la consulente del Pubblico ministero". Il dottor Camerini fa parte del Sinpia - Società italiana neuro psichiatria infantile e adolescenziale - e di Telefono azzurro, e queste associazioni si ispirano alla Carta di Noto. Dall'altra parte di quella che rischia di diventare una barricata c´è il Cismai, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l'abuso dell´infanzia. Soci Cismai, nella regione Emilia Romagna, oltre al distretto 2 di Mirandola, sono il dipartimento Servizio sociale di Cesena, il Servizio tutela infanzia e adolescenza di Imola, il Centro abusi e maltrattamenti e il Servizio tutela minori e legale di Ferrara, il Servizio area minori di Modena. "Io non vorrei - dice il dottor Camerini, stretto collaboratore di Ernesto Caffo - che si arrivasse a ragionare in termini di appartenenza, reinventando i guelfi e i ghibellini. Il Cismai è un punto di vista, non la verità scientifica che nasce solo da un confronto dialettico. Nessun problema se il Cismai fosse un´associazione che stimola il confronto. Il problema nasce quando certi tribunali nominano come consulenti soltanto chi aderisce alla dichiarazione di consenso del Cismai. Io penso che tutelare davvero i bambini significhi anche proteggerli dalle conseguenze che scaturiscono dai cosiddetti falsi positivi, vale a dire gli abusi inventati. Nel Cismai vedo invece una cultura dell'abuso tutta fondata sulla denuncia, con poca attenzione alle risorse che possono essere presenti nella famiglia. Si preferisce allontanare il minore, con il rischio di valutazioni superficiali e di decisioni affrettate". La "Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale dell'infanzia" è stata preparata dal Cismai nel 1999 ed è stata pesantemente attaccata nelle udienze dei processi per pedofilia. I punti importanti sono numerosi. "L´abuso è un fenomeno diffuso". "Il perpetratore quasi sempre nega, e spesso mancano evidenze fisiche e testimonianze esterne". "L´assenza di lesioni non può mai portare il medico ad escludere l'ipotesi di un abuso". "Quanto più un bambino è stato danneggiato dall´abuso, tanto più può essere compromessa la sua capacità di ricordare e raccontare". "Lo stesso professionista può effettuare sia la diagnosi che la cura". Anche nello Statuto del Cismai non mancano gli articoli che hanno suscitato polemiche. "I Soci sono obbligati - recita l´articolo 9 - a svolgere le attività preventivamente concordate, a mantenere un comportamento conforme alle finalità dell´associazione". Teresa Bertotti, presidente Cismai fino all´anno scorso, parla delle Commissioni dell´associazione come luoghi nei quali "si sviluppa una solidarietà e una comprensione reciproca", tutto questo "al riparo dalle critiche distruttive e dalle possibili aggressioni esterne". Gli avversari del Cismai diffondono una perizia effettuata dal professore e avvocato Guglielmo Gulotta per conto del Consiglio nazionale dell´Ordine degli psicologi, che giudica del tutto inadeguata la "Dichiarazione di consenso" del Cismai. Il documento - scrive - è composto da "una serie di enunciazioni che lasciano trasparire poche incertezze. Non viene neanche presa in esame l´ipotesi che il sospettato possa essere innocente, ma solo che "il perpetratore quasi sempre nega"". Il professore dice no a uno psicologo - poliziotto, e nega anche che chi fa la diagnosi possa poi seguire anche la cura, come previsto dal Cismai. "Oltre che inopportuno - scrive - è vietato dalla legge". Nel confronto fra le diverse "scuole" non mancano i colpi bassi. "Quelli della Carta di Noto - fanno sapere amici del Cismai - fanno i soldi come consulenti delle difesa dei pedofili". "Quelli del Cismai - fanno sapere dall´altra parte della barricata - fanno i soldi con le consulenze per i tribunali, procurate da altri soci". A volte le accuse sono scritte su carte ufficiali. "Legga questa requisitoria milanese. Tenga presente che il medico legale di cui si parla, Cristina Maggioni, è lo stesso che ha fatto 350 perizie in tutta Italia. E´ lo stesso medico che ha dichiarato abusati tutti i bambini del caso Mirandola". Pagine che fanno venire i brividi, quelle della requisitoria del Pubblico ministero Tiziana Siciliano. Una bambina dice parolacce, e la madre si rivolge al Cbm - la Casa del bambino maltrattato, casa madre del Cismai - per essere aiutata. Le parolacce potrebbero essere "sintomo di abuso". "O denunci tu o denunciamo noi, e ti portiamo via la bambina", questa la proposta fatta da un'operatrice del Cbm. Partono le indagini, la bambina viene allontanata dalla famiglia e il padre è arrestato. Sul perito, la dottoressa Maggioni, il magistrato dice: "Viene da chiedersi se sia una totale incompetente o se sia una persona in malafede. Crede evidentemente di essere in grado di sostenere con la sua semplice parola tutto quello che lei a ritenuto di valutare. Incompetente, negligente, superficiale: questo il giudizio dei periti del giudice su di lei. Queste sono perizie fatte da persone che dovrebbero cambiare mestiere". E lo stesso Pubblico ministero chiede e ottiene l´assoluzione del taxista. Altre carte vengono usate come sciabole. Un amico del Cismai replica consegnando fotocopia di un articolo apparso sulla rivista "Minori giustizia", a firma di Claudio Foti, psicoterapeuta, direttore scientifico del Centro Hansel e Gretel di Torino, pure questo associato ai Cismai. Nel mirino, stavolta, il Telefono azzurro fondato da Ernesto Caffo, uno dei leader della scuola di Noto. Qui si arriva all´insulto. "Il Telefono azzurro - si chiede lo psicoterapeuta - è un servizio sociale che i cittadini sentono necessario, come sostengono artisti, politici e uomini della strada, oppure - come pensano molti operatori dell'area del Child abuse - rappresenta il Cacao Meravigliao della tutela dell´infanzia, cioè una straordinaria operazione pubblicitaria che propone all´opinione pubblica un servizio sostanzialmente inesistente dal punto di vista della gestione concreta, efficace e continuativa dei casi di maltrattamento?". La vera fortuna del Telefono azzurro sono i giornalisti. "Il Telefono Azzurro fornisce informazioni e dati ai cronisti bisognosi di elementi sui cui produrre comunque servizi sulla violenza ai minori, e in cambio i giornalisti restituiscono notorietà e buona immagine al Telefono Azzurro". L´organizzazione "è un imbuto con il collo troppo stretto". "Da 8.000 tentativi di contatto al giorno - scrive Claudio Foti - si arriva ai 6-8 casi al giorno che si afferma di "prendere in carico", e a meno di un caso al giorno giudicato grave e - si sostiene - segnalato ai servizi socio - sanitari, alla scuola, alle forze dell´ordine, ai tribunali". Per finire, lo studioso cita il Consiglio direttivo dell´ Associazione italiana giudici per i minorenni, i quali invitano "quanti, come il principe azzurro del telefono per i bambini, intendono sputare sentenze sui metodi e sulle tecniche d´intervento rispetto ai quali nulla sanno", a preferire "la strada del dignitoso silenzio".
BIBBIANO, secondo me. Fabio Nestola su newspam.it l'11 agosto 2019. Ecco, secondo me. Come spesso accade mi trovo in controtendenza rispetto alla maggioranza dei pareri più autorevoli. Sulle vicende di Bibbiano si sono espressi parlamentari, segretari nazionali di partito e presidenti di sezioni regionali, amministratori locali, presidenti di tribunali, ordini professionali, Garanti regionali, giornalisti televisivi e di carta stampata. Minimizzare è la parola d’ordine che trasuda dalla maggior parte delle dichiarazioni ufficiali, e a seguire depistare, spostare altrove l’attenzione, nascondere il nocciolo del problema o addirittura negare che ci sia un problema. In sostanza, in troppi si sono affannati a concentrare l’attenzione sul dito e non sulla luna. Le truppe oscurantiste si sono mobilitate al grido di “in fondo non è successo niente, è solo una strumentalizzazione dei bambini per fini politici”. Un pluridirettore di TG ha liquidato la questione sentendosi a posto per aver dato la notizia dei primi indagati il 27 giugno, tacendo poi su tutto il resto. Dovere di cronaca rispettato, e visto che lui non intendeva seguire gli sviluppi dell’inchiesta, non avrebbe dovuto farlo nessun altro: chi si azzarda a parlare ancora di Bibbiano è un avvelenatore di pozzi.
Roba da stracciargli la tessera dell’Ordine. Come se la stampa mondiale avesse trattato la strage del DC9 di Ustica limitandosi alla notizia “è caduto un aereo”, calando poi un velo omertoso sugli sviluppi successivi. Era un avvelenatore di pozzi chi ha osato scrivere dei radar militari spenti, del Mig libico caduto sulla Sila, degli aerei francesi ed americani in volo, dell’ipotesi “sull’aereo c’è Gheddafi”, della teoria bomba a bordo, della teoria aereo abbattuto da un missile, della teoria cedimento strutturale, dei reperti recuperati e tutto il muro di gomma emerso negli anni successivi. È sufficiente “è caduto un aereo”, tutto il resto ad un bravo giornalista non deve interessare.
E Montanelli si rivolta nella tomba. “Quelle su Bibbiano sono solo fake news” tuona qualcuno, dichiarandosi vittima di una macchinazione ai danni del proprio partito ed esprimendo solidarietà al Sindaco arrestato, mica alle famiglie devastate. Poi vengono mobilitate falangi di avvocati per agire penalmente nei confronti di chiunque insinui coinvolgimenti politici con toni non graditi al segretario nazionale. Emergono posizioni molto critiche con la sinistra in generale e col PD in particolare, tralasciando quelli offensivi ecco un esempio tra i meno violenti, a firma Selvaggia Lucarelli sul Il Fatto Quotidiano: “La sinistra è molto più preoccupata del fatto che Bibbiano contamini il PD che del fatto che il metodo Foti abbia contaminato i tribunali di mezza Italia” e ancora “a destra si continua a parlare di “bambini che non si toccano”, a sinistra di “partito che non si tocca”. Selvaggia Lucarelli non risulta essere militante di Casapound, però nel web è stata additata come fassista ed ha sollevato un polverone di critiche per aver scritto ciò che è sotto gli occhi di tutti: c’è chi, anche strumentalmente, indossa i panni del difensore dei minori, e chi invece ha scelto di concentrarsi sulla difesa del proprio apparato. Personalmente non credo a coloro che oggi sventolano il vessillo di paladini dell’infanzia, per un motivo semplicissimo: è facile sbraitare oggi, ma quando avrebbero potuto e dovuto fare non hanno fatto ciò di cui c’era bisogno. Ed avevano tutte le informazioni necessarie.
Lontano dai riflettori la tutela dell’infanzia non è una priorità della politica, tutta senza esclusioni. Diventa argomento caldo solo in alcune fasi particolari, quando cioè i media garantiscono titoloni, interviste, servizi al TG, visibilità. E soprattutto quando serve a gettare fango sugli avversari, salvo poi scambiarsi grandi strette di mano al prossimo rimpasto di alleanze. Sono partite accuse di speculare sui bambini per accusare un partito, dimenticando o fingendo di dimenticare che in altre occasioni l’immagine di un bambino annegato è stata utilizzata per accusare la fazione opposta. E all’epoca identiche accuse di speculazione sui bambini erano partite a ruoli invertiti. Della serie: utilizzare i bambini a fini politici non si può, tranne che sia io a farlo. La Garante regionale dell’Infanzia sforna appelli a non fare di tutt’erba un fascio, gli assistenti sociali sono tutte brave persone e la categoria non può essere sfiduciata se ogni tanto qualcuno sbaglia. N.B. – lo ha detto la Garante, pagata per rilevare le violazioni dei diritti dell’infanzia, che invece si espone pubblicamente per tutelare una categoria professionale. Un presidente di tribunale è di parere diverso e lascia intendere che la responsabilità del sistema di malaffare sarebbe dei servizi sociali. Si dichiara infatti preoccupato per i suoi giudici ed annuncia che farà di tutto per stroncare la campagna d’odio costruita a causa di qualche assistente sociale infedele. Sport nazionale italiano, lo scarico di responsabilità. Quindi i giudici non c’entrano niente, come se i provvedimenti di allontanamento dei minori, lo stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità li firmassero assistenti sociali, psicologi ed assessori. Come minimo il tribunale ha legittimato una intera filiera disfunzionale fatta di condizionamento dei minori, relazioni false, ricordi costruiti a tavolino e disegni contraffatti al solo scopo di “scoprire” abusi in realtà inesistenti. Come minimo i giudici hanno avallato una montagna di falsità, incentivando la reiterazione delle dinamiche illecite. Come minimo, ad altro tacere... Grazie alla superficialità di GOT e togati gli operatori infedeli hanno potuto agire indisturbati per anni, erano tranquilli perché sapevano che nessuno avrebbe verificato, in tribunale si fidavano ciecamente, abboccavano a qualsiasi falsità.
Ma oggi il tribunale si chiama fuori, provando addirittura a passare per vittima. Si è poi aggiunta una ulteriore forzatura a-giuridica: l’affidamento di parti dei compiti di valutazione a privati, con il risultato che a valutare una presunta fragilità familiare non è più il Tribunale per i Minorenni. Il Tribunale – non solo in Emilia – ha delegato a psicologi ed assistenti sociali il compito di raccolta delle prove, valutazione della famiglia, eventuali rilevanze giuridiche. Polizia giudiziaria e magistratura possono anche andare in naftalina, gli elementi sui quali basare il processo li raccolgono gli “esperti” delegati dal tribunale, e sono sempre gli stessi “esperti” ad indicare soluzioni, misure da adottare, percorsi di sostegno.
Con tale prassi il processo ha smarrito il proprio ruolo, l’accertamento della verità. “Tra le righe si delega al Consulente il compito di cavare le castagne dal fuoco a chi deve giudicare, togliendo ai professionisti del processo il loro faticoso mestiere, che è quello di portare prove (il PM) , demolirle ponendo dei dubbi (l’avvocato) e infine decidere sulla base delle prove rimaste in piedi (il giudice) . Il consulente deve solo dirci se il bambino ha idea di cosa voglia dire testimoniare e se capisce la differenza fra vero e falso. E aiutare a porre domande che non contengano suggerimenti sulle risposte, ovvero che siano all’interno di uno schema corretto Il resto è mestiere dei giuristi” (cit. Marco Scarpati).
Ecco un’altra strategia diffusa, quella di dichiararsi parte lesa. Gli Ordini professionali annunciano la costituzione di parte civile, il diritto cioè di ottenere dei risarcimenti dai propri iscritti qualora ne fosse accertata nel processo la responsabilità penale. Alla società civile poco importa se gli Ordini chiederanno indennizzi di 50 euro o 500.000, piuttosto sarebbe interessante sapere quali misure disciplinari intendano applicare nelle more dell’iter penale. Ci sono dei codici deontologici, vogliamo dargli un’occhiata? Le cronache dicono che la prima pentita dell’inchiesta Angeli e Demoni è stata reintegrata nel proprio incarico. È un premio per aver aiutato le indagini? Tale riconoscimento spetta, eventualmente, alla magistratura sotto forma di uno sconto di pena, o all’Ordine sotto forma di “vabbé, dai, chiudiamo un occhio però prometti di non farlo più”? . Anche il Garante Nazionale per l’Infanzia annuncia la costituzione di parte civile. Anche lei, manco a dirlo, recita il copione della parte lesa; tuttavia proprio il suo ruolo istituzionale le avrebbe imposto di rilevare il problema già da tempo e segnalarlo al Governo. Non lo ha fatto. La filiera disfunzionale ipotizzata dagli inquirenti viene confermata dalle confessioni dell’ultima ruota del carro, la giovane assistente sociale che ha ammesso di aver compilato relazioni false dietro pressione dei propri dirigenti. Doveva scrivere che i bambini andavano allontanati perché la casa in cui vivevano era inadeguata, anche se in quella casa non aveva mai messo piede. Tanto non sarebbe mai stata controllata dal dirigente del Servizio, che non sarebbe mai stato controllato dall’Assessore, che non sarebbe mai stato controllato dal Sindaco. Et voilà, la frittata è servita. Emerge dagli atti d’indagine una macchina organizzativa fondata sulla sistematica falsificazione delle valutazioni sulle famiglie, con lo scopo di allontanare i minori anche quando non ci fosse alcun criterio per farlo. Una filiera strutturata su paradigmi antidemocratici ed antisociali, contrari alla Convenzione di New York del 1989, alla Carta di Noto ed a qualsiasi principio nazionale ed internazionale di tutela del minore. Un laboratorio assistenziale spacciato per best practice. dove ci si arroga il diritto di scegliere arbitrariamente in quale contesto far crescere bambine e bambini tolti senza motivo ai propri genitori, fratelli, zii, cugini, nonni.
Esperimenti di architettura sociale FFM – Famiglia Forzatamente Modificata. Acronimo che utilizzo per identificare il minore sradicato dalla propria famiglia d’origine, e collocato in un contesto forzatamente modificato ad unilaterale discrezione di chi “rileva”, anche con prove false, criticità inesistenti. Il focus è essenzialmente sui diritti del minore, meglio sorvolare sui diritti delle famiglie alle quali vengono strappati i figli poiché si dovrebbe aprire un altro fronte sconfinato. Non c’è solo Bibbiano; per decenni le famiglie hanno denunciato il sistema che sfornava FFM, e a fianco delle famiglie singoli avvocati come anche associazioni forensi, associazioni di pedagogisti, associazioni di genitori ed anche diverse interrogazioni parlamentari. I contorni del problema “allontanamenti facili” hanno cominciato a delinearsi già nel secolo scorso, con le prime inchieste su maltrattamenti ed abusi nel Forteto del Profeta a Vicchio, poi i finti abusi sessuali di Sagliano, poi 16 finti casi di pedofilia e satanismo a Mirandola e Massa Finalese … l’elenco dei casi emersi è lungo, e di quello dei casi sommersi non si può intuire la fine .
Tutti sapevano tutto, anche a livello istituzionale. C’è da stupirsi che oggi la politica si stupisca. L’attuale Sottosegretario a Palazzo Chigi Vincenzo Spadafora sapeva tutto, ma ha snobbato l’allarme. Nel 2014 gli ho illustrato personalmente, in Senato, una relazione dettagliata sulle storture del sistema di allontanamento dei minori dalle famiglie d’origine e sui trattamenti a volte irrituali che subiscono.
Sapeva quindi che non esiste un database ufficiale dei minori collocati fuori famiglia, dei tempi di permanenza, delle strutture di accoglienza laiche e religiose, dei fondi erogati a tali strutture. Sapeva che non esistono criteri certi per l’allontanamento dei minori, sapeva che le criticità delle famiglie potevano essere mistificate.
Sapeva che esistono interessi economici che proliferano nella costruzione degli abusi.
Sapeva dell’enorme potere conferito dall’art. 403 CC e sull’utilizzo non sempre cristallino di tale potere.
Sapeva persino degli abusi e maltrattamenti subiti dai minori proprio nelle strutture che avrebbero dovuto proteggerli.
Oggi tutti si indignano per Bibbiano e la politica chiede trasparenza, riforme e commissioni d’inchiesta. Tuttavia le stesse richieste sono state fatte a Spadafora da oltre 5 anni, che invece di recepire le criticità non trovò di meglio che minimizzare: “non è il caso di fare allarmismi, il Sistema tutto sommato regge”.
Eppure all’epoca era, o fingeva di essere, il Garante Nazionale per i diritti dell’Infanzia. Torniamo all’oscuramento dei fatti di Bibbiano: un tentativo di cortina fumogena che però viene diradata dai fari antinebbia accesi – principalmente sul web – per mantenere alta l’attenzione. Esiste una sostanziale differenza tra la Val d’Enza e le migliaia di situazioni simili denunciate da anni in tutta Italia, ed è nella sua genesi. L’inchiesta Angeli e Demoni nasce dalla magistratura, non dalle proteste dei cittadini come nelle mille occasioni precedenti. Il Sostituto Procuratore del Tribunale di Reggio Emilia, Valentina Salvi, ha rilevato con sospetto la mole anomala di situazioni problematiche, o presunte tali, presenti sul territorio, dalle quali nasceva l’esigenza di allontanamenti in massa dei minori dalle famiglie d’origine. Ed ha deciso di vederci chiaro, verificando gli sforzi fatti dal Sistema per autoassegnarsi l’esclusiva della bontà, ramificata ben oltre l’Emilia. Il resto è cronaca: creando un problema creo anche il diritto di potermene occupare. E brulicano le FFM. Fabio Nestola
Bibbiano, ora parla l'ex giudice: "Così funziona il sistema affidi". I servizi sociali riuscivano a togliere i bambini alle famiglie grazie al Tribunale dei Minori. Costanza Tosi, Giovedì 01/08/2019 su Il Giornale. False relazioni, accuse infondate, pretesti inconcepibili per togliere i bambini alle proprie famiglie. Ne ha viste tante, troppe l’ex giudice Francesco Morcavallo che, da settembre 2009 a maggio del 2013, ha prestato servizio al Tribunale dei Minori di Bologna. Testimone diretto dell’operato dei "diavoli" della Val d’Enza, i servizi sociali finiti sotto accusa nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Fu proprio lui, assieme ad altri due colleghi, a denunciare le irregolarità del sistema degli affidi dei minori. “Abbiamo fatto degli esposti su anomalie enormi", ci dice al telefono l’ex giudice, che denuncia: “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Un altro tassello inquietante si aggiunge al caso Bibbiano. Qualcosa, anche al tribunale dei minori, non funzionava e, a quanto pare, continua a non funzionare. Almeno secondo l’ex giudice Morcavallo. “Quando arrivano le segnalazioni dei servizi sociali non c’era e non c’è una verifica. Il giudice deve verificare due cose, che la relazione contenga dei fatti che giustifichino le valutazioni e che quei fatti siano veri. Il giudice deve accertare i fatti per capire se deve provvedere e come farlo.” Segnalazioni fatte da Morcavallo che, proprio per questo, è stato punito. “Ci sono stati dei veri e propri provvedimenti nei miei confronti poi, successivamente, annullati dalla cassazione. L’ex giudice è un fiume in piena. Dopo le anomalie ha deciso di lasciare il tribunale dei minori. Troppe cose non tornavano. “Non ce la facevo più. É doloroso trovarsi ad operare consapevole di essere al centro di un sistema del genere, senza riuscire a fare niente. É disumano. Ho dovuto dimettermi.” Morcavallo ha più volte lanciato grida d’aiuto. “Io e altri due colleghi abbiamo denunciato tutto al Csm, alla Procura Generale, alla Corte di Cassazione, a tutte le autorità di garanzia. Ma nulla. Nessuno si è mosso. Per fortuna ci ha pensato la procura di Reggio Emilia". Ma, per Morcavallo, che è tornato a fare l’avvocato e a difendere le famiglie “abusate”, “il problema è che in queste istituzioni operano gli stessi referenti politici dei gestori di questo sistema assurdo". Istituzioni, il cui compito sarebbe quello di vigilare. Verificare che i giudici controllino i fatti. E che, invece, secondo le parole di Morcavallo, i fatti se li facevano sfuggire o, nella peggiore delle ipotesi, li coprivano. "Ha sentito un magistrato, un presidente di un tribunale, un componente del Csm, chiedere scusa? Non dico dimettersi. Solo chiedere scusa. Non è stato fatto. Qualcuno è arrivato persino a dire “io sono la vittima”, che credo sia anche offensivo per le vere vittime di questo sistema".
Ecco come funzionava il sistema. “Facevano subito un provvedimento urgente che, come minimo, era di affido del bambino ai servizi sociali. Questo è come dire ai servizi sociali da questo momento tu, fai quello che vuoi. Sottoporre il bambino a terapie, fagli fare dei percorsi in cliniche diagnostiche, terapie psicofarmacologiche, molto spesso addirittura lo allontanavano - dice l’ex giudice - disponevano che venisse portato in una casa-famiglia.” Da lì iniziava l’inferno delle famiglie. Fatto di controlli, terapie, visite mediche e, a volte, anche di lunghi processi penali. Processi che spesso finivano per non risolvere la situazione. Tanto che, come testimoniano i genitori nelle storie che vi abbiamo raccontato, molte volte nonostante l’assoluzione del padre o della madre nella sala di tribunale, i bambini restavano affidati ai servizi sociali. Perché se le accuse degli psicologi nei confronti dei genitori venivano smentite quei bambini non tornavano a casa? Semplice. “Innanzitutto, la verifica del tribunale dei minori è autonoma da quella del tribunale penale ed è molto più lenta. Ma il punto è che subentrano degli altri fattori di valutazione che non dovrebbero subentrare.” Il procedimento riparte da zero, con ulteriori verifiche e periodi di osservazione. Ma, soprattutto, nuove relazioni che suggeriscono la decisione da prendere. “Il punto è che le relazioni vengono fatte dalle associazioni che seguono il bambino preso in causa, dalla casa-famiglia in cui vive… dagli stessi che hanno tutto l’interesse che la situazione rimanga invariata, che non vogliono che il bambino torni a casa. I soggetti sono gli stessi che sperano che gli affidamenti siano tanti e lunghi", afferma ancora l’ex giudice. Insomma, perfino dopo le sentenze dei tribunali gli assistenti sociali erano liberi di continuare la loro battaglia per portare avanti i propri interessi. E a conferirgli il potere erano proprio i giudici del tribunale dei minori. Così, d’altronde, dice la legge. "Il potere glielo danno i giudici - spiega Morcavallo - L’assistente sociale di per sé non ha uno strumento per fare questo certo tipo di cose. O, comunque, non ha uno strumento per farle in modo durevole. L’unica cosa che consente la legge, oggi, all’assistente sociale è la possibilità, in caso di emergenza, di prendere un bambino e allontanarlo dalla famiglia ma per il periodo dell’urgenza. Vale a dire massimo pochi giorni. Periodo che, per essere prolungato necessita di una decisione di un giudice. I terapeuti, gli psicologi, non hanno assolutamente gli strumenti giuridici per costringere la famiglia a soggiacere a quel trattamento". Ma i giudici sapevano o non sapevano cosa si nascondeva sotto le false relazioni lasciate passare senza la minima esitazione? Al momento non ci è dato saperlo. “In ogni caso è comunque grave. - Ci tiene a sottolineare l’ex giudice - A un giudice che dorme io non affiderei neanche una bambola, figuriamoci un bambino…". Ma per Morcavallo l’alibi della buona fede lascia il tempo che trova. "Mi domando solo se sia possibile che dormissero se sono dieci anni che gli viene detto che non devono fare in questo modo, che non devono prendere per buona la relazione, ma devono verificare i fatti". In Italia, ma soprattutto a Bologna dove, i casi di bambini strappati illegalmente alle proprie famiglie, ce ne sono stati tanti. Oggi come in passato.
"Io vittima come Bibbiano". E l'avvocato si sdraia davanti palazzo Chigi. L'avvocato Carlo Priolo stamattina ha protestato davanti a Palazzo Chigi per denunciare l'esistenza di un sistema di presunti affidi illeciti anche a Roma. Francesco Curridori, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. L'avvocato Carlo Priolo, insieme alla sua assistita, stamattina davanti a Palazzo Chigi è stato protagonista di una protesta con la quale ha cercato di denunciare l'esistenza di un sistema di presunti affidi illeciti anche a Roma. Una situazione che ricorda l'inchiesta 'Angeli e Demoni' di Bibbiano e su cui l'avvocato ha voluto puntare l'attenzione dei media gettandosi a terra di fronte agli agenti di polizia di guardia all'ingresso di Palazzo Chigi. Priolo è, infatti, il difensore di una madre a cui nove anni fa è stato sottratto il figlio che, ora, di anni ne ha 13. La donna è al centro di una vicenda giudiziaria che prosegue a suon di perizie degli assistenti sociali e sentenze. L'ultima è arrivata proprio oggi e ha dato ragione all'ex marito della donna che ha ottenuto l'affidamento esclusivo del loro figlio, mentre per l'assistita di Priolo sono stati disposti degli incontri protetti ogni 15 giorni. "È una "sentenza vergogna". Mi hanno tolto la potestà genitoriale, mi hanno diagnosticata come 'Simbiotica' ovvero troppo affettiva (Pas), mi hanno tolto mio figlio", afferma la donna. "Mi tolgono mio figlio per un eccesso di affetto", continua la donna che si sente vittima di "un caso simile a quello di Bibbiano". "Chiedo di parlare con il ministro della Giustizia Bonafede e con il presidente del consiglio Giuseppe Conte", ha concluso la madre disperata che da tempo denuncia l'esistenza di ""sequestri di Stato" in tutta Italia".
Sistema Italia. Violazione dei diritti umani e burocratizzazione del sistema.
Affidi illeciti all'altro genitore. Marcello Adriano Mazzola, Avvocato e scrittore, su Il Fatto Quotidiano il 30 gennaio 2013.
Diritto alla bigenitorialità, la Corte Europea condanna l’Italia. Era ora. Finalmente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo palesa ciò che si sa da molto tempo e si finge di non sapere. L’Italia è stata condannata – in un caso identico a quello noto di Cittadella di qualche mese fa, caso in realtà molto diffuso -, per non avere predisposto un sistema giuridico (e amministrativo) adeguato a tutelare il diritto inviolabile del genitore (nella specie e quasi sempre il padre “separato”) di esercitare il naturale rapporto familiare col figlio. Con la sentenza Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, 29 gennaio 2013 (Pres. Jočienė), Affaire Lombardo c/ Italia si osserva che dall’art. 8 della Convenzione, derivano obblighi positivi tesi a garantire il rispetto effettivo della vita privata o familiare. Questi obblighi possono giustificare l’adozione di misure per il rispetto della vita familiare nelle relazioni tra gli individui, e, in particolare, la creazione di un arsenale giuridico adeguato ed efficace per garantire i diritti legittimi delle persone interessate e il rispetto delle decisioni dei tribunali. Tali obblighi positivi non si limitano al controllo a che il bambino possa incontrare il suo genitore o avere contatti con lui ma includono l’insieme delle misure preparatorie che permettono di raggiungere questo risultato. In particolare per essere adeguate, “le misure deputate a riavvicinare il genitore con suo figlio devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui”. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche.
Il caso Lombardo c/ Italia, – come si può ricavare nel fatto della sentenza leggibile in francese – rende palpabile e avvertibile con dolore profondo, il dramma esistenziale di un uomo che per anni ha dovuto ricorrere all’infinito ai giudici, con un esborso economico notevole (evento che anch’esso può segnare il destino di un uomo) per ottenere l’esercizio (e dunque il riconoscimento del diritto inviolabile, poiché non può esservi il diritto se viene riconosciuto formalmente ma violato nella sostanza) del diritto alla bigenitorialità, nella specie paterna, dopo che il tribunale gli ha riconosciuto le modalità per esercitarlo. Il caso è identico a quello di Cittadella, connotato da una madre che dopo la separazione impedisce con ogni mezzo al padre di vedere il figlio, alienando la figura paterna, compiendo ben due crimini: uno contro il figlio indotto a crescere in modo innaturale, privo del riferimento fondamentale di uno dei due genitori; il secondo (spesso trascurato ove non ignorato) contro il padre violato nel suo diritto più sacro e forte, quello del rapporto padre-figlio. Un caso da manuale, poiché chi tratta il diritto di famiglia ben sa che rientra in una casistica assai diffusa. Casistica che vede spesso la madre “separata” artefice di tale condotta, in danno del padre. Come raccontano gli esperti, mentre una tale gravissima condotta vedeva sino all’inizio del secolo artefici i padri verso le donne, dalla seconda metà del ‘900 in poi pare che tale potere sia stato conquistato dalle donne. Chi tratta il diritto di famiglia (magistrati ed avvocati in primis, poi i consulenti e gli assistenti sociali) ha una responsabilità enorme poiché gestisce non diritti di crediti ma diritti inviolabili. E’ necessario dunque che sia dotato di straordinaria capacità, formazione, etica professionale, equilibrio ed onestà intellettuale. Non ultimo, intuito. Molte volte mi sono imbattuto in magistrati e avvocati incapaci di gestire il conflitto e con tale mediocrità o con insulsa piaggeria, decidere di formalizzare l’affido condiviso ma sostanzialmente realizzare un affidamento esclusivo (mascherato dall’ipocrisia del genitore collocatario, nel 90% dei casi la donna secondo i dati resi noti nei convegni, relegando il diritto di visita del padre e dei contatti col figlio al 15%). Può dirsi “condiviso” un diritto alla bigenitorialità funzionale al 15%, gravato dalla servitù di versare un assegno di mantenimento (spesso utilizzato dalla madre con disinvoltura) indiretto (quando la ratio delle legge è il mantenimento diretto), espropriato interamente dell’abitazione e ridotto (se dotato di reddito medio) alla povertà, infine privo di un sistema (come denuncia la Cedu ora) di tutela adeguato del diritto già così compresso? L’auspicio è che si esca ora da questo velo di grave ipocrisia che connota tale materia e si riequilibri il sistema che sta causando ogni anno migliaia di vittime bianche, atteso che non c’è nulla di più straordinario, intenso, sublime, indissolubile del rapporto tra un genitore ed il figlio.
Affidi illeciti a terzi. Forum di Avvenire. Bimbi tolti ai genitori: ma è crudeltà o tutela? Lucia Bellaspiga e Luciano Moia, domenica 21 luglio 2019 su Avvenire. Il caso degli affidi illeciti a Bibbiano riapre gli interrogativi sul sistema di protezione dei piccoli. Il dibattito di Avvenire con sette esperti nel campo della tutela dei minori. Bambini dati in affidamento con procedure sospette, procedimenti viziati da metodi di ascolto suggestivo per non dire capzioso, famiglie senza diritto alla difesa. E poi servizi sociali appaltati a cooperative esterne, libere di agire in modo arbitrario, quasi senza controlli, consulenze tecniche d’ufficio affidate a psicologi e pedagogisti che ignorano le linee guida degli ordini professionali, giudici onorari in sospetto di conflitto d’interesse per aver ricoperto incarichi nelle strutture d’accoglienza a cui loro stessi destinano i minori allontanati dalle famiglie. Cosa sta succedendo al nostro sistema di tutela dei minori? Il caso Reggio Emilia è isolato o ha rivelato prassi diffuse, una routine orientata al peggio che produce ingiustizie e sofferenze?
Per riflettere su vizi e virtù del nostro diritto minorile abbiamo chiesto aiuto agli addetti ai lavori, giudici, magistrati, avvocati, neuropsichiatri infantili. Giovedì scorso, per quasi tre ore, hanno discusso con noi Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano; Ciro Cascone, procuratore capo della Procura per i minorenni di Milano; Patrizia Micai, avvocato, Reggio Emilia; Rosanna Fanelli, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio; Luisa Francioli, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano; Maria Carla Barbarito, avvocato di Milano, curatore speciale minori; Stefano Benzoni,neuropsichiatra, Policlinico di Milano. A condurre il dibattito, dopo l’introduzione del direttore Marco Tarquinio, alcuni giornalisti di “Avvenire”.
MARIA CARLA GATTO, presidente Tribunale minorenni Milano: «I numeri ci dicono che non abbiamo bisogno di trovare bambini da mettere in famiglie, ma di famiglie affidatarie disponibili ad accogliere i bambini. L’ultimo dato disponibile dei bambini fuori casa è del 2014: in Italia 2,6 minori per mille residenti, uno dei dati più bassi in Europa. Dobbiamo capovolgere l’assioma. E quando i bambini non possono essere collocati in famiglia vanno inevitabilmente in comunità. Chi decide quando? Arriva la segnalazione dalla società civile ma, tra tutte le segnalazioni che arrivano alla Procura, meno della metà arrivano al Tribunale. Da qui partono i procedimenti e si mandano le segnalazioni alle parti, sulla base del giusto processo. Ci sono situazioni di emergenza, violenza, abusi, abbandoni, in cui l’urgenza impone di abbreviare i tempi. In ogni caso gli interventi sono sempre complessi e delicati, e hanno bisogno di competenza e di specializzazione. Ma non ci può essere specializzazione e competenza se non c’è formazione: questo problema riguarda tutti, autorità giudiziaria, servizi sociali, magistrati, avvocati. Altro problema è la delega a terzi dei servizi. «Non è certo garanzia né di specializzazione né di competenza. E questo è un profilo su cui dobbiamo confrontarci. Perché in situazioni complesse, come quelle evidenziate nelle famiglie fragili, che si inseriscono in una realtà complessa come la nostra società, tutto diventa difficilissimo, compresa l’educazione dei figli. Il tribunale per i minorenni cerca di 'fare la regia' di queste situazioni di fragilità, con l’obiettivo di ridurre quanto più possibile i casi di allontanamento». Le famiglie sono adeguatamente rappresentate? «Noi a Milano cerchiamo fin dal primo momento di impostare il procedimento sulla base del giusto processo, offrendo cioè alle famiglie ampie possibilità di contraddittorio. Certo, perché tutto funzioni al meglio è necessario che ogni tribunale abbia risorse e personale adeguato, ma quasi sempre non è così, gli organici sono assolutamente insufficienti. Quante volte non possiamo fare notifiche perché non abbiamo personale sufficiente! Segnalare queste carenze al ministero? L’abbiamo fatto decine e decine di volte. Non ci rispondono neppure». Eppure non dobbiamo mollare. «Dobbiamo lavorare tutti insieme, schierarci dalla parte delle famiglie e dei bambini, ricercare 'con' i genitori e non 'contro' i genitori, soluzioni accettabili e condivise da tutti. Il criterio di fondo dev’essere chiaro: sostenere le famiglie per quanto possibile all’interno delle famiglie stesse. Il mio successo di giudice minorile è quello di lasciare il bambino all’interno della propria famiglia, aiutandola a superare i momenti di difficoltà. Purtroppo, però, non sempre è possibile».
LE SUE PROPOSTE:
1) Garanzia di giusto processo nel procedimento minorile: l’assenza di norme chiare che regolamentino le varie fasi non dipende da noi ma dal legislatore.
2) Abolire il Tribunale per i minorenni e istituire invece il Tribunale della famiglia? No, non basterebbe. Vorrebbe dire perdere la specializzazione messa insieme in tanti anni. L’esternalizzazione dei servizi invece ha fatto decadere il livello: le gare si fanno sempre al ribasso.
3) Procedure più adeguate e tempi certi nella giustizia minorile sono la mia battaglia.
CIRO CASCONE, procuratore della Procura minorenni di Milano: «Se avessimo sufficienti famiglie affidatarie, le comunità non avrebbero motivo di esistere. I dati? Sono quelli del Garante Infanzia». Modificare l’articolo 403, che dà troppo potere ai servizi sociali nell’allontanare i bambini dalle famiglie? «La norma (articolo 403) è del 1941 e non è mai stata modificata, varie proposte di riforma non hanno mai trovato le convergenze necessarie e alla fine tutto è rimasto uguale. Anche l’Associazione italiana dei magistrati minorili (Aimmf) ha presentato una proposta articolata per superare questo problema, ma siamo ancora fermi. Certo, ci sono situazioni che impongono all’autorità pubblica di intervenire in tempi rapidi per risolvere situazioni di emergenza e gli interventi non si possono rimandare: la legge non prescrive in quei casi di segnalare l’intervento alla Procura dei minorenni, così in alcuni casi avviene – a Milano sempre – in altri no». Non sarebbe quindi urgente prevedere una procedura univoca, con tempi certi, valida per tutti i tribunali? «Certamente sì, ma per farlo occorre modificare la legge. Attenzione, però, stiamo parlando di pochi casi all’anno, a Milano (ovvero tutta la Lombardia ovest) circa cento l’anno. Nel 2018, su 7.100 segnalazioni, abbiamo aperto circa 2.500 procedimenti e le richieste di limitazione della responsabilità genitoriale sono state poco più di mille». L’ingerenza dei servizi nelle vite familiari non è esagerata? «Quando c’è il fondato sospetto, o addirittura dati di fatto, che dicono che in quella casa i bambini vivono in mezzo ai topi, l’ingerenza è necessaria». Ci sono però disfunzioni in questa procedura? «Sì, a cominciare dall’art. 1 della legge 184, al punto in cui si dice che se ci sono problemi familiari che non garantiscono il diritto del minore a vivere in famiglia, lo Stato deve intervenire con sostegni "nei limiti delle risorse disponibili". E le risorse non sono mai sufficienti. Ogni giorno facciamo un lungo elenco di richieste ai servizi e la risposta è sempre quella: 'Non ci sono le risorse'». Il fondato sospetto non porta a volte ad allontanamenti poco motivati? «Il 'fondato sospetto' mi deve spingere ad aprire l’inchiesta: di fronte alla relazione di un assistente sociale, il compito del procuratore è sempre quello di verificare i fatti, capire se è davvero capitato quello che mi sta descrivendo. E poi devo chiedermi: partendo dai dati che ho messo insieme, com’è possibile ricostruire una relazione? Perché questo rimane l’obiettivo di tutto il nostro sistema».
LE SUE PROPOSTE:
1) Più risorse per i servizi, per la famiglia e l’infanzia. Risorse anche per l’autorità giudiziaria e, in particolare, per l’informatizzazione dei dati.
2) La normativa oggi lacunosa deve prevedere meglio ciò che oggi, in alcuni tribunali, si fa per prassi costituzionalmente orientata.
3) Tribunale per i minorenni sì o no? Forse prima dobbiamo chiederci: possiamo arrivare a un Tribunale della famiglia e delle persone con la stessa elevata specializzazione che abbiamo nei Tribunali per i minorenni? Oggi il problema è che ci siano più giudici che hanno competenze quasi identiche sui minori.
PATRIZIA MICAI, avvocato a Reggio Emilia: «È grave che non esista una banca dati nazionale. Per raccogliere i dati sui minori fuori casa abbiamo tre fonti diverse, dunque la raccolta non è omogenea». Quanto al super potere degli assistenti sociali? «A me pare che il loro potere sia fuori controllo. Un potere di fronte al quale le famiglie non hanno quasi possibilità di intervento. O meglio, la possibilità ci sarebbe, la querela di parte contro l’operato dei servizi stessi, ma per questo la famiglia deve pagare un avvocato, con costi e tempi tutt’altro che certi. Ricordo che non c’è un contraddittorio paritetico fin dall’inizio e questo mina alla base il diritto di difesa da parte della famiglia. Non si può rispondere ogni volta con una querela per falso e così i provvedimenti, anche quelli urgenti, sono in teoria provvisori ma diventano invece lunghissimi, anni e anni. Se nel diritto penale il pm ha 48 ore per confermare il fermo, non si vede perché nel diritto minorile non si debba avere la stessa fretta: quando un errore riguardo a un bambino, la famiglia viene distrutta. Quindi possiamo dirlo: ci sono termini troppo discrezionali. Dobbiamo lavorare tutti insieme per modificarli». Per quanto riguarda il metodo di interrogatorio dei minori, è corretto parlare di protocolli troppo generici? «Occorre senza dubbio fare chiarezza. Esistono linee guida rigorose, c’è la Carta di Noto, ma purtroppo non si è obbligati a seguirla, tanto che si sono varie associazioni legate al Cismai che usano il metodo del 'disvelamento progressivo' e in alcune regioni queste posizioni culturali sono preponderanti». Sostenere le famiglie, anziché allontanare i minori: si fa davvero di tutto? «Benissimo parlare di recupero delle risorse familiari, quando è possibile. Ma dobbiamo essere tutti d’accordo nel perseguire questo intento positivo: giudici, avvocati, psicologici e assistenti sociali. Non sempre è così scontato». Com’è possibile che a genitori assolti nel penale siano comunque sottratti i figli? «L’inadeguatezza del sistema si traduce anche in queste situazioni di contraddittorietà. Spesso tra giudizio penale e civile ci sono sentenze inconciliabili, e allora per mia esperienza diventa difficile riuscire a capire le decisioni di un Tribunale per i minorenni, non solo rispetto alla sentenza, ma anche rispetto al merito. E quando c’è questa contraddittorietà si creano situazioni difficilmente gestibili. Nel caso delle adozioni, per esempio. Quando, dopo anni, si riconosce l’ingiustizia di una condanna inflitta a un genitore a cui erano stati tolti i figli, come facciamo a riprendere quei minori e a ributtarli nelle famiglie di origine? È talmente enorme questo dramma da richiedere una riflessione molto attenta. Come ci possono essere pronunciamenti così in contrasto? In uno Stato civile questo non può avvenire».
LE SUE PROPOSTE:
1) Giusto processo con contraddittorio paritetico per garantire il diritto alla difesa della famiglia. Oggi non c’è.
2) Soppressione del Tribunale per i minorenni e istituzione del Tribunale della famiglia con competenze specifiche anche degli avvocati.
3) Abolizione dell’articolo 403 del codice civile (allontanamento coatto dei figli dalla famiglia sulla base della valutazione dei servizi sociali).
ROSANNA FANELLI, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio (genitori separati): Mancano i dati, lo abbiamo detto. «Ma al di là dei numeri ci sono vite umane, non dimentichiamolo. E non dimentichiamo che l’Italia ha accumulato molte condanne dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) proprio perché le nostre istituzioni si intromettono nella vita familiare in maniera spropositata, violando l’articolo 8 della Convenzione internazionale per i diritti dell’uomo». Troppo potere agli assistenti sociali, dunque? «Certo, l’articolo 403 del Codice civile va sicuramente modificato. Io sono portavoce di un’associazione che raccoglie situazioni in cui l’indebita ingerenza dei servizi sociali nella vita delle famiglie è un dato assodato, non un’impressione. Non si tratta di errori giudiziari ma di orrori giudiziari, e le continue condanne della Cedu rappresentano un costo economico intollerabile per la collettività. Non possiamo trincerarci dietro il fatto che un ufficio funziona o non funziona: è il sistema nel suo complesso che non funziona». L’esternalizzazione dei servizi è uno dei gravi problemi? «Certo, la norma è assolutamente da cambiare. Non si può dare a un soggetto che non fa parte dell’amministrazione pubblica, il potere di decidere la vita delle persone. I maltrattamenti dei bambini ci sono sempre stati, ed ovviamente esistono provvedimenti giustificati e tempestivi, ma ci sono anche bambini che non godono di queste attenzioni, che dopo essere stati maltrattati in famiglia continuano ad essere maltrattati nelle comunità. E ai quali per di più vengono recisi tutti i rapporti familiari. Noi avvocati ascoltiamo il dramma di questi bambini e cerchiamo di dare loro risposte, ma non sempre è possibile. Conosciamo situazioni limite, casi giudiziari assurdi, come quelli di bambini tolti alle famiglie per conflittualità coniugale di genitori già separati, ma queste sono ingerenze illecite. Stiamo lasciando troppo spazio a operatori, assistenti sociali, "ctu" (consulenti tecnici d’ufficio) che non hanno la competenza necessaria». Le ingerenze quindi ci sono? «Quando un assistente sociale, o uno psicologo, stende una relazione e la manda a un giudice, quella diventa legge. E non c’è possibilità di cambiare le cose, se non a prezzo di sforzi terribili sul piano giudiziario e su quello economico. Conosciamo bene il ruolo di "perito peritorum" del magistrato, ma difficilmente un magistrato si prenderà la responsabilità di dissentire rispetto alla posizione del suo perito. E intanto passano anni e le posizioni si consolidano. Esistono casi noti e terribili».
LE SUE PROPOSTE:
1) Abolizione dell’articolo 403. E riappropriarsi dei ruoli e delle competenze delle varie professionalità.
2) Estendere e consolidare le garanzie: diritto alla difesa, contraddittorio paritetico nel rispetto del dettato costituzionale.
3) Estendere la qualità del lavoro giudiziario, con l’accertamento delle responsabilità, comprese le garanzie risarcitorie a favore delle famiglie in caso di giudizio errato.
LUISA FRANCIOLI, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano: ingerenza dei servizi sociali sulla famiglia? «Io l’ho vista solo quando è necessaria: nessuno desidera aprire un procedimento giudiziario per una volontà di ingerenza, si apre un caso quando c’è una situazione di pregiudizio. E gli allontanamenti in comunità sono sempre motivati, per le situazioni drammatiche, mentre in altre situazioni viene fatto solo dopo un’indagine». Troppo potere ai servizi sociali? «Non mi pare, sono senz’altro i primi che intervengono e sono quelli che hanno il dovere di riferire ai giudici, ma non è che i giudici si attengono semplicemente a quello che riferiscono i servizi sociali, ci sono anche le relazioni dei consulenti, dei periti, eccetera. Non è una posizione univoca. D’altra parte sulle difficoltà, sull’incompetenza e sulle carenze d’organico siamo tutti d’accordo». Quali allora le disfunzioni del sistema? «Anche il fatto che l’attività dei servizi sociali venga appaltata a cooperative esterne è un grosso problema. Sono invece in disaccordo sul fatto che le famiglie non siano adeguatamente rappresentate nel momento del contraddittorio».
LE SUE PROPOSTE:
1) Maggiori risorse, altrimenti tutto continuerà a funzionare male.
2) Maggiore professionalità da parte di tutte le categorie.
3) Individuazione di un procedimento che dia maggiori garanzie, uguali tra tutte le procure italiane.
MARIA CARLA BARBARITO, avvocato a Milano, curatore speciale minori: «Non ho mai visto una volontà esplicita da parte degli avvocati o degli assistenti sociali di creare problemi o di ingerenza. Mi sono invece resa conto che c’è una differenza abissale tra procura e procura, tra regione e regione. Io personalmente non ho mai visto le situazioni marginali e drammatiche che sono state descritte stasera (l’inchiesta "Angeli e Demoni" di Reggio Emilia o "I Diavoli della Bassa" del Modenese, ndr)». Eppure le falle del sistema sono emerse con drammaticità, in certi casi. «Sugli interventi necessari per rimediare alle falle, che certamente esistono, credo che qui siamo sulla strada giusta: dobbiamo fare fronte comune per arrivare a riconoscere in ogni caso il diritto di un contraddittorio paritetico e di difesa per le famiglie nel momento dell’allontanamento del bambino. Urgono poi tempi più rapidi per l’avvio del procedimento ed è necessario migliorare la competenza di tutti gli operatori, eliminando i conflitti di interesse. Poi certamente ci sono molti ambiti su cui non dobbiamo stancarci di lavorare, per esempio definire un maltrattamento è un fatto complicatissimo, che richiede mille cautele. Più aumenta la competenza, più si lavora in modo concorde, meglio è per tutti.
LE SUE PROPOSTE:
1) Una maggiore competenza di tutti nell’ascolto dei minori, con garanzie del contraddittorio e giusto processo.
2) Tempi certi e non eterni nei procedimenti.
3) Non credo che il Tribunale per i minorenni vada abolito. Occorrono invece molte più risorse.
STEFANO BENZONI, neuropsichiatra del Policlinico di Milano: «Non è un problema soltanto di giustizia, ma di società in generale e di politica. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto un aumento esponenziale dei bambini che hanno problemi di carattere psichiatrico... e nello stesso tempo sono diminuite le risorse pubbliche per affrontare queste situazioni. Proprio mentre le famiglie sono sempre meno attrezzate per risolvere autonomamente i problemi. Se questa è la situazione generale, inevitabile che anche il sistema della giustizia minorile sia in sofferenza». Ma lo stato di necessità coinvolge tutti, dagli assistenti sociali ai consulenti tecnici d’ufficio. «Non dimentichiamo che al centro di ogni accertamento ci devono sempre essere gli interessi del bambino e della famiglia. In queste settimane abbiamo letto critiche feroci ai metodi seguiti dai Servizi sociali di Reggio Emilia. Quando c’è in gioco la tutela di un bambino o l’ipotesi di un maltrattamento, un abuso, c’è in gioco un bene superiore. Ma un’indagine psicosociale presenta una complessità cento volte maggiore rispetto a un’indagine medica, perché ciò che vogliamo accertare è molto più fluido rispetto a una diagnosi di malattia. Stiamo parlando di questioni che profondamente attengono all’idea di vita buona rispetto ai valori particolari di ogni singola famiglia. Questa idea non è dicotomica: bianco o nero. Quindi rispondere alla domanda, "cos’è un’indagine psicosociale accurata su un minore?" merita rigore e complessità, non risposte urlate e violente. Chi opera in questo sistema non deve avere conflitti di interesse, deve seguire le linee guida nazionali per quanto riguarda gli interventi su famiglie e bambini in situazioni di vulnerabilità. Linee guida che sono rigorose e precise. Uno dei criteri fondamentali è quello di mettere al sempre al centro gli interessi e i valori della famiglia, senza ingerenze indebite». Ma purtroppo non succede sempre così, non è vero? «No, purtroppo spesso prevalgono le cattive prassi, legate all’incompetenza, al degrado del sistema, ma anche alla scarsità di mezzi e alle routine negative. Dobbiamo saper rilevare le risorse delle famiglie, non solo i loro problemi, questa deve essere la finalità comune. Raccontare che l’obiettivo del sistema è quello di togliere i bambini alle famiglie diventa fuorviante». I protocolli non sono troppo generici e quindi a rischio di interpretazioni arbitrarie? «Per fortuna che i protocolli sono generici, perché devono fornire principi e orientamenti metodologici: abbiamo capito che l’iperspecializzazione porta ad aberrazioni nel giudizio clinico. Ciò non vuol dire che non serva una preparazione specialistica, ma il linguaggio tecnico deve servire a migliorare il contatto umano. Un lavoro di esplorazione di storia familiare costruita in termini partecipativi e collaborativi non si improvvisa, si costruisce se il professionista ha una specifica formazione all’ascolto attivo, se sa mettersi nei panni dell’altro. Nel campo dei maltrattamenti le sfumature sono infinite. Se mettiamo tra parentesi i fatti penali, una coppia di manager che trascura i figli, che non trova mai tempo di stare con loro, che li lascia davanti alla playstation con quattro tate diverse, è una coppia maltrattante anche se abita in un attico di 400 metri quadrati o no? Ecco perché il concetto di maltrattamento è fluido. Ed ecco perché un’indagine psicosociale seria deve mettere in luce le carenze di una famiglia ma anche le sue risorse, i suoi punti di forza. E questo riguarda soprattutto le famiglie con fragilità. Se non ho una cultura positiva delle risorse delle persone, avrò sempre uno sguardo negativo sulle cose».
LE SUE PROPOSTE:
1) Maggiori risorse umane ed economiche.
2) Un registro nazionale che ci dica quanti bambini sono in comunità, che esigenze e che punti di forza hanno.
3) Implementazione delle linee guida nazionali, che sono un vero patrimonio culturale del nostro sistema di accoglienza e tutela dei minori.
Il Sistema Italia. Tg2 post del 7 Agosto 2019. Bibbiano. Come funziona il Sistema degli Affidi nel resto d'Italia.
Maria Antonietta Spadorcia: Avv. Morcavallo come si risponde a questa domanda? E soprattutto perchè lei ha lasciato la Magistratura?
Avv. Francesco Morcavallo, del Foro di Milano, ma di origini calabresi, ex magistrato del Tribunale dei minori: Proprio per reagire al silenzio delle Istituzioni e delle Autorità di Garanzia su questo tipo di mancanze della Giustizia Minorile. Cioè, lo strumento con cui queste persone hanno operato, ora con le caratteristiche specifiche del caso di Bibbiano, è lo strumento dei provvedimenti del Giudice Minorile. Provvedimenti del Giudice Minorile emessi non riguardo a fatti, ma riguardo a segnalazioni, impressioni, valutazioni, che non sono state verificate. Possono essere valutazioni svolte in malafede, o valutazioni sbagliate, o valutazioni generiche.
M.A.S: Qual è il caso in particolare che l'ha colpita ed ha preso questa decisione? Una decisione importante.
F.M.: Mah, il caso che fu emblematico, ma che fu soltanto la goccia che fece traboccare il vaso fu la vicenda della morte di uno di quei gemellini nella piazza Maggiore di Bologna. Rispetto alla quale si pretese di reagire subito, allontanando l'altro bambino dalla famiglia, mentre ancora non si sapeva nemmeno cosa cosa era successo. Io mi opposi e denuncia questa situazione assieme ad altri colleghi, o meglio, assieme ad altri solo due colleghi. Un magistrato, Guido Sanzani, e un giudice onorario di allora, Mauro Imparato, che oggi ha nuovamente parlato di quelle situazioni lì. E, invece, il Presidente di allora ed altri colleghi rimasero violentemente, reagirono violentemente arroccandosi sulla posizione che è quella di quel Tribunale Minorile, ma anche di altri Tribunali Minorili italiani. Cioè: si decide sulla base della valutazione degli assistenti sociali e psicologi senza verificarla, senza verificare i fatti. E questo porta alle violazioni dei Diritti Umani che sono state compiute e rilevate dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Alessandra Forte, giornalista del TG2 Cronaca: A me quello che è rimasto veramente colpito è quello che diceva l'avvocato, comunque. Il fatto che si asaltata totalmente tutta la catena di controllo. Mi sembra assurdo, Poi lui ci sta raccontando che anni fa si è dimesso dalla Magistratura; ani fa ha fatto queste denunce. Quello che mi colpisce è il silenzio assoluto istituzionale a cui abbiamo assistito.
F.M.:E denunciandole in tutte le sedi istituzionali questo tipo di situazioni.
M.A.S: Morcavallo c'è un Sistema? Perchè dalle parole è rimasto colpito dalle parole di questa...(assistente sociale pentita del caso Bibbiano).
F.M.: Colpito nel senso che sono parole gravi, ma sono parole di situazioni note. Quello che questa assistente sociale dice è vero. Prevale una funzione di intervento. Di intervento al buio. Il provvedimento di affidamento dei bambini al servizio sociale in Italia, sono numeri del Garante dell'Infanzia, che finora si è mosso per dare solo numeri. Quindi non è tacciabile di averli esagerati, per il resto non ha tutelato nessuna posizione di Diritto di minorenni. Sono 500 mila. E affidamento al Servizio Sociale significa dare un mandato in bianco che consente ad un operatore o ad uno psicologo di prendere il bambino e portarlo a ricevere trattamenti diagnostici, terapeutici, psicofarmacologiche, di ogni tipo senza il consenso dei genitori.
M.A.S: C'è un Sistema Bibbiano, lei ha parlato di Bologna, c'è un Sistema Bibbiano oppure c'è un Sistema che riguarda un po' tutto.
F.M.: Ci sono dei Servizi Sociali che funzionano molto bene. Come tutte le professioni ci sono: professionisti bravi; professionisti non bravi; professionisti delinquenti. In tutte le professioni. Quindi senza generalizzazioni. Ma quel sistema che non chiamiamo Sistema Bibbiano, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, quindi l'Europa, lo chiama da anni: Il Sistema Italia. Con condanne continue nei confronti dello Stato italiano in relazione a questo profilo che è decisivo. Non si decide su comportamenti e su fatti provati, ma si decide su valutazioni. La valutazione in questo modo può essere una lotteria. Può provenire da un delinquente, come si ipotizza sia stato fatto a Bibbiano. Due annotazioni brevissime: attenzione a dire che è solo una questione di moralità e di formazione di chi svolge delle consulenze. Intanto queste non erano consulenze. Sulle valutazioni si basavano i giudizi, come avviene in tutti i giudizi minorili in Italia in modo sbagliato. Il Problema poi non era di modalità. Non mi stupisce e non mi allarma solo e soltanto il fatto che un disegno sia stato falsificato. Quello che mi allarma e che sulla base di un disegno, anche non falsificato, un bambino possa andare in una comunità lontano dai genitori.
Bibbiano, ex giudice su affidi illeciti. “Assistente sociale è diventato sceriffo…”. Silvana Palazzo l'1.08.2019 su Il Sussidiario. Bibbiano, affidi illeciti: parla ex giudice. Francesco Morcavallo a La Vita in Diretta: “Assistente sociale è diventato sceriffo”. E Licia Ronzulli propone riforma. Lo scandalo dei presunti affidi illeciti, il cosiddetto caso Bibbiano, ha dimostrato che l’impianto dell’affido in Italia ha delle criticità nella sua applicazione. Lo sostiene ad esempio Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Secondo Ronzulli c’è eccessiva discrezionalità dei servizi sociali e prassi discordanti sul territorio. Quindi ha presentato una proposta di legge per riformare l’affido, con l’obiettivo di aumentare i controlli dei giudici e il contraddittorio con i genitori. Di questo ha parlato anche l’ex magistrato Francesco Morcavallo, ora avvocato, a La Vita in Diretta. Da anni denuncia le storture nel sistema degli affidi che non riguarderebbe solo Bibbiano e l’Emilia Romagna. «Non andavano le stesse cose che non vanno oggi. Oggi parliamo di sistema Bibbiano, ma si può parlare di un sistema italiano. Gli affidi vengono decisi senza accertare i fatti». Morcavallo parla con cognizione di causa, essendo stato dal 2009 al 2013 giudice del Tribunale dei minori di Bologna. «Dovevamo vedere se dietro queste generiche valutazioni c’erano fatti e se erano veri». Morcavallo ha poi aggiunto: «Se si dà uno strumento di autorità all’assistente sociale, allora diventa uno sceriffo. E chi doveva vigilare sull’operato non lo ha fatto». L’indagine della Procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano è partita dai numeri: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Così è nato dunque il sospetto che i servizi sociali abbiano allontanato alcuni minori dai genitori per consegnarli ad altre famiglie. E ciò con relazioni false e prove manomesse. Eppure l’affido è una soluzione estrema, per la quale non bastano motivi economici. Cosa dice allora la procedura? L’affido è deciso dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori, o di chi esercita la potestà o del tutore, ma è il giudice tutelare a renderlo esecutivo. Se non c’è accordo, decide il tribunale per i minorenni. La procedura urgente invece prevede che i servizi sociali decidano da soli e avvisino poi il tribunale, ma a volte a distanza di mesi. In casi gravi si può ricorrere poi all’affido “professionale”, in cui una cooperativa viene incaricata di selezionare una famiglia affidataria con cui stipulare un contratto, prevedendo un contributo. Ma l’affido è una misura a “tempo”, pensata per tamponare una difficoltà momentanea, ma nella pratica dura più del previsto. E il rientro in famiglia è centrato solo nel 40 per cento dei casi.
Non solo Bibbiano, il giudice che ha lasciato la toga “contro questa disumanità”. Chiara Affronte il 24 Luglio 2019 su Il Salvagente. Il caso Bibbiano, nonostante le strumentalizzazioni politiche, è solo la punta di un iceberg su un sistema, quello degli allontanamenti e degli affidi, che evidentemente ha più di un punto debole. Ieri il Salvagente ha pubblicato la storia di Laura, una donna che si è vista trascinare in nove mesi di incubo, separata a forza dal figlio in maniera ingiusta. Non l’unica testimonianza delle falle di questo sistema. Lo dimostra la denuncia – anche questa raccolta dal nostro giornale più di un anno fa – di Francesco Morcavallo che è stato giudice al Tribunale dei minorenni. Fino a che non si è scontrato a Bologna contro la decisione di togliere la patria potestà ai genitori del piccolo Devid. E ora ha scelto di fare l’avvocato per non scendere a compromessi. Sono centinaia gli allontanamenti coatti di minori dalle loro famiglie che avvengono ogni anno e che finiscono sui tavoli degli avvocati o del Comitato dei cittadini per i diritti umani (Ccdu). Allontanamenti spesso ingiustificati, di bambini dati in affido o alle comunità, a guardare le pratiche, sebbene la legge dica chiaramente che si debba fare tutto il possibile affinché i minori restino con le loro famiglie, organizzando tutte le forme di sostegno necessarie. Gli ultimi dati disponibili prodotti dall’Istituto degli Innocenti per il ministero risalgono al 2010 e contano quasi 30mila bambini (i prossimi “Quaderni” di raccolta dei dati usciranno a luglio e si riferiranno al 2014), l’Istat parla per il 2014 di 20mila ragazzini accolti esternamente alla famiglia in strutture socio-residenziali. Ma per gli avvocati che se occupano sono molti di più. Così come per Francesco Morcavallo, che ha condotto e conduce una lotta durissima contro le modalità e le prassi con cui a suo avviso avvengono gli allontanamenti di minori: provvedimenti che ha potuto osservare sia da giudice del Tribunale per i minorenni fino a qualche anno fa, sia da legale, oggi, dopo la decisione di lasciare la toga di giudice, deluso e deciso a combattere la lotta da fuori, senza scendere a compromessi. A Bologna, nel 2011, si scontrò contro il provvedimento che prevedeva di togliere la patria potestà (nei confronti degli altri due figli) ai genitori del “piccolo Devid”, morto di freddo in Piazza Maggiore: un caso che ebbe molta eco sulla stampa e su cui fu dura la battaglia di Morcavallo e del collega Guido Stanzani, perché la decisione del Tribunale fu presa, secondo Morcavallo, senza un’accurata istruttoria sull’accaduto. Lui fu allontanato da Bologna ma poi la Cassazione gli diede ragione e tornò nel capoluogo emiliano: “Ma mi tolsero tutti i fascicoli che stavo seguendo. Ero soggetto a pressioni: me ne sono andato, e adesso cerco di aiutare questi bambini da fuori”.
Sono denunce molto pesanti quelle che fa. Può spiegarci cosa accade quando viene allontanato un bambino?
«La prassi diffusa è quella di allontanare i bambini solo sulla base di semplici segnalazioni anche senza precise motivazioni verificate, quando invece la legge prevede che i minori restino nelle proprie famiglie, provvedendo semmai ad un sostegno laddove necessario. Lo dice la legge ma si tratta anche di un diritto primario, motivo per cui il nostro paese è stato spesso condannato per aver leso questi diritti dalla Corte europea».
Il disagio economico prevede per legge l’allontanamento?
«No, mai».
Quali sono le motivazioni per cui si allontana?
«Ribadiamo innanzitutto che l’allontanamento dovrebbe essere una misura estrema, motivata da ragioni estremamente serie. Purtroppo 99 volte su 100 non esistono. O sono vaghissime, incomprensibili, assurde: anche “l’atteggiamento troppo amorevole” viene addotto spesso come motivazione, per fare un esempio. Ho letto di tutto: considerazioni da manuali di psicologia di 70 anni fa… Ciò che manca è una seria attività istruttoria. Troppo spesso – anzi, quasi sempre, purtroppo – accade che vengano letteralmente copiate e incollate le relazioni degli assistenti sociali: non vengono interrogati i genitori e non si procede ad un confronto tra le versioni dei fatti. E poi, anche quando si riesce a stabilirlo, non si rimedia. Non si applica la normativa prevista in merito, ad esempio le interazioni con la famiglia affidatarie non esistono. E nelle comunità si esercitano molto spesso pressioni – quando non anche minacce – ai bambini, soprattutto quando ci sono interessi in ballo».
Perché accade, secondo lei?
«Per ignoranza. O per acquiescenza dei giudici a un certo tipo di orientamento diffuso, talvolta anche per vicinanza tra i Tribunali dei minorenni e le strutture. L’allontanamento, in fondo, è uno strumento che deresponsabilizza».
Descrive un panorama molto preoccupante e anche poco noto all’opinione pubblica, almeno nella misura da lei descritta, dove sembra scomparire il concetto di “umanità”…
«Dentro ai Tribunali dei minorenni dovrebbero lavorare quei giudici a cui richiedere uno sforzo in più rispetto a ciò che viene chiesto ad altri. E invece avviene tutto il contrario».
Ciò che sta descrivendo è accaduto anche per il caso bolognese che riguardava Devid, vero?
«È accaduto per Devid e per molti altri casi. Solo che quel caso in particolare ha avuto una notevole risonanza mediatica. In quell’occasione mi opponevo al fatto che venissero prese delle decisioni senza un’istruttoria. Ho avuto molte pressioni e anche la sottrazione del fascicolo, cosa che non si può assolutamente fare. Comunque poi la Cassazione ha annullato il mio allontanamento. Tuttavia, quando sono tornato non si voleva che mi fossero affidati i casi su cui stavo lavorando. ‘Occupati di altro’, mi veniva detto. Ovviamente non potevo accettarlo e ho lasciato quel ruolo e oggi cerco, come altri avvocati, di aiutare le famiglie e i bambini, anche se non è l’unico campo in cui opero».
Cosa bisognerebbe fare, a suo avviso?
«Bisogna assolutamente tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su questo tema, difendere le persone ponendo tutte quelle questioni che non vengono poste. Ma sarebbe necessaria una riforma politica che espliciti il nesso tra fatti e provvedimenti, adeguarsi alla Corte europea. Non si può accettare che le comunità e gli affidi suppliscano ad una mancanza di welfare».
Rif. Camera Rif. normativi. XVII Legislatura. Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Resoconto stenografico. Seduta n. 12 di Martedì 16 febbraio 2016.
INDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA. Audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna.
Blundo Rosetta Enza, Presidente.
ALLEGATO: Documentazione presentata dall'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza ...
Testo del resoconto stenografico. PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE ROSETTA ENZA BLUNDO. La seduta comincia alle 13.15. (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente). Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso. (Così rimane stabilito). Sostituzione di un componente della Commissione.
PRESIDENTE. Comunico che la Presidente della Camera, in data 15 febbraio 2016, ha chiamato a far parte della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza la deputata Valentina Vezzali, in sostituzione del deputato Antimo Cesaro, dimissionario. (La Commissione prende atto). Audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, l'audizione del presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza, l'avvocatessa Maria Carsana, e dell'avvocato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Do la parola all'avvocato Maria Carsana.
DONELLA MATTESINI. Intervengo, Presidente, sull'ordine dei lavori. Chiedo scusa anche a nome suo – e speravo che lo facesse – perché non si arriva, rispetto alla convocazione, con 40 minuti di ritardo, senza neanche scusarsi. Chiedo scusa ai nostri auditi anche del fatto che, dovendo votare, tra dieci minuti noi rappresentanti del Partito democratico dovremo assentarci. Vi chiedo scusa perché ritengo sia davvero molto serio e molto importante il contenuto dell'audizione, ma anche i lavori della Commissione permanente ai quali dobbiamo partecipare.
MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Buongiorno. Ho visto che nelle precedenti audizioni sono stati sentiti dei rappresentanti di case famiglia e di autorità che si occupano dei problemi dei bambini che troviamo in istituto. Abbiamo visto anche che non ci sono numeri certi, il che è già un primo fatto gravissimo. Nell'analisi fatta dall'associazione che presiedo e che ho consegnato questa mattina, si parla di circa 30.000 bambini in istituto. Teniamo presente che, secondo il nostro studio, che è orientato a capire i motivi per cui questi bambini si trovano negli istituti, il 63 per cento di questi bambini, come motivo primario o secondario, ha un problema di indigenza economica, abitativa e lavorativa dei genitori. Io, come avvocato, mi sono occupata di tantissimi casi di bambini allontanati dalle Pag. 4loro famiglie e spesso ho dovuto notare che questi allontanamenti avvengono, a seguito della richiesta di aiuto di queste famiglie, da parte di chi è preposto ad aiutarle. Questo è un primo dato che mi fa riflettere perché, in qualche modo, onestamente io, prima di consigliare ad una famiglia di rivolgersi allo Stato per chiedere aiuto, ci penso due volte, se non tre. In più, abbiamo i fenomeni dell'allontanamento, ex articolo 403 del codice civile. Ho visto che in precedenti audizioni vi siete domandati quanti di questi provvedimenti d'urgenza vengano convalidati. Al riguardo, io vi posso dire, per quanto riguarda la mia esperienza, che non c'è una sola volta in cui non ci sia stata la convalida. Questo è un altro dato che ci dovrebbe far riflettere, anche perché questi provvedimenti sono emessi se c'è un sospetto di disagio o comunque di inidoneità delle famiglie ad accudire i propri figli. Io, come vi dicevo, mi sono occupata di tantissimi casi, ma il più eclatante a mio avviso è quello avvenuto recentemente dei sei bambini di una famiglia povera di Anzio messi in un istituto ecclesiastico gestito dalle suore. Il comune di Anzio versava 18.000 euro al mese per mantenerli in istituto. Sono riuscita a risolvere questo problema grazie ad una puntata di Presa diretta che si è occupata di questo caso; altrimenti probabilmente questi bambini stavano ancora in istituto. Prima di risolverlo, il comune di Anzio ha speso 700.000-800.000 euro per mantenere questi bambini in istituto. Mi domando se non sarebbe stato più facile dare un alloggio a questa famiglia o fornire un aiuto economico, ovviamente con una progettualità. L'aiuto economico non deve essere considerato un obolo che è fine a se stesso, perché poi i soldi finiscono e i problemi restano, ma ci dovrebbe essere appunto una progettualità che al momento onestamente, per quanto riguarda la mia esperienza, manca. C'è un altro problema che voglio sollevare. A proposito del caso di questi sei bambini, io andai a parlare ripetutamente con l'assessore ai servizi sociali del comune di Anzio per chiedere che venisse loro data una casa, perché la prima cosa che mancava a queste persone era un alloggio idoneo. L'assessore mi rispondeva: «Se lo chiede il tribunale, io darò questa casa». In quel periodo è stato approvato il decreto legislativo n. 154 del 2013, che ha regolamentato in parte la riforma che c'è stata nel 2012, con la legge 219, in materia di diritto di famiglia. Questo decreto legislativo ha aggiunto alla legge n. 184 del 1983, cioè quella sulle adozioni, l'articolo 79-bis che prevede espressamente che i tribunali debbano sollecitare i comuni di residenza dei minori in difficoltà economica per avere degli interventi. L'assessore mi disse: «Se il tribunale mi dice questo, io ho la possibilità di far saltare le liste d'attesa per le case popolari e quant'altro e dare una casa a questa famiglia». Io ho fatto ripetutamente, non soltanto in questo caso, ma anche in molti altri, la richiesta al Tribunale per i minorenni, in base all'articolo 79-bis della legge n. 184 del 1983, di dare questo input e di ordinare ai comuni di intervenire. Tuttavia, non ho mai ricevuto risposta, neanche una risposta di diniego. Sono stata sempre completamente ignorata, quindi io sono qui per rappresentare che cosa vuol dire per una famiglia il fatto che, come vi ho detto, nella maggior parte dei casi per motivi economici vengano tolti i bambini. Queste famiglie entrano in una sorta di inferno dantesco dove abbiamo operatori spesso oberati di lavoro, che si devono occupare dei minori, dell'anziano in difficoltà e del disabile e che spesso sono molto volenterosi e molto bravi. Tuttavia, capita anche il caso in cui l'assistente sociale che deve relazionare al tribunale non è competente o ha delle presunzioni o ha una visione del tutto personale sul concetto, assolutamente non codificato, di capacità genitoriale. In effetti, dovremmo anche interrogarci su che cos'è la capacità genitoriale perché non è scritto da nessuna parte e ognuno lo interpreta a modo proprio. Ci troviamo nella situazione in cui i Tribunali per i minorenni prendono per oro colato queste relazioni, per cui abbiamo Pag. 5 bambini che nel 42 per cento dei casi, secondo il nostro studio, restano collocati oltre 48 mesi in istituto e nel 22 per cento dei casi da 24 a 48 mesi. Parliamo del 64 per cento degli affidamenti in istituti e in case famiglia o in famiglie che si offrono di tenere questi bambini che si protraggono nel tempo, anche se noi sappiamo che, tranne in casi eccezionali, questa permanenza non deve superare i due anni. In merito, dobbiamo fare l'esame del perché non ci siano questi aiuti alle famiglie e del perché gli interventi da parte dei comuni, ormai ridotti all'osso economicamente, siano assistenziali e senza una progettualità dietro. Io vi devo ricordare sia il dissolvimento degli interventi finanziari della legge n. 216 del 1991, che interveniva nella prevenzione della devianza minorile e sulle sue cause, sia il dissolvimento degli interventi in termini di servizi, dopo la decisione della riduzione dei finanziamenti per la legge n. 285 del 1997 avvenuta in forma forse criticabile nel 2003, quando ancora non c'era tutta questa crisi che c'è ora. È stata fatta la scelta di spostare l'interesse sulla famiglia piuttosto che sul minore. Io prego e invoco questa Commissione di fare qualcosa per ridare fondi alla progettualità, al fine di assistere appunto questi minori nella situazione problematica che in questo momento è anche peggiorata con l'arrivo dei minori migranti non accompagnati. In ultimo, vista l'ora, vorrei – il mio intervento è stato molto breve perché ho saltato alcune parti – ricordare che le convenzioni internazionali e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea citano espressamente l'obbligo di considerare il minore non come oggetto di tutela, ma come soggetto di diritto. Grazie.
PRESIDENTE. Grazie a lei che è stata abbastanza sintetica, ma, nello stesso tempo, incisiva. Io non ho voluto prolungarmi, per non togliere tempo, nel discorso di scuse che farò alla fine.
DONATELLA ALBANO. Sull'ordine dei lavori, Presidente, siccome ci dobbiamo assentare e riteniamo che l'audizione dell'avvocato Morcavallo sia molto interessante, le chiedo se fosse possibile proporre un'altra audizione, in modo che possiamo presenziare e fare le domande direttamente.
PRESIDENTE. Mi sembrava che i colleghi avessero detto di rimanere almeno fino alla conclusione dell'audizione prevista.
DONATELLA ALBANO. L'audizione era prevista alle 12.45. Io ho fatto il «giro dell'oca» per essere puntuale, pensando di audire l'avvocato Morcavallo e la dottoressa Carsana. Io ho un'altra Commissione alle 13.30, per cui non è una questione di tempo, ma di rispetto.
PRESIDENTE. Al Senato, comunque, votiamo alle 16.30.
DONATELLA ALBANO. Io ho altre Commissioni. Si vota anche in Commissione, con presenza del numero legale. Le chiediamo di riferire questa richiesta al Presidente.
PRESIDENTE. Mi dispiace. Riferirò la vostra richiesta. Do la parola all'avvocato Morcavallo.
FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Cercherò di essere sintetico e schematico, anche perché non ho potuto preparare un compendio scritto, che, se sarà necessario, mi riserverò di comunicare in altro modo. Intendo, peraltro, essere piuttosto schematico perché anche io ho avuto modo di esaminare le precedenti audizioni e ho notato che sono emersi contenuti specifici piuttosto omogenei, per quanto riguarda gli aspetti di sostanziale criticità del sistema di protezione del minore mediante l'allontanamento dalla famiglia. Nell'apparente dicotomia – forse dovuta anche a particolari appartenenze che poi coincidono con un coinvolgimento nella gestione degli istituti privati che svolgono l'assistenza ai minori mediante ricovero – mi pare che ci sia un aspetto di sostanziale Pag. 6omogeneità, cioè non è possibile svolgere una generalizzazione secondo cui la critica al sistema di protezione, di cui fa parte l'allontanamento dei minori dalla famiglia, sia una critica all'intervento di allontanamento in assoluto. Nessuno nega che ci siano delle situazioni – peraltro, le statistiche ci dicono essere di assoluto margine – in cui può essere necessario un intervento così radicale. Nessuno vuole escludere che un bambino o un ragazzo in pericolo possa fruire di un pronto intervento, anche cautelativo. Il problema, però, è di evitare che il rimedio diventi più dannoso del male, cioè che, per garantire protezione a queste situazioni di margine, si crei un sistema monstrum che sostanzialmente fa poi dell'allontanamento del bambino o del ragazzo dalla famiglia l'intervento normale e più frequente. Le statistiche, per quanto in qualche modo disomogenee – forse lo sono necessariamente, non essendovi, come è noto e come è stato ricordato, dei registri specifici o degli elenchi specifici dei minori allontanati – dimostrano che l'intervento di allontanamento sia il più frequente nell'ambito del sistema di protezione, sia amministrativo sia giurisdizionale del minore. Tale intervento non è solo il più frequente, ma è anche quello che più frequentemente manifesta una divergenza rispetto alla finalità normativa. Per essere schematici, mi sto riferendo, nell'ambito di tre questioni – an, quomodo e quantum – che individuo sul macrotema di cui ci occupiamo, cioè l'allontanamento inteso in termini temporali, al primo di questi aspetti (an), cioè se disporre o meno l'allontanamento. I riferimenti normativi e il sistema normativo che riguarda questo aspetto, cioè se occorra dar luogo all'allontanamento del minore dalla famiglia, sono ormai noti, se non altro perché, a più riprese e anche in epoca recentissima, è stato ribadito non solo dalla giurisprudenza interna ma anche dalla giurisprudenza sovranazionale, cioè quella la Corte europea dei diritti dell'uomo, con pronunce anche severe, quanto al contenuto e alla materia, cioè pronunce di condanna che hanno riguardato addirittura procedimenti di adottabilità definiti con sentenze passate in giudicato. Siamo al limite dell'errore irrimediabile o forse oltre il limite, visto che ancora nell'ordinamento italiano non vi è un sistema per adeguare gli effetti dell'ordinamento interno, a fronte di un giudicato già formato, alla statuizione di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo. In merito, sono chiari i riferimenti sistematici, nel senso che l'allontanamento, secondo la giurisprudenza sovranazionale cui è conforme in modo assoluto la normativa e anche la giurisprudenza costituzionale di legittimità interna, occorre che sia, com'è scontato, l’extrema ratio, non una soluzione immediata, e che venga applicato soltanto allorché si manifesti l'immediata impossibilità di soluzioni alternative, prima di tipo assistenziale (articoli 30 e 31 della Costituzione e articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo), poi eventualmente di tipo autoritativo, e comunque non riguardanti l'allontanamento. Una volta rimasti inattuabili questi rimedi, solo se è constatata la permanenza di un pericolo grave, concreto e provato di permanenza del bambino o del ragazzo nell'ambito della propria famiglia, è consentito ricorrere all'allontanamento. Questa graduazione di criteri in ambito giurisdizionale, come in ambito amministrativo, comporta anche una graduazione dei momenti di accertamento, cioè su cosa succede, su quali rimedi si possono porre in essere, su quali rimedi diventano inattuabili e se permane il pericolo. Tuttavia, questa graduazione di accertamenti – sono d'accordo con quanto si diceva poc'anzi – sostanzialmente non viene compiuta mai. L'esperienza ci dice – credo che non sia prospettabile in alcun modo una smentita – che l'allontanamento viene disposto inaudita altera parte, quindi come primo provvedimento del procedimento giurisdizionale, se non addirittura in via preprocessuale ai sensi dell'obsoleto, salva l'auspicata riforma, articolo 403 del codice civile. Si può trattare anche di un rimedio che, se non attuato immediatamente, in alcuni casi, anche se statisticamente più rari, viene Pag. 7attuato in corso di giudizio, ma senza una motivazione specifica sulla impossibilità di dare séguito in modo efficace agli interventi svolti precedentemente. Io direi che ciò accade perché – non c'è neanche bisogno di studi – nel 100 per cento dei casi questa motivazione si rinviene in valutazioni assolutamente generiche e addirittura in certi casi di incidenti sulle opinioni personali degli interessati. Sono reduce da una difficile udienza in un procedimento di adottabilità dinanzi al Tribunale per i minorenni di Cagliari. Tale procedimento di adottabilità si è aperto con la seguente ipotesi di quello che potremmo definire uno stato di abbandono: i genitori della bambina collocata in comunità, nel chiedere che gli interventi fossero svolti previo rientro della bambina in casa, mostrano di non condividere gli interventi dell'assistenza sociale, del tribunale e della casa famiglia, per cui manifestano un'opinione divergente rispetto al progetto assistenziale, di guisa che non è prevedibile un recupero delle attitudini familiari in tempi idonei a evitare addirittura lo stato di adottabilità, quindi la dichiarazione dello stato di abbandono della bambina. Questa bambina, tra parentesi, come regalo di Natale ha chiesto di poter tornare a casa dopo un anno e mezzo di comunità e praticamente tutti i giorni si butta per terra chiedendo di incontrare i genitori. Nel provvedimento di apertura dello stato di adottabilità, in limine processus, cioè con il primo provvedimento che è quello di apertura, sono stati interrotti i rapporti tra la bambina e i genitori. Mi chiedo se sia il caso di indugiare sul corto circuito logico che è contenuto in questo tipo di motivazione, cioè quando viene disposto un intervento autoritativo con la collocazione della bambina in comunità e si rivela possibile – non entro nel dettaglio del procedimento – la prosecuzione di un intervento, eventualmente anche mediante assistenza e controllo nella casa famigliare. Il più delle volte i genitori o i famigliari del minore si rendono anche disponibili a questo tipo di intervento. Vi ripeto, se ce ne fosse bisogno, che concordo con quanto è stato detto, cioè che quello nella famiglia è molto meno costoso di un intervento di permanenza residenziale in una casa famiglia. Inoltre, tale intervento è più virtuoso perché garantisce il diritto primario del minore a crescere nell'ambito della propria famiglia. Il corto circuito logico sta in questo: venuta meno, se ve n'è stata mai qualcuna, la ragione originaria di allontanamento del minore, ne è stata trovata un'altra. I familiari hanno osato contrapporre un proprio dissenso rispetto all'intervento autoritativo, come se l'intervento autoritativo dovesse incidere non solo sullo status iuris familiare, ma addirittura sulla mentalità, sulle opinioni stesse e sul carattere delle persone, cioè come se dovesse indurre addirittura un ravvedimento interiore tale da portare le persone da un paradigma di supposta anormalità a uno di normalità, nel senso di adesione all'intervento autoritativo quale che sia, anche se è stato accertato che era sbagliato. In questo caso è certo che un allontanamento di un anno e mezzo, potendo essere surrogato da un intervento di assistenza domiciliare, è sbagliato perché l'allontanamento, per principio ordinamentale consolidato, deve essere l’extrema ratio, come dicevamo all'inizio. Vorrei collegarmi al secondo aspetto del problema, ripromettendomi di essere addirittura più sintetico. Mi riferisco al quomodo, cioè a come si svolge questo periodo di allontanamento e come si svolgono gli accertamenti per vedere come va questo periodo di allontanamento, cioè come incide sul benessere del minore, che è l'aspetto prioritario, e sulle dinamiche famigliari. Certo, è sottinteso che questo secondo passaggio, cioè lo svolgimento di attività idonee a recuperare una situazione familiare e che escludano il pericolo che ha determinato l'allontanamento, ossia – se esiste – il pericolo di permanenza in famiglia, dovrebbe essere attuato specificamente nell'ambito delle situazioni di pericolo vero. Nelle situazioni che non sono di pericolo vero, l'allontanamento non ci dovrebbe essere. Lo dico non per il fatto che fa guadagnare denaro alla struttura privata, Pag. 8 che è un altro argomento, forse secondario e collaterale, ma perché l'allontanamento è dannoso. L'allontanamento per un bambino o per un ragazzo è un danno e si può praticare solo quando il danno sia considerato minore del pericolo che si dovrebbe affrontare. Questo è un passaggio logico che l'ordinamento e la giurisprudenza interna e sovranazionale danno assolutamente per assodato. Tuttavia, la giurisprudenza di merito, cioè i Tribunali per i minorenni e le Sezioni minorili delle Corti d'appello, misteriosamente non lo fanno. Su questo voglio aggiungere un'altra cosa, aprendo e chiudendo una piccola parentesi. Questi casi marginali di pericolo impeditivo della permanenza del bambino nella famiglia ci sono, anche se sono statisticamente marginali perché sto parlando dei casi di pericolo comprovato, non di indicatori di pericolo genericamente intesi nelle linee-guida di alcune associazioni o comitati di associazioni che poi sono, guarda caso, gestori di istituti di ricovero di minori. Sto parlando di pericoli comprovati perché il processo, anche minorile, si basa su fatti e prove. Inoltre, non è altrimenti configurabile una vicenda processuale, se non in questo modo. Questi casi di pericolo vero vengono offuscati dal mare magnum di allontanamenti indebiti, perché svolgere interventi su decine di migliaia di casi in cui quello specifico intervento è indebito ed è conseguentemente inefficiente dal punto di vista dell'assistenza alla famiglia, comporta altresì una dispersione di risorse che, invece, potrebbero essere canalizzate su quei pochi ma importantissimi casi di pericolo vero e comprovato. Certo, tali casi sono pochi, ma esistono. Inoltre, anche se ce ne fosse uno solo, dovrebbe essere garantito un rimedio assistenziale o autoritativo rispetto ai casi di pericolo comprovato, ma con una canalizzazione di risorse assolutamente impedita dalla generalizzazione del rimedio dell'allontanamento a ipotesi – sono la stragrande maggioranza – che con l'allontanamento non c'entrano nulla, cioè che non costituiscono un presupposto normativo idoneo all'allontanamento; tanto più, dove la motivazione, riguardi – vi ripeto – una valutazione personologica o generica sull'idoneità ad essere genitori. Tale concetto non solo, come giustamente diceva l'avvocato Carsana poc'anzi e come è stato detto da molti in questa sede, è difficilmente individuabile, ma è anche concettualmente e linguisticamente vuoto perché la congruità, o l'idoneità, presuppone un termine di paragone: congruità a qualche cosa, in base ad un parametro. Tuttavia, non c'è un parametro di idoneità genitoriale. Chiunque, a fronte di un'accusa generica di inidoneità a essere il migliore dei genitori o un buon genitore, non avrebbe modo di difendersi perché il processo è fatto in modo che ci si possa difendere solo dai fatti. Le norme del codice civile di riferimento, cioè gli articoli 130 e 333 del codice civile stesso, sono carenti su questo punto. Inoltre, è evidente che tali norme facciano riferimento a fatti, cioè a condotte violative dei doveri parentali. Tuttavia, è così indeterminata la proposizione normativa che, nella giurisprudenza di merito (Tribunale dei minori e Sezione per i minorenni dalla Corte d'appello), si è ricondotta questa fattispecie, cioè delle condotte di violazione dei doveri parentali, ad una generica sintomatologia di inidoneità ad essere genitori normali, anche se non si sa cosa voglia dire essere un genitore normale perché non esiste un parametro normativo o scientifico che lo definisca. Come si svolge l'allontanamento, giustificato o ingiustificato? Me lo chiedo perché è un nuovo aspetto del problema. La previsione normativa specifica è contenuta nella legge sull'affido e sull'adozione, cioè la legge n. 184 del 1983, e nelle successive modificazioni e integrazioni, in particolare agli articoli 2, 4 e 5, per cui l'allontanamento si dovrebbe svolgere mediante l'organizzazione di ogni intervento idoneo a rendere questo periodo di permanenza del minore lontano dalla famiglia il più breve possibile. Tali interventi dovrebbero essere congrui al fine di determinare il pronto rientro del bambino in famiglia. Per quanto riguarda l'attuazione pratica, nella stragrande maggioranza dei casi Pag. 9la frequentazione tra i genitori e un bambino, anche in tenera età, è ridotta, quando tutto va bene, a un'ora a settimana. Certo, per un bambino di un anno o di due anni, vedere i genitori o i nonni o i fratelli per un'ora a settimana significa perdere la cognizione stessa del proprio ambito familiare, ma è dannoso anche per i bambini di altre età.
MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Con casi anche di autolesionismo grave.
FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Anche per gli adolescenti è estremamente dannoso perché si perdono dei riferimenti. Forse non nella stessa quantità della collega Carsana, ma penso di aver analizzato, prima come giudice delegato o come giudice relatore, oggi come avvocato, qualche decina di migliaia di casi. In nessuno di essi ho potuto constatare che, a fronte dell'allontanamento, vi fosse un solo beneficio o anche solo la predisposizione di quello che lei chiamava «progetto di riavvicinamento», cioè di quegli interventi che la legge impone e che il dettato normativo impone per sollecitare il pronto rientro del bambino in famiglia. A questo si sovrappone quello che definirei un ulteriore dramma, oltre che una disfunzione, e che non riguarda una disapplicazione normativa, ma un difetto di controlli. Vi ripeto che in tutti i casi esaminati non c'è stata una sola ipotesi in cui io abbia constatato che l'istituto – li chiamo ancora così – venisse fatto oggetto di quei controlli che sono oggetto del potere e della funzione di soggetti ben determinati dell'ordinamento. Si tratta, prima di tutto, delle amministrazioni locali, cioè degli assessori alle politiche sociali o comunque si chiamino e siano qualificati, inoltre dei procuratori minorili, anche se io non ho mai visto un procuratore minorile che facesse accesso ad una comunità, infine dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza che peraltro – mi pare di aver capito – ritiene di non avere questo tipo di potere, anche se, nell'ultima relazione al Parlamento, dice di averlo esercitato. C'è anche qui un corto circuito logico: o si ha il potere o non lo si ha, per cui, se non lo si ha, non lo si esercita e, se lo si esercita, lo si ha. Di questi controlli forse ci sarebbe bisogno, non solo a fronte delle ipotesi patologiche più gravi cui la collega ha fatto riferimento, ma anche a fronte di aspetti che riguardano anche la sensibilità soprattutto di un minorenne nella vita quotidiana. È di questi giorni la vicenda relativa a una cosiddetta «casa famiglia» – in realtà, è un agglomerato di case famiglia – a Rocca di Papa, in violazione del disposto normativo sulla separazione delle case famiglia per il superamento appunto degli istituti. Si tratta di un vero e proprio istituto, quindi forse non sbaglio se continuo a utilizzare questo termine. Le immagini di questo istituto sono state oggetto di riprese televisive. Sono rimasto sconcertato, quando ho visto le sbarre alle finestre e alle porte. Questo non vale solo per l'agglomerato di Rocca di Papa, perché a Roma ne abbiamo anche altri; basta andare sulla via della Pineta Sacchetti per avere un'idea. Questi agglomerati sembrano strutture carcerarie e me ne chiedo il perché.
MARIA CARSANA, presidente dell'Associazione per la tutela dei minori e della persona vittima di violenza. Si tratta di ex istituti mascherati da casa famiglia.
FRANCESCO MORCAVALLO, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna. Si tratta di tutti gli ex istituti cui, invece di un nome solo, si danno quattro nomi, cioè invece di chiamarsi «istituto delle suore» eccetera si chiamano con quattro nomi, come «Casa L'armonia» o «Casa Letizia» eccetera, anche se si tratta di un'unica struttura. Io non ho mai visto controllare e sorvegliare le modalità di organizzazione di un istituto, nemmeno da parte delle istituzioni amministrative o delle istituzioni private che li finanziano. Pag. 10 Tuttavia, in questi meccanismi di finanziamento si creano delle disfunzioni. La collega faceva riferimento a dei termini di durata, non solo previsti dalla legge, ma anche di durata prevedibile da indicare nel provvedimento, come da qualche tempo avrebbe prescritto la Corte europea dei diritti dell'uomo, ma, evidentemente, con statuizione rimasta costantemente inattuata, anche in questo caso. Addirittura, per ricevere finanziamenti privati, alcune strutture, tra cui quella cui facevo riferimento, indicano alla fondazione privata finanziatrice la durata prevedibile, esprimendola in anni (un anno, due anni o un anno e sei mesi), anche se non si sa sulla base di quale criterio, e sostituendosi al giudice. Succede che, quando l'accertamento sulla opportunità o meno e sulla necessità o meno che la collocazione in istituto debba proseguire, si basa su quanto riferiscono i gestori o gli operatori di quella struttura. Tuttavia, si potrà essere sicuri che i gestori e gli operatori di quella struttura riferiscano secondo il criterio del diritto soggettivo nell'interesse del minorenne o vi può essere il dubbio che, nella ponderazione, in qualche modo, possa assumere rilievo, se non addirittura prevalenza, il dato del gestore? Certo, il principio di trasparenza vorrebbe, se si cerca la prospettiva di una modifica normativa, che sull’an – l'esempio è quello della riforma dell'articolo 403 – venga individuata la fattispecie di riferimento, pericolo comprovato alla salute e alla vita del minore derivante dalla permanenza nella famiglia. Sul quomodo e sull'accertamento del quantum temporis, cioè della durata dell'allontanamento, trasparenza vorrebbe che venga previsto che la prova dei dati di fatto su cui si deve basare l'apprezzamento circa la valutazione e la durata della collocazione fuori dalla famiglia venga formata nel contraddittorio processuale e non possa essere limitata soltanto a quanto riferito dai gestori dell'istituto; altrimenti si crea una commistione di ruoli in cui gli operatori diventano anche giudicanti, invece bisogna separare le funzioni. L'importante funzione di ospitare e di accogliere un bambino non può coincidere con la funzione di dire se quel bambino deve essere ospitato e accolto, perché invece lo deve dire qualcun altro; altrimenti si creano dinamiche di sovrapposizione logica che poi confinano con il conflitto di interesse, anche a prescindere dal coinvolgimento di giudici onorari nella gestione di case famiglia che pure è abbastanza diffuso, come avete avuto modo di constatare. Questa possibile prospettiva di riforma di tipo processuale porterebbe a superare un dato ormai obsoleto, cioè la collocazione del processo minorile, anche in quei casi delicatissimi che portano all'allontanamento dalla famiglia o addirittura alla dichiarazione dello stato di adottabilità e soprattutto in quelli de potestate, nell'alveo della volontaria giurisdizione. Ancora adesso, dimenticando e pretermettendo un secolo e mezzo di riflessione processuale civilistica, la volontaria giurisdizione viene intesa come una sorta di arbitrium iudicis, in cui il giudice fa quello che vuole e l'occhio del giudice è l'assistente sociale o l'operatore della casa famiglia. Sostanzialmente, non c'è possibilità di difesa in giudizio e la volontaria giurisdizione diventa sinonimo di arbitrium iudicis, cioè di decisione del giudice sulla base di un dato impressionistico costruito sul riferito altrui. Questi mi sembrano, anche al di là dei dati statistici, dei punti di criticità assolutamente rimediabili. Riguardo l’an, la riforma è all'esame del legislatore e c'è un'indicazione determinata della fattispecie normativa, mentre per il quomodo basterebbe poco, cioè basterebbe introdurre una norma di una riga sulla formazione della prova e dare, sul piano amministrativo, attuazione ai poteri di sorveglianza e controllo sulle strutture e attuazione alle norme che tendono a impedire che queste strutture divengano o continuino ad essere, perché non hanno mai smesso, degli istituti. Certo, è una questione di politica amministrativa quella di distribuire le risorse in modo diverso, cioè nell'assistenza alla famiglia o con il finanziamento di lontani surrogati della famiglia. Tuttavia, è una questione politico-amministrativa che sarebbe Pag. 11 consequenziale a queste riforme normative perché, se fosse chiaro e se fosse ineludibile un dettato stringente, tale da rendere necessariamente marginale, come lo è nella realtà sociale, il rimedio dell'allontanamento, sarebbe consequenziale indirizzare le risorse e gli sforzi anche di organizzazione verso la famiglia.
PRESIDENTE. La ringrazio perché è molto interessante quello che lei è venuto a riferirci. È importante che noi raccogliamo questi allarmi. In realtà, ci ha dichiarato delle cose davvero gravi, come il fatto di non tener conto delle condizioni dei genitori che possono, giustamente, contestare, anche se dal punto di vista di un autoritarismo eccessivo, una scelta che tra l'altro elude le tutele della Costituzione e, come ci ha detto, le sollecitazioni dell'Europa. Vi porgo le scuse anche a nome della Presidente che, purtroppo, ha avuto un problema di salute e non ha potuto essere presente. Raccolgo la sollecitazione della collega di chiedere la sua disponibilità per una successiva audizione al fine di dar la possibilità ai colleghi di interagire con le domande. La Commissione sta portando avanti questa indagine conoscitiva che serve appunto a raccogliere le vostre sollecitazioni che, in parte, sono anche denunce. Stanno arrivando anche delle proposte fattive per migliorare, visto che è nell'interesse di tutti – della Commissione e di voi auditi – portare avanti al meglio la tutela dei minori. In effetti, come dicevamo prima, è pericoloso considerare che la capacità genitoriale sia un criterio così discrezionale e poco oggettivo da lasciare eccessivi margini all'allontanamento. Sull'articolo 403, personalmente ho presentato un disegno di legge che è incardinato nella Commissione Giustizia al Senato. Purtroppo, adesso dobbiamo interrompere perché abbiamo le votazioni alla Camera, quindi dobbiamo consentire ai colleghi di poter andare a votare. Grazie ancora. Dichiaro conclusa l'audizione. La seduta termina alle 13.50.
Affidi, l'ex giudice: "Cacciato perché mi opposi". Scontro al tribunale dei minori di Bologna. Imparato criticò gli allontanamenti. Ilrestodelcarlino.it il 28 luglio 2019. «Nel periodo 2009-2013 due giudici togati e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna. Allontanamenti ingiustificati di minori in primis ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale. Non solo subimmo procedimenti disciplinari ingiustificati poi cassati, ma veri e propri atti lesivi delle proprie funzioni. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi». Una lunga lettera scritta dal ferrarese Mauro Imparato, psicologo, neuropsicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori, solleva il velo su una guerra fratricida tra le mura del tribunale minorile di Bologna che, seppur antecedente e non collegata all’inchiesta Angeli e Demoni, le fa in un certo qual modo da sfondo. L’oggetto del contendere è proprio quello degli affidi. Il tribunale dei minori, in quegli anni, era diviso in due. Da una parte i giudici togati Francesco Morcavallo e Guido Stanzani e l’onorario Imparato. Dall’altra, tutti i restanti colleghi, guidati dall’allora presidente del tribunale Maurizio Millo. I tre erano fautori di una linea morbida e non appiattita sui servizi sociali. Sostenevano insomma che bisognasse agire più rapidamente nella restituzione dei figli alla famiglia oppure non allontanarli affatto. Al contrario, la maggioranza dei magistrati, spiega Millo contattato dal Carlino, era «più prudente nell’accertare la situazione delle famiglie e la loro capacità di recupero». Lo scontro è deflagrato con la morte per ipotermia di un neonato in piazza Maggiore a Bologna e la guerra tra toghe è finita davanti al Csm, tirato in ballo a suon di esposti. L’organo di autogoverno dei giudici, valutata la situazione, ha allontanato Morcavallo e Stanzani. Il primo con un provvedimento cautelare il secondo con un trasferimento volontario. Morcavallo, però, ha fatto ricorso in Cassazione e la suprema corte non solo ha annullato il trasferimento ma ha anche ‘bacchettato’ il Csm per non aver tenuto conto delle sue argomentazioni. Morcavallo aveva infatti denunciato gravi abusi quali «affidamenti di bambini scarsamente motivati, provvedimenti provvisori prorogati all’infinito e l’appiattimento del tribunale sulle relazioni dei servizi sociali». Accuse che scivolano addosso a Millo, sicuro della correttezza del proprio operato. «Il Csm e l’Ispettorato – ha chiarito – non hanno trovato alcun elemento per dire che non svolgevamo il nostro compito in maniera corretta».
Tribunale Minori Bologna, tre giudici "fatti fuori" perché contro il "sistema"! Imola Oggi sabato, 27 luglio 2019. Illegittime ed illecite camere di consiglio, calunnie, minacce, mendaci addebiti disciplinari. Estromissioni e allontanamenti per tre giudici che erano contro il ‘sistema’ del Tribunale dei Minori di Bologna. Pubblichiamo le denunce di uno dei tre giudici, con esposti scritti, indirizzate a Presidente del Tribunale dei Minori, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Consiglio Giudiziario, alla Corte d’Appello, al Ministro, alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e persino alla Commissione Bicamerale per i diritti dell’infanzia, nonché direttamente in udienza avanti al CSM e avanti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: rimaste nei cassetti se non cestinate.
Mi chiamo Mauro Imparato e sono psicologo, neuropsicologo e psicoterapeuta. Sono stato Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna ininterrottamente dal 2004 al 2013 (tre mandati consecutivi). Durante il mio secondo e terzo mandato (2008-2010 e 2011-2013) ho avuto modo di affiancare, collaborandovi strettamente, il dottor Guido Stanzani e il dottor Francesco Morcavallo, entrambi giudici togati. Al massimo delle mie possibilità li ho appoggiati nel loro strenuo impegno volto a contrastare le “malpratiche” del Tribunale, in particolare gli “allontanamenti facili” e altri interventi de potestate privi di effettiva e comprovata giustificazione (un reale pregiudizio per il minore). Mi sono quindi trovato a contestare e contraddire subdoli e delittuosi ripetuti tentativi dei colleghi (Presidente, giudici togati, giudici onorari) di allontanare i predetti, dottor Stanzani e dottor Morcavallo, con infamanti calunnie e mendaci addebiti disciplinari. In diverse occasioni, tra il gennaio 2011 e la fine del mio incarico (2013) ho denunciato, con esposti scritti indirizzati a Presidente del TM, Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio Giudiziario, Corte d’Appello, Ministro, Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e persino Commissione Bicamerale per i diritti dell’infanzia, nonché direttamente in udienza avanti al CSM e avanti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione:
– le illegittime ed illecite camere di consiglio civili, con presenza multipla di componenti onorari e fissazione del collegio non ad inizio discussione del singolo caso, ma con scelta dei giudici da inserire a collegio in base alle adesioni al parere del giudice togato relatore (sempre a favore dell’allontanamento del minore dalla famiglia naturale, ovvero del suo collocamento extrafamigliare);
– le calunnie proferite per iscritto, al Presidente del Tribunale, da parte di almeno due giudici togati e almeno due giudici onorari, nei confronti del dottor Guido Stanzani, addebiti del tutto falsi (aver modificato decisioni di camera di consiglio durante la stesura dei decreti) e dalla mia testimonianza confutabili, nonché le pressioni o intimidazioni, da parte dei due giudici togati ai giudici onorari (sottoscritto compreso), affinché mendacemente le sostenessimo; (i reati che si sarebbero calunniosamente attribuiti al dottor Stanzani sarebbero occorsi in camere di consiglio cui io stesso avevo partecipato e, come appurai, con coinvolgimento di un giudice onorario che non vi era incluso); contraddissi queste calunnie anche in udienza avanti al CSM nella tarda primavera 2011;
– la mendacità delle attribuzioni di comportamenti disciplinarmente sanzionabili mosse al dottor Francesco Morcavallo e al dottor Guido Stanzani e la mia deliberata estromissione dall’ispezione ministeriale sollecitata e ottenuta dall’allora Presidente;
– la sospensione della rotazione dei giudici togati e onorari, sino ad allora da sempre vigente, nella composizione delle camere di consiglio civili settimanali, volta a impedire al dottor Stanzani, al dottor Morcavallo e al sottoscritto di condividere un qualsiasi collegio. Ciò per impedire che vi fosse mai alcun collegio in grado di opporsi, per maggioranza, ad allontanamenti ingiustificati di minori dalle loro famiglie o rigettare ricorsi inconsistenti della Procura della Repubblica per i Minorenni.
Nonostante le mie testimonianze e denunce agli organismi giudiziari competenti:
– il dottor Guido Stanzani, fu indotto a non ricorrere contro l’ingiusto provvedimento disciplinare del CSM, che lo allontanava dal TM, sotto avvisaglia di nuove calunnie (questa volta non neutralizzabili da “dissidenti” all’impostura quale si era rivelato il sottoscritto), limitandosi a richiedere il trasferimento a precedente sede giudiziaria e incarico;
– il dottor Morcavallo, nonostante la Cassazione avesse disposto l’annullamento del procedimento di allontanamento del CSM, dovette attendere oltre un anno per il reintegro al TM di Bologna;
– il dottor Morcavallo, non appena reintegrato al TM di Bologna, tornò a subire pesante ostracismo e violazioni del suo ufficio;
– al dottor Morcavallo e allo scrivente fu nuovamente impedita qualsiasi rotativa partecipazione condivisa a camere di consiglio sia civili che penali (e.g. tribunale del riesame).
Successivamente alle mie prime denunce e al mio rifiuto di calunniare il dottor Stanzani e il dottor Morcavallo, fui lentamente esautorato da qualsiasi attività istruttoria, per anni svolta in gran mole, e da qualsiasi delega di udienza (fatti salvi unicamente le udienze per ricorsi congiunti ai sensi dell’art 317bis), e fui “invitato” alle dimissioni dal Presidente e da un altro giudice togato. Dopo il mio ultimo esposto (dicembre 2012) a CSM, PG di Cassazione, Consiglio Giudiziario, Corte d’Appello, Ministro di Giustizia, commissione bicamerale per i diritti dell’infanzia, Presidente facente funzioni del TM:
– finii per svolgere due sole camere di consiglio al mese (gennaio e febbraio 2013, dopo l’ultima mia denuncia agli organismi competenti del dicembre 2012), a fronte delle 10/15 udienze settimanali (oltre a collegi civili e di dibattimento penale, GUP, riesame …) svolte per anni sin dal 2004; due sole camere di consiglio civili in cui tutte le deleghe istruttorie erano conferite unicamente all’altro giudice onorario presente (benché di inferiore anzianità di servizio) e in cui lo scrivente era sempre, inevitabilmente, in minoranza 1:3 nei casi contrastati;
– rassegnai le mie dimissioni – che mai ricevettero accettazione o rifiuto dal CSM – denunciandonuovamente tutti i fatti del periodo 2011-2013 già denunciati, inclusa la mia ormai totale e ingiustificata estromissione dalle attività di udienza;
– il mio mandato fu fatto silenziosamente scadere senza che venissi più convocato (per ben 10 mesi) né mi fosse comunicata risposta per le mie dimissioni di denuncia e protesta da alcun ufficio o organismo competente (Corte d’Appello, CSM, TM, Consiglio Giudiziario, Ministero di Giustizia).
Nel periodo 2009-2013, dunque, due giudici togati – dottor Guido Stanzani e dottor Francesco Morcavallo – e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna – allontanamenti ingiustificati di minori in primis, ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale (oggi responsabilità genitoriale) –, ma subirono calunnie, procedimenti disciplinari ingiustificati (poi cassati), atti delittuosi lesivi delle proprie funzioni, la propria autonomia giurisdizionale, il proprio ruolo o incarico, la propria persona.
I soli tre giudici che si opposero a questo sistema furono “fatti fuori” e le loro denunce sistematicamente ignorate anche da organismi giudiziari superiori. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi a danno della giustizia e dei minori. Mauro Imparato
Imolaoggi scrive al Fatto per dire che non pubblica bufale. NeXt quotidiano il 21 Luglio 2019. Il Fatto Quotidiano oggi torna sul convegno su Bibbiano alla Camera perché ha ricevuto una lettera dagli organizzatori in cui ci si lamenta che Imolaoggi venga tacciato di pubblicare bufale: Fornendo il resoconto, frammentario e fuorviante di un convegno svoltosi alla Camera dei deputati, sulle violazione dei diritti dei bambini e delle loro famiglie riemerse, da ultimo, nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, Il Fatto Quotidiano ha preso posizione il 19 luglio 2019,alla pagina 19,con firme di Sarah Buono e Maria Cristina Fraddosio, affermando che una vicenda riguardante “una decina di bambini” verrebbe amplificata per sostenere tesi riferibili a partiti politici o a posizioni ideologiche o addirittura discriminatorie. Inoltre, il sito di informazione Imola Oggi, cui va il merito dell’organizzazione dell’evento, viene tacciato di pubblicare bufale. I sottoscritti, moderatore e relatori nel convegno, esprimono dissenso e rivendicano la propria posizione di tecnici, i quali, in modo riconosciuto nei rispettivi settori di appartenenza, esercitano le proprie professioni al più elevato livello, secondo la più limpida attendibilità, mai posta in dubbio da chicchessia, e soprattutto in modo scevro da alcun condizionamento o pregiudizio politico, ideologico O religioso. Si vogliono qui prendere le distanze da chiunque intenda insabbiare o sminuire una vicenda di ingiustizia diffusa, di cui sono vittime bambini e famiglie per lo più deboli e povere e di cui sono responsabili enti solo nominalmente non lucrativi e magistrati impreparati o disonesti. Il sistema emerso a Bibbiano non solo rispecchia una diffusa e quotidiana violazione dei diritti umani che riguarda centinaia di migliaia di bambini in Italia, come più volte rilevato e censurato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; ma risulterebbe raccapricciante anche se riguardasse un bambino solo e qualunque fosse il colore dell’eventuale tessera di partito dei suoi familiari o di coloro che avessero il coraggio di difenderlo. Ridurre questo inquietante contesto ad argomento di polemica politica o ideologica significa favorire la l’ormai noto e documentato sistema che produce guadagno sulla pelle dei bambini e a favore di cooperative ed enti religiosi.
Come hanno fatto notare sul Fatto Quotidiano Sarah Buono e Maria Cristina Fraddosio nel panel dei relatori compaiono i nomi di esperti vicini al CCDU, il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani. Formalmente è una semplice Onlus ma in realtà è la versione italiana della Citizens Commission on Human Rights (CCHR), un’associazione che è emanazione di Scientology, la setta fondata da Ron Hubbard nota per alcuni casi di abuso sugli adepti. Che quelli della CCDU siano di Scientology è pacifico, lo ha ammesso anni fa anche il vicepresidente della Onlus durante uno dei convegni contro il sistema degli affidi. Questa è la risposta delle autrici dell’articolo alla lettera:
Non intendiamo sminuire né insabbiare nulla, neanche le nostre perplessità di fronte alle generalizzazioni che abbiamo ascoltato durante il convegno a partire da un’inchiesta su fatti avvenuti in una parte del territorio della provincia di Reggio Emilia. Di quell’inchiesta il Fatto Quotidiano ha dato ampiamente conto. Imola Oggi si presenta come una testata giornalistica e non lo è, più volte ha pubblicato notizie che si sono rivelate inesatte, il suo sedicente direttore non è iscritto all’Albo dei giornalisti: sorprende che sia stato invitato a moderare un dibattito alla Camera dei deputati e che, addirittura, i giornalisti dovessero accreditarsi per Montecitorio scrivendo a Imolaoggi.it.
Affidamenti illeciti. Nei piccoli Comuni "servizi sociali e appalti senza controlli". Lucia Moia domenica 14 luglio 2019 su Avvenire. Dopo l’inchiesta di Reggio Emilia emergono situazioni ad alto rischio nel nostro sistema di protezione dei figli in difficoltà L’avvocato Franceschini: gli abusi continuano. «Sempre che i fatti siano confermati…». A venti giorni dagli arresti per l’inchiesta affidi illeciti di Reggio Emilia, tutti si trincerano dietro la frase di rito. Ma intanto quei fatti sono capitati. Decine di bambini non sono già stati allontanati dalle loro famiglie? Non hanno già subìto interrogatori condotti con metodi che – a leggere i particolari dell’ordinanza – risultano invasivi e capziosi? Alcuni di loro non hanno già manifestato con sindromi da dipendenza e altro disturbi psicologi il disagio profondo per quegli episodi? Certo, l’altro ieri il Tribunale dei minori di Bologna, ha reso nota l’intenzione di rivedere i procedimenti relativi a 5 dei minori coinvolti. E si tratta di una scelta comunque positiva. Ma, nel frattempo quanta sofferenza... Nel 2013 l’associazione 'Finalmente Liberi' presieduta dall’avvocato Cristina Franceschini, una lunga esperienza proprio accanto alle famiglie ferite dalla separazione e ai minori in difficoltà, aveva raccolto in un dossier tutti gli intoppi del diritto minorile. Era risultato che, su oltre mille giudici onorari – psicologi, neuropsichiatri, pedagogisti che affiancano il magistrato 'togato' nel collegio giudicante – circa 200 sembravano a rischio conflitto di interesse, perché impegnati a vario titolo nelle comunità destinate ad ospitare quegli stessi bambini oggetto delle sentenze emesse 'anche' da quei giudici. Oggi la situazione è probabilmente diversa perché nel frattempo sono arrivati due provvedimenti del Csm che vieta in maniera esplicita agli 'onorari' di avere incarichi di qualsiasi tipo, anche a titolo gratuito, con le comunità d’accoglienza dei minori. Situazione ristabilita? «Credo che qualche abuso persista – osserva l’avvocato Franceschini – perché se il Csm è stato costretto ad intervenire due volte significa che il problema era grave. Stiamo completando un nuovo dossier anche su questo tema e lo renderemo noto al più presto». Dove la situazione appare del tutto fluida – negativamente fluida – è invece sul fronte del rapporto tra amministrazioni locali, cooperative che assolvono le funzioni di competenza degli assistenti sociali e tribunali. La storia parte dalla legge 328 del 2000 – legge quadro di riforma dei Servizi socio assistenziali – che ha dato ai Comuni al di sotto dei cinquemila abitanti la possibilità di offrire servizi sociali consorziandosi in cooperative. Ora, visto che in Italia i piccoli Comuni rappresentano quasi l’80 per cento del totale, servizi delicati e importanti, come quelli riguardanti appunto i minori fuori famiglia, risultano di fatto privatizzati in troppe zone. Ma ciò accade ormai per prassi anche nelle grandi città visto che il personale amministrativo è insufficiente. Il loro operato si svolge quasi senza controlli, nonostante venga utilizzato denaro pubblico, perché raramente nei piccoli Comuni ci sono risorse e competenze specialistiche per verificare decisioni professionali comunque complesse e delicate. «Queste realtà possono per esempio gestire i cosiddetti "spazi neutri" – riprende la presidente di "Finalmente liberi" – dove i genitori separati incontrano i figli allontanati da casa sotto la tutela di una psicologa o di una terapeuta, oppure il servizio di assistenza domiciliare qualora venga disposta prima dell’allontanamento o dopo il rientro in famiglia del bimbo. Questi incontri, che dovrebbero servire anche per accertare le capacità genitoriali, hanno un costo. Il Comune o il genitore paga da 50 a 100 euro ogni incontro. Se quindi un ente o il genitore ha disponibilità economiche, ci possono essere uno e due incontri settimanali, altrimenti tutto viene diradato anche ad una sola ora al mese, alla faccia del presunto obiettivo di recupero della genitorialità ». Sulla base di questi incontri, i professionisti che operano nelle cooperative – di cui certamente la maggior parte offre servizi trasparenti e di grande competenza – preparano poi le relazioni per il giudice minorile. Ma, considerando che la cooperativa guadagna anche grazie alla frequenza e alla durata dei colloqui, chi può accertare che non vengano dilatati oltre il necessario? «Non molto tempo fa alcuni miei assistiti mi avevano riferito di aver sentito personalmente la responsabile di una di queste realtà – rivela l’avvocato Franceschini – accordarsi con un funzionario comunale: 'Dobbiamo continuare ancora un anno altrimenti mi manca la copertura'. Capito? Quella cooperativa aveva un contratto annuale e aveva la necessità di prolungare il percorso con i genitori, benché non più necessario, per continuare a incassare le quote». Non sarebbe stato più opportuno con quei soldi aiutare quella e altre famiglie? Certamente sì. Ma chi può sindacare sulla relazione di una cooperativa privata che viene sottoscritta dall’assistente sociale e finisce per diventare l’atto di un pubblico ufficiale? Certo, le famiglie con competenze e, soprattutto disponibilità economiche, potrebbero nominare un consulente tecnico di parte (che costa in media oltre mille euro), ma ben difficilmente uno psicologo scelto dalla famiglia può influire sulle scelte del giudice prima della convocazione dell’udienza. E non di rado passano mesi. Troppi mesi. «A meno che l’avvocato scelto dalla famiglia – conclude Cristina Franceschini – non si attivi in tempi rapidissimi, non prenda contatto subito con i servizi sociali, non si presenti al giudice per esporre il suo punto di vista. Certo, nella procedura ordinaria il pm ha 48 ore di tempo per l’obbligo di convalida di un fermo. Nel diritto minorile non ci sono limiti. E ogni giudice agisce a discrezione». C’è da stupirsi se in sistema così traballante possano accadere episodi come quelli emersi dall’inchiesta di Reggio Emilia? «Sempre che i fatti siano confermati…». Conosciamo il ritornello.
Affidi Illeciti, l’Avv. Polacco: i tribunali per i minorenni vanno soppressi. Avv. Edoardo Polacco su Meridiana notizie 5 agosto 2019. I gravissimi fatti di Bibbiano sui minori strappati alle famiglie , sugli affidi dei minori gestiti più dalle Associazioni ed Educatori di vario genere che dai Giudici ci porta ad un approfondimento dell’organizzazione e della validità dei Tribunale per i Minorenni. Lo scandalo di Bibbiano , secondo i maggiori mezzi di informazione che seguono le vicende giudiziarie , ha come fulcro alcune associazioni/onlus, alcuni professionisti tra assistenti sociali e psicologi e , per adesso, un Sindaco che avrebbe concesso i servizi sociali ad associazioni , affermano attualmente i giudici, senza appalto pubblico .Specificatamente , una delle assistenti sociali , agli arresti domiciliari ed indagata per falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione, ha confessato dinanzi i PM che si occupano dell’inchiesta, di essere stata obbligata a falsificare i verbali per l’affido dei minori , dai suoi superiori .Ma fino ad oggi nessun ha ancora verificato o affondato il bisturi su chi realmente supervisiona tutte queste condotte su chi definitivamente decide e decreta la sottrazione del minore da una famiglia affidandolo ad una associazione/onlus : Il Tribunale per i Minori. Si, perché in tutte le operazioni sociali ed amministrative chi decreta, chi appone la propria firma definitiva è un Giudice o meglio un collegio giudicante del Tribunale per i Minori .Ed allora è mai pensabile che in tutti questi anni il Tribunale per i Minori di Bologna non abbia mai svolto una indagine su quello che accadeva sul suo territorio, è mai pensabile che nonostante le decine e decine di esposti presentati da numerose famiglie contro i metodi dei servizi sociali, il Tribunale non abbia mai aperto un’inchiesta ma abbia avvalorato le relazioni sociali? Appare sconcertante la notizia secondo cui la Procura della Repubblica di Reggio Emilia aveva informato il Tribunale per i Minori di Bologna della falsità di alcune relazioni sociali e quindi dei relativi Decreti di affidamento di alcuni minori ma, come afferma la stessa Procura, il Tribunale per i minorenni di Bologna non tenne mai conto di questa informazione giudiziaria. A questo punto è bene verificare come svolge il proprio lavoro il Tribunale per i Minorenni e come sono composti e da chi i Collegi giudicanti. Orbene, pochi sanno che il Collegio giudicante del Tribunale per i Minorenni è composto da due Giudici Togati e da due Giudici Onorari, Giudici Onorari con pieni poteri che vengono nominati ( senza concorso), attraverso un Bando pubblico ai sensi della L. 24/2010 a cui possono partecipare, cosi come prevedono le delibere del CSM , “ i cittadini benemeriti dell’assistenza sociale e cultori di biologia, psichiatria, antropologia, pedagogia e psicologia “. Quindi non si prevede neanche una laurea ma esclusivamente una “benemerenza” o un titolo di studio specialistico senza laurea. Ecco la prima immensa stortura. Un Giudice, seppur onorario ma sempre Giudice, neanche laureato, assunto senza nessun concorso se non con un bando per titoli, senza prove selettive, che dovrà giudicare, l’affido , l’ adozione ed altri fatti importantissimi per famiglie e minori .Ovviamente quale è la categoria professionale che ottiene più posti in assoluto tra i Giudici Onorari Minorili : gli assistenti sociali .Ma poi chi ha mai controllato o controlla se questi Giudici Onorari, già assistenti sociali rappresentino o abbiano rapporti di lavoro o rapporti economici con le Onlus/Associazioni/Cooperative che poi beneficiano di finanziamenti pubblici o che gestiscono gli affidi i adozioni o altro? Nessuno. Non esiste praticamente nessun controllo ed allora ci troviamo in un “palude giudiziaria” senza precedenti in cui i compiti di mischiano con gli interessi in cui non si sa più chi controlla e chi è controllato , ma in cui gli unici a rimetterci sono degli indifesi minori e le loro povere famiglie. I Tribunali per i Minorenni vanno soppressi con una legge ed i loro compiti affidati ai Tribunali Civili con sezioni specifiche per i minori. A cura dell’Avv. Edoardo Polacco
Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. L'Inkiesta il 3 agosto 2015. Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori. Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari.
A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”». Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all'atto dell'incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell'incarico, cariche rappresentative di strutture comunitarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni. Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l'onorevole Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l'istituzione di una apposita commissione d'inchiesta. Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse.
Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse. L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm. «Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte - spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus - per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente». Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l'anno in tre anni per un solo minore. Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture.
Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996. Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli - dice ancora Franceschini - nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono». Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia». Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto. Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia. Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».
"Bibbiano, così Foti e Monopoli chiedevano a Carletti contatto con un giudice". Giuseppe Leonelli per Redazione La Pressa 08 Agosto 2019. Ecco il ruolo della Buccoliero, direttore della Fondazione emiliano-romagna per le vittime dei reati. E il gruppo torinese Abele, fondato da don Ciotti, ha una casa editrice che ha pubblicato anche un libro di Claudio Foti di Hansel e Gretel. Sui rapporti tra la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e gli indagati dell'inchiesta Angeli e Demoni, era intervenuto pubblicamente nei giorni scorsi il capogruppo Lega in Regione Stefano Bargi chiedendo la sospensione della magistrato dal ruolo di direttore. Sul caso è intervenuto anche ufficialmente il presidente della Fondazione stessa Carlo Lucarelli. Si tratta in particolare di Elena Buccoliero (non indagata), giudice onorario presso il Tribunale dei Minorenni, nel cui curriculum stesso sono citati i rapporti con Hansel e Gretel e anche col gruppo Abele. Va sottolineato infatti come il gruppo Abele, fondato a Torino da don Ciotti, abbia una casa editrice che nel 2012 pubblicò anche un libro di Claudio Foti di Hansel e Gretel di Torino. Oggi, nella 12esima puntata della lettura dell'ordinanza del Gip che La Pressa propone, ci soffermiamo sui rapporti appunto tra gli indagati e alcuni magistrati. Citando, come sempre, in modo pedissequo e senza commenti le carte. Claudio Foti e Francesco Monopoli pensano in particolare al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti per avere un contatto con un giudice minorile di Bologna “al quale richiedere aiuto e sostegno quantomeno a livello culturale e di immagine, ma non può escludersi nemmeno ad altro livello”. In una intercettazione del 21 dicembre 2018 in particolare 'Foti chiede a Monopoli di dargli un titolo per il quale possa fare intervenire questo giudice al convegno di febbraio e Monopoli dice che potrebbe intervenire sul tema 'Il Tribunale per i minorenni ed il penale' oppure “quando l'imputato viene assolto e il bambino continua a dire che è successo, cosa succede e quali sono i tempi di cura”. Foti dice che se hai dei giudici che si occupano di questo vuol dire che c'è una prospettiva... che la verità non è morta... che c'è una conclusione psicologica molto forte'. E ancora riguardo a Carletti: "Si manifesta in concreto che il Carletti abbia la possibilità di intrattenere contatti all'esterno per ottenere collaborazione nel proprio interesse al fine di dare copertura alle attività illecite e la capacità di influenza e i contatti a diversi livelli politico-amministrativi quantomeno a livello provinciale, nei settori di competenza (ad esempio l'Asl), ma anche l'autorità giudiziaria minorile". Ma Carletti non era l'unico ad avere contatti con un giudice. Scrive il Gip: 'Contatti simili con almeno un giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni possono, d'altro canto, vantare anche l'Anghinolfi e Monopoli: si tratta della dottoressa Buccoliero, tra l'altro direttore della Fondazione emiliano-romagna per le vittime dei reati. La stessa manifesta una sicura amicizia e pieno sostegno (anche nelle camere di Consiglio continuamente rinnovando la stima per la Anghinolfi e il suo operato). A questo punto l'ordinanza del Gip prosegue con la lunga trascrizione dell'ottobre 2018 tra la Anghinolfi e la stessa Buccoliero, ricordiamo non indagata. "La Anghinolfi ringrazia Elena Buccoliero per il suo intervento al convegno. Si danno del tu e con tono confidenziale". "La Anghinolfi le riferisce dei tre rinvii a giudizio ed altre indagini... La Anghinolfi riferisce che il Pm sta entrando in un ambito metodologico su cui non ha competenza. Elena riferisce di non capire poichè loro, cioè i servizi, stavano applicando un decreto del Tribunale. La Anghinfoli parla degli avvisi ricevuti dai vari operatori uno per calunnia, uno per violenza privata, uno per abuso di ufficio". E ancora: "La Anghinolfi che quanto sta avvenendo è frutto della incompetenza di magistrati in buona fede che non si intendono della materia minorile. La Buccoliero risponde "Tu sei buona, io lo sono un po' meno, nel senso che se tu devi valutare l'operato di un servizio e c'è un decreto che ti dice di fare quelle cose non ti puoi inventare un abuso d'ufficio"". Anche Monopoli, in base a quanto scrive il Gip “risulta essere in buoni rapporti col magistrato Buccoliero”. E viene riportata una telefonata nella quale Monopoli parla di "Un decreto di allontanamento mamma con bambino abbastanza tosto. Monopoli dice che loro hanno fatto una missiva inoltrata al Tribunale dove avevano scritto che al momento non avevano strutture libere e quindi ne ritardavano l'esecuzione". Poi chiede alla Buccoliero se "tale missiva è sufficiente" aggiungendo il nome del Giudice minorile del caso. “Occorrerebbe chiamare la cancelleria del giudice (e fa il nome) lunedì” - è la risposta della Buccoliero. Giuseppe Leonelli
Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 13 ottobre 2015 - Ricorso n. 52557/14 - S.H. c. Italia. Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico, e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico. Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO QUARTA SEZIONE CAUSA S.H. c. ITALIA (Ricorso n. 52557/14)
SENTENZA STRASBURGO 13 ottobre 2015
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa S.H. c. Italia, La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente, Guido Raimondi, Ledi Bianku, Nona Tsotsoria, Paul Mahoney, Faris Vehabović, Yonko Grozev, giudici, e da Fatoş Aracı, cancelliere aggiunto di sezione. Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 22 settembre 2015, Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 52557/14) proposto contro la Repubblica italiana con cui una cittadina italiana, la sig.ra S.H. («la ricorrente»), ha adito la Corte l’11 luglio 2014 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. La ricorrente è stata rappresentata dall’avv. M. Morcavallo del foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.
3. La ricorrente lamenta in particolare una violazione del suo diritto al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione.
4. Il 23 ottobre 2014 il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 8 della Convenzione è stato comunicato al Governo e il ricorso è stato dichiarato irricevibile per il resto, conformemente all’articolo 54 § 3 del Regolamento della Corte.
IN FATTO. I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. La ricorrente è nata nel 1984 ed è residente a Sacile.
6. I fatti di causa, così come esposti dalle parti, si possono riassumere come segue.
7. La ricorrente è madre di tre bambini: R., P. e J., nati rispettivamente nel 2005, 2006 e 2008.
8. All’epoca dei fatti la ricorrente viveva con il padre dei bambini, soffriva di depressione e seguiva una terapia farmacologica.
9. Nell’agosto 2009 i servizi sociali informarono il tribunale per i minorenni di Roma (di seguito «il tribunale») che i minori erano stati più volte ricoverati per avere ingerito accidentalmente dei farmaci e fu avviato un procedimento d’urgenza dinanzi al tribunale. Con un provvedimento emesso l’11 agosto 2009 il tribunale ordinò l’allontanamento dei minori dalla famiglia disponendo che fossero collocati in un istituto, e incaricò i servizi sociali di elaborare un progetto in favore dei minori stessi.
10. Il 20 ottobre 2009 la ricorrente e il padre dei minori furono sentiti dal tribunale. Essi ammisero che, a causa dello stato di salute della ricorrente e degli effetti secondari dei farmaci che assumeva per curare la depressione, essi avevano delle difficoltà ad occuparsi dei figli. Tuttavia, affermarono che potevano occuparsi in maniera adeguata dei bambini con l’aiuto dei servizi sociali e del nonno. La ricorrente indicò che seguiva una terapia e che gli effetti secondari inizialmente indotti dai farmaci non si erano più manifestati. I due genitori chiesero di prevedere un progetto di sostegno elaborato dai servizi sociali allo scopo di permettere il ritorno dei minori in famiglia.
11. Il 3 dicembre 2009 la psichiatra depositò il proprio rapporto relativo alla ricorrente. Da quest’ultimo risultava che essa seguiva una terapia farmacologica, che era disposta a seguire una psicoterapia e ad accettare l’aiuto dei servizi sociali, e che aveva un legame affettivo molto forte con i figli. Alla stessa data, il Gruppo di lavoro integrato sulle adozioni («G.I.L.») depositò il proprio rapporto indicando che, nonostante le difficoltà famigliari, i genitori avevano reagito positivamente, avevano partecipato agli incontri organizzati ed erano disposti ad accettare il sostegno dei servizi sociali. Di conseguenza, il G.I.L. proponeva il ritorno dei minori presso i genitori e la realizzazione di un progetto di sostegno famigliare.
12.; Con un provvedimento emesso il 19 gennaio 2010 il tribunale, tenuto conto dei rapporti dei periti e del fatto che il nonno paterno era disposto ad aiutare il figlio e la ricorrente ad occuparsi dei bambini, ordinò che questi ultimi tornassero presso i genitori. Il 24 marzo 2010, tuttavia, il progetto di riavvicinamento genitori-figli fu interrotto e i minori furono allontanati nuovamente dalla famiglia in quanto la ricorrente era stata ricoverata in seguito all’aggravarsi della sua malattia, il padre aveva lasciato l’abitazione famigliare e il nonno era malato. Il tribunale stabilì allora un diritto di visita per i due genitori, fissato nel modo seguente: per la ricorrente un’ora ogni quindici giorni; per il padre dei minori due ore a settimana.
13. Nel marzo 2010 la procura chiese che fosse avviata una procedura di dichiarazione dello stato di adottabilità dei minori.
14. Il 10 giugno 2010 i genitori furono sentiti dal tribunale. La ricorrente affermò che si stava curando, sottolineò che il padre dei minori era disposto ad occuparsene e che, di conseguenza, questi ultimi non si trovavano in stato di abbandono. Il padre assicurava che, anche se lavorava, poteva occuparsi efficacemente dei minori, con l’aiuto di suo padre, e che aveva assunto una collaboratrice domestica che poteva aiutarlo.
15. Nell’ottobre 2010 il tribunale dispose una perizia per valutare la capacità della ricorrente e del padre dei minori di esercitare il ruolo di genitori. Il 13 gennaio 2011 il perito depositò un rapporto dal quale risultava:
che il padre non presentava alcuna patologia psichiatrica, che aveva una personalità fragile ma era in grado di assumersi le proprie responsabilità;
che la ricorrente era affetta da un «disturbo della personalità borderline che interferiva, in misura limitata, con la sua capacità di assumersi delle responsabilità legate al suo ruolo di madre»;
che i bambini erano iperattivi, e che una parte importante di questa sintomatologia poteva essere l’espressione delle difficoltà famigliari.
Nelle sue conclusioni, il perito osservò che i due genitori erano disposti ad accettare gli interventi necessari al fine di migliorare il loro rapporto con i figli e formulò le seguenti proposte: mantenere l’affidamento dei bambini all’istituto, predisporre un percorso di riavvicinamento tra i genitori e i figli e intensificare gli incontri. Fu proposta anche una nuova valutazione della situazione della famiglia dopo sei mesi.
16. Con una sentenza emessa il 1° marzo 2011, tuttavia, il tribunale dichiarò i minori adottabili e gli incontri tra i genitori e i minori furono interrotti. Nelle motivazioni, il tribunale considerò che nel caso di specie non fosse necessaria una nuova valutazione della situazione famigliare. Esso sottolineò le difficoltà dei genitori a esercitare il loro ruolo genitoriale, difficoltà che erano state indicate dal perito, e fece riferimento alle dichiarazioni della direttrice dell’istituto, secondo la quale la ricorrente soffriva di «gravi disturbi mentali», il padre «non era capace di dimostrare il suo affetto e si limitava a interagire con gli assistenti sociali in modo polemico» e i genitori «non erano in grado di dare ai figli le attenzioni e le terapie di cui avevano bisogno ». Tenuto conto di questi elementi, il tribunale dichiarò i minori adottabili.
17. La ricorrente e il padre dei minori interposero appello avverso tale sentenza e chiesero la sospensione dell’esecuzione della stessa. Essi affermavano:
che il tribunale aveva erroneamente dichiarato l’adottabilità in assenza di una «situazione di abbandono», condizione necessaria ai sensi della legge n. 184 del 1983 per poter dichiarare l’adottabilità;
che la dichiarazione di adottabilità doveva costituire soltanto una extrema ratio e che, nella fattispecie, essa non era necessaria in quanto le loro difficoltà famigliari, legate soprattutto alla malattia della ricorrente, erano di natura transitoria e avrebbero potuto essere superate con il sostegno degli assistenti sociali.
Gli stessi sottolinearono infine che il tribunale non aveva tenuto conto della perizia depositata nel gennaio 2011 che ordinava la realizzazione di un percorso di sostegno e il riavvicinamento dei minori ai loro genitori.
18. Nel luglio 2011 il tribunale ordinò che ciascuno dei figli fosse dato in affidamento a una famiglia diversa.
19. Con una sentenza resa il 7 febbraio 2012 la corte d’appello di Roma rigettò l’appello della ricorrente e confermò l’adottabilità.
La corte d’appello osservò che le autorità competenti avevano compiuto gli sforzi necessari per garantire un sostegno ai genitori e preparare il ritorno dei bambini presso la loro famiglia. Tuttavia, il progetto non era andato a buon fine, il che dimostrava l’incapacità dei genitori di esercitare il loro ruolo genitoriale e l’assenza di carattere transitorio della situazione. Basandosi sulle conclusioni dei servizi sociali, la corte d’appello sottolineò che il fallimento del progetto aveva avuto conseguenze negative per i minori e che l’adottabilità mirava a tutelare il loro interesse ad essere accolti in una famiglia capace di prendersi cura di loro in maniera adeguata, cosa che la loro famiglia di origine non era in grado di fare a causa dello stato di salute della madre e delle difficoltà del padre. La corte d’appello osservò che vi erano stati sviluppi positivi della situazione, come la presa di coscienza della madre dei suoi problemi di salute e la sua volontà di seguire un percorso terapeutico, nonché gli sforzi del padre per trovare delle risorse per occuparsi dei figli o la disponibilità del nonno ad aiutare il figlio. Tuttavia, secondo la corte d’appello, questi elementi non erano sufficienti ai fini della valutazione della capacità dei due genitori di esercitare il loro ruolo genitoriale. Tenuto conto di questi elementi e allo scopo di salvaguardare l’interesse dei minori, la corte d’appello concludeva perciò confermando l’adottabilità.
20. La ricorrente e il padre dei bambini presentarono ricorso per cassazione. Con una sentenza depositata il 22 gennaio 2014, la Corte di cassazione respinse il ricorso della ricorrente, considerando:
che la corte d’appello avesse correttamente valutato l’esistenza di una situazione di abbandono morale dei minori e l’irreversibilità della incapacità dei genitori di esercitare il loro ruolo, tenuto conto del fallimento del primo progetto di sostegno messo in atto dai servizi sociali;
che la dichiarazione di adottabilità avesse debitamente tenuto conto dell’interesse dei minori a essere accolti in una famiglia capace di occuparsene efficacemente.
21. Nel febbraio 2014 la ricorrente chiese al tribunale per i minorenni di Roma la revoca della dichiarazione di adottabilità (sulla base dell’articolo 21 della legge n. 184 del 1983). A sostegno della sua domanda, la ricorrente produsse diversi documenti medici che attestavano che il suo stato di salute nel frattempo era migliorato, allo scopo di dimostrare che le condizioni previste dall’articolo 8 della legge n. 184 del 1983 per poter dichiarare l’adottabilità erano ormai venute meno. Con una sentenza resa in data 14 maggio 2014 il tribunale per i minorenni di Roma rigettò la domanda della ricorrente.
22. L’esito della procedura di adozione dei minori non è ancora noto.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
23. Il diritto interno pertinente è descritto nelle cause Akinnibosun c. Italia, (n. 9056/14, § 45, 16 luglio 2015) e Zhou c. Italia, (n. 33773/11, §§ 24-26, 21 gennaio 2014).
IN DIRITTO. I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE
24. La ricorrente contesta alle autorità interne di avere dichiarato l’adottabilità dei suoi figli mentre, nella fattispecie, non esisteva alcuna situazione di abbandono, bensì soltanto delle difficoltà famigliari transitorie, legate alla sua patologia depressiva e all’interruzione della sua convivenza con il padre dei minori, difficoltà che avrebbero potuto essere superate attuando un percorso di sostegno con l’aiuto dei servizi sociali. Essa sottolinea che le autorità interne hanno tagliato ogni legame con i suoi figli mentre la perizia aveva stabilito che nel caso di specie potevano essere adottate altre misure volte a salvaguardare il legame famigliare. Pertanto, essa ritiene che le autorità interne si siano sottratte al loro obbligo positivo di fare ogni sforzo necessario per salvaguardare il legame genitori-figli, inerente all’articolo 8 della Convenzione, che recita: «1.; Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»
25. Il Governo contesta questa tesi.
A. Sulla ricevibilità
26.; La Corte, constata che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre peraltro in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.
B. Sul merito
1. Tesi delle parti a) La ricorrente
27. La ricorrente sottolinea anzitutto che le condizioni previste dalla legge per dichiarare l’adottabilità dei suoi figli non erano soddisfatte nel caso di specie, e a tale proposito osserva che i giudici nazionali hanno basato la dichiarazione di adottabilità soprattutto sulla sua malattia e sull’interruzione della convivenza tra i due genitori. Considerando che queste difficoltà famigliari erano di natura temporanea, la ricorrente ritiene che, preferendo tagliare il legame di filiazione materna piuttosto che adottare le misure necessarie per sostenerla ed aiutarla, i giudici nazionali siano venuti meno agli obblighi positivi derivanti dalla Convenzione.
28. La ricorrente fa osservare che se inizialmente fu attuato un percorso di sostegno, esso è stato nondimeno interrotto a causa dell’aggravarsi del suo stato di salute. Essa sottolinea che tale aggravamento era soltanto di natura temporanea, e pertanto non poteva giustificare la cessazione definitiva di qualsiasi tentativo di salvaguardare il legame famigliare.
29. La ricorrente rammenta che era consapevole delle difficoltà causate dalla sua malattia e sottolinea che aveva seguito un percorso terapeutico e chiesto varie volte ai servizi sociali e alle autorità competenti un sostegno e un accompagnamento per soddisfare al meglio le necessità dei bambini. Essa considera che la situazione di difficoltà di un genitore non può bastare, di per sé, a giustificare la rottura del legame genitore-figlio ma impone allo Stato di adottare le misure necessarie per fornire un’assistenza effettiva e preservare il legame famigliare. A questo riguardo la ricorrente fa riferimento alla giurisprudenza Zhou c. Italia, sopra citata.
30. La ricorrente non contesta che le autorità nazionali godano di un ampio margine di apprezzamento per determinare le misure da adottare al fine di tutelare l’interesse superiore dei bambini. Tuttavia, essa fa osservare che l’allontanamento dei minori dalla madre ha avuto effetti negativi sul loro equilibrio psicofisico e si riferisce a questo proposito ai rapporti dei periti (si veda il paragrafo 15 supra).
31. La ricorrente richiama l’attenzione sul fatto che la decisione di dichiarare i minori adottabili è stata presa senza tenere conto dei rapporti dei periti, secondo i quali il legame genitore-figli doveva essere preservato. La stessa rammenta a questo riguardo che, in un primo momento, i periti avevano auspicato che i bambini tornassero dai loro genitori. In seguito, quando il suo stato di salute si era aggravato e la convivenza tra i due genitori era stata interrotta, il perito nominato dal tribunale aveva proposto l’affidamento famigliare temporaneo dei minori e la realizzazione di un percorso di sostegno. I giudici nazionali, tuttavia, hanno contravvenuto a queste indicazioni, hanno dichiarato i minori adottabili e li hanno dati in affidamento ciascuno a una famiglia diversa.
b) Il Governo
32. Il Governo afferma che le autorità italiane competenti hanno agito nell’intento di proteggere l’interesse superiore dei minori e hanno adottato tutte le misure necessarie per salvaguardare il legame famigliare. La dichiarazione di adottabilità è stata pronunciata nell’ambito di una procedura equa, dopo un esame approfondito della situazione psicologica e fisica dei genitori e dei figli.
33. Il Governo rammenta che i minori vivevano in una situazione di precarietà e di pericolo, il che aveva giustificato l’intervento dei servizi sociali e la loro collocazione in un istituto.
34. La dichiarazione di adottabilità, intervenuta dopo vari tentativi di riunire i minori e i loro genitori, si basava sulle indicazioni dei periti ed era giustificata dall’esigenza di salvaguardare l’interesse superiore dei minori. Il Governo rammenta al riguardo il contenuto dei rapporti peritali che evidenziano i limiti della capacità della ricorrente di esercitare il ruolo di genitore nonché i disturbi comportamentali dei minori legati alla situazione famigliare difficile (si veda il paragrafo 15 supra).
35. Il Governo ritiene che la proposta dei periti di effettuare una nuova valutazione della situazione famigliare prima di dichiarare i minori adottabili non poteva essere accolta dai giudici nazionali. L’analisi attenta degli elementi di fatto e di diritto operata dai giudici nazionali aveva evidenziato l’esistenza di gravi motivi che giustificano la dichiarazione di adottabilità e non lasciava dubbi circa l’impossibilità di un cambiamento positivo della situazione famigliare. La volontà dei genitori di occuparsi dei figli e di accettare un sostegno da parte dei servizi sociali non era sufficiente per superare le difficoltà oggettive della presente causa e ad assicurare ai minori un buono sviluppo psicofisico.
36. Il Governo richiama l’attenzione sul fatto che la ricorrente aveva dichiarato dinanzi ai giudici nazionali di non essere in grado di occuparsi dei figli e aveva chiesto di essere aiutata o che i minori fossero affidati al padre. Tenuto conto di queste difficoltà, riconosciute dalla stessa ricorrente, e del fatto che il percorso di sostegno non era andato a buon fine, i giudici nazionali hanno adottato l’unica decisione che potesse tutelare l’interesse dei minori. Il Governo rammenta a questo riguardo la giurisprudenza della Corte, secondo la quale deve essere garantito un giusto equilibrio tra gli interessi dei figli e dei genitori. Tuttavia, l’interesse superiore del figlio può prevalere su quello dei genitori (Johansen c. Norvegia, 7 agosto 1996, § 78, Recueil des arrêts et décisions 1996 III).
37. Il Governo afferma che l’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto della sua vita famigliare era prevista dalla legge e perseguiva lo scopo di proteggere i minori. Esso considera infine che i motivi indicati dai giudici nazionali per fondare le loro decisioni sono pertinenti e sufficienti, e che le autorità nazionali non hanno oltrepassato il margine di apprezzamento di cui al paragrafo 2 dell’articolo 8 della Convenzione.
2. Valutazione della Corte
a) Principi generali
38. La Corte constata in via preliminare che non viene messo in discussione che la dichiarazione di adottabilità dei minori costituisca una ingerenza nell’esercizio del diritto della ricorrente al rispetto della sua vita famigliare. Essa rammenta che una tale ingerenza è compatibile con l’articolo 8 solo se soddisfa le condizioni cumulative di essere prevista dalla legge, di perseguire uno scopo legittimo e di essere necessaria in una società democratica. La nozione di necessità implica che l’ingerenza si basi su un bisogno sociale imperioso e che sia in particolare proporzionata al legittimo scopo perseguito (si vedano Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 50, CEDU 2000 IX, Couillard Maugery c. Francia, n. 64796/01, § 237, 1° luglio 2004 e Pontes c. Portogallo, n. 19554/09, § 74, 10 aprile 2012).
39.; La Corte rammenta che, al di là della protezione contro le ingerenze arbitrarie, l’articolo 8 pone a carico dello Stato degli obblighi positivi inerenti al rispetto effettivo della vita famigliare. In tal modo, laddove è accertata l’esistenza di un legame famigliare, lo Stato deve in linea di principio agire in modo tale da permettere a tale legame di svilupparsi (si veda Olsson c. Svezia (n. 2), 27 novembre 1992, § 90, serie A n. 250; Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 140, CEDU 2010; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 75). Il confine tra gli obblighi positivi e negativi derivanti dall’articolo 8 non si presta a una definizione precisa, ma i principi applicabili sono comunque comparabili. In particolare, in entrambi i casi, si deve avere riguardo al giusto equilibrio da garantire tra i vari interessi coesistenti, tenendo conto tuttavia che l’interesse superiore del minore deve costituire la considerazione determinante che, a seconda della sua natura e gravità, può prevalere su quello del genitore (Sahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 66, CEDU 2003-VIII; Kearns c. Francia, n. 35991/04, § 79, 10 gennaio 2008; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 60). In particolare, l’articolo 8 non può autorizzare un genitore a veder adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio (si vedano Johansen c. Norvegia, sopra citata, § 78, e Gnahoré, sopra citata, § 59). In tal modo, in materia di adozione, la Corte ha già ammesso che possa essere nell’interesse del minore favorire l’instaurarsi di legami affettivi stabili con i suoi genitori affidatari (Johansen, sopra citata, § 80, e Kearns, sopra citata, § 80).
40. La Corte rammenta anche che, nel caso degli obblighi negativi come nel caso degli obblighi positivi, lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento (si veda W. c. Regno Unito, 8 luglio 1987, § 60, serie A n. 121), che varia a seconda della natura delle questioni oggetto di controversia e della gravità degli interessi in gioco. In particolare, la Corte esige che le misure che conducono alla rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia siano applicate solo in circostanze eccezionali, ossia solo nei casi in cui i genitori si siano dimostrati particolarmente indegni (Clemeno e altri c. Italia, n. 19537/03, § 60, 21 ottobre 2008), o quando siano giustificate da un’esigenza primaria che riguarda l’interesse superiore del minore (si vedano Johansen, sopra citata, § 84; P., C. e S. c. Regno Unito, n. 56547/00, § 118, CEDU 2002 VI). Tuttavia, un tale approccio può essere scartato a causa della natura della relazione genitore-figlio quando il legame è molto limitato (Söderbäck c. Svezia, 28 ottobre 1998, §§ 30-34, Recueil 1998 VII).
41. Spetta a ciascuno Stato contraente dotarsi di strumenti giuridici adeguati e sufficienti per assicurare il rispetto degli obblighi positivi ad esso imposti ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, e alla Corte cercare di stabilire se, nell’applicazione e nell’interpretazione delle disposizioni di legge applicabili, le autorità nazionali abbiano rispettato le garanzie dell’articolo 8, tenendo conto in particolare dell’interesse superiore del minore (si vedano, mutatis mutandis, Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 141, CEDU 2010, K.A.B. c. Spagna, n. 59819/08, § 115, 10 aprile 2012, X c. Lettonia [GC], n. 27853/09, § 102, CEDU 2013).
42. A tale riguardo, e per quanto attiene all’obbligo per lo Stato di decretare misure positive, la Corte afferma costantemente che l’articolo 8 implica il diritto per un genitore di ottenere misure idonee a riunirlo al figlio e l’obbligo per le autorità nazionali di adottarle (si vedano, ad esempio, Eriksson c. Svezia, 22 giugno 1989, § 71, serie A n. 156, e Margareta e Roger Andersson c. Svezia, 25 febbraio 1992, § 91, serie A n. 226-A; P.F. c. Polonia, n. 2210/12, § 55, 16 settembre 2014). In questo tipo di cause, l’adeguatezza di una misura si valuta a seconda della rapidità della sua attuazione, in quanto lo scorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sui rapporti tra il minore e il genitore che non vive con lui (Maumousseau e Washington c. Francia, n. 39388/05, § 83, 6 dicembre 2007; Zhou c. Italia, sopra citata, § 48; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 63).
b) Applicazione di questi principi
43. La Corte considera che la questione decisiva nella fattispecie consista pertanto nel determinare se, prima di sopprimere il legame di filiazione materna, le autorità nazionali abbiano adottato tutte le misure necessarie e appropriate che si potevano ragionevolmente esigere dalle stesse affinché i minori potessero condurre una vita famigliare normale all’interno della propria famiglia.
44. La Corte osserva che le autorità italiane hanno preso in carico la ricorrente e i figli a partire da agosto 2009, quando i servizi sociali informarono il tribunale che i minori erano stati ricoverati a causa dell’ingestione accidentale di medicine. I minori furono allontanati dalla famiglia e collocati in un istituto.
45. La Corte osserva che inizialmente fu attuato un primo progetto di sostegno alla famiglia e che, nel gennaio 2010, i minori tornarono presso i genitori. La decisione del tribunale si basava sull’attestazione, da parte dei periti, di una reazione positiva dei genitori al percorso di sostegno famigliare elaborato dai servizi sociali e sull’esistenza di un legame affettivo molto forte tra la ricorrente e i minori.
46. Nel marzo 2010 il padre dei minori lasciò il domicilio famigliare e la ricorrente fu ricoverata a causa dell’aggravamento del suo stato di salute. Alla luce degli sviluppi intervenuti, i minori furono perciò nuovamente allontanati dalla famiglia e collocati in un istituto, e fu avviata una procedura di adottabilità.
47. La Corte osserva che il perito nominato dal tribunale aveva previsto un percorso di riavvicinamento genitori-figli, con una intensificazione degli incontri e un riesame della situazione dopo sei mesi. La soluzione proposta si basava sull’esistenza di legami affettivi forti tra genitori e figli, nonché sulla valutazione complessivamente positiva della capacità dei genitori di esercitare il loro ruolo e sulla loro disponibilità a collaborare con i servizi sociali. La Corte osserva che la perizia in questione fu depositata in cancelleria il 13 gennaio 2011 e che solo due mesi dopo, ossia il 1° marzo 2011, il tribunale, contrariamente alle indicazioni del perito, ha dichiarato i minori adottabili e ordinato l’interruzione degli incontri. La decisione di interrompere immediatamente e definitivamente il legame materno è stata presa molto rapidamente, senza un’analisi attenta dell’incidenza della misura di adozione sulle persone interessate e nonostante le disposizioni di legge secondo le quali la dichiarazione di adottabilità deve rimanere l’extrema ratio. Pertanto il tribunale, rifiutando di prendere in considerazione altre soluzioni meno radicali praticabili nel caso di specie, come il progetto di sostegno famigliare previsto dalla perizia, ha scartato definitivamente qualsiasi possibilità, per il progetto, di andare a buon fine e per la ricorrente di riallacciare i legami con i figli.
48. La Corte rammenta che, per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita famigliare (Couillard Maugery c. Francia, sopra citata, § 237) e che delle misure che portano a una rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia possono essere applicate solo in circostanze eccezionali. La Corte sottolinea anche che l’articolo 8 della Convenzione impone allo Stato di adottare le misure idonee a preservare, per quanto possibile, il legame madre-figlio (Zhou c. Italia, sopra citata, § 59).
49. La Corte osserva che, in cause così delicate e complesse, il margine di apprezzamento lasciato alle autorità nazionali competenti varia a seconda della natura delle questioni sollevate e della gravità degli interessi in gioco. Se le autorità godono di un’ampia libertà per valutare la necessità di prendere in carico un minore, in particolare in caso di urgenza, la Corte deve comunque avere acquisito la convinzione che, nella causa in questione, esistevano circostanze tali da giustificare il fatto di allontanare il minore. Spetta allo Stato convenuto accertare che le autorità abbiano valutato accuratamente l’incidenza che avrebbe avuto sui genitori e sul minore la misura di adozione, e abbiano preso in esame soluzioni diverse dalla presa in carico del minore prima di dare esecuzione a una tale misura (K. e T. c. Finlandia [GC], n. 25702/94, § 166, CEDU 2001 VII; Kutzner, c. Germania, n. 46544/99, § 67, CEDU 2002 I).
50. A differenza di altre cause che la Corte ha avuto occasione di esaminare, i figli della ricorrente nella presente causa non erano stati esposti a una situazione di violenza o di maltrattamento fisico o psichico (si vedano, a contrario, Y.C. c. Regno Unito, n. 4547/10, 13 marzo 2012, Dewinne c. Belgio (dec.), n. 56024/00, 10 marzo 2005; Zakharova c. Francia (dec.), n. 57306/00, 13 dicembre 2005), né ad abusi sessuali (si veda, a contrario, Covezzi e Morselli c. Italia, n. 52763/99, § 104, 9 maggio 2003). La Corte rammenta che ha concluso per l’esistenza di una violazione dell’articolo 8 nella causa Kutzner c. Germania, (§ 68, sopra citata) nella quale i tribunali avevano revocato la potestà genitoriale ai ricorrenti dopo avere constatato in questi ultimi un deficit intellettivo e avevano collocato i due figli in famiglie affidatarie distinte (§ 77, sentenza sopra citata). La Corte ha osservato che, se i motivi invocati dalle autorità e dai giudici nazionali erano pertinenti, gli stessi motivi non erano sufficienti per giustificare questa grave ingerenza nella vita famigliare dei ricorrenti (§ 81, sentenza sopra citata). Essa ha anche constatato la violazione dell’articolo 8 in una causa (Saviny c. Ucraina, n. 39948/06, 18 dicembre 2008) in cui l’affidamento dei figli dei ricorrenti era stato motivato dalla incapacità di questi ultimi di garantire loro condizioni di vita adeguate (la mancanza di risorse economiche e di qualità personali degli interessati mettevano in pericolo la vita, la salute e l’educazione morale dei figli). Lo stesso è avvenuto nella causa Zhou c. Italia (§§ 59-61, sopra citata), nella quale la Corte ha considerato che le autorità non si fossero sufficientemente impegnate per mantenere il legame madre-figlia e si fossero limitate a constatare che sussistevano delle difficoltà che invece avrebbero potuto essere superate per mezzo di una assistenza sociale mirata. La Corte ha invece concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 8 nella causa Aune c. Norvegia (n. 52502/07, 28 ottobre 2010), osservando che l’adozione del minore non aveva di fatto impedito alla ricorrente di continuare ad intrattenere una relazione personale con il minore e non aveva avuto la conseguenza di allontanarlo dalle sue radici. Anche nella causa, sopra citata, Couillard Maugery c. Francia, in cui l’affidamento dei minori era stato disposto in ragione di uno squilibrio psichico dei genitori, la Corte ha concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 8, tenuto conto della mancanza di collaborazione da parte della madre con i servizi sociali, del rifiuto di vederla da parte dei figli e soprattutto del fatto che il legame materno non era stato interrotto in maniera definitiva, in quanto l’affidamento, nel caso di specie, costituiva soltanto una misura temporanea.
51. Nella presente causa, la procedura di dichiarazione di adottabilità dei minori è stata avviata in seguito all’aggravarsi della malattia della ricorrente, che aveva condotto al ricovero di quest’ultima, e del degrado della situazione famigliare, a seguito della separazione della coppia dei genitori.
52. La Corte non dubita della necessità, nella situazione della presente causa, di un intervento delle autorità competenti allo scopo di tutelare l’interesse dei minori. Essa dubita tuttavia dell’adeguatezza dell’intervento scelto e ritiene che le autorità nazionali non abbiano fatto abbastanza per salvaguardare il legame madre-figli, e osserva che, in effetti, erano praticabili altre soluzioni, come quelle suggerite dal perito, e in particolare la realizzazione di un’assistenza sociale mirata di natura tale da permettere di superare le difficoltà legate allo stato di salute della ricorrente, preservando il legame famigliare assicurando comunque la protezione dell’interesse supremo dei minori.
53. La Corte guarda con attenzione il fatto che la ricorrente varie volte aveva chiesto l’intervento dei servizi sociali per essere aiutata a occuparsi dei figli nel migliore dei modi. A suo parere non può essere accolto l’argomento del Governo secondo il quale le richieste della ricorrente mostrerebbero la sua incapacità di esercitare il ruolo di genitore e giustificherebbero la decisione del tribunale di dichiarare i minori adottabili. La Corte ritiene che una reazione delle autorità alle richieste di aiuto della ricorrente avrebbe potuto salvaguardare sia l’interesse dei minori che il legame materno. Per di più, una soluzione di questo tipo sarebbe stata conforme alle raccomandazioni del rapporto peritale e alle disposizioni della legge secondo le quali la rottura definitiva del legame famigliare deve rimanere l’extrema ratio.
54. La Corte ribadisce che il ruolo di protezione sociale svolto dalle autorità è precisamente quello di aiutare le persone in difficoltà, di guidarle nelle loro azioni e di consigliarle, tra l’altro, sui mezzi per superare i loro problemi (Saviny c. Ucraina, n. 39948/06, § 57, 18 dicembre 2008; R.M.S. c. Spagna n. 28775/12, § 86, 18 giugno 2013). Nel caso di persone vulnerabili, le autorità devono dare prova di una attenzione particolare e devono assicurare loro una maggiore tutela (B. c. Romania (n. 2), n. 1285/03, §§ 86 e 114, 19 febbraio 2013; Todorova c. Italia, n. 33932/06, § 75, 13 gennaio 2009; R.M.S. c. Spagna, n. 28775/12, § 86, 18 giugno 2013; Zhou, sopra citata, §§ 58-59; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 82).
55; La Corte osserva che la sentenza della corte d’appello di Roma aveva riconosciuto una evoluzione positiva dello stato di salute della ricorrente e della situazione famigliare complessivamente considerata. In particolare, la corte d’appello aveva tenuto presente il fatto che la ricorrente seguiva un percorso terapeutico, che il padre dei minori si era mobilitato per trovare risorse per occuparsi di loro e che il nonno paterno era disposto ad aiutarlo (paragrafo 19 supra). Questi miglioramenti, tuttavia, non sono stati considerati sufficienti ai fini della valutazione della capacità dei genitori di esercitare il loro ruolo, e la corte d’appello confermò la dichiarazione di adottabilità, basandosi in particolare sull’esigenza di salvaguardare l’interesse dei minori ad essere accolti in una famiglia capace di prendersi cura di loro in maniera adeguata.
56. La Corte rammenta che il fatto che un minore possa essere accolto in un contesto più favorevole alla sua educazione non può di per sé giustificare che egli venga sottratto alle cure dei suoi genitori biologici; una tale ingerenza nel diritto dei genitori, sulla base dell’articolo 8 della Convenzione, di godere di una vita famigliare con il loro figlio deve altresì rivelarsi «necessaria» a causa di altre circostanze (K. e T. c. Finlandia [GC], sopra citata, § 173; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 95; Akinnibosun c. Italia, sopra citata, § 75). La Corte osserva che, nel caso di specie, pur essendo disponibili soluzioni meno radicali, i giudici nazionali hanno dichiarato i minori adottabili senza tenere conto delle raccomandazioni contenute nella perizia, provocando in tal modo l’allontanamento definitivo e irreversibile della madre. Inoltre, i tre minori sono stati dati in affidamento a tre famiglie diverse, cosicché non vi è stata solo una scissione della famiglia ma anche una rottura del legame tra fratelli e sorelle (Pontes c. Portogallo, § 98, sopra citata).
57. Secondo la Corte la necessità, che era fondamentale, di preservare, per quanto possibile, il legame tra la ricorrente – che si trovava peraltro in situazione di vulnerabilità – e i figli non è stato preso debitamente in considerazione (Zhou, § 58, sopra citata). Le autorità giudiziarie si sono limitate a prendere in considerazione le difficoltà della famiglia, che avrebbero potuto essere superate per mezzo di un’assistenza sociale mirata, come indicato peraltro nella perizia. Se è vero che un primo percorso di sostegno era stato realizzato nel 2009 ed era fallito a causa dell’aggravarsi della malattia della ricorrente e della cessazione della convivenza con il marito, queste circostanze non erano sufficienti per giustificare la soppressione di ogni possibilità per la ricorrente di riallacciare i legami con i figli.
58. Alla luce di queste considerazioni e nonostante lo Stato convenuto goda di un margine di apprezzamento in materia, la Corte conclude che le autorità italiane, prevedendo come unica soluzione la rottura del legame famigliare, benché nella fattispecie fossero praticabili altre soluzioni al fine di salvaguardare sia l’interesse dei minori che il legame famigliare, non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per fare rispettare il diritto della ricorrente di vivere con i figli, e di conseguenza hanno violato il diritto di quest’ultima al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8 della Convenzione. Pertanto, vi è stata violazione di tale disposizione.
II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
59. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
A. Danno
60. La ricorrente chiede somma di 300.000 euro (EUR) per il danno morale che avrebbe subito a causa della violazione dell’articolo 8.
61. Il Governo si oppone a questa richiesta.
62. Tenuto conto delle circostanze della presente causa e della constatazione secondo la quale le autorità italiane non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto della ricorrente a vivere con i figli, in violazione dell’articolo 8, la Corte ritiene che l’interessata abbia subito un danno morale che non può essere riparato con la semplice constatazione di violazione della Convenzione. Essa ritiene tuttavia che la somma richiesta sia eccessiva. Considerati tutti gli elementi di cui dispone e deliberando in via equitativa, come prevede l’articolo 41 della Convenzione, essa ritiene opportuno fissare la somma da accordare all’interessata in riparazione del suddetto danno morale nella misura di 32.000 EUR.
B. Spese
63. La ricorrente non chiede alcuna somma per le spese. La Corte ritiene dunque che non sia opportuno accordare somme a questo titolo alla ricorrente.
C. Interessi moratori
64. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
Dichiara il ricorso ricevibile per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo all’articolo 8 della Convenzione;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione;
Dichiara, che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza diverrà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 32.000 EUR (trentaduemila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;
che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.
Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 13 ottobre 2015, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte.
Fatoş Aracı Cancelliere aggiunto
Päivi Hirvelä Presidente
Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 21 novembre 2006 - Ricorso n. 10427/02 - Roda e Bonfatti c/Italia
CAUSA RODA E BONFATTI c. ITALIA (Ricorso n. 10427/02)
SENTENZA STRASBURGO 21 novembre 2006
La presente sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà subire delle modifiche nella forma.
Nella causa Roda e Bonfatti c. Italia, La Corte europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da: J.-P. COSTA, presidente, A.B. BAKA, I. CABRAL BARRETO, A. MULARONI, nominata a titolo dell'Italia, E. FURA-SANDSTRÖM, D. JOCIENE, D. POPOVIC, giudici, e da S. NAISMITH, cancelliere aggiunto di sezione, Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 7 novembre 2006, Pronuncia la seguente sentenza, adottata in quest'ultima data:
PROCEDURA. All'origine della causa vi è un ricorso (n. 10427/02) presentato contro la Repubblica italiana e con cui due cittadini di tale Stato, la Sig.ra Daniela Roda e il Sig. Matteo Bonfatti ("i primi due ricorrenti"), che agiscono anche in nome di S.B., loro figlia e sorella, hanno adito la Corte rispettivamente il 21 e il 23 gennaio 2002, ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali ("la Convenzione"). I ricorrenti sono rappresentati dall'avv. D. Paltrinieri del foro di Mirandola (Modena). Il governo italiano ("il Governo") è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo co-agente, F. Crisafulli. Il 13 dicembre 2004 la seconda sezione ha deciso di informare il Governo del ricorso. Avvalendosi delle disposizioni dell'articolo 29 § 3, essa ha deciso che sarebbero state esaminate nel contempo l'ammissibilità e la fondatezza della causa.
IN FATTO. Le circostanze della presente causa. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1962, 1979 e 1988. Sono residenti a Finale Emilia, Massa Finalese e Mirandola. La presa in carico di S.B. Il 23 ottobre 1998 M., cugina di S.B., confermò dinanzi al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Bologna ("il tribunale per i minorenni), le dichiarazioni fatte ai servizi sociali nell'ambito del programma psicoterapeutico cui era sottoposta dalla primavera dello stesso anno. Essa affermò di avere subito - come il fratello e altri bambini, tra i quali S.B. -, degli abusi sessuali in un'abitazione privata e durante riti satanici in un cimitero, da parte dei suoi genitori e di altri adulti, tra cui la sorella della prima ricorrente e il marito, nonché M.B., marito della sig.ra Roda e padre dei suoi figli. Il 27 ottobre 1998, tenuto conto della "necessità di procedere ad esami approfonditi" sulla minore, la procura chiese al tribunale per i minorenni, ai sensi dell'articolo 330 del codice civile ("CC"):
di ordinare l'allontanamento di S.B. dai genitori, il padre "presunto colpevole di abuso" e la madre "come minimo gravemente complice";
di ottenere le informazioni necessarie sui genitori;
di ordinare che i bambini, per il tramite dell'azienda sanitaria locale ("AUSL") di Mirandola, fossero affidati ad una struttura di accoglienza "protetta", e di far procedere quanto prima alle visite medico-legali e agli esami psicologici allo scopo di verificare se la minore aveva subito abusi sessuali. Il procuratore pregò infine il tribunale di dichiarare gli atti del fascicolo coperti da segreto a causa dei procedimenti penali pendenti.
Deliberando sulla base dell'articolo 336 CC, il 6 novembre 1998 il tribunale per i minorenni dispose, tra l'altro, la sospensione della potestà dei genitori nei confronti della prima ricorrente e del marito, e nominò la AUSL di Mirandola tutore di S.B., incaricando l'ente di affidare la minore ad una struttura "protetta" e di avviare un'indagine psicologica. Esso autorizzò inoltre la AUSL a ricorrere alla forza pubblica per procedere all'allontanamento della bambina.
Il tribunale considerò attendibili le dichiarazioni di M., poiché la minore aveva iniziato a farle una volta allontanata dalla famiglia e posta in un luogo "protetto"; i risultati delle visite medico-legali avevano confermato gli abusi sessuali, e le sue dichiarazioni coincidevano con quelle di altri bambini. L'allontanamento di S.B. diventava dunque urgente, dato che il padre, alla luce di dette dichiarazioni, sembrava direttamente implicato nei fatti, e la madre per lo meno incapace di offrire la protezione necessaria alla figlia. Il tribunale per i minorenni rilevò anche che, oltre al padre di S.B., altri membri della famiglia della sig.ra Roda erano implicati: la sorella e il marito, nonché il padre di quest'ultimo.
La decisione fu eseguita il mattino del 12 novembre 1998. I ricorrenti affermano che l'allontanamento ebbe luogo alle 6 del mattino. S.B. e la madre furono accompagnate al commissariato di polizia, dove S.B. fu affidata ai servizi sociali e la sig.ra Roda ricevette la notifica della decisione del tribunale per i minorenni. Lo stesso giorno, il tribunale dichiarò gli atti del fascicolo coperti dal segreto.
Il 21 dicembre 1998 furono effettuate due perizie medico-legali in presenza del perito nominato da M.B. Depositate il 13 febbraio 1999, le relazioni concludevano, per quanto riguarda la visita ginecologica, per "l'esistenza di lesioni legate a rapporti sessuali completi, numerosi e reiterati"; per quanto riguarda l'altra visita, per "una forte corrispondenza con l'ipotesi di atti di abusi sessuali che hanno interessato la regione anale".
Il 3 marzo 1999 il perito nominato da M.B. depositò la sua relazione nella quale criticava sotto alcuni aspetti le due relazioni, ma considerava "molto probabile che vi fossero stati abusi sessuali".
I servizi sociali depositarono due rapporti l'8 e il 9 marzo 1999: nel primo, veniva affermato in particolare che, nel corso degli incontri quasi settimanali con S.B., quest'ultima appariva molto chiusa e si rifiutava di eseguire i test e i disegni proposti. Essa parlava spesso della sua famiglia e dei violenti litigi nel corso dei quali il padre percuoteva la madre. Quanto ai risultati delle visite medico-legali, essa aveva dichiarato all'inizio che il medico si era sbagliato, poi che suo padre era l'autore delle violenze, e poi aveva ritrattato. Il secondo rapporto riferiva la presa in carico di S.B. e l'affidamento della stessa a una struttura di accoglienza. S.B. si era inserita velocemente nel nuovo ambiente; tuttavia, dopo le visite medico-legali, aveva iniziato a manifestare dell'aggressività. Sua madre aveva telefonato regolarmente per avere sue notizie. Essa considerava l'allontanamento della figlia come un grave errore, poiché le dichiarazioni di M. erano secondo lei "il frutto della fantasia di una bambina infelice, con dei genitori incapaci (&)". Pur ammettendo che M.B. non era stato un buon padre, essa non lo credeva capace di "fare del male alla figlia".
Il 31 marzo 1999 il tribunale per i minorenni revocò la misura del segreto. Il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale penale di Modena delle diciassette persone imputate degli abusi sessuali denunciati da M. risale a questa stessa data.
Il 2 aprile 1999 la prima ricorrente chiese al tribunale per i minorenni, in via principale, di affidarle la custodia della figlia o, in subordine, il ritorno della bambina a casa sua o, in caso contrario, la possibilità di incontrarla.
All'udienza del 7 aprile 1999 i genitori di S.B. smentirono categoricamente le affermazioni dei servizi sociali; la sig.ra Roda ribadì la sua convinzione secondo la quale le perizie medico-legali erano errate. Il 14 aprile la prima ricorrente chiese di nuovo di poter incontrare la figlia.
Il 14 maggio 1999, ritenendo che i genitori di S.B. non avrebbero potuto fornire a quest'ultima la protezione necessaria in una situazione così grave, in attesa dell'esito dell'inchiesta penale in corso, il tribunale per i minorenni considerò impraticabile il ritorno della bambina presso la madre. Esso ordinò una perizia per "verificare la personalità dei genitori e il rapporto tra questi ultimi e la bambina" e di valutare anche l'opportunità di un ritorno di S.B. in famiglia.
Il 25 maggio 1999 la procura espresse un parere sfavorevole alla possibilità di incontri tra padre e figlia, ma favorevole a quelli tra S.B. e la madre, a condizione che avessero luogo in un luogo protetto e in presenza di assistenti sociali. La procura dichiarò tuttavia di opporsi all'affidamento della bambina alla madre, che non era in grado di fornirle la sua "protezione".
Il perito prestò giuramento il 24 giugno 1999.
Il 28 gennaio 2000 il tribunale per i minorenni ricevette un'altra relazione di controllo della situazione redatta dai servizi sociali. Gli assistenti sociali avevano incontrato gli interessati varie volte: una volta la sig.ra Roda insieme al figlio, dodici volte la sig.ra Roda, sette volte il figlio e quattro volte M.B. (dopo la sua scarcerazione). La conclusione della relazione era la seguente: "Risulta con ogni evidenza da questa prima parte della valutazione della situazione che, pur avendo vissuto anni di conflitti tra loro, con accuse gravi e reciproche riguardo al loro comportamento in famiglia, i genitori concordano nel ritenere ingiustificate le decisioni delle giurisdizioni investite della causa in quanto gli elementi di fatto non basterebbero ad affermare che S.B. ha subito un qualsiasi maltrattamento, ad eccezione di una forte sofferenza derivante dalla situazione famigliare, situazione a cui i genitori hanno del resto già posto rimedio separandosi. Su questo punto, i genitori ricevono il sostegno di Matteo."
Il 31 gennaio 2000 il perito ottenne, "in ragione della complessità e del carattere dell'inchiesta", una proroga di quarantacinque giorni per compiere la perizia.
Il 30 marzo 2000 la prima ricorrente reiterò dinanzi al tribunale per i minorenni la propria domanda volta a ottenere la ripresa dei contatti con la figlia, poiché quest'ultima aveva dichiarato il 22 febbraio 2000 dinanzi al tribunale penale di Modena di voler rientrare a casa.
Il 12 aprile 2000 il giudice delegato dal tribunale per i minorenni accordò al perito una nuova proroga di novanta giorni per permettergli di esaminare la videoregistrazione dell'audizione di S.B. del 22 febbraio nonché il nuovo rapporto dei servizi sociali.
Il 7 giugno 2000 il perito consegnò al tribunale per i minorenni le proprie considerazioni relative all'audizione di S.B.: "Credo che S.B. sia stata obbligata a crescere in fretta in un ambiente violento e caratterizzato da una mancanza di affetto, in cui i ruoli dei genitori si sono rapidamente irrigiditi con, da una parte, (il ruolo) di persecutore (il padre) e, dall'altra, (quello) di vittima (la madre). Questa situazione ha facilmente potuto portare una bambina matura e sensibile a diventare protettrice di una madre debole, che ha un bisogno estremo di tenerezza e di riconoscimento narcisistico, come mi è sembrata la sig.ra Roda fino ad oggi. (&) Credo pertanto che, allo scopo di valutare meglio (&) la qualità dei rapporti affettivi attuali tra (madre e figlia), potrebbe rivelarsi molto utile programmare degli incontri tra le interessate (anche in mia presenza), organizzare una serie di incontri con esse, da sole o insieme".
Il 10 luglio 2000 i servizi sociali fecero pervenire al tribunale per i minorenni il loro rapporto sulla situazione psicologica di S.B. Secondo tale rapporto, la bambina si era dimostrata più spontanea e aperta solo poco prima dell'estate del 1999. Essa aveva iniziato a raccontare alla psicologa che la seguiva che suo padre l'aveva maltrattata, "che lo temeva molto, che egli le aveva davvero fatto male là dove il ginecologo l'aveva visitata (cosa che aveva in seguito ritrattato affermando di non ricordarsi di averlo detto)". S.B. non voleva rientrare a casa almeno finché "tutto non fosse sistemato", ma non spiegava mai per quale motivo poiché non voleva che "sua madre andasse in prigione". Dopo l'audizione del 22 febbraio 2000, S.B. aveva affermato di avere paura di ritornare a casa della madre. La bambina aveva raccontato di aver pianto di rabbia alla notizia della condanna del padre e delle altre persone a causa di ciò che aveva subito da parte loro; essa diceva di "odiare" tutti gli uomini poiché aveva imparato ad avere paura di suo padre. All'esito dell'incontro con la cugina M., S.B. aveva detto alla psicologa che temeva che M. non l'amasse più perché non riusciva a raccontare ciò che era successo loro quando vivevano a Massa Finalese, e che aveva molta paura.
Il 19 luglio 2000 il perito depositò la sua relazione. Egli riferiva di avere esaminato i documenti pertinenti, incontrato e discusso con gli assistenti sociali competenti, e incontrato varie volte M.B e la sig.ra Roda, assistita da un perito privato. Giudicando questo materiale sufficiente per portare a termine il suo lavoro, egli non aveva ritenuto necessario parlare con S.B., evitando in questo modo "una nuova e gratuita situazione traumatizzante". Le considerazioni fatte dai servizi sociali nel loro rapporto del 10 luglio 2000 l'avevano convinto dell'inutilità di organizzare degli incontri tra la madre e la figlia. Il perito concludeva che nessuno dei due genitori aveva. "le attitudini sufficienti e le competenze necessarie per esercitare adeguatamente le funzioni di genitore (&). Pur avendo due personalità diverse, essi dimostra(va)no entrambi di essere troppo presi dai loro bisogni per potere riconoscere e occuparsi validamente di quelli, estremamente dolorosi e delicati, della figlia".
Il tribunale per i minorenni accordò poi venti giorni al perito della prima ricorrente per presentare le sue osservazioni sulla relazione peritale del 19 luglio 2000.
Il 4 ottobre 2000 la sig.ra Roda depositò le osservazioni del suo perito e chiese di essere sentita dal tribunale o dal giudice delegato e di poter ottenere la custodia della figlia o la ripresa dei contatti con la fissazione di un calendario di incontri. Il perito criticava apertamente le conclusioni del perito d'ufficio e la sua decisione di non incontrare S.B., sostenendo, tra l'altro, che la situazione psicologica della bambina era il risultato della separazione.
In un rapporto del 16 ottobre 2000, i servizi sociali affermavano che la situazione di S.B. non aveva subito importanti cambiamenti: la bambina era ben integrata nella sua scuola e i suoi risultati scolastici erano soddisfacenti; essa si dimostrava più attiva di quanto fosse di solito. La madre aveva telefonato regolarmente (ogni due o tre settimane) per avere "notizie riguardanti le condizioni psichiche e fisiche della figlia e aveva portato dei vestiti, dei regali e degli articoli scolastici". A parte l'invio di piccoli regali attraverso la madre, "gli zii e la cugina paterni" non avevano mai contattato i servizi sociali per avere informazioni o per parlare di S.B.
Il 17 e il 18 ottobre 2000 il tribunale per i minorenni sentì i responsabili del centro a cui era stata affidata S.B.; secondo gli stessi, la bambina temeva sempre di "aprirsi", "ha(aveva) bisogno di carezze e di contatto fisico ma non riesce(iva) a dimostrare affetto".
Il 20 novembre 2000 il tribunale per i minorenni sentì la sig.ra Roda, che chiese di poter rivedere la figlia "con l'assistenza di persone idonee ad aiutarla" e affermò di non ricevere fotografie o lettere da parte sua. Essa dichiarò, tra l'altro, che se S.B. "avesse subito delle cose, glielo avrebbe detto, ma che non le era stato permesso di parlare alla figlia". Alla prima ricorrente fu accordato un termine di quindici giorni per il deposito di una memoria e di un attestato che dimostrasse che essa seguiva una psicoterapia. Nella sua memoria del 5 dicembre 2000, la prima ricorrente ribadì la propria convinzione che la situazione di chiusura quasi totale della figlia derivasse solo dall'allontanamento che perdurava da due anni.
Anche M.B era stato sentito dal tribunale per i minorenni il 27 novembre 2000. In una memoria dell'11 dicembre 2000, il suo avvocato suggeriva di affidare la custodia di S.B. alla madre o almeno al fratello.
Il 17 gennaio 2001 il secondo ricorrente chiese la ripresa dei contatti con la sorella e la possibilità di ottenerne la custodia.
Con sentenza in data 29 gennaio 2001 il tribunale per i minorenni decise che la custodia di S.B. avrebbe continuato ad essere affidata alla AUSL di Mirandola affinché tale ente "la ponga in un ambiente protetto, preferibilmente di tipo famigliare", "organizzi, dopo aver previamente preparato la madre e la figlia, la ripresa dei rapporti tra le stesse, che dovranno aver luogo, fintanto che ciò sia necessario, in un ambiente protetto e in presenza degli (assistenti sociali)".
Nella sua decisione il tribunale per i minorenni, alla luce degli elementi raccolti sia nel corso dell'inchiesta dallo stesso condotta che nell'ambito del procedimento penale contro il padre di S.B. e altre sedici persone, valutò "che si (poteva) considerare dimostrato che S.B. ha(aveva) effettivamente subito dei gravi abusi". "(&) la condanna del padre (sebbene la sentenza non (fosse) ancora definitiva), ma soprattutto le caratteristiche della personalità di quest'ultimo, evidenziate in particolare dal perito d'ufficio, nonché il vissuto di paura e di incomunicabilità nutrito nei confronti dello stesso da S.B., porta(va)no a ritenere che M.B. non sia(fosse) decisamente in grado di esercitare adeguatamente il ruolo di padre (&)". Ciò giustificò la decadenza dalla potestà dei genitori disposta nei confronti del padre e il mantenimento dell'interruzione dei rapporti tra quest'ultimo e la figlia. Per quanto riguarda il rapporto madre-figlia, il tribunale si pronunciò in questi termini: "Il vissuto di S.B. verso la madre è più complesso, così come la personalità di quest'ultima. Pur rilevando che l'azione penale non ha dimostrato che la sig.ra Roda fosse implicata negli abusi, S.B. ha tuttavia un vissuto molto ambivalente nei suoi confronti; essa ha dichiarato di voler tornare a vivere con lei, ma ha poi chiesto che ciò avvenga il più tardi possibile; ha manifestato dei sentimenti confusi e, come ha sottolineato il perito d'ufficio, in ogni caso non ha manifestato un affetto profondo (&). Se S.B. non si è mai confidata con la madre a proposito degli abusi, nemmeno dopo la separazione dei genitori (&), ciò è dovuto al fatto che non si è sentita protetta. L'allontanamento della bambina e l'interruzione dei rapporti con la madre risultano dunque giustificati poiché la madre non era e non poteva sembrare vicina all'esperienza della bambina e pronta a tutto per proteggerla. Queste considerazioni portano a ritenere che la madre non è ancora in grado di aiutare S.B. a elaborare le sue esperienze e le sue sofferenze. La situazione personale della bambina è troppo complessa e il percorso di analisi della madre sul suo ruolo di genitore è in fase troppo embrionale". Il tribunale per i minorenni non pronunciò la decadenza dalla potestà dei genitori nei confronti della prima ricorrente. La giurisdizione non fissò un limite temporale per l'affidamento di S.B. a causa della necessità di seguire "l'evoluzione della situazione complessa" della bambina.
Infine, il tribunale per i minorenni rigettò la domanda volta a ottenere la ripresa dei rapporti tra il secondo ricorrente e la sorella, "(poiché) Matteo ha sempre condiviso con i genitori l'atteggiamento di negazione di qualsiasi possibile sofferenza di S.B. diversa da quella legata al difficile rapporto tra i genitori. Del resto, egli vive con il padre, e pertanto una ripresa dei contatti della bambina con il fratello, anche (sotto la vigilanza dei servizi sociali), potrebbe essere per S.B. ambigua e generare confusione. D'altra parte, Matteo non si è più rivolto ai servizi sociali allo scopo di avere notizie della sorella. I servizi sociali potranno peraltro convocare Matteo e determinare se sussistono le condizioni che permettano di elaborare, se egli lo desidera, un programma di controllo destinato a fargli comprendere le esigenze e il difficile vissuto della sorella. Se egli è pronto a farlo, i servizi sociali potranno allora valutare, tenuto conto delle esigenze della minore, l'opportunità di organizzare tali incontri."
L'8 marzo 2001 la prima ricorrente impugnò la sentenza dinanzi alla corte d'appello di Bologna affermando, tra l'altro, che vi era stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione a causa dell'allontanamento dalla figlia e che ogni bambino ha il diritto di essere educato nell'ambito della sua famiglia (articolo 1 della legge n. 184/1983 sull'adozione e l'affidamento dei minori).
Il 6 giugno 2001 i servizi sociali depositarono una relazione di controllo della situazione di S.B. Da tale relazione risultava in particolare che il secondo ricorrente aveva chiesto informazioni dopo l'ultima decisione del tribunale per i minorenni e che la madre telefonava ogni quindici giorni e aveva consegnato regali e lettere per la figlia. I servizi sociali segnalavano anche "la loro impotenza a sostenere psicologicamente la minore poiché quest'ultima aveva un rifiuto totale per il mondo esterno."
Il 7 giugno 2001 la corte d'appello rigettò la domanda della prima ricorrente, ritenendo corretta l'analisi della situazione fatta e le conclusioni che il tribunale per i minorenni ne aveva tratto. Tuttavia, tenuto conto della gravità della situazione della bambina, la corte ritenne che fosse necessario "cercare, prima che sia troppo tardi, di percorrere anche la via del riavvicinamento tra madre e figlia (&) non è(era) più possibile lasciare crescere la bambina in uno stato disperato di abbandono e di isolamento. È(era) necessario che i servizi sociali si attivino immediatamente per eseguire in maniera equilibrata le decisioni del tribunale per i minorenni".
Il 18 settembre 2001 la prima ricorrente informò il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni che i servizi sociali non avevano ancora proceduto all'organizzazione degli incontri con la figlia.
Il 5 novembre 2001 i servizi sociali, ritenendo necessario incontrare la prima ricorrente e la sua psicologa prima di eseguire le decisioni giudiziarie pertinenti, ebbero un colloquio con la psicologa della sig.ra Roda.
In una relazione di controllo del 10 gennaio 2002, i servizi sociali affermarono che la situazione di S.B. non aveva subito alcun cambiamento. Essa era stata informata che l'11 luglio 2001 la corte d'appello di Bologna aveva assolto il padre ma condannato le altre persone, riconoscendo che aveva subito violenze sessuali. S.B. aveva allora dichiarato di voler essere data in affidamento a una famiglia di accoglienza. Allo scopo di preparare gli incontri, i servizi sociali avevano ricevuto la prima ricorrente e la sua psicologa. I padre e il fratello di S.B. non avevano più ricontattato i servizi.
L'11 febbraio 2002 la sig.ra Roda chiese al procuratore di autorizzare la videoregistrazione del futuro incontro con la figlia e la presenza del perito che la assisteva dall'inizio della causa. Informati della domanda il 18 febbraio, i servizi sociali si dichiararono perplessi e affermarono che S.B. aveva espresso il proprio rifiuto per quanto riguarda la registrazione e la presenza di altre persone durante l'incontro. Il 9 marzo 2002 il procuratore autorizzò la registrazione ma considerò inopportuna la presenza del perito della sig.ra Roda.
Il 12 marzo 2002, il giorno prima dell'incontro, i servizi sociali informarono la prima ricorrente che sarebbe stato impossibile procedere alla registrazione. Il 13 marzo, la sig.ra Roda comunicò la notizia al procuratore indicando che si rifiutava di partecipare, e poi il 18 e il 22 marzo 2002, essa gli fece pervenire i dati di alcuni centri presso i quali l'incontro poteva essere registrato.
Il 27 marzo 2002 il giudice tutelare, accogliendo la domanda presentata il giorno precedente dalla prima ricorrente, ordinò ai servizi sociali di procedere all'incontro e di registrarlo; egli autorizzò la prima ricorrente a ottenere una copia della registrazione.
Il primo incontro ebbe luogo il 28 marzo 2002, e fu seguito da altri incontri il 28 maggio, il 10 luglio, il 23 settembre e il 18 novembre 2002, e il 14 gennaio, il 29 aprile, il 17 giugno, il 26 luglio, il 7 ottobre e il 25 novembre 2003.
Il 23 aprile 2002, accogliendo la domanda della prima ricorrente, il giudice tutelare ordinò alla AUSL di depositare rapidamente la videocassetta dell'incontro del 28 marzo. Nel luglio 2002, lo stesso giudice fissò un termine di tre giorni per il deposito delle registrazioni degli incontri. Il 31 luglio la sig.ra Roda si rivolse a detto giudice allo scopo di ottenere la fissazione degli incontri in date più ravvicinate, la consegna di un telefono cellulare alla figlia, il mantenimento degli incontri a Modena, nonché la possibilità di restare sola con la figlia per una buona parte degli incontri.
L'11 settembre 2002 il giudice tutelare prese atto che la AUSL avrebbe mantenuto gli incontri a Modena e autorizzava la corrispondenza tra madre e figlia, e rigettò per il resto le domande della sig.ra Roda.
L'11 dicembre 2002 la AUSL comunicò a quest'ultima il calendario degli incontri con scadenze bimestrali, poi il 17 dicembre 2002 informò l'avvocato della sig.ra Roda che S.B. era stata data in affidamento ad una famiglia da circa una settimana.
Il 18 dicembre 2002 la AUSL depositò una relazione di controllo relativa agli incontri registrati e un'altra sull'aiuto psicologico fornito a S.B. e alla madre. Secondo il primo documento, "La scena che ci troviamo di fronte è quella di una ragazza chiusa nella sua verità, verità che risulta da espressioni fisiche e non da parole, una ragazza che sembra subire silenziosamente gli incontri con la madre, il che rappresenta un (comportamento) duro ma forse protettivo nei confronti di una madre ancorata nella sua idea di una grande ingiustizia commessa verso sua figlia e verso la sua famiglia". I servizi sociali ritenevano che l'utilizzo del cellulare non fosse di natura tale da agevolare la comunicazione, tenuto conto delle difficoltà relazionali osservate, e raccomandavano il proseguimento degli incontri "protetti" e il supporto psicologico di preparazione agli incontri.
Il rapporto sull'assistenza psicologica indicava che S.B. "ha(aveva) sempre espresso disappunto e disinteresse verso la madre, (che) si è(era) lamentata che la madre le pone(va) con insistenza molte domande, e (che) essa l'ha(aveva) a volte criticata per il suo comportamento in questi momenti". Da detto rapporto risulta anche che S.B. seguiva dei corsi di equitazione e che aiutava la sua istruttrice nell'ambito di sedute di ippoterapia destinate a bambini handicappati. Quanto alla sig.ra Roda, la psicologa incaricata di seguirla, che non faceva parte dei servizi sociali, osservava che l'interessata aveva mantenuto un atteggiamento difensivo praticamente nel corso di tutti e cinque gli incontri (dal 7 gennaio al 2 febbraio 2001), "un atteggiamento caratterizzato dalla convinzione formale che la figlia non ha subito abusi, pur evidenziando la contraddizione tra le perizie d'ufficio e quelle del suo perito, sottolineando in tal modo l'esistenza di un'altra verità. (La sig.ra Roda) ha affermato nuovamente che la causa principale del malessere di S.B. è l'impossibilità per lei di sostenerla, poiché è convinta che con lei la figlia avrebbe senza dubbio parlato di ciò che era successo (&)". Il 19 dicembre 2002 il giudice tutelare autorizzò S.B. a utilizzare il cellulare per chiamare la madre in presenza di un assistente sociale, subordinò al consenso di S.B. (da esprimere davanti alla madre) la registrazione dei futuri incontri e invitò la AUSL a tenere costantemente informata la sig.ra Roda sull'affidamento in famiglia di S.B., e a rispettare le date degli incontri senza rinviarle. Secondo le informazioni fornite dalla ricorrente, i servizi sociali hanno continuato a rinviare gli incontri già previsti e, in particolare, quello fissato per il 10 giugno 2003 si tenne solo il 17 giugno, e quello previsto per il 25 novembre 2003 fu annullato lo stesso giorno in mancanza delle chiavi che permettono di accedere al locale di videoregistrazione.
Il procedimento penale contro il padre di S.B. e altri 16 imputati. Con sentenza in data 5 giugno 2000 M.B. e la sorella e il cognato della prima ricorrente furono condannati dal tribunale di Modena, insieme ad altre persone, per abusi sessuali su minori. Nella sentenza dell'11 luglio 2001, depositata in cancelleria l'8 ottobre 2001, la corte d'appello di Bologna affermò l'attendibilità generale delle dichiarazioni fatte da tutti i bambini relativamente agli abusi subiti in ambiente domestico. Essa ritenne che le deposizioni dei minori, che confermavano le dichiarazioni di M., dovevano essere considerate attendibili e indipendenti da qualsiasi pressione o influenza da parte dei servizi sociali, dei magistrati coinvolti nella causa o delle famiglie d'accoglienza. Sulla base di tali considerazioni e delle prove raccolte, la corte d'appello confermò in particolare la condanna dei genitori di M., la madre della quale è la sorella della prima ricorrente, rispetto agli abusi commessi nel loro domicilio su M., suo fratello e altri quattro bambini. La corte d'appello assolse le stesse persone per quanto riguarda gli abusi presumibilmente commessi in un cimitero in quanto i fatti non erano dimostrati. Su questo punto la corte d'appello affermò che le dichiarazioni riguardanti i riti satanici traevano origine dalle deposizioni alterate di D.G., uno dei bambini implicati, che aveva evocato una tale situazione nel 1997 in seguito ad una ricostruzione artificiale delle esperienze di abusi realmente subiti. Tali dichiarazioni erano state poi riprese, grazie anche al contesto provinciale e alla mediatizzazione della causa, generando così negli altri bambini suggestioni e falsi ricordi collettivi e portandoli ad amplificare le violenze effettivamente subite. La corte d'appello non condivise dunque le conclusioni dei periti relativamente alla credibilità dei bambini al riguardo. Anche M.B. fu assolto in quanto le dichiarazioni di M. che lo riguardavano non avevano trovato alcun riscontro valido.
Il 19 novembre 2001 la procura di Bologna presentò ricorso per cassazione. Con sentenza in data 26 novembre 2002 la Corte di cassazione confermò la sentenza della corte d'appello di Bologna per tutti gli imputati ad eccezione di uno solo di essi.
Il procedimento relativo alla reintegrazione della potestà dei genitori avviato dal padre di S.B. In data non precisata M.B. chiese al tribunale per i minorenni la revoca della decisione del 29 gennaio 2001 con cui gli era stata tolta la potestà dei genitori su S.B. Con decisione provvisoria in data 13 marzo 2002 il tribunale per i minorenni ordinò che fosse compiuta una perizia allo scopo di stabilire se il richiedente fosse in grado di iniziare un percorso di comprensione e di riflessione sul vissuto e sui bisogni della figlia. Il tribunale osservava che la corte d'appello penale non aveva ritenuto sufficientemente dimostrato che gli abusi erano stati commessi anche dal padre di S.B., che la decisione del 29 giugno 2001 non si basava sulla responsabilità penale di M.B. ma sul pesante vissuto della bambina nei suoi confronti, sulla personalità di M.B. e sul suo comportamento di fronte alla sofferenza della figlia.
Il 12 giugno 2002 il tribunale rigettò la domanda di ricusazione del perito presentata da M.B. La prima ricorrente depositò una memoria chiedendo l'affidamento di S.B., e l'organizzazione di incontri con lei e con il secondo ricorrente.
Nella sua decisione del 7 luglio 2004, il tribunale per i minorenni osservò che dalla relazione peritale, depositata il 21 gennaio 2003, risultava chiaramente che M.B. "non era ancora capace di comprendere le esperienze profonde della figlia, né quelle (della sua vita attuale) di adolescente, né quelle del suo difficile passato di bambina oggetto di abusi sessuali". Stando così le cose, la reintegrazione della potestà dei genitori e l'organizzazione di incontri erano impossibili. Le domande di M.B. avrebbero potuto essere prese nuovamente in considerazione se l'interessato avesse dimostrato di essere riuscito a iniziare il percorso psicoterapeutico e psicopedagogico indicato dal perito. Quanto alle richieste della prima ricorrente, tenuto conto dei risultati incoraggianti dell'affidamento di S.B. in una famiglia di accoglienza, il tribunale decise di confermarlo per un periodo non inferiore a due anni, poiché S.B. non era ancora "in grado di affrontare un ritorno in famiglia, presso la madre, in quanto i sentimenti relativi al suo passato erano ancora troppo carichi di dolore inesprimibile". Considerati gli innegabili progressi compiuti dalla prima ricorrente nel suo lavoro di riavvicinamento alla figlia, il tribunale optò per il proseguimento degli incontri con cadenza mensile e invitò i servizi sociali a prevedere anche degli incontri in occasione di alcune festività (compleanni, Natale, ecc.) e a valutare la possibilità di organizzare degli incontri con il secondo ricorrente. La prima ricorrente interpose appello il 2 settembre 2004.
In data non precisata, ritenendo che l'interesse di S.B. fosse in conflitto con la domanda della madre, la AUSL chiese al giudice tutelare di nominare un curatore speciale ai fini del procedimento di appello.
Il 4 novembre 2004 il giudice adito rigettò la domanda a causa della sua incompetenza ratione materiae, come la sig.ra Roda aveva rilevato nella sua memoria.
Il 9 novembre 2004 il tribunale di Modena nominò, su richiesta della AUSL, un curatore speciale a S.B. nella persona del direttore della AUSL. Il 22 novembre 2004 la prima ricorrente si oppose alla nomina.
Il 26 novembre 2004 la corte d'appello confermò la decisione del 7 luglio 2004 per quanto riguarda la presa in carico di S.B. da parte della AUSL e invitò i servizi sociali di Mirandola a realizzare per un periodo di prova il ritorno di S.B. presso la madre solo di giorno. Lo stesso giorno, la AUSL informò la prima ricorrente che l'incontro con S.B. già fissato per il 21 dicembre 2004 era stato anticipato al giorno prima a causa dell'indisponibilità del locale attrezzato per la videoregistrazione.
Il 16 e il 18 dicembre la prima ricorrente chiese ai servizi sociali di applicare la decisione della corte d'appello, e successivamente, il 22 dicembre, essa si rivolse al giudice tutelare chiedendo in particolare che la figlia fosse accompagnata dai servizi sociali per passare a casa sua il giorno di Natale o un altro giorno prima del 31 dicembre 2004.
Il giudice fissò per il 30 dicembre 2004 l'udienza di comparizione di S.B. e della madre e ordinò ai servizi sociali di fissare un incontro tra le due al fine di discutere e di valutare insieme il programma di ritorno.
Il 28 dicembre 2004 la prima ricorrente chiese al giudice tutelare di fare in modo che gli incontri non fossero così vicini tra loro e che l'incontro previsto per il giorno dopo si svolgesse senza S.B., poiché desiderava conoscere "le vere intenzioni della AUSL circa il ritorno a casa della figlia". Il giudice rigettò la domanda lo stesso giorno.
S.B. non partecipò all'udienza del 30 dicembre 2004 e il giudice fissò per il 16 febbraio 2005 la nuova data dell'audizione della minore.
Nella sua decisione del 28 febbraio 2005 il giudice tutelare approvò il calendario degli incontri proposto dalla AUSL fino al 30 settembre 2005, affermò nuovamente che tali incontri erano destinati a valutare la possibilità del ritorno di S.B. a casa della madre solo di giorno e fissò per il 15 maggio 2005 la data del deposito della relazione di controllo da parte dei servizi sociali.
In precedenza, il 26 gennaio 2005, i servizi sociali avevano segnalato alla procura presso il giudice tutelare le difficoltà incontrate nell'applicazione della decisione della corte d'appello.
Il 18 febbraio 2005 la procura presso il tribunale per i minorenni chiese al tribunale di "sospendere l'esecuzione della decisione della corte d'appello di Bologna del 26 novembre 2004 in attesa di un cambiamento di atteggiamento della minore". S.B. aveva infatti dichiarato di non volere ritornare a casa della madre, e che preferiva continuare a incontrarla una volta ogni due o tre mesi.
Il 14 marzo 2005 il tribunale per i minorenni accolse la domanda della procura, incaricò i servizi sociali di proseguire gli incontri mensili in luogo "protetto" per tre mesi e convocò la sig.ra Roda all'udienza del 27 maggio 2005.
Secondo le informazioni fornite dalle parti nel maggio e nell'agosto 2006, il secondo ricorrente ha incontrato i servizi sociali più volte. Il 13 marzo 2006 egli ha anche chiesto al tribunale per i minorenni l'affidamento della sorella, l'organizzazione di incontri con quest'ultima, da solo o con la madre, nonché l'autorizzazione a telefonare alla sorella. Il 15 maggio 2006 il tribunale per i minorenni rigettò tali domande e incaricò i servizi sociali di valutare se la ripresa dei contatti di S.B. con il secondo ricorrente fosse nell'interesse della minore.
La sig.ra Roda continua a vedere la figlia in presenza di assistenti sociali. Essa ha presentato almeno tre domande volte a ottenere il deposito della videoregistrazione degli incontri.
Il diritto interno pertinente. Ai sensi dell'articolo 330 CC: "Il giudice può pronunciare la decadenza dalla potestà quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla residenza famigliare." La legge n. 149 del 28 marzo 2001 ha modificato alcune disposizioni del libro I, titolo VIII, del codice civile e della legge n. 184/1983.
L'articolo 333 del codice civile, come modificato dall'articolo 37 c. 2 della legge n. 149/2001, dispone quanto segue: "Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall'articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla residenza famigliare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento".
L'articolo 336 CC, come modificato dall'articolo 37 c. 3 della stessa legge, prevede che: "I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato. Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito. In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d'ufficio, provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio. Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge."
Ai sensi dell'articolo 4 c. 4 della legge n. 149/2001, nei provvedimenti di affidamento famigliare deve essere indicato il periodo di presumibile durata dell'affidamento, che non può superare i due anni. Il tribunale per i minorenni può tuttavia decidere di prorogare il periodo se la sospensione dell'affidamento reca pregiudizio al minore. I provvedimenti adottati dai tribunali per i minorenni, ai sensi degli articoli 330 e 333 CC, rientrano nella volontaria giurisdizione. Essi non hanno un carattere definitivo e possono pertanto essere revocati in ogni momento. Inoltre, contro tali provvedimenti non è possibile interporre appello, ma le parti in causa possono presentare un reclamo dinanzi alla corte d'appello.
IN DIRITTO.
I - SULL'ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO. Il Governo sostiene che, nelle cause concernenti l'allontanamento di un minore dalla sua famiglia d'origine, i genitori di quest'ultimo non possono presentare un ricorso in suo nome, poiché gli interessi degli uni e degli altri sono in questi casi distinti, se non addirittura contraddittori. Se tutte le persone interessate hanno lo stesso diritto al rispetto della loro vita privata e famigliare, tale diritto si concretizzerebbe per i genitori nell'interesse a riprendere con sé il minore, mentre per quest'ultimo l'interesse potrebbe benissimo consistere nel mantenimento della situazione di allontanamento dalla sua famiglia. In un simile contesto, non si può accettare l'idea che una sola di queste due posizioni venga portata all'attenzione di un organo giudiziario e che venga impedito all'altra posizione di esprimersi. S.B. ha ultimamente formulato in maniera molto chiara il suo parere sul modo in cui essa concepisce i propri rapporti con la madre e con il fratello. Orbene, sarebbe inaccettabile che la Corte prenda una decisione che, direttamente o indirettamente, possa ledere i diritti di S.B., senza avere sentito la sua opinione. Il Governo ritiene che sarebbe ragionevole invitare la famiglia di accoglienza di S.B. a intervenire, o che la Corte dovrebbe nominare una persona incaricata di rappresentare S.B. dinanzi ad essa. In conclusione, il ricorso presentato in nome di S.B. dalla madre e dal fratello, che difendono il loro interesse e non quello della ragazza, sarebbe , per questa parte, inammissibile. Quanto al secondo ricorrente, il Governo sostiene che egli non si è mai costituito parte nel procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni di Bologna. L'affermazione contenuta nel riepilogo dei fatti del ricorso (paragrafo 34 supra) secondo la quale tale tribunale, nella sua decisione del 29 gennaio 2001, ha rigettato "in queste circostanze la domanda del secondo ricorrente volta ad ottenere la ripresa dei rapporti di quest'ultimo con la sorella", non sarebbe esatta. Tale domanda in realtà fu presentata dal padre di S.B., che non aveva tuttavia alcun locus standi per presentare domande in nome del figlio. Il secondo ricorrente, da parte sua, non presentò alcuna domanda sul merito della causa e si limitò a sollecitare il deposito della decisione. Di conseguenza vi sarebbe, nella fattispecie, un mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Facendo riferimento alla sentenza Nielsen c. Danimarca del 28 novembre 1988, serie A n. 144, i primi due ricorrenti affermano che la loro qualità di madre e fratello biologici conferiscono loro il diritto di presentare il ricorso in nome di S.B. allo scopo di proteggerla. Il secondo ricorrente contesta poi l'eccezione di mancato esaurimento sollevata nei suoi confronti facendo notare che egli si è ben costituito parte al procedimento il 24 gennaio 2001, e che ha chiesto di riprendere i contatti con la sorella. Nella decisione di rigetto, il tribunale non rilevò del resto alcun motivo di inammissibilità legato allo scadere dei termini o alla capacità processuale. Infine, nonostante la sua disponibilità, i servizi sociali non lo avrebbero mai convocato per "l'inizio degli incontri". La Corte ricorda che, in linea di principio, una persona che non ha, a livello interno, il diritto di rappresentare un'altra persona può comunque, in alcune circostanze, agire dinanzi alla Corte in nome di quest'altra persona (v., mutatis mutandis, le sentenze Nielsen c. Danimarca, già cit., pp. 21-22, §§ 56-57, e Scozzari e Giunta c. Italia (GC), n. 39221/98 e n. 41963/98, § 138, CEDU 2000-VIII). Dei minori possono adire la Corte anche, e a maggior ragione, se sono rappresentati da una madre e da un fratello in conflitto con le autorità, di cui essi criticano le decisioni e la condotta alla luce dei diritti sanciti dalla Convenzione. Secondo la Corte in caso di conflitto, riguardante gli interessi di un minore, tra il genitore biologico e la persona investita dalle autorità della tutela dei minori, vi è il rischio che alcuni interessi del minore non vengano mai portati all'attenzione della Corte e che il minore venga privato di una tutela effettiva dei diritti che gli derivano dalla Convenzione. Di conseguenza, le qualità di madre e fratello biologici di S.B. sono sufficienti per conferire agli stessi il potere di agire dinanzi alla Corte allo scopo di tutelare gli interessi di S.B. La Corte osserva inoltre che nei confronti della sig.ra Roda non è mai stata pronunciata la decadenza dalla potestà dei genitori. Per quanto riguarda la seconda parte dell'eccezione del Governo, la Corte rileva che il fascicolo del ricorso contiene l'atto di costituzione in giudizio del secondo ricorrente, datato 7 gennaio 2001 e depositato presso la cancelleria del tribunale per i minorenni di Bologna il 24 gennaio 2001. Tale documento reca sulla prima pagina il mandato firmato dal ricorrente in favore dello stesso rappresentante legale del padre. Inoltre, anche se, nella sua decisione del 29 gennaio 2001 (paragrafo 34 supra), il tribunale per i minorenni diede ai servizi sociali la possibilità di convocare il secondo ricorrente e di decidere, all'occorrenza, di elaborare con lui un programma di controllo destinato a fargli "capire le esigenze e il difficile vissuto della sorella" e che poteva portare all'organizzazione di incontri con S.B., i servizi sociali non diedero alcun seguito a ciò fino al 2006. Nella stessa decisione, il tribunale per i minorenni aveva inoltre motivato il rigetto della domanda del secondo ricorrente sottolineando, da una parte, che quest'ultimo aveva sempre condiviso con i genitori l'atteggiamento di negazione di ogni possibile sofferenza di S.B. diversa da quella legata al rapporto difficile tra i genitori e, dall'altra, che egli viveva con il padre, "e pertanto una ripresa dei contatti della bambina con il fratello (&) potrebbe essere per S.B. ambigua e generare confusione." In considerazione di quanto sopra esposto, l'eccezione del Governo non può essere accolta.
II - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 § 1 E 13 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. I ricorrenti si lamentano per l'impossibilità di avere accesso al fascicolo della procedura di presa in carico di S.B., e per l'assenza nel diritto interno di un ricorso effettivo per ottenere una decisione definitiva fino al gennaio 2001. La Corte ricorda che, ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, essa può essere adita solo dopo che siano state esaurite le vie di ricorso interne e entro un termine di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva. Quando la violazione presunta consiste in una situazione continua, il termine di sei mesi inizia a decorrere solo dal momento in cui questa situazione continua viene a cessare (v., mutatis mutandis, Hornsby c. Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-II, p. 508, § 35 e Marinakos c. Grecia, (dec.) n. 49282/99, 29 marzo 2000). Nella fattispecie, i ricorrenti hanno presentato questi due motivi di ricorso nel modulo ufficiale di ricorso pervenuto in cancelleria il 22 gennaio 2003, mentre la situazione di cui essi si lamentano si era conclusa, da una parte, con la revoca, in data 31 marzo 1999, della misura che dichiarava gli atti del fascicolo coperti dal segreto e, dall'altra, con la decisione del tribunale per i minorenni di Bologna del 29 gennaio 2001, che confermava in particolare l'affidamento di S.B. e ordinava la ripresa dei contatti tra la bambina e la madre (paragrafi 12 e 32 supra). Di conseguenza questa parte del ricorso è tardiva ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, e deve dunque essere rigettata conformemente all'articolo 35 § 4 della Convenzione.
III - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 4 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. I ricorrenti affermano che S.B. segue un programma di ippoterapia in un centro equestre, e che la stessa è anche obbligata a lavorare tutti i pomeriggi, assistendo la sua istruttrice nell'ambito di un altro programma di ippoterapia destinato a persone handicappate. Si tratterebbe di una attività il cui scopo reale e celato sarebbe quello di ottenere manodopera gratuita. Essi sostengono che da ciò deriva una violazione dell'articolo 4 della Convenzione, da solo o combinato con l'articolo 3. La Corte ritiene necessario esaminare questo motivo di ricorso solo sotto il profilo della prima disposizione. Essa deve determinare se la situazione denunciata dai ricorrenti rientra nell'articolo 4 e, in particolare, se essa può essere definita lavoro "forzato o obbligatorio". Ciò evoca l'idea di una costrizione, fisica o morale. Si deve trattare di un lavoro "richiesto (&) sotto la minaccia di una pena qualsiasi" e, inoltre, contrario alla volontà dell'interessato, per il quale quest'ultimo "non si è offerto spontaneamente" (v. la sentenza Siliadin c. Francia, n. 73316/01, § 117, CEDU 2005-&). La Corte osserva che, nella fattispecie, nulla permette di affermare che siano state esercitate costrizioni fisiche o morali su S.B., né che l'aiuto prestato all'istruttrice possa passare per un lavoro imposto contro la volontà dell'interessata. Di conseguenza, questo motivo è manifestamente infondato e deve essere rigettato in applicazione dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
IV - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. Nelle loro prime lettere alla Corte del 21 e 23 gennaio 2002, i ricorrenti sostenevano che vi era stata violazione dell'articolo 10 della Convenzione in quanto le autorità pubbliche non avrebbero preso in considerazione la volontà, espressa da S.B. durante la sua audizione da parte del giudice penale, di tornare a casa con la madre. Pertanto, sarebbe stata violata la libertà di espressione di S.B. I ricorrenti non hanno ripreso questo motivo di ricorso nel modulo di ricorso pervenuto alla cancelleria via fax il 15 gennaio 2003, e poi per posta il 22 gennaio 2003. Questa circostanza dispensa la Corte dall'esaminare questo motivo di ricorso.
V - SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 3 E 8 DELLA CONVENZIONE. Sull'ammissibilità. Nelle loro lettere del 21 e 23 gennaio 2002, i ricorrenti si lamentavano anche per una violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione a causa dell'allontanamento di S.B. dalla famiglia e dell'assenza di contatti con la bambina per quasi quattro anni, e ciò senza "alcuna necessità giuridicamente fondata". Il 22 gennaio 2003 i ricorrenti hanno sollevato nuovi motivi di ricorso. Invocando l'articolo 3 della Convenzione, essi si lamentavano che la presa in carico e il mantenimento dell'affidamento ai servizi sociali senza alcuna previsione sul ritorno in famiglia esponevano la vita di S.B. a un grave pericolo. Sulla base della stessa disposizione, il secondo ricorrente si lamentava per il fatto che le azioni da lui intraprese al fine di avere contatti con la sorella non erano state minimamente prese in considerazione. Secondo i ricorrenti, i servizi sociali non agirebbero in favore del ritorno di S.B. presso la sua famiglia. La Corte ritiene che sia opportuno esaminare questi motivi unicamente sotto il profilo dell'articolo 8 della Convenzione. Essa constata che questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione e non si scontra con nessun'altra causa di inammissibilità. È pertanto opportuno dichiararla ammissibile.
Sul merito. Ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, "1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita (&) familiare (&). 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria (&) alla protezione dei diritti e delle libertà altrui."
Sull'esistenza dell'ingerenza. Secondo il Governo, vi è stata certamente ingerenza delle autorità nella vita famigliare della sig.ra Roda e di S.B. Invece, vista la situazione concreta della famiglia, non vi è stata ingerenza nella vita privata e famigliare del secondo ricorrente, che non abitava più con la sorella. La Corte ricorda che la nozione di vita famigliare "comprende per lo meno i rapporti tra parenti, che possono svolgere un ruolo importante nell'ambito della stessa", ad esempio tra nonni e nipoti (Marckx c. Belgio, sentenza del 13 giugno 1974, serie A n. 31, § 45, e Bronda c. Italia, n. 22430/93, sentenza del 9 giugno 1998, Raccolta 1998-IV, § 51). In una causa riguardante il rifiuto di accordare l'accesso del ricorrente al nipote mentre questo era in affidamento presso una famiglia di accoglienza, la Commissione europea dei Diritti dell'Uomo si era posta il problema di stabilire se questo tipo di rapporti potessero essere inclusi nella nozione di "vita famigliare" ai sensi dell'articolo 8 (Boyle c. Regno Unito, n. 16580/90, rapporto della Commissione del 9 febbraio 1993). La Commissione sottolineò anzitutto che la convivenza non era una condizione sine qua non del mantenimento dei legami famigliari e, considerati i frequenti contatti tra il ricorrente e il nipote, nonché il fatto che il minore aveva passato molte volte il fine settimana presso lo zio, essa concluse che il legame fondamentale esistente tra i due rientrava nel campo di applicazione della nozione di "vita famigliare".
Nella fattispecie, la Corte osserva che dal fascicolo risulta che il secondo ricorrente ha vissuto in famiglia con la sorella fino alla separazione dei suoi genitori, quando egli ha deciso di seguire il padre. È vero che, almeno a partire dalla presa in carico di S.B., non vi è stato alcun contatto tra i due, ma questa circostanza non deriva solo dal suo comportamento; gli indugi dei servizi sociali vi hanno notevolmente contribuito. Pertanto, la Corte ritiene che il legame tra il secondo ricorrente e la sorella rientri nella nozione di vita famigliare e che vi sia stata ingerenza nella vita famigliare del primo. La Corte ricorda che qualsiasi ingerenza nella vita famigliare comporta una violazione dell'articolo 8 della Convenzione, a meno che essa non sia "prevista dalla legge", non persegua uno o più degli scopi legittimi di cui al paragrafo 2 di tale articolo, e non possa risultare "necessaria in una società democratica".
Sulla giustificazione dell'ingerenza. Secondo il Governo, l'ingerenza in questione era manifestamente prevista dalla legge. Il tribunale per i minorenni ha scrupolosamente rispettato le disposizioni di legge vigenti adottando misure provvisorie urgenti per la tutela della minore, conformemente all'articolo 336 c. 3 del codice civile. Poi il tribunale ha operato per chiarire i diversi aspetti della situazione, estremamente delicata e complessa, limitando per quanto possibile la portata dell'ingerenza. Per fare questo, ha riservato un trattamento diverso a ciascuno dei genitori di S.B. "in funzione delle differenze non solo nel grado di responsabilità per quanto riguarda gli abusi, ma anche e soprattutto in funzione di una valutazione attenta e differenziata delle rispettive attitudini all'esercizio dei doveri dei genitori e delle possibilità che offrivano l'uno e l'altro (&) di poter assolvere un giorno positivamente tali compiti."
I ricorrenti non contestano il fatto che l'intervento delle autorità nazionali fosse conforme al diritto nazionale. La Corte osserva che l'ingerenza in questione era prevista dalla legge e perseguiva uno scopo legittimo, ossia la tutela dell'interesse del minore ("la tutela dei diritti e delle libertà altrui"). Resta da stabilire se tale ingerenza potesse essere considerata una misura "necessaria in una società democratica". Secondo il Governo, la necessità di adottare delle misure urgenti per la tutela di S.B. e lo scopo legittimo perseguito da tali misure sono fuori discussione. I fatti eccezionalmente gravi emersi dall'inchiesta penale basterebbero a spiegare la presa in carico della minore. Il Governo sottolinea che il compito del tribunale per i minorenni non consiste nell'infliggere a dei genitori una sanzione rispetto a dei comportamenti riprovevoli, ma nell'"intervenire nelle situazioni famigliari patologiche allo scopo, da una parte, di assicurare per quanto possibile il benessere fisico e psicologico dei minori, il loro sviluppo armonioso e sereno, la loro educazione corretta, e dall'altra di aiutare gli adulti della famiglia, nella misura in cui questi ultimi sono disposti a collaborare (&), a risolvere i loro problemi (allo scopo di) permettere loro di esercitare i loro diritti di genitori in maniera positiva (&)". Anche un genitore condannato per abusi o che ha mantenuto un comportamento semplicemente negligente potrebbe dimostrare di avere una capacità di riflessione così grande e delle risorse morali e psicologiche tali da poter recuperare un ruolo di genitore positivo. Al contrario, un genitore riconosciuto innocente all'esito di un procedimento penale non è necessariamente idoneo a occuparsi dei figli e potrebbe dimostrarsi a tal punto restio a qualsiasi sostegno psicologico e pedagogico che le speranze di recupero del ruolo di genitore potrebbero essere vane o richiederebbero un lavoro paziente dall'esito incerto. Le autorità nazionali intervengono su due fronti per tutelare l'interesse del bambino. Da una parte, esse affidano quest'ultimo a un ambiente idoneo a proseguire la sua educazione e a offrirgli la protezione e le cure materiali, psicologiche e affettive di cui ha bisogno, per il tempo necessario per permettergli di elaborare positivamente il suo vissuto di sofferenza. D'altra parte, esse svolgono un lavoro di preparazione sia nei confronti del minore che degli adulti della sua famiglia, per ristabilire le relazioni che risultano ancora potenzialmente positive. Difficile e delicato, questo lavoro sarebbe difficilmente realizzabile in maniera precipitosa, tale da comprometterne il risultato finale. Il Governo fa notare che, nella fattispecie, tenuto conto degli elementi in suo possesso - ossia il risultato dell'istruzione penale, la perizia d'ufficio e l'osservazione quotidiana della personalità di S.B. da parte dei servizi sociali -, il tribunale per i minorenni ha ritenuto che la ragazza avesse bisogno di un periodo di allontanamento dalla madre e dal resto della sua famiglia, durante il quale doveva essere affidata ad una famiglia di accoglienza. Inoltre, vengono tenuti degli incontri regolarmente, in ambiente protetto, per permettere alla figlia di ricostruire una relazione positiva con la madre, considerata dal tribunale come "potenzialmente capace di recuperare il proprio ruolo grazie ad un lavoro psicopedagogico appropriato". Inoltre, gli incontri non protetti al domicilio della prima ricorrente, previsti dalla corte d'appello ma impraticabili per il momento, in particolare a causa del rifiuto di S.B., non sarebbero per questo esclusi. Quanto al secondo ricorrente, sarebbe inevitabile, secondo il Governo, che in occasione di incontri con la sorella egli possa, anche involontariamente, trasmettere messaggi ispirati dal padre, il che produrrebbe immancabilmente un effetto destabilizzante per S.B. Per questo motivo il tribunale ha interrotto i contatti tra il secondo ricorrente e la sorella, pur non escludendone in alcun modo la ripresa in futuro. Infine, le autorità giudiziarie avrebbero condotto i vari procedimenti in maniera rapida ed efficace, avendo cura di sentire anche l'opinione di S.B. Inoltre, i servizi sociali avrebbero svolto e continuerebbero a svolgere un lavoro notevole assicurando un controllo costante dell'evoluzione della situazione. In definitiva, le decisioni adottate dalle autorità italiane rientrerebbero nell'ambito del secondo paragrafo dell'articolo 8 e sarebbero conformi ai principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte in materia. I ricorrenti contestano gli argomenti del Governo. L'assenza di contatti tra essi e S.B. per un lungo periodo e lo svolgimento degli incontri tra i due ricorrenti non avrebbero prodotto altro effetto che quello di rendere difficile qualsiasi tentativo di ricostruzione di relazioni serene. Le autorità italiane non avrebbero dovuto allontanare S.B. dalla madre e dal fratello, che erano in grado di proteggerla e di sostenerla in attesa dell'esito delle indagini. La prima ricorrente afferma di avere sempre collaborato con i servizi sociali e disapprova l'assenza di un vero progetto terapeutico destinato a riavvicinarla alla figlia. Secondo lei, S.B. avrebbe dovuto essere affidata a lei, in particolare, dopo l'insuccesso dell'affidamento al centro di accoglienza, ma le autorità hanno deciso diversamente affidando la bambina a una famiglia. Infine, si sarebbero verificati importanti ritardi nell'esame della causa da parte dei giudici nazionali colpevoli, ad esempio, di avere permesso che il perito d'ufficio depositasse la propria relazione un anno dopo aver accettato il mandato, di non aver saputo controllare più efficacemente i servizi sociali che avrebbero spesso omesso di rendere conto dell'evolversi della situazione di S.B. La Corte ricorda che, se mira essenzialmente a proteggere l'individuo da ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, l'articolo 8 della Convenzione genera nondimeno degli obblighi positivi inerenti un "rispetto" effettivo della vita famigliare. In questo contesto, la Corte ha dichiarato molte volte che l'articolo 8 implica il diritto di un genitore a misure idonee a riunirlo al figlio e l'obbligo per le autorità nazionali di adottare tali misure (v., ad esempio, Ignaccolo Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 94, CEDU 2000-I, e Nuutinen c. Finlandia, n. 32842/96, § 127, CEDU 2000-VIII). Tuttavia, questo obbligo non è assoluto. La natura e la portata dello stesso dipendono dalle circostanze di ogni singolo caso, ma la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate ne costituiscono sempre un fattore importante. Se le autorità nazionali devono adoperarsi al fine di agevolare una simile collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e libertà di tali persone, e in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti riconosciuti a quest'ultimo dall'articolo 8 della Convenzione. Nel caso in cui dei contatti con i genitori rischiano di minacciare tali interessi o di pregiudicare tali diritti, le autorità nazionali hanno il compito di garantire un giusto equilibrio tra essi (Ignaccolo-Zenide, già cit., § 94). La linea di demarcazione tra gli obblighi positivi e negativi dello Stato a titolo dell'articolo 8 non si presta ad una definizione precisa; i principi applicabili sono tuttavia equiparabili. In particolare, in entrambi i casi, bisogna avere riguardo al giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti; allo stesso modo, in entrambe le ipotesi, lo Stato gode di un certo margine di valutazione (v., ad esempio, le sentenze W. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 27, § 60, B. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 72, § 61, R. c. Regno Unito dell'8 luglio 1987, serie A n. 121, p. 117, § 65, Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 52, CEDU 2000 IX, e Couillard Maugery c. Francia, n. 64796/01, § 239, 1° luglio 2004). La Corte osserva che la questione decisiva, nella fattispecie,è quella di stabilire se le autorità nazionali hanno adottato tutti i provvedimenti che ci si poteva ragionevolmente attendere dalle stesse. Per quanto riguarda l'allontanamento di S.B. e la sua presa in carico - che i ricorrenti giudicano infondati -, la Corte osserva che il tribunale per i minorenni ha giustificato la sua decisione del 6 novembre 1998 (paragrafo 7 supra) facendo riferimento ai forti sospetti che la bambina avesse subito degli abusi sessuali da parte di membri della famiglia dei ricorrenti e ai dubbi sulla capacità di protezione della prima ricorrente. Considerando attendibili le dichiarazioni di M., il tribunale sospese la potestà di entrambi i genitori, poiché il padre sembrava direttamente implicato nei fatti denunciati e la madre incapace di offrire alla figlia la protezione necessaria. Il ricorso ad una procedura di urgenza per allontanare S.B. rientra perfettamente tra le iniziative che le autorità nazionali hanno il diritto di intraprendere nei casi di sevizie sessuali che rappresentano incontestabilmente un tipo odioso di misfatti che indeboliscono le vittime. I bambini e altre persone vulnerabili hanno diritto alla tutela dello Stato, sotto forma di una prevenzione efficace che li metta al riparo da forme così gravi di ingerenza in aspetti fondamentali della loro vita privata (v. le sentenze Stubbings e altri c. Regno Unito del 24 settembre 1996, Raccolta 1996-IV, § 64, mutatis mutandis, Z. e altri c. Regno Unito (GC), n. 29392/95, § 73, A. c. Regno Unito del 23 settembre 1998, Raccolta 1998 VI, § 22, e Covezzi e Morselli c. Italia, n. 52763/99, § 103, 9 maggio 2003). In queste condizioni, la Corte è del parere che la presa in carico e l'allontanamento di S.B. possono essere considerate misure proporzionate e "necessarie in una società democratica" per la tutela della salute e dei diritti della minore. Il contesto delittuoso veramente complesso che vedeva tra i protagonisti dei membri dell'ambiente famigliare vicino ai minori vittime di abusi poteva ragionevolmente portare le autorità nazionali a considerare che il mantenimento di S.B. a casa della madre poteva nuocere alla bambina. Pertanto, la Corte ritiene che non vi sia stata violazione dell'articolo 8 su questo punto. Quanto all'assenza di contatti tra i primi due ricorrenti e S.B. e all'organizzazione degli incontri, la Corte ricorda anzitutto che qualsiasi presa in carico deve, in linea di principio, essere considerata una misura temporanea, da sospendere non appena le circostanze lo permettono, e che qualsiasi atto di esecuzione deve concordare con un fine ultimo: riunire il genitore e il figlio (v., tra le altre, le sentenze Olsson c. Svezia (n. 1) del 24 marzo 1988, serie A n. 130, § 81, e Covezzi e Morselli c. Italia già cit., § 118). Una interruzione prolungata dei contatti tra genitori e figli o degli incontri troppo distanziati nel tempo rischierebbero di compromettere qualsiasi possibilità seria di aiutare gli interessati a superare le difficoltà sopravvenute nella vita famigliare (v., mutatis mutandis, la sentenza Scozzari e Giunta c. Italia (GC) già cit., § 177). Pertanto, anche se la misura di allontanamento era giustificata, la Corte ha il compito di esaminare se le ulteriori restrizioni fossero conformi all'articolo 8, in applicazione del quale dovevano essere tutelati gli interessi dei ricorrenti. Se le autorità hanno l'obbligo di operare per agevolare il ricongiungimento della famiglia e i contatti tra i suoi membri, qualsiasi ricorso alla coercizione in materia è ovviamente limitato dalla preoccupazione per l'interesse superiore del figlio. Quando dei contatti con i genitori sembrano minacciare questo interesse, sono le autorità nazionali a dover trovare un giusto equilibrio tra gli interessi dei minori e quelli dei genitori (v., tra le altre, la sentenza K. e T. c. Finlandia (GC), n. 25702/94, § 194, CEDU 2001 VII). La Corte osserva che, nel novembre 1998, il tribunale per i minorenni ordinò l'interruzione dei rapporti tra la sig.ra Roda e la figlia considerando la prima per lo meno incapace di offrire una protezione sufficiente alla bambina. La necessità di mettere quest'ultima al riparo affidandola ad un ambiente protetto si imponeva in maniera evidente. Il 19 maggio 1999, tenuto conto poi del risultato delle due perizie d'ufficio - che avevano concluso per "l'esistenza di lesioni legate a rapporti sessuali completi, numerosi e reiterati" e "una forte corrispondenza con l'ipotesi di atti di abusi sessuali" -, e alla luce delle prime relazioni di controllo depositate dai servizi sociali, il tribunale per i minorenni ritenne necessario non modificare la situazione di affidamento di S.B. I suoi genitori non erano in grado di fornirle la protezione di cui aveva bisogno e il ritorno presso la madre non era possibile in quel momento. La Corte osserva che le relazioni di controllo dei servizi sociali - depositate all'esito di molteplici incontri con i quattro membri della famiglia Bonfatti-Roda -, nonché le due relazioni del perito nominato il 19 maggio 1999, evidenziarono una grave sofferenza da parte della bambina, che i genitori attribuivano alla situazione famigliare e alla decisione presa nel 1998 di allontanare la bambina. La Corte osserva che le due proroghe del termine fissato il 19 maggio 1999 accordate dal tribunale al perito (che depositò le sue prime conclusioni su S.B. il 7 giugno 2000 e la sua relazione finale il 19 luglio 2000) hanno causato un ritardo notevole nella procedura (più di un anno e un mese a decorrere dal 24 giugno 1999, data in cui il perito aveva prestato giuramento). Pur riconoscendo che, per la sua delicatezza, questo tipo di inchiesta deve essere condotto in modo rigoroso e senza fretta, la Corte ritiene che fosse necessaria una maggiore diligenza. Al contrario, la Corte non considera irragionevole la decisione del 29 gennaio 2001, con la quale il tribunale per i minorenni confermò l'affidamento della minore ad un ambiente protetto preferibilmente di tipo famigliare, pronunciò la decadenza del padre dalla potestà dei genitori, considerati in particolare la personalità di quest'ultimo e il vissuto di paura della figlia nei suoi confronti (paragrafo 32 supra), e considerò prematura la ripresa dei contatti tra i ricorrenti, poiché la prima ricorrente non sembrava ancora in grado di venire in aiuto alla figlia e il secondo ricorrente poteva generare dei sentimenti di confusione in S.B. (paragrafi 33 e 34 supra). La Corte osserva ancora che il 7 giugno 2001, essendo stata informata dai servizi sociali della loro impotenza a sostenere psicologicamente la minore, che rifiutava completamente il mondo esteriore, la corte d'appello di Bologna esortò i servizi ad attivarsi immediatamente allo scopo di far uscire la bambina dalla sua situazione di abbandono e di isolamento e di cercare di avvicinarla alla madre. Tuttavia, il primo incontro tra la madre e la figlia ebbe luogo solo il 28 marzo 2002. Era certamente necessario un lavoro di preparazione adeguato da parte dei servizi sociali, ma tale esigenza non spiega perché siano trascorsi cinque mesi prima che essi incontrassero la psicologa della sig.ra Roda, e poi gli interventi della procura e del giudice tutelare che, su richiesta della prima ricorrente, ordinarono ai servizi sociali di procedere al primo incontro e di registrarlo. In seguito, gli incontri ebbero luogo a intervalli quasi regolari. Il giudice tutelare, tuttavia, dovette essere sollecitato più volte dalla sig.ra Roda per ottenere il deposito rapido della videoregistrazione degli incontri, il diritto di intrattenere una corrispondenza con S.B., la consegna a quest'ultima di un cellulare e una informazione costante sull'affidamento famigliare della bambina (paragrafi 41-46 supra). Quanto al secondo ricorrente, la Corte osserva che, nonostante la possibilità lasciata ai servizi sociali dal tribunale per i minorenni di valutare l'opportunità di organizzare degli incontri con la sorella dopo un periodo di preparazione adeguata e accettata dall'interessato, non furono intraprese iniziative in tal senso, cosicché il tribunale, il 7 luglio 2004, (paragrafo 63 supra) reiterò il suo invito ai servizi sociali. Secondo le ultime informazioni fornite dall'avvocato dei ricorrenti, il secondo ricorrente avrebbe partecipato a dei colloqui con i servizi sociali. Nella sua decisione del 7 luglio 2004, alla luce dei risultati incoraggianti dell'affidamento famigliare, il tribunale prorogò di almeno due anni tale affidamento, e optò per il proseguimento degli incontri in luogo protetto anche in occasione di alcune festività. Tale decisione fu confermata in appello il 26 novembre 2004. La Corte constata che, se tutti questi interventi delle autorità giudiziarie sono stati adottati dopo una matura riflessione e sulla base delle indagini condotte dai periti e dai servizi sociali, non si può trascurare il fatto che il tempo trascorso a partire dalla ripresa dei contatti tra la madre e la figlia non ha agevolato il riavvicinamento tra i ricorrenti. In effetti, S.B. ha manifestato la sua volontà di non piegarsi alle decisioni giudiziarie che prevedevano un contatto più frequente e meno rigido con la madre. Informata dai servizi sociali, la procura chiese nel febbraio 2005 la sospensione dell'esecuzione della decisione della corte d'appello di Bologna del 26 novembre 2004 in attesa di un cambiamento di atteggiamento della minore. Il tribunale accolse la domanda e, nel marzo 2005, ristabilì il principio più severo di incontri mensili in luogo protetto. Questa situazione non si è evoluta positivamente. In queste condizioni, e alla luce di quanto precede, anche tenendo conto delle reticenze manifestate da S.B., è opportuno concludere che le misure adottate per trovare un giusto equilibrio tra gli interessi della figlia e i diritti dei primi due ricorrenti ai sensi dell'articolo 8 non sono state completamente sufficienti. Pertanto, vi è stata violazione di questa disposizione a causa del protrarsi dell'interruzione dei rapporti e dell'organizzazione lacunosa degli incontri tra i primi due ricorrenti e S.B.
VI - SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione, "Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa."
Danno. I ricorrenti chiedono, per il danno materiale: 2.910,68 euro (EUR) corrispondenti al costo della psicoterapia seguita dalla sig.ra Roda, 60 EUR relativi alle spese per gli incontri del secondo ricorrente con i servizi sociali e 200 EUR per l'acquisto di un telefono cellulare. Quanto al danno morale, i primi due ricorrenti chiedono che venga loro accordata la somma di 100.000 EUR ciascuno e la somma di 200.000 EUR per S.B. Secondo il Governo, le somme richieste per il danno materiale non hanno alcun rapporto con le presunte violazioni, ma sono legate a una situazione oggettiva che non è di per sé contraria alla Convenzione. In effetti, le eventuali violazioni che la Corte potrebbe constatare riguardano aspetti particolari della situazione controversa, ma non mettono in discussione la decisione iniziale di allontanamento della minore o la necessità di preparare in maniera adeguata il suo reinserimento nella famiglia di origine, che non può essere negato. In particolare, la psicoterapia seguita dalla sig.ra Roda, opportuna per aiutarla a recuperare il suo ruolo di genitore e superare le difficoltà che le impediscono di avere un rapporto costruttivo con la figlia, non costituirebbe né una violazione della Convenzione né una conseguenza diretta di una tale violazione. Lo stesso varrebbe per gli incontri del secondo ricorrente con gli assistenti sociali. Quanto all'acquisto di un telefono cellulare per S.B., non si comprende bene il legame con la situazione controversa. Il Governo si affida al giudizio della Corte affinché essa determini equamente il danno morale, precisando che le somme richieste sono eccessive e prive di qualsiasi giustificazione. In particolare, la somma chiesta dal secondo ricorrente non ha alcun rapporto con la vera sofferenza che egli può aver provato. Quanto alla somma richiesta in nome di S.B., si dovrebbe tenere conto del fatto che quest'ultima continua a manifestare il proprio benessere nella situazione attuale di affidamento in famiglia. Sarebbe dunque sorprendente che la Corte le accordasse una somma per compensare una presunta sofferenza che essa evidentemente non prova. In conclusione, il Governo ritiene che una eventuale constatazione di violazione costituirebbe un'equa soddisfazione sufficiente per tutti i ricorrenti e che, in ogni modo, le somme richieste dovrebbero essere contenute entro limiti più ragionevoli. La Corte non percepisce alcun legame di causalità tra la violazione constatata e il danno materiale addotto e rigetta tale domanda. In compenso, deliberando equamente, essa ritiene opportuno accordare a ogni ricorrente la somma di 3.000 EUR per il danno morale.
Spese. La prima ricorrente chiede 8.700 EUR per l'assistenza della sua psicologa durante gli incontri, 18.035 EUR per le spese sostenute dinanzi alle giurisdizioni interne e 21.930 EUR per quelle sostenute dinanzi alla Corte. Il secondo ricorrente chiede 10.965 EUR per le spese sostenute dinanzi alla Corte. Il Governo afferma che le spese sostenute nell'ambito dei procedimenti interni non sono dovute, in assenza di qualsiasi rapporto con le presunte violazioni. Secondo lo stesso, tali spese erano necessarie per le esigenze della "difesa" dinanzi alle autorità giudiziarie. Quanto alle spese relative al procedimento ai sensi della Convenzione, esse sarebbero eccessive rispetto alla "natura e alla relativa semplicità della causa, nonché alla consistenza dell'attività di difesa effettivamente svolta e realmente necessaria". Il Governo si affida al giudizio della Corte affinché tali spese siano liquidate in misura ragionevole e conforme alla sua pratica. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui sono stabilite la realtà, la necessità e la ragionevolezza dell'importo delle stesse. Nella fattispecie, e tenuto conto degli elementi in suo possesso e dei criteri sopra menzionati, la Corte considera ragionevole la somma di 6.000 EUR per le spese e la accorda ai primi due ricorrenti congiuntamente.
Interessi moratori. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL'UNANIMITÀ,
Dichiara il ricorso ammissibile per quanto riguarda il motivo relativo all'articolo 8 della Convenzione e inammissibile per il resto;
Dichiara che non vi è stata violazione dell'articolo 8 per quanto riguarda la presa in carico e l'allontanamento di S.B.;
Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 8 per quanto riguarda l'assenza di contatti tra i primi due ricorrenti e S.B. e l'organizzazione lacunosa degli incontri;
Dichiara che lo Stato convenuto deve versare, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione,
3.000 EUR (tremila euro) a ciascun ricorrente per il danno morale,
6.000 EUR (seimila euro) ai primi due ricorrenti congiuntamente per le spese,
più l'importo eventualmente dovuto a titolo di imposta;
che a decorrere dallo scadere del termine suddetto e fino al versamento, tali somme dovranno essere maggiorate di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto. Fatto in francese, e poi comunicato per iscritto il 21 novembre 2006 in applicazione dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
S. NAISMITH Cancelliere aggiunto
J.-P. COSTA Presidente
Affidi: Pm avvisò su relazioni false. A novembre tentò di fermare provvedimento contro un genitore. Ansa il 27 luglio 2019. La Procura di Reggio Emilia avvertì il Tribunale dei minori di Bologna che le relazioni che avrebbero portato alla revoca dell'affidamento ai propri genitori di un bambino coinvolto nell'inchiesta 'Angeli e Demoni' sugli affidi in Val d'Enza non erano corrette. Nonostante questo il bambino fu mandato in comunità, dove è rimasto fino agli arresti delle settimane scorse. Il caso risale a novembre quando la Pm di Reggio Emilia, Valentina Salvi, scrive al giudice minorile, Mirko Stifano. Una comunicazione, a quanto si apprende, preceduta da telefonate e classificata come urgente per impedire quel provvedimento basato su relazioni false. La Procura Reggiana, infatti, dimostrò, allegando gli atti, che quanto indicato dai servizi sociali non era vero e la situazione del padre non aveva condotte penalmente rilevanti tali da giustificare un provvedimento come l'affido del bambino in comunità. Che però fu eseguito comunque.
Bibbiano, il giudice minorile ignorò l'allarme del magistrato. Valentina Errante Domenica 28 Luglio 2019 su Il Messaggero. La procura di Reggio Emilia aveva avvertito il Tribunale dei minori di Bologna che alcune relazioni sui bambini sottratti alle famiglie della Val d’Enzapo tessero presentare anomalie. In particolare l’alert del pm riguardava un bambino coinvolto nell’inchiesta “Angeli e Demoni” che venne affidato ugualmente a in comunità, dove è rimasto fino agli arresti dei 18 indagati dello scorso giugno delle settimane scorse. Vanno avanti le indagini sul caso di Bibbiano, dove quattro dei sei piccoli coinvolti nelle false perizie, e sottratti alle famiglie sulla base di abusi e maltrattamenti mai subiti, sono tornati dai genitori naturali. Lo scorso novembre la pm di Reggio Emilia, Valentina Salvi, che aveva avviato le verifiche sulla base di un numero spropositato di affidi nella Val D’Enza, scrive al giudice minorile, Mirko Stifano. Una comunicazione preceduta anche da telefonate e classificata come urgente per impedire quel provvedimento basato su relazioni false. La Procura reggiana, infatti, dimostrava, allegando gli atti, che quanto indicato dai servizi sociali non era vero e la situazione del padre, al quale stava per essere sottratto il bambino, non aveva condotte penalmente rilevanti, comunque tali da giustificare un provvedimento come l’affido del figlio a una comunità. Il Tribunale, però, non avrebbe tenuto conto di quelle preoccupanti segnalazioni, tanto che il piccolo, poi, era comunque stato allontanato dai genitori. Dalle intercettazioni emerge anche che Federica Arginolfi, dirigente del servizio sociale della Val d’Enza, agli arresti domiciliari, avrebbe valutato per alcune coppie di associazioni lgbt di una città del Sud Italia un affido a tempo indeterminato, a fronte della manifestazione, da parte degli aspiranti genitori omosessuali, di potersi affezionare ai piccoli. La donna li rassicurava sostenendo che il perdurare di una valutazione negativa sui genitori, ritenuti inadeguati dalle relazioni degli stessi servizi sociali, avrebbe di fatto reso l’affido a tempo indeterminato, come una sorta di adozione.
AFFIDI FANTASMA. Dagli atti emergono anche casi di affidi fantasma. Come emerge dalla testimonianza di una donna, cuoca in una struttura per ragazzi. «Non ho fatto nessuna accoglienza, non conosco le loro storie, né i loro genitori. Li conosco solo per il fatto che a pranzo cucino per loro come per tutti gli altri». Agli atti, invece, risultava affidataria di una bambina: «Mi fu consegnato un foglio dove Federica diceva che mi dava in “affido sostegno” tale bambino». Secondo la signora, la Arginolfi, senza spiegarle il motivo, le avrebbe chiesto di diventare il tramite delle spese per la psicoterapia. Un modo, secondo gli inquirenti per creare false retribuzioni.
Intanto pochi giorni fa è stato rinviato l’incontro tra uno dei minori coinvolti nell’inchiesta e allontanato sulla base di relazioni dei servizi sociali.
Affidi illeciti: “Il Tribunale minorile di Bologna sapeva”. Maria Cristina Fraddosio su Il Fatto Quotidiano 28 luglio 2019. Il Tribunale dei Minori di Bologna sapeva che uno degli affidi autorizzati dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza, finito nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, per cui sono indagate 29 persone, era illecito. La Procura di Reggio Emilia aveva comunicato che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. A novembre scorso il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi si era rivolta al giudice minorile Mirko Stifano. Lo aveva prima chiamato, annunciandogli l’urgenza di interrompere l’iter di allontanamento, e poi gli aveva inviato gli atti, dimostrando che quanto riportato dai servizi sociali non era vero. Il Minore doveva essere portato via a causa delle condotte penali di suo padre riscontrate dal servizio sociale. Condotte che, come avrebbe riferito la pm Salvi a Stifano, non risultavano tali da procedere. Ma la sua richiesta è caduta nel vuoto. Il bambino è finito ugualmente nel centro “La Cura” di Bibbiano, dov’è rimasto fino all’ordinanza del giudice Luca Ramponi, che ha disposto gli arresti domiciliari per sei persone, tra cui il fondatore del Centro Hansel & Gretel Claudio Foti (la misura per lui poi è stata attenuata). Il minore in questione è uno dei dieci finiti nel giro degli affidi illeciti. Potrebbe trattarsi del ragazzino di origine straniera la cui abitazione veniva descritta dai servizi sociali come “spoglia” e “priva di giochi”. Dettagli poi contraddetti da un sopralluogo dei Carabinieri. Secondo l’accusa, Federica Alfieri, psicologa Asl, e Annalisa Scalabrini, assistente sociale, riportavano nella relazione, poi trasmessa dalla dirigente del servizio sociale, Federica Anghinolfi (personaggio chiave nell’inchiesta), al Tribunale dei Minori, il falso. “Lasciavano intendere uno stato di denutrizione del bambino”, poi smentito dal pediatra. Descrivevano il minore come “depresso”, a causa di suo padre soggetto dedito al consumo di alcolici e violento. “Pare che il padre abbia un atteggiamento molto aggressivo e che sia stato coinvolto in diverse risse”, avrebbero dichiarato. Alla figura paterna avrebbero imputato anche una cattiva gestione del denaro, “basando tale assunto esclusivamente sul dato del mancato pagamento di alcune rette scolastiche”. Notizia poi dimostratasi falsa. Per l’accusa, è vero che il padre era stato fermato 2 volte per guida in stato di ebbrezza, ma 10 anni prima e con un livello modesto di positività al test. Infatti, i giudici considerano un’esagerazione ritenere che fosse dipendente da alcool. Per questo minore, i servizi sociali avevano richiesto il collocamento in luogo protetto assieme alla madre. Il decreto di allontanamento del Tribunale dei minori di Bologna veniva eseguito dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza il 22 novembre 2018. Presumibilmente, qualche giorno prima la pm Salvi aveva cercato di impedirne l’attuazione, rivolgendosi direttamente al giudice minorile. Ma viene allontanato ugualmente e portato presso “La Cura” di Bibbiano. La madre lo segue e l’assistente sociale, Francesco Monopoli, avrebbe commentato così la sua presenza: “Gli dirà guai a te se parli”. Influenzato dalla madre, il minore avrebbe negato gli abusi (mai avvenuti). Non si esclude invece, che abbia assistito ad aggressioni del padre nei confronti della madre.
La Sardegna colpita dal "metodo Foti". Si riapre il caso della bidella suicida. Sardiniapost.it il 27 luglio 2019. Due anni, un percorso diventato un calvario insostenibile per una ex bidella di Sestu che, dopo 42 anni di lavoro, si trova coinvolta in una vicenda giudiziaria con un’accusa terribile: reato di violenza sessuale. A riportare alla luce la storia di Agnese Usai, 62 anni, collegandola ai fatti di Bibbiano, è Selvaggia Lucarelli sulle pagine del Fatto Quotidiano in cui viene descritto un percorso pieno di dubbi che ha portato a un epilogo tragico per la bidella che, nel 2018, si è tolta la vita lasciando un biglietto con scritto “sono innocente”. Tutto inizia nel 2016 quando la donna scopre di essere indagata dalla Procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. È dal giorno che un filo rosso lega la Sardegna a Claudio Foti e ai suoi seguaci. I fatti risalgono al 2014 quando Agnese lavora in una scuola materna frequentata da una bimba di 4 anni: i genitori della piccola hanno notato negli ultimi tempi dei comportamenti strani. La piccola non vuole fare il bagnetto e ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. Una sera la piccola – riporta il quotidiano – ammette che non vuole lavarsi perché ha paura dei mostri e racconta che la signora Agnese, in bagno, le accarezza la patatina e le lecca la faccia. È a questo punto che i genitori si rivolgono a una psicologa della Asl di Cagliari che ha spesso partecipato a incontri del Cismai (associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali di Massa Finalese a Bibbiano) e di Hansel & Gretel ed è esperta nella terapia Emdr, quella della macchinetta dei ricordi. Appuntamenti in cui c’erano, il alcune occasioni, Claudio Foti e Nadia Bolognini (coinvolti nella vicenda Angeli e Demoni). La psicologa, dopo aver ascoltato il racconto dei genitori conferma che i sintomi sono riconducibili a un possibile abuso. La bimba, nel frattempo inizia a frequentare una nuova scuola, mentre tra il 2015 e 2016 vengono interrogati il preside e alcune maestre. Nessuno ha avuto segnalazioni sul comportamento della bidella, una maestra si limita a dire che la bambina non ha mai manifestato segnali di disagio e un’altra sostiene che “Agnese era la collaboratrice ideale e qualche bambino era anche dispiaciuto del suo allontanamento”. Nel frattempo per Agnese il tempo passa senza perquisizioni, non vengono messe telecamere nell’asilo e il suo telefono verrà intercettato solo dopo il 2016 ma senza alcun esito. Eppure la bambina racconterà che la bidella la riprendeva in bagno con il cellulare, ma quello di Agnese è un modello vecchio che non fa video e non naviga in rete. Dopo due anni e mezzo, nel 2017 per l’incidente probatorio, viene chiamata dalla psicologa cagliaritana una consulente di parte Cleopatria D’Ambrosio, che fa parte del direttivo dell’associazione "Rompere il silenzio" di Claudio Foti. Anche per lei i segni dell’abuso sono presenti, nonostante la per la consulente del giudice la piccola è parsa senza particolari segni post traumatici. Passano il tempo e dopo due anni di percorso con le psicologhe, un giorno il fratellino della piccola racconterà che la sorellina “ha provato a infilarmi un dito nel culetto”. Crescendo, i ricordi della minore si fanno più nitidi, tanto che chiama in causa anche un’altra maestra che “c’era sempre quando Agnese mi faceva del male, sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina”. Un’accusa gravissima sulla quale, però, nessuno ha indagato. Infine quando il giudice ha chiesto alla bimba di descrivere Agnese la risposta è stata ha i capelli gialli e lunghi sino alle spalle, ma la bidella aveva i capelli cortissimi e bianchi. Tanti i dubbi e le dichiarazioni contraddittorie attorno a questa vicenda, anche perché la bimba non è mai stata portata da un ginecologo per una visita. Per la bidella si profilava un processo, troppo per lei che il 6 maggio del 2018 ha deciso di togliersi la vita, perché non sopportava più le accuse.
Inchiesta Angeli e demoni, pista sarda: avvocato Concas smontò le tesi di Foti. Sardiniapost.it il 17 luglio 2019. L’inchiesta "Angeli e Demoni" che ha scoperchiato un vaso di Pandora sugli affidamenti illeciti dei minori ha rami molto lunghi, che arrivano fino alla Sardegna. Il filo che collega alcuni eventi è nelle mani di Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore scientifico della onlus ‘Hansel e Gretel’ di Moncalieri, agli arresti domiciliari perché coinvolto nell’inchiesta. Foti, come ricorda il settimanale Panorama, fu perito di parte in un processo del 2001 ai danni di un orologiaio cagliaritano, accusato di aver abusato sessualmente dei figli, abusi ai quali avrebbero partecipato anche la nuova compagna dell’uomo e un amico. Accuse crollate in tutti e tre i gradi di giudizio, sino alla Cassazione, ma con un intermezzo in cui Foti fu chiamato per una perizia sulle presunte vittime. A difendere l’imputato fu il decano dei penalisti sardi, l’avvocato Luigi Concas, che non è sorpreso del coinvolgimento del consulente di Moncalieri nella vicenda: “Aveva la tendenza ad assumere il ruolo di accusatore, quasi da Pubblico ministero travestito da consulente”. Il comportamento di Foti era chiaro: “Aveva un orientamento preciso e quello condizionava tutte le sue scelte. Secondo me non era ambizione ma proprio una convinzione sbagliata”. A evidenziare come la linea da seguire fosse solo una c’è un fatto, anche marginale, che riguarda un disegno chiesto da Foti a una delle presunte vittime. “Era un disegno che sarebbe servito ai consulenti del Pubblico ministero”, racconta Concas. Il disegno fu interpretato come un organo genitale maschile con una serie di punte, ma l’intuizione di Concas permise di capire che il bambino aveva disegnato Goku, un personaggio dei cartoni animati in voga in quel periodo. “Lui dava dei fatti un’interpretazione particolare. Ricordo che ci furono molte polemiche e tante affermazioni gli furono contestate”. Un’onta pesante che superò indenne tutti e tre i gradi di giudizio, sino alla Cassazione. E in Sardegna c’è anche un’altra vittima delle forzature, un professore che ora vive a Oristano e che, nonostante la piena assoluzione dalle accuse, ha perso il dono più grande di poter riabbracciare le figlie. Questi sono due casi ‘sardi’ ma simili ad altri che in tutta Italia si sono verificati e che sono stati condizionati da forzature nelle perizie. Foti fa parte di un sistema che ha coinvolto operatori e politici nella zona di Reggio Emilia: l’inchiesta "Angeli e Demoni", infatti, ha svelato un sistema perverso, in cui i bambini venivano ingiustamente sottratti alle proprie famiglie con motivazioni gravi ma figlie di forzature.
Agnese, la bidella suicida di Sestu e il filo rosso con Bibbiano. Youtg.net il 27 luglio 2019. Compaiono anche nomi di psicologi collegati al caso Bibbiano nell'inchiesta per presunti abusi si una bimba di 4 anni che aveva portato al suicidio di Agnese Usai, bidella appena andata in pensione, che si era tolta la vita a maggio del 2018, sotto il peso di accuse pesantissime. "Sono innocente", aveva scritto su un biglietto. Qualche mese prima aveva ricevuto un avviso di conclusione dell'inchiesta per pedofilia condotta dalla Procura di Cagliari nei suoi confronti. Un'indagine scaturita da accuse partite da una bimba che aveva raccontato di essere stata toccata da lei, nelle parti intime, nel bagno della scuola materna nella quale lavorava. Aveva detto tante altre cose, la bimba, nel corso del tempo. Alcune vicende raccontate contraddicevano altre dichiarazioni. Ma il fascicolo del pm si è riempito. Tra i protagonisti spuntano "nomi di psicologhe legate a Claudio Foti arrestato per il caso Bibbiano, al centro Hansel e Gretel e a orrori passati come il caso Sorelli di Brescia". Come? A ricostruire la vicenda, e a tracciare una linea rossa tra Sestu e Bibbiano, è Selvaggia Lucarelli: due pagine su Il fato Quotidiano che partono da lontano. Fino al tragico epilogo.
Questo il testo dell'articolo uscito oggi su Il Fatto Quotidiano del 27 luglio 2019a firma di Selvaggia Lucarelli (ripreso dal post della pagina Facebook della stessa giornalista). Quando mi sono avvicinata a questa recente storia tragica e incredibile che racconto oggi sul Fatto non sapevo che ancora una volta avrei trovato dei nomi di psicologhe legate a Claudio Foti arrestato per il caso Bibbiano, al centro Hansel e Gretel e a orrori passati come il caso Sorelli di Brescia. E invece leggete in quale morsa orribile di accuse campate in aria è finita Agnese, questa povera bidella sarda che alla fine un anno fa si è tolta la vita in un bagnetto, con un braciere, per la vergogna e la spietate certezze di certe psicologhe. (per non parlare delle indagini).
I carabinieri le bussano a casa, a Sestu, la vigilia di Natale del 2016. Agnese Usai ha 62 anni e quello è il suo primo Natale da pensionata dopo 42 anni di lavoro nelle scuole come bidella. Lei, che da giovane era stata bellissima, non si è mai sposata. Come tante donne della sua famiglia ha scelto di dedicare la sua vita al lavoro e quel lavoro nelle scuole è stato la sua vita. Mai una macchia, mai un problema. Sì, qualche discussione con i colleghi perché Agnese certe volte è un po’ scorbutica, ma è amata e rispettata. “Che ho fatto?”, domanda ai carabinieri che le chiedono di firmare. “Ah, se non lo sa lei…”, le rispondono con un velato sarcasmo. Agnese scopre di essere ufficialmente indagata dalla procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. Da questo momento, quel tratto di penna che unisce in tutta Italia tante storie di accuse false, assurde o zoppicanti di minori e che riconducono con un’impressionante frequenza a Claudio Foti e ai seguaci del suo metodo, arriva anche lì, in Sardegna, e disegna un nuovo intreccio, oltre che il destino di Agnese. Un destino breve, perché la bidella si toglierà la vita due anni dopo gridando la sua innocenza. La storia inizia nel 2014. Agnese lavora da un paio di mesi in una scuola materna frequentata da una bambina di 4 anni che chiameremo Stella. Una bambina di cui lei neppure si ricorda, quando scopre la denuncia. I genitori della piccola, entrambi non giovanissimi e profondamente religiosi, vicini all’ambiente neocatecumenale, da qualche tempo hanno notato che Stella ha dei comportamenti strani. Non vuole fare il bagno, corre nuda per la casa, ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. “Fa salti troppo alti per la sua statura” e “Si arrampica sui mobili”, racconterà poi la mamma ai carabinieri. Quelle cose che nessun genitore ha mai visto fare ai propri figli, insomma. Stella cerca anche di baciare altri bambini o le mani dei genitori. Vuole lavarsi spesso la patatina, dice che la sua patatina ha bisogno di bere. Il 10 novembre la mamma la va a prendere a scuola e la trova bagnata di pipì. Le dice che deve fare la pipì in bagno, che trattenendo lo stimolo si può ammalare. La sera, ancora agitata, la madre torna sul discorso e la bambina ammette che non va in bagno perché ha paura dei mostri. “I mostri del cartoncino di signora Agnese”, spiega. Interrogata con insistenza, afferma anche che la signora Agnese in bagno le accarezza la patatina e le lecca la faccia. Dunque la bambina si farebbe la pipì addosso per non vedere più Agnese che in effetti qualche volta accompagna i bambini in bagno e li aiuta a pulirsi. Quello che fanno i bidelli, insomma. Quell’Agnese che in effetti potrebbe averle “accarezzato la patatina”, ma magari per asciugarle la pipì. Che magari l’ha sgridata in modo un po’ brusco perchè forse Stella ha sporcato il bagno. Quell’Agnese che le lecca la faccia. Una perversione bizzarra per una bidella con 42 anni di attività senza mai un’ombra. I due genitori, allarmati, si fanno suggerire dagli amici della parrocchia una psicologa a cui rivolgersi. La psicologa è Elisabetta Illario della Asl di Cagliari, il cui curriculum racconta un profondo e continuativo legame sia nella formazione professionale che in qualità di relatore ad incontri del Cismai e di Hansel e Gretel. Il Cismai (la cui metodologia non è riconosciuta dalla comunità scientifica) è l’associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali che sono stati al centro dei casi più contestati, da Rignano Flaminio a Massa Finalese fino ad arrivare a Bibbiano. E al Cismai è stata iscritta per un lungo periodo anche l’associazione Hansel e Gretel. La Illario è anche esperta in terapia Emdr e il suo nome è su varie locandine di incontri con Claudio Foti, Nadia Bolognini (Angeli e demoni), Federica Anghinolfi (Angeli e Demoni), Andrea Coffari (avvocato di Foti), Pietro Forno (pm del caso Lucanto), Cleopatra D’Ambrosio (caso Sorelli, Brescia) e così via. La psicologa Illario ascolta il racconto dei genitori e afferma che i sintomi sono compatibili con un possibile abuso. Senza neanche vedere la bambina. Fa una segnalazione alla Procura. Stella non va più a scuola. Nei giorni successivi, diranno poi i genitori, a casa la bimba comincia a sfregarsi la patatina contro i mobili o a toccarsi per poi smettere improvvisamente. Tutto questo accade sempre e solo in loro presenza. Nessuno, né a scuola né altrove, la vedrà mai fare cose simili. L’indagine parte da qui, da fatti che sarebbero accaduti nell’ottobre del 2014. Fino a luglio 2015 la Procura non si muove. Intanto però la psicologa Illario “accompagna” i due genitori e la bimba nel percorso, vedendo Stella senza registrare gli incontri. La bambina, secondo genitori e psicologa, aggiungerà alcuni particolari, tra questi uno piuttosto inquietante: Stella ha raccontato alla maestra Tania le molestie di Agnese, la maestra Tania le ha detto: “La spedisco nel sistema solare” ma poi non ha fatto niente. Questa maestra non sarà mai interrogata sulla grave questione. Stella comunque sembra riprendersi presto, dopo un mese dalla rivelazione inizia già a frequentare una nuova scuola. Tra il 2015 e il 2016 vengono interrogati (con l’obbligo di segretezza) il preside e alcune maestre. Il preside afferma che non ha mai ricevuto alcuna segnalazione sulla bidella Usai da genitori e personale. Viene interrogata la maestra Carla, che si limita a dire che Stella non ha mai manifestato segnali di disagio. L’altra maestra dice che Stella si era fatta un paio di volte la pipì addosso e che “Agnese era la collaboratrice ideale, qualche bambino si era dimostrato anche dispiaciuto del suo allontanamento”. Agnese intanto è ignara di tutto. Non subisce perquisizioni. Non vengono messe telecamere nell’asilo. Nulla. (verrà a lungo intercettato il suo telefono solo dopo il 2016, senza alcun esito) La bambina, in seguito, affermerà che Agnese in bagno la riprendeva col cellulare e le faceva fare dei balletti, ma Agnese ha un cellulare vecchio che non fa video e non ha la linea per navigare. Il bagno è 1 metro e 50 di larghezza, difficile anche muoversi. L’incidente probatorio inizia nel 2017, due anni e mezzo dopo i fatti oggetto di denuncia riguardanti una bambina che ai tempi aveva 4 anni, dunque in piena età evolutiva. E qui subentra un personaggio interessante. La psicologa consulente di parte della famiglia di Stella, nel momento in cui inizia l’incidente probatorio, è Cleopatra D’Ambrosio, già citata perchè relatrice a vari incontri con la psicologa Illario, colei che ha raccolto la denuncia dei genitori di Stella, e che è nel direttivo di “Rompere il silenzio”, associazione del fondatore di Hansel e Gretel Claudio Foti. Ma c’è di più. Cleopatra D’Ambrosio entrò in contatto con alcuni genitori del famoso caso Sorelli a Brescia, organizzando incontri per aiutare le mamme dell’asilo. Nel 2003 un prete, sei maestre e un bidello furono accusati di pedofilia ai danni di 23 bambini. La D’Ambrosio ai tempi fornì (a pagamento) libricini tipo “fumetti” ai genitori con indicazioni su come interrogare i bambini. Durante il processo spuntarono fuori questi libretti, l’avvocato della difesa chiese al consulente del pm Marco Lagazzi: “E’ corretto dire che consegnare questi libretti in mano ai genitori è come chiedere a un genitore “ti consegno un bisturi, fai tu l’operazione di appendicite?”. Il consulente rispose: “Questo non è un bisturi, è una sega elettrica”. Lo stesso consulente chiese quei libretti al giudice “per mostrare ai miei studenti all’Università cosa non si deve fare nell’ascolto del minore”. Il nome della D’Ambrosio nei verbali di quel processo compare 600 volte. Prete, maestre e bidello furono tutti assolti. Le accuse dei bambini erano false. Ma non finisce qui. La D’Ambrosio è anche quella che afferma: “E’ comprovato scientificamente. Un trauma non elaborato può essere trasmesso nel DNA fino a quattordici generazioni”. In pratica un bambino potrebbe soffrire per un abuso subito da un suo trisavolo, a sentir lei. Dopo il disastro dell’asilo Sorelli, la D’Ambrosio arriva anche qui. Nella materna di Sestu. Viene chiamata addirittura da Brescia, visto il curriculum. Durante l’incontro della consulente del giudice Patrizia Cuccu con Stella per una perizia, la D’Ambrosio fa entrare nella stanza da cui lei (e solo lei, come si era stabilito) poteva assistere, anche i genitori di Stella. La bambina entra in quella stanza, trova i genitori, c’è un’accesa discussione tra il perito del giudice e la D’Ambrosio. Quest’ultima afferma “Sono stata io a farli entrare, non capisco perché non debbano essere autorizzati a guardare dal vetro” e nella confusione il papà di Stella urla: “Hanno stuprato mia figlia!”. Cosa che Stella potrebbe aver udito. L’esito della perizia è che ci sono segnali di “invischiamento", che la bambina presenta disagio e non particolari sintomi post-traumatici ma che la sua famiglia potrebbe aver diminuito la severità delle conseguenze dell’abuso. E comunque, i segnali dell’abuso sono stati rivelati dalla bambina alla psicologa Illario e ai genitori. Insomma, la psicologa crede alla psicologa. La D’Ambrosio, nella sua consulenza, evidenzia che Stella ha un contenimento del trauma perché la psicologa Illario ha saputo ascoltare e guidare lei e i genitori. Che il trauma comunque perdura anni (non erano secoli?), che se alla consulente del giudice Stella è parsa senza particolari segni post-traumatici è perché ci vuole l’ascolto empatico da parte degli adulti. E quindi, nella consulenza, cita i suoi riferimenti nel campo dell’ascolto dei minori: Claudio Foti, Pietro Forno (pm titolare dell’inchiesta nel caso Lucanto, quella finita con la condanna in primo grado di un padre innocente ricostruita nella fiction con la Ferilli), il Cismai. Molte chiacchiere. Manca solo una cosa: uno straccio di prova. I genitori non hanno mai portato Stella dal ginecologo per appurare se ci sia stata deflorazione, e questo nonostante nell’agosto del 2016, quando ormai la bambina usufruisce dell’ascolto empatico della psicologa Illario da due anni, il fratellino Sandro corra dalla mamma dicendo: Stella ha provato a infilarmi un dito nel culetto! La bambina verrà interrogata sulle ragioni di tale gesto e dirà che l’ha fatto perché le andava e poi perchè si annoiava cambiando versione più volte finché col linguaggio tipico di una bambina, affermerà: “Ero gelosa di Sandro perché a lui la maestra Agnese non aveva fatto male, avevo una grande tristezza e rabbia dentro, pensavo andassero via toccando il culetto a lui ma invece sono aumentate”. Insomma, nel 2016, dopo due anni dalla denuncia, a ridosso dell’inizio dell’incidente probatorio, le accuse diventano più gravi, la memoria della bambina anziché più flebile si fa più nitida: la bidella Agnese non la accarezzava più. Le infilava le dita nella patatina e nel culetto. Il giudice ascolta la bambina nel marzo del 2017 e l’audizione aggiunge nuovi pezzi all’assurdo puzzle di accuse. Stella dice che Agnese la toccava e la leccava ma che lei non doveva leccare Agnese come invece precedentemente affermato. Non si ricorda più che in bagno c’erano i mostri “nel cartoncino di Agnese”. Poi - e questa è l’assurdità più grossa - aggiunge: “Maestra Carla c’era sempre quando Agnese mi faceva del male. La maestra di religione, proprio quella che insegna a amare Dio, dovrebbe essere licenziata! Sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina!”. Quindi la bambina accusa una maestra di partecipare all’abuso descrivendo porte con oblò che in quella scuola, badate bene, non esistono. Un’accusa gravissima, eppure nessuno indaga su quella maestra o la convoca per appurare se sia la verità. Infine il giudice chiede alla bimba di descrivere Agnese. Stella risponde che ha i capelli gialli e lunghi fino alle spalle. E’ clamorosamente falso. Agnese aveva i capelli cortissimi e bianchi. Non solo. In un’udienza il difensore della Usai, Walter Pani, fa notare come nel 2014, l’anno in cui la bambina denuncia il fatto (e manifesta i disagi elencati dai genitori), il fratellino subisca un’importante operazione a la famiglia debba trasferirsi per un po’ a Roma. Lo stesso anno muore il nonno di Stella. Inoltre Stella è nata prematura e i primi tre anni di vita non ha potuto frequentare il nido e altri bambini. La mamma quando lei ha due anni e mezzo deve subire una lunga ospedalizzazione. Insomma, i genitori sono certi che nel 2014 Stella sia cambiata per una bidella cattiva, anziché per una situazione familiare complessa. Senza una prova, nonostante le tante dichiarazioni false o contraddittorie di una bambina che all’epoca dei fatti aveva 4 anni e viene interrogata due anni e mezzo dopo, senza una visita ginecologica, ma con perizie e consulenze che suggeriscono l’abuso in base a sintomi che nessuno oltre la famiglia e le psicologhe ha mai notato, il pm Gilberto Ganassi non archivia e il 2 maggio 2018 la Usai si vede notificare la chiusura delle indagini. Capisce che si va verso un processo. Efisio, il fratello di Agnese, mi racconta che lui e suo fratello avevano sempre cercato di proteggerla dall’iter giudiziario: “Ci occupavano noi delle questioni legali per tenerla fuori, eravamo sicuri che avrebbero archiviato, ci sembrava tutto così sciatto, campato in aria. Purtroppo quella notifica è arrivata nelle sue mani e lei non ha più sopportato le accuse”. Il 6 maggio del 2018, quattro giorni dopo, Agnese si chiude in un piccolo bagno che dà su un cortile dove c’è la sua casa. Prova a far arrivare il fumo della marmitta di uno scooter tramite un tubo nel bagno ma non ci riesce. Allora usa un braciere, lo accende, lascia che l’aria si consumi e muore. Scrive “Sono innocente” in alcuni biglietti che ha in tasca. La troveranno suo fratello e suo nipote, distesa per terra. Uccisa dal fumo. Quello denso, irrespirabile, del sospetto. “In un biglietto aveva chiesto che ai suoi funerali non ci fosse nessuno a parte la famiglia. Invece era pieno di gente, tutti sapevano che era innocente”, mi dice il fratello Efisio, con un filo di voce.
"STO VIVENDO UN INFERNO". Anticipiamo ampi stralci della storia di copertina del nuovo numero di Panorama, da oggi in edicola. Stefania racconta che gli assistenti sociali di Reggio Emilia sono entrati in casa sua con l’inganno, portando via sua figlia. A cento giorni di distanza, ancora non ha notizie della sua bambina. Articolo di Terry Marocco pubblicato da “la Verità” il 31 luglio 2019. Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest'anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell' Enpa, l'Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano. Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all' esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti.
Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L' avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l' hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere». Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l' hanno portata, se è in una comunità o affidata a un' altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l' inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto. []Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell' educazione. []Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me». «La fede mi fa andare avanti». []Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent' anni. Iniziai a fumare l' eroina. [] Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all' incontro con l' uomo sbagliato. [] Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione».
L' inizio del dramma. Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L'ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all' ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi []». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». []Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni». Spiega l'avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C' è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d' affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato». [] Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l' avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l' assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova [].La settimana scorsa c' è stata l' udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l' intervento di un consulente tecnico d' ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare.
«Ho diritto a essere una mamma [...]».
Bibbiano. "Così mi hanno portato via mia figlia". Marco e Stefania raccontano la storia della loro figlia, portata via da casa 5 mesi fa da Polizia ed assistenti sociali, e di una vita da allora nell'inferno. Terry Marocco il 6 agosto 2019 su Panorama. Alle otto e mezzo del mattino Stefania sente bussare forte alla porta di casa. Una strada tranquilla vicino al centro di Reggio Emilia. Casette a schiera ordinate con un pezzo di giardino sul retro. Vive lì da tempo con la madre, il compagno Marco e la loro bambina di due anni. E i cani, un chihuahua e uno schnauzer nano. Quella mattina, è il 3 aprile di quest’anno, è sola a casa. Si avvicina alla porta. Un uomo e una donna le dicono che sono dell’Enpa, l’Ente nazionale per la protezione degli animali, e sono lì per una segnalazione, i cani abbaiavano. Dopo un furto Marco ha installato le telecamere all’esterno e lei vede che sta arrivando ancora altra gente. Le tolgono la corrente. È spaventata, chiama la madre, che si precipita a casa e riaccende la luce, così le telecamere tornano in funzione. Ma ora ci sono anche dei poliziotti. Entrano in casa. Stefania lascia la bambina nel suo lettino al piano superiore e cerca di capire cosa vogliono. Le chiedono i libretti dei cani. Mentre li cerca in salotto, qualcuno sale velocemente le scale. Non riesce a vederli, si sono messi in modo da coprirle la visuale, ma dopo poco sente la bambina piangere. Quando corre a vedere cosa succede, sua figlia è tra le braccia di uno sconosciuto che la sta portando via, tenendola come un sacco. «Aveva gli occhi sbarrati, gridava mamma. Ho corso per riprenderla con tutte le mie forze. L’avevo quasi raggiunta. Loro sono stati più veloci, l’hanno sbattuta dentro una macchina e sono partiti. Sono rimasta lì a gridare e a piangere». Stefania e Marco, da quando gli assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia hanno portato via la bimba, non hanno più avuto sue notizie. «Dal rapimento sono passati più di cento giorni e io non so come sta, se mangia, riesce a dormire, se ha paura. Dove l’hanno portata, se è in una comunità o affidata a un’altra famiglia. Non abbiamo notizie. Il dolore è immenso. Sto attraversando l’inferno», racconta la mamma seduta al tavolo del salotto. La casa è pulita, arredata con semplicità, le vetrinette con i bicchieri, foto di famiglia e un gigantesco elefante di pezza abbandonato sul divano. Accanto al tavolo c’è il seggiolone con tre bavaglioli e i giochini appoggiati sul piano. «Abbiamo ritirato molti dei suoi peluche, non riuscivamo più a guardarli». Al piano superiore, nella camera dove dormivano tutti e tre, Stefania apre i cassetti dell’armadio blu. Prende in mano i piccoli golfini, lavati e stirati con cura. «L’hanno portata via in pigiama senza neanche vestirla». Accanto c’è la camera della nonna e poi la stanza dei giochi: un gufo, la lavagnetta con i colori e una mini Vespa rosa. «È un regalo di compleanno. Il 29 marzo aveva compiuto due anni. Non l’ha mai usata». Si scende nel salotto che dà su un giardinetto, scivolo, altalene, il girello. Sembrano irreali, come in una foto di Luigi Ghirri, appoggiati sull’erba ad aspettare il ritorno della bambina. «Avevamo fatto una gita lungo il torrente Crostolo, lei trovò un coniglietto e lo teneva qui a casa. È morto la settimana dopo che è stata portata via». Stefania ha 34 anni, è geometra, poi due anni di Scienze dell’educazione. «Ero troppo timida, non ce la facevo a continuare». Marco ha 50 anni, è un istruttore subacqueo, ha sempre lavorato, è un uomo pacato, silenzioso. Era il vicino di casa, stessa villetta, la porta accanto. Un amore nato cinque anni fa. Lei è bella anche con il viso sfatto dalle lacrime, i capelli troppo tinti di biondo e i molti tatuaggi. Sul braccio ha scritto «Gesù è con me». «La fede mi fa andare avanti». Vicino al letto si è costruita un piccolo altare con Santa Rita e Sant’Antonio, candele e disegni di angeli. Sul comodino i Decreti di Saint Germain. «Quando cala la notte mi ritrovo qui da sola. Marco spesso resta al piano di sotto. Io guardo il lettino vuoto, ai piedi del nostro. Il cuscinetto a forma di mucca da cui non si separava mai. Dormiva solo con quello. E penso che ho perso l’amore più grande della mia vita. Ho vissuto solo per crescerla, per stare con lei ogni attimo. Era un rapporto totalizzante, incondizionato. E ora non c’è più. Di giorno mi alzo e combatto, ma nel buio sale una tristezza profonda, il dolore mi attanaglia dentro. Resto sveglia, in silenzio. Medito, prego». Per capire la storia di Stefania bisogna tornare indietro di oltre dieci anni. «Reggio Emilia è una città che rovina i giovani. Quando i miei si separarono avevo vent’anni. Iniziai a fumare l’eroina. Non sapevo neanche bene cosa fosse, quella stagnola scaldata riempiva il vuoto che avevo nel cuore. Mi diede una dipendenza immediata e dopo poco capii che dovevo rivolgermi al Sert e smettere». Per lei invece inizia un calvario fatto di metadone, astinenze, fino all’incontro con l’uomo sbagliato. «Lo conobbi in una clinica a Parma, dove ero andata per disintossicarmi, allora lo chiamai amore, non era così. Ci sposammo appena usciti, rimasi incinta, ma all’inizio della gravidanza lo lasciai». Nasce una bambina, che vive con lei fino a due anni e sette mesi, poi quando è costretta a tornare in comunità per smettere il Subutex (un farmaco per il trattamento delle dipendenze da oppiacei, ndr), interviene la zia. Ha conoscenze tra le assistenti dei Servizi sociali del Polo Est di Reggio Emilia. La nipote, secondo lei, non può prendersi cura della figlia, è una tossica e soffre di disturbi psicologici. E così la bambina viene collocata presso la zia. Stefania ha sempre avuto un pessimo rapporto con la sorella della madre. «Allora ero giovane, senza soldi per un avvocato, ho dovuto soggiacere a questa situazione». Ma capisce che non vuole continuare così. Conosce Marco e con il suo aiuto esce dalla droga. Non tocca più niente e dopo due anni insieme decidono di avere un figlio. Nel 2016 rimane incinta. Durante la gravidanza non riesce a dormire, così va al Pronto soccorso per chiedere aiuto. L’ospedale allerta sia il reparto di psichiatria che gli assistenti sociali. Ed è da qui che ha inizio il suo calvario. Al Polo Est la conoscono e intervengono a gamba tesa chiedendo all’ospedale di chiamarli quando Stefania sarà ricoverata per il parto. «Appena partorito mi fanno i test tossicologici, sia io che la bambina risultiamo negative. Non basta ancora. Mi trattengono e mi obbligano a ricevere a casa le educatrici per tre mesi. Ripensandoci oggi è come se cercassero dei bambini “predestinati” a essere tolti alle madri». Stefania collabora, tutto sembra andare bene. La bambina è bellissima, allegra, sana, solare. «Anche se non lo dicevo a nessuno, sapevo che era iniziato un altro incubo e che, come per la mia prima figlia, avrei avuto gli assistenti sociali addosso». Ma Stefania è cambiata e davanti alla richiesta di andare in comunità con la piccola si rifiuta categoricamente. «Non mi drogavo più da anni, c’è un padre, una casa dignitosa, perché non avrei dovuto crescerla lì? Loro insistono. Una mamma con un bambino collocati in una comunità significano molti soldi pubblici per la struttura che li riceve». Spiega l’avvocato Francesco Miraglia, che con il collega Giulio Amandola si occupa del caso: «È un sistema che vige in tutta Italia, lo denunciai anni fa. C’è un mercato sulla pelle dei bambini. Nel 2010 le cifre erano sconvolgenti: un giro d’affari annuo di un miliardo e 700 milioni. Oggi è ancora aumentato». Stefania parla e piange, sfoglia le foto e i video sul cellulare: «Cerchiamo di rimuovere i ricordi felici. Per tirare avanti». Il 22 ottobre 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio che, come dice l’avvocato Amandola, sarebbe basato su falsità assolute: «La tossicodipendenza della signora, superata da anni, i litigi della coppia, cose che accadono in ogni convivenza. E l’assurdità più grande: dire che vivono in uno scantinato». E con quel decreto la sua bambina le è stata portata via. Stefania lotta come una leonessa, denuncia, produce ogni sorta di prova: «A volte era lei, così piccola, a darmi forza, mi vedeva piangere e veniva a prendermi la mano, me la stringeva come se capisse il mio terrore di perderla. È più matura della sua età. Ora spero solo che sia entrata in un suo mondo irreale, che non si renda conto di cosa le hanno fatto». La settimana scorsa c’è stata l’udienza. Molte sarebbero le discrepanze e così i giudici hanno chiesto l’intervento di un consulente tecnico d’ufficio. Il 20 agosto si tornerà in tribunale. Ancora troppe notti da affrontare. «Resisto al mio dolore. Mi aggrappo ai sogni. Stiamo per traslocare in una casa grande nel verde. Lì vorrei crescere le mie figlie. Ho diritto a essere una mamma. Non ho fatto male a nessuno».
Bibbiano, parla una mamma. C'è ancora la terribile inchiesta sugli affidi a Bibbiano al centro del numero di Panorama in edicola dal 31 luglio, con un'intervista esclusiva e drammatica. Panorama 30 luglio 2019. Panorama ha incontrato una delle mamme a cui è stata sottratta la figlia a Bibbiano; una di quelle storie presenti nell'inchiesta "Angeli & Demoni" che ha portato alla luce un sistema che avrebbe favorito affidi ed adozioni di bambini che sarebbero stati tolti in maniera illegale ai legittimi genitori.
Caso Bibbiano-Affidi. Così mi hanno rubato mia figlia. Stefania è una di quelle mamma a cui i servizi sociali di Reggio Emilia hanno portato via con l’inganno la bimba. Da oltre 100 giorni questa mamma non ha più notizie di sua figlia. E adesso aspetta giustizia.
Affidi Facili. Dopo i fatti di Bibbiano, Panorama ha fatto un giro fra i tantissimi annunci di associazioni che, attraverso Facebook e i social network, cercano famiglia affidatarie per minori in difficoltà. Scoprendo, in una faccenda così delicata e complessa, una superficialità e una leggerezza davvero sconcertanti.
Bibbiano, alla onlus dell'amica di Claudio Foti una pioggia di soldi pubblici. Da Veleno a Bibbiano, a muovere le fila del giro di affari illecito a Reggio Emilia sono sempre gli stessi individui. E la storia di Sara ne è la prova. Costanza Tosi, Venerdì 02/08/2019, su Il Giornale. Sara nasce a Mirandola e - come racconta LaVerità - nel 2011 viene affidata ai servizi sociali dell’Unione Comuni modenesi area nord. Dopo un percorso di due anni sotto il controllo degli psicologi, la bambina, nel 2013, viene affidata ad una comunità. A prendere la decisione, con tanto di firma sull’atto dirigenziale, è Monica Benati, responsabile, al tempo, dei servizi sociali della zona. La signora Benati non è una nuova recluta del sistema degli affidi. Il suo nome infatti comparve già tra quelli dei protagonisti del llibro "Veleno" sui Diavoli della Bassa di Pablo Trincia. Monica Benati lavorava assieme a Valeria Donati, psicologa che manovrava le menti i minori in terapia fino a fargli raccontare di abusi subiti, che poi si rivelarono mai avvenuti. Eppure, la donna, ha continuato a lavorare e a ricoprire il suo ruolo, fino al 2016. A muovere le fila del giro di affari illecito a Reggio Emilia sarebbero sempre gli stessi individui. E la storia della piccola Sara ne è la prova. La comunità in cui Sara viene accolta si chiama Madamadorè e a gestirla vi è una signora di nome Romina Sani Brenelli assieme a suo marito. Ma chi sono i due responsabili? Romina Sani è una stretta conoscente di Claudio Foti. La signora sarebbe stata allieva del suo master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive”. Come lei stessa scrive sul quotidiano online diretto da Foti. Ma c’è di più. Il nome della Sani compare anche tra quelli dei dirigenti dell’Associazione “Rompere il silenzio. La voce dei bambini”, proprio accanto a quelli di Claudio Foti e Nadia Bolognini entrambe indagati nell' inchiesta “Angeli e Demoni”. E così, sebbene nello scandalo emerso con l’inchiesta dei Diavoli della Bassa i servizi sociali di Modena avessero già collaborato con la Onlus dello psichiatra Claudio Foti, a distanza di anni i rapporti continuano ad essere presenti. Tanto che decidono di affidare una bambina ad una comunità gestita da un’allieva dello stesso Foti. Ma i legami con i “diavoli” di Veleno non finiscono qui. Perché l'Unione dei Comuni modenesi area nord, a partire dal 2008, entra persino a far parte del Cismai (sempre coinvolto nel caso dei Diavoli della Bassa modenese), e rimane tra i soci fino al 2018. Ad ogni modo per Sara, a settembre del 2016, arriva un altro provvedimento. Stando al racconto de LaVerità, la responsabile del centro Romina Sani invia una lettera ai servizi sociali. Nella missiva asserisce che la piccola debba essere seguita “costantemente da un centro specializzato” a seguito di una forte crisi. E poi aggiunge: “Come già proposto e discusso col servizio sociale, ci rendiamo disponibili a compartecipare nella realizzazione di un progetto di psicoterapia, in collaborazione con il Centro Hansel e Gretel di Torino, col quale da anni collaboriamo”. Dunque, nessuno scandalo negli anni prima era riuscito a bloccare la forte collaborazione tra gli enti e, di fatto, Sara viene mandata a Bibbiano, al centro «La Cura» gestito da Hansel e Gretel, e finito tra le pagine dell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia perché definito il palcoscenico dei lavaggi del cervello ai bambini strappati dalle famiglie. Ma come poteva non essere così? L’Unione dei Comuni modenesi del progetto “La Cura”era persino partner al convegno “Rinascere dal trauma”, del 2018. A parlare c’erano Nadia Bolognini, Claudio Foti, l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (tutti finiti nel registro degli indagati), il presidente del Cismai Gloria Soavi e, di nuovo, Romina Sani, dirigente della comunità alla quale era stata affidata Sara. Da quel giorno per la piccola inizia l’inferno. La bimba, dopo una serie di incontri con la psicologa Nadia Bolognini, a distanza di sei anni dall’affido ai servizi sociali, inizia a raccontare di atrocità che mai aveva svelato. “Abusi sessuali seriali da parte dei genitori” di cui lei e i suoi fratelli sarebbero stati vittime. Ma cosa era successo in quei colloqui? Sara viene trattata con le stimolazioni del metodo Emdr e, secondo la Procura di Reggio Emilia, la terapia potrebbe aver creato, nella mente della bambina, falsi ricordi. Tutto d’un tratto la piccola è assalita da forti crisi e i racconti che fuoriescono, uno dietro l’altro, sono storie dell’orrore con particolari agghiaccianti. Così, tutto d’un tratto. Tutto, dopo il trasferimento a Bibbiano. Quando, psicologi e psichiatri della Ausl che avevano seguito la bambina dal 2011 al 2018 non avevano mai accennato a violenze sessuali. Una storia che da lontano arriva fino ai giorni nostri e condanna Sara, ormai ragazza, a una vita a fianco di coloro che, per anni, hanno manipolato le menti dei più piccoli e lucrato sulle famiglie fragili. Il 3 luglio 2019, nonostante fosse da tempo scoppiato lo scandalo di Bibbiano, all'ombra delle protestaste dei genitori in piazza e tra il clamore dei media, i servizi sociali modenesi affidano, per l’ennesima volta, Sara alla comunità Madamadorè. Affidamento per il quale l’associazione ha incassato 269.354 euro dall'Unione dei Comuni modenesi.
Riceviamo e pubblichiamo: Il Consiglio direttivo del Cismai, Coordinamento italiano Servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia, riservandosi di difendere nelle sedi opportune la propria onorabilità, ribadisce la completa estraneità ai fatti riportati e precisa ancora una volta di non aver alcun procedimento in corso e tantomeno di essere mai stato oggetto di indagini della magistratura. Il consiglio direttivo del CISMAI.
Vuoi un bambino in affido? Vai su facebook. Sono tantissimi gli annunci di associazioni che cercano famiglia per i loro bambini attraverso i social con una superficialità preoccupante. Maurizio Tortorella il 9 agosto 2019 su Panorama. Gli annunci occhieggiano dalle pagine di Facebook. All’inizio commuovono. Poi sconcertano, lasciano esterrefatti. Alla fine indignano. «Dario, che ha cinque anni, cerca una famiglia affidataria che lo accolga…». «Cerchiamo una famiglia che accolga nella propria casa Gioele, un ragazzino di 12 anni e mezzo, desideroso di imparare e fare esperienze nuove…». «Francesca e Michael vivono da due anni in comunità (…) cercasi famiglia nell’area metropolitana di Milano, o comuni limitrofi, disponibile ad accoglierli….». Nei giorni dello scandalo di Bibbiano, il comune emiliano dove la magistratura sospetta un osceno mercato di bambini strappati illecitamente alle loro famiglie, si deve proprio leggerli due, tre, quattro volte questi messaggi in bottiglia lanciati nel mare di Internet, per convincersi che sono veri. Ma è così. E su Facebook sono tanti, più di quanti sia possibile immaginare. A pubblicarli, con insistenza, assiduità e frequenza, sono associazioni del volontariato e organizzazioni contro l’abbandono minorile. Tutte hanno qualche collegamento con i servizi sociali e gli stessi Tribunali dei minori che gestiscono la delicata materia dell’affido familiare. Perché altrimenti non si capirebbe come possano essere in possesso di casi dettagliati, con nomi, età e caratteristiche dei bambini da collocare. Il contatto con le istituzioni è certificato, a volte, dal fatto che gli annunci terminano con l’invito a rivolgersi alle cancellerie dei tribunali. Non è certo un male che ci siano associazioni che fanno di tutto per trovare una famiglia ai bambini sottratti dai servizi sociali ai loro nuclei familiari. Anzi, è uno sforzo meritorio. L’affido familiare, infatti, è preferibile al trasferimento del minore in una struttura d’accoglienza: si suppone che il calore di una famiglia, per quanto temporanea, sia da preferire a un’esperienza generalmente più fredda e traumatica come l’inserimento in una comunità. Lo stesso Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano che il 27 giugno è finito agli arresti domiciliari perché accusato di abuso d’ufficio e di falso ideologico nell’inchiesta «Angeli e Demoni», tre anni fa vantava il fatto che il suo comune puntasse proprio sugli affidi: «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità, che pure sono fondamentali ma dove per seguire un bambino servono 50 mila euro l’anno. Gli affidi costano molto meno». È vero: un bimbo piazzato in casa famiglia costa agli enti locali da 70 a 400 euro al giorno, mentre le famiglie affidatarie ottengono rimborsi da 400 a 700 euro mensili per minore. Le associazioni, quindi, svolgono un compito utile anche per prevenire il business improprio delle case famiglia. Quello che sconcerta, però, è il metodo, e soprattutto il mezzo. È possibile che i 29 Tribunali minorili e i servizi sociali degli 8 mila comuni italiani si debbano ridurre a usare Facebook, per trovare qualcuno cui affidare i bimbi sottratti alle famiglie d’origine, piccoli che si presume siano stati maltrattati o in difficoltà, o giovanissimi immigrati senza padre né madre? La magistratura minorile, soprattutto, non ha un bacino di soggetti a disposizione, già verificati e controllati, cui rivolgersi? Non ci sono albi, elenchi? E come vengono valutati i soggetti che si propongono per un affido familiare? Dato che alcuni annunci su Facebook parlano di un «affido urgente», il sospetto è che in certi casi le pratiche siano accelerate. In quei casi i controlli sono forse semplificati? È così? Se è così, è un sistema sgangherato, che non può che fare danni e creare abusi. Cristina Franceschini, l’avvocato veronese che cinque anni fa ha fondato la onlus «Finalmente liberi» contro l’eccessiva facilità degli allontanamenti dei minori dalle rispettive famiglie, è giustamente scandalizzata: «Facebook è un sistema improprio, sbagliato. Ho scoperto forum dove c’è chi si propone come affidatario “per qualche settimana”; dove coppie senza figli cercano bambini “per farci compagnia”. L’affido familiare non è questo: è una cosa seria, difficile, impegnativa. Bisogna sacrificarsi per bambini traumatizzati, con problemi gravi». Quel che turba, in effetti, è proprio la superficialità del mezzo. Certi annunci per l’affido ricordano quelli utilizzati per trovare una casa a randagi e cucciolate. Avete presente, no? «Mi sono appena nati otto gattini, carini e tutti sani come pesci. Chi li vuole?». E infatti anche le bacheche sugli affidi animali sono su Facebook, soltanto un po’ più in là. La logica è parallela, il paradigma è simile, si sovrappone. È un confronto che fa male al cuore, ma viene spontaneo. E non va scordato che Facebook è il bosco informatico infestato da lupi cattivi, pedofili e maniaci. Non si può usare un social network con tanta superficialità. Eppure le schede dei bambini sono lì, a centinaia. E commuovono, e sconcertano. «Help, mi volete in affido?» grida Miriam, cinque anni, sulla pagina Facebook del gruppo Cerco famiglia, dove viene descritta così: «Benvoluta sia dalle insegnanti che dagli altri bambini grazie al suo atteggiamento timido e dolce». Sulla pagina Facebook di Cicogne, cavoli e telefoni, una comunità che si propone di «fare conoscere l’affido familiare in modo semplice, parlando di vissuti, di emozioni e di momenti di vita vera», gli annunci sono tanti. «Francesca e Michael vivono da due anni in comunità con la madre», si legge in un post. In poche righe sono elencate le caratteristiche dei due bimbi, poi arriva l’appello: «Cercasi una famiglia nell’area metropolitana di Milano, o comuni limitrofi, disponibile ad accoglierli offrendo loro affetto, stabilità e serenità (…). Per saperne di più, contatta…». Seguono telefoni ed email del Servizio affido familiare di Azienda comuni insieme, il consorzio di alcuni municipi lombardi. A leggere, qua e là, viene da pensare a che cosa debba passare per la mente di un padre o di una madre che riconoscono un post che parla del proprio figlio. O che riconosca sé stesso nella descrizione di «genitore fragile» o «inadeguato». Un altro appello, del 15 luglio: «Dario è un bambino dolce e in cerca di riferimenti affettivi costanti e calorosi (…). Per Dario stiamo cercando una famiglia con figli che lo accolga a tempo pieno, accompagnandolo e stimolandolo nel suo percorso di crescita». Seguono numeri ed email del Servizio per l’affido familiare del Legnanese. L’uso di Facebook, va detto, non è nuovo. Sul Forum dell’Aibi, l’Associazione amici dei bambini, ci sono annunci antichi. Questo è del 2012: «Il Tribunale dei minori di Milano cerca una coppia che possa accogliere Anna, una tredicenne originaria dell’Europa dell’Est, in Italia da tre anni e orfana di entrambi i genitori (…). Anna desidera fortemente una famiglia che l’accolga, che la ami e che la sappia aiutare a superare il dolore della perdita dei suoi familiari. Chi fosse interessato è pregato di inviare un fax alla Cancelleria adozioni del Tdm di Milano, all’attenzione della dott.ssa…». «C’è un altro problema» suggerisce l’avvocato Franceschini: «Analizzando i forum, spesso si avverte l’idea o il suggerimento che l’affido possa essere la via “veloce” per arrivare a un’adozione strisciante, senza i giusti controlli delle adozioni vere. La stessa Commissione parlamentare per l’infanzia due anni fa disse che troppi affidi erano senza fine». Così si creano sistemi malati, conclude l’avvocato, con bambini che potrebbero e dovrebbero tornare a casa loro, invece finiscono per sempre altrove. È un’anomalia grave. Un altro scandalo italiano.
L'incubo di una madre: "E se ci fosse un metodo Bibbiano?" La madre chiede aiuto agli assistenti sociali, dopo che il padre ha abbandonato in strada sua figlia, ma la bambina viene affidata ai servizi sociali e poi spedita in una casa famiglia. Costanza Tosi, Domenica 11/08/2019 su Il Giornale. “Volevo salvare mia figlia e invece me l’hanno portata via”. Sara è ancora incredula quando, al telefono, ci racconta di cosa le è successo da quando decise di chiedere aiuto ai servizi sociali, dopo che sua figlia era stata abbandonata in strada dal padre. “Io cercavo aiuto e invece sono finita in una trappola infernale”. La storia di Sara inizia circa nove anni fa. Quando lei, madre di Giulia (nome di fantasia ndr), decide di divorziare da suo marito, con il quale viveva a Roma. Inizialmente, tutto procede bene e i due genitori riescono a gestire la bambina con serenità, mantenendo dei buoni rapporti. “Il mio ex marito mi chiamava spesso anche per chiedermi dei consigli, eravamo veramente diventati amici e confidenti”, racconta Sara. Fino a quando il padre conosce un’altra donna, che diventa la sua compagna. “Da quel giorno ha iniziato a non curarsi più della bambina, non la vedeva quasi mai, l’ha completamente abbandonata”. Tanto che, una sera, il papà arriva persino ad abbandonare in strada la piccola di appena appena 8 anni. “Io lo scoprii solo il giorno seguente, quando andai a prendere mi figlia a scuola e lei, in lacrime, iniziò a raccontarmi cosa le era successo”, racconta la mamma. Sara è preoccupata e vedere sua figlia stare male la spinge a chiedere aiuto. “Decisi di andare dai carabinieri e quando spiegai cosa era successo mi dissero che dovevo denunciare tutto ai servizi sociali.” Da quel giorno per Sara inizia la battaglia. Una lotta estenuante, fatta di pianti e sofferenze, di avvocati e tribunali per riuscire a rivedere sua figlia. I servizi sociali si presentano un paio di volte a casa del padre e, dopo dei brevissimi incontri, richiedono un provvedimento d’urgenza. La bambina viene affidata a loro. Immediatamente. Una decisione basata su motivazioni risultate poi false. Secondo la relazione della CTU (consulenza tecnica d’ufficio): “Il padre non è persona all’altezza del compito di prendere in carico da solo la figlia”. Mentre per la madre nel decreto si evidenzia “una sospetta Sindrome di Munchhausen per procura”. Secondo i servizi sociali la mamma soffriva di una sindrome che la spingeva a fingere di stare male per attirare l’attenzione su di sé. Sospetto che viene subito smentito, quando Sara decide di sottoporsi a tutte le analisi del caso per eliminare i sospetti. “Io sono affetta da Fibromialgia. Ho dolori in tutto il corpo e ho fatto la CTU sotto morfina. Ma gli assistenti sociali lo sapevano…”, racconta Sara. Dopo gli accertamenti Giulia viene trasferita dalla madre che, nonostante avesse dato prova di non soffrire di nessuna patologia psicologica, non ottiene l’affido della sua bambina, ancora a carico dei servizi sociali di Roma. Intanto la piccola vive con la mamma e le due vanno d’amore e d’accordo. Poi, la madre decide di cercare di riavvicinare Giulia anche al suo papà. “La forzo a riallacciare rapporti con il padre dal momento che lui chiude la sua relazione, anche indotto dalla CTU, che gli fa capire che avevano individuato in questa donna, un deterrente per vedere la figlia", spiega mamma Sara. Loro cominciano a rivedersi. La bambina adesso ha 12 anni. Passano un po’ di mesi e inizia ad avere atteggiamenti aggressivi con la mamma. “Io inizialmente cercavo di comprenderla, nella mia testa era tutto normale. Davo la colpa all’adolescenza”, racconta Sara. Fino a quando la situazione non inizia a peggiorare. Giulia smette di prendersi cura di se stessa. Non si lava più, non esce, non vuole neanche andare a scuola e inizia a rinchiudersi per ore nella sua stanza, dove arriva persino a tagliarsi e farsi del male da sola. “Un giorno vidi che aveva dei tagli sui polsi - racconta mamma Sara - ero distrutta dal dolore”. La madre segnala la situazione agli assistenti sociali, facendo presente le problematiche. Ma da loro nessuna risposta. Né, tantomeno, un accenno di collaborazione tanto che la psicologa che segue Giulia arriverà persino chiedere di cessare la sedute “vista la scarsa interazione e collaborazione da parte dei servizi in questa situazione”. La situazione sembra essere irrecuperabile e la madre non sa più a chi chiedere aiuto. “Non sapevo che altro fare. Avevo mandato continue segnalazioni ai servizi sociali, ma nessuno riusciva a fare niente. Mai una risposta. Il padre non collaborava e da quando la bambina aveva riiniziato a vederlo, con me non c’era più dialogo.” Fino a quando, un giorno, Giulia cade nell’ennesima crisi, dove dice di non voler più vedere né la madre né il padre. Ma quando si rende conto che la cosa non è possibile, decide di andare a vivere con il papà. Perché, come ammetterà lui stesso agli psicologi, a casa non c’è mai. “Non ci sono mai; non posso occuparmene; non credo alle regole; sono un mollaccione e Giulia sa che da me può ottenere tutto quello che vuole”, aveva dichiarato il papà alla psicologa, come si legge nell'esposto di Sara contro i servizi sociali. Dopo la decisione di Giulia, il padre va a prenderla a casa e da lì, per un anno, non la farà più vedere alla madre, negandole persino gran parte delle telefonate con continue scuse. “Mi diceva che mia figlia non voleva parlare con me al telefono, oppure che l’aveva chiamata ma era impegnata. In realtà una sera sentii dall’altra parte della cornetta mi figlia gridare contro il padre: “sei tu che non vuoi che io le parli”. Lui voleva che lei rompesse tutti i rapporti con me,” ci spiega la madre.
Sara vuole vedere sua figlia e continua a denunciare tutto ai servizi sociali. Ancora una volta, nessuno prende provvedimenti, nonostante l’autolesionismo della 13enne si ripresenti più volte e Giulia rischi di essere bocciata per le assenze a scuola. Ma, dal padre, nessuno va a verificare la situazione. Sara, non si arrende. “Decisi di fare un nuovo esposto al giudice che convocò gli assistenti sociali per comunicare che sarebbero dovuti intervenire.” Ma questo non succederà. Dunque, giudice ed Assistenti Sociali vengono informati del cambio di collocazione, eppure violano lo stesso precedente decreto che ordinava la madre come collocataria e il padre come persona non “all’altezza del compito di prendere in carico la figlia da solo”. Fino a quando Giulia, ormai 14enne, viene portata in una casa famiglia. I servizi sociali intervengono per il collocamento presso una struttura dichiarando che la richiesta è partita proprio dalla minore. Ma Sara fa fatica crederci: “Mia figlia non sapeva neanche che cosa fosse una casa famiglia…”. Sara non vede sua figlia da ottobre. “L’ho sentita solo due volte per SMS. Tecnicamente io potrei vederla, anche da decreto sono previsti incontri che gli assistenti sociali dovrebbero organizzare. A livello pratico, servizi sociali e casa famiglia, dicono che è mia figlia che non vuole vedermi. Ma nessuno mi ha mai detto il perchè, nè mi ha fornito maggiori spiegazioni”. Eppure gli ultimi incontri tra Giulia e la madre, quando ancora viveva dal padre, erano andati bene. “Era contenta, affettuosa, andava tutto bene inizialmente- racconta la mamma - secondo la psicoterapeuta pare che ci sia un delirio ossessivo poiché mia figlia sosteneva di vedermi ovunque: sotto scuola, casa famiglia.... Ogni giorno. Ma io non c'ero. Idem con i messaggi: a fronte di uno che ne spedivo lei ne vedeva dieci. Io non so cosa le sia stato fatto.” Ogni giorno che passa, per Sara, è un giorno in più lontano da sua figlia. La madre è preoccupata e ha paura che qualcuno voglia far adottare la sua bambina ormai adolescente, invece di cercare di a farla tornare da lei. A maggio di quest’anno è stato redatto un documento che modifica, completamente, le modalità di affidamento nel Lazio, permettendo sia l’affidamento che l’adottabilità di ragazzi anche maggiorenni. Un documento che è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra Cismai e Movimento delle Famiglie Affidatarie, lo stesso movimento affidatario che fa capo e ha sede legale nella casa famiglia in cui vive Giulia e che ha, tra le sue partnership, il municipio degli assistenti sociali che si sono occupati del suo caso. Ma non basta. Tre membri dell’associazione delle famiglie affidatarie hanno partecipato ad aventi e convegni sulla tutela dei minori, presieduti dal Cismai e da Claudio Foti, psicoterapeuta a capo della Onlus Hansel e Gretel ora agli arresti domiciliari per l’inchiesta “Angeli e Demoni” sullo scandalo degli affidi. Sara ripete ancora che continuerà a lottare ma, prima di finire la nostra telefonata, non riesce a trattenere quella è che è la sua paura più grande: “E se anche qui ci fosse un “metodo Bibbiano”? ”.
Bibbiano, violenza di Stato su quelle famiglie. Ecco perché Panorama ha deciso di dedicare la copertina ed una grande inchiesta allo scandalo degli affidi. Maurizio Belpietro il 5 agosto 2019 su Panorama. Era il 27 giugno quando, su mandato della Procura di Reggio Emilia, i carabinieri hanno bussato alla porta del sindaco di Bibbiano e a quelle di alcuni assistenti sociali della Val d’Enza, notificando un mandato di custodia cautelare. In principio sembrava la solita storia di abusi d’ufficio, con annessa qualche ruberia. Roba ordinaria insomma, a cui neppure le amministrazioni della placida Emilia potevano sottrarsi. Invece, più ci si addentrava nelle motivazioni che avevano indotto i magistrati a intervenire e ad arrestare amministratori e operatori sociali e più si capiva che questa faccenda era diversa da tutte le altre. Niente tangenti, niente opere pubbliche realizzate con cemento scadente, niente clientelismo in cambio di voti. E allora a Panorama ci siamo chiesti: ma che cos’è questa storia che ha per protagonisti bambini e assistenti sociali? E sin dall’inizio, in redazione, ci siamo resi conto di essere davanti a qualche cosa di orribile: figli sottratti con l’inganno ai legittimi genitori, disegni falsificati per sostenere abusi mai esistiti, relazioni aggravate da fatti inventati, pressioni sui minori affinché dichiarassero ciò che non era accaduto, blitz militari per rapire i bambini. In pratica, l’orrore perpetrato da funzionari dello Stato contro degli innocenti. Già questo era sufficiente per indurci ad approfondire, dedicando all’inchiesta una copertina del vostro settimanale. Così, mentre la maggior parte dei giornali abbandonava al suo destino di cronaca nera l’inchiesta, abbiamo cominciato a scavare, scoprendo che lo scandalo di Bibbiano era la punta dell’iceberg, perché quei dieci bambini sottratti senza motivo ai genitori potevano essere molti di più. A Bologna, dove ha sede il Tribunale dei minori che ha competenza su Reggio Emilia, i magistrati sono al lavoro per riesaminare 70 casi, tutti di figli allontanati con strani pretesti. Alcuni bambini sono già stati restituiti ai propri genitori, altri probabilmente lo saranno. Nel frattempo, però, si è scoperto che il guru di quella scuola di psicoterapia che ha formato molti degli educatori coinvolti nello scandalo di Bibbiano, non soltanto è indagato dai pm di Reggio Emilia, ma è anche stato iscritto nel registro della Procura per maltrattamenti su moglie e figli. C’è di più. Il suo nome, in qualche modo, ricorre in moltissime inchieste di abusi sui minori che nell’arco degli ultimi vent’anni hanno fatto discutere e diviso l’Italia. Da Mirandola a Rignano, da Biella a Milano fino a Salerno: arresti, accuse, famiglie distrutte. Ma quasi sempre, dopo, è arrivata l’assoluzione dei tribunali. Dietro questo orrore però ci sono mamme e papà che si sono visti portare via i figli senza sapere perché. E ci sono anche bambini prelevati all’insaputa dei nonni o dei genitori, spesso con escamotage e con inaudita durezza. Un video, che pubblichiamo sul sito di Panorama, mostra un’operazione di polizia: 11 persone per distrarre una mamma e portarsi via una bambina di due anni. Alle famiglie private senza ragione di quei minorenni non era consentito neppure un contatto mensile, né era possibile recapitareun regalo o una lettera. Una violenza di Stato, per di più abusiva, di cui in questo numero vi diamo conto. Una delle mamme alla quale è stata sequestrata la figlia non solo ha deciso di raccontare ciò che le è accaduto, ma ha deciso di metterci la faccia per denunciare l’abuso. Stefania è una donna fragile, che nella vita ha anche commesso errori, ma quella bambina l’ha fatta diventare forte e l’ha indotta a rinunciare alla droga. Tuttavia, essersi disintossicata, aver messo su una famiglia normale, tenere in ordine la casa e la cameretta della figlia non è bastato, perché un giorno, come ha raccontato alla nostra Terry Marocco, alcuni operatori presentatisi come funzionari dell’Enpa, l’ente per la protezione degli animali, con una bugia si sono introdotti nel suo appartamento e le hanno portato via la bimba.
Un sequestro. Anzi, un agguato. La storia di Stefania - che ancora attende chela figlia le venga restituita - fa piangere. Ma il suo è solo uno dei tanti casi. Il giorno in cui avremo composto le molte drammatiche testimonianze di mamme e papà a cui è stato ingiustamente tolto un figlio, avremo il quadro di uno scandalo che forse da decenni sta avvelenando la vita di decine di famiglie. Uno scandalo che, per quanto ci riguarda, di sicuro non dimenticheremo.
Caso Bibbiano, la testimonianza shock di Stefania: "Così mi hanno portato via la mia bambina". “Io non so neanche dove sia. Non so se sta bene. Non so se piange, se mi cerca. Sono disperata". Costanza Tosi, Domenica 04/08/2019 su Il Giornale. “Hanno rapito mia figlia”. Inizia così la conversazione con Stefania che, al telefono con la voce rotta dal dolore, ci racconta di come i servizi sociali di Reggio Emilia le hanno strappato via la sua bambina di appena due anni. ”Una mattina - dice - mentre ero sola in casa, sento dei rumori venire dal giardino. Dopo poco qualcuno inizia a bussare forte alla porta”. Era il 3 aprile. Stefania va a controllare chi è. Sono un uomo e una donna. Si presentano e le dicono di essere dell’Enpa, l’Ente Nazionale Protezione Animali, e affermano di essere intervenuti dopo una segnalazione del vicino di casa: “I cani abbaiano troppo”. Ma Stefania non si fida. Come erano arrivati in giardino i due? E perché volevano entrare con la forza in casa sua alle 10 del mattino? “Ero perplessa - continua - e ho chiesto spiegazioni, ma loro mi continuavano a dire che dovevo aprire”. Marco, il compagno di Stefania, aveva installato alcune telecamera nel giardino dopo aver subito un furto. È proprio dalle immagini di quei monitor che la madre comincia a sospettare che ci sia qualcosa di strano, quando si accorge che stanno arrivando anche altre persone. Poi il buio. “Tutto d’un tratto mi accorgo che le telecamere si erano spente - spiega in lacrime Stefania - mi avevano staccato la corrente. Ero terrorizzata.” Stefania decide di chiamare sua madre, che subito raggiunge la figlia a casa e riattiva immediatamente la luce. Da quel momento le telecamere riprendono a registrare. Nel frattempo, però, erano arrivati anche i poliziotti: “Era surreale, non capivo cosa stesse succedendo”. Così Stefania si ritrova cinque persone dentro casa. “Mi chiedono i libretti dei miei cani. E io inizio a cercare per darglieli", spiega la mamma. Ma mentre Stefania cerca di soddisfare le richieste della polizia qualcuno inizia a salire le scale della sua casa. Al piano di sopra dormiva la bambina. Passano pochi minuti e Stefania sente piangere la piccola. Un pianto di terrore. La mamma si precipita a vedere cosa è successo: “Mia figlia era tra le braccia di un uomo che la teneva come un pacco. A testa in giù. E intanto correva per le scale.” La mamma allora inizia a rincorrere l’uomo e cerca di strappargli via la piccola. “Ho iniziato a correre più forte che potevo. Nessuno può capire cosa scatti nella mente di una madre in una situazione simile. Non capivo più niente - continua la mamma -. L’avevo quasi raggiunta, ma loro sono stati più veloci. L’hanno caricata sulla macchina e se ne sono andati”. L’auto dei servizi sociali si allontana dalla casa mentre Stefania, in lacrime, guarda sua figlia sparire tra i palazzi. Da quel giorno i due genitori non hanno più visto la loro bambina. “Io non so neanche dove sia - grida al telefono la madre -. Non so se sta bene. Non so se piange, se mi cerca. Sono disperata. Tutto questo mi sta uccidendo.”
Ma facciamo un passo indietro. Tutto inizia molti anni fa, quando Stefania all’età di vent’anni cade nel tunnel della droga. “I miei - ci confessa - si erano da poco separati. Stavo vivendo una situazione difficile. Ho iniziato a fumare eroina. In realtà non sapevo neanche cosa stessi facendo.” Ma la donna capisce subito che quella strada le avrebbe rovinato la vita, e così inizia a curarsi: “Dopo poco decisi di smettere e mi rivolsi al Sert”. Ed è proprio lì, tra medicinali e crisi di astinenza, che la donna conosce un uomo. I due si incontrano a Parma, nella clinica in cui lei si stava disintossicando. Usciti dalla struttura i due si sposano e, dal matrimonio, nasce una bambina. Dopo due anni e mezzo la mamma decide di tornare in una clinica. Questa volta per liberarsi dalla dipendenza di Subutex, un farmaco molto invasivo che le avevano dato per curare la dipendenza dagli oppiacei. “Mentre ero in clinica - aggiunge - la bambina stava con mia madre, che per starle dietro aveva chiesto aiuto a mia zia.” Ed è da lì che iniziano i problemi. La zia sostiene che la nipote non sia in grado di gestire la figlia. E, tramite alcune conoscenze, decide di far intervenire gli assistenti sociali. Con un provvedimento d’urgenza la bambina viene affidata ai servizi sociali e collocata presso la zia. Ma, al tempo, Stefania, lontana da casa, decide di subire questa situazione: “Ero troppo giovane e non avevo le risorse economiche per difendermi nelle sedi opportune. Ho sbagliato, ho lasciato correre.” Per lei da quel giorno inizia un’altra vita. Conosce Marco e, dopo poco, esce definitivamente dalla droga. Nel 2016 Stefania rimane incinta della sua seconda figlia. Una gravidanza felice, questa volta, accanto all’uomo che l’ha aiutata ad uscire da ogni tipo di dipendenza. Una mattina la madre, che da giorni non riusciva a dormire, decide di andare al pronto soccorso. E lì, per la mamma, inizia l’inferno. La struttura ospedaliera avverte il reparto di psichiatria e si rivolge agli assistenti sociali. Gli stessi che già avevano agito contro di lei dopo le segnalazioni della zia con la prima figlia e che, questa volta, chiedono esplicitamente di essere richiamati quando la madre verrà ricoverata per il parto. E così è stato. “Dopo il parto mi hanno chiesto di sottopormi alle analisi tossicologiche. Io non capivo perché. Erano già tre anni che ero pulita. Non c’era nessun motivo per controllarmi ancora", racconta. Ma Stefania decide di collaborare, ha paura che il gioco-forza non giovi alla situazione. Le analisi sono negative, sia per lei che per la bambina: “Ero contenta, pensavo che a quel punto mi lasciassero stare. Credevo che finalmente mi sarei goduta la mia bambina”. Racconta la mamma. Ma non fu così. Le analisi non bastarono. I servizi sociali obbligarono la madre ai controlli domiciliari: “Le assistenti venivano da me ogni giorno. Mattina e pomeriggio.” Nonostante le continue pressioni, le visite giornaliere e il dispiacere di essere considerata una madre inaffidabile dopo tutti gli sforzi e gli obiettivi raggiunti per rimettere in piedi la sua vita, la mamma non si oppone e fa tutto quello che le viene chiesto. Fino a quando non le annunciano che dovrebbe andare in una casa famiglia insieme a sua figlia: “Mi rifiutai. Non potevo accettare una cosa del genere. Non c’erano motivazioni valide per allontanarci da casa. Sono anni che sto bene. Vivevamo felici, tutta la famiglia insieme, nella nostra casa. Mi stavano togliendo tutto, senza spiegarmi perchè. Dovevo lottare per la mia felicità.” Una battaglia estenuante. A ottobre del 2018 il Tribunale dei minori di Bologna emette un decreto provvisorio. Le motivazioni, a suo dire, sono false: “Dichiaravano che vivevo in uno scantinato, cosa assolutamente non vera. Ribadivano la mia tossico dipendenza, ormai superata da anni.” Con quel decreto la piccola sarebbe stata strappata dalle braccia dei suoi genitori. Non ci sta ad essere stata raggirata. E Stefania, oggi, rivuole sua figlia.
Bibbiano, gli tolsero il figlio ma non ci furono abusi. Il gip archivia il caso della coppia accusata di abusi sessuali nei confronti del figlio. Costanza Tosi, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Corruzione di minorenne e abuso sessuale. I genitori di Paolo (nome di fantasia), furono accusati di questi due reati nell’ormai lontano 2015. Reati che, oggi si scopre, non hanno mai commesso. Ma che sono costati alla famiglia l’allontanamento del proprio bambino e un calvario durato anni. Era il 30 aprile di quattro anni fa quando, dopo una segnalazione dei servizi sociali, il Tribunale dei Minori di Bologna decise che il bambino doveva essere allontanato dai suoi genitori. Il piccolo viene affidato e preso in carico dai servizi sociali, poi, nell’inverno del 2016, collocato in una nuova famiglia. Passano circa altri due anni. I genitori non stanno più con il piccolo Paolo, le accuse nei loro confronti li constringono a vivere nella speranza che, un giorno, venga fatta giustizia. Una giustizia che, per il momento, rimane soltanto la loro verità. La indagini proseguono, ma la parola fine è ancora lontana. Loro non la vedono. Riabbracciare il proprio bambino diventa una speranza sempre più inverosimile. Fino a quando, l’ 8 marzo del 2018, il pm Stefania Pigozzi scova, nelle carte processuali, alcune stranezze, al punto da chiedere che venga archiviato il procedimento a carico dei due genitori. Da quel giorno passerà ancora un anno e mezzo prima che succeda qualcosa. Per fare chiarezza sul caso, vengono chiamati a relazionare l' assistente sociale Francesco Monopoli e la sua responsabile, Federica Anghinolfi, entrambe ora indagati nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti della Val d’Enza. I due scrivono in un documento presentato il 14 maggio del 2018 di aver scoperto, durante i colloqui con Paolo, di abusi sessuali che il piccolo avrebbe subito da parte del padre, come riporta Il Resto del Carlino. Ora la situazione prende un’altra piega. Forse le cose stanno iniziando ad andare nel verso giusto. Gli assistenti sociali che seguivano Paolo vengono accusati di falsità ideologica, violenza privata, falsa perizia e frode processuale. Secondo quanto riportato nell’ordinanza della Procura di Reggio Emilia, Nadia Bolognini, psicoterapeuta di Paolo e ex moglie di Claudio Foti, finita agli arresti domicialiri per i fatti di “Angeli e Demoni”, durante un’incontro con il piccolo si travestì persino da lupo cattivo. Un “circo” che sarebbe servito a plagiare la mente del minore attraverso l’associazione della figura spaventosa con il padre del bimbo. Secondo la magistratura, Monopoli avrebbe persino cercato di facilitare l’affido del piccolo presentando relazioni distorte rispetto alla verità dei fatti a un giudice onorario. Dove avrebbe omesso il fatto che ci fosse stata una richiesta di archiviazione del procedimento a carico del papà di Paolo. A giochi fatti, parlando con un altro giudice, Monopoli avrebbe anche confermato la buona riuscita dell’intervento sulla famiglia. Dichiarando che l’allontanamento dai propri genitori naturali era stato un tocca sana per il bimbo. Ora, il gip Luca Ramponi ha disposto l’archiviazione della vicenda. Una decisione che fa intravedere la luce in fondo al tunnel in cui, per tutti questi anni, sono stati costretti a vivere i genitori di Paolo. Vittime di un sistema perverso che li ha intrappolati con finte relazioni a false accuse. La strada per riabbracciare il proprio figlio sembra, da oggi, essere più in discesa. Paolo forse potrà tornare a casa, il tribunale ha già predisposto una consulenza tecnica per valutarlo, e chiudere per sempre un capitolo della sua vita che gli è costato anni di sofferenze incancellabili.
La testimonianza shock di Valentina: "Così Foti mi convinse degli abusi di mio padre". "Al termine del percorso mi convinsi, non ho idea di come, che l' autore delle violenze di cui mi si era parlato era mio padre”. Costanza Tosi, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Aveva confessato, Valentina. Era stata lei che, durante le sedute con il metodo Foti, aveva ammesso di aver subito abusi da suo padre quando era molto piccola. Ma, le accuse rivolte al proprio papà, le ha poi smentite davanti ai magistrati che dopo lo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni" indagavano su Bibbiano. Adesso la ragazza ha compiuto i suoi diciotto anni, ma fino all’anno scorso era una delle minori seguite dagli psicologi e dai servizi sociali della Val d’Enza. Anche con lei, lavaggi del cervello, violenze psicologiche per far confessare violenze che, non sarebbero mai avvenute. Secondo le carte, che riportano anche le intercettazioni degli indagati, pare che il terapeuta piemontese abbia “alterato lo stato psicologico ed emotivo della minore (...) sottoponendola come cavia alla psicoterapia effettuata in occasione del corso di formazione per operatori dell' azienda sanitaria di Reggio Emilia”. Su di lei fu utilizzata la “macchinetta dei ricordi”, come veniva chiamata dagli psicologi che spiegavano ai piccoli come, attraverso il sistema Emdr, avrebbero cancellato dalla testa le tracce dei brutti ricordi. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia emergono le intercettazioni di un incontro, del 27 ottobre del 2018, al Centro di Igene Mentale. Si trattava di una lezione tenuta da Foti e rivolta ad alcuni terapeuti. A dimostrazione pratica delle sue teorie una seduta osservabile da un vetro. Protagonista la piccola Valentina. Proprio in quell’occasione il terapeuta piemontese, avrebbe posto alla ragazzina una serie di domande con lo scopo di far emergere abusi sessuali subiti in famiglia. Per ripescare dai ricordi della piccola i fatti dell’infanzia Foti utilizzava la tecnica dell’Edmr: “Con tali modalità - si legge nell' ordinanza - l’ indagato convinceva la minore dell' avvenuta commissione dei citati abusi ai suoi danni durante l' infanzia, una circostanza fino a quel momento non presente nei suoi ricordi, e che l' abusante fosse suo padre”. Un’opera di convincimento per estrapolare dalla testa della bambina fatti a cui lei non avrebbe mai accennato. Tutto questo anche con l’ausilio di un macchinario, certamente suggestionante per Valentina che, in quel momento, si trovava rinchiusa in una stanza a vetri per essere utilizzata come cavia per le dimostrazioni ai seguaci di Foti. Tre mesi dopo la seduta - come riporta Il Resto del Carlino - Valentina viene interrogata e racconta di quel giorno. “Foti - spiega la ragazza al pm - mi sottopose personalmente anche alla terapia che lui mi disse chiamarsi Emdr. Mi chiedeva di guardare il suo dito muoversi a destra e a sinistra, invitandomi a ritornare con la mente indietro nel tempo”. Mentre eseguiva queste manovre, il terapeuta faceva “domande su quello che la mia mente immaginava, e al termine del percorso mi convinsi, non ho idea di come, che l' autore delle violenze di cui mi si era parlato era mio padre”. Le intercettazioni della seduta, riportate dalla Procura, raccontano anche di quelle domande che in realtà con l’idea di quesito avevano poco a che fare. Si trattava più di frasi incalzanti, suggerimenti, convinzioni da inculcare nella mente dell’interlocutore. “Tu vieni al mondo e come tutte le bambine provi ad avere fiducia nel mondo dei grandi - dice Foti alla minore - ma sei tradita...Già l' impatto con tuo padre ti rende incerta, Perché un po' ci credevi... Come ogni bambina credevi a tuo padre, e vivi e impatti con l' esperienza pesante e vio lenta, che ti fa perdere fiducia... Non credi in tuo padre... ci credevi.., non ci credi”. La piccola tace. Quasi per tutto il tempo. Aggiungendo solo un secco “no” dopo alcune frasi dello psicologo. Ma l’uomo insiste, incalza, sempre con lo stesso ritmo. Parla dei ricordi di Valentina e intando descrive il suo papà. Il medoto esistenziale che il padre aveva trasmesso alla piccola, secondo il terapeuta, era “rovinoso e servile”. La bambina non parla, ma con le pupille, immobile su un sedia, segue il dito dell’uomo che continua con i racconti. Una danza ipnotica da film degli orrori. Dopo la famiglia, ecco che Foti arriva ad affrontare l’argomento “sesso”: “Io penso che nella tua esperienza di vita hai avuto paura dei fidanzati...e le cose sono andate sul modello della relazione violenta con il maschile, pericolosa…” dice alla paziente. Poi, torna a parlare del padre: “tuo padre ti aveva proposto sesso e violenza, da quel che sappiamo. Tua madre non ti ha assolutamente proposto sesso e violenza, ma comunque ti propone anche lei un modello di vita…” Il dialogo prosegue. La musica è sempre la stessa. L’obiettivo ben chiaro: si doveva tagliare ogni tipo di legame tra Valentina e la sua famiglia d’origine. La bambina doveva staccarsi totalmente dai suoi genitori. Anche la madre della minore, durante l’interrogatorio, ha ammesso di aver notato “la consequenzialità tra la psicoterapia praticata da Foti e l' emersione delle rivelazioni su presunti abusi o fatti similari, e anche la sua animosità nei confronti del padre”. Come riporta Il Resto del Carlino. “Prima della psicoterapia - racconta - Valentina non mi aveva mai riferito di alcuna problematica rispetto al padre. Dopo la psicoterapia con Foti, non so con quale modalità, si era convinta di avere subito abusi sessuali quando era molto piccola, e che la sua memoria aveva rimosso quel ricordo che era venuto fuori grazie alla terapia”. Un percorso che, secondo quanto racconta la mamma, avrebbe cambiato la vita di sua figlia che, dopo la “macchinetta dei ricordi”, è diventata un’altra persona. “Convintasi che il padre l'aveva abusata, poco dopo la psicoterapia (...) ha iniziato a fare uso di stupefacenti, è diventata aggressiva e violenta nei miei confronti, e ha iniziato a odiare il padre” spiega la madre. Schiava di una convinzione che le era stata inculcata attraverso lavaggi del cervello e racconti inventati, la piccola aveva cambiato personalità. Durante l' interrogatorio con il pubblico ministero, Valentina, conferma con certezza che il papà non l’ha mai abusata. Nei racconti davanti al pm, la ragazzina, racconta con estrema lucidità, che gli assistenti sociali di Bibbiano la consigliavano su come affrontare le audizioni davanti ai giudici minorili: “Partivano sempre dal presupposto che io, da piccola, avevo subito una violenza sessuale (...) e tentavano in ogni modo di farmi raccontare tali episodi, che io assolutamente non ricordavo”. Bambini plagiati, famiglie distrutte, un oceano di sofferenze incancellabili. Se le accuse della Procura di Reggio Emilia venissero confermate in aula di tribunale, il caso Bibbiano sarebbe prima di tutto questo: un sistema degli orrori che ha cambiato la vita a decine di persone.
"Non dovete temere la divisa". I demoni provarono a sviare le indagini. "Non fatevi intimorire dalla divisa". Ecco come gli assistenti sociali di Bibbiano cercavano di sviare le indagini. Costanza Tosi, Domenica 28/07/2019 su Il Giornale. A Bibbiano ad essere plagiati dagli assistenti sociali non erano soltanto i bambini. A finire nelle grinfie dei “demoni” di Reggio Emilia anche i genitori affidatari, manovrati dagli assistenti sociali. Si sentivano il fiato sul collo, braccati dagli investigatori e, i “demoni” avevano bisogno di sviare le indagini. Lo facevano attraverso pressanti e ripetute telefonate ai genitori affidatari. “Non fatevi intimorire dalla divisa”, dicevano. Una divisa che indagava, che cercava di vederci chiaro. È quanto emerge dalle carte della Procura di Reggio Emilia, che ha smascherato il presunto giro d’affari illecito che si nascondeva dietro il sistema degli affidi dei minori della Val d’Enza.
Il depistaggio. La madre affidataria di due bambini, seguiti dai servizi sociali, viene chiamata dai carabinieri e convocata per un colloquio con la richiesta di portare le fatture e tutta la documentazione necessaria a certificare i pagamenti per le sedute di psicoterapia a cui erano tenuti ad andare i due minori. Una telefonata che coglie di sorpresa la donna e la insospettisce. Lei e il marito, in effetti, erano stati i primi a chiedere spiegazioni sul metodo di pagamento degli incontri con gli psicologi. I due si domandavano come mai i soldi destinati a pagare gli psicologi dovessero passare da loro. Il denaro, infatti, veniva prima caricato sul conto corrente della famiglia affidataria che, poi, lo versava agli psicologi della Onlus “Hansel e Gretel”, finita al centro dell’inchiesta. Un giro contorto, che ha insospettito la coppia. Più volte, infatti, i due genitori affidatari hanno provato a chiedere spiegazioni ma nulla. Nessuno era in grado di dare risposte chiare.
Le intercettazioni. “Non capisco nemmeno il passaggio.. Perchè devi dare a me questi soldi e poi io te li devo dare…” chiede al telefono il papà affidatario a Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali finito nel registro degli indagati: “Questioni amministrative” risponde e taglia corto. I dubbi erano tanti e le domande degli investigatori pressanti. Dopo la telefonata ricevuta dai carabinieri, la madre affidataria decide di chiamare nuovamente l’assistente sociale Francesco Monopoli per informarlo dei fatti. Era lui che seguiva il loro caso. L’assistente sociale le confida che “i carabinieri stanno facendo delle verifiche su tutti gli affidi, e che lui non ne sa niente.” Ma la pressione si faceva sentire. Il cerchio stava per stringersi attorno ai “demoni” di Reggio Emilia e loro lo sapevano. Francesco Monopoli esorta la donna ad andare all’incontro con i carabinieri assieme al marito. La madre risponde di no, spiegando che i carabinieri avevano chiamato solo lei e quindi sarebbe andata da sola ma l’assistente sociale ribatte con un forte “no!”. A quel punto la donna accetta di andare all’incontro con il marito, a cui passa la cornetta del telefono per proseguire la conversazione. Ed è proprio con il marito che l’assistente sociale inizia l’opera di persuasione e convincimento. “Non lasciarla andare da sola”, insiste. Ma la telefonata continua e l’assistente sociale comincia a dare al padre consigli dettagliati su come comportarsi di fronte alle autorità. “Se gli fanno domande particolari rispetto a valutazioni…non rispondete - ordina l’assistente sociale - sopratutto se vi fanno domande non adeguate vi devono spiegare…voi chiedete perchè vi stanno chiamando…qual è l’oggetto”. Ripete più volte gli stessi concetti durante la conversazione Monopoli, quasi a far sembrare di essere preoccupato dalla notizia. Tanto che, ad un certo punto, sottolinea: “Menomale che me lo avete detto va…diciamo così… - e poi aggiunge - ma non vi fate intimorire dalla divisa voglio dire…” Insomma, l’assistente sociale sperava che la famiglia facesse muro persino ai carabinieri. Niente doveva uscire da quell’incontro. Bocche cucite. Pure con le forze dell’ordine. Le intercettazioni che ilGiornale.it ha potuto visionare parlano chiaro. Eppure, in questa vicenda, dei dubbi restano. Perchè tanta preoccupazione per le risposte alle domande degli investigatori se Francesco Monopoli non aveva niente da nascondere? In realtà, secondo le carte, gli indagati “erano ben consapevoli delle irregolarità della situazione (se non della sua completa illegittimità)” e, tra le pagine dell’ordinanza, il procuratore sottolinea che ciò si evince anche “dal tentativo di Monopoli, in corso d’indagine, di orientare le dichiarazioni degli affidatari.” Secondo la Procura tutti sapevano cosa stavano facendo e, a quanto pare, erano consapevoli pure di essere finiti nell’occhio del mirino. Ma niente fermava i protagonisti del losco giro d’affari. D’accordo, fino alla fine, nel nascondere la sabbia sotto il tappeto. Anche a costo di plagiare, con l’inganno, persone che avrebbero voluto solo fare del bene, come i genitori affidatari. Ignari di tutto. Anche loro vittime dell’orribile “sistema” di Bibbiano.
Affidi illeciti, assistente sociale rivela: "Feci report falsi". La donna ha ammesso di aver alterato alcune relazioni sotto pressione. Aveva ottenuto il trasferimento ad altre mansioni per questo motivo. La Repubblica il 28 luglio 2019. Si arricchisce di nuovi capitoli - che ondeggiano tra presente e passato - la vicenda di Bibbiano e dei presunti affidi illeciti in Val d'Enza. All'indomani del via libera del Consiglio Regionale ad una Commissione di inchiesta sul sistema di tutela dei minori in Emilia-Romagna e della scoperta dell'avvertimento - risultato inascoltato - della Procura di Reggio Emilia al Tribunale dei Minori di Bologna su relazioni non corrette, dall'indagine "Angeli e Demoni" spuntano le parole di una assistente sociale che ha rivelato di avere falsificato rapporti su alcune situazioni familiari così da indirizzare lo stesso Tribunale dei Minori ad affidare i bambini, considerati vittime di abusi, a figure terze. Il fatto - riportato dalla stampa locale di Reggio Emilia - vede al centro una assistente sociale che, alla luce del suo racconto, potrà tornare a svolgere le proprie mansioni dopo la decisione del giudice investito del caso di revocare la misura della sospensione di sei mesi dal lavoro che le era stata comminata. Revoca verso cui aveva espresso parere negativo il Pm titolare dell'indagine. La donna, viene riportato, ha collaborato ammettendo i propri addebiti e sostenendo di avere falsificato alcuni report a causa delle pressioni subite dai superiori. Una situazione che, nel tempo, avrebbe generato malessere tanto da chiedere e ottenere un trasferimento - avvenuto nel settembre 2018 - in un altro settore dei servizi sociali. In alcune relazioni l'assistente sociale aveva espresso dichiarazioni non veritiere; in un caso aveva descritto l'abitazione in cui vivevano due bimbi come fatiscente, e collegato l'atteggiamento di chiusura dei bimbi alla difficile situazione familiare e non al fatto che non sapessero comprendere e parlare italiano. Rapporti che non avevano convinto gli inquirenti tanto da integrare le accuse di falso ideologico e frode processuale.
«Pensavano solo a togliere i bambini alle famiglie»: parla la pentita di Bibbiano. Il Secolo d'Italia martedì 30 luglio 2019. Un clima da «caccia alle streghe» e una criminalizzazione delle famiglie in modo che fossero tolti loro i figli. È il «sistema Bibbiano» così come emerge – anche – dalle parole della “pentita” Cinzia Magrelli, assistente sociale indagata nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni, sebbene con una posizione ritenuta meno grave: per lei le autorità hanno concesso la revoca delle misure cautelari e la possibilità di tornare al lavoro. «È vero, ho modificato le relazioni ma l’ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo, ma poi non ce la facevo più. Per questo ho chiesto il trasferimento», ha spiegato la donna.
La guerra alle famiglie. Magnarelli, in un colloquio con La Verità, ha spiegato che «laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella famigliare». Ricostruzione resa anche davanti al Gip Luca Ramponi e che conferma quanto già ampiamente appreso dall’opinione pubblica su questa storia drammatica di “ladri di bambini”: per soldi, per convinzioni ideologiche, per fare favori ad amici o ex amanti i bambini venivano portato via dalle loro famiglie, facendo leva su relazioni false o falsate che poi venivano accettate da tutta la filiera di controllo e gestione di un servizio così delicato.
Il “metodo Bibbiano”. «Il clima era quello un po’ della caccia alle streghe», ha detto ancora Magnarelli, spiegando che «nelle relazioni che sarebbero state mandate alla magistratura c’era sempre una predilezione per una visione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia». Magnarelli ha poi ricostruito come si arrivava a queste relazioni, che lei stessa ha ammesso di aver «modificato»: «Io non avevo la possibilità di decidere. Avevo solo la possibilità di relazionare all’interno di una équipe che prevedeva la presenza del dirigente dei servizi sociali e poi il parere dello psicologo. Alla fine veniva fatta una relazione che comprendeva tutti i pareri e veniva mandata al Tribunale dei minori». «Il Tribunale di Bologna – ha aggiunto l’assistente sociale – decideva in base a queste relazioni. Aveva la possibilità di approfondire e sentire le parti, di valorizzare alcuni elementi anziché altri. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi». «Tutte le volte che veniva presentata la possibilità di un aiuto all’interno della famiglia, veniva cassata. Questo – ha concluso – era il metodo di intervento».
Pentita di Bibbiano confessa: "Ecco come toglievamo i bimbi". L'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha ammesso di aver falsificato alcuni report sotto le pressioni dei superiori, in modo da indirizzare gli affidi. Pina Francone Martedì 30/07/2019, su Il Giornale. Confezionavano relazioni false per togliere i bambini alle famiglie e darli in affido, il tutto sotto le pressioni pesanti e continue dei superiori. Il "sistema Bibbiano" funzionava così. E a spiegarlo agli inquirenti ci ha pensato proprio una delle assistenti sociali indagate nell’ambito dell'inchiesta Angeli e Demoni, accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione. Cinzia Magnarelli ha parlato al gip Luca Ramponi e grazie alla sua confessione ha ottenuto la revoca della misura cautelare e potrà tornare a lavorare a Montecchio Emilia. "È vero, ho modificato quelle relazioni ma l'ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo ma poi non ce la facevo più: per questo ho chiesto il trasferimento", le parole della donna, così come riportate da La Verità. Un racconto utilissimo per le indagini, quanto agghiacciante per il modus operandi di Federica Anghinolfi e colleghi. E quando la Magnarelli ne capì l'andazzo, chiese il trasferimento, ottenendolo nel settembre 2018: "Il clima era quello un po' della caccia alle streghe…". Cinzia Magnarelli spiega al quotidiano: "Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […] Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell'aiuto". E spiega: "Laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella familiare. Nel corso del tempo ho metabolizzato il funzionamento del sistema. Il lavoro che facevo all' interno dell'equipe veniva criticato dai miei superiori. Nelle relazioni che sarebbero poi state mandate alla magistratura c'era sempre una predilezione per una visione dell'educazione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia...". Insomma, i suoi superiori spingevano oltremodo per togliere quei piccoli ai propri genitori e darli così in affido, grazie a relazioni taroccate che venivano mandate al Tribunale dei Minori, che giudicava così i casi avendo in mano documenti falsificati e che spingevano i giudici a scegliere la strada dell'affido. Ecco spiegato come funzionava il crudele "sistema Bibbiano".
E adesso la pentita di Bibbiano torna a fare l'assistente sociale. Torna a lavoro l'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha confessato di aver falsificato alcune relazioni sotto le pressioni dei propri capi, così da pilotare gli affidi. Pina Francone, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. L'assistente sociale Cinzia Magnarelli ha confessato di aver falsificato alcune relazioni sotto le pressioni dei propri capi, così da pilotare gli affidi. Insomma, report bugiardi per togliere i bambini alle famiglie e darli in affido: ecco spiegato, in breve, il crudele "sistema Bibbiano" scoperto dall'inchiesta Angeli e Demoni. Lo ha spiegato agli inquirenti una delle assistenti sociali indagate, accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione. La Magnarelli, interrogata dal gip Luca Ramponi ha confessato le malefatte, ammettendo le proprie colpe e dichiarando di aver scritto il falso su ordine dei superiori. Ecco, grazie al suo racconto ha ottenuto la revoca della misura cautelare e potrà tornare a lavorare a Montecchio Emilia, dove era arrivata nel settembre 2018 dopo aver chiesto il trasferimento da Bibbiano, non riuscendo più a tollerare i meccanismi di Federica Anghinolfi e colleghi, dopo aver eseguito gli ordini ed essere stata una pedina fondamentale negli ingranaggi del "sistema Bibbiano". Così si è spiegata a LaVerità: "Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […] Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell'aiuto". E in tutto questo, invece, il sindaco Pd di Bibbiano continua a rimanere agli arresti domiciliari. Al primo cittadino dem Andrea Carletti, infatti, che non è accusato di reati commessi contro i bambini, ma è indagato – in quanto delegato dei servizi sociali dell’Unione dei Comuni della Val d' Enza – per abuso d'ufficio e falso ideologico (per cui solitamente non è previsto il carcere preventivo), è stata negata la revoca della misura cautelare.
Bibbiano, dalle carte nuovi indizi, emergono i tentativi degli indagati di sviare le indagini. Federica Anghinolfi aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Le ha tentate tutte Federica Anghinolfi che, si scopre, per boicottare le indagini avrebbe contattato persino il Garante Regionale per l’Infanzia. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia sull’inchiesta “Angeli e Demoni”, che hanno denunciato il losco giro di affari a danno dei bambini nascosto sotto il sistema di affidi della Val d’Enza, emergono nuovi particolari. Ad essere accusata è di nuovo lei, la dirigente dei servizi sociali, messa sotto scacco da alcune intercettazioni dei carabinieri. Secondo le carte, prima dell’esecuzione delle misure cautelari, nel bel mezzo delle indagini, quando i carabinieri stavano passando al setaccio carte e fascicoli, la dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza avrebbe tentato di bloccare le ricerche. Ma in che modo? Pare che Federica Anghinolfi abbia richiesto un intervento del Garante per l’infanzia. Una domanda d’aiuto celata, giustificata dal fatto che, secondo l’Anghinolfi, l’attività investigativa stava intralciando i già avviati, procedimenti sui minori. Procedimenti che si sono poi rivelati, secondo quanto descrive la Procura, parte integrante di un sistema che lucrava sulla pelle dei bambini. E di cui proprio lei, era la prima protagonista. Tanto che il 27 giugno scorso è stata eseguita, nei confronti della dirigente, un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. In realtà la “regista” del sistema degli orrori aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. A confermalo alcune telefonate intercettate dai carabinieri. Come quella avvenuta tra Federica Anghinolfi e Cinzia Prudente una delle donne affidatarie, nonchè amica della dirigente, a cui era stata data una bambina. A chiamare è l’Anghinolfi a cui l’amica risponde allarmata: “Mi stai chiamando con il tuo?” Poi prosegue esortandola a chiamare “da fisso a fisso”. “L’Anghinolfi capisce subito la situazione”, si legge nelle carte, e conferma, mettendo giù la cornetta. Insomma, tutto fa pensare che le due sapessero di essere intercettate e, sopratutto, che avessero qualcosa da nascondere. Qualcosa, che non doveva finire nelle mani della Procura. Ma c’è di più. Come riportato dall’ordinanza: “è appurato tramite le intercettazioni telefoniche che, una volta appreso della esistenza delle indagini, maturò all’interno del gruppo degli indagati il “progetto” di regolarizzare la situazione originariamente illegittima”. Insomma, a nascondere la sabbia sotto il tappeto erano tutti d’accordo. Tanto che fu fissato un incontro con i vertici del dipartimento dell’ASL Reggio Emilia. Incontro durante il quale, emerse che tre degli indagati (tra cui Federica Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti) comunicarono che non volevano più gestire, in proprio, la terapia dei minori attraverso la struttura “La Cura” e chiedevano all’Asl “una sorta di condivisione della spesa in modo formale”. In soldoni, quello che gli indagati proponevano all’azienda era di dare una veste formale a quella che, fino a quel momento, era stata l’attività di psicoterapia infantile portata avanti, in maniera illecita, dalla onlus Hansel e Gretel. A capo della quale vi era Claudio Foti, anche lui finito nel registro degli indagati della Procura. Una copertura che, di fatto, non avrebbe cambiato le cose, ma solo risolto gli impicci con la legge. Sì, perchè nella proposta ai dirigenti dell’ASL, era richiesta anche la possibilità di mantenere all’interno della struttura gli stessi psicologi che prestavano servizio a "La Cura". Dopo tutto, per tenere in piedi l'affare servivano loro. I "demoni" che plagiavano le piccole vittime.
Perché (e chi sono) difendono il sindaco di Bibbiano. Il Pd, l'Anpi, Repubblica. Tutti stanno con Andrea Carletti finito nell'indagine sui finti abusi e gli affidamenti facili di bambini. Maurizio Tortorella il 29 luglio 2019 su Panorama. Ci mancava solo l’Anpi. Alla fine anche i partigiani si sono uniti al grande coro democratico: hanno offerto «piena solidarietà ad Andrea Carletti in questo momento difficile» e hanno voluto ricordarne «l’impegno nell’affermare e diffondere i valori della legalità» e quelli dell’antifascismo militante. Prima del 27 giugno, quando è piombato nell’inchiesta «Angeli e demoni» della Procura di Reggio Emilia finendo agli arresti domiciliari, Carletti non era un politico di primissimo piano. Nel Pd emiliano aveva fatto una bella carriera da amministratore locale, ma le cronache nazionali quasi lo ignoravano. Oggi, invece, il sindaco di Bibbiano è il recordman italiano della solidarietà. Il suo partito, il Pd, lo celebra quale «capace amministratore, apprezzato dai suoi cittadini», e garantisce che «risponderà con serenità dei rilievi amministrativi che gli vengono mossi». Contro Carletti, del resto, lo stesso segretario del Pd Nicola Zingaretti non ha alzato un dito, attendendo fosse il sindaco ad autosospendersi. Poi Zinga, come lo chiamano i suoi, ha convocato un team di avvocati «per avviare azioni legali, fossero anche 100 al giorno», contro ogni attacco diffamatorio a Carletti e al Pd. A sorpresa, un uomo pacato come l’ex parlamentare reggiano del Pd Pierluigi Castagnetti s’è messo addirittura a contestare gli arresti domiciliari: «Carletti è perbene» ha protestato «e non merita il provvedimento restrittivo per un’ipotesi, che spero sarà rapidamente smentita, di abuso d’ufficio. Rischi di reiterazione o di alterazione prove, io, non ne vedo proprio». Quello di cui gli inquirenti accusano il sindaco e altri 26 tra amministratori locali, assistenti sociali e psicologi, in realtà, è avere foraggiato e protetto un sistema basato sull’indebita sottrazione dei bambini alle famiglie. Irretite dagli psicoterapeuti del centro torinese Hansel e Gretel, scelti senza gara dai servizi sociali di Bibbiano e retribuiti con tariffe doppie del normale (135 euro l’ora contro una media di mercato sui 60-70 euro), le piccole vittime accusavano i genitori di abusi inesistenti e così venivano affidate ad altre coppie o a strutture private. Tra gli inquirenti si sospetta sia emersa la classica punta dell’iceberg di un più ampio sistema, che va ben oltre Bibbiano e l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, i cui servizi sociali erano tutti collegati. Certo: la presunzione d’innocenza è più che un precetto costituzionale, è una regola di civiltà giuridica. Tra i suoi sostenitori, Carletti gode però di una presunzione superiore, anomala per intensità. Repubblica ha scritto che il sindaco ha soltanto «concesso degli immobili» ad altri indagati: nessun reato, insomma. Lo stesso giornale sostiene che lo scandalo di Bibbiano (cancellato dalla maggior parte dei mass media) serva solo a distogliere l’opinione pubblica dalla storia dei rubli di Vladimir Putin, che pure inguaia la Lega con un’intensità mille volte superiore. I mille sostenitori del sindaco sminuiscono, minimizzano, negano. E non è solo su Repubblica che i reati scompaiono: il Pd parla di «rilievi amministrativi», Castagnetti ammette (a fatica) l’ipotesi di abuso d’ufficio. In realtà, sia pure con ipotesi ferme al vaglio di un giudice per le indagini preliminari, e quindi lontane dal crisma di un vero processo, Carletti è accusato di abuso d’ufficio, ma anche di falso ideologico: assieme, i due reati prevedono da due a dieci anni di reclusione. Anche il ritratto Carletti, per com’è tratteggiato dall’inchiesta, non è propriamente quello di un amministratore esemplare: il giudice sostiene che il sindaco si sia «reso responsabile di episodi che costituiscono un espressivo indice del suo modo di comportarsi» e che sia «evidente la copertura politica continuativa e sistematica» offerta agli altri indagati. L’ordinanza che l’ha posto agli arresti domiciliari sottolinea «l’essenzialità del contributo» di Carletti e perfino «la sua alta capacità criminale», perché «ha ripetutamente consentito le spese in esecuzione degli abusi d’ufficio (a favore degli psicoterapeuti di Hansel e Gretel, ndr) con erogazione di contributi indebiti». Tra il 2014 e il 2018, Bibbiano ha pagato oltre 182 mila euro per sedute di psicoterapia, che secondo il giudice potevano essere «effettuate gratuitamente» da parte del Servizio sanitario locale. Si legge che Carletti «lungi a limitarsi a una mera omissione di controllo sull’attività dell’amministrazione (…) si adoperava per consentire la prosecuzione dell’attività (degli psicologi di Hansel e Gretel, ndr), ottenendo un ritorno d’immagine e un incremento dei fondi a disposizione». L’accusa di falso nasce dall’avere imputato alla voce «trasferimenti per contributi affidi» le somme che tra 2016 e 2018 venivano versate in realtà agli psicologi di Hansel e Gretel, inducendo in inganno l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, che autorizzava la spesa. Ma c’è di peggio: secondo l’accusa, il sindaco e alcuni dirigenti comunali, con una psicologa, a un certo punto avrebbero scoperto l’indagine su di loro e tentato di sistemare la situazione: «Preso atto degli accertamenti della polizia giudiziaria», si legge, «in un incontro in data 12 dicembre 2018» il sindaco, i dirigenti e la psicologa avrebbero «spacchettato» le cifre «abbassandole fraudolentemente al di sotto della soglia» dei 40 mila euro che per legge avrebbe imposto la gara. È forse per questo se il giudice il 7 luglio ha rigettato la richiesta di Carletti, che invocava la revoca degli arresti domiciliari: rischio di inquinamento delle prove. E ora chi lo dice all’Anpi?
Il linciaggio social contro Giorgia Meloni arriva a prendere di petto persino la figlia. Gloria Sabatini lunedì 29 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Si chiama Franco Cappelletti. È antifascista, ha una faccia con barbetta trasandata quanto basta per far capire che lui la rivoluzione la pratica, mica a chiacchiere. È lui, con un tweet semplicemente ributtante all’indirizzo diGiorgia Meloni, l’ultimo campione dell’esercito di odiatori seriali online, di quei leoni da tastiera che insultano “il nemico cattivo”, denigrano, istigano alla vendetta, mettono in mezzo parenti e affini. E, come nel suo caso, persino figli e nipoti di pochi anni.
“Rimpiangerà di non essere stata a Bibbiano”. Che cosa scrive questo coraggioso “signore”? «Da adulta la figlia della Meloni rimpiangerà di non essere stata a Bibbiano». Incommentabile. Capito? Si augura alla piccola di aver un destino peggiore dei minori vittime dell’orrore scoperchiato dall’inchiesta Angeli e demoni. Con queste due righe si è superato qualsiasi limite. Di decenza, di civiltà, di umanità nel nome di un’idiozia diffusa che genera un pericoloso tam tam di emutatori conigli. «Ecco dove siamo arrivati. È schifo» è il lapidario, e a dir poco signorile, post di risposta sulla pagina Facebook della leader di Fratelli d’Italia che non può fare a meno di riproporre sul suo profilo l’inqualificabile maledizione. Dopo le pessime esibizioni di odio, volgari e sessiste, comparse sui social nelle scorse settimane contro Giorgia Meloni, il 27 luglio alle ore 23 con il tweet di Cappelletti si è toccato il fondo del fondo.
Un mare di testimonianze d’affetto per la leader di Fdi. Ovvio che il tipo, che non ha cancellato nulla e anzi ha rilanciato il vaticinio con un vaffa, sia stato sommerso da uno tsunami di reazioni e qualche meritatissima offesa. Oltre settemila in due ore i commenti sulla pagina della Meloni. Si va da più sobri: “Giorgia, querelalo, e fagli del male” o “i figli non si toccano”, a quelli più diretti. Sono tante in queste ore le testimonianze di affetto e vicinanza a Giorgia da parte dei colleghi di Fratelli d’Italia ma anche di altre forze politiche. «Ginevra è e sarà sempre fiera di essere figlia di Giorgia Meloni, così come saranno sempre fiere di lei la sua mamma, sua sorella e le sue adorate nipoti. Noi, la sua comunità, possiamo dire con orgoglio che di donne come Giorgia non ce ne sono tante nel mondo e che questa, per nostra fortuna, è capitata a noi e non a loro!». Occhio per occhio, dente per dente? No. Sarebbe un regalo agli “odiatori” di mestiere. L’ex ministro della Gioventù guarda avanti, è abituata ad attacchi di ogni tipo, talvolta anche fisici. Ha ben altro da fare. Stavolta, però, avrà ripreso il suo lavoro, con un po’ di amarezza in più.
Affidi illeciti, la Procura di Modena riapre l'inchiesta Veleno: c'è un legame con Bibbiano? Gli interrogatori furono svolti da alcuni psicologi di "Hansel e Gretel" di Torino coinvolti ora nel caso "Angeli e Demoni". La Repubblica il 28 luglio 2019. La Procura di Modena ha aperto un fascicolo per riesaminare le vicende dei presunti pedofili della Bassa di 22 anni fa. Il riferimento è all’inchiesta Veleno che aveva portato all’allontanamento di 16 bambini dalle loro famiglie. Molti dei genitori non hanno più rivisto i loro figli. La decisione di riaprire i fascicoli è arrivata dopo che sono stati presentati tre esposti. Il pubblico ministero Giuseppe Amara dovrà valutare se ci sono nuovi elementi che chiariscano i tanti punti oscuri della vicenda. Un caso che torna di attualità e che in qualche modo si lega all’inchiesta Angeli e Demoni perché dal centro Hansel e Gretel di Torino provenivano le psicologhe che interrogarono anche i bambini di Veleno. Il fascicolo conoscitivo è stato aperto su iniziativa del Procuratore capo Paolo Giovagnoli. Non ci sono indagati e al momento non sono previsti né interrogatori né convocazioni, ma solo un'analisi della documentazione. "Siamo in una fase iniziale - dichiara Giovagnoli alla "Gazzetta di Modena" -. Abbiamo aperto un fascicolo conoscitivo per cercare di ricostruire le vicende di allora. E' un fascicolo ancora ad ampio raggio. Trattandosi di fatti di più di vent'anni fa, può darsi pure che eventuali reati siano prescritti". "C'era un esposto dell'ex senatore Carlo Giovanardi già da tempo - dichiara inoltre il procuratore capo modenese - poi ne sono arrivati altri e noi stiamo cercando di capire cosa sia successo all'epoca dei fatti". Intanto il tema degli affidi di minori, come scrive la "Gazzetta di Reggio", è arrivato anche in centro a Modena. In 400 hanno sfilato vestiti di bianco con le fiaccole in mano fra le vie della città per tenere alta l’attenzione sul caso di Bibbiano. Fra i manifestanti che venivano da tutta Italia anche famiglie modenesi che hanno raccontato le loro esperienze. "La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo caso Veleno", aveva affermato nelle scorse settimane il giornalista Paolo Trincia, riferendosi alla sua inchiesta giornalistica dal titolo “Veleno”, realizzata proprio nella Bassa emiliana, che ha ricostruito le vicende di un gruppo di bambini allontanati per sempre dai genitori per presunti abusi e riti satanici che, secondo l'accusa, erano opera di una presunta banda di pedofili, i cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”, ma di cui in realtà non sono mai state trovate prove reali. Il link "si chiama Centro Studi Hansel e Gretel di Torino, di cui è stato arrestato il responsabile, Claudio Foti. Proprio le psicologhe provenienti da quel centro avevano interrogato i bambini di Veleno... Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast" ha ricordato Trincia riferendosi a una onlus torinese che aveva ricevuto l'incarico dai servizi sociali della Val D'Enza. "So che gli investigatori hanno utilizzato la nostra inchiesta come chiave investigativa per studiare il fenomeno visto che tratta la tessa tematica anche se poi hanno seguito poi le loro intuizioni".
GIU’ LE MANI DAI BAMBINI. Fabio Poletti per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Una nonna sgomita dietro le transenne e se lo bacia. Un papà gli racconta la sua odissea: «Erano anni che sapevamo di questa cosa...». Matteo Salvini, maglietta bianca con scritta Italia sulle spalle, plana a Bibbiano, profonda Emilia, un tempo allevamenti di maiali, oggi solo «angeli e demoni» dal nome dell' inchiesta che ha fatto luce su un giro di affidi illeciti, bambini strappati ai genitori con false prove e affidati ad altri genitori. «Sono qui prima di tutto come papà. E poi come ministro per dire che lo Stato qui c' è», Matteo Salvini parla senza microfono dallo scalone del Municipio dove hanno messo un paio di scarpine bianche da bambino. Il sindaco Andrea Carletti del Pd è finito agli arresti domiciliari per gli atti controfirmati. Il ministro dell' Interno non nomina lui né il suo partito. «Chi ha sbagliato deve pagare doppio. Ai primi di agosto nascerà una commissione d' inchiesta sulle case famiglia. Ho visto lucrare sulla pelle degli anziani e degli immigrati. Non avrò pace fino a che non sarà a casa anche l' ultimo dei bambini». Quattro di loro sono stati riaffidati ai genitori a fine giugno. Questa mamma coi capelli lunghi, la maglietta bianca, i jeans chiari e i sandali rivedrà sua figlia giovedì, dopo più di un anno e mezzo: «È passato così tanto tempo che ho il cuore in gola. Forse la situazione si sta finalmente sbloccando. Spero che questo primo incontro sia solo l' inizio. La rivoglio a casa. Vivo solo per questo. Ma chi ci ha strappato i nostri figli dalle braccia deve pagare». Nel mirino ci sono assistenti sociali, psicologi, un paio di avvocati. Che ci sia il sindaco del Pd di Bibbiano, coinvolto anche se marginalmente, fa da catalizzatore. Alla fiaccolata di sabato sera dietro lo striscione «Giù le mani dai bambini» c' erano mille persone. Cattolici integralisti pure da Roma, Forza Nuova, CasaPound, Lealtà e Azione, I Sentinelli ma giurano pochi bibbianesi. Il segretario del Pd Stefano Marazzi ha parole per tutti: «Siamo di fronte a uno sciacallaggio politico senza precedenti. Dei bambini non interessa niente. Il nostro sindaco che ha firmato solo atti tecnici è stato demolito. Ma la verità verrà a galla». Valterio Ferrari di una lista civica di opposizione con dentro qualche esponente dei 5 Stelle si dice molto di sinistra ed è pronto a firmare una mozione di sostegno al sindaco con tutta la maggioranza: «La situazione qui è andata fuori controllo. Ci mancano solo le cavallette.
Ma non potremmo chiudere i porti, a Bibbiano?». La battuta è efficace. Ma il paese è tutt'altro che unito. Davanti a Matteo Salvini c' è chi srotola un lenzuolo con disegnati dei mattoni. Come dire che il muro di omertà si è sgretolato. Più di una mamma giura di averla scampata bella. Come questa signora con gli occhiali e i capelli lunghi: «Ho dovuto denunciarli per evitare che portassero via mio figlio». Ma tanti son qui solo perché è Matteo Salvini e non vedono l' ora di farsi un selfie con lui. Da Roma la vicesegretaria del Pd Paola De Micheli usa parole d' acciaio: «Da Salvini solo una passerella. Meglio che ci parli di Moscopoli». Luigi Di Maio si schiera con l' alleato di governo: «Veramente vergognoso il silenzio del Pd. Sarò presto a Bibbiano con il ministro della Giustizia Stefano Bonafede». Matteo Salvini vola alto alla fine del suo comizio: «Non meritate di essere conosciuti nel mondo come la comunità degli orchi e dei ladri dei bambini». Ma basta spostarsi a Barco, al centro Polifunzionale Pietro Del Rio dove sono finiti in manette le assistenti sociali per sentire un' altra voce. Quella del barista lì a fianco: «Cosa penso del sindaco? Lo difende solo chi lo ha votato».
Leonardo Grilli per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Un lavoro sotto traccia. In silenzio, in punta di piedi. È quello dei giudici del tribunale dei Minori di Bologna che stanno esaminando in modo più approfondito decine di casi (almeno 70) e segnalazioni seguiti negli ultimi due anni dai servizi sociali reggiani finiti sotto inchiesta. E mentre i magistrati bolognesi, guidati dal presidente Giuseppe Spadaro, controllano fascicoli e cartelle, emerge come già da tempo il tribunale minorile avesse intercettato delle irregolarità nel lavoro svolto dai professionisti ora sotto indagine. Massimo riserbo Al punto che per quattro bambini sui sei inseriti nell' inchiesta Angeli e Demoni c' è già stato un lieto fine: i loro casi sono stati riesaminati dai giudici di Bologna e, viste le irregolarità emerse, è stato deciso il ricongiungimento con le famiglie di appartenenza. Su chi siano questi bambini ovviamente, a loro tutela, vige il massimo riserbo ma tanto le segnalazioni, quanto i ricongiungimenti, sono avvenuti prima del 27 giugno, giorno in cui è stata resa pubblica l' inchiesta e sono scattati gli arresti. Un retroscena che conferma quanto da sempre sostenuto dallo stesso Spadaro, ovvero che in tutta questa vicenda il tribunale minorile di Bologna sia «parte lesa» e che da tempo vi fosse più che qualche dubbio sull' operato dei servizi della Val d' Enza. Non a caso proprio le perplessità dei magistrati bolognesi hanno dato un input importante alle indagini reggiane condotte da procura e carabinieri. Così, se da un lato i minori hanno potuto riabbracciare i propri genitori, dall' altro gli inquirenti, forti anche degli elementi forniti loro da Bologna, hanno continuato a indagare fino a formulare l' ipotesi che all' interno dei servizi della Val d' Enza si fosse creata una sorta di organizzazione che, nel manipolare le testimonianze di bambini, sottraeva i piccoli a famiglie in difficoltà per assegnarli dietro pagamento (si sospetta un giro d' affari di migliaia di euro) ad amici o conoscenti ritenuti ufficialmente più idonei. Frode processuale, depistaggio, abuso d' ufficio, maltrattamenti su minori, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d' uso e lesioni gravissime sono i reati formulati a vario titolo dalla procura. Gli accertamenti Mentre l' iter processuale prosegue, Spadaro sta continuando a rivalutare, con i suoi colleghi del tribunale e della procura minorile e d' intesa con gli inquirenti di Reggio, i procedimenti al centro dell' indagine, arrivando a inviare in alcuni casi i propri giudici per verificare direttamente le condizioni dei minori coinvolti. Gli accertamenti riguardano non solo gli episodi finiti nell' inchiesta ma tutti quelli seguiti dai servizi della Val d' Enza negli ultimi due anni, segno che l' ufficio giudiziario vuole fare chiarezza su tutte le segnalazioni. Proprio per questo motivo tutti i casi sono stati affidati a un differente servizio sociale, conferendo anche incarico a consulenti e periti per far luce su ogni situazione e riesaminare le precedenti risultanze dei servizi sociali sotto inchiesta. Sentiti gli insegnanti I giudici sono stati anche nelle comunità ospitanti e hanno incontrato insegnanti nelle scuole e dagli accertamenti preliminari sono emerse omissioni e anomalie all' interno delle relazioni dei servizi. Tra l' altro, in una procedura di dichiarazione di abbandono, e quindi con sentenza di adottabilità - dove i genitori biologici si erano resi effettivamente autori di condotte estremamente pregiudizievoli nei confronti dei figli - il servizio non avrebbe comunicato al tribunale che erano state individuate coppie e già lì collocati i minori. Tutto questo nonostante l' ordine esplicito di trovare famiglie affidatarie «di concerto con i giudici». Un' attività, quindi, che avrebbe indotto in errore tanto la Procura quanto lo stesso tribunale per i minori, che ora vuole vederci chiaro.
BIBBIANO, VE LA FAREMO PAGARE. Enrico Lorenzo per “la Stampa” il 26 luglio 2019. «Muori tu e la tua famiglia», «fate bene ad avere paura state attenti in giro». È incessante il flusso di minacce che sta investendo gli amministratori e i dipendenti pubblici dei comuni della Val d' Enza dopo l' esplosione dell' inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti di minori. Ecco perché il municipio di Bibbiano, la sede locale del Partito Democratico e quella dei servizi sociali della Val d' Enza che si trova nella frazione di Barco, sono diventati da qualche giorno «sorvegliati speciali» e vigilati «notte e giorno» da pattuglie della polizia e dei carabinieri. Le misure sono in vigore da prima della visita di martedì scorso del ministro dell' Interno Matteo Salvini, incontrato poi dai sindaci che hanno lamentato lo stato di insicurezza degli uffici pubblici.
Gli uffici chiusi a chiave. Una situazione diretta conseguenza del clima di rancore che si è addensato intorno agli amministratori dopo l' inchiesta sui bimbi tolti alle famiglie dai servizi sociali. Il bersaglio prediletto delle minacce è Bibbiano. Il sindaco Andrea Carletti è ancora ai domiciliari, arrestato nell' inchiesta per abuso d' ufficio. In queste ore il vice sindaco sta valutando il trasferimento della sede di alcuni uffici per motivi di sicurezza degli operatori e per garantire il regolare svolgimento dei servizi di welfare. In municipio sono arrivate lettere al vetriolo, altre con dentro escrementi, due delle quali giunte da Bologna e due addirittura dalla Sicilia.
L' odio sui social network. Senza scordare le decine di mail e le centinaia di commenti scritti sui social network. Pochi giorni fa si sono però presentati anche i rappresentanti della cosiddetta "Banda degli Idraulici" che, casco in testa, sono entrati negli uffici comunali di Bibbiano per consegnare un pacchetto agli impiegati. Conteneva materiale organico. Alcuni dipendenti sono talmente esasperati da chiudersi a chiave negli uffici durante l' orario di lavoro. Intanto stanno raccogliendo tutte le minacce (lettere, telefonate, post) giunte in questi giorni, consegnate poi ai carabinieri di Bibbiano. «Tutti i dipendenti, quindi, non solo chi lavora nei servizi sociali, subiscono minacce quotidiane» di ogni genere, anche di persona, avvertono ora i sindacati che hanno chiesto di mettere in campo «tutti gli strumenti utili a garantire agli operatori dei servizi e al restante personale amministrativo dell' Unione la sicurezza necessaria per poter adempiere al meglio ai propri compiti». Ieri è saltato all'ultimo momento l' incontro tra una bimba e i genitori, che non si vedevano da due anni. Troppa la pressione mediatica sulla vicenda: il tutore ha preferito posticipare l'abbraccio tanto agognato dalla bimba, che scrisse una lettera accorata al padre, mai consegnata dagli assistenti sociali.
L' appuntamento rimandato. I tre dovevano trovarsi nella stessa stanza dopo anni passati senza potersi toccare né vedere. Il quadro familiare doveva ricomporsi con l' accordo del giudice che sta vagliando la causa di separazione dei due genitori. Una svolta anche sulla base dell' inchiesta, che ha messo il caso della ragazzina ora dodicenne al centro delle complesse indagini. Secondo gli assistenti sociali era stata vittima di abusi sessuali ma per la Procura di Reggio Emilia quei report che giustificavano l' affido erano in realtà falsi, accusa che ha aperto uno squarcio sul sistema di tutela della Val d' Enza.
Tutela dei minori. «Mai più bimbi strappati alle loro famiglie». Simona Musco il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. Tutela dei minori. Al centro del protocollo la proposta del Cnf di puntare sull’avvocato “dei bimbi”. Il Viminale rilancia l’invettiva contro i rom «i tribunali vadano lì a fare controlli». «Perché i Tribunali dei minori non vanno nei campi rom per tutelare quelle migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente, preferendo purtroppo in moltissimi casi introdurli alla delinquenza?» La domanda del ministro dell’Interno Matteo Salvini arriva al termine della conferenza stampa congiunta con il ministro per la Disabilità e la famiglia Alessandra Locatelli, con la quale ha firmato un protocollo d’intesa per azioni congiunte sulla tutela dei minori, intesi come soggetti di diritto. Azioni finalizzate anche e soprattutto alla revisione del sistema degli affidi, per ridurli al minimo possibile. Anche se i rom, come già evidenziato durante la sua visita a Bibbiano, da dove è partita l’indagine che ha dato il via alle task force dei due ministeri e di quello della Giustizia, per il capo del Viminale sono un caso a parte.
Sistema degli affidi in crisi. Il patto tra i due ministeri parte dalle segnalazioni già arrivate al Dipartimento per le politiche della famiglia da parte di privati e dal terzo settore su presunte criticità del sistema degli affidi, oltre che dal caso Bibbiano, attorno al quale il Parlamento ha deciso di istituire una Commissione d’inchiesta. «Il mio impegno è quello di tutelare per prime le famiglie, i minori, i più fragili – ha affermato Locatelli – Nel tentativo di fare questo ho fatto delle audizioni e ascoltato persone che hanno voce in capitolo sui temi che riguardano la tutela dei minori».
L’avvocato del minore. Dall’ordine degli assistenti sociali a quello degli psicologi, dalla polizia ai carabinieri, passando per Cnf, tavolo affidi e Garante per l’Infanzia, gli incontri hanno portato sulla scrivania del ministro diverse proposte, che verranno riversate in un documento da consegnare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con un’ipotesi di riforma del sistema. E lo spunto centrale, ha spiegato Locatelli, è quello che riguarda la figura dell’avvocato del minore, suggerita dal presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, e accolta anche da Salvini. «L’avvocato del minore è stato il fulcro dell’incontro con il Cnf e con altre realtà che ci hanno ricordato quanto un bambino non sia solo oggetto di tutela ma anche oggetto di diritti, che possono essere tutelati da una terza persona – ha spiegato Locatelli – che potrebbe essere una figura come quella dell’avvocato del minore, che si affianca a quella, che già esiste, del curatore e che possa veramente fare le parti del bambino e non le parti di chi litiga. È qualcosa che va approfondito, integrato e discusso, ma è un ottimo spunto di riflessione per tutti, per mettere al centro il bambino». Il protocollo è un punto di partenza per altri progetti mirati per la formazione, ma anche per un tavolo operativo che si occuperà di esaminare caso per caso. E il numero degli affidi in Italia, ha affermato Salvini, «è impressionante» : partendo da una distinzione tra le vere case famiglia e quegli istituti «che invece fanno business e tengono sotto sequestro migliaia di minori e grazie a loro fatturano milioni di euro», i minori ospiti in comunità sono «50mila».
I dubbi di Salvini. «Io penso che portare via un bimbo a mamma e papà sia l’ultima delle ultime scelte da fare in caso di violenze evidenti e in caso di mancanze economiche che non permettono una vita tranquilla ha sottolineato – Non penso che ci siano 50mila casi del genere». I casi di Bibbiano sono la dimostrazione «che in quel sistema qualcosa non funzionava, perché a denuncia archiviata non è corrisposto il ritorno a casa del bambino strappato alla famiglia», ha aggiunto. Il caso di cronaca è, dunque, lo spunto «per rivedere l’intero sistema del diritto di famiglia», magari introducendo «il reato di alienazione parentale», così come in altri Paesi europei. «Utilizzare i bambini come mezzo di ricatto per la risoluzione di conflitti che riguardano gli adulti è una cosa indegna di un paese civile», ha sottolineato. Una «fattispecie oggettiva», dunque, come la povertà, «che è una di quelle fattispecie che hanno permesso di portare via i bimbi alle loro famiglie – ha sottolineato – Ma se questa fattispecie riguarda una persona che lavora con il posto fisso, in ospedale, da 20 anni ( facendo riferimento al caso di una donna incontrata a Bibbiano, ndr) allora mi domando che concetto di povertà ci dovrebbe essere nei campi rom. Anche qua tutto sta nell’uomo o nella donna che applica la norma, nella scienza e coscienza degli assistenti sociali e nei giudici dei minori che decidono che fare o non fare».
Revisione della legge. La proposta di Salvini è quella di una revisione anche della legge sull’affido condiviso, così come di tutto il diritto di famiglia. Idee che partono dal protocollo, punto di partenza per un «rafforzamento della cooperazione tra i soggetti istituzionali», per definire e adottare strategie operative relative all’attività delle comunità residenziali che accolgono i minori e al sistema degli affidi familiari, ma anche per promuovere la raccolta dati e il monitoraggio sul sistema, con a corredo campagne di sensibilizzazione e informazione. Una collaborazione che dovrebbe istituzionalizzare un metodo che consenta a tutti coloro che sono in contatto con i minori di captare i primi segnali di abusi e violenze e attivare subito idonee misure di protezione. L’accordo prevede, entro due mesi dalla firma, l’istituzione di un tavolo di lavoro, con il compito di definire strategie e modalità operative.
Caso Bibbiano, la responsabile dei servizi prometteva affidi senza scadenza. Federica Anghinolfi, agli arresti domiciliari, intercettata mentre parlava con associazioni Lgbt. E spuntano anche falsi provvedimenti. Zingaretti: "Duri coi responsabili e con gli sciacalli". La Repubblica il 26 luglio 2019. Prospettava la possibilità di dare in affido minorenni senza scadenza. E' quanto emerge da un'intercettazione agli atti dell'inchiesta Angeli e Demoni, seguita dalla Procura e dai carabinieri di Reggio Emilia: la dirigente del servizio sociale della Val d'Enza, Federica Anghinolfi, agli arresti domiciliari, ne avrebbe parlato con coppie che fanno parte di associazioni lgbt di una città del Sud Italia. Le coppie le domandavano degli affidi temporanei, dicendosi preoccupate del fatto di potersi affezionare ai bambini e poi di perderli, se questi avessero fatto ritorno a casa. Anghinolfi li rassicurava dicendo che se i genitori continuavano a essere ritenuti inadeguati dalle relazioni dei servizi sociali, i figli potevano anche non tornare mai nelle famiglie di origine, rimanendo "sine die" con gli affidatari. Di fatto, come un'adozione. Anghinolfi è figura chiave nell'inchiesta dove si contestano anche lavaggi del cervello ai minori, abusi inventati e relazioni dei servizi sociali falsate che hanno avuto l'effetto di togliere i bambini alle famiglie di origine.
Affidi fantasma. Non solo. Emerge anche il caso di affidi fantasma, cioè bambini sulla carta affidati a una donna, che in realtà non li ha mai accolti a casa. La circostanza emerge dalle carte dell'inchiesta: ne dà notizia il Resto del Carlino. E' la donna nominata affidataria a raccontare che l'affido a suo nome fatto da Federica Anghinolfi, era falso. "Non ho fatto nessuna accoglienza, non conosco le loro storie, né i loro genitori - la sua testimonianza - Li conosco solo per il fatto che a pranzo cucino per loro come per tutti gli altri", in una struttura di aggregazione giovanile dove lavorava come cuoca. "Mi fu consegnato un foglio dove Federica diceva che mi dava in 'affido sostegno' tale bambino" e "mi chiese di diventare un tramite per il pagamento delle spese di psicoterapia, senza precisarmi il perché". Secondo il gip con il documento falso è stata predisposta la pezza d'appoggio per far ottenere alla donna una sorta di retribuzione, inserendo la voce nel bilancio dell'Unione come "rimborso spese affido".
Clima di pressioni e minacce a Bibbiano. Ieri intanto, come riferisce Gazzetta di Reggio, è saltato, anche per la troppa pressione attorno alla vicenda l'incontro tra i genitori naturali e uno dei minori coinvolti nell'inchiesta e allontanato sulla base di relazioni dei servizi sociali che secondo la Procura non sono veritieri. Inoltre, non si attenua il clima di minacce e intimidazioni nei confronti dei dipendenti pubblici dell'Unione della Val d'Enza, segnalato dai sindacati. Per questo il prefetto di Reggio Emilia ha disposto un rafforzamento della vigilanza al municipio di Bibbiano, alla sede dei servizi sociali e a quella locale del Pd. Intanto quattro dei sei bambini coinvolti nell'inchiesta sono tornati a casa. Lo ha stabilito il Tribunale dei minori di Bologna che sta controllando tutti i casi al centro dell'indagine e degli ultimi due anni. Questi quattro ricongiungimenti sono avvenuti prima del 27 giugno, giorno in cui sono scattati gli arresti e le misure cautelari per 18 persone: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, la dirigente Anghinolfi, assistenti sociali e tre psicoterapeuti della Onlus Hansel e Gretel tra cui Claudio Foti.
Miur sospende accreditamento con la Onlus Hansel e Gretel. Dopo i fatti di Bibbiano, a quanto si apprende, il 17 luglio il Miur ha sospeso dalla piattaforma Sofia per la formazione degli insegnanti l'associazione Hansel e Gretel. Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda l'utilizzo della Carta del docente, strumento usato dagli insegnanti per comprare anche alcuni corsi di formazione.
Zingaretti: "Duri coi responsabili e gli sciacalli". Oggi Nicola Zingaretti, segretario del Pd, con una lettera alla Gazzetta di Reggio, è intervenuto sul caso degli affidi illeciti di Bibbiano: "Vigilerò perché si faccia la massima chiarezza e sia punito senza pietà ogni tipo di responsabilità. E vigileremo perché si assicuri tutta la protezione di cui hanno bisogno ai minori che stanno affrontando una prova difficilissima". Zingaretti, però, mette in guardia anche dalle strumentalizzazioni. "Abbiamo denunciato e denunceremo - prosegue - chiunque in maniera scellerata e irresponsabile sta strumentalizzando questa vicenda per raccattare voti e fare sulla pelle di bambini, campagne di denigrazione di avversari politici. Tipico di chi non ha argomenti e di tanti sciacalli che popolano oggi il palcoscenico della brutta politica. Una preghiera e un appello: stop a questa insensata spirale di odio e ogni genere di speculazione, nel rispetto dei bambini, delle famiglie, delle comunità scosse da questa vicenda". Il Pd, dice Zingaretti, seguirà l'indagine della magistratura "e si costituirà parte civile nell'eventuale processo. Siamo e saremo in prima linea per chiedere che nelle indagini vengano garantite massima velocità e chiarezza. Parallelamente ci batteremo in parlamento per migliorare il regime degli affidi, aumentando controlli e trasparenza. Nessuno scherzi con la vita dei bambini".
Bibbiano, nuovi dettagli choc: spuntano gli affidi "fantasma". Dalle carte emerge che una donna, per poter lavorare, doveva fingersi affidataria di un minore. Costanza Tosi, Venerdì 26/07/2019, su Il Giornale. Era stata nominata affidataria di due bambini, ma la donna, quei piccoli, non li ha mai accuditi. Maria (nome di fantasia, ndr) sarebbe l'ennesima vittima dei servizi sociali della Val D’Enza. Gli stessi che, secondo la Procura di Reggio Emilia, avevano messo in piedi un presunto giro di affari illecito denunciato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Ma andiamo con ordine. Tutto è iniziato quando i servizi sociali approfittarono dei problemi economici della donna che, trovandosi in difficoltà, cadde nella trappola dei “demoni”, come racconta Il Resto del Carlino. Maria si era rivolta ai servizi sociali della Val d’Enza, indirizzata dal centro per l’impiego. “Feci un tirocinio di segreteria, percependo 550 euro mensili per i primi sette mesi”. Fu proprio in quell’occasione che la signora incontrò Federica Anghinolfi - dirigente dei servizi sociali, ora agli arresti domiciliari - alla quale chiese aiuto. “Le domandai di poter lavorare, e lei mi propose come cuoca in una struttura pomeridiana di aggregazione giovanile in Val d’Enza per tre volte alla settimana in cambio di 360 euro al mese. Mi disse che era necessario formalizzare la mia attività attraverso un documento”. Un semplice contratto. Che si rivelò, poi, una vera e propria truffa. Per lavorare in cucina, Maria doveva prendersi carico dell’affido di due minori. O, almeno, così era scritto sulla carta. “Mi fu consegnato un foglio dove Federica indicava che mi dava un bambino in affido sostegno”. Ma, di fatto, la donna quel bambino non lo ha mai accolto in casa sua. Una storia che si è ripetuta anche l’anno successivo. Un contratto, un bambino. Era questo l’accordo. “In realtà, né nel 2017, né nel 2018 diedi ai due minori alcuna accoglienza. Li conosco solo perché a pranzo cucino per loro e per tutti gli altri ragazzi. Non conosco le loro storie e neppure chi siano i genitori”. Ma quale era il ruolo di Maria? A cosa servivano le dichiarazioni di questi affidi fantasma? A spiegarlo è proprio lei, che racconta, riferendosi a Federica Anghinolfi: “Mi chiese di diventare un tramite per il pagamento delle spese di psicoterapia, senza precisarmi il perché”. Funzionava così: “Da quel momento i servizi sociali, a cui il centro ‘Hansel e Gretel’ trasmette le fatture a me intestate per la psicoterapia del minorenne, mi anticipano ogni mese la somma sul mio conto. Poi io, come da indicazioni di Federica, faccio un bonifico alla ‘Hansel e Gretel’”. Insomma, la cuoca doveva pagare le visite di psicoterapia dei bambini che non teneva in affido. Come conferma anche la madre del piccolo: “Mio figlio è sempre rimasto a casa, sotto la supervisione dei servizi sociali. Sono sbalordita, ero all’oscuro di tutto. Non conosco questa signora e mio figlio non le è mai stato affidato”. Un tranello pensato nei dettagli e tutto, per far uscire i soldi da dare alla cuoca dai fondi dell’Unione dei Comuni. Come sostengono le carte: “Attraverso il documento falso è stata predisposta la pezza d’appoggio per dare alla cuoca una sorta di retribuzione in assenza di assunzione formale, facendo inserire la voce di spesa nel bilancio dell’Unione dei Comuni come “rimborso affidò per il bambino”.
La bambina del «caso pilota»: strappata con una telefonata, ora riabbraccia nonni e papà. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Alessandro Fulloni, inviato a Bibbiano, su Corriere.it. Questa storia, che adesso ha il lieto fine, del ritorno a casa (il mese scorso) di una bimba di circa dieci anni era cominciata così, con una brusca telefonata. «Non venga più a prendere sua nipote a scuola, non ce n’è bisogno: la bambina è stata trasferita in un altro istituto e ora penseremo noi a tutto. Non vivrà più con lei». Clic. Conversazione finita. Da una parte una voce che proveniva dai servizi sociali della Val d’Enza. Dall’altra la sbigottita nonna di una bambina che aveva in affido: questo perché suo figlio era diventato papà assai giovane, a 17 anni. Mentre la sua compagna partorì a 14. Considerati immaturi dai servizi per crescere un figlio, è il «caso pilota» — per usare l’espressione del gip Luca Ramponi — dell’intera inchiesta condotta dalla procura di Reggio Emilia sui falsi affidi. Questo perché un disegno fatto dalla bimba (c’è lei accanto al nuovo compagno della mamma) secondo l’accusa fu modificato da una psicoterapeuta della Ausl. Due lunghe braccia della bimba andarono innaturalmente a toccare in modo ambiguo l’adulto. Un’aggiunta fatta per dimostrare abusi (inesistenti) da parte di lui. Sulle carte giudiziarie c’è scritto che i genitori-ragazzini della bimba si lasciarono dopo tre anni dalla nascita di lei. Per questo i servizi sociali la affidarono alla nonna. «Poi però ci hanno ripensato: strappandola anche all’anziana», racconta Natascia Cersosimo, 44 anni, consigliera 5 Stelle a Cavriago e capogruppo del Movimento all’Unione Val d’Enza, l’associazione di otto Comuni reggiani il cui dipartimento al sociale è stato azzerato. Natascia conosce bene la nonna della piccola, sono amiche da tanto tempo e soprattutto conosce bene la vicenda dei falsi affidi tanto da aver chiesto, un anno fa, spiegazioni per quei numeri che le suonavano strani: «Troppe denunce per violenze familiari. E soprattutto troppi affidi: oltre 1.000 nel 2016 in Val d’Enza, che conta 50 mila abitanti. Rivaleggiavano con Bologna che ha 400 mila residenti. Mi risposero che era perché il servizio funzionava». Non così deve averla pensata la nonna della piccola. Subito dopo la brutale telefonata dei servizi la donna corse dai carabinieri per denunciare ciò che le parve «una mostruosità incomprensibile». Le carte raccontano che alla piccola — prima ospite in una casa protetta, poi in affido a una coppia — venne chiesto più volte dalle psicoterapeute (con le opportune cautele nell’uso delle parole) di eventuali violenze. La bimba ha sempre negato e nemmeno la visita ginecologica alla quale venne sottoposta dimostrò alcunché. La svolta nella storia è arrivata con il via dell’inchiesta. Coordinandosi con la Procura, il Tribunale dei minori di Bologna ha ricontrollato tutti gli atti del fascicolo. Compreso il disegno, falsificato pure secondo una perizia voluta dall’accusa. Dopo il decreto firmato dai giudici minorili, la piccola è tornata a casa, dai nonni (presso i quali vive anche il padre). «L’ho vista diverse volte», racconta la consigliera Cersosimo, «mi è sembrata una bambina felice».
Verso la promozione il presidente del Tribunale per i minori di Bologna, scrive Francesco Borgonovo su La Verità il 20 luglio 2019. Giuseppe Spadaro guida il Tribunale dei Minori competente sui casi di Bibbiano e per questo ispezionata dal ministero. Per lui un ci sarebbe l’incarico di procuratore capo a Roma. Famose le sue sentenze pro adozioni arcobaleno. La lobby gay, che controlla settori della magistratura e della politica, premia il proprio benefattore.
Contro gli abusi sugli abusi. L’indagine a Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori sulla base di finti abusi è un’occasione per vaccinare l’Italia da chi trasforma i processi in caccia alle streghe. Ermes Antonucci su Il Foglio il 9 Luglio 2019. Un sano approccio garantista e il ricordo dei tanti processi mediatici poi finiti nel nulla dovrebbero indurre a esaminare con molta prudenza il caso di Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori dalle proprie famiglie sulla base di finti abusi. Angela Lucanto, Bassa modenese, Rignano Flaminio, Reggio Emilia. C’è un filo che collega alcuni casi di abusi che non lo erano L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dalla pm Valentina Salvi, ha portato all’adozione di misure cautelari per 18 persone...
Come ti plasmo il giudice antiabusi. Indagine sul Cismai, che insegna la sua ideologia inquisitoria perfino al Csm. Ermes Antonucci su Il Foglio il 24 Luglio 2019. Il Consiglio superiore della magistratura e la Scuola superiore della magistratura hanno promosso per anni corsi di formazione per i magistrati italiani incentrati sulle idee (non riconosciute dalla comunità scientifica) del Cismai, l’associazione al centro di decine di processi per presunti abusi su minori poi conclusi con clamorose assoluzioni e ora coinvolta nel caso di Bibbiano. In un precedente articolo, pubblicato lo scorso 9 luglio, abbiamo sottolineato come siano stati proprio gli assistenti sociali e gli psicologi affiliati al Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia) a svolgere le perizie su cui si sono basati numerosi processi per accuse di abusi su minori poi smentite (Angela Lucanto, i “Diavoli della Basse modenese”, Rignano Flaminio), e come ora questi stessi professionisti siano al centro dell’inchiesta di Reggio Emilia sul presunto giro di affidi illeciti di minori nei comuni della Val d’Enza. Al centro dell’indagine vi è la onlus Hansel e Gretel, diretta dallo psicoterapeuta Claudio Foti, da sempre tra i principali sostenitori del Cismai e ora indagato. La stessa onlus, come abbiamo rivelato, è stata iscritta per anni al Cismai. Lo stesso Cismai, inoltre, risulta essere tra i soggetti che hanno collaborato all’organizzazione di un convegno tenutosi il 10 e 11 ottobre 2018 a Bibbiano dedicato ai primi due anni di esperienza del centro La Cura, ora al centro dell’indagine della procura di Reggio Emilia, in cui operavano gli operatori della onlus Hansel e Gretel. Al convegno intervenne con una relazione anche Gloria Soavi, presidente del Cismai. Nelle ultime settimane anche altri giornali ha ricostruito la serie di casi giudiziari controversi che hanno coinvolto gli affiliati al Cismai. Il Fatto quotidiano ha ricordato la tremenda vicenda di Sagliano Micca (Biella) del 1996, in cui un’intera famiglia, incolpata ingiustamente di abusi sessuali, si suicidò nel garage della propria abitazione. Panorama ha rintracciato casi simili di famiglie distrutte sulla base di accuse infamanti di abusi, poi smentite dai giudici, anche a Salerno, Pisa, Arezzo e Cagliari. A prescindere dai recenti fatti di Bibbiano, su cui si esprimerà la magistratura, abbiamo fatto notare come il vero problema sia costituito dal metodo utilizzato dal Cismai, e quindi da centinaia di professionisti sparsi per il paese, per l’ascolto dei minori, che spinge a rintracciare abusi sessuali anche quando non ci sono. Una metodologia (enunciata nella “Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale” del Cismai) elaborata da una commissione interna alla stessa associazione e respinta dalla comunità scientifica, che invece si riconosce in alcuni testi ben più rigorosi e frutto di in un intenso lavoro del mondo scientifico e accademico, come la Carta di Noto e le linee guida della Consensus Conference. Tuttavia, la metodologia del Cismai (tutta incentrata sulla convinzione che l’abuso sessuale sui minori sia un “fenomeno diffuso” e “in grande prevalenza sommerso”, che gli adulti non vadano ascoltati perché “quasi sempre negano” e che l’abuso debba essere rintracciato anche in assenza di rivelazioni del minore, grazie a un approccio “empatico” da parte degli operatori) ha fatto proseliti, tanto da permettere a Foti e ai vertici del Cismai di tenere negli ultimi anni convegni e corsi di formazione per psicologi, assistenti sociali ed educatori. Ma non è tutto. Il Foglio, infatti, è in grado di rivelare che sia Gloria Soavi, presidente del Cismai, sia Claudio Foti hanno avuto la possibilità di formare anche magistrati. La prima risulta essere stata tra i relatori di un corso di formazione di tre giorni (15-17 gennaio 2018) dedicato alla “pratica del processo minorile e civile”, organizzato a Scandicci dalla Scuola superiore della magistratura, alla quale dal 2006 è attribuita la formazione iniziale e permanente delle toghe, ma questo potrebbe non essere stato l’unico coinvolgimento di Soavi nei corsi della Scuola. Dall’altra parte, Claudio Foti è stato relatore di incontri di studio promossi dal Consiglio superiore della magistratura per ben sette anni (1990, 2001, 2003 e dal 2006 al 2009). Alcuni di questi corsi sono stati riservati a magistrati in tirocinio, cioè a magistrati che stavano svolgendo il loro percorso di formazione dopo il superamento del concorso, prima di essere destinati a svolgere le funzioni di requirenti e giudici dei minori.
Sappiamo anche che gli incontri di studio tenuti da Foti e promossi dal Csm sono stati incentrati proprio sulle teorie su cui si fonda la metodologia del Cismai.
Tra i materiali allegati agli incontri di studio tenuti da Foti il 4 ottobre 2007 e il 17 giugno 2008 a Roma, e promossi dal Csm, vi è ad esempio un articolo pubblicato dallo stesso Foti sulla rivista Minorigiustizia e dedicato al tema del “negazionismo dell’abuso sui bambini”, paragonato addirittura al negazionismo dei genocidi: “Non esiste storia di un genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare che a ben vedere genocidio non c’è stato”. Secondo Foti, infatti, “è necessario, anche se mentalmente impegnativo, prendere atto di due penose verità: a) l’abuso sessuale sui minori è un fenomeno che ha dimensione endemiche nella nostra cultura; b) nonostante le sue dimensioni massicce, il fenomeno è destinato per molti aspetti a restare sommerso ed impensabile”. Esattamente le premesse enunciate nelle linee guida del Cismai. Foti cita anche una pubblicazione di Marinella Malacrea e Silvia Lorenzini (Malacrea è neuropsichiatra infantile e socio fondatore del Cismai), per criticare la corrente scientifica che promuove l’adozione di criteri rigorosi nell’ascolto dei minori, e che per questo contribuirebbe ad aumentare il rischio di falsi negativi, cioè di situazioni in cui l’abuso sarebbe avvenuto ma non viene rilevato: “La corrente scientifica che avvalora una giusta prudenza in vista del rischio di creare falsi positivi rischia di trasformarsi in cortocircuito che spinge a ‘diffidare’ comunque, senza possederne analiticamente le ragioni. E quindi, in definitiva, si arriva ad incrementare il numero di falsi negativi, pur nello sforzo in buona fede di evitare i falsi positivi”. Foti si spinge addirittura ad affermare che “i dati relativi alle false accuse non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie”, perché “non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tenere conto, giustamente ed inevitabilmente, del parametro delle prove ed inoltre risulta spesso condizionata vuoi da modalità d’indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici”. Insomma, se una denuncia per abusi su minori viene smentita in sede giudiziaria, significa che probabilmente la giustizia ha sbagliato. In un altro passaggio, Foti cita una pubblicazione di Paola Di Blasio e Roberta Vitali (anche Di Blasio, docente di Psicologia all’Università Cattolica di Milano, è associata al Cismai), per sostenere che “non si è mai riusciti a dimostrare in chiave sperimentale la possibilità di instillare un falso ricordo se non riguardante un episodio in qualche modo plausibile, familiare per il soggetto su cui s’intende effettuare l’esperimento. Non è dunque assolutamente legittimo affermare che le domande induttive o suggestive abbiano di per sé il potere di costruire un falso ricordo di un episodio implicante un contatto corporeo e violento in assenza di psicopatologia diagnosticabile o di intenzionalità suggestiva di colui o colei che pone le domande”. Foti scrive anche che “ogni rivelazione di abuso, anche se confusa e frammentaria, merita approfondimento”, rievocando in maniera quasi identica una delle raccomandazioni presenti nelle linee guida del Cismai (“la rivelazione va sempre raccolta e approfondita, anche se si presenta frammentaria, confusa, bizzarra”). Nel materiale allegato a un altro incontro di studio tenuto il 3 dicembre 2008 a Roma, sempre promosso dal Csm, Foti cita alcune statistiche elaborate sempre da Marinella Malacrea (socio fondatore del Cismai) per dimostrare che gli abusi sessuali sui minori sono largamente diffusi nella nostra società. Afferma pure che un problema nel contrasto agli abusi è rappresentato dagli “avvocati e psicologi specializzati nella difesa di indagati e di imputati di reati sessuali sui minori”, che “tendono a sviluppare tesi funzionali alla difesa dei loro assistiti, cercando di dimostrare essenzialmente che l’abuso sessuale è spesso presunto erroneamente, che alto è il rischio di falsi positivi e che comunque non esistono procedure psicologiche o giudiziarie per accertare con sufficiente certezza un abuso eventualmente sussistente”. E conclude, infine, affermando di nuovo che “non si può introdurre nella mente di un bambino un falso ricordo che non sia in qualche modo plausibile, già presente nei suoi script interni”. E’ sufficiente leggere i contenuti dei testi allegati a questi corsi di formazione per comprendere i rischi di una loro applicazione da parte dei magistrati, inquirenti o giudici, nel momento della valutazione delle denunce di abusi sessuali su minori. Non sappiamo quanti e quali magistrati abbiano partecipato alle giornate studio tenute da Soavi e Foti, né se le linee guida del Cismai illustrate nei corsi siano state poi effettivamente applicate dai magistrati. Ci sono però alcune coincidenze interessanti. L’unica sede distaccata da Roma in cui Foti ha svolto un corso di formazione promosso dal Csm (il 29 febbraio 2008) è Salerno, dove le idee del Cismai si sono molto diffuse tra gli operatori. Proprio a Salerno negli ultimi anni sono emerse diverse vicende di denunce di abusi su minori che, dopo aver distrutto intere famiglie, si sono rivelate infondate. Queste denunce sono state raccolte proprio da assistenti sociali, psicologi e neuropsichiatri affiliati al Cismai, e poi portate avanti da magistrati. Rosaria Capacchione su Fanpage ha notato che una delle psicologhe della onlus Hansel e Gretel, Alessandra Pagliuca, dopo essere stata tra le tre psicologhe che alla fine degli anni Novanta collaborarono all’inchiesta sui “diavoli della Bassa modenese” (tra queste vi era anche Cristina Roccia, ex moglie di Foti), recentemente ha raccolto le denunce dell’esistenza di presunte sette sataniche in provincia di Salerno. Nel 2007 le denunce hanno portato a un’inchiesta che poi non ha prodotto alcun risultato. Antonio Rossitto su Panorama ha raccontato la vicenda, avvenuta sempre a Salerno, di un professore accusato di aver abusato delle figlie. Il caso andava verso l’archiviazione ma fu riaperto dopo il parere di Claudio Foti. Dopo un lungo processo durato nove anni, il 13 novembre 2015 l’uomo è stato assolto dal tribunale di Salerno, che ha criticato il metodo utilizzato da Foti, definendolo “un approccio contestato dal mondo scientifico”. A questa serie di orrori giudiziari in terra salernitana siamo in grado di aggiungere almeno altri tre casi. Tutti i casi coinvolgono la neuropsichiatra infantile Maria Rita Russo, dirigente all’Asl di Salerno del servizio Not contro il maltrattamento dei minori, che, oltre ad aver condiviso con Foti la partecipazione a numerosi convegni e seminari sull’“ascolto delle emozioni” dei bambini, è stata tra i promotori (insieme anche ad Alessandra Pagliuca e alla onlus Hansel e Gretel di Foti) di un’associazione denominata “Movimento per l’infanzia”, presieduta dall’avvocato Girolamo Andrea Coffari, oggi legale di Claudio Foti.
Il primo caso riguarda un tenente colonnello dei carabinieri, accusato nel 2009 dall’ex moglie di aver abusato sessualmente del figlio di appena due anni e mezzo. A raccogliere la denuncia dell’ex moglie e ad ascoltare il minore fu proprio Maria Rita Russo, alla presenza della stessa madre del bambino, che partecipò attivamente ai colloqui. In seguito ai colloqui Russo rintracciò tracce di abusi sessuali nei confronti del minore e segnalò il caso alla procura. Il padre (difeso dall’avvocato Cataldo Intrieri) venne rinviato a giudizio ma, dopo un calvario lungo cinque anni, venne assolto in rito abbreviato dal gup di Salerno. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice sottolinea la “fragilità dell’intero impianto accusatorio, sia per l’inconsistenza dei pochi elementi d’accusa effettivamente documentati, insufficienti perfino a delineare un’effettiva notizia di reato, sia per l’incredibile approssimazione con cui, a giudizio dei periti, sono state eseguite le indagini tecniche di parte, in larga misura caratterizzate dalla clamorosa e grossolana violazione dei più elementari criteri previsti dai protocolli nazionali ed internazionali comunemente accettati, in tema di ascolto del minore”. Il giudice, infatti, nota come le modalità di svolgimento delle interviste al bambino “abbiano completamente disatteso le regole basilari individuate dalla comunità scientifica e riportate, per limitarsi ai documenti più significativi, nelle Linee Guida sull’ascolto del minore testimone, redatte all’esito della Consensus Conference del 2010, e nella cosiddetta Carta di Noto”. In particolare, afferma il giudice, “non si è minimamente tenuto conto dell’età del bambino”, che all’epoca dei colloqui non aveva compiuto tre anni e “non disponeva della capacità testimoniale”, non sono stati considerati i possibili condizionamenti derivanti dalle prime audizioni, che non erano state videoregistrate, né il fatto che a gestire le conversazioni fosse stata in larga misura proprio la madre del bambino. Inoltre, aggiunge il giudice, “le domande sono state poste con modalità guidate, incalzanti, confusive, suggestive” e “sono state più volte reiterate, talora con esplicite raccomandazioni a non dire bugie, in modo da innescare quel meccanismo di ‘compiacenza’ che solitamente si produce quando il bambino, ancora in tenera età, viene messo in condizioni di rendersi conto di aver fornito una risposta non gradita e finisce quindi per assecondare i desideri dell’interlocutore, specie quando questi sia una figura di riferimento affettivo, con inevitabile compromissione dell’attendibilità del narrato”. Per questi fatti Maria Rita Russo è stata rinviata a giudizio con l’accusa di false dichiarazioni al pm.
Il secondo caso riguarda due genitori accusati di aver costretto i loro figli ad avere rapporti sessuali con la sorella e a subire stupri di gruppo da conoscenti. Le accuse, raccolte sempre da Russo, hanno condotto a una condanna in primo grado per tutti gli imputati con pene tra i 10 e i 13 anni di reclusione. Lo scorso 12 luglio, però, il verdetto è stato ribaltato dalla Corte d’appello di Salerno, che ha assolto gli imputati dalle accuse di abusi sessuali e stupro di gruppo, dopo una nuova perizia che affermava come fossero state “violate le regole raccomandate in materia di ascolto dei minori”. Ad assistere uno degli imputati è stato l’avvocato Gerardo Di Filippo, che ora sta seguendo altri casi simili, da cui emergerebbero anche preoccupanti commistioni tra magistrati (e in particolare giudici onorari) e le case famiglia dove vengono spediti i minori. Il fratello di Maria Rita Russo, peraltro, è Michelangelo Russo, ex giudice della Corte d’appello di Salerno, che su un giornale locale ha definito “negazionisti” i giudici e i periti di Salerno che hanno riconosciuto l’infondatezza di molte accuse di abusi su minori.
Il terzo caso riguarda presunti abusi compiuti sui bambini di un asilo di Coperchia da parte di bidelli e personale amministrativo. Anche qui, nel corso del processo al tribunale di Salerno, è emersa l’assenza di alcun riscontro oggettivo sugli abusi.
Insomma, dopo la Bassa modenese e Reggio Emilia, anche Salerno pare una polveriera pronta a esplodere. Ma la principale domanda da porsi è:perché il Csm e la Scuola superiore della magistratura hanno aperto le porte a una metodologia non riconosciuta dalla comunità scientifica, permettendo ai magistrati di formarsi su questo approccio?
Caso Bibbiano: così si fabbrica il "mostro" dei bambini in affido. Denunce, pressioni, imbeccate. Ecco le carte esclusive delle inchieste che mettono sotto accusa il metodo del prof. Foti. Antonio Rossitto il 25 luglio 2019 su Panorama. «Gentile dottore, trasmettiamo quanto di nostra conoscenza circa un’ipotesi di reato sulla bambina G. Il presunto reato sarebbe stato commesso dal padre». Comincia così una delle denunce inviate ai magistrati dai fabbricanti di mostri. A corredo, c’è l’usuale e allarmante relazione, che dettaglia le violenze più turpi. Mittente: il Centro studi Hansel e Gretel di Moncalieri, diventato negli anni la Santa inquisizione di supposti molestatori e pedofili. Ma le inchieste scaturite da queste segnalazioni spesso non sono servite a smascherare padri incestuosi o insegnanti perversi. Si sono trasformate piuttosto in virulente gogne giudiziarie, concluse con assoluzioni e proscioglimenti. Famiglie sgominate da un sistema adulterato. Quello che ora è finito sotto accusa a Reggio Emilia. Gli orrori di Bibbiano: figli tolti ai genitori senza apparenti motivi, pressioni psicologiche sui bambini, interessi economici latenti. Agli arresti domiciliari sono finiti proprio il fondatore di Hansel e Gretel, Claudio Foti, e la moglie, Nadia Bolognini, terapeuta della onlus specializzata in psicologia infantile. «Gentile dottore» è l’incipit della missiva che, vent’anni fa, avvia anche l’inchiesta su Sergio. L’uomo viene denunciato dall’ex compagna per aver molestato la figlia di otto anni. La madre della bambina, preoccupata per un arrossamento ai genitali, si rivolge quindi a Foti. Un consulto che diventa un’istruttoria. Il dottore le suggerisce di partecipare allo «psicodramma», seduta collettiva con mamme e ipotetiche vittime. Una specie di teatrino per far emergere i racconti degli abusi. Gioco pericoloso e suggestivo. Ma il fine giustifica i mezzi. Sempre. Bisogna scovare gli orchi. Pazienza se la furia colpevolista travolge qualche innocente. Dopo gli incontri con il fondatore di Hansel e Gretel, la donna rafforza la sua convinzione: violenza c’è stata. Intanto, la figlia comincia a essere seguita dall’ex moglie di Foti, Cristina Roccia: la psicoterapeuta che, nello stesso periodo, viene coinvolta nelle indagini sui «Diavoli della bassa», un altro caso di falsi abusi a Mirandola. Roccia vede la giovane quattro volte in un solo mese. Poi, assieme a Foti, firma una preoccupata relazione che manda alla procura di Torino. Diagnosi netta: «Quadro più che compatibile con una situazione di rapporti incestuosi tra padre e figlia». Certo, qualcosa non torna. La bambina nega i fatti, ma è un evidente segno «del conflitto tra ricordare e dimenticare». E anche gli incubi notturni sono «segnali tipici dei minori traumatizzati». Perfino i dissapori con la madre «sono compatibili con l’abuso sessuale». Inequivocabile. La procura, dunque, proceda. Uno schema che si ripete negli anni, da un caso all’altro. Spingendo gli investigatori a strepitosi fraintendimenti. Foti, del resto, ha sempre avuto grande ascendente sui magistrati. È stato giudice onorario del Tribunale dei minori di Torino, dove però imperversa anche come riverito accusatore. Lo dimostra una lettera rinvenuta da Panorama tra i corposi faldoni riesumati. Il fondatore di Hansel e Gretel scrive a un pm torinese, suggerendo accorgimenti procedurali. E non si esime da formulare «osservazioni critiche» su una decisione del tribunale: «Con i servizi sociali» lamenta «eravamo rimasti intesi su un provvedimento ben diverso». Una palese e rivelatoria ingerenza. Imbeccate, denunce, insistenze. Così Sergio, difeso da Elena Negri, finisce a processo. Viene assolto. Sentenza confermata in appello nel 2001. I giudici scrivono: «Le accuse di G. sono venute fuori dopo enormi sforzi e pressioni». Aggiunge: «Il centro Hansel e Gretel è stato il luogo in cui ha compiuto tanti incontri, ovviamente sempre mirati in un’unica direzione». Quella dell’abuso. A ogni costo. Sospetti tramutati in incrollabili certezze. L’avvocato Negri lo chiama «il pacchetto preconfezionato». Negli anni, s’è trovata a difendere almeno una decina di uomini, trascinati nell’inferno e poi assolti. «Lo schema si ripete» sostiene il legale. «Separazione burrascosa. La madre sospetta che l’ex marito molesti la figlia. La porta quindi dagli “abusologi”. Che, dopo visite orientate e domande preconcette, compilano una relazione di fuoco da inviare in procura. E i magistrati, nel dubbio, aprono l’inchiesta». Un frutto avvelenato. Lo stesso copione di un altro caso capitato a Torino. Un padre, Luciano, accusato d’indicibili sconcezze, avvenute durante una vacanza in montagna. Tutto campato per aria. «L’esame del colloquio registrato con la psicologa del centro Hansel e Gretel evidenzia modi d’ascolto della bambina non corretti, condizionanti e suggestivi» scrive lo psichiatra Mario Ancona, consulente della difesa. A maggio 2005 Luciano è assolto: non c’è «nessun indicatore di violenza sessuale». Nella sentenza, il collegio stigmatizza anche i metodi della specialista: «Ha sottoposto a un vero e proprio fuoco d’assedio» la minore. Definita, al contrario di quanto assicurato dagli esperti, «vivace, estroversa, priva di complessi e dotata di senso dell’umorismo». Vent’anni di condizionamenti e segnalazioni. Nel 2012 è ancora Hansel e Gretel a marchiare con una lettera scarlatta la fronte di Veneria, educatrice di una comunità per minori di Asti con cui il centro collaborava. Stavolta i protagonisti sono Foti e l’attuale moglie, Bolognini. Coinvolti nell’indagine «Angeli e demoni» a Reggio Emilia, sono adesso ai domiciliari per falso ideologico, frode processuale e depistaggio. Sei anni fa, furono anche loro ad accusare Veneria d’aver abusato di un’adolescente problematica: ospite della struttura di Asti e paziente della Bolognini. È proprio alla terapeuta che la turbolenta ragazza riferisce d’aver subito violenze e molestie dall’educatrice, con cui aveva rapporti conflittuali. Una ripicca? Nemmeno per sogno. Hansel e Gretel è granitica: diagnosi chiara. Affiora, pure stavolta, grazie dallo «psicodramma» inscenato da Foti. Che fa emergere, tra mimo e recitazione, la supposta scena madre del sopruso: l’educatrice entra nella stanza della ragazza, tentando un approccio sessuale. E di fronte al rifiuto, le blocca con forza i polsi. Brutalità interrotta dall’ingresso di una collega. Che però, di fronte ai pm, negherà l’episodio. Intanto, dopo la denuncia, Veneria viene licenziata dalla comunità. La sua abilitazione è a rischio. Per mantenersi fa le pulizie. Cinque anni negli inferi. Fin quando la donna, difesa dall’avvocato Aldo Mirate, viene assolta: il fatto non sussiste. Al perito nominato dal gip, la ragazza non ha confermato nessuna delle violenze denunciate da Hansel e Gretel. Non esiste «il minimo riscontro probatorio». Già. Come nel caso di un altro, sensazionale, abbaglio. Stavolta il teatro degli orrori è una scuola media di Luserna San Giovanni, vicino Torino. «La scuola dei satanisti» la ribattezzano i giornali dell’epoca. Selvaggi accoppiamenti tra professori e ragazzi. Bidelli che costringono gli alunni a bere strani intrugli. Messe nere in un santuario. Persino un prete, che obbliga quattro studentelli a uccidere un neonato e a bere il suo sangue. Nel copione c’è di tutto. Una sceneggiatura ideata da un fantasioso adolescente, pure lui paziente della Bolognini, con la complicità di una madre condizionabile. Che, a sua volta, si affiderà a Foti. Insomma: anche in questo caso, Hansel e Gretel diventano guida e supporto dell’inchiesta. Ad aprile 2005 finisce così in carcere un incolpevole insegnante di ginnastica: Gianfranco Cantù. Accusato dal ragazzino di abusi sessuali negli spogliatoi. Il professore nega disperato. Viene liberato solo tre mesi più tardi. Intanto il minore, dopo i colloqui con gli psicoterapeuti, arricchisce il suo racconto con episodi inverosimili: messe nere, ammazzamenti, orge. Versioni in parte poi confermate da due compagni di classe: isteria collettiva. Nascono, ancora una volta, gli orchi. «La scuola dei satanisti», appunto. La procura di Pinerolo indaga altri sei insegnanti, sospettati d’essere una setta di pedofili seguaci di Satana. La gogna dura due anni. Fino a quando, il 30 aprile 2007, il pm Vito Destito chiede l’archiviazione per Cantù, difeso dall’avvocato Francesco Gambino. «Gli altri minori coinvolti nei racconti hanno negato», scrive il magistrato. È inverosimile, poi, che fatti talmente eclatanti e turpi siano successi durante l’orario scolastico. Nessuno ha notato nulla. E non ci sono segni di abusi sessuali. Tantomeno riscontri. Niente di niente. Eppure «gli psicoterapeuti di Hansel e Gretel hanno ritenuto attendibile la narrazione» dello studente. Un dubbio poi insinuato ad altri compagni dai loro genitori: «Suggestionando inevitabilmente e, si spera, involontariamente i due ragazzi» considera il pm. Insomma, la cosiddetta «credenza assertiva». Un contagio, fomentato dai terapeuti. A marzo 2008 il tribunale di Pinerolo archivia l’indagine. I sette insegnanti non sono dei satanisti assetati di bambini. Ma solo le ennesime vittime dei fabbricanti di mostri.
Bibbiano, dalle carte nuovi indizi, emergono i tentativi degli indagati di sviare le indagini. Federica Anghinolfi aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019 su Il Giornale. Le ha tentate tutte Federica Anghinolfi che, si scopre, per boicottare le indagini avrebbe contattato persino il Garante Regionale per l’Infanzia. Dalle carte della Procura di Reggio Emilia sull’inchiesta “Angeli e Demoni”, che hanno denunciato il losco giro di affari a danno dei bambini nascosto sotto il sistema di affidi della Val d’Enza, emergono nuovi particolari. Ad essere accusata è di nuovo lei, la dirigente dei servizi sociali, messa sotto scacco da alcune intercettazioni dei carabinieri. Secondo le carte, prima dell’esecuzione delle misure cautelari, nel bel mezzo delle indagini, quando i carabinieri stavano passando al setaccio carte e fascicoli, la dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza avrebbe tentato di bloccare le ricerche. Ma in che modo? Pare che Federica Anghinolfi abbia richiesto un intervento del Garante per l’infanzia. Una domanda d’aiuto celata, giustificata dal fatto che, secondo l’Anghinolfi, l’attività investigativa stava intralciando i già avviati, procedimenti sui minori. Procedimenti che si sono poi rivelati, secondo quanto descrive la Procura, parte integrante di un sistema che lucrava sulla pelle dei bambini. E di cui proprio lei, era la prima protagonista. Tanto che il 27 giugno scorso è stata eseguita, nei confronti della dirigente, un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. In realtà la “regista” del sistema degli orrori aveva cercato più volte di spostare l’attenzione della Procura dal caso. A confermalo alcune telefonate intercettate dai carabinieri. Come quella avvenuta tra Federica Anghinolfi e Cinzia Prudente una delle donne affidatarie, nonchè amica della dirigente, a cui era stata data una bambina. A chiamare è l’Anghinolfi a cui l’amica risponde allarmata: “Mi stai chiamando con il tuo?” Poi prosegue esortandola a chiamare “da fisso a fisso”. “L’Anghinolfi capisce subito la situazione”, si legge nelle carte, e conferma, mettendo giù la cornetta. Insomma, tutto fa pensare che le due sapessero di essere intercettate e, sopratutto, che avessero qualcosa da nascondere. Qualcosa, che non doveva finire nelle mani della Procura. Ma c’è di più. Come riportato dall’ordinanza: “è appurato tramite le intercettazionitelefoniche che, una volta appreso della esistenza delle indagini, maturò all’interno del gruppo degli indagati il “progetto” di regolarizzare la situazione originariamente illegittima”. Insomma, a nascondere la sabbia sotto il tappeto erano tutti d’accordo. Tanto che fu fissato un incontro con i vertici del dipartimento dell’ASL Reggio Emilia. Incontro durante il quale, emerse che tre degli indagati (tra cui Federica Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti) comunicarono che non volevano più gestire, in proprio, la terapia dei minori attraverso la struttura “La Cura” e chiedevano all’Asl “una sorta di condivisione della spesa in modo formale”. In soldoni, quello che gli indagati proponevano all’azienda era di dare una veste formale a quella che, fino a quel momento, era stata l’attività di psicoterapia infantile portata avanti, in maniera illecita, dalla onlus Hansel e Gretel. A capo della quale vi era Claudio Foti, anche lui finito nel registro degli indagati della Procura. Una copertura che, di fatto, non avrebbe cambiato le cose, ma solo risolto gli impicci con la legge. Sì, perchè nella proposta ai dirigenti dell’ASL, era richiesta anche la possibilità di mantenere all’interno della struttura gli stessi psicologi che prestavano servizio a "La Cura". Dopo tutto, per tenere in piedi l'affare servivano loro. I "demoni" che plagiavano le piccole vittime.
INCREDIBILE MA VERO: CLAUDIO FOTI, IL "GURU" DI BIBBIANO, NON HA NEANCHE LA LAUREA IN PSICOLOGIA! Antonio Amorosi per Affari Italiani il 24 luglio 2019. Claudio Foti, il “guru” indagato per gli affidi da incubo dei bambini di Bibbiano, non ha nemmeno la laurea in Psicologia, tanto meno in Psichiatria. E’ laureato in Lettere all’Università di Torino nel 1978, dopo otto anni di studio. Nessuna laurea nelle materie della psiche. Dietro al caso Bibbiano vi è anche questo singolare tratto del profilo professionale di uno dei principali attori in causa. Il dato clamoroso risulta dai diversi curricula di Foti pubblicati in rete da istituzioni, e precisamente dall’Azienda sanitaria Ulss 9 Scaligera di Verona e dall’ospedale infantile Burlo di Trieste.
Dopo “Lettere” Foti ha all’attivo solo delle “Maratone e gruppi di psicodramma” e un “tirocinio in qualità di psicologo”, presso il “servizio di Neuropsichiatria infantile dell'Ospedale Maggiore della Carità di Novara”. Come fa a fare un tirocinio in ospedale, in neuropsichiatria infantile un soggetto che ha solo la laurea in Lettere? E’ uno “psicodrammista”, c’è scritto nel curriculum. In seguito ha fatto tantissimi corsi ma questi non possono essere equiparabili ad una Laurea. Voi affidereste vostro figlio di 5 anni o una persona con difficoltà psichiche a uno psicodrammista con la Laurea in Lettere? Senza neanche una laurea in Psicologia o Psichiatrica? E che c’entra Dante Alighieri e Montale con la Neuropsichiatria infantile? E come mai tutti questi enti pubblici lo accreditato ad occuparsi della psiche dei più deboli? Perché sia possibile ce lo spiegano vari Ordini regionali degli Psicologi contattati e soprattutto quello del Piemonte, al quale Foti risulta iscritto dal 1989. “E’ iscritto come articolo 32”, ci dicono al telefono. “E’ ufficiale? Ce lo può confermare?”, chiediamo. “Si, è un articolo 32, Legge n. 56 del 1989”. Cosa sia questo articolo di legge lo raccontano, sul loro sito, gli psicologi del gruppo “SRM Psicologia” che dagli anni ‘80 si occupano di promozione e tutela delle scienze psicologiche: “Molti psicologi, soprattutto tra quelli iscritti all'Albo con art. 32 o con Art. 34, hanno lauree diverse, come una laurea in sociologia, biologia, filosofia, scienze politiche, giurisprudenza ecc., e ci sono alcuni che non hanno laurea ma soltanto un diploma. Questo è stato l'effetto di una sanatoria. La legge che regola la professione di psicologo esiste soltanto dal 1989. Infatti prima dell'istituzione dell'Ordine Professionale la psicologia e la psicoterapia erano attività non regolamentate. Molti psicologi art. 32 o art. 34 infatti prima di essere dei veri psicologi, erano soltanto degli psicoterapeuti spesso autodefinitisi tali. Poi grazie alla sanatoria sono diventati psicologi.” Grazie alla sanatoria del 1989, governo Dc a guida Ciriaco De Mita con alla sanità Carlo Donat-Cattin, i tanti psicoterapeuti che si autodefinivano tali hanno potuto iscriversi all’Ordine degli psicologi, se per un certo numero di anni precedenti erano stati riconosciuti come tali dagli enti pubblici. Il governo regolarizzò così un quadro caotico in cui chiunque esercitava la professione di psicologo. Claudio Foti, che si definisce “direttore scientifico del Centro Studi “Hansel e Gretel”, nel 1982 diventa “giudice onorario” per il Tribunale dei minori di Torino. Nell’89 è già docente all’Istituto di Psicoterapia psicoanalitica – Torino” e nel 1992 insegna educazione sessuale ai bambini delle scuole medie. Poi una carriera folgorante, forte nella sua collaborazione con gli enti pubblici. Nel curriculum c’è anche scritto che Foti ha sostenuto numerosi corsi, scritto saggi, è formatore e addirittura docente delle stesse materie di ramo psicologico in qualche università. Inizialmente agli arresti domiciliari per la vicenda di Bibbiano, ora ha l’obbligo di dimora nel Comune di Pinerolo (Torino) dove abita. Il Tribunale del Riesame ha ritenuto che gli indizi raccolti contro di lui dagli inquirenti di Reggio Emilia non fossero così “gravi”. Sul caso Bibbiano, Foti, 68 anni, si è dichiarato innocente ed ha ripetuto a vari giornali: “Non sono un mostro. Su di me solo fango, io quei bimbi li ho salvati”. Mostro o non mostro di certo la sua formazione professionale è discutibile perché non ha una laurea scientifica e specialistica in Psicologia o Psichiatria, tanto più occupandosi di vicende così delicate come quelle dei minori abusati e delle loro famiglie. Per quanto iscritto all’Albo è sorprendente che questa mancanza non abbia fatto la differenza per nessuna istituzione. Abbiamo contattato l’avvocato di Foti, Girolamo Andrea Coffati per avere spiegazioni: “Lo conosco da 20 anni ed era già laureato. Non conosco il suo…. Bisogna chiederlo a lui. Immagino che se lui svolge la professione di psicoterapeuta lo faccia all’interno della legge” Certo. Ma ha una laurea in Psicologia o Psichiatria? “Sono onesto non ho idea. Bisogna chiederlo a lui. Chiamo Foti e la ricontatto se mi autorizza a darle il suo cellulare”. Stiamo aspettando la chiamata.
Il "guru" Claudio Foti, psichiatra senza laurea. Nel curriculum vitae segnalato da un lettore a IlGiornale, appare solo una laurea in lettere. Costanza Tosi, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Un luminare della materia diceva qualcuno. Peccato che, il “guru” Claudio Foti, fondatore della Onlus al centro dell’inchiesta sui diavoli di Bibbiano, “Hansel e Gretel”, finito sul registro degli indagati della Procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti, e ora accusato di maltrattamenti in famiglia, pare non abbia nemmeno la laurea in psicologia. A svelare l’anomalia il suo curriculum vitae che abbiamo letto con attenzione. Il guru Claudio Foti è accusato dalla Procura di Reggio Emilia di aver alterato, al fine di sviare le indagini, “lo stato psicologico di una minore”. Una bambina usata, si legge nelle carte, come “una sorta di cavia nell’ambito della psicoterapia specialistica”. Peccato, però, che la psicologia non l’abbia di fatto mai studiata. Almeno così sembra. Tra le sue esperienze, riportate nel curriculum caricato sul web dall’Azienda Sanitaria Ussl di Verona e dall’ospedale infantile Burlo di Trieste, risulta solamente una laurea in lettere, presa in otto anni, all’Università di Torino nel 1978. Della laura in psicologia nessuna traccia. Neanche nell’albo degli psicologi che abbiamo consultato. Sempre nel curriculum del “guru” si legge: “maratone e gruppi di psicodramma”, un “tirocinio in qualità di psicologo” in un ospedale di Novara e, qualche anno dopo, una scuola di psicoterapia non identificata. Quindici pagine di curriculum, piene di seminari, corsi e ruoli d’insegnamento, ma nessuna laurea nelle materie della psiche. Né, tantomeno, in medicina, di cui psichiatria è una specializzazione. Ma come ha fatto i dottor Foti a svolgere tirocini all’interno di strutture ospedaliere senza una laurea in psicologia? Come poteva tenere lezioni di psicoterapia senza aver mai passato degli esami che certificassero la sua preparazione? Il dubbio rimane. Si sarà dimenticato di inserirlo nel curriculum? Intanto indaghiamo. Eppure, nell’albo degli psicologi del Piemonte il suo nome c’è. Foti è iscritto. Grazie all’articolo 32. Ma cosa vuol dire? “Molti psicologi, soprattutto iscritti all’albo con l’articolo 32 o 34 in realtà hanno lauree differenti”, come si legge sul sito di “SRM Psicologia”, “Questo è stato l’effetto di una sanatoria. La legge che regola la professione di psicologo esiste solo dal 1989. Prima dell’istituzione dell’ordine Professionale la psicologia e la psicoterapia erano attività non regolamentate.” Dunque, molte persone che adesso sono iscritte grazie a questi due articoli, prima, probabilmente, non erano psicologi, e magicamente lo sono diventati grazie proprio a questa sanatoria. Ne avrà approfittato pure lui, il “guru” della psichiatria?
Scandalo affidi. L'inutile "Squadra Speciale" del Ministro Bonafede. Il guardasigilli lancia una proposta di pura facciata. Per risolvere il problema serve una riforma certa, a partire dall'abolizione del Tribunale dei Minori. Daniela Missaglia il 23 luglio 2019 su Panorama. Il Ministro della Giustizia Bonafede, per i gravi fatti sugli affidi di Bibbiano, ha pensato di inviare una ‘task force’, nemmeno ci trovassimo di fronte al sequestro di una nave mercantile. Squadra speciale Alfa, azione! Di cosa si tratti non si sa esattamente, anche se c’è da augurarsi che le idee chiare le abbia almeno lui. Personalmente, penso che creare una “Squadra speciale di giustizia per la protezione dei bambini” sull’onda dell'inchiesta di Bibbiano, non sia altro che un escamotage mediatico che difficilmente farà sentire “il fiato sul collo ad ogni operatore” per evitare che fatti simili accadano ancora. Nulla contro il Ministro, sia chiaro, ma suscita sempre un sentimento di compatimento l’ardore di chi cerchi di svuotare il mare con un secchiello o si periti di contare le stelle del firmamento sdraiandosi supino sul prato di casa. Chissà se l’On. Bonafede abbia letto l’intervista su Panorama del 27 giugno 2019 al Dott. Francesco Morcavallo, ex Giudice togato del Tribunale per i Minorenni di Bologna che, schifato da un “business osceno” (ipse dixit) legato al sistema degli affidi, ha fornito - dall’interno - l’inquietante spaccato di ingerenze, conflitti d’interesse, subalternità ad indirizzi contrari agli interessi dei minori, che anima l’apparato della giustizia minorile, ripugnandolo al punto da indurlo a lasciare la magistratura. E siccome navigo anch’io, pur in altra veste, in quei mari agitati da intrighi dove lo tzunami della malagiustizia raggiunge i suoi apici, la tentazione di allontanarmi è sempre più forte. Si perché non è che Bibbiano nasce come un mostro raro, visto che parliamo dell’esatta ripetizione di quello che è successo nella Bassa modenese circa vent’anni fa dove tanti poveri cittadini vennero accusati di essere pedofili satanisti con relativo allontanamento coatto dei loro bambini e, prima ancora, a comunità per minori disagiati del Mugello finita al centro di processi per maltrattamenti e abusi sessuali che hanno coinvolto il suo fondatore e ‘profeta’, Rodolfo Fiesoli. Chissà se il nostro Ministro della Giustizia conosca nel dettaglio il meccanismo per cui i centri cui vengono affidati i bambini sottratti alle famiglie sono, in via diretta o indiretta, partecipati o diretti dagli stessi esponenti di quel tolkeniano mondo di mezzo fatto di assistenti sociali, tutori e psicologi che - spesso e volentieri - assumono le vesti di giudici onorari presso i Tribunali per i minorenni, finendo così per orientare la decisione stessa di affido etero-familiare, indirizzando il minore verso quei centri. Con buona pace di frasi mai verbalizzate o, peggio ancora, mai proferite dai bambini oggetto dei procedimenti. O di documenti che non arrivano mai sulla scrivania giusta. Per non parlare dell’enorme giro di interessi che questo sistema alimenta (si parla di un miliardo a mezzo di euro). Il Ministro Bonafede ha annunciato che nella ‘task force’ parteciperà anche il Commissario Straordinario del Forteto, di fatto creando un parallelismo che avvilisce più che rinfrancare, perché due commissioni d’inchiesta regionale ed una parlamentare hanno solo aiutato a leggere i drammi di una vicenda iniziata a fine anni settanta, senza però risolvere alcunché, come la Bassa modenese prima e Bibbiano poi hanno dimostrato.
Ciò che era, è. Ma l’Italia è il Paese delle commissioni permanenti, come quelle su Ustica anche se, a distanza di quarant’anni, ancora non sappiamo chi sia responsabile dell’abbattimento del DC9 Itavia e con chi debbano prendersela i parenti delle vittime. Paolo Coelho scriveva che quando si rimanda il raccolto i frutti marciscono, ma quando si rimandano i problemi, essi non cessano di crescere. E difatti è stato sempre così in questa nazione dove ci si è fintamente affannati di cercare soluzioni attraverso palliativi come le task force che, spesso e volentieri, hanno solo illustrato il problema, senza rimuoverlo. Se si pensa di intervenire con un mero maquillage di facciata i bambini continueranno ad essere vittime di un sistema fallato nelle fondamenta e l’Italia a violare le convenzioni internazionali e la Costituzione stessa. Va trovata la forza di fare ciò che, da troppo tempo, taluni operatori di diritto propongono, l’abolizione dei Tribunali per i minorenni, nati con una funzione che si è via via perduta, pur continuando ad operare sotto organico ed attraverso toppe - quelle dei giudici onorari - che sono peggio del buco. Il risultato è aver creato una voragine dove i fascicoli stanziano per tempo immemore e, con il gioco dei provvedimenti provvisori non impugnabili, le decisioni assunte tracciano un destino perverso insuscettibile di controllo. A complicare ulteriormente i foschi scenari che coinvolgono le famiglie italiane arriva la notizia che il Consiglio dei Ministri ha appena varato il progetto di legge delega che, se approvato dal Parlamento, nell’arco di due anni dovrebbe riformare il processo civile, oltre a quello penale, con l’intento di velocizzare le procedure ed arrivare a sentenza in tempi più rapidi rispetto a quelli attuali. Peccato che la riforma non sembrerebbe estendersi ai procedimenti legati alle crisi familiari ed ai minori, creando così figli e figliastri, un doppio binario che menoma proprio quell’ambito del diritto che imporrebbe celerità ed urgenti decisioni. La verità è che non servono task force, come non servono proposte di legge presentate all’indomani dei fatti incresciosi, per rammendare un vestito che ormai deve essere buttato via perché lacerato al punto da non poter nemmeno essere indossato. Così proprio non va, caro Ministro, Bibbiano è la punta di un iceberg purulento che va mostrato e distrutto con soluzioni decisamente più energiche di una task force. E’ ora di fare sul serio, lavorando ad una riforma strutturale della giustizia civile che restituisca fiducia ai cittadini. Perché la fiducia è il fondamento della vita sociale ed oggi sta svanendo con la stessa velocità con cui un epidemia spazza via vite umane. Caro Ministro Bonafede, temo che la sua task force dovrebbe avere la consistenza di un esercito per intervenire sui ventinove Tribunali per i minorenni sparsi per l’Italia e dunque, ciò che mi auguro è che si intervenga in tempi rapidi su una radicale riforma del sistema giudiziario che passi anche attraverso alla creazione di sezioni specializzate in ogni Tribunale, ridando alla magistratura quel lustro che si merita essendo considerata, per certi versi, la migliore al mondo.
Scandalo affidi: il business sulla pelle dei bambini. La vicenda di Reggio Emilia ricorda quella di Mirandola di diversi anni fa e racconta un mostro, anzi un sistema che ha colpito famiglie normali, come le nostre. Maurizio Belpietro l'8 luglio 2019 su Panorama. Un paio di numeri fa mi sono occupato di una vecchia storia accaduta a Mirandola, in provincia di Modena. All’improvviso, tra la fine del 1997 e l’inizio del 1998, un gruppo di famiglie, quasi tutte cattoliche, venne accusato di praticare riti satanici e di molestare i figli, abusandone sessualmente. Molti furono arrestati e i bambini vennero tolti ai genitori per essere dati in affido. Il prete del paese finì sul banco degli imputati e, prima di essere assolto, morì di crepacuore. Anche gli altri accusati furono assolti, ma solo dopo molti anni, quando ormai le famiglie messe sotto inchiesta si erano sfasciate e i figli erano grandi senza esserlo diventati accanto ai loro legittimi papà e mamme. All’epoca, di questa storia si occupò solo un quotidiano, quello che dirigevo, il Giornale, mentre tutti gli altri declassarono la vicenda a pura cronaca, per giunta delle più squallide, da liquidarsi in breve. Il Giornale, invece, fin da subito cercò di dare voce alle vittime, perché le accuse rivolte contro di loro erano del tutto inverosimili. Purtroppo il nostro impegno non bastò a cambiare il corso delle cose. Ci vollero anni e una infinità di udienze perché la verità venisse a galla e solo mesi fa qualcuno, sui giornali, ha cominciato a chiedersi come sia potuto accadere. Bene, anzi male: dalla settimana scorsa abbiamo la risposta alla domanda.
A Reggio Emilia, cioè a poca distanza da Mirandola, è successo di nuovo. Assistenti sociali e psicologi hanno riprovato ad accusare di abusi sui minori una serie di famiglie, allontanando i figli dai legittimi genitori per darli in affido ad altre coppie. Questa volta però a finire in carcere non sono stati i papà e le mamme, colpevoli solo di essere persone semplici e indifese davanti alla macchina della giustizia e di quel grande business che è l’assistenza ai minori. Dietro le sbarre sono finiti gli psicologi, le «esperte di infanzia» abusata, i professionisti dell’affido. La Procura, invece di credere alle loro accuse nei confronti dei genitori, ha creduto a mamme e papà, scoprendo un sistema infernale. Altro che riti satanici nella Bassa modenese. I riti erano quelli messi in atto per indurre dei bambini ad accusare genitori innocenti. Le assistenti sociali si incaricavano di suggerire ai piccoli che cosa dire negli interrogatori, inventando abusi che non c’erano. I più riottosi tra i bambini venivano «aiutati» con una «macchina dei ricordi», ossia con uno strumento che con elettrodi applicati alle mani generava scosse elettriche. Era un vero e proprio lavaggio del cervello quello che veniva fatto e, nel caso non bastasse, si «aggiustavano» i disegni, modificando quelli dei bambini con l’inserimento di riferimenti ad atti sessuali, così da provare le violenze. Le famiglie oggetto delle attenzioni ovviamente non erano scelte a caso, ma si puntava su quelle più semplici, povera gente insomma, perché non potesse permettersi troppi avvocati.
La storia di Reggio Emilia ha una diretta connessione con quella di Mirandola, perché dietro ci sono lo stesso psicoterapeuta e la stessa struttura di vent’anni fa. «Hansel e Gretel», un centro di Moncalieri specializzato in abusi sui minori, e Claudio Foti, un professionista «esperto» nel far emergere i ricordi dei bambini, in particolare quelli in famiglia. Foti, oltre a guidare la onlus torinese, per 12 anni è stato giudice onorario del Tribunale dei minori. Ma per i magistrati di Reggio che ne hanno disposto l’arresto, lui e la sua compagna suggerivano ai piccoli che cosa dire e che cosa ricordare, costruendo violenze mai esistite. Lo facevano per soldi, secondo l’accusa, facendosi pagare per servizi di cui non c’era bisogno. Ma forse lo facevano anche per motivi ideologici. Negli atti giudiziari vengono a galla problemi personali di una delle assistenti sociali, «una rabbia repressa sfociata poi negli atteggiamenti sui minori», ma anche le tendenze sessuali di un’altra esperta: omosessuale che guarda caso affidò i bambini strappati ai genitori a una coppia omosessuale. No, quella scoperta a Reggio Emilia non è una storia da liquidare come un caso di cronaca nera, una brutta faccenda che casualmente ha colpito i bambini. È qualche cosa di più: un sistema. Portato avanti per anni con la complicità di amministratori pubblici, dirigenti dell’Asl, funzionari nell’Emilia felix. Un sistema che ha distrutto numerose famiglie. Famiglie normali. Come la vostra.
Scandalo affidi: bambini rubati. Panorama ha ricostruito, dopo il caso di Reggio Emilia, i casi giudiziari che hanno coinvolto Claudio Foti e la sua onlus, Hansel e Gretel. Antonio Rossitto il 15 luglio 2019 su Panorama. Sono bastati qualche ghirigoro, un divorzio turbolento e una sequela di fantasie. L’hanno accusato d’aver abusato delle figlie, di quattro e sette anni. Giochi erotici di gruppo, filmini scabrosi, travestimenti da Biancaneve. Il 13 novembre 2015, dopo un processo lungo nove anni, il professore di matematica è stato assolto: non ha commesso il fatto. Ora ha 49 anni. Vive a Oristano, dove insegna alle superiori. «Il caso andava verso l’archiviazione» racconta. «È stato riaperto dopo il parere dello psicoterapeuta Claudio Foti». Un nome oggi alla ribalta. «Periti, pm, giudici: tutti pendevano dalle sue labbra». Già. Ma come si sopravvive a infamia e abbandono? «Cerco di non pensarci». Il professore comincia a singhiozzare: «Le mie figlie non vogliono più vedermi. Pasqua, Natale, compleanni: nemmeno mi rispondono. Una delle due ha la maturità quest’anno: io trepido, spero, sogno di ripassare accanto a lei. M’invento ogni cosa, pure gli abbracci». Si scusa per le lacrime. «Per loro sono uno zimbello. Adesso, però, magari capiranno: quello che è successo a Bibbiano è successo anche a loro». Bibbiano era un anonimo e placido paese nella Valle D’Enza. Oggi è l’inferno scoperchiato dall’inchiesta «Angeli e demoni». Quella sui fabbricanti di mostri: medici, psicologi e assistenti sociali. La procura di Reggio Emilia ha rivelato un presunto e gigantesco inganno: 16 arresti e 27 indagati. Tra cui il sindaco Pd della cittadina, Andrea Carletti: onta che s’è riversata pure sui democratici. Un corredo di orrori. Dietro cui si celerebbe il business di consulti privati e affidamenti. Quasi 200 bambini sarebbero stati manipolati con metodi da Santa Inquisizione. Per rivelare inesistenti abusi, essere allontanati dalle famiglie e venire assegnati ad altre coppie. Anche lesbiche. Ai domiciliari è finito pure lo psicoterapeuta che ha marchiato la vita di quel professore di Oristano. Claudio Foti, 68 anni, è il fondatore, a Moncalieri (To), del Centro studi Hansel e Gretel, onlus specializzata in psicologia infantile. Un assertore dell’inscalfibile assunto: i minori non mentono mai. Ogni sospetto è l’anticamera della pedofilia. Ex giudice onorario del Tribunale dei minori a Torino, Foti è acclamato consulente di decine di uffici giudiziari. Le sue perizie hanno istruito decine di processi. Molestie, sette, incesti. Racconti fagocitati da colloqui e terapie con i bambini. E ora avvocati di mezza Italia meditano vendetta, sperando di riaprire fascicoli ormai sepolti. Un sistema. Che l’inchiesta, coordinata dal reparto operativo dei carabinieri di Reggio Emilia, potrebbe cominciare a scardinare. Il Tribunale dei minori di Bologna ha deciso di rivalutare cinque adozioni dettagliate nell’ordinanza di custodia cautelare. La procura di Modena, invece, potrebbe riaprire il caso dei «diavoli della Bassa», andato in scena tra 1997 e 1998 a Mirandola. Quando un gruppo di famiglie viene accusato di abusare dei figli e di altre nefandezze: riti satanici, orge cimiteriali, corpi arsi vivi e cadaveri nel fiume. Sedici bambini vengono allontanati da casa per sempre. Una storia che ora si ricollega allo scandalo reggiano: vent’anni fa furono proprio le psicologhe di Hansel e Gretel a interrogare quei bambini di Mirandola. Tra cui l’ex moglie di Foti, Cristina Roccia. Mentre l’attuale coniuge, Nadia Bolognini, pure lei psicoterapeuta, è oggi tra gli arrestati dell’inchiesta di Reggio Emilia. E la procura di Torino avrebbe aperto un’indagine su una dubbia perizia firmata dalla dottoressa. È però Foti il fulcro ideologico da cui tutto discende. Bisogna seguire le sue orme per capire come, all’ombra di clamorosi abbagli giudiziari, è fiorita la fabbrica dei mostri. «Fanatismo persecutorio» sostiene l’ordinanza. «Gli indagati erano pregiudizialmente convinti che i minori fossero vittime di abusi». Vulgata che ha segnato clamorosi processi, sgominato famiglie, lasciato indelebili onte. Metodo dettagliato anche nella sentenza che, nel 2015, assolve il professor di Oristano, difeso dall’avvocato Simona Sica. Il Tribunale di Salerno, nella sentenza, enuncia la teoria di Foti: «Le emozioni delle bambine diventano elemento di validazioni della credibilità». E affonda: «Un approccio contestato dal mondo scientifico perché esistono molte ipotesi alternative che giustificano le stesse emozioni». Uguale conclusione a cui era arrivato il consulente di parte, Corrado Lo Priore. Il tribunale, poi, entra nel dettaglio del caso: le supposte violenze del professore sulle figlie. Il parere vergato da Foti, perito di parte civile e teste del pm, è inficiato: «Inutilizzabile». Più radicale il giudizio sul professionista che ha in cura la madre accusatrice e le due bambine. Ovvero: Mauro Reppucci, già discepolo di Foti, oggi seguace del discusso metodo Hamer per la cura del cancro e marito di Alessandra Pagliuca. Anche lei psicologa. Anche lei tra gli inquisitori dell’inchiesta sui «diavoli della Bassa». Altri corsi e ricorsi. «Fin dal primo momento» scrivono i giudici di Salerno «l’intento del dottor Reppucci è stato quello di cercare una verifica dei presunti abusi sessuali sulle minori». La sentenza aggiunge: «Per questo, coadiuvato dalla madre e dalla zia, ha sottoposto le bambine a un esame sempre più stringente, con una tecnica scorretta: il ricorso continuo a domande, blandizie e prospettazioni di mali futuri». Così, alla fine, il professore è assolto. Procura e parte civile accettano il verdetto. Nessun appello. Ora è un uomo libero. Ma la sua vita è ormai in frantumi. Gli stessi protagonisti ricompaiono in un’altra inchiesta, ancora a Salerno. Esplode a dicembre del 2007. Con un canovaccio da film horror, che riecheggia quello modenese. Orge sataniche. Minori violati che violentano coetanei. Una catena di sevizie, organizzate da incappucciati e satanisti. Vengono identificate le presunte vittime: tre fratellini. E l’ipotetico carnefice: il padre. Partono le indagini e la centrifughe terapeutiche. Stavolta la madre dei bambini, che sostiene anche di essere stata malmenata dal marito, si fa seguire dalla dottoressa Pagliuca. Foti invece guida il collegio di esperti del pm. Un ipotizzato conflitto d’interesse denunciato pure dal perito della difesa, Camillo De Lucia: «Appare davvero originale che la scelta del sostituto procuratore sia caduta su professionisti appartenenti al centro Hansel e Gretel, lo stesso dove la dottoressa Pagliuca ha riferito di essersi formata». Ma la strenua offensiva colpevolista non convince comunque i giudici. A luglio 2017 il padre viene assolto. Pagliuca, annota la sentenza, ha suggestionato uno dei ragazzini «su fatti non narrati spontaneamente». Mentre, riguardo Foti, i giudici segnalano «numerosi fenomeni di induzione diretta e suggestione. Insomma: «I bambini non hanno mai fatto dichiarazioni spontanee». Il fuoco di fila dei fabbricanti di mostri viene dispiegato pure a Pisa. Un’indagine nata nel 2006, dalla denuncia di una donna all’ex marito: avrebbe abusato della loro figlia. Foti, stavolta, è il perito del gip. La moglie dello psicoterapeuta di Moncalieri, Nadia Bolognini, comincerà invece a seguire la minore. Il primo ad andare in scena, dopo la richiesta d’incidente probatorio, è il fondatore di Hansel e Gretel. La ragazzina, di appena sei anni, può testimoniare al processo? Certamente. Per Foti non ci sono dubbi: «Esistono indicatori rilevanti e diffusi dell’esperienza incestuosa subita, che può essere ipotizzata come coinvolgente e sconvolgente». E il rapporto conflittuale tra i genitori? La madre potrebbe aver suggestionato la figlia? Macché: è un’evenienza «ampiamente falsificata». La bambina è credibile. Liviana Vizza, legale dell’indagato, in una memoria difensiva, attacca: il metodo dello psicoterapeuta, scrive, rappresenta una violazione di quanto la letteratura internazionale consiglia. Il legale dettaglia: «Ha tenuto una modalità d’interrogatorio fortemente orientante: domande chiuse, suggestive e incalzanti». L’uomo viene dunque rinviato a giudizio. E a ottobre 2012 arriva la sentenza. Il tribunale di Pisa lo assolve per non aver commesso il fatto. Il caso è definitivamente chiuso, anche questa volta. La procura, che aveva chiesto 10 anni, decide di non fare appello. Come la parte civile. Per il resto, i genitori hanno divorziato. La piccola, diventata ragazza, è stata affidata a entrambi. Ma di suo padre non vuole sentir parlare: crede ancora di essere una vittima. Così, assieme al suo legale, l’uomo adesso vuole andare a fondo. «L’indagine di Reggio Emilia ha confermato quella che fino a ieri era una mia supposizione» spiega Vizza. Ossia? «La manipolazione sistematica e continua dei bambini da parte di Hansel e Gretel. Anche per ottenere in cambio incarichi privati. Addirittura, in uno dei colloqui Foti dice alla bambina: “Queste cose, che tu voglia o no, le devi dire al giudice”». Così l’avvocato attende sulla riva del fiume l’eventuale rinvio a giudizio. «A quel punto, scatterà una denuncia per manipolazione di minore». Foti e Bolognini. Marito e moglie. Compagni di tante battaglie. Il fondatore e la psicoterapeuta di Hansel e Gretel. La procura emiliana li accusa di falso ideologico, frode processuale e depistaggio. I loro inganni avrebbero contribuito a causare danni psichici a cinque ragazzini. È lei, per esempio, a usare «l’inquietante macchinetta dei ricordi»: elettrodi collegati a mani e piedi dei piccoli. Serve, secondo la dottoressa, a ripescare i ricordi degli abusi. È lui, invece, a scegliere una bambina in cura come cavia, da esibire in un corso di formazione. E poi c’è il sospetto lucro. Le terapie private: «Un ingiusto profitto di 135 euro l’ora per minore, a fronte dei 70 euro medi di mercato, nonostante l’Asl locale potesse usare gratuitamente i propri professionisti». La procura reggiana tratteggia un ritratto poco lusinghiero di Foti: «Soggetto con ruolo di guida» e «un alto tasso potenziale di criminalità». Emerge, annotano i magistrati, «una personalità violenta e impositiva». Anche con i familiari: moglie, ex congiunta e figli minori. La procura indugia pure sulla consorte: Bolognini. «Il marito le rilevava una latente omosessualità, motivo di tensione da parte della donna». E poi la psicoterapeuta «risulta aver subito maltrattamenti dal padre quando era piccola». Come accaduto a Foti, aggiunge l’ordinanza. Così la dottoressa avrebbe riversato le sue angosce in una «rabbia repressa, sfociata negli atteggiamenti con i minori». Eppure il curriculum di Hansel e Gretel è denso e prestigioso. Seminari, corsi di formazione, master universitari. Alle lezioni del fondatore accorrevano tutti: psicologi, docenti, magistrati e assistenti sociali. Un blasone che ha attratto tribunali e procure, pronti a chiedere servigi per i casi spinosi. Chi meglio di lui poteva avallare e argomentare ogni turpe ipotesi? Foti è stato chiamato persino per una delle più clamorose cantonate giudiziarie degli ultimi anni: gli ipotizzati abusi nell’asilo «Olga Rovere» di Rignano Flaminio. Ventuno bambini, fomentati dai genitori, raccontano di aver subito ogni crudeltà. Cinque persone finiscono a processo, due sono difese da Roberto Borgogno. Vengono assolte per la prima volta nel 2012. Dopo anni d’indicibili accuse. Durante i quali la procura di Tivoli s’era rivolta anche a Foti. Tre consulenze, vergate con due colleghi. La prima è del 17 luglio 2007. Arguisce: «Siamo giunti alla conclusione che le famiglie e i bambini non manifestano un disagio dovuto a fantasticherie o a costruzioni immaginarie, frutto di suggestioni o psicosi collettive. La loro sofferenza, estesa e profonda, è del tutto compatibile con l’ipotesi che abbiano impattato con una vicenda traumatica gravissima: abusi sessuali di gruppo in ambito scolastico». Alcuni anni più tardi, dopo altre vite frantumate, due sentenze diranno l’esatto contrario. Un contagio psichico. Lo stesso che sarebbe avvenuto in una scuola materna dell’aretino. A fine 2011 viene arrestato un bidello. È accusato d’aver molestato 12 bambini, costretti ad atroci porcherie nei bagni della scuola: toccamenti, giochi erotici, fellatio. Una storia, anche in questo caso, nata dalle inquietudini dei genitori. Scorgono nei figli comportamenti inconsueti. Che successivi pareri psicologici reputano «compatibili con l’abuso». Partono le indagini. I carabinieri piazzano telecamere nella materna: nessun riscontro. A febbraio 2015 il bidello, difeso dall’avvocato Raffaello Falagiani, è rinviato a giudizio. In aula sfilano genitori, maestri ed esperti. Come Foti, consulente tecnico dell’accusa. O meglio, capo del collegio peritale del pubblico ministero. Che conclude: «Altissima compatibilità con l’ipotesi di un evento traumatico di natura sessuale, avvenuto in un certo contesto temporale e associata a una certa figura». II 14 aprile 2016 viene sentito in tribunale. Lo psicoterapeuta, anche stavolta, propala incrollabili certezze. Una bambina si fa la pipì addosso nel tragitto da casa alla fermata del bus? «Indicatore significativo di maltrattamento intrascolastico» spiega Foti. Un’altra si sveglia di notte urlando? «È inseguita dall’evento traumatico». Un altro disegna denti. O non riesce a evacuare. Oppure ha paura di andare in bagno. Tutte conseguenze di atti sconvolgenti. Il copione però si ripete. Il 30 novembre 2016 il tribunale di Arezzo assolve il bidello: il fatto non sussiste. I periti nominati dal giudice fanno cadere il castello eretto dai professionisti dell’abuso: «Le capacità testimoniali specifiche dei bambini risultano compromesse in modo considerevole, con la conseguenza che nessuno di loro può essere ritenuto attendibile». E poi: «I disagi che hanno manifestato, insonnia notturna, unghie rosicchiate e opposizione alla scuola, non possono essere qualificati come indicativi di uno stress di natura sessuale». Incesti terribili. Sempre e ovunque. I fabbricanti di mostri non tentennano. Nemmeno a Cagliari, nel caso dell’orologiaio accusato di abusi sessuali sui tre figli. Nefandezze a cui avrebbero partecipato anche la nuova compagna dell’uomo, veterinaria, e un amico. Tutti assolti, nel 2001, in primo grado. Nel processo d’appello, Foti è nominato consulente tecnico d’ufficio. Ma i tre sono nuovamente scagionati. Fino alla Cassazione. Il decano dei penalisti cagliaritani, Luigi Concas, che ha difeso l’orologiaio nei tre gradi di giudizio, ricorda: «Un giorno prendo uno dei disegni fatti dal ragazzino. Per l’accusa era un pene con dei denti. Lo mostro allora a mio nipote. Gli chiedo: “Cosa ti sembra?”. E lui, immediatamente: “Goku!”. Un personaggio dei Dragon ball. Torno in aula con quel foglio in mano. E durante l’esame del perito, a bruciapelo gli domando: “Lei sa chi è Goku?”». Vecchie storie. C’è anche quella del fotografo milanese, arrestato nel 2003 per aver abusato, durante una vacanza in Puglia, di un amichetto del figlio conosciuto in spiaggia. Tra le prove raccolte, ci sono anche alcune foto di bambini. Talmente scabrose da essere pubblicate persino sul sito internet del fotografo. Reportage da pubblicare sulle riviste, insomma. Eppure l’uomo finisce a processo dopo l’incidente probatorio del ragazzino. Svolto da Foti. E condotto, scrive il consulente della difesa, lo psicoterapeuta Giovanni Camerini, con modalità «metodologicamente scorrette»: «Ha somministrato al piccolo N. più di 50 domande suggestive e inducenti» nota nella sua relazione. Conclusione: il fotografo è assolto, sia in primo grado sia in appello. Ombre del passato che riemergono. Come quelle che si allungano sul caso di Sagliano Micca, paesino vicino a Biella. Scoppia più di vent’anni fa. Due cuginetti, loro malgrado, diventano gli accusatori di mamma e papà, nonna e nonno. Accusati di aver abusato dei due bambini. Una tesi avallata da una perizia vergata del centro Hansel e Gretel. Foti e l’ex moglie, Cristina Roccia, in 150 pagine ripercorrono supposti abusi e violenze di gruppo. Comincia il processo. Ma il peso è insostenibile. Il giorno prima dell’audizione dei ragazzini, i quattro accusati scendono nel garage. Si chiudono nella loro Uno verde: i genitori siedono davanti, i nonni dietro. Poi accendono il motore. E aspettano. Fino a quando il gas di scarico non gli riempie i polmoni. Li ritrovano avvelenati e senza vita. Sul parabrezza dell’utilitaria c’è il loro biglietto d’addio: «Moriamo per colpa della giustizia».
Francesco Borgonovo per “la Verità” l’11 luglio 2019. L'inchiesta «Angeli e demoni» condotta dalla Procura di Reggio Emilia ha scoperchiato un pozzo senza fondo. Una sentina da cui ogni settimana emergono vicende inquietanti di minori levati alle famiglie e dati in affidamento. Una di queste è la storia di F, una bambina di Reggio Emilia che, assieme alla sorella, è stata separata dalla madre. E che, dopo varie vicissitudini, pare essere finita in affidamento proprio alla psicologa che l' ha tolta ai genitori naturali. Questa psicologa si chiama Valeria Donati e per capire chi sia dobbiamo fare un passo indietro e ritornare alla fine degli anni Novanta: il periodo in cui, nel Modenese, è esploso il caso dei «diavoli della Bassa». Stiamo parlando della brutta storia raccontata da Pablo Trincia nel libro Veleno (Einaudi). Parliamo, dunque, di famiglie ingiustamente incolpate di abusi sui figli e pratiche sataniche. Genitori a cui sono stati tolti i bambini. Persone che, per via delle errate valutazioni di psicologi, assistenti sociali e giudici, hanno perso i loro piccini e si sono ritrovate con la vita distrutta. La grande protagonista del caso Veleno era la psicologa Valeria Donati. Arrivò al Cenacolo francescano di Reggio Emilia alla fine del 1994. Aveva 26 anni, era ancora una tirocinante e da qualche mese collaborava con l' Ausl locale. Era fresca di studi, dunque, e aveva frequentato corsi di formazione al Centro per il bambino maltrattato di Milano. Fu lei a far parlare i bimbi che raccontarono di oscuri rituali e pratiche innominabili. Scrive Pablo Trincia: «La Valeria, come la chiamavano ormai i bambini, era il passe-partout che sapeva come aprire la porta di ognuno di loro ed entrare in punto di piedi negli angoli bui del loro inconscio». Era lei che faceva emergere i brutti ricordi sepolti. Piccolo problema: quei ricordi si sono rivelati per lo più fantasie. Spiega ancora Trincia che, «mentre lavorava come psicologa a contratto per l' Ausl di Mirandola, Valeria Donati era anche diventata responsabile di una struttura indipendente a Reggio Emilia [...]: il Centro aiuto al bambino. Nel 2002 l' azienda sanitaria regionale aveva deciso di "affidare la cura e la terapia dei minori coinvolti a questo centro (il Cab), più attrezzato e specializzato sui temi dell' abuso"». In buona sostanza, la stessa persona che aveva scoperto il caso Veleno, «seguito i minori, raccolto per prima le loro dichiarazioni, scelto le famiglie a cui affidarli, informato la procura e il tribunale dei minori, fatto da testimone chiave nei processi e dato sempre parere negativo sulla possibilità di un contatto con i genitori naturali - persino quando questi erano stati assolti - ora si ritrovava anche a trarre un potenziale beneficio lavorativo ed economico da una vicenda nella quale aveva giocato un ruolo determinante». Stando ai dati forniti da Trincia, il centro della Donati otteneva tra i 1.032 e i 1.400 euro al mese per ogni bambino seguito, e nell' arco di 10 anni avrebbe ricevuto la bellezza di 2.209.400 euro di soldi pubblici. Il Cenacolo francescano di Reggio Emilia e il Centro aiuto al bambino sono parte integrante pure della storia di F, che andiamo a raccontare. Tutto inizia nel 2006. Al pronto soccorso di Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, si presenta una donna marocchina con due bambine. La più grande ha 8 anni, la più piccola - la nostra F - ne ha soltanto 5, e sono entrambe nate da un precedente matrimonio della signora con un suo connazionale. La donna marocchina, quando arriva all' ospedale, è infatti sposata a un uomo italiano, che maltratta lei e, a quanto pare, anche le bimbe. A Guastalla madre e figlie vengono visitate. Come spiega l' avvocato Francesco Miraglia, che da poco si è fatto carico del caso della donna, «i medici riscontrano nella più grande dei segni sul collo, alla piccina delle ecchimosi alla fronte e a un ginocchio». Non solo: «Trattandosi di bambine maltrattate», racconta Miraglia, «i medici sono scrupolosi e controllano anche altro: la cartella clinica riporta per entrambe "genitali intatti". Una dicitura importantissima, alla luce dell' incubo in cui cadrà successivamente questa donna». Quindi le bimbe sono state picchiate, ma fortunatamente non sembrano aver subito abusi sessuali. In ogni caso, entrambe le piccole vengono subito prese in carico dai servizi sociali. La più grande viene affidata a una famiglia. F, la più piccola, finisce al Cenacolo francescano. Cioè la struttura con cui collabora Valeria Donati. La madre delle bimbe, nel frattempo, si allontana dal marito violento, e nei mesi successivi gli assistenti sociali le organizzano incontri con le figlie. Come si apprende dai documenti ufficiali, a partire dal giugno 2007 la donna partecipa a tre «incontri vigilati» a cadenza mensile con le bambine, sotto la supervisione di una assistente sociale. Vengono fatti anche controlli sulla situazione della donna. Risulta che abbia un impiego stabile come commerciante che le frutta tra i 1.500 e i 2.000 euro al mese. La sua abitazione appare ordinata e pulita (così scrivono i servizi). I nonni materni sembrano presenti e disponibili. Tutto appare in ordine, insomma. La madre, dunque, vorrebbe riavere con sé le bambine. Ma qui cominciano i guai. Gli assistenti sociali scrivono che le piccole non vogliono più rivederla. Gli operatori dei servizi, per altro, sostengono che la donna sia troppo invadente, che cerchi di baciare e abbracciare le bimbe anche se loro rimangono un po' rigide, che non sia abbastanza attenta alle loro richieste. E sapete chi controfirma la relazione dell' assistente sociale destinata al Tribunale dei minori di Bologna? L'allora responsabile dei servizi sociali del Polo 3 di Reggio Emilia: Federica Anghinolfi. Ovvero una delle principali protagoniste dell' inchiesta «Angeli e demoni». Risultato: non solo le piccole non tornano a casa, né dalla madre né dai nonni, ma non vengono neppure organizzati altri incontri. A quel punto, la donna marocchina sembra avere un cedimento. Diventa insistente, si presenta agli uffici pubblici per protestare, s' infuria con gli assistenti sociali, diventa aggressiva. E, ovviamente, ciò non giova alla sua causa. Nel 2009, poi, succede qualcosa che cambia tutto: la donna viene accusata di aver abusato delle figlie e di averle fatte prostituire. «Dal 2006 al 2009», dice l' avvocato Miraglia, «nessuno parla di abusi sessuali. Si parla solo di incapacità della mamma. Quando la signora inizia queste pressioni per le figlie, però, salta fuori la storia degli abusi. L' assistente sociale del Comune di Reggio Emilia e Valeria Donati asseriscono davanti all' autorità giudiziaria che le bambine avrebbero riferito che la mamma le costringeva a prostituirsi». L' avvocato Miraglia è incredulo: «Dopo quattro anni? Se lo sono ricordato dopo quattro anni? Ma se alla visita del 2006 era risultato che non avessero lesioni riconducibili ad abusi di natura sessuale!». Già, in effetti le bimbe furono visitate al pronto soccorso nel 2006, e i medici scrissero che gli organi genitali erano intatti. Da allora, non avevano più vissuto con la mamma. Come può essere che, nel 2009, risultassero vittime di molestie? In realtà, la prima a fare accenno a possibili abusi è proprio la donna marocchina. Sostiene, a un certo punto, che F sia stata molestata al Cenacolo francescano. Ed è questa affermazione, secondo Miraglia, a scatenare le accuse dei servizi sociali nei suoi confronti. Nel 2010, racconta l' avvocato, «un medico legale, a posteriori e solo attraverso dei ragionamenti logici, sosteneva che probabilmente le bambine erano state oggetto di abusi sessuali». Una terapeuta sostenne poi che le bimbe apparivano attendibili. La psicologa in questione, secondo Miraglia, era legata al Cismai, ovvero il Coordinamento italiano servizi maltrattamento all' infanzia. La stessa associazione a cui faceva riferimento il Centro per il bambino maltrattato di Milano presso cui si era formata Valeria Donati. La stessa associazione attorno a cui ha gravitato il centro Hansel e Gretel di Claudio Foti. Comunque sia, la mamma marocchina viene condannata a 6 anni e 8 mesi. Direte: può essere discutibile finché si vuole, ma una sentenza è una sentenza. Vero. Infatti non è questo il punto. L'aspetto più stupefacente della storia lo affrontiamo ora. Dice l' avvocato Miraglia che entrambe le bimbe sono state date in adozione. La più piccola, F, ormai cresciuta, «viene adottata dalla psicologa Donati che, dopo aver "accusato" la madre, ha pure gestito il caso. La maggiore», prosegue il legale, «sarebbe stata adottata, invece, da una coppia che abita a pochi metri di distanza dalla residenza della psicologa». Secondo la madre delle due ragazzine, quest' ultima famiglia avrebbe addirittura un legame di parentela con la Donati. Come è possibile? La Donati risulta single, e i single in Italia possono avere bambini in affido e in adozione solo in casi molto specifici. Non solo: non è un po' strano che una psicologa che ha seguito il caso di queste bimbe tolte alla madre ne prenda poi una con sé? La scorsa settimana, gli inviati di Chi l' ha visto? sono stati a casa della Donati, nel Modenese, e le hanno chiesto lumi. Lei ha rifiutato di rispondere, dicendo che non vuole parlare dei suoi affari privati. Il fatto, però, è che queste non sono esattamente vicende private. Tutta questa brutta storia, ancora una volta, mostra che il sistema italiano di gestione dei minori è pieno di luoghi oscuri e di stranezze che sarebbe ora di chiarire una volta per tutte. Per il bene dei genitori, ma pure dei bimbi.
Brunella Giovara per “la Repubblica” il 7 luglio 2019. Angeli e demoni si agitano insieme da queste parti, tra Bibbiano e gli altri sei Comuni della Unione dei Comuni della Val d' Enza, che condividono alcuni servizi e ora una storia scandalosa, se tutto verrà confermato a processo. Un gruppo di psicoterapeuti, operatori sociali, la dirigente dei servizi sociali, sotto inchiesta per aver manipolato alcuni bambini, inducendoli a confessare di aver subito violenze e abusi non veri, distorto i loro racconti, falsificato relazioni, favorito coppie affidatarie, e messo su una macchina infernale (l' inchiesta della procura di Reggio ha il titolo "Angeli e demoni") per far soldi, o per salvare i bambini, o entrambe le cose. Gli inquirenti hanno accertato che alcuni degli indagati hanno subito violenze durante l' infanzia, maltrattamenti e abusi, e ritengono che questo abbia influenzato la loro professione, come se avessero una missione da compiere. Angeli vendicatori, più che terapeuti. L' inchiesta ha travolto il sindaco pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di abuso d' ufficio e falso in atto pubblico: è estraneo alla parte minori ma è subito finito nel tritacarne dei social come "orco". Molti politici hanno attaccato il sistema degli affidi, Salvini ha promesso una commissione d' inchiesta, Meloni si è precipitata a Reggio Emilia. Il duro lavoro di migliaia di terapeuti e assistenti sociali perbene viene messo in dubbio, denigrato. Per capire, a questo punto dell' inchiesta, già peraltro arrivata al vaglio di un primo giudice che ha accolto le tesi dell' accusa e disposto le misure cautelari, conviene chiarire almeno alcuni passaggi. Al centro di tutto, Claudio Foti, fondatore del centro Hansel e Gretel di Moncalieri, autore di molte pubblicazioni, «un angelo dei bambini che adesso deve tornare al suo posto: il paradiso», dice il suo difensore Girolamo Andrea Coffari. «Uno studioso che lavora da trent' anni, ora umiliato da una misura cautelare. Ma la sua è una posizione marginale ». Foti è uno studioso discusso, al pari della "scuola" di esperti da lui formati, che fin da suo inizio lavorò moltissimo in Piemonte, poi basta. Il motivo lo spiega Anna Maria Baldelli, procuratore capo presso il tribunale per i minori di Torino: «Ha avuto il pregio di sensibilizzare sul tema abusi e maltrattamenti». Ma trattasi di materia delicata, ripete il magistrato, «servono cautela e prudenza». Equilibrio, chiunque lavori nel settore sa quanto sia difficile. E «ci sono quelli che negano l' esistenza degli abusi, e quelli che li vedono ovunque. Sono entrambe categorie pericolose. Foti si avvicina alla seconda, credo in buona fede». E perciò «da almeno 15 anni , si è ritenuto che ci fossero altre persone a cui fare riferimento. Noi abbiamo avuto la percezione di una mente non libera. Convinto di quello che diceva, ma non libero». Quindi, niente più perizie dai giudici e consulenze dai pm. Ha però continuato a lavorare come consulente di parte, nelle cause di separazione, nei casi di figli contesi.
I falsi ricordi. Un anno fa la procura di Reggio inizia a indagare su "un aumento esponenziale anomalo delle segnalazioni di abusi sessuali su minori provenienti dal Servizio sociale dell' Unione dei Comuni della Val d' Enza, con corrispondente emanazione di provvedimenti di allontanamento", scrive il gip. Si autorizzano le intercettazioni delle sedute con i minori, che sono sempre inviati in una struttura pubblica, "La Cura" a Bibbiano, gestita da una onlus sovvenzionata dall' ente locale. Qui vengono sottoposti a terapie da parte di professionisti privati della Hansel e Gretel, come Nadia Bolognini, moglie di Foti, accomunati dalla stessa metodologia: l' emersione del ricordo dell' abuso e la rielaborazione del trauma, e non ci sarebbe niente di male, ma secondo i magistrati questo doveva avvenire a tutti i costi, anche attraverso la costruzione di "falsi ricordi", ottenuti grazie a «significative induzioni, suggestioni, contaminazioni ». Ci sono anche false relazioni: una casa descritta come fatiscente, non adatta ad accogliere un minore (ma ai carabinieri risulta il contrario), e la contraffazione di disegni. A una figura maschile vengono aggiunte le mani che si allungano minacciose sulla bambina, il grafologo incaricato della perizia non ha dubbi sul falso. Dunque i giudici del tribunale per i minori di Bologna sono stati tratti in inganno, infatti il presidente Giuseppe Spadaro ha già detto «siamo parte offesa, in quanto depistati e frodati, assieme ai minori». Ha ordinato la rivisitazione di tutti i processi in cui erano presenti gli indagati. E chi negli anni si è visto sottrarre un figlio, con la controparte assistita da Foti e dai suoi, oggi può pensare di aver subito una frode e chiedere legittimamente la revisione.
Le sedute. Più interrogatori che sedute terapeutiche, con il bambino che fa resistenza a dire quanto si vorrebbe, o che gioca svagato, ma non dice niente di interessante, o magari alla fine lo dice. Certo, il profano, il non tecnico, non sa quali siano i metodi legittimi per arrivare a un racconto genuino del trauma. Appare evidente il pressing emotivo, ma solo un terapeuta potrebbe giudicare la correttezza degli indagati, infatti tre esperti (Rossi, Francia, Scali) lo hanno già fatto per il pm, e anche sulla base delle loro relazioni l' ufficio ha chiesto gli arresti. Foti definisce la Carta di Noto, il protocollo che dà le linee guida per l' esame del minore, un "Vangelo apocrifo". Uno dei suoi l' ha definita una cosa «scritta da quattro pedofili». Chi non la pensa come loro, viene accusato di essere "negazionista" degli abusi.
La "macchinetta magica". Una sciocchezza, emersa assieme agli arresti, ripresa (non da Repubblica), rilanciata dal ministro leghista Fontana, esplosa sui social, poi smentita dal procuratore di Reggio, Marco Mescolini. Vero è che talvolta usavano il dispositivo Neurotek, che emette vibrazioni utili durante le sedute di terapia EMDR. Isabel Fernandez è presidente dell' Associazione EMDR Italia (7 mila associati): «È una terapia efficace, nata per curare il disturbo da stress post traumatico dei veterani del Vietnam, ora usata con chi sopravvive a un terremoto, con quelli del ponte Morandi Si basa su movimenti oculari destra- sinistra, gli stessi della fase Rem del sonno. Il ricordo perde la sua carica emotiva negativa, si attenua ». Ma di certo «non fa affiorare ricordi di situazioni traumatiche che non sono avvenute. Se non c' erano abusi o maltrattamenti accertati, non c' era niente da trattare. Non si può cioè far ricordare ai pazienti cose che non hanno vissuto». E poi, la "macchinetta magica", così veniva presentata ai bambini, «viene usata solo quando il paziente non riesce a seguire il movimento suggerito dal terapeuta, guarda a destra, guarda a sinistra, o con gli ipovedenti», spiega Fernandez. Può essere dannoso? «No, ma è inutile», se non ci sono ricordi traumatici. E allora perché la usavano, definendola magica?
Il panico. Colpisce infine il panico che emerge dalle intercettazioni, quando i carabinieri cominciano a chiedere informazioni e documenti. Federica Anghinolfi, dirigente del servizio assistenti sociali (e paziente di Foti) ha la paranoia di essere intercettata. Di colpo tutti cercano di rimediare alle irregolarità, di mettere ordine nelle fatture, studiano soluzioni, anche per i regali dei genitori allontanati dai figli, che non venivano mai consegnati. Talvolta i terapeuti decidono che il minore non deve avere più contatti con la famiglia, né lettere né regali, ma qui pare che fosse la prassi. A gennaio Anghinolfi chiede che vengano consegnati, dice di essere stufa degli operatori, «non hanno l' autorità di negare la genitorialità », ma ormai la situazione è fuori controllo, Anzi no, l' assistente sociale Francesco Monopoli sa cosa fare: «Via gli appunti, come sempre! Via gli appunti», dice a una collega.
“Sbarre alle finestre e ore d’aria. La vita di due figlie strappate alla madre”. Quando le era concesso di andare a trovare le figlie, la madre non poteva scattare foto. Le portavano in una cantina di una chiesa perché, racconta: “Io non dovevo assolutamente sapere dove stavano. Era un segreto”. Costanza Tosi, Mercoledì 17/07/2019, su Il Giornale. Calci, pugni, schiaffi. Per anni, Sara ha dovuto subire le violenze e le angherie da parte del proprio compagno. Ha deciso di denunciarlo ma, gli assistenti sociali, invece di aiutarla e sostenerla, le hanno tolto le sue due bambine di 8 e 13 anni. Sara ha preso coraggio e ha deciso di contattarci per raccontare la sua disavventura. Di dirci come gli assistenti sociali le hanno strappato dalle braccia le sue figlie dopo aver denunciato il compagno. È passato poco tempo dalla denuncia e le due bambine sono state portare a Cesena, in una comunità che, dai racconti delle piccole, sembra essere la “casa degli orrori”. Così ci ha raccontato la madre che, dopo la denuncia ai carabinieri di Reggio Emilia, si è vista sotto esame da parte degli assistenti sociali. Secondo il tribunale avrebbero dovuto fare dei controlli per verificare la situazione familiare in cui vivevano le due bambine, Giada e Sole. Ma le cose non andarono proprio così. Qualche giorno dopo gli assistenti sociali di Reggio Emilia, a pochi chilometri da Bibbiano, ormai noto per l’inchiesta “Angeli e Demoni”, si presentarono a scuola dalle piccole, insieme ai carabinieri in divisa e, come si fa con i peggiori criminali, le presero davanti ai compagni increduli. Trascinate fuori dalla classe tra urla di paura e lacrime. Da quel giorno Sara non ha più vissuto con le sue piccole. Le sono state portate via. Le due sorelline furono affidate ad una coppia e, costrette dai servizi sociali, a vivere con loro, lontano dalla propria mamma. Una decisione che fa pensare che i controlli di cui parlava il tribunale di Reggio Emilia non fossero andati a buon fine. Peccato che, di quelle visite d’osservzione, non sia mai stata scritta nessuna relazione. “Vennero a casa, a controllare che fosse tutto a posto. Non dissero niente. La casa era pulita e in ordine. Infatti non mi fecero nessuna contestazione”. Racconta Sara. A giustificare la decisione di portarle via le sue bambine non una parola, nessuna spiegazione. La mamma non era idonea a crescere le proprie figlie. Lei, che pur di proteggerle aveva fatto di tutto per liberarsi del compagno violento. I giorni passavano e Giada e Sole continuavano ad incontrare la mamma di tanto in tanto, in costante contatto con la coppia che le aveva accolte e sotto la supervisione continua degli psicologi. Fino a quando, un giorno, gli assistenti sociali decisero che le bambine dovevano essere inserite all’interno di una casa famiglia di Cesena. “Non sono state prese in considerazione strutture più che idonee e libere a Reggio Emilia, né tantomeno a Bologna. Perché proprio a Cesena?” Non se lo spiega mamma Sara che, quando ha provato a chiedere informazioni ai servizi sociali, le è stato risposto: “Le fa per caso fatica andare a trovare le bambine a Cesena? Quella è la struttura migliore per loro”. Magari migliore per i servizi sociali, ma non per le due bambine che, dopo sei mesi sono scappate. “Mi hanno chiamata un giorno che dovevano essere al mare con la coppia affidataria (a loro erano concesse alcune gite fuori porta con le piccole), mi hanno chiesto di venirle a prendere, piangevano e dicevano che in quel carcere non ci volevano più tornare”. Ci racconta Sara, che ricorda alla perfezione quei momenti. Appena tornata a casa, la più grande delle due, ha iniziato a dire alla madre il perché di quella fuga. “Mia figlia mi diceva che lì dentro i bambini vengono maltrattati - spiega la mamma in lacrime mentre ci parla al telefono - addirittura mi ha raccontato di un bimbo di 8 mesi che viene legato al seggiolone per ore con la faccia rivolta verso il frigorifero mentre piange, piange in continuazione. Mia figlia mi ha raccontato anche che ad un bambino di appena sei anni gli davano delle pasticche per farlo addormentare ogni volta che piange o che non vuole mangiare. A mia figlia è rimasto impresso nella mente quel bambino perché poi dormiva per ore e ore. Giada dice che ha gli occhi persi. Sono psicofarmaci. Li imbottiscono di psicofarmaci”. Inferriate alle finestre e ore d’aria come fossero in carcere. Ai bambini è concesso di uscire poche ore al giorno e dopo il pranzo, dalle 13 alle 16, devono stare rinchiusi nelle proprie stanze. È questo quello che racconta la piccola Giada alla mamma. “Una volta sono andata a trovare le mie figlie e ho visto che la grande aveva dei lividi sulla pancia, mi disse che gliel’aveva fatti un ragazzino mentre giocavano. Ma nessuno aveva visto niente, erano soli.” Racconta Sara. Ma lei, di quei lividi, non ha mai potuto raccogliere le prove. Quando, due volte al mese, le era concesso di andare a trovare le figlie, non poteva assolutamente scattare foto. Le portavano in una cantina di una chiesa perché -spiega ancora la mamma- “io non dovevo assolutamente sapere dove stavano. Era un segreto”. Le era proibito anche di abbracciarle troppe volte, di dimostrarsi affettuosa e di scherzare con loro. Secondo gli psicologi questo avrebbe influito negativamente sull’umore delle bambine. Oggi Giada e Sole, dopo essere scappate dalla casa famiglia, sono tornate a vivere nella propria casa, ma non dimenticano ció che dicono di aver visto con i propri occhi, per otto lunghi mesi. Ricordi che, piano piano, cercano di raccontare ai carabinieri e al legale della madre, tenendo un diario che da giorni svela scene da brividi. Fiumi di parole che un giorno, si spera, serviranno a mettere la parola fine. I racconti sono tutti da provare, ma noi ve ne rendiamo conto. Di storie simili, in redazione, ne arrivano ogni giorno. Racconti drammatici e, molto spesso, denunciati alle forze dell’ordine.
Quelle risate tra gli psicologi: così i demoni si prendono i bambini. Pazzo per gli assistenti sociali, ma capace di intendere per gli psichiatri dell'Asl. Una scusa per portargli via i bambini. Nuove ombre sul sistema degli affidi dei bambini. Costanza Tosi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Per i servizi sociali Stefano era pazzo, incapace di intendere e di volere. E così gli assistenti sociali di Castelnovo Monti, gli hanno strappato i suoi tre figli. Per sempre. Una diagnosi che poi è risultata priva di ogni fondamenta perché Stefano pazzo non lo è mai stato. Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Era troppo tardi per risparmiare a Stefano anni di lotte e sofferenze. Nel 2015, Stefano si separa dalla propria moglie. Come in molti casi i litigi non mancano e il conflitto si inasprisce tanto che la donna minaccia di portargli via i bambini. Viene chiamato un consulente tecnico d’ufficio il quale, dopo aver valutato la questione, decide di ricorrere agli assistenti sociali. Da questo momento, per Stefano, ha inizio il calvario. Gli assistenti sociali chiamano a colloquio il padre e, dopo i controlli, arriva la prima relazione (ascolta le intercettazioni). Stefano viene dichiarato “inadeguato per crescere i bambini” e mandato in cura presso un centro di salute mentale. Viene fatto passare per pazzo come lui stesso ci racconta: “Mi hanno tolto i bambini, non me li facevano più vedere se non in brevi e sporadici incontri protetti”. Costretto a fare gli accertamenti, dopo che i brevi colloqui con gli assistenti sociali avevano messo in dubbio la sua stabilità mentale, Stefano legge con sollievo la prima diagnosi positiva, che gli avrebbe permesso di riabbracciare i propri figli, emessa da un neuropsichiatra della Asl di Castelnovo Monti, piccolo paese dell’Emilia Romagna. Era lì che viveva Stefano insieme alla sua famiglia. A soli 42 chilometri da Bibbiano, la città degli “Angeli e dei Demoni”, come definita dalle carte dell’inchiesta che ha scosso l’Italia. L’incubo per Stefano non svanisce, anzi. Viene convocato nuovamente il ctu (consulente tecnico d’ufficio) presso il tribunale di Reggio Emilia e, nonostante le visite andate a buon fine, la sentenza è l’ennesimo colpo al cuore: viene infatti dichiarato inadatto a svolgere il ruolo di padre perché, secondo i medici di parte, aveva gravi problemi mentali. Una sentenza che non toglie a Stefano la forza di lottare per avere giustizia. Il papà chiede un colloquio con i servizi sociali, durante il quale decide di portare con sè un telefono per registrare la conversazione. Una conversazione che lui stesso ha reso pubblica e che è a dir poco surreale. “Volevo avere le prove di come avrebbero giustificato la loro posizione. Io ho portato loro il referto medico che certificava la mia ottima salute mentale. Era una cosa su cui nessuno avrebbe potuto controbattere. Erano spalle al muro”, ci racconta Stefano. Andato via, il padre, dimentica nella sala il proprio zaino dentro il quale c’era il registratore. Lo recupera dopo 40 minuti e scopre delle registrazioni choc. “In quelle registrazioni c’erano discorsi agghiaccianti.” Ci dice Francesco Miraglia, avvocato specializzato in diritto dei minori, legale dell’uomo. “Dicevano: “Questo è uno stronzo (riferendosi allo psichiatra che aveva fatto la prima diagnosi), come facciamo a sostenere che questo è pazzo adesso?”. E poi, ancora, lunghe risate tra le quali gli psicologi cercavano di capire il modo migliore di agire per riprendere in mano la situazione. Per non dargliela vinta. Poco dopo l’incontro, però, arriva la decisione del tribunale: bisogna ripetere la ctu. E il giudice, questa volta, cambia la sentenza. Il padre è improvvisamente diventato capace di intendere e di volere. Nessuna mancanza psichica. Nessun bisogno di cure mentali. Stefano ha estratto alcuni brani dalla registrazione, e ha deciso di denunciare il suo caso pubblicandoli sulla propria pagina Facebook. Ma invece di ricevere delle scuse, la vittima delle falsità e dei complotti di alcuni assistenti sociali, viene perfino querelato. Denunciato per diffamazione. Sia dagli operatori che dal sindaco di Castelnovo Monti che, dalla storia raccontataci da Stefano, non c’entrerebbe nulla nel caso. “Episodio assurdo e gravissimo” ha commentato il legale. “Questi costruiscono diagnosi false con le quali tolgono i bambini alle persone! Ma come lavorano? Mancano buon senso e competenza professionale. E in questo modo quante vite si sono rovinate? Bisogna fare chiarezza.” Questa che vi raccontiamo è l’ennesima storia di violenze e soprusi, che getta ancora più ombre sul sistema degli affidi in Italia. "Adesso non possiamo più dire che è pazzo..."
Strappata ai genitori ancora prima di venire al mondo. Ancora prima di nascere il destino di Chiara era già scritto: a decidere della sua vita erano stati i servizi sociali di Bologna. Costanza Tosi, Martedì 16/07/2019 su Il Giornale. Strappata ai genitori ancora prima di venire al mondo. Chiara (nome di fantasia ndr) oggi ha appena 2 anni. I suoi genitori, lei non li ha mai visti. L’ospedale in cui è nata infatti era già in contatto con gli assistenti sociali e, in sole due settimane, la bambina è stata tolta alla mamma e al papà e resa adottabile. Ancora prima di nascere, il destino di Chiara, era già scritto. A decidere della sua vita erano stati i servizi sociali di Bologna, città ad un’ora di strada da Bibbiano, palcoscenico degli scandali emersi nell’inchiesta Angeli e Demoni, con una lettera inviata all’ospedale dove la madre della piccola avrebbe dovuto partorire da lì a poco. Nella mail, recapitata da un’assistente sociale del servizio ospedaliero agli operatori della struttura, ben venti giorni prima della nascita di Chiara, si segnalava, senza scrupoli, la “grave situazione sociale” della madre. Motivo per il quale, come si legge nel testo della mail, “nel caso in cui la signora dovesse partorire è necessario trasferire il neonato in neonatologia al fine di verificare le capacità genitoriali della signora e del compagno”. Per gli psicologi dunque era necessario valutare se la madre di Chiara fosse idonea a svolgere il suo ruolo di genitore senza, però, darle la possibilità di stare con la bambina. Dovevano capire l’affidabilità della mamma, la sua lucidità mentale. Una lucidità compromessa visto che avevano deciso di toglierle la figlia ancora prima che riuscisse a vedere il suo primo sorriso. Una storia che aggiunge un altro tassello al complicato giro di affidi dei minori in Italia. Una storia che, ancora una volta, fa pensare che i “demoni di Bibbiano” siano solo la punta dell’iceberg. Ma perché la madre di Chiara fu segnalata dagli assistenti sociali?
La sua storia. Vittoria segue le orme del padre e diventa medico. La sua è una famiglia piuttosto benestante. Ma, negli anni, Vittoria, soffre di problemi psichiatrici molto seri e inizia a farsi seguire da uno dottore. Ed è proprio per questo che finisce sotto l’osservazione degli assistenti sociali. Conosce un uomo sui social network, come ormai capita a molti, è di origine turca, arrivato in Italia con documenti regolari con i quali ha ottenuto il permesso di soggiorno. I due decidono di sposarsi e un giorno Vittoria rimane incinta. Chiara nasce il 25 luglio del 2017, ma già il 4 dello stesso mese all’ospedale era arrivata la fatidica lettera che segnava le sorti della piccola. Il 2 agosto il pm di Bologna presenta un ricorso. In cui, ancora una volta, viene richiesto di verificare la capacità genitoriale di Vittoria e del marito e controllare le condizioni della bambina. Il 4 agosto, due giorni dopo la richiesta del pm, i servizi sociali prelevano la bambina. In sole 48 ore senza considerare le tempistiche necessarie a fare valutazioni di questo tipo e a comprendere se fosse necessario prendere decisioni così drastiche, i servizi sociali strappano la neonata dalle braccia dei suoi genitori. Tuttavia, gli psicologi si affidano all' articolo 403 del Codice civile, che dice: “Quando il minore si trova in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. Dunque, l’articolo consente ai servizi sociali di allontanare i figli ai genitori senza dover prima passare per l’approvazione di un giudice. Una misura che però, per essere applicata, dovrebbe riferirsi a casi eccezionali, situazioni estreme. Ma nel caso di Chiara, il motivo che abbia portato alla decisione degli assistenti sociali rimane un quesito irrisolto. Un mistero. “Il pm, infatti, spiega l’avvocato Francesco Miraglia, legale della madre, aveva già fatto ricorso chiedendo di fare verifiche”. Verifiche che non sono mai state fatte. “Non si comprendono allora le ragioni di urgenza che avrebbero determinato l’applicazione del 403. Che, con tutta evidenza, è stata illegittima” aggiunge l’avvocato. Ad ogni modo la bambina è stata prelevata e affidata a una casa-famiglia. ll 10 agosto del 2017, il Tribunale di Bologna apre il procedimento di adottabilità di Chiara. Data che, secondo quanto dichiarato dal giudice, si tratterebbe di un “errore materiale”. Ma l’avvocato Miraglia non crede a questa posizione. Le cose per il legale erano già state scritte: “Sono certo che avessero già deciso tutto prima ancora che la bambina nascesse. Ci sono anche le mail inviate dai servizi sociali all' ospedale. Per di più, tra l’applicazione dell'articolo 403 e il provvedimento del Tribunale passa meno di una settimana: non c'erano proprio i tempi tecnici. Questo significa che tutto era già pronto prima”. Un decreto del Tribunale di Bologna del 21 giugno 2018 spiega che Chiara non può tornare a vivere con i suoi genitori. Secondo gli psicologi “il padre è una risorsa affettiva sufficientemente valida ma con elementi di fragilità individuati in un deficitario processo di integrazione nel tessuto socio ambientale e di una ridotta consapevolezza del problematico assetto mentale della moglie”.
La vita di Vittoria. Secondo lo psichiatra mamma Vittoria oggi sta molto meglio. È costantemente seguita e, consapevole della sua situazione, segue le cure indicate dai medici che la definiscono in gergo tecnico “compensata”. Ha ripreso a lavorare, scrive articoli scientifici per riviste importanti e conosciute. In più i due hanno una propria casa, e i genitori materni sono costantemente presenti e disponibili ad aiutare la famiglia. Il padre, accusato dal tribunale di essere poco integrato e di non conoscere bene la lingua, vive in Italia ormai da due anni e non ha problemi con l’italiano. Insomma, pare che la sua unica colpa sia vivere in un paese che non è il suo. Senza aver mai subito nessuna violenza, senza che mai i suoi genitori l’avessero maltrattata, abbandonata, molestata, Chiara è stata strappata dalla sua famiglia, e non potrà mai vivere con i genitori che l’hanno messa al mondo. Il Tribunale scrive che “secondo le linee guida per la valutazione clinica e l’attivazione del recupero della genitorialità nel percorso psicosociale di tutela dei minori del Cismai”, Vittoria e suo marito non sono idonei a fare i genitori.
Ora viene da domandarsi: ma come è possibile valutare l’operato di due genitori senza che questi abbiano vissuto con la propria figlia neanche un giorno della loro vita? Come è possibile sapere le condizioni in cui avrebbe vissuto la piccola ancor prima che venisse al mondo? Ancora una volta ci troviamo d’avanti ad un sistema che lascia spazio a troppe domande. Domande che i genitori, vittime innocenti delle scelte di psicologi, giudici e assistenti sociali, si pongono ogni giorno e a cui nessuno riesce a dare risposte. Ancora oggi tutta la famiglia di Chiara è pronta ad accogliere la bimba. Ci sono parenti, tra cui i nonni, che potrebbero tenerla in affido, ma neanche a loro è consentito stare con lei. Come i genitori, possono vederla solo un’ora al mese. ”Siamo sicuri che la Corte d’Appello di Bologna saprà valutare i fatti e alla piccola restituirà i suoi genitori e la sua famiglia”, dice l’avvocato Miraglia. Nella speranza che un giorno Chiara possa davvero conoscere la sua vera casa.
“Dicevano papà è uno str...”. Così i demoni strappavano i bimbi. Pazzo per gli assistenti sociali, ma capace di intendere per gli psichiatri dell'Asl. Una scusa per portargli via i bambini. Nuove ombre sul sistema degli affidi dei bambini. Costanza Tosi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Per i servizi sociali Stefano era pazzo, incapace di intendere e di volere. E così gli assistenti sociali di Castelnovo Monti, gli hanno strappato i suoi tre figli. Per sempre. Una diagnosi che poi è risultata priva di ogni fondamenta perché Stefano pazzo non lo è mai stato. Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Era troppo tardi per risparmiare a Stefano anni di lotte e sofferenze. Nel 2015, Stefano si separa dalla propria moglie. Come in molti casi i litigi non mancano e il conflitto si inasprisce tanto che la donna minaccia di portargli via i bambini. Viene chiamato un consulente tecnico d’ufficio il quale, dopo aver valutato la questione, decide di ricorrere agli assistenti sociali. Da questo momento, per Stefano, ha inizio il calvario. Gli assistenti sociali chiamano a colloquio il padre e, dopo i controlli, arriva la prima relazione. Stefano viene dichiarato “inadeguato per crescere i bambini” e mandato in cura presso un centro di salute mentale. Viene fatto passare per pazzo come lui stesso ci racconta: “Mi hanno tolto i bambini, non me li facevano più vedere se non in brevi e sporadici incontri protetti”.. Costretto a fare gli accertamenti, dopo che i brevi colloqui con gli assistenti sociali avevano messo in dubbio la sua stabilità mentale, Stefano legge con sollievo la prima diagnosi positiva, che gli avrebbe permesso di riabbracciare i propri figli, emessa da un neuropsichiatra della Asl di Castelnovo Monti, piccolo paese dell’Emilia Romagna. Era lì che viveva Stefano insieme alla sua famiglia. A soli 42 chilometri da Bibbiano, la città degli “Angeli e dei Demoni”, come definita dalle carte dell’inchiesta che ha scosso l’Italia. L’incubo per Stefano non svanisce, anzi. Viene convocato nuovamente il ctu (consulente tecnico d’ufficio) presso il tribunale di Reggio Emilia e, nonostante le visite andate a buon fine, la sentenza è l’ennesimo colpo al cuore: viene infatti dichiarato inadatto a svolgere il ruolo di padre perché, secondo i medici di parte, aveva gravi problemi mentali. Una sentenza che non toglie a Stefano la forza di lottare per avere giustizia. Il papà chiede un colloquio con i servizi sociali, durante il quale decide di portare con sè un telefono per registrare la conversazione. Una conversazione che lui stesso ha reso pubblica e che è a dir poco surreale. “Volevo avere le prove di come avrebbero giustificato la loro posizione. Io ho portato loro il referto medico che certificava la mia ottima salute mentale. Era una cosa su cui nessuno avrebbe potuto controbattere. Erano spalle al muro”, ci racconta Stefano. Andato via, il padre, dimentica nella sala il proprio zaino dentro il quale c’era il registratore. Lo recupera dopo 40 minuti e scopre delle registrazioni shock. “In quelle registrazioni c’erano discorsi agghiaccianti.” Ci dice Francesco Miraglia, avvocato specializzato in diritto dei minori, legale dell’uomo. “Dicevano: “Questo è uno stronzo (riferendosi allo psichiatra che aveva fatto la prima diagnosi), come facciamo a sostenere che questo è pazzo adesso?”. E poi, ancora, lunghe risate tra le quali gli psicologi cercavano di capire il modo migliore di agire per riprendere in mano la situazione. Per non dargliela vinta. Poco dopo l’incontro, però, arriva la decisione del tribunale: bisogna ripetere la ctu. E il giudice, questa volta, cambia la sentenza. Il padre è improvvisamente diventato capace di intendere e di volere. Nessuna mancanza psichica. Nessun bisogno di cure mentali. Stefano ha estratto alcuni brani dalla registrazione, e ha deciso di denunciare il suo caso pubblicandoli sulla propria pagina Facebook. Ma invece di ricevere delle scuse, la vittima delle falsità e dei complotti di alcuni assistenti sociali, viene perfino querelato. Denunciato per diffamazione. Sia dagli operatori che dal sindaco di Castelnovo Monti che, dalla storia raccontataci da Stefano, non c’entrerebbe nulla nel caso. “Episodio assurdo e gravissimo” ha commentato il legale. “Questi costruiscono diagnosi false con le quali tolgono i bambini alle persone! Ma come lavorano? Mancano buon senso e competenza professionale. E in questo modo quante vite si sono rovinate? Bisogna fare chiarezza.” Questa che vi raccontiamo è l’ennesima storia di violenze e soprusi, che getta ancora più ombre sul sistema degli affidi in Italia.
"Io, vittima delle rete dell'orrore. Così volevano strapparmi i bimbi". “Dopo poco tempo dalla mia richiesta di aiuto, senza che ci fossero accertamenti di nessun tipo, mi è arrivata a casa una lettera dei servizi sociali in cui era scritto che i bambini sarebbero stati affidati a loro. Volevano togliermeli. Senza ragione.” Costanza Tosi, Lunedì 08/07/2019 su Il Giornale. Si allargano i sospetti sui "demoni" di Reggio Emilia. Politici, medici, assistenti sociali e psicologi. Sono tutti coinvolti nell'inchiesta che ha scosso l’Italia. Alcuni di loro sono stati accusati di aver scritto documenti falsi per strappare i bambini dalle proprie famiglie e affidarli ad amici e conoscenti. Dietro compenso o, addirittura, dietro movente ideologico. Ma di colpevoli, in questa orribile storia, potrebbero essercene altri. Il numero delle vittime sembra infatti crescere giorno dopo giorno. Più si parla del caso è più storie vengono fuori. Storie simili a quelle che già abbiamo raccontato. Una madre, che chiameremo Giulia, perché ci ha chiesto di rimanere nell’anonimato, ci ha raccontato la sua storia. Una brutta storia. "Quando ho letto i giornali e ho visto quello che era successo sono rimasta allibita. Non potevo crederci. Le stesse persone coinvolte in questa brutta storia sono le stesse che hanno provato a portare via i miei due bambini. Per fortuna non ci sono riusciti. Ho pianto molto, ho detto ad amici che volevano portarmi via i figli a tutti i costi, ma nessuno mi credeva. Oggi, sapere che sono stati arrestati e scoperti mi fa tirare un sospiro di sollievo". Si sfoga così la madre, nella lunga chiacchierata al telefono. Un anno e mezzo fa Giulia, che vive a Bibbiano con i suoi due figli di 13 e 7 anni, ha deciso di contattare i servizi sociali. “Ero preoccupata per la situazione a casa, mio marito aveva iniziato a bere e ciò lo portava ad essere violento. Spesso con me, ma talvolta anche con i bambini. Avevo paura e mi sono rivolta a loro”, ha iniziato a raccontare la madre. Chiedeva aiuto e, invece, ha rischiato di finire nel triste e lungo elenco delle vittime. Non poteva mai immaginare che, quelle persone, di cui lei si fidava, potessero portarle via i figli. Un grido di aiuto, una speranza, la speranza di poter migliorare le cose, quella di Giulia. Che, però, si è trasformata in un incubo. “Dopo poco tempo dalla mia richiesta di aiuto, senza che ci fossero accertamenti di nessun tipo, mi è arrivata a casa una lettera dei servizi sociali in cui era scritto che i bambini sarebbero stati affidati a loro. Volevano togliermeli. Senza ragione. Nessuno era mai venuto a casa mia". Così è iniziato il lungo calvario di Giulia, sotto la costante osservazione dei servizi sociali dell’Unione Val D'Enza tra visite degli psicologi e incontri continui. Ma nessuna spiegazione del perché volessero strapparle i bambini. “Ogni volta cercavano di incolpare me. Perchè proprio me? Io non c’entravo nulla. Io ero vittima di mio marito, eppure su di lui non hanno detto niente. Anzi, a volte, sembrava che lo giustificassero. Più volte mi sono fatta delle domande e sono entrata in crisi". Racconta Giulia, con la voce rotta dal dolore, solo al ricordo. Impaurita, ma sollevata dopo l’operazione dei carabinieri. “Un giorno sono andata ad un incontro con la neuropsichiatra e quando le ho raccontato quale era il problema mi ha detto, quasi deridendomi: 'Signora ma lei non se lo beve un goccino ogni tanto?'. Avevo i brividi. Non riuscivo a capire”. I bambini di Giulia, tenuti sotto costante osservazione, erano costretti a passare intere giornate con i servizi sociali. Tra i responsabili e incaricati di stare con i piccoli c'erano Beatrice Benati, Marietta Veltri e Maria Vittoria Masdea. Educatrici dei servizi sociali finite nella bufera giudiziaria, indagate dalla procura di Reggio Emilia. "Mi dicevano che ero io che non sapevo gestire la situazione. Che i bambini avevano dei problemi. E tutto per colpa mia. Che mi dovevo imporre per farli andare da loro anche quando i miei figli non volevano". Ma perché incolpare proprio lei? Perchè non approfondire la situazione per allontanare dal padre, alcolizzato e violento, la madre con i suoi figli? Giulia non riusciva a dare una risposta a queste domande. Forse perché ai vertici dei servizi sociali non interessava affidare quei bambini alla madre. Quello che consentiva di portare a termine il proprio “gioco d’affari” era strappare via i bambini dalla famiglia naturale e affidarli ad altri. Questo era il modus operandi dell’associazione. Solo così sarebbero riusciti a mettere nelle tasche di amici e conoscenti denaro destinato al mantenimento. Da quello che dicono le carte era questa la loro tattica. Solo in questo modo avrebbero potuto sottoporre i bambini alle continue sedute degli psicologi della Onlus coinvolta nel giro di affari illecito, il Centro studi Hansel e Gretel. Il tutto, con la complicità dei genitori affidatari disposti, in cambio di soldi, a portare i piccoli nella “sala delle torture”. Ma con Giulia qualcosa è andato storto. “I miei figli mi raccontavano che li facevano solo disegnare, che non si divertivano e non ci volevano andare. Non me la sono sentita di continuare. Era tutto troppo strano”. Ancora per Giulia la battaglia non è terminata e, per chiudere definitivamente i rapporti con i servizi sociali, si è dovuta rivolgere ad un avvocato. Lei resta ancora sotto osservazione dagli psicologi.
Angeli e demoni, l’incubo di un padre: “Mi hanno strappato mia figlia a quattro anni”. Un padre a ilGiornale.it: “Quando ce l’hanno strappata via mia figlia aveva quattro anni. Adesso ne ha dodici ed è ancora costretta a vivere dentro quelle mura. Lontana da noi”. Costanza Tosi, Martedì 09/07/2019, su Il Giornale. C’è il sospetto che ci possano essere nuovi casi oltre a quelli già raccontati dall’inchiesta “Angeli e Demoni”. Nuovi medici coinvolti, nuovi psicologi corrotti, nuovi politici complici. Mentre dalle carte della procura di Reggio Emilia continuano a emergere particolari inquietanti, che descrivono il sistema illecito di affidi ad opera dei servizi sociali dell’Unione Val D’Enza, spuntano fuori altre storie, molto simili a quelli che già abbiamo raccontato. Sospetti e dubbi che hanno spinto altre famiglie a cui erano stati strappati i figli a scriverci. Famiglie, molto spesso solo padri e madri, che chiedono giustizia. Come Luigi (nome di fantasia ndr). La sua storia ha inizio dieci anni fa, quando decise di divorziare dalla moglie con cui, tre anni prima, aveva avuto la sua prima figlia. Come succede in molte famiglie, i genitori dopo la separazione andarono a vivere in due case differenti. “Da lì la mia ex moglie iniziò a non farmi più vedere la bambina. - Racconta Luigi - La teneva solo con sé e ogni volta che provavo ad andare a prenderla per passare del tempo assieme a lei, non me la faceva trovare. Porta chiusa, serrande sbarrate. Alcune volte ho passato ore ad aspettare che mi aprisse il cancello di casa. Ma niente da fare”. A quel punto Luigi decise di rivolgersi ai servizi sociali del suo paese, Montecavolo. Piccolo centro del reggiano, a pochi chilometri da Bibbiano, città finita nell’occhio del ciclone dopo l’arresto del sindaco dem accusato di abuso d’ufficio nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Una richiesta d’aiuto disperata, quella di Luigi, che sperava di riuscire a rivedere presto la sua bambina, di soli tre anni, dopo mesi di sofferenze e porte chiuse in faccia. Ma non è stato così. Luigi, la sua piccola, non l’ha più rivista. Ha lottato inutilmente per nove lunghi anni. ”Dopo la mia segnalazione i vigili sono riusciti a trovare la mia ex moglie mentre usciva di casa con mia figlia. L’hanno fermata, gliel’hanno portata via e da lì è stata data in affidamento ad una casa famiglia.” Ma anche questa volta, come nelle recenti storie che IlGiornale.it ha raccontato, l’allontanamento della piccola dai propri familiari avviene senza nessuna verifica. Da un giorno all’altro la bambina viene affidata ad un centro privato. Senza prima fare chiarezza su quali siano le problematiche di quella famiglia. Senza controllare come i genitori facciano a vivere la propria figlia. E, sopratutto, senza dare spiegazioni al padre, prima vittima di questa storia. Proprio lui che aveva agito nella speranza di rivedere la sua bambina si è visto portarsela via. ”Mia moglie è stata sottoposta a TSO per ben due anni.” Continua Luigi, che prova con fatica a ripercorrere la storia. I ricordi fanno troppo male. “Era continuamente sotto controllo. La trattavano come una persona con gravi problemi psichici. Senza prima aver fatto niente per riuscire a comprendere la situazione.” Ma la madre accettò di sottoporsi alle visite. Dopo due anni, e una miriade di controlli risultati negativi, la bambina è tornata a casa con la mamma. Sempre seguita dagli assistenti sociali. E sempre lontana dal proprio papà. Senza alcun motivo apparente. Ma non era finita. Gli operatori continuavano a tenere tutto sotto controllo, a fare continui sopralluoghi e, la prima relazione che scrissero dopo che la bambina era tornata a casa, fu l’ennesima congiura. Nelle carte i servizi sociali contestarono che la mamma non portava la figlia a scuola e neanche dal pediatra. “Mia moglie lavora in ospedale, era lì che faceva fare le visite alla bambina quando ce n’era bisogno. E loro lo sapevano benissimo.” Ma non c’è stato niente da fare. Grazie a quel documento pieno di futili pretesti e false accuse, a dire del padre, la bambina è stata riportata nella casa famiglia. E da lì non è più uscita. E pensare che fu proprio il padre a chiedere aiuto. “Quando ce l’hanno strappata via mia figlia aveva 4 anni. Adesso ne ha dodici ed è ancora costretta a vivere dentro quelle mura. Lontana da noi”, racconta Luigi trattenendo le lacrime dal dolore. “Abbiamo fatto di tutto per provare a tirarla fuori da lì. Nel 2014 io e la mia ex moglie ci siamo anche riavvicinati, andavamo a trovarla assieme, quelle poche volte che ci veniva concesso, per far capire agli assistenti sociali e anche a lei, che andava tutto bene. Loro ci dissero di non farlo più, che questo avrebbe creato ancora più problemi alla bimba. E che dovevamo assolutamente evitare.” Sparire. Tutti tentativi inutili quelli dei due genitori. Gli assistenti sociali non si sono spostati dalla loro decisione: la piccola doveva stare lontana dalla propria famiglia. E Luigi, ancora oggi, non si dà pace. “Posso vederla soltanto due ore ogni 20 giorni e alla mia ex moglie è consentito andarla a trovare un’ora al mese.” Ci spiega Luigi. “Qualche volta veniva affidata a mio fratello, padre di tre bambini. La portava al mare, la teneva nel fine settimana. Un giorno mi mandò alcune foto di mia figlia in spiaggia, non lo avesse mai fatto. Quando gli assistenti sociali lo hanno scoperto sono andati su tutte le furie. L’hanno tolta anche a lui. Non può più tenerla.” Oggi Luigi si è rivolto ad un legale e prega ogni giorno perché sia fatta giustizia. Nessun procedimento è stato aperto, ma adesso, dopo l’inchiesta “Angeli e Demoni” che ha portata o alla luce un presunto giro di affari sulla pelle dei bambini, Luigi vuol vederci chiaro. Troppe cose non tornano. “E se hanno lucrato anche sulla pelle di mia figlia?”, dice. Una storia, quella di Luigi, che poco si allontana da quelle delle vittime che abbiamo raccontato. Un quadro confuso che fa trapelare quell’ostinazione, a quanto pare ingiustificata, nel voler strappare una bambina ai propri genitori. Un susseguirsi di eventi che lasciano spazio a troppe domande.
Quei legami tra la consigliera Pd e i “demoni” indagati a Bibbiano. Il Partito Democratico di Bibbiano. Una presenza costante, si spera disattenta, in tutti gli eventi che hanno coinvolto il sistema degli orrori. Costanza Tosi, Venerdì 19/07/2019, su Il Giornale. Le indagini sugli scandali a Bibbiano proseguono. I punti si uniscono, dando vita a un tremendo intreccio che ha acceso i riflettori sull’assurdo meccanismo degli affidi in Italia. Dettagli che confermerebbero e coinvolgerebbero anche alcuni membri del Partito democratico di Bibbiano. Una presenza costante, si spera disattenta, in tutti gli eventi che hanno coinvolto il sistema degli affidi. Eventi nei quali, spesso, spunta un nome: Roberta Mori. Si tratta della presidente dem della Commissione Parità della Regione Emilia Romagna. È a lei che Federica l’Anghinolfi e il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (entrambi indagati e ora ai domiciliari), nel 2015, presentarono il Modello Val d’Enza. Modello che, al tempo, la Mori sponsorizzava con fierezza. Il sindaco PD e la prima responsabile degli affidi illeciti non erano i soli ad essere collegati a Roberta Mori. La consigliera pare conoscesse bene anche un altro degli indagati: Fadia Bassmaji, finita ai domiciliari assieme alla compagna. Entrambe erano amiche della Anghinolfi, vicine alla dem Mori, accusate di maltrattamenti verso la bambina che avevano preso in affido. La prova del rapporto di “amicizia” sta in tutti quei commenti pubblicati sulla pagina Facebook delle due compagne. Roberta Mori era solita seguire le due donne che, spesso, pubblicavano post con bandiere lgbt e cuori arcobaleno. Un modo per rimanere aggiornata. È lei la prima relatrice della proposta di legge regionale contro l’omotransnegatività. È lei una delle prime candidate, alle scorse elezioni europee, pro-LGBT, suggerita perfino dal sito Votoarcobaleno dell’Arcigay come candidato gayfriendly. Un candidato da sostenere e portare avanti. Ma non è tutto. Nel maggio 2016, la Mori partecipa, come relatrice, al convegno “Quando la notte abita il giorno: l’ascolto del minore vittima di abuso sessuale e maltrattamento. Sospetto, rivelazione, assistenza, giustizia.” Evento nel quale, circa la metà dei nomi che ritroviamo tra i relatori, sono gli stessi finiti nel registro degli indagati per l’inchiesta “Angeli e Demoni”. A parlare di maltrattamenti sui minori all’incontro c’erano, ancora una volta, Federica Anghinolfi e il sindaco democratico Andrea Carletti. Ma anche il luminare Claudio Foti, assieme al collega Monopoli e molti altri. Proprio il quell’occasione la Mori affermava, con soddisfazione, che per lei quello era più di un semplice incontro: “Un esempio concreto di quello che è praticare la prevenzione e il contrasto alla violenza“. E non mancava di citare l’audizione del 2015, sostenendo di voler essere, come regione, “partner e sponda rispetto ad un’esperienza che noi riteniamo esemplare per tutta l’Emilia Romagna“. La consigliera dem elogiava il sistema della Val d’Enza. Lo stesso sistema finito nel mirino della procura di Reggio Emilia. Non sappiamo se la Mori fosse a conoscenza del perverso meccanismo che muoveva le fila degli affidi, ma un fatto è certo: la Mori conosceva bene tutti coloro che, quel meccanismo, lo mettevano in atto. Ai danni dei più piccoli e delle loro famiglie. Tanto che a settembre del 2016, sempre la dem Mori partecipa, in compagnia di due sindaci del Pd (ora indagati), all’inaugurazione del centro “La Cura”. Stesso centro nel quale si svolgevano gli incontri tra le piccole vittime e gli psicologi della Hansel&Gretel. Tra i presenti all’inaugurazione anche Federica Anghinolfi. E sul proprio sito web la Mori metteva in evidenza l’evento, descrivendo “La Cura” come uno “spazio integrato a servizio di bambini e bambine vittime di abusi” nati dall’esperienza “agita su casi concreti e dai molteplici bisogni che ne sono scaturiti;” e, sottolinea, “bisogni che sono stati oggetto di una specifica audizione in Commissione assembleare Parità e Diritti delle Persone.” Un luogo dove i bambini avrebbero dovuto trovare pace. Insomma, la dem Roberta Mori, era sempre presente agli incontri organizzati dal giro della Val d’Enza. Sia che riguardassero famiglie e minori, sia che si parlasse di temi arcobaleno. Una presenza distratta, quella della consigliera, che ha per anni osservato da vicino il sistema degli affidi illeciti portato avanti dai servizi sociali della Val d’Enza, senza mai accorgersi di cosa stava succedendo, senza vedere cosa stessero facendo a quelle piccole vittime cadute nella rete degli orrori. Sebbene la Mori non risulti coinvolta nel giro d’affari di Bibbiano, è indubbio che fu lei a sostenere e appoggiare l'operato di una dei principali indagati dell'inchiesta “Angeli e Demoni”. E c’è chi non ci sta. A fine luglio la legge sulla omotransenagtività tornerà in aula e il capogruppo di Forza Italia, Andrea Galli, chiede alla presidente Pd Mori di lasciare l'incarico di relatrice. “Per la Mori, quello di Bibbiano, era addirittura un modello da esportare e in Commissione annunciò anche l’intenzione di promuovere in Val D’Enza un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema - spiega Galli -nel 2016 ribadì anche il concetto affermando proprio in un convegno a Bibbiano che quella esperienza era esemplare per tutta la Regione e si spinse ripetutamente a ringraziare pubblicamente la Anghinolfi per la sua dedizione. Ancora fu proprio la Mori a proporre di creare sul territorio un Centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all’Ausl di Reggio Emilia”. Continua Galli. “Oggi la Mori per opportunità politica e correttezza dovrebbe fare un passo indietro, non può essere lei a presentare come relatrice il disegno di legge sulla omotransegatività sostenuto dal mondo Lgbt al quale la Anghinolfi faceva apertamente riferimento. Si astenga, almeno per prudenza, almeno per poter attendere dalla giustizia una verità sugli orribili fatti che stanno emergendo a Bibbiano”. Presterà ascolto al consiglio del collega?
"Angeli e Demoni", si allarga l'inchiesta: indagati altri due sindaci dem. Il Pd emiliano elogiava l'esperienza della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema". Bignami: "Il Pd c'è dentro fino al collo". Costanza Tosi, Martedì 02/07/2019 su Il Giornale. Il Partito democratico finisce nell'occhio del ciclone nell’inchiesta sul business degli affidamenti dei minori. Non solo Andrea Carletti nel registro della pm si aggiungono altri due uomini del Pd. Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro adesso sono indagati per abuso d'ufficio. Proprio come lui, il primo cittadino di Bibbiano - Carletti, appunto - finito agli arresti domiciliari che, come scritto nell'ordinanza del tribunale di Reggio Emilia, era "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema (…) disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all'interno dei locali della struttura pubblica della Cura". Il tutto in "costante raccordo" - si legge sempre - con Federica Anghinolfi, la donna paladina delle coppie gay che dava in affido i bambini anche a donne omosessuali a lei legate. A collegare i due nomi c'è anche una certa familiarità con il mondo della sinistra. Se il sindaco era politicamente legato al Pd, anche la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza non sembra essere sconosciuta a quell'ambiente, vista la sua partecipazione - per esempio - alla festa dell'Unità di Bologna del 2016. "Il Pd c'è dentro fino al collo", dice senza esitazioni Galeazzo Bignami, di Forza Italia, parlando di quello che considera uno "scandalo in salsa rossa". Eppure, dopo i 18 arresti disposti dal Gip, a sentire le dichiarazioni degli esponenti del Partito democratico sembra quasi che il sindaco sia una sorta di pecora nera nel sistema del welfare della Regione. "Ciò che sta emergendo dall'operazione dei carabinieri ha contorni che, se confermati, sarebbero di una gravità inaudita", ha detto l'assessore rosso alla Sanità dell'Emilia-Romagna, Sergio Venturi. "In quel caso è chiaro che la Regione si troverebbe ad essere parte lesa". Sulla stessa linea anche il segretario regionale del Pd Paolo Calvano e il capogruppo democratico in Regione Stefano Caliandro che, in una nota congiunta, hanno dichiarato: "Se quei fatti fossero confermati, la Regione sarebbe parte lesa e in quanto tale in sede giudiziaria va presa in considerazione anche la costituzione di parte civile". Il Partito democratico sembra quindi lavarsene le mani. Si dissocia dal sindaco e lo disconosce. Spulciando tra i resoconti della Regione Emilia, però, spunta un incontro che fa discutere. Era il 2015 quando in commissione parità venivano ascoltati Federica Anghinolfi e il primo cittadino Carletti. "Ero consigliere regionale quattro anni fa, vennero e ci portarono quel sindaco e la responsabile del progetto come esempio in Regione di un sistema virtuoso di tutela dei bambini", racconta l'onorevole Bignami al Giornale.it. In tale occasione Federica Anghinolfi parlò proprio di "creare sul territorio un centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all'Asl di Reggio Emilia". La consigliera Yuri Torri, di Sel, invitava addirittura l'ente a "intervenire per mettere a sistema l’esperienza sviluppata in Val D'Enza in questo anno e a formalizzare dei protocolli". E fu proprio in quell'occasione che emerse anche che il numero di abusi su minori segnalati sul territorio era troppo alto. Ma in Commissione, Luigi Fadiga, Garante per l’infanzia e l' adolescenza dell' Emilia Romagna, a tal proposito spiegò che "l' errore più grave sarebbe etichettare l'area, perché il fenomeno non è certo circoscritto, nel reggiano semmai c'è stato il coraggio di denunciare e intervenire". E non tardò l’appoggio dell’Anghinolfi che aggiunse: “È stata molto importante”, disse, “la volontà di proseguire l'ascolto delle giovani vittime anche dopo aver raccolto un numero apparentemente sufficiente di informazioni”. Insomma, solo pochi anni fa, la sinistra emiliana elogiava i metodi della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema", come si legge negli atti. Oggi, invece, si dichiara "parte lesa" e fa finta di non sapere. "Federica Anghinolfi partecipava continuamente a incontri con la sinistra - fa notare però Bignami - E quello è l'esempio che il Pd ci portava". Un modello che si è rivelato un incubo. Un modello che non va certamente seguito ma condannato. “Siete stati voi, il caro Partito democratico, a rendere potente questa gente sfuggendo al vostro controllo, nella migliore delle ipotesi…” aggiunge Bignami in un video sulla sua pagina Facebook. Un controllo a cui, i responsabili degli orrori compiuti ai danni dei bambini, sono sfuggiti proprio sotto i loro occhi. Sotto gli occhi disattenti degli uomini del Pd. Come è possibile che nessuno nell’amministrazione locale del Partito democratico sia riuscito a scovare le falle di questo sistema? Sarebbe stato sufficiente non farsi sfuggire i numeri. Numeri, peraltro, riportati nei bilanci dell’Unione. Sarebbe bastato controllare quanti erano i bambini che, negli ultimi anni, erano stati dati in affido dai servizi sociali e, magari verificare anche gli importi degli assegni erogati dai centri di assistenza per minori. Come ha fatto Natascia Cersosimo, consigliere comunale del Movimento 5 stelle nell'Unione Comuni Val d'Enza. Fu lei a chiedere, a seguito di una proposta di aumentare di 200mila euro i fondi a favore delle strutture di accoglienza per minori, i documenti che giustificassero tale richiesta. Dai documenti era tutto chiaro. Chiaro e allarmante. Dal 2015 al 2018 il numero degli affidi era aumentato in maniera sorprendente. Come scrive Paolo Pergolizzi su Reggiosera.it, “i bambini dati in affidamento erano zero nel 2015, 104 nel 2016, 110 nel 2017 e 92 nei primi sei mesi del 2018”. Quindi dal 2015 al 2016 cento bambini sono stati dati in affido e, negli anni a seguire, il numero era in costante crescita. Ma c’è di più. Tutti i numeri erano in aumento. “Le prese in carico per violenza sono state 136 nel 2015, poi 183 nel 2016, fino alle 235 del 2017 e le 178 del primo semestre 2018. In sostanza, se si fosse arrivati fino a fine anno, si potrebbe dire che nel 2018 sarebbero state praticamente triplicate rispetto a tre anni prima”, scive sempre Reggiosera.it. Di conseguenza a crescere erano anche i soldi pubblici destinati all’assistenza dei minori. Più affidi, più soldi. “Si passa dai 245.000 euro del 2015, ai 305.000 euro del 2016, fino ai 327.000 euro del 2017 e, infine, a una proiezione di spesa di 342.000 euro nel 2018. Stessa cosa per quanto riguarda le spese necessarie per gli incontri con gli psicologi: dai 6.000 euro del 2015 ai 31.000 del 2017, fino ai circa 27.000 del primo semestre 2018”. Ma se le cifre destavano sospetto, gli amministratori locali della zona interessata si giustificavano e mettevano le mani avanti. Nel documento ufficiale sulla gestione dei servizi avevano scritto infatti: “I dati di grave maltrattamento ed abuso della Val d'Enza, superiori alla media regionale, non sono ascrivibili ad un fenomeno locale specifico, ma sono in linea con i dati mondiali dell'Oms e di importanti organizzazioni internazionali come Save the Children e Terre des Hommes. Tali dati dimostrano l'essenzialità di un lavoro di rete efficace e qualificato, in linea con le ottime - ma ampiamente disattese - linee guida regionali sul tema”. Un confronto, che a dirla tutta, non regge proprio. O, per meglio dire, aggrava la situazione. Infatti, con questa dichiarazione, si sostiene che i dati sugli abusi fossero in linea con quelli forniti da Ong internazionali operanti in territori di guerra o in Paesi in via di sviluppo. Non proprio una condizione ideale per un comune italiano.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 2 luglio 2019. La piccola Katia adesso è più al sicuro. La sua storia è forse la più straziante fra tutte quelle - orribili - che compongono l' inchiesta «Angeli e demoni» riguardante gli abusi su minori a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Una storia che, probabilmente, le lascerà addosso segni indelebili. Questa bambina è stata tolta ai genitori nel 2016 e affidata successivamente a una coppia di donne, Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, che si sono unite civilmente nel giugno del 2018. Le «due mamme» avrebbero dovuto prendersi cura della piccina e invece, a quanto risulta dalle carte dell' inchiesta, la vessavano e maltrattavano. Un trattamento che, come ha scritto la Gazzetta di Reggio, «ha portato il giudice Luca Ramponi a togliere subito l' affidamento alla coppia, prescrivendo il divieto di avvicinamento a più un chilometro dalla bimba oltre al divieto di comunicare con lei». Questa vicenda contribuisce a fare luce sull' aspetto ideologico del sistema bibbianese, legato al mondo Lgbt. Leggendo quanto è accaduto alla povera Katia, non si può non pensare a ciò che scriveva un sacerdote modenese, don Ettore Rovatti. Egli ebbe a che fare con un caso per certi versi simile a quello reggiano, avvenuto anni fa nel Modenese e raccontato da Pablo Trincia nel libro-inchiesta Veleno (Einaudi). Di fronte agli assistenti sociali che ingiustamente toglievano i figli a famiglie magari difficili ma non colpevoli di abusi, don Ettore disse: «C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico. Cioè, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata». Ecco, queste parole ci risuonano in testa mentre cerchiamo di ricostruire la storia di Katia. La bimba, dicevamo, è stata tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di lesbiche. Le quali poi, assieme alla psicologa Nadia Bolognini, avrebbero tentato di inculcare «nella minore la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata presso la famiglia di origine». L' avrebbero insomma indotta a credere di essere stata abusata e molestata dai genitori naturali. A quanto pare, però, era tutto falso. Come scrive il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, «tra tutti i bimbi monitorati dalle indagini e dati in affido dai servizi sociali della Val d' Enza, Katia è apparsa quella con meno problematiche e totalmente estranea [...] a situazioni di abuso sessuale».
A maltrattarla realmente, pare, erano invece le «due mamme». La piccina viene affidata a loro grazie a una delle protagoniste principali dell' inchiesta, ovvero Federica Anghinolfi, 57 anni, dirigente del Servizio di assistenza sociale dell' Unione Comuni Val d' Enza. Secondo il giudice, sarebbero «la sua stessa condizione e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell' abuso da dimostrarsi a ogni costo». Già: la Anghinolfi è a tutti gli effetti un' attivista Lgbt. Nel 2014, la nostra fu intervistata dal Corriere della Sera per magnificare l' affido arcobaleno. In quell' occasione spiegò: «Non è per forza il genere che definisce la figura paterna, ma il ruolo: è il genitore "normativo", quello che dà le regole. Mentre la figura materna è calda, "accuditiva"». In un' altra intervista, risalente al 2016, sosteneva che «in questo Paese è ancora troppo forte l' idea della famiglia patriarcale padrona dei figli». Di affido gay la Anghinolfi ha parlato nel maggio 2018 durante un convegno intitolato «Affidarsi. Uno sguardo accogliente verso l' affido Lgbt», organizzato dall' Arcigay mantovana e sponsorizzato da Comune e Provincia di Mantova (sul caso, la Lega nord ha presentato un' interrogazione al Comune lombardo). Sapete chi altro partecipò all' incontro mantovano? La signora Fadia Bassmaji, presentata come «promotrice progetto Affidarsi e affidataria». La Bassmaji e la Anghinolfi vengono definite dal giudice «persone assai attive nella difesa dei diritti Lgbt». Ma non condividevano solo la militanza ideologica. Nelle carte dell' inchiesta si legge che Fadia e Federica «risultavano avere avuto in passato tra loro una relazione sentimentale». Riepilogando: la Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali, dà in affidamento una bimba alla Bassmaji, sua ex compagna che si è unita civilmente a un' altra donna, Daniela Bedogni. Non solo: «La sorella della Bedogni», spiega il giudice, «è risultata anche lei una "intima amica" della Anghinolfi». Ed è proprio attorno alla figura della Bedogni che emergono i particolari più inquietanti. Costei, sostiene ancora il Gip reggiano, «si dimostra instabile e del tutto convinta del proprio ruolo essenziale [...] di natura "salvifica" a favore della minore», cioè della piccola Katia. In alcune intercettazioni ambientali, la Bedogni si esprime con «urla deliranti in cui manifestava il proprio odio contro Dio con ininterrotte bestemmie di ogni tipo alternate d' improvviso a canti eucaristici». In altre occasioni dà luogo a «interi colloqui con persone immaginarie», a «deliri improvvisi in cui [...] immagina situazioni inesistenti» e poi, ancora, «sproloqui di ogni tipo, sempre intervallati da bestemmie e canti eucaristici». Il giudice dettaglia: «In totale evidenza di squilibrio mentale, mentre si trova da sola in auto, urla ininterrotte bestemmie, instaura veri e propri discorsi con soggetti immaginari di cui imita le voci». È a costei che è stata affidata Katia. E infatti i problemi non hanno tardato a manifestarsi. In un' occasione, per esempio, la bimba viene letteralmente «sbattuta fuori dall' auto» della Bedogni «sotto la pioggia battente», mentre la madre affidataria le grida: «Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!». È per via di episodi di questo tipo che Katia è stata tolta alle «due mamme». Ma lei non è la sola bimba affidata a una coppia lesbica grazie alla Anghinolfi. Un' altra ragazzina viene affidata a Cinzia Prudente, amica di vecchia data dell' assistente sociale. Anche con la Prudente la Anghinolfi ha avuto una storia sentimentale. Di più: le due donne, nel 2011, hanno acquistato una casa insieme, di cui pagano ancora il mutuo metà per una, anche se nell' abitazione vive la Prudente assieme a sua moglie Paola. Secondo il giudice, sapendo che la Prudente era in difficoltà economiche, la Anghinolfi le avrebbe fatto ottenere un assegno da 200 euro mensili per il mantenimento della ragazzina in affido, anche se il suo unico impegno consisteva «nel passare un paio d' ore con la ragazza circa un paio di volte al mese per prendere un caffè insieme e fare una chiacchierata». Vantaggi economici avrebbero ottenuto anche la Bedogni e compagna, che percepivano un «contributo forfettario mensile doppio» rispetto alla cifra (620 euro) corrisposta agli altri affidatari. Qui, però, la sensazione è che più dei soldi, più di tutto, conti l' ideologia: la fissazione di voler dare in affido i bambini a coppie arcobaleno. Anche se poi li maltrattavano.
“Io accusato di omofobia per togliermi il figlio e darlo a una coppia gay”. "Mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Costanza Tosi, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. Da un lato bambini traumatizzati, plagiati dagli psicologi e strappati dall'affetto dei loro cari. Dall'altro i loro genitori che non si danno pace. Tutte vittime di una rete di donne e uomini disposti a tutto, come si legge nelle carte dell'inchiesta "Angeli e demoni". Ma non solo. Incontriamo un uomo - che ci chiede di restare anonimo e che chiameremo Michele - che inizia a parlarci. La sua odissea inizia nel 2017, quando gli vengono strappati i figli per darli in adozione a una coppia gay. Tutto inizia con una denuncia per maltrattamenti (adesso archiviata dal tribunale di Reggio Emilia) fatta dalla sua ex moglie. I servizi sociali della Val D'Enza cominciano a monitorare la famiglia, come ci racconta lo stesso uomo: "Venivano a controllare in continuazione. Mi contestavano che la casa non fosse idonea a far vivere i miei figli. Mi hanno detto che la camera dei bambini era troppo pulita, quasi che loro non avessero mai dormito in quella stanza. I giocattoli erano riposti nell'armadio e anche questo a loro non tornava. Cercavano sempre delle scuse, a volte banali". Ispezioni assidue e incontri continui. Gli assistenti stilavano lunghe relazioni, spesso fantasiose, secondo Michele. Relazioni che però non corrispondevano alla realtà dei fatti in qunato falsificavano gli eventi. Tra le righe delle relazioni infatti ci sarebbero racconti di fatti che però non sarebbero mai avvenuti. Mese dopo mese, anzi, i servizi sociali aggiungevano ulteriori dettagli per creare la figura del "papà cattivo", un pretesto - per gli inquirenti - per togliere i bambini al genitore e affidarli alla madre che, dopo essere andata via di casa, viveva con la sua nuova compagna. Michele doveva quindi diventare l’orco cattivo, il padre violento sia con i figli che con la moglie. “Un giorno - racconta Michele a ilGiornale.it - mentre mi stava per salutare, mio figlio ha iniziato a piangere perché non voleva andare con la madre. Io non riuscivo a capire, ma siamo riusciti a calmarlo e tutto si è sistemato. Poi è andato via con lei". Ma non solo. Poco dopo Michele scopre dei dettagli agghiaccianti, nelle relazioni dei servizi sociali: "Scopro che Beatrice Benati, che aveva redatto la relazione, nel raccontare i fatti scriveva: 'I bambini si riferivano al padre, insultandolo'. Lì ho capito che c’era qualcosa di strano. Perché avrebbero dovuto scrivere una cosa per un'altra? A che scopo? Ancora oggi me lo chiedo". Il 15 giugno del 2018 Michele viene convocato dagli assistenti sociali. Incontra Federica Anghinolfi e Beatrice Benati (oggi agli arresti domiciliari) che gli comunicano che non potrà più vedere i suoi figli se non “in forma protetta una volta ogni 21 giorni.” La motivazione? "Lei è omofobo!", gli spiega la Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali, e attivista Lgbt. "Io ero sconvolto, non volevo crederci - spiega Michele- Chiesi spiegazioni e mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Adesso, dopo un anno, Michele pensa solo ai suoi figli, soprattutto al più piccolo. A causa delle pressioni psicologiche e dei traumi subiti durante il percorso di allontanamento dal padre ora il bambino soffre di problemi psichici. "Sta soffrendo molto, questa situazione lo sta distruggendo e io ho le mani legate. Ha degli atteggiamenti preoccupanti, me lo hanno detto anche le insegnati di scuola - sospira Michele, che fa fatica a parlare e ha la voce rotta dal dispiacere - Dice spesso che non sa che farsene della sua vita, che vuole morire". Sono questi i pensieri di un bambino allontanato dalla propria famiglia. Pensieri che nessuno dovrebbe mai fare. Soprattutto un bambino.
Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi.
Reggio Emilia, lavaggi del cervello e scosse elettriche sui minori da dare in affido. Diciotto persone arrestate, anche un sindaco pd. Tutti accusati di aver alterato relazioni e ricordi dei bambini per toglierli ai genitori di origine e affidarli ad altre famiglie. Alessandro Fulloni 27 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Certificazioni false per strappare i bimbi a famiglie in difficoltà e affidarli ad altre con requisiti più idonei. Ma non solo. Man mano che i dettagli aumentano e vengono resi noti, questa indagine dei carabinieri condotta dai carabinieri di Reggio Emilia — e che prende il nome, eloquente, di «angeli e demoni» — appare sempre più sconvolgente. Si parla, in sintesi, di piccoli tolti illecitamente ai genitori per darli (dopo un giro di soldi) ad altri. Ma per costruire le condizioni necessarie a questo passaggio, ogni mezzo era lecito: comprese false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Un vero e proprio «lavaggio del cervello», insomma. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti rieletto poche settimane fa al secondo mandato, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti e psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Torino sono stati raggiunti da misure cautelari varie, che vanno dai domiciliari (come nel caso dello stesso primo cittadino) al divieto temporaneo di esercitare la professione. Una disposizione, questa, indirizzata a dirigenti amministrativi e operatori sociosanitari. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto le false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Uno sconvolgente «business» attorno all’infanzia che andava avanti da svariati anni e che coinvolgerebbe decine e e decine di minori.
«Impulsi elettrici sui bambini». Nella medesima inchiesta, coordinata dalla pm Valentina Salvi ci sono anche decine di indagati. Quello ricostruito dagli investigatori è un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati ci sono frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Tra i metodi contestati, ore e ore di intensi «lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l’uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come «macchinetta dei ricordi», un sistema che in realtà avrebbe «alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari».
«Difficili situazioni sociali». La finalità del gruppo di persone sotto inchiesta, secondo la procura, era sottrarre figli a famiglie in difficili situazioni sociali, e affidarli, dietro pagamento, ad altri genitori. Per ottenere questo scopo sarebbero stati usati metodi per manipolare la memoria e i racconti delle vittime e falsificare i documenti. Appunto: ecco il perché dei falsi dossier composti da disegni dei bambini falsificati con l’aggiunta di dettagli a carattere sessuale, abitazioni descritte falsamente come fatiscenti, stati emotivi dei piccoli relazionati in modo ingannevole, travestimenti dei terapeuti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, denigrazione della figura paterna e materna.
«Ricordi pilotati». Tutto ciò serviva a «pilotare» i ricordi e i racconti dei bambini in vista dei colloqui con i giudici incaricati di decidere sul loro affido. Un particolare sconvolgente: dopo l’allontanamento dalle famiglie d’origine i minori sarebbero stati addirittura vittime di stupro all’interno delle famiglie affidatarie e delle comunità. Non bastasse, c’è anche questo: i Servizi Sociali per lunghi anni hanno omesso di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.
Le misure interdittive. Oltre al sindaco, altre cinque persone sono state sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Tra queste la responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un’assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus. Ulteriori otto misure cautelari di natura interdittiva, costituite dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali sono state eseguite a carico di dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento a un minore riguardano una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e in decine di perquisizioni domiciliari.
I soldi attorno al business. Secondo i carabinieri, quello sugli illeciti affidamenti di minori in provincia di Reggio Emilia è «un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali». Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, «in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione».
Scosse elettriche e lavaggi del cervello ai bambini per allontanarli dalle famiglie e fare soldi. Nel Reggiano scoperta una rete di medici, assistenti sociali e politici avevano messo in piedi un sistema per lucrare sugli affidi. Venti misure di custodia cautelare. Coinvolto anche il sindaco di Bibbiano (Re). La Stampa il 27/06/2019. False relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Il tutto per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito anche ad amici e conoscenti, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Questi i contorni dell’operazione «Angeli e Demoni» condotta dai carabinieri di Reggio Emilia che ha portato, in queste ore, all’esecuzione di una ventina di misure cautelari nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti. Gli indagati, secondo l’accusa, avevano messo in piedi da diversi anni un illecito e redditizio sistema di «gestione minori», il cui radicamento sull’intero territorio nazionale è tuttora in fase di sviluppo investigativo. Agli arresti anche il sindaco di Bibbiano (Re). e assistenti sociali nonché psicoterapeuti di una nota Onlus di Torino. Tra i destinatari di altri provvedimenti cautelari anche psicologi dell’Ausl reggiana. Sono poi decine gli indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio sanitari. Secondo il quadro accusatorio, quello che veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati, altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari delle misure cautelari sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Ore e ore di «intensi lavaggi del cervello» intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori anche in tenera età, questa l’accusa, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le «più ingannevoli e disparate attività». Tre queste, sempre secondo la ricostruzione dei militari, relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata «aggiunta» di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come «macchinetta dei ricordi». Il tutto durante, spiegano gli investigatori, i lunghi anni nei quali i Servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Infine secondo il quadro accusatorio ci sarebbero stati due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l’illegittimo allontanamento. L’operazione, senza precedenti in Italia e condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia è stata coordinata dal sostituto procuratore, Valentina Salvi.
Reggio Emilia, lavaggio del cervello e falsi documenti per allontanare bambini dai genitori. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, raggiunte da misure cautelari. Sono accusate di aver sottratto i minori alle famiglie per darli in affido retribuito a conoscenti. Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop. La Repubblica il 27 giugno 2019. Ore e ore di intensi lavaggi del cervello durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l'uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come "macchinetta dei ricordi", un sistema che in realtà avrebbe "alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari". Sono alcune contestazioni che emergono dall'inchiesta Angeli e Demoni sulla rete dei servizi sociali della Val D'Enza, nel Reggiano, che ha portato a misure cautelari per diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Moncalieri, in provincia di Torino, perquisita questa mattina. Le misure cautelari sono state eseguite dai carabinieri di Reggio Emilia. Il sindaco è agli arresti domiciliari. Uguale provvedimento per la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un'assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus torinese. Ulteriori otto misure di natura interdittiva (divieto temporaneo di esercitare attività professionali) sono state eseguite a carico di altrettanti dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. L'inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, ha dell'incredibile: vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D'Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. E non solo. Secondo il quadro accusatorio, quello che veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati, altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari delle misure cautelari sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso. I minori venivano allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le "più ingannevoli e disparate attività". Tre queste, sempre secondo la ricostruzione dei militari, relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata "aggiunta" di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi "cattivi" delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi. Il tutto durante, spiegano gli investigatori, i lunghi anni nei quali i Servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Infine secondo il quadro accusatorio ci sarebbero stati due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l'illegittimo allontanamento. Alcune vittime dei reati, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo" evidenziano i carabinieri di Reggio Emilia, che hanno svolto gli accertamenti. Le indagini sono iniziate alla fine dell'estate 2018 dopo un'anomala escalation di denunce all'Autorità Giudiziaria, da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. L'analisi dei fascicoli vedeva puntualmente approdare le indagini verso la totale infondatezza di quanto segnalato. Da questo spunto si è sviluppata l'indagine che ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l'accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, "artatamente trasmessi all'Autorità Giudiziaria". Il vicepremier Luigi Di Maio parla di "una galleria di atrocità assolute che grida vendetta" e ha dato indicazione ai suoi uffici di scrivere immediatamente una lettera al ministro Fontana per chiedere una verifica immediata di tutto il sistema di affidi nazionale, perchè "orrori simili non sono accettabili". Di Maio attacca il Pd: "Quello che viene spacciato per un modello nazionale a cui ispirarsi sul tema della tutela dei minori abusati, il modello Emilia proposto dal Pd, si rivela oggi come un sistema da incubo".
Servizi sociali, affidi illeciti: 18 misure cautelari. "Lavaggio del cervello ai bimbi". Affari con i minori tolti alle famiglie, ai domiciliari anche il sindaco di Bibbiano. L'inchiesta: i piccoli suggestionati anche con impulsi elettrici. Di Maio: "Verifiche urgenti". Benedetta Salsi il 27 giugno 2019 su Il Resto del Carlino. Diciotto persone, tra le quali il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti (video), politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una nota onlus di Torino sono stati raggiunti da misura cautelare questa mattina dai carabinieri di Reggio Emilia (foto) per affidamenti illeciti di minori. L'inchiesta ‘Angeli e Demoni’ coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti. Sono 27 gli indagati. Sono agli arresti domiciliari il sindaco di Bibbiano e altre cinque persone (la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza, una coordinatrice dello stesso servizio, un'assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus). Dieci misure cautelari di natura interdittiva, il divieto temporaneo di esercitare attività professionali, sono state eseguite a carico di altre otto persone, dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine, altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento ad un minore sono state eseguite a carico di una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Un giro d’affari, quello ricostruito dagli investigatori, da centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. I carabinieri che hanno svolto gli accertamente evidenziano che lcune vittime dei reati contestati dall'inchiesta, oggi adolescenti, "manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo". Le indagini sono iniziate alla fine dell'estate del 2018 dopo l'anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali coinvolti, per ipotesi di reati di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori. E l'analisi dei fascicoli vedeva puntualmente approdare le indagini verso la totale infondatezza di quanto segnalato. Da questo spunto si è sviluppata l'indagine che ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l'accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, "artatamente trasmessi all'Autorità Giudiziaria". Secondo gli investigatori, quello svelato dall'inchiesta 'Angeli e Demoni' è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell'indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, "in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell'Autorità Nazionale Anticorruzione". Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e di decine di perquisizioni domiciliari. I bambini, stando alle contestazioni, venivano suggestionati durante sedute di psicoterapia anche mediante l’uso di impulsi elettrici, spacciato ai piccoli come “macchinetta dei ricordi”, che in realtà avrebbe “alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari. Tra gli affidatari dei minori anche titolari di sexy shop.
"Falsificati i disegni dei bambini, lavaggio del cervello". Ore e ore di intensi lavaggi del cervello intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori, anche di tenera età, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività, tra le quali: relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata “aggiunta” di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”. Questi, secondo l'indagine 'Angeli e demoni' dei carabinieri di Reggio Emilia, erano solo alcuni dei metodi adottati nei confronti dei bambini con l'obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi mantenerli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento di una Onlus piemontese. Il tutto durante i lunghi anni nei quali gli appartenenti ai servizi sociali indagati omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i Carabinieri hanno trovato e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.
Di Maio scrive a Fontana: "Verifiche urgenti al sistema affidi". Il ministro Di Maio, a quanto si apprende, ha dato indicazione ai suoi uffici di scrivere immediatamente una lettera al ministro Fontana per chiedere una verifica immediata di tutto il sistema di affidi nazionale, perché "orrori simili non sono accettabili. E non lo saranno mai!".
Terapeuti vestiti da cattivi delle fiabe e regali nascosti. Così gli psicologi e gli assistenti sociali manipolavano la mente dei bambini. Francesca Bernasconi, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. False relazioni, disegni "artefatti attraverso la mirata aggiunta di connotazioni sessuali", terapeuti travestiti da cattivi delle fiabe, regali nascosti e scosse elettriche. Così, gli psicoterapeuti e gli assistenti sociali manipolavano la mente dei bambini su cui il giudice avrebbe dovuto decidere se strapparli o meno alle loro famiglie di origine. L'inchiesta dei carabinieri, che questa mattina ha portato all'arresto di 18 persone e all'inserimento di un'altra decina nel registro degli indagati, racconta un quadro raccapricciante, fatto di "ingannevoli attività", messe in piedi per allontanare i piccoli dalle loro famiglie. Tra gli stratagemmi usati da medici, psicologi e assistenti sociali della onlus torinese implicata, anche quello di travestirsi da personaggi malvagi delle fiabe, "in rappresentanza dei genitori intenti a fargli del male". Inoltre, per anni, i servizi sociali hanno evitato di "consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali", accatastate in un magazzino e scoperte dai carabinieri. Tutte tecniche che, insieme ai lavaggi del cervello e alle torture con elettrodi e scosse, servivano per alterare i ricordi dei bambini e far emergere una realtà falsata. In questo modo, facevano credere ai bambini di aver subito abusi nelle famiglie di origine. In questo modo, il giudice decideva spesso per l'affidamento dei minori, che venivano affidati ad amici o conoscenti delle persone implicate nel giro.
Torture sui bambini, accertati 2 casi di stupro nelle famiglie affidatarie. Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop e persone con problemi psichici. Francesca Bernasconi, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Prima tolti ai genitori per denaro, poi sottoposti a torture e infine stuprati. È quanto emerso dall'inchiesta "Angeli e Demoni" dei carabinieri di Reggio Emilia, che questa mattina hanno arrestato 18 persone, accusate di aver messo in piedi un sistema per sottrarre i bambini alle proprie famiglie di origine, per affidarli a quelle di amici o conoscenti, in cambio di ingenti somme di denaro. Nel giro sono coinvolti politici, medici, assistenti sociale e persino il sindaco Pd di Bibbiano, che falsificavano relazioni e alteravano i ricordi dei piccoli, per convincere il giudice a dare i bambini in affido. Gli investigatori hanno intercettato ore e ore di lavaggi del cervello sui bambini, a opera di psicologi e assistenti sociali che, per alterare i ricordi dei minori, ricorrevano anche a scosse elettriche, quella che loro chiamavano "macchinetta dei ricordi". Tramite gli elettrodi venivano generati falsi ricordi di abusi sessuali, in realtà mai subiti dalla famiglia di origine e, grazie a falsi disegni e relazioni non veritiere, spesso il giudice decideva a favore dell'affido. Tra gli affidatari, figuravano anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Ma una volta arrivati nella nuova famiglia o nella comunità, non sempre l'incubo delle torture finiva. Alcuni bambini, infatti, venivano sottoposti ad abusi e le indagini hanno accertato due casi di stupro presso i nuclei e le comunità affidatari.
Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 28 giugno 2019. «Caro papà mi manchi tanto spero che ci rivedremo al più presto. Vorrei che mi portassi uno dei tuoi splendidi regali. Mi potresti scrivere un biglietto o un messaggio più spesso perché di te non ho più ricevuto nessun biglietto e quindi mi sono chiesta perché. Quando avrai finito di leggere per favore prendi immediatamente carta e biro e scrivimi una bella lettera. L' aspetto con tutto il cuore, ti voglio un bene gigante e infinito». È la lettera di una bimba allontanata nel 2016 alla famiglia naturale e data in affidamento a una coppia di due donne. Iniziato come un caso di maltrattamenti, i servizi sociali dei Comuni della Val d' Enza si erano convinti che fosse stata abusata dal padre. Non era così. Anche se quella famiglia non era perfetta, papà e mamma non erano dei mostri. Litigavano spesso, questo sì. Volevano separarsi. Ma gli assistenti sociali e gli psicoterapeuti consulenti dell' ente territoriale volevano a tutti costi dimostrare gli abusi. Hanno cercato di manipolare i ricordi della bambina, di indirizzarla sul solco dell' accusa, anche con il contributo effettivo delle due donne affidatarie. Un abominio, umano e professionale. In più, nella relazione al tribunale civile, nell' ambito della causa di separazione dei genitori, gli assistenti sociali avevano scritto che «lei non voleva rivedere il padre». Quella lettera l' avevano nascosta in un fascicolo, al fondo di un cassetto. Da questa storia si apre la sofferta misura cautelare firmata dal Gip di Reggio Emilia Luca Ramponi. Centodue capi d' imputazione. Il giudice, sviscerando le indagini dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Reggio Emilia, ripercorre minuziosamente una decina di episodi, sfociati negli ultimi due anni in dolorose inchieste per presunti abusi sessuali e allontanamenti familiari. Le indagini sulle indagini ribaltano la realtà. Svelando il «fanatismo persecutorio» di assistenti sociali, ispirati da psicologi terapeuti venerati come oracoli. Come Claudio Foti, direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel Onlus, associazione torinese che ha fatto scuola nell' ambito delle cure alle vittime di abusi, e nell' assistenza di minori in condizioni di disagio.
Consulente di magistrati, promotore di convegni. Un' autorità. «Gli indagati - scrive il Gip - erano convinti pregiudizialmente che, a fronte di ogni minimo indizio, o anche solo sospetto, magari proveniente da voci di paese citate come fonti nelle relazioni, i minori oggetto di segnalazioni e prese in carico fossero vittima di abusi, questa era la loro convinzione circa la verità storica delle vicende riferibili ai minori». Così, stando alla procura di Reggio Emilia, si è costruita un' opera sistematica di «false relazioni» ai tribunali, con disegni di bambini manipolati ad arte per far credere ai giudici l' esistenza di violenze mai avvenute, con metodi terapeutici spinti con fervore al di là dei confini della scienza per dare la caccia ai fantasmi inesistenti, con l' impiego di «apparecchiature elettriche» spacciate per «macchina della verità». Il risultato è l' epilogo tragico. In un caso, uno dei bambini sottratti per presunti abusi, finisce per essere veramente abusato da un cugino, nell' ambito della famiglia affidataria. Anche altri nuclei familiari, compresa la coppia di donne, di cui una molto amica della responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi, sono indagati per lesioni - che il Gip qualifica in gravemente colpose e non dolose secondo l' impostazione della procura - per aver «inculcato» nei minori assistiti «falsi ricordi», alterando così il loro equilibrio fisico. Ma perché si è arrivati fino a questo punto? Lo scrive il Gip. «Erano fermamente convinti della superiorità del loro metodo di trattamento e di approccio al minore "abusato": ciò vale ovviamente per Foti e gli psicologi del suo gruppo che avevano persino pubblicato il proprio manifesto ideologico-scientifico, ma questo vale anche per gli assistenti sociali che avevano aderito a quel metodo, partecipando a convegni per supportarne la validità e preferendo, per i minori a loro affidati, le terapie di quel gruppo di professionisti, a costo di soppiantare illegittimamente gli psicologi dell' Asl». Il resto dell' inchiesta, sono abusi d' ufficio e affari «collaterali», come si legge negli atti. «L' ingiusto vantaggio economico ottenuto dal centro studi Hansel e Gretel, i cui membri Claudio Foti, Nadia Bolognini (moglie di Foti), Sarah Testa, esercitavano sistematicamente, a nessun titolo, l' attività di psicoterapia». Compensi più che raddoppiati, da 60 euro a 135. Si parla di alcune decine di migliaia di euro. Incarichi ottenuti senza gare d' appalto. Contributi d' affido gonfiati agli amici. Non sono i danni all' erario ciò che inorridisce di questa inchiesta, ma le conseguenze sulle vite dei minori e delle famiglie. Il Gip Ramponi si spinge oltre nella ricostruzione, cercando le radici di queste ossessioni professionali, seppur rivolte a nobili fini. E le trova analizzando le storie individuali dei terapeuti e degli assistenti sociali . Molti sono stati vittime di abusi e maltrattamenti familiari. «Così che il proprio vissuto personale li ha resi arrendevoli al pregiudizio».
Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Anni fa Panorama si era occupato delle stranezze sugli affidi di bambini in Emilia. Alla luce dell'inchiesta di oggi sembra che nulla sia cambiato. Maurizio Tortorella il 27 giugno 2019 su Panorama. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.
Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna?
«Sono decine, centinaia? Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono».
L’abbandono?
«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso».
E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?
«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali».
Come si svolgeva il lavoro?
«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo».
Cioè?
«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore».
E lei che cosa fece?
«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?
«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato.
Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?
«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati»».
Che cosa vuol dire «inadeguato»?
«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili».
Perché?
«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla».
Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?
«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché».
Che cosa intende dire?
«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato».
Possibile?
«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare».
Ma sono retribuiti, i giudici onorari?
«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca».
È una denuncia grave. Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?
«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna».
Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?
«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3».
Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?
«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica».
E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?
«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà».
Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?
«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali.
Ipotizzi lei una stima.
«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più».
Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?
«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti».
E a quel punto che cosa accadde?
«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani».
Fu allora che si scatenò il contrasto?
«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce».
Così lei tornò a Bologna?
«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti».
Sta dicendo che fu minacciato?
«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura».
E ora?
«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete».
Che cosa chiede?
«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».
Elettrodi sulle mani e forzature: ecco come manipolavano i ricordi dei bambini «Così ci hanno portato via nostro figlio». Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Giovanni Bianconi, Elvira Serra su Corriere.it. A interrogare la bambina tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di donne, nell’ottobre scorso, c’erano le due nuove mamme e la psicoterapeuta Nadia Bolognini, che poneva le domande. La bambina, che chiameremo A., si lamentava di non avere più visto il padre, e la dottoressa le dice: «Ma non ti ricordi che hai detto che non lo volevi più rivedere?» A.: «Non ho detto questo». Le due donne affidatarie intervengono per sostenere il contrario, ma A. insiste: «Io non ho detto che non volevo vederlo». Il confronto va avanti a lungo, con le adulte impegnate a far «confessare» la bambina e A. che resiste. Anzi, spiega che le piacerebbe reincontrare i veri genitori: «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancavano gli abbracci del papà...». Più la Bolognini prova a stimolare la memoria di A.: «Avevi paura che ti facessero del male... Me lo hai detto, ti ricordi?». Ma A. non ricorda: «Quando?». È solo uno dei colloqui intercettati dai carabinieri e utilizzati dal giudice per dimostrare le pressioni e manipolazioni delle parole dei minorenni tolti alle famiglie d’origine. Una delle più innocenti, che serve al giudice per definire «destituita di fondamento e quindi certamente falsa», la paura di A., nei confronti del padre. In un’altra circostanza una psicologa del servizio di neuropsichiatria infantile della Asl di Montecchio Emilia riferisce che la bambina B. le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. A corredo della relazione allega due disegni: uno certamente fatto da B., di un uomo con la barba e senza mani; un altro in cui lo stesso uomo era «accanto a un’altra figura, con le proprie mani allungate all’altezza della zona genitale della citata seconda figura». Un’aggiunta, secondo l’accusa, fatta «personalmente» dalla psicologa per avvalorare quanto affermato nella relazione. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati al termine della prima fase di un’inchiesta complessa e complicata, dove le testimonianze dei bambini (già di per sé materia delicata), s’intrecciano con il lavoro di assistenti sociali, psicologici e affini (che pure è sempre di non facile valutazione) coincidono con quelle del perito incaricato di valutare gli interrogatori a cui fu sottoposta A.: «La bambina è considerata vittima di abusi senza che vi sia riscontro giudiziario di ciò e interferendo, quindi, con gli accertamenti di tale evenienza. Sono presenti significative e pericolose induzioni, suggestioni e condizionamenti che possono interferire significativamente con la rappresentazione mentale degli eventi, contribuendo quindi al rischio di falsi ricordi ma anche quelli al contesto familiare d’origine».
Il movente - oltre che economico attraverso incarichi, sussidi e pagamenti di rette - sarebbe secondo l’accusa anche «ideologico», a vantaggio di «scelte terapeutiche favorenti psicologi privati ai danni del servizio pubblico». Di una delle persone arrestate, la dirigente del Servizio di assistenza sociale dell’Unione Comuni Val D’Enza Federica Anghinolfi, omosessuale e già legata ad alcune donne affidatarie di minorenni, il giudice scrive che sono «la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la “causa” dell’abuso da dimostrarsi “ad ogni costo”». Nell’antologia dei casi analizzati dal giudice ci sono accuse di maltrattamenti nei confronti dei minorenni affidati alle nuove famiglie, o quelle accuse rivolte al padre naturale di C. - un altro bambino sottratto alla famiglia d’origine - di avere abusato sessualmente del figlio, nonostante l’indagine penale su quel vecchio fatto fosse stata archiviata. Ci sono le descrizioni di falsa indigenza e abbandono utilizzate come motivo per portare via i minorenni, come le denunce attribuite a una madre senza però dare conto dei disturbi mentali della donna. E c’è l’accusa di violenza privata rivolta alla dottoressa Bolognini (anche lei arrestata) per l’utilizzo della «magica macchinetta dei ricordi», una congegno «a impulsi elettromagnetici con cavi che la minore doveva tenere tra le mani», presentato come uno strumento utile e rievocare «le cose brutte» vissute in precedenza. Utile ad aprire «lo scatolone del passato e la cantina», senza fidarsi «delle persone che dicono di volerti bene».
Il giudice ipotizza che sulle condotte dell’indagata pesino problemi personali passati e presenti, addebitando ad essi una «insofferenza riversata in una rabbia repressa sfociata negli atteggiamenti con i minori». Tra questi c’è «l’uso degli elettrodi per indurli a ricordare abusi solo sospettati, e di cui non si potrà ormai più sapere se siano avvenuti o meno, attraverso la inquietante “macchinetta dei ricordi”». Agli arresti è finito anche il marito della Bolognini, Claudio Foti, altro psicoterapeuta accusato di «modalità suggestive e suggerenti» nelle domande rivolte a D. per farle confessare presunte violenze sessuali subite dal padre. L’obiettivo, per gli inquirenti, era sempre lo stesso: «Costruire un’avversione psicologica dei minori per la famiglia di origine». E gli indagati lo perseguivano attraverso una «percezione della realtà e della propria funzione totalmente pervertita e asservita al perseguimento di obiettivi ideologici non imparziali».
Minori in affido: «Dicevano che un disegno dimostrava le violenze». Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Elvira Serra su Corriere.it. La sua faccia sorridente sbuca dalle scale. Il padre lo prende in braccio, fa le presentazioni. Il bambino non si intimidisce, però ha voglia di andare dentro per fare la merenda: è stato tutto il giorno a giocare all’oratorio, è tornato da poco a casa, la madre gli ha appena fatto la doccia e lui ora ha fame. La donna gli prende dal frigo delle merendine fresche, il figlio ne scarta una e scappa via, dietro la porta, probabilmente nella sua stanza. In cucina restiamo noi quattro: i genitori e il nonno. Non hanno voglia di parlare, sono preoccupati di quello che potrebbe ancora succedere, ma la rabbia, quella si intuisce, e il padre, in fondo, non la vuole nemmeno nascondere. «Riesce a immaginare quello che ci hanno fatto?». Lo racconta, incerto se andare avanti o fermarsi, perché l’avvocato preferisce che non parli adesso, non è il momento. Un anno fa hanno ricevuto la visita dei servizi sociali, sono andati a casa loro due volte. Poi una convocazione in questura, per lui, e dai servizi sociali per lei. «Mi hanno detto che mio marito aveva usato violenza contro il bambino. C’era un disegno che lo dimostrava. Io non l’ho mai visto quel disegno, né prima né dopo, e non ho mai visto il padre fare del male a nostro figlio», va avanti la moglie. «Mi hanno chiesto se volevo restare con mio figlio o con mio marito. Era ovvio che non avrei mai lasciato il bambino! Così siamo stati per sei mesi nella casa famiglia. Mio marito ce lo hanno lasciato vedere solo il primo mese. Non penso che abbia subito qualche trattamento strano: ha continuato ad andare a scuola, era tranquillo, e poi noi eravamo insieme, quando lui rientrava c’ero io ad aspettarlo». La loro storia replica il «sistema» applicato dal Servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza. Venivano individuate le famiglie più deboli e si creavano ad arte prove che giustificassero l’allontanamento dei minorenni: disegni manipolati, violenze mai avvenute. I bambini venivano poi affidati ad amici degli indagati, che in alcuni casi percepivano il doppio della diaria prevista in questi casi: 1.300 euro anziché seicento, grazie a false certificazioni, fornite dalla Onlus Hansel e Gretel, che dichiaravano come il minore fosse «problematico». Per cambiare i ricordi che i bambini avevano dei loro genitori, venivano plagiati, secondo l’accusa, con veri e proprio lavaggi del cervello. Gli inquirenti fanno notare con rammarico che tutti i genitori, adesso, nessuno escluso, hanno paura di parlare. Non si fidano della macchina giudiziaria e sperano, soprattutto, di rivedere presto i loro figli. Perché a differenza di questo bambino vispo che ricompare in cucina dicendo di avere ancora fame, gli altri non sono ancora tornati a casa.
«Facciamo un funerale a papà». Le frasi choc ai bambini in affido. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Una foto con tanti regali accatastati e mai consegnati e un disegno che ritrae un uomo mentre accarezza ambiguamente una bimba. Ma il disegno è falso perché qualcuno ha aggiunto due lunghe braccia. Sono le due immagini che raccontano, in sintesi, l’indagine sui finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili variabili tra i 600 e 1.300 euro al mese) ad altre coppie giudicate più adatte dagli operatori finiti sotto inchiesta. La foto è quella dei regali e delle lettere spediti ai figli da quei papà e quelle mamme che se li sono visti togliere senza che ci fossero state denunce alle forze dell’ordine. Pacchi dono ammucchiati (in genere per Natale e Pasqua ma anche per compleanni e promozioni) in una stanzetta dei Servizi sociali di Bibbiano, il comune travolto dall’inchiesta e il cui sindaco, il pd Andrea Carletti, è ai domiciliari assieme ad altre cinque persone per accuse varie tra cui abuso d’ufficio e falso. In un angolo si vedono una Barbie, degli scarpini da calcio, un pandoro, una console, altri giocattoli e dei vestiti. Una voce femminile intercettata nella stanza da una «cimice» piazzata dai carabinieri dice che «giacciono qua per mesi. Nessuno glieli consegna (ai bambini tolti e dati in affido, ndr) perché dicono che è meglio così...». «Il punto è che si voleva annichilire, direi annullare, qualunque forma di presenza dei veri genitori» è il ragionamento fatto da un investigatore che si è commosso alla lettura di lettere e bigliettini — «pensieri affettuosi e testimonianze d’amore» — mai arrivati a destinazione.
E poi c’è il disegno contraffatto, il «caso pilota» da cui è partita l’inchiesta. Tratti ingenui a matita di una bimba che si ritrae accanto all’ex compagno della madre. Compaiono anche quelle braccia innaturalmente protese verso la piccola. Una modifica fatta «personalmente» dalla psicologa della Asl di Montecchio Emilia che seguiva la bimba, scrive il gip Luca Ramponi nell’ordinanza che ha disposto 16 misure cautelari. L’operatrice riferisce che la bambina le ha confidato che l’ex convivente della madre a cui era stata sottratta la toccava nelle parti intime. L’aggiunta serviva per avvalorare quanto affermato nella relazione. Nelle carte dell’indagine coordinata dal procuratore Marco Mescolini e dal comandante dei carabinieri Cristiano Desideri c’è anche il caso di un assistente sociale che, assieme a una dirigente comunale, inserisce tra virgolette delle frasi pronunciate da un’altra bambina. Parole però «frutto dell’elaborazione dei due indagati». Per esempio: «Mia mamma non fa più da mangiare perché papà non le dà i soldi per la spesa». E ancora: in casa «cibo avariato lasciato sui mobili da diversi giorni». Ma un sopralluogo dei carabinieri smentisce poi la circostanza. In un’altra circostanza, una psicologa dell’Asl diagnostica alla bambina una sintomatologia «seduttiva e sessualizzata». Ma omette di riferire delle precedenti crisi epilettiche della piccola, «che avrebbero consentito una diversa valutazione». Oppure due affidatarie dichiarano falsamente che la stessa bambina aveva detto loro di temere che i genitori «potessero rapirla». Non manca, infine, una singolare «terapia di elaborazione del lutto» per considerare emotivamente morto un genitore e farlo sparire dai ricordi: «Dobbiamo vedere tuo padre nella realtà e sapere che quel papà non esiste più e non c’è più come papà. È come se dovessimo fare un funerale!», spiega una psicoterapeuta a un ragazzino. I sei minori — di età compresa tra i cinque e gli undici anni — tolti alle famiglie (ma i casi su cui si indaga sono «svariate decine») rientreranno a casa. Ma non subito: servono altre relazioni del tribunale e per intanto resteranno dagli affidatari.
Reggio Emilia horror. Lavaggio del cervello ai bambini. Il film dell’orrore di Reggio Emilia: in manette 18 persone, anche un ex giudice. Ai domiciliari anche il sindaco dem di Bibbiano, Andrea Carletti, coinvolta la stessa onlus dell’inchiesta “veleno” disegni e colloqui manipolati secondo il gip. Simona Musco il 28 giugno 2019 su Il Dubbio.
Reggio Emilia horror. E’ una storia così brutta che non sembra vera. Perché dentro ci sono tutti gli ingredienti giusti per dar vita ad un film horror: disegni di bambini falsificati, padri e madri dipinti come mostri, scene di violenza simulata con travestimenti, regali e lettere d’affetto tenuti nascosti. Una vera e propria manipolazione su bambini dai 6 agli 11 anni, con un unico tremendo obiettivo: togliere decine di ragazzi ai propri genitori per affidarli ad altri, per guadagnare soldi in cure private e corsi di formazione.
Inchiesta “Angeli e Demoni”. Un quadro raccapricciante descritto nell’inchiesta “Angeli e demoni”, condotta dalla procura di Reggio Emilia. Si parla di lavaggi del cervello, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per alterare «lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari». Sono 27, in totale, le persone coinvolte nell’inchiesta del pm Valentina Salvi, 18 destinatarie di ordinanza. Tra loro il sindaco Pd di Bibbiano ( Reggio Emilia) Andrea Carletti, al centro di tutto assieme alla rete dei servizi sociali dell’Unione comuni Val D’Enza. Carletti è finito ai domiciliari assieme alla responsabile e una coordinatrice del servizio sociale integrato. Un’assistente sociale e due psicoterapeuti della onlus di Moncalieri “Hansel e Gretel”.
Docufilm Veleno. La stessa coinvolta nei casi risalenti al periodo a cavallo il 1997 e il 1998. Raccontata dal docufilm “Veleno”. Quando sedici bambini vennero allontanati dalle proprie famiglie nella bassa modenese su indicazione dei servizi sociali per presunti abusi e riti satanici, ma senza prove reali. Le accuse sono a vario titolo di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso.
Arrestato anche un giudice. E in manette è finito anche un ex giudice onorario del tribunale dei minori di Torino, Claudio Foti, direttore scientifico della onlus. Secondo il gip «alterava lo stato psicologico ed emotivo attraverso modalità suggestive e suggerenti con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale e con tali modalità convinceva la minore dell’avvenuta commissione dei citati abusi». A far scattare l’inchiesta alla fine dell’estate del 2018, l’anomala escalation di denunce da parte dei servizi sociali, che ipotizzavano abusi sessuali e violenze ai minori da parte dei genitori. Inchieste che, puntualmente, finivano nel nulla ma che hanno rappresentato i pezzi del puzzle di un’altra storia.
Falsificazioni e complicità. Nonostante le archiviazioni, infatti, i servizi sociali proseguivano con il percorso psicoterapeutico, attraverso falsi documentali redatti in complicità con alcuni psicologi. L’iter era sempre uguale: al bambino di turno veniva diagnosticata una patologia post traumatica e così veniva preso in carico dalla onlus, con prestazioni psicoterapeutiche senza procedura d’appalto. Gli affidatari – amici e conoscenti dei servizi sociali – venivano incaricati di accompagnare i bambini alle sedute e di pagare le fatture a proprio nome, ricevendo mensilmente rimborsi sotto una simulata causale di pagamento.
Sistema redditizio. Un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro tramite quello che per tutti rappresentava un modello istituzionale per la tutela dei minori abusati. In realtà si nascondeva uno schema di reciproci conferimenti d’incarichi. Da un lato la Onlus aveva il monopolio di tutto il servizio dell’ente, compresi convegni e corsi di formazione, mentre i dipendenti coinvolti ottenevano incarichi di docenza retribuiti, in master e corsi di formazione della onlus. Un sistema tanto solido da portare all’apertura di un Centro specialistico regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti. I servizi sociali garantivano l’assistenza legale ai minori attraverso la sistematica scelta di un avvocato, indagato per «concorso in abuso d’ufficio», con fraudolente gare d’appalto gestite dalla dirigente del Servizio, con lo scopo di favorirlo.
Creare l’inferno. Una situazione familiare normale, secondo le indagini, veniva trasformata in un inferno. A partire dai disegni dei bambini, ai quali venivano aggiunti dei dettagli inquietanti, in grado di indurre terribili sospetti. Le case di quelle famiglie venivano descritte falsamente come fatiscenti, gli stati emotivi dei bambini travisati e per convincerli della cattiveria di mamma e papà. I terapeuti utilizzavano anche dei travestimenti, interpretando i personaggi cattivi delle fiabe come rappresentazione dei genitori, intenti a fargli del male. E poi c’erano lettere e regali spediti negli anni da parte delle famiglie naturali ai figli affidati ad altri. Regali accumulati in un magazzino e mai consegnati ai bambini, che i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato. Tra gli affidatari anche persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Un quadro squallido, scoperto anche grazie alle intercettazioni, dal quale sarebbero emersi anche due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità ed episodi di tossicodipendenza e autolesionismo.
Lavaggio del cervello. Gli inquirenti parlano di «intensi lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia. L’utilizzo di apparecchiature elettriche spacciate come strumenti per recuperare i ricordi delle «brutte cose» commesse dai genitori attraverso l’applicazione di alcuni elettrodi. Tecniche messe in pratica in prossimità delle testimonianze dei bambini davanti all’autorità giudiziaria. E a volte era proprio la terapeuta a raccontare cosa i bambini avrebbero dovuto ricordare, evocando esperienze traumatiche come abusi sessuali da parte dei genitori.
Il sindaco. Carletti, secondo il gip, sarebbe stato «pienamente consapevole della totale illiceità del sistema». Dell’assenza «di qualunque forma di procedura ad evidenza pubblica volta all’affidamento del servizio pubblico di psicoterapia a soggetti privati». Tanto che lo stesso «disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti», della Onlus coinvolta. «Al fine dello svolgimento, a titolo oneroso ed in assenza di qualunque titolo, dell’attività di piscoterapia con minori in carico ai Servizi sociali».
Casi sconvolgenti. Tra i casi analizzati dagli inquirenti quello di una bambina incapace di comprendere il suo allontanamento dai genitori. Insisteva per poterli rivedere. Però le psicologhe, le assistenti sociali e gli affidatari continuavano ad instillarle il dubbio di fatti atroci commessi proprio da mamma e papà. La bambina diceva: «Ma io non mi ricordo perché non li posso più vedere». Le sue parole, di ottobre 2018, furono captate da un’intercettazione ambientale. «Ma non ti ricordi che hai detto che ( tuo padre, ndr) non lo volevi più rivedere? Io ricordo questo», rispondeva la psicologa. La bambina insisteva per rivederli. «Ogni tanto mi capita di piangere perché mi mancano gli abbracci del papà».
La "paladina" delle coppie gay "regista" degli affidi dell'orrore. Dichiaratamente omosessuale, e da tempo paladina delle famiglie arcobaleno, Federica secondo gli inquirenti sarebbe uno dei vertici del sistema malato dell'affidamento dei minori. Giuseppe De Lorenzo Costanza Tosi, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. Nelle carte dell’inchiesta “Angeli e Demoni” guidata della procura di Reggio Emilia, tra le persone coinvolte e agli arresti domiciliari compare anche lei: Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza. Omosessuale e da tempo paladina delle famiglie arcobaleno, Federica finita al centro delle indagini che sconvolgono l'Emilia e l'Italia. Secondo gli inquirenti sarebbe uno dei vertici del sistema malato dell'affidamento dei minori. "Sono state la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni - si legge nelle carte dell'inchiesta - ad averla portata a sostenere con erinnica perseveranza la “causa” dell’abuso da dimostrarsi ad ogni costo". Molto si è detto sul "caso affidi". Secondo i carabinieri, quello che emerge è "un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali". Ma forse non è tutto. "Non è solo questione di denaro", attacca Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia". Dietro il "mostruoso sistema degli affidi", dice, "si nasconde un movente ideologico, che è anche peggio". "Ero consigliere regionale quando nella rossa Emilia il Pd portò la gestione dei servizi sociali della Val d'Enza come esempio in Regione", spiega l'onorevole. "Federica Anghinolfi, individuata dagli inquirenti come vertice di questo sistema, veniva invitata dappertutto dai sinistrati ed era una bandiera per le famiglie arcobaleno in quanto esponente di quel mondo". Il profilo social della responsabile del servizio sociale ne è la dimostrazione. Online mostra foto arcobaleno, condivide articoli sulla galera per chi si macchia di omofobia, post sui Gay Pride e via dicendo. Niente di male. Solo che nelle carte dell'inchiesta, spunta anche una famiglia arcobaleno formata da due donne - "già legate alla Anghinolfi" - cui era stata consegnata una bambina. L'affido dei bambini alle coppie lgbt, infatti, é una battaglia che Federica porta avanti da diverso tempo. Non è un caso se, quando nel 2014 il Corriere dedica un lungo articolo ad una delle prime coppie omosessuali affidatarie in Italia, è lei ad essere interpellata per il suo "lavoro sulla genitorialità gay (seminari di approfondimento e corsi di formazione) fatto in questi mesi dai servizi sociali emiliani". Non solo. Nel 2014 la Anghinolfi partecipa ad un incontro al circolo Arci Colombofili. Il tema? Affettività di genere. E lì racconta, con tanto di testimonianze, il suo lavoro per assegnare i minori a coppie omosessuali. Ne andava e ne va fiera. In un video pubblicato da Rosso Parma, Federica Anghinolfi parla del sistema degli affidi. "Andiamo oltre al tema dell’identità di genere nella relazione genitoriale", la si sente dire nell'intervento video. Le battaglie Lgbt e la genitorialità gay sono un chiodo fisso. A maggio 2018 compare tra le protagoniste delle iniziative organizzate dall’Arcigay a Mantova in occasione della "Giornata di contrasto all'omofobia, alla bifobia e alla transfobia". La Anghinolfi è tra le relatrici dell'evento - guarda caso - sull'affido alle coppie omosessuali, un seminario dal titolo “affidarSI. Uno sguardo accogliente verso l'affido LGBT". Infine, nell’estate del 2018 Federica è relatrice alla Festa dell’Unitá al Parco Nord a Bologna, anche se in quell’occasione il focus é un altro: "Cura dell’infanzia, maltrattamenti e prostituzione minorile". Politica, ideologie e minori. "Di questa vicenda - sottolinea Bignami - non è tanto l’aspetto economico che colpisce. Ma quello culturale. Questa signora è legata a quel mondo, nessuno mi toglie dalla testa che in fondo, dietro a tutto questo, ci sia la teoria gender. Vogliono i bambini senza famiglie, senza identità. Come corpi eterei".
Il caso degli abusi sui bambini di Bibbiano è legato all’inchiesta “Veleno”. Vita il 27 luglio 2019. Parla Pablo Trincia, autore con Alessia Rafanelli dell’inchiesta podcast sul caso della “bassa modenese”. «I carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano». In manette professionisti protagonisti di entrambe le vicende: un giro d’affari da parecchie migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti. «Se abbiamo contribuito anche in minima parte a salvare dei bambini e le loro famiglie dalla tortura del ricordo indotto, una delle peggiori forme di abuso che si possa immaginare, siamo soddisfatti. I carabinieri ci hanno ringraziato, perché abbiamo fornito loro una chiave investigativa che prima non avevano». Queste le parole di Pablo Trincia a Business Insider Italia, autore con Alessia Rafanelli dell’inchiesta Veleno, il podcast che ricostruiva le vicende di una presunta banda di pedofili (i cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”) che alla fine degli anni Novanta portò all’allontanamento di 16 bambini dalle loro famiglie. Molti dei genitori non hanno più rivisto i loro figli, alcuni si sono suicidati, altri sono espatriati, insomma, una storia terribile sotto ogni punto di vista. Nelle sette puntate pubblicate da Repubblica.it dall’autunno 2017, Trincia e Rafanelli ricostruivano i fatti, mettendo in luce i molti dubbi sul ruolo svolto da assistenti sociali, psicologi e ginecologi durante le indagini, criticandone i metodi e ponendo pesantissime domande sulle conclusioni.
Quegli stessi professionisti finiti oggi in manette nell’inchiesta “Angeli e Demoni” condotta dai carabinieri di Reggio Emilia che ha portato a 18 misure cautelari nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti. Secondo il sostituto procuratore, Valentina Salvi, gli indagati avevano messo in piedi da diversi anni un redditizio sistema di “gestione minori”, un giro d’affari da parecchie migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti, per poi sottoporre i minori ad un programma psicoterapeutico. Tra gli affidatari, anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi. Inoltre risulterebbero anche due casi di abusi sessuali presso le famiglie affidatarie ed in comunità, successive all’illegittimo allontanamento. Per i carabinieri, alcune vittime dei reati, oggi adolescenti, “manifestano profondi segni di disagio, tossicodipendenza e gesti di autolesionismo“.
Un sistema che poggiava su false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Le indagini erano partite nel 2018, a causa dell’abnorme numero di segnalazioni di abusi sessuali e violenze a danni di minori commessi da parte dei genitori pervenute dai servizi sociali della Val D’Enza, nel Reggiano, alla Procura, che però si rivelavano puntualmente infondate. Da qui, l’indagine, che presto ha svelato numerosi falsi documentali, redatti secondo l’accusa dai servizi sociali in complicità con alcuni psicologi, “artatamente trasmessi all’Autorità Giudiziaria”.
Con un post su Facebook Pablo Trincia ha sottolineato come «La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo “caso Veleno”. Leggete nel dettaglio. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno». «I carabinieri hanno investigato su assistenti sociali e psicologhe, quelle rimaste al di fuori delle indagini di venti anni fa, che si erano concentrate solo sulle famiglie. Del resto, in Veleno avevamo messo in evidenza il gigantesco conflitto di interessi della psicologa Cristina Roccia, la professionista che aveva scoperto gli abusi, era diventata presidente di un centro privato (Hansel e Gretel, appunto, ndr) al quale erano stati poi affidati i bambini portati via alle famiglie, per un guadagno di oltre 2,2 milioni di euro», spiega Trincia. Cristina Roccia – che non risulta indagata – è la ex moglie proprio di Foti, il quale invece è indagato, insieme all’attuale compagna Nadia Bolognini. E voci vicine agli investigatori lasciano presagire nuovi indagati a breve, tra i quali anche nomi “pesanti” della psicologia italiana. «Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast», ricorda Trincia. Il testo di quella petizione contro “Veleno”, letto oggi, alla luce della svolta investigativa, mette un brivido. Parlando delle condanne dei genitori, scriveva infatti Foti: «Questa condanna in Cassazione può essere contestata, ma non si può ignorare che è stata assunta sulla base di una valutazione della credibilità dei bambini e sulla base di una massa di informazioni, rivelazioni, documentazioni, dati clinici, testimonianze coerenti e convergenti, passati attraverso un filtro di decine di psicologi, assistenti sociali, giudici». Ma ancora peggio è il passaggio nel quale Foti attaccava direttamente i giornalisti investigativi, “rei” di aver messo in dubbio il lavoro degli psicologi: «Le vittime di questa vicenda non sono state prese in considerazione con correttezza e rispetto da questa inchiesta. I giornalisti di Veleno hanno liquidato le testimonianze di allora, come se tutti gli intervistatori fossero suggestivi e manipolativi e tutti i bambini intervistati deliranti. Non solo! Non hanno evidenziato che quei bambini alle parole fecero seguire i fatti: per lunghi anni, pur avendone la possibilità, hanno rifiutato qualsiasi contatto con la famiglia d’origine e hanno evitato anche solo di informarsi sulla vita dei propri genitori. Contestualmente è mancata la correttezza e il rispetto anche per gli operatori che furono coinvolti dalla vicenda di 20 anni fa. I giornalisti di “Veleno” continuano a ricercare lo scontro con gli psicologi e degli assistenti sociali, che operarono allora facendo credere che sia la presunta coscienza sporca di questi professionisti a tenerli lontani da un incontro con i giornalisti, e non già lo scrupolo professionale che impedisce loro di discutere in piazza del lavoro clinico e sociale svolto». Naturalmente, fino al terzo grado di giudizio, tutti gli indagati sono innocenti. Certo che i filmati degli incontri delle psicologhe con le supposte vittime, pubblicati da Veleno su repubblica.it, molti dubbi li avevano sollevati. Già due anni fa.
Pablo Trincia su Facebook il 27 giugno 2019. "Diffondete!!! La Procura di Reggio Emilia avrebbe appena sventato un secondo “caso Veleno”. Leggete nel dettaglio. Hanno arrestato Claudio Foti, responsabile del Centro Hansel e Gretel di Torino, lo stesso da cui provenivano le psicologhe che avete visto interrogare i bambini di Veleno. Foti aveva da tempo scritto contro di noi, facendo addirittura una petizione contro il podcast.
“ANGELI E DEMONI”: UNA VENTINA DI MISURE CAUTELARI ESEGUITE DAI CARABINIERI. Agli arresti un sindaco e assistenti sociali nonché psicoterapeuti di una nota Onlus di Torino. Tra i destinatari di altri provvedimenti cautelari anche psicologi dell’ASL reggiana. Decine di indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio sanitari. False relazioni e disegni artefatti per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito anche ad amici e conoscenti, per poi sottoporli ad un programma psicoterapeutico per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Metodi altamente suggestivi utilizzati sui minori durante le sedute di psicoterapia, anche attraverso impulsi elettrici, strumento spacciato ai bambini come “macchinetta dei ricordi, per alterare lo stato dei relativi ricordi in prossimità dei colloqui giudiziari.
Tra gli affidatari anche titolari di sexy shop, persone con problematiche psichiche e con figli suicidi.
Due casi accertati di stupro presso le famiglie affidatarie ed in comunità, dopo l’illegittimo allontanamento.
Reggio Emilia. I Carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia, sotto il costante coordinamento della Procura Reggiana – Pubblico Ministero Dott.ssa Valentina Salvi – in queste ore stanno dando corso all’operazione “Angeli e Demoni”, con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di politici, medici, assistenti sociali e liberi professionisti che, da diversi anni, avevano messo in piedi un illecito e redditizio sistema di “gestione minori”, il cui radicamento sull’intero territorio nazionale è tuttora in fase di sviluppo investigativo. Quello che insomma veniva spacciato per un modello istituzionale da emulare sul tema della tutela dei minori abusati altro non era che un illecito business ai danni di decine e decine di minori sottratti alle rispettive famiglie. I destinatari della misura cautelare sono accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. Ore e ore di intensi lavaggi del cervello intercettati dai carabinieri reggiani durante le sedute di psicoterapia effettuate sui minori, anche di tenera età, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività, tra le quali: relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata “aggiunta” di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi “cattivi” delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”. Il tutto durante i lunghi anni nei quali i Servizi Sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati. I dettagli della complessa indagine, senza precedenti nell’intero territorio nazionale, verranno resi noti nella conferenza stampa che i vertici del Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Emilia terranno il 28.6.2019 presso il Comando Carabinieri di Corso Cairoli a Reggio Emilia".
Affidamenti illeciti di minori. Dai master al centro contro gli abusi: le attività della onlus sotto accusa. L'organizzazione Hansel&Gretel di Torino, finita al centro dell'inchiesta che ha travolto il servizio sociale della provincia di Reggio Emilia, oltre a operare direttamente con i suoi psicologici nel trattare le problematiche di bambini vittime di violenze, era molto ricercata per la formazione degli operatori. Il suo fondatore Claudio Foti, ora ai domiciliari, era stato giudice onorario del Tribunale dei minori. Stefano Galeotti il 28 Giugno 2019 su Il Fatto Quotidiano. “Comprendere e rispettare a pieno le emozioni significa arricchire e rivoluzionare la pratica educativa, la pratica clinica e la pratica sociale, umanizzare la relazione di cura in ambito sanitario, trasformare la dinamiche dei gruppi e i processi organizzativi”. È questo il manifesto che la onlus Hansel e Gretel, sotto accusa nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni sull’affido illecito dei minori per cui 16 persone sono state arrestate e 26 indagate, presenta come finalità di uno dei master universitari che organizza sotto l’egida della Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium”. Perché la Hansel e Gretel, oltre a operare direttamente con i suoi psicologici nel trattare le problematiche di bambini vittime di abusi, era molto ricercata in Emilia nel campo della formazione. Intorno alla onlus gravitano infatti una serie di attività che vanno dall’organizzazione di convegni per addetti ai lavori alla formazione di operatori del settore fino a quella, più diretta, del personale ospedaliero, attività che secondo l’accusa della procura di Reggio Emilia sarebbero state finanziate con fondi regionali. Il tema è sempre quello d’ascolto del bambino e delle possibili modalità di curarne le sofferenze scaturite da maltrattamenti e abusi, e il motore di tutta l’organizzazione è Claudio Foti, giudice onorario del Tribunale dei minori di Torino dal 1980 al 1993 e già componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Lo stesso psicologo che, come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, è accusato di aver “alterato lo stato psicologico ed emotivo attraverso modalità suggestive e suggerenti con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale” e in questo modo “convinceva la minore dell’avvenuta commissione dei citati abusi”. Toti è ora in carcere, mentre ai domiciliari si trova Nadia Bolognini, direttrice dell’area evolutiva del Centro studi Hansel e Gretel e docente dei master. Fondata a Moncalieri, in provincia di Torino, nel 1989, la Hansel e Gretel aveva poi allargato il suo bacino d’azione principalmente in terra emiliana, in particolare tra i comuni della Val d’Enza, il fiume che divide le province di Parma e Reggio Emilia. Nel 2016, a Bibbiano, epicentro dell’inchiesta, con l’arresto del sindaco Pd Andrea Carletti, era stata coinvolta in un progetto denominato “La Cura”, nato come un centro sperimentale a sostegno dei minori vittime di violenza e abuso sessuale, un progetto fortemente voluto dall’Unione dei Comuni della Val d’Enza in collaborazione con la AUSL di Reggio Emilia. Lì in due anni sono stati presi in carico circa 210 giovanissimi, vittime di maltrattamenti, con un modello di psicoterapia basato sull’impiego dialogico ed empatico sviluppato dalla Bolognini. A presentare questi risultati in un convegno sull’abuso infantile organizzato lo scorso ottobre era stato proprio il fondatore Foti, che dal palco del teatro Metropolis di Bibbiano spiegava ai presenti come aiutare i bambini a “Rinascere dal trauma”. Pochi mesi prima, in maggio, lo stesso Foti era a Reggio con altri nomi importanti del Centro studi Hansel e Gretel per un convegno questa volta sponsorizzato anche dal Comune di Reggio Emilia e aperto dall’allora vicesindaco Matteo Sassi, segno di un’associazione che ormai si era fatta strada e costruita un buon nome nel territorio emiliano. Ma un altro importante settore di attività della Hansel e Gretel è rappresentato dalla formazione. Per l’anno 2018-2019 il centro studi è infatti riuscito a organizzare un master in “Gestione e sviluppo delle risorse emotive” in tre sedi diverse, Reggio Emilia, Torino e Roma. La struttura accademica su cui si basa è quella della Pontificia facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium”, di evidente provenienza Vaticana, mentre a livello locale il progetto aveva ricevuto di nuovo il patrocinio dei Comuni della Val d’Enza. Il corso si articola in 22 giornate complessive di seminari per un totale di quasi 200 ore di lezioni, aperto ad un massimo di 25 persone alle quali è richiesta una quota di circa 2000 euro per partecipare. A Reggio Emilia, la onlus ha lanciato anche un secondo master, una specializzazione in “Sofferenze traumatica e intelligenza emotiva”. Un importante impegno di stampo accademico a cui l’associazione affianca corsi di formazione su temi specifici, organizzati in incontri di due giornate e “rivolti a insegnanti, psicologi, educatori, assistenti sociali e tutti coloro che lavorano a stretto contatto con l’infanzia”. Al centro dell’inchiesta figurano proprio i guadagni della onlus. Secondo gli investigatori, tra alcuni dipendenti dell’Unione Val D’Enza e la onlus di Moncalieri c’erano reciproci conferimenti di incarichi. La onlus era affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’ente pubblico e dei relativi convegni e corsi di formazione. I tre psicoterapeuti, (Foti, Bolognini e Sarah Testa) si legge nell’ordinanza, “nella piena consapevolezza della totale illiceità del sistema creato, a loro vantaggio, in palese violazione della normativa in tema di affidamenti di servizi pubblici e nella piena consapevolezza che la loro attività professionale venisse retribuita da ente pubblico, esercitavano sistematicamente attività di psicoterapia con minori loro inviati dal servizio sociale Val d’Enza”.
L’Inferno è a Bibbiano. Dicevano di lavorare per il benessere dei bambini, ma l'inchiesta del pm Valentina Salvi sta scoperchiando un sistema perverso di relazioni, favori e conflitti d'interesse tutto a danno dei minori. Un inferno che ha sconvolto e distrutto intere famiglie. Alessandra Vio il 4 Luglio 2019 su L'Intellettuale dissidente. C’è l’Inferno a Bibbiano. Non a caso l’inchiesta da brividi coordinata dalla pm Valentina Salvi che ha coinvolto l’intero settore dell’affido della Val D’Enza porta il nome di Angeli e Demoni. Ed eccoli, i demoni: sedici le persone legate alla rete dei servizi sociali, destinatarie di misure cautelari; ventinove le iscritte nel registro degli indagati, tra cui figurano, per addebiti di misura amministrativa, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (Pd), l’ex sindaco di Montecchio, Paolo Colli (Pd) e l’ex sindaco di Cavriago, Paolo Burani (Pd) – questi ultimi entrambi ex presidenti dell’Unione della val d’Enza. Tra i demoni finiti agli arresti domiciliari figurano: una responsabile e una coordinatrice del servizio sociale, un’assistente sociale e due psicoterapeuti della onlus Hansel & Gretel di Moncalieri (Torino) – Claudio Foti, direttore della onlus, e Nadia Bolognini, responsabile del lavoro diagnostico dell’area evolutiva. Un tremendo giro d’affari di centinaia di migliaia di euro, costruito sulla pelle degli angeli, i bambini, ingiustamente allontanati dalle famiglie d’origine, manipolati, maltrattati e dati in affido a persone prive dei requisiti necessari e poi sottoposti ad un circuito di cure private a pagamento della onlus. Un business infernale di cui beneficiavano alcuni degli indagati e con il quale venivano organizzati numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio della Hansel & Gretel, divenuta affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’ente e dei relativi convegni e corsi di formazione, organizzati in provincia. La Hansel & Gretel, tramite i rapporti tra il presidente Foti e Francesco Monopoli – assistente sociale della Unione Val d’Enza, anche lui indagato – aveva inoltre ottenuto la possibilità di effettuare sedute di psicoterapia su minorenni al centro La cura di Bibbiano (Re), dietro compensi da capogiro: 135 euro per colloquio, quando la tariffa di mercato è di 60 o 70 euro. Il sistema di intrecci e relazioni era talmente consolidato da arrivare a coinvolgere anche il Centro Specialistico Regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti, che è risultata essere una costola della onlus: nel centro veniva infatti garantita l’assistenza legale ai minori attraverso la scelta, da parte dei servizi sociali, di un avvocato, ora indagato per “concorso in abuso d’ufficio”.
Un losco giro di denaro, di relazioni, favori, conflitti d’interesse, quello scoperchiato a Bibbiano; tutto giocato a discapito dei bambini e delle loro famiglie, andando a calpestare brutalmente il loro benessere, che invece dovrebbe essere il fine ultimo di qualsiasi azione all’interno dei servizi sociali. Tutto per infime ragioni d’interesse. È crollato così il tanto decantato sogno della Val d’Enza, dove la tutela dei bimbi dicevano fosse la priorità assoluta, ed anche sul sacrosanto benessere dei bambini prevale il puzzo del dio Denaro, dominatore incontrastato del mondo moderno. Si è sciolto il dolce marzapane delle pareti e la casa della strega ha rivelato la sua vera natura: una diabolica macchina che ha sconvolto e distrutto spietatamente tante famiglie e che ha visto minori sottoposti ad ogni tipo di sevizia.
Non Hansel e Gretel, ma piuttosto quello della strega cattiva era il ruolo di Claudio Foti e Nadia Bolognini; il forno, la loro onlus. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate: c’era l’Inferno lì dentro. I bambini erano sottoposti a stimolazione di falsi ricordi – che andavano dall’abbandono da parte dei genitori ai falsi abusi subiti all’interno della loro famiglia –, lavaggi del cervello, scariche elettriche dalla cosiddetta macchinetta dei ricordi… Claudio Foti avrebbe persino usato come cavia una bambina in un corso di formazione per gli operatori Asl di Reggio Emilia.
Un luogo di tortura psicologica, dove si cercava di indurre i bimbi ad odiare, disconoscere e “seppellire” i propri genitori. Raccapricciante ricordare che la Hansel & Gretel risultasse presente anche nel caso “Veleno” portato alla luce dal giornalista Pablo Trincia, autore dell’inchiesta sulla vicenda dei pedofili della Bassa modenese risalente al biennio 1996-1998. Sedici bambini vennero strappati via dalle loro famiglie tra Massa Finalese e Mirandola su indicazione dei servizi sociali perché ritenuti vittime di una rete satanica di pedofili. Nel 2014, a indagini concluse, si è giunti all’assoluzione di metà degli indagati: accuse false e famiglie distrutte. Le psicologhe che, all’epoca, interrogarono i bambini di Veleno facevano parte della Hansel & Gretel.
Altra figura cardine dell’Inferno di Bibbiano è Federica Anghinolfi, dirigente dell’Unione val d’Enza e motore dalla macchina diabolica: era lei ad esercitare pressioni sugli assistenti sociali affinché redigessero e firmassero verbali dove si attestava il falso riguardo allo stato familiare o al contesto abitativo dei bambini; lei sceglieva a chi affidare i bambini e da quali psicoterapeuti dovessero essere seguiti. Un brutale e spietato meccanismo per la demolizione di diversi nuclei familiari tramite l’ingiusto allontanamento fisico e la sospensione di qualsiasi contatto tra genitori e figli – le lettere e i giocattoli indirizzati ai bimbi dai genitori sono state ritrovate accatastate in un magazzino! -; poi i ripetuti lavaggi del cervello subiti dai piccoli. Uno scenario da incubo, degno di Orwell. Una realtà vicina alla distopia in cui la famiglia viene distrutta, i diritti dei bambini calpestati. Come se ciò non bastasse, molti degli affidatari erano privi dei requisiti necessari e nelle nuove famiglie molti bambini sono stati vittime di violenze fisiche o mentali. Inoltre, la Anghinolfi avrebbe in alcuni casi messo quest’orrenda macchina al servizio del suo essere una fanatica paladina dei diritti Lgbt: una bambina è stata ingiustamente allontanata dal padre perché giudicato omofobo, un’altra è stata affidata a una coppia di donne – vicine alla Anghinolfi – prive dei requisiti necessari all’affido e che hanno esercitato pressioni psicologiche sulla piccola. Ideologia, fanatismo isterico, interessi di varia natura: una combinazione di diabolici ingredienti che rende spietatamente ciechi, anche di fronte all’intoccabile benessere dei bambini.
Di tutta questa putrida faccenda i media hanno parlato troppo timidamente, nonostante l’assoluta gravità e tragicità della questione. Invece questa, oltre a un fatto da denunciare e condannare a gran voce, deve anche essere un punto di partenza per far luce sulle diverse problematicità del sistema degli affidi in Italia. Problematicità che sono state abilmente sfruttate dai protagonisti della vicenda affinché questa trama infernale prendesse forma. Tra di esse figurano il sottofinanziamento delle politiche sociali – di cui solo una minima parte è destinata ai servizi sociali – con la conseguente esternalizzazione dei servizi, troppo spesso basata sulla logica del massimo ribasso, che comporta una minimizzazione dei costi e della qualità del servizio. Emergono poi: la distinzione troppo spesso sfumata, se non assente, tra operatore professionale e prestatore di servizi; la scarsa vigilanza e i molli poteri sanzionatori degli ordini professionali, che andrebbero assolutamente rafforzati.
Federica Anghinolfi Occorre ricordare, infine, la frequenza con la quale i giudici onorari hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori, in cui spesso ricoprono posizioni apicali. Si tratta di psicologi, medici e assistenti sociali che da un lato sono chiamati a pronunciarsi sull’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine e che contemporaneamente sono anche titolari, dipendenti o consulenti di centri di affido o istituti di accoglienza dei minori. Finalmente liberi onlus, un’organizzazione che si batte per la tutela dei minori e che denuncia l’eccessiva facilità con cui essi spesso vengono sottratti alle famiglie di origine, ha individuato, nel 2015, 156 giudici onorari nei Tribunali e 55 nelle Corti d’appello che operano in totale e palese conflitto d’interessi: ciò equivale a dire che il 20% dei magistrati minorili italiani ha un qualche interesse a che i bambini finiscano in un centro d’affido: quest’ultimo, per quei bambini, incassa dagli enti locali una retta giornaliera a volte elevata, con casi limite in cui supera i 400 euro. Ciò dà vita a un business colossale: in Italia, i minori allontanati dalle famiglie sono tantissimi – secondo il primo e unico studio approfondito condotto dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali nel 2010, erano 39.698, mentre “Finalmente liberi” ne stima almeno il doppio -; alimentano un mercato da 1-2 miliardi di euro l’anno e sono gestiti senza particolare trasparenza.
Con ciò, naturalmente, non si vuol dire che tutte le strutture dell’affido minorile hanno caratteristiche speculative. Tuttavia, queste storture sistemiche sono terreno fertile per il proliferare di macchine infernali come quella recentemente scoperchiata in Val d’Enza e per questo motivo andrebbero al più presto corrette: per arginare il più possibile la nascita di nuovi inferni. Alessandra Vio
Fabio Amendolara per “la Verità” il 5 luglio 2019. Una delle assistenti sociali ha addirittura ammesso, dopo aver descritto la casa di una delle famiglie alle quali sono stati sottratti illecitamente i bambini come fatiscente e inadeguata, di non essere mai stata nell' abitazione. Dalla carte dell' inchiesta «Angeli e demoni» della Procura di Reggio Emilia continuano a saltare fuori particolari inquietanti che descrivono quel sistema che ancora oggi qualcuno cerca di difendere. Un sistema che cercava a tutti i costi abusi sessuali che, in realtà, non c' erano mai stati. «Vi sono una serie di elementi indiziari», sottolineano gli inquirenti, «che inducono a ritenere che vi fosse una consapevole volontà da parte del servizio sociale di spingere sulla dubbia situazione di dubbio di abuso sessuale, in modo da accreditarne l' effettività, a prescindere dalle prove esistenti». Una delle testimoni, infatti, ha riferito agli investigatori che «un' assistente sociale molto vicina alla Anghinolfi (Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell' Unione di Comuni della Val d' Enza, ndr) aveva chiesto alla madre di una delle bimbe di fare denuncia contro il papà». Ecco le sue parole: «Lo so perché eravamo presenti anche noi. Quando la donna è andata da loro da sola continuava a dire che i servizi sociali insistevano perché lei facesse la denuncia». In un altro passaggio i magistrati scrivono: «Confermativi anche i ricordi sul punto della madre, in ordine alle istanze della Anghinolfi per sollecitare l' avvio di un procedimento penale riguardante i pretesi abusi sessuali». Ecco le parole della mamma: «La Anghinolfi ci ha chiesto come mai non avevamo fatto la denuncia riguardo alle dichiarazioni della bimba. Io le ho spiegato che ci era stato detto che la segnalazione avrebbe attivato un procedimento d' ufficio che sarebbe comunque andato avanti. La Anghinolfi mi disse che era grave che io non lo facessi e mi chiese se io credevo o no alle dichiarazioni della bambina. Lì i servizi sociali ci hanno chiesto di recarci da loro per notificarci l' altro decreto di allontanamento». L' assistente sociale, a quel punto, secondo l' accusa, «era perfettamente consapevole che le frasi attribuite alla bambina erano artatamente modificate». In un altro caso, dopo la solita segnalazione, l' autorità giudiziaria per i minorenni delegò i servizi sociali a verificare le condizioni in cui viveva uno dei bimbi vittima d' allontanamento. Nella relazione gli assistenti sociali scrivono: «La casa appare spoglia e le operatrici non hanno visualizzato giocattoli». Quel documento ufficiale, però, come hanno verificato i carabinieri, presentava elementi di falsità. «In un sopralluogo di pochi mesi successivi, i militari rilevavano nel domicilio una condizione positiva e assolutamente diversa da quella riscontrata e descritta nella relazione del servizio sociale». Infatti c' erano giochi di società, videogiochi di ultima generazione, un piccolo calcio balilla e molte foto del bambino durante le sue fasi di crescita in compagnia dei genitori e dei nonni (anche loro demonizzati negli incartamenti degli assistenti sociali)». Le relazioni sembrano una la fotocopia dell' altra. Si faceva leva sulle condizioni della casa, sulla salute dei bambini, sui litigi familiari e soprattutto sugli abusi sessuali. C' era una strategia, insomma, per scippare i bambini alle loro famiglie. Bugie create ad arte, come dimostrano anche i servizi mandati in onda l' altra sera da Chi l' ha visto?, tra i pochi, oltre alla Verità, a continuare a raccontare il caso. In un tweet, dall' account ufficiale, la redazione di Federica Sciarelli mostra un verbale d' interrogatorio di una delle assistenti sociali che ha ammesso davanti ai magistrati di aver riportato particolari falsi in una relazione di servizio. Dall' altro lato, però, c' è chi critica il lavoro d' inchiesta. Dopo l' associazione dei magistrati per i minorenni e per la famiglia che ha descritto le notizia di stampa pubblicate nei giorni scorsi una «semplificazione dei fatti, non approfonditi né contestualizzati», è arrivato il commento del garante regionale dell' Emilia Romagna per l' infanzia e l' adolescenza Maria Clede Garavini. La difesa d' ufficio: «I servizi sociali e sanitari da tempo sono impegnati a tutelare e curare bambini e adolescenti al fine di favorire le condizioni necessarie al loro benessere e alla loro salute». In Emilia Romagna secondo la Garavini, «per affrontare queste situazioni così impegnative, la Regione ha emanato fin dal 2013 il documento sulle linee di indirizzo regionale per l' accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamenti abuso, che indicano un percorso dettagliato di prevenzione, valutazione e presa in carico». E come se nulla fosse accaduto, difende «le competenze professionali maturate e sedimentate negli anni». Le stesse messe in campo dai servizi sociali in Val d' Enza, supportate dalla Onlus Hansel e Gretel, e che sono crollate sotto l' inchiesta «Angeli e demoni».
Inchiesta in val d’Enza, la Municipale “segnalò irregolari gestioni di fondi”. L'allora comandante, Cristina Caggiati, secondo quanto ha riferito il suo vice Fabbiani agli inquirenti, fece una segnalazione sui soldi gestiti dai servizi sociali. Paolo Pergolizzi il 02 Luglio 2019 su Reggio Sera. Il sindaco Andrea Carletti emerge “come un personaggio particolarmente potente e irritato in passato dalla segnalazione effettuata dalla dirigente della polizia municipale della val d’Enza, Caggiati, relativa a irregolari gestioni di fondi relative al servizio sociale, segno di una chiara volontà di tenere coperti movimenti di fondi poco chiari, consentendo volutamente il permanere di situazioni di opacità funzionali alle attività illecite perseguite dai correi”. Nell’ordinanza del Gip Ramponi, relativa all’inchiesta della procura di Reggio “Angeli e Demoni” che sta terremotando la val d’Enza (di oggi la notizia che, oltre al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, ai domiciliari, sono stati indagati anche l’ex sindaco di Montecchio, Paolo Colli e l’ex sindaco di Cavriago, Paolo Burani) c’è questo passaggio in cui Tito Fabbiani, ex vicecomandante della polizia municipale della val d’Enza, sentito come persona informata dei fatti dagli inquirenti, riferisce che, appunto, Cristina Caggiati, all’epoca comandante del corpo municipale dell’Unione, avrebbe fatto una segnalazione relativa a “irregolari gestioni di fondi relative al servizio sociale”. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che l’ex vicecomandante Tito Fabbiani e la comandante Cristina Caggiati, sotto accusa per la loro condotta all’interno della Municipale della val d’Enza, sono stati licenziati, nell’aprile scorso (erano già stati sospesi dal servizio, ndr), in seguito a un altro grosso scandalo scoppiato in val d’Enza in cui Fabbiani è accusato di concussione, abuso d’ufficio, peculato, omessa denuncia, truffa aggravata ai danni dello Stato e mobbing, mentre la comandante Cristina Caggiati è indagata per abuso d’ufficio in concorso, oltre che per omessa denuncia. Il processo nei loro confronti è iniziato a fine maggio.
Fabio Amendolara per “la Verità” il 4 luglio 2019. C' era stata una segnalazione sulla torbida gestione dei fondi per i servizi sociali del Comune di Bibbiano scoperchiata poi dalla Procura di Reggio Emilia con l' inchiesta che hanno ribattezzato «Angeli e demoni». La ex comandante della polizia municipale della Val d' Enza, Cristina Caggiati, hanno ricostruito gli investigatori, aveva subodorato qualcosa e aveva portato quelle «irregolarità» all' attenzione del sindaco dem finito ai domiciliari Andrea Carletti, accusato di falso e abuso d' ufficio. Cosa che, a sentire un testimone, l' ex vicecomandante della polizia municipale, Tito Fabbiani, «irritò il sindaco». Fabbiani, stando al documento giudiziario che richiama le sommarie informazioni testimoniali rilasciate ai carabinieri, lo descrive come un personaggio «particolarmente potente». Fabbiani e Caggiati sono poi stati licenziati (dopo essere stati sospesi) perché finiti in un' altra inchiesta giudiziaria e ora sono sotto processo. Quella comunicazione, però, finì nel cestino. Un atteggiamento che per il giudice «è segno di una chiara volontà di tenere coperti movimenti di fondi poco chiari, consentendo volutamente il permanere di situazioni di opacità funzionali alle attività illecite perseguite dai correi». E, addirittura, sostiene l' accusa, appena avuta notizia delle indagini, «si è attivato per fornire successiva copertura all' attività svolta dai coniugi strizzacervelli per minori Nadia Bolognini e Claudio Foti (ieri erano in programma i loro interrogatorio di garanzia). Nelle comunicazioni pubbliche e finanche in un' audizione alla Commissione infanzia della Camera dei deputati il sindaco aveva fatto intendere che quella tra il Comune di Bibbiano e la onlus Hansel e Gretel di Moncalieri fosse una mera collaborazione scientifica a titolo gratuito. Pur di proteggere il sistema, il sindaco dem Carletti avrebbe «omesso di indicare il costo della collaborazione». Ma, soprattutto, avrebbe nascosto le modalità della corresponsione dei compensi. Perché, secondo l' accusa, erano «illegittime». La «copertura politica», così la definisce il giudice per le indagini preliminari che l' ha privato della libertà (il sindaco è agli arresti domiciliari), era arrivata in alto. A leggere gli atti, quella di Carletti non sarebbe stata solo una «omissione di controllo sull' attività dell' amministrazione» ma, stando all' ordinanza di custodia cautelare, «si adoperava per consentire la prosecuzione dell' attività, ottenendo anche un notevole ritorno d' immagine, oltre che un incremento dei fondi a disposizione». Insomma, Carletti, secondo l' accusa, non aveva che da guadagnarci. Il suo avvocato, all' uscita dall' interrogatorio di garanzia, ha detto ai cronisti che il sindaco ha fornito «importantissimi chiarimenti per quella che è la sua posizione e ha rappresentato in pieno la sua perfetta buona fede e l' assoluta serenità in coscienza». L' interrogatorio è durato un paio d' ore. E al termine, l' avvocato Giovanni Tarquini ha chiesto al gip la revoca della misura cautelare. Oltre al primo cittadino, sono sfilate davanti al gip Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni, coppia omosessuale affidataria di una minore, indagate per maltrattamenti in famiglia, per aver denigrato, sistematicamente, tra giugno 2016 e dicembre 2018, i veri genitori della piccola, calcato la mano sui sensi di colpa della bambina e per averle inculcato la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata dalla famiglia d' origine. Le due si sono avvalse della facoltà di non rispondere. Come Marietta Veltri, responsabile dei servizi sociali della Val d' Enza e seconda solo alla dirigente Federica Anghinolfi. Anche lei ha fatto scena muta. E mentre l' inchiesta è concentrata proprio sulla gestione dei servizi sociali, il ministro della Gustizia, Alfonso Bonafede, ha mandato i suoi ispettori al Tribunale per i minori di Bologna. Bonafede lo ha riferito rispondendo a un' interrogazione della deputata reggiana di Forza Italia, Benedetta Fiorini, definendo «inquietante» la «rete criminosa ordita in danno a malcapitati minorenni, sottoposti a veri e propri trattamenti coattivi, facendo finanche ricorso a dispositivi ad impulsi elettromagnetici». Tuttavia, prosegue il ministro, «le questioni sollevate investono solo in parte lo spettro delle competenze del ministero». In concreto i magistrati ricevono periodicamente relazioni sulla situazione dei minori dati in affidamento. Le competenze del ministero sono quelle di verificare che i magistrati facciano il loro lavoro come si deve. E, proprio per verificare dove si erano inceppati i meccanismi, ha mandato i suoi ispettori. «Quello che possiamo fare», aggiunge Bonafede, «e che stiamo già ipotizzando è incrociare tutti i dati che arrivano dai diversi uffici giudiziari per verificare in maniera più stringente l' andamento delle situazione degli affidi di minori nei territori e individuare prima e meglio le criticità». E alla fine ha annunciato: «In qualsiasi aula giudiziaria verrà accertata l' esistenza di un abuso su un minore, posso garantire che non ci sarà nessuno sconto da parte della giustizia, che sarà inflessibile». Nel frattempo, però, cinque dei sette indagati convocati finora dal gip si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. E, come sottolineato dal Secolo d' Italia, «si è alzato un muro d' omertà».
Falsi abusi per togliere i minori alle famiglie: un filo collega l’Emilia alla Campania. C’è un filo rosso che lega l’Emilia alla Campania nell’indagine che ha portato a scoperchiare un vero e proprio business sull’affidamento di minori: 16 persone indagate per aver prodotto falsa documentazione atta a strappare bambini alle famiglie per affidarli a comunità conniventi. Si tratta dell’associazione Hansel & Gretel, ponte tra l’inchiesta dei magistrati e quella di Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli. Rosaria Capacchione su Napoli Fanpage l'1 luglio 2019. C’è un nome che collega l’Emilia Romagna alla Campania, l’inchiesta sui falsi abusi subiti dai bambini di Bibbiano, Mirandola, della Val d’Enza e dell’intera Bassa alla provincia di Salerno. E c’è un altro nome, quello dell’associazione Hansel & Gretel, che porta da Torino e Reggio Emilia fino a Napoli. Non figurano negli atti dell’indagine che la scorsa settimana ha portato all’arresto di medici, psicologi, assistenti sociali accusati di aver truccato le carte e depistato i processi, torturato i minori e falsificato le prove per dimostrare violenze sessuali mai avvenute. Ma sono fatti e circostanze che, a spezzoni, compaiono in altri fascicoli, alcuni archiviati, altri ancora in corso. Anche in questo caso, i protagonisti sono bambini di pochi anni, sottratti alle famiglie e dati in adozione, con modalità assai simili a quelle documentate dalla Procura di Reggio Emilia e dai carabinieri. Un link che tiene insieme i processi sui “diavoli della Bassa” – rivisitati dall’inchiesta di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli con il podcast “Veleno”, e dei quali è stata recentemente chiesta la revisione – quello della settimana scorsa e singoli casi giudiziari, sfuggiti alla grande stampa e comunque catalogati come errori giudiziari. Partiamo da “Hansel & Gretel”, associazione piemontese, una delle poche accreditate per l’assistenza ai bambini abusati. È stata fondata quasi trent’anni fa dallo psicologo Claudio Foti, uno dei nomi che contano nel suo campo, caposcuola di una teoria sull’intelligenza emotiva. È stato arrestato con l’accusa di frode processuale e depistaggio. Avrebbe usato come cavia una bambina, durante un corso di formazione dedicato ad assistenti sociali, convincendola di aver subito abusi sessuali mai avvenuti. L’associazione e Foti hanno curato a Napoli, nel 2015, un master di secondo livello sugli stessi temi. Nel 2017 hanno tenuto un corso di formazione destinato alle assistenti sociali del Comune, un seminario di due giorni “sull’attivazione cognitiva ed emotiva dei soggetti destinatari dell’intervento”.
La composizione delle onlus. Della onlus facevano parte l’ex moglie di Foti, Cristina Roccia, e quella attuale, Nadia Bolognini (arrestata). La prima è la protagonista di uno dei video degli incidenti probatori dell’inchiesta sui “diavoli della Bassa”, interrogatori suggestivi nei quali i bambini vengono indotti a confessare la partecipazione a riti satanici. Lorena Morselli, alla quale furono tolti i tre figli che non ha mai più potuto vedere, così li ha commentati su l’Avvenire: “Si vedono i bambini durante le audizioni protette a Modena, mentre devono rispondere alle domande del gip Alberto Ziroldi, che aveva nominato come periti proprio le psicologhe Cristina Roccia, allora moglie di Claudio Foti, Sabrina Farci e Alessandra Pagliuca, tutti di Hansel & Gretel. Uno dei miei figli parla come un automa: “in cimitero squartavamo i bambini e bevevamo il sangue”, a domanda risponde che lui stesso ne ha uccisi cinque, per tre volte a settimana. Dice che papà andava a prendere le vittime col pulmino della parrocchia e io alla fine pulivo da terra il sangue. Possibile che questo bastasse per mandare decine di persone in galera e i nostri figli in affido?”. Alessandra Pagliuca è una delle tre psicologhe che alla fine degli anni Novanta collaborarono con l’inchiesta. È napoletana, vive a Salerno. È sposata con un altro psicologo, Mauro Reppucci, ex giudice onorario del Tribunale dei minori di Napoli, stessa scuola di pensiero di Foti, di recente approdato alle teorie di Ryke Geerd Hamer, fondatore della Nuova Medicina Germanica, medico tedesco morto due anni fa, radiato dall’ordine professionale. Per intenderci, il teorico della causa psicologica dei tumori e dell’inutilità delle cure farmacologiche. Sandra Pagliuca è stata convocata in audizione, nella veste di esperta, dalla commissione parlamentare sull’Infanzia, appuntamento per giovedì mattina a Roma, a Palazzo San Macuto, sede di molte commissioni parlamentari. “Un appuntamento al quale non mancherò – commenta Paolo Siani, capogruppo del Pd in quella commissione. Sono proprio curioso di sapere cosa avrà da raccontarci. Anche perché bisogna studiare con attenzione le cause dell’aumento esponenziale dei casi di abusi e maltrattamenti sui minori. Non abbiamo elementi scientifici, epidemiologici, sul fenomeno. Ed è per questo che ho presentato una mozione, in discussione in aula domani (2 luglio), nella quale propongo l’istituzione di un osservatorio. Non è molto chiaro perché alcuni, tra i quali i parlamentari dei Cinque Stelle, sono contrari”.
Le sette sataniche di Salerno. Ad Alessandra Pagliuca è legata anche la denuncia dell’esistenza di sette sataniche in provincia di Salerno. La più clamorosa ha portato a un’inchiesta, che risale al 2007, che non ha prodotto alcun risultato. Protagonisti tre fratellini, che riferirono di altri tre bambini coinvolti. Nei loro racconti si parlava di adulti incappucciati e travestiti, di pozioni da ingurgitare “sennò non diventi figlio del diavolo” a base di sangue, sperma e droghe, probabilmente anfetamine. Li assisteva, nella veste di psicoterapeuta, proprio la Pagliuca. Che così commentò la vicenda: “Sono battaglie lunghe e dolorose, ma per noi la salvaguardia dei minori è una missione. Purtroppo c’è la tendenza a non dare troppo credito a quanto raccontano i bambini. Ma un esperto del settore riconosce subito un minore abusato. Lo legge perfino nel modo in cui parla o cammina. Negli ultimi tre anni mi è capitato di occuparmi di tre sette sataniche nel Salernitano. I processi sono ancora aperti e generalmente durano anni. Nel frattempo i minori soffrono e questi personaggi se la spassano”. Inchieste finite nel nulla. Sempre a Salerno, Maria Rita Russo, stessa formazione di Foti, Reppucci, e Pagliuca, neuropsichiatra infantile, dirigente del servizio Not dell’Asl, è stata rinviata a giudizio un anno fa per false dichiarazioni al pm. La professionista salernitana avrebbe forzato l’esito di una consulenza psichiatrica su un bambino di tre anni, avallando nei confronti del padre un processo per pedofilia che si è poi rivelato infondato. Il bambino è stato comunque dato in adozione. La gestione del servizio Not è stata oggetto di contestazioni e polemiche anche in tempi più recenti. A gennaio, nel corso del processo su presunti abusi ai danni dei bambini della scuola d’infanzia di Coperchia, piccola frazione di Pellezzano, il maresciallo dei carabinieri sentito come testimone ha escluso l’esistenza di elementi documentali necessari a confermare l’accusa a carico di sei bidelli e del personale amministrativo dell’asilo. Il comandante della stazione di Pellezzano ha ripercorso la lunga fase investigativa sostenendo che, dalle indagini, in particolare dalla visione dei filmati delle telecamere nascoste all’interno della scuola, non era emerso alcun elemento d’accusa a carico degli imputati. Gli avvocati Gerardo Di Filippo e Cataldo Intrieri avevano poi chiesto e ottenuto l’acquisizione di alcune sentenze scaturite da inchieste giudiziarie nata su segnalazione del Not e di Maria Rita Russo, consulente della Procura nell’ambito dell’inchiesta sugli abusi alla materna di Coperchia e in altre numerose indagini su abusi ai danni di minori. Un canovaccio sovrapponibile, quasi una fotocopia, a quello dell’inchiesta sui “diavoli della Bassa” e sugli abusi in Val d’Enza.
Ora il Pd difende il suo sindaco ma si dimentica i bimbi abusati. Il Pd esprime vicinanza al sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Ma si dimentica delle presunte vittime delle onlus. Costanza Tosi, Domenica 07/07/2019, su Il Giornale. Il Partito democratico si schiera a difesa di Andrea Carletti, il sindaco (dem) finito al centro dell'inchiesta "Angeli e demoni" che attualmente si trova ancora agli arresti domiciliari e che, recentemente, è stato difeso dal circolo del Pd di Bibbiano che con un lungo comunicato stampa su Facebook. La lettera - pubblicata e firmata da Stefano Marazzi, in qualità di segretario del sindaco e sostenuta da "tutta la comunità del Pd" - è un chiaro atto di vicinanza e di solidarietà verso un primo cittadino che, secondo quanto riportato dalle carte - sarebbe implicato nella terribile inchiesta che ha scosso non solo Bibbiano, ma tutta l'Italia. Per i suoi compagni di partito, Carletti sarebbe una persona "sensibile e determinata" che "ha sempre sostenuto chi nutriva paure e timori in nome di quei principi fondamentali per lui irrinunciabili". I tesserati del Pd si augurano "che venga fatta chiarezza al più presto" e proseguono mostrando tutta la loro vicinanza a Carletti e alla sua famiglia, "sicuramente duramente colpita da questi accadimenti". E aggiungono: "La certezza che questa vicenda si concluderà positivamente quanto prima con l'accertamento della sua totale estraneità". Per loro Carletti è innocente, senza se e senza ma. Comprensibilmente, dato che in Italia vige la presunzione di innocenza. Tuttavia colpisce che nel documento redatto dal Partito democratico non ci sia un pensiero, anche minimo, alle sofferenze che genitori, bambini e intere famiglie hanno dovuto sopportare in tutti questi anni. Ma c'è di più: nel testo si accenna solamente ad una semplice "vicenda giudiziaria" su cui i magistrati dovranno fare chiarezza. Nessuna parola di vicinanza per le famiglie vittime di raggiri e prepotenze, ingiustamente accusate e private dei propri figli per colpa di un meccanismo di cui Carletti avrebbe fatto parte, anche solo incidentalmente e forse a sua insaputa. Un meccanismo che consentiva, però, all’intera organizzazione di lucrare sulla pelle dei bambini. Di fare cassa. Ma il Pd non è il solo a esprimere vicinanza all'indagato. Ad esso si aggiunge anche il Comitato direttivo della Sezione Anpi di Bibbiano che, "sollecitato anche da numerosi iscritti" - come si legge nel comunicato - "ha deciso di esprimere e rendere pubblica la propria solidarietà al sindaco Andrea Carletti in questo momento difficile per lui e per la comunità". Un sostegno che, sottolineano, "deriva da anni di collaborazione (…) avendo sempre visto e apprezzato il suo impegno, in particolare verso la scuola e i giovani, nell'affermare e diffondere i valori della legalità e per non dimenticare”. Poche invece, ancora una volta, le parole dedicate alle vittime del sistema di affidi illeciti: "Siamo i primi ad esprimere solidarietà ai minori e alle famiglie coinvolte" - afferma l’Anpi di Bibbiano - che subito dopo torna a dare supporto al sindaco dem: "Siamo fiduciosi che in tempi rapidi al nostro Sindaco verrà riconosciuto di aver sempre svolto la sua attività di amministratore pubblico con disciplina ed onore". Su ciò che dovrà essere riconosciuto invece ai genitori ai quali hanno tolto i piccoli, sulla speranza che vanga fatta giustizia per le vere vittime di questa atroce storia, anche l’Anpi non si esprime. Tace. Eppure, sul sito ufficiale dell’associazione non manca l’attenzione ai bambini. Queste le parole di uno degli appelli pubblicati sul web: “Vogliamo un’Europa contraria a qualsiasi forma di discriminazione, che garantisca asilo ai rifugiati ed il rispetto dei diritti di tutti, in particolare delle donne e dei fanciulli”. Insomma, per l’Anpi prima i bambini, ma in questo caso sembrano esserseli dimenticati. Anche il garante regionale dell’Emilia-Romagna per l’infanzia e l’adolescenza Maria Clede Garavini interviene sulla questione e attacca i media impegnati nell’inchiesta: la "semplificazione dei fatti, non approfonditi né contestualizzati, specie in una materia di grandissima complessità e delicatezza la cui trattazione richiederebbe un elevato livello di specializzazione". E questa volta il pensiero è volto verso gli assistenti sociali. Il ritratto dei servizi della Val d’Enza, “così come continua ad essere rappresentato dai media in questi giorni”, impone per Maria Clede Garavini “di fornire ulteriori precisazioni per evitare il diffondersi della sfiducia nei confronti dell’operato di tutti i servizi sociali e sanitari”. Garavini sottolinea in primo luogo che “i servizi sociali da tempo sono impegnati a tutelare e curare bambini e adolescenti al fine di favorire le condizioni necessarie al loro benessere e alla loro salute”, lavorando “con diverse istituzioni nonché’ svariati soggetti, pubblici e privati, in un’ottica di lavoro multidisciplinare e di corresponsabilità in attuazione delle norme e delle disposizioni vigenti”. Enti che, però, in nome di questa collaborazione hanno creato un business di migliaia di euro a discapito della tanto decantata “tutela dei minori”.
Su Bibbiano Zingaretti non deve tacere. E nemmeno minacciare chi è indignato. Francesco Storace domenica 7 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Nicola Zingaretti se l’è cavata con una quarantina di parole. Il solito tweet per lavarsi la coscienza. Bibbiano, Reggio Emilia, quando il silenzio è d’oro. E un partito, il Pd, che assolda avvocati affinché “nessuno osi strumentalizzare” una vicenda che è turpe di per sé. Caro Zingaretti, non c’è strumentalizzazione da parte di chi vi fa domande. Ma si manifesta invece da parte vostra quando minacciate querele contro un popolo che è indignato per quello che è successo: bambini strappati alle loro famiglie, giro impressionante di quattrini, e un’amministrazione comunale coinvolta. Non si deve dire che il sindaco è del Pd? Basta un tweet? O un post su Facebook?
Solidali col sindaco e non con le vittime. Ha scritto Zingaretti il 27 giugno: “Schifoso e orribile quanto emerge dall’inchiesta “Angeli e Demoni” sulla gestione di minori. Si vada avanti, fino in fondo, per accertare le responsabilità, la verità e per punire i colpevoli senza esitazione. Patetici i tentativi di strumentalizzare politicamente questo dramma“. Mai la parola Bibbiano. Mai la sigla Pd. Anzi, poi, solo minacce di querelare chiunque osi parlare di Bibbiano e del Pd. E perché il Pd di Bibbiano è solidale col sindaco Carletti, che è sotto accusa? Perché anche l’Anpi si è messa in mezzo a difesa dell’amministrazione? Nuovi partigiani? E perché, caro segretario del Pd, non si sente da sinistra una sola voce di solidarietà con le famiglie di quei bambini, con le vittime?
Fa bene Fratelli d’Italia. Mille volte brava a Giorgia Meloni e ai parlamentari che venerdì sono andati a Bibbiano al sit-in di Fratelli d’Italia (nella foto sopra). Riflettori accesi, altro che querele, altro che avvocati, altro che censura. “L’inchiesta ‘Angeli e Demoni’ sta portando alla luce un ingranaggio orribile nel sistema di affidamento dei bambini ad altre famiglie. Se le accuse fossero confermate, ci troveremmo di fronte ad una inaccettabile mercificazione dell’infanzia“. Lo ha detto l’on. Ylenia Lucaselli. Querelate anche lei? E un’altra deputata di Fdi, Maria Teresa Bellucci sulle macchine che mandavano scariche elettriche ai ragazzi: contribuivano “a creare un ambiente ansiogeno e un clima emotivo inquieto“. E il sindaco Carletti “ha effettuato un affidamento diretto senza bando di una struttura comunale all’associazione che gestiva la cura dei minori allontanati dalle famiglie“. Gli facciamo un applauso, Zingaretti, e sbattiamo in galera la Bellucci al posto di Carletti? Questa sporca storia di orchi, di famiglie depredate, di figli rubati e segnati per la vita è vergognosa. E dal Pd ci saremmo aspettati piuttosto l’annuncio di volersi costituire parte civile nel caso di processo al sindaco che il suo partito non ha ancora cacciato. Invece, in preda al panico, al Nazareno non si rendono conto, evidentemente, di quanto sia turbata la pubblica opinione. Trenta persone accusate di togliere ingiustamente i minori alle loro famiglie per lucrarci sopra. Ogni anno 50mila bambini sono sottratti alle famiglie in Italia con un giro di soldi per un miliardo e mezzo. Quanto deve durare questo affare, onorevole Zingaretti? Alla politica chiediamo soluzioni e non silenzio ipocrita. Vada anche il segretario del Pd a Bibbiano, abbia il coraggio di non nascondersi e vedrà che non avrà bisogno di querelare nessun altro. Serve solo serietà. E non minacce.
Selvaggia Lucarelli sabato 6 luglio 2019. Se c’è un “caso zero” che lega il centro Hansel e Gretel e i casi di “Veleno” e oggi Bibbiano è questo: il caso Sagliano, provincia di Biella. Il primo, il più dimenticato. La storia di un’intera famiglia che si suicidó nel 1996 per atroci accuse di abusi su due bambini e con le perizie dei soliti nomi (Foti/Roccia del centro Hansel e Gretel e la Giolito del caso Veleno). E con quell’Alessandro Chionna, il pm che decise l’arresto di Gigi Sabani. Un caso così dimenticato, nonostante il clamore dell’epoca, che per avere una foto di queste 4 persone che non hanno mai avuto giustizia, sono andata io stessa al cimitero di Sagliano a fotografare le loro tombe. Ne scrivo oggi su Il Fatto. Leggete questa orribile storia, è importante. E condividete il più possibile.
Il 5 giugno del 1996, a Sagliano Micca, provincia di Biella, si suicidarono quattro persone. Insieme, dopo aver lasciato delle lettere d’addio, scesero nel garage di casa, entrarono in una Fiat Uno verde, mandarono giù qualche pasticca di sonnifero e respirarono il gas di scarico fino a morire. Erano Alba Rigolone (66 anni), suo marito Attilio Ferraro (68 anni), i loro due figli Maria Cristina Ferraro (insegnante di 39 anni) e Guido Ferraro (commesso di 36 anni). Tutti accusati di aver sottoposto alle più raccapricciati pratiche sessuali due bambini, i figli di Guido e Maria Cristina, quel giorno erano attesi in tribunale per l’udienza del processo appena iniziato. Un processo in cui l’impianto accusatorio si fondava principalmente sulle perizie di due consulenti: Cristina Roccia, una delle psicologhe coinvolte nella vicenda “Veleno” e colui che all’epoca era suo marito, ovvero quel Claudio Foti del Centro Studi di Moncalieri Hansel e Gretel, oggi agli arresti domiciliari per la vicenda di Reggio Emilia. Il caso Sagliano, nella sinistra catena che lega l’associazione Hansel e Gretel ad alcune delle storie più inquietanti e controverse di abusi su minori, può essere considerato il “caso zero”. E forse anche il più dimenticato, nonostante il suicidio, nonostante il clamore che suscitò all’epoca, tra videocassette sulla storia allegate a quotidiani, l’accorata difesa degli imputati di Vittorio Sgarbi e i pareri di noti opinionisti dell’epoca. Un’intera famiglia si tolse la vita lasciando un biglietto sul cruscotto: “Quattro innocenti sono costretti ad uccidersi perché il tribunale di Biella non ha dato la possibilità di dimostrare la loro innocenza”. Forse, oggi, alla luce di quello che sta emergendo, è possibile restituire dignità a quei morti la cui vicenda processuale fu ricostruita nel 2007, con appassionato rigore, dallo scrittore ed ex assessore di Biella Diego Siragusa in un libro, “La botola sotto il letto”, che poi fu presto ritirato per minacce di querele.
La vicenda inizia nel 1995, quando Guido e sua moglie Daniela si stanno separando tra rancori e recriminazioni. In particolare, Daniela nutre un profondo astio nei confronti della famiglia dell’ex marito. Detesta soprattutto sua suocera Alba e della bella sorella del marito Maria Cristina. A un mese dall’udienza di separazione Daniela porta il loro bambino Angelo, di 9 anni, presso il Servizio di Neuropsichiatria Infantile di Vercelli che a sua volta fa una segnalazione al Tribunale dei minori di Torino. Il bambino accusa suo padre Guido, sua nonna paterna Alba e sua zia paterna Maria Cristina di avere rapporti incestuosi in sua presenza e di abusare di lui oltre che della sua cuginetta Linda, figlia di Maria Cristina. Il Tribunale sospende immediatamente gli incontri tra Guido e suo figlio Angelo.
Successivamente Daniela presenta una querela dettagliata contro il marito e la sua famiglia in cui racconta fatti raccapriccianti. Da quando ha circa tre anni, a casa dei nonni, Angelo assiste a scene di sesso esplicito e incestuoso: Maria Cristina lecca il pisellone al fratello Guido in salotto finché lui non le fa pipì sulla mano, sua nonna Alba, 66 anni, fa lo stesso sempre col pisellone di suo figlio Guido ma in camera. Maria Cristina, la piccola Linda e sua nonna Alba leccano tutte insieme Guido e vanno a letto nudi. La nonna nuda chiede a lui, Angelo, di toccarla ma il bambino si rifiuta. Un’altra volta Guido sbatte il pisellone sulla patata della piccola Linda oppure Guido lecca il deretano della madre anziana o suo padre prova a infilargli nel sederino il suo pisello ma lui scappa e gli altri dicono “Devi farlo!” Ti prego!”. Insomma, Sodoma. Un famiglia di persone apparentemente rispettabili, nasconde un simile orrore. La bambina viene prelevata mentre è a scuola e tolta alla madre per finire in un centro per minori, il pm Alessandro Chionna della procura di Biella dà il via alle indagini con perquisizioni a tappeto a casa di nonna Alba e nonno Attilio (che non è ancora stato accusato) e di Maria Cristina. Cercano materiale pornografico, videocassette, prove degli abusi. Non trovano nulla. La nonna non ha neppure un videoregistratore.
Il 3 giugno Alessandro Chionna li fa arrestare tutti e tre con tanto di sirene e manette con un’accusa precisa e devastante: abusi sessuali su minori. Breve parentesi: il pm Chionna fu anche il grande accusatore di Gigi Sabani e Valerio Merola nel famoso caso “Varietopoli” che portò all’arresto di Gigi Sabani nel 1996, proprio dopo due settimane dal suicidio della famiglia Ferraro, con le accuse di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione. Lo aveva accusato una minorenne. Chionna fu poi rimosso dall’incarico perché si innamorò della ex fidanzata di Gigi Sabani (con cui poi convolò a nozze), che conobbe durante l’inchiesta (poi archiviata). Gigi Sabani rimase marchiato da questa vicenda e nel 2007 morì di infarto. Tornando a Sagliano, i detenuti vengono interrogati da Chionna e dal Gip Paolo Bernardini. Guido afferma che la sua ex moglie aveva detto spesso che gliel’avrebbe fatta pagare, che era gelosa di sua sorella Maria Cristina, che dal ’94 in poi aveva proibito a nonna Alba e a nonno Attilio di vedere il nipote, convinta che la nonna volesse avvelenare Angelo con lo sciroppo. Nonna Alba dice di aver sempre trattato i nipoti con amore, Maria Cristina conferma l’odio della cognata per lei e la sua famiglia. Nonno Attilio, l’unico rimasto libero, spiega di non avere rapporti sessuali con la moglie da 10 anni, altro che sesso e promiscuità in quella casa.
Il 5 giugno del 1995 Chionna e il maresciallo Santimone interrogano il piccolo accusatore Angelo. Il bambino conferma la versione orgiastica della storia, ma poi, quando gli si fa notare che il racconto è inverosimile, cambia completamente rotta e ritratta tutto. Sarà la prima di una lunga serie di ritrattazioni. “Tutto quello che ho raccontato è frutto della mia fantasia. Io ho voluto in questo modo far andare in prigione mio padre, i miei nonni, mia zia perché hanno trattato male me e mia madre. E’ stata una mia montatura in quanto vedo film in cui fanno porcate”, dice. A quel punto il bambino va via con la madre, ma dopo un po’ i due tornano in Tribunale. Angelo si era solo spaventato, vuole confermare gli abusi, dice la madre. E invece Angelo ribadisce di essersi inventato tutto. Successivamente dirà anche che nella casa degli abusi ci sono botole sotto il letto dei nonni e passaggi segreti. Si è inventato tutto di nuovo. Il 7 giugno il gip Paolo Bernardini ordina la scarcerazione dei tre indagati e in un’ordinanza molto prudente ma rigorosa, afferma che la situazione è poco chiara, che la querelante manifesta ostilità nei confronti della famiglia Ferraro, che ai bambini sono state fatte domande suggestive, che Angelo ha dei disturbi psichici mai approfonditi. Chionna, a questo punto, nomina come consulente tecnico Cristina Roccia del Centro Hansel e Gretel, la stessa che interrogherà alcuni bambini di Massa Finalese (il caso Veleno) un paio d’anni dopo. La consulente deve stabilire se Angelo e Linda sono attendibili. Linda sarà sottoposta a un vero interrogatorio, ma parlerà sempre con amore della mamma e della nonna con cui fa il gioco della principessa e dei gioielli. Nega ogni abuso, piange, le manca sua madre. Angelo, nonostante le proteste dei legali di Guido che non può più vedere suo figlio, invece continua a vivere con Daniela (se fosse stato vero che la madre lo manipolava, poteva continuare a farlo liberamente). Guido invia lettere strazianti al figlio che ormai non vede più da tempo, scrivendogli “Vorrei tanto poterti far avere dei doni ma non so come fare, ho ancora l’uovo di Pasqua che non mi hanno lasciato consegnarti!”.
Il 6 giugno Chionna chiede al consulente tecnico Maria Rosa Giolito (che risulta aver collaborato con Foti di Hansel e Gretel anche nella stesura di un libro, è anche lei coinvolta nelle perizie mediche della vicenda Veleno) di verificare se la bimba abbia subito abusi. “L’imene con bordi sottili è compatibile con la penetrazione di un dito di una persona adulta, non posso escludere né provare la penetrazione col pene”, sarà l’esito. Che in sostanza non vuol dire nulla, tanto più che il perito della difesa parlerà di normale conformazione dell’imene. La visita della Giolito al bambino Angelo darà esito negativo, tuttavia la dottoressa specificherà “I segni ritrovati non sono specifici per abuso sessuale pur essendo compatibili con tale diagnosi, va considerato però che un oggetto delle dimensioni di un dito può essere introdotto nell’ano senza troppo disagio”. Insomma, l’esito è negativo, ma si lascia una finestra aperta. Peccato che in seguito Angelo dirà chiaramente di essere stato penetrato dal padre e che quella perizia lo smentisca. La perizia tecnica di Cristina Roccia, per la cronaca, costerà al tribunale la non modica cifra di 6.417.450 lire. Quando ormai la scadenza delle indagini è imminente Chionna affida una nuova audizione del bambino Angelo a Claudio Foti. Aveva ritrattato troppe volte, l’accusa era molto indebolita. Con Foti accanto, il bambino afferma di aver ritrattato gli abusi perché minacciato dal maresciallo e conferma le violenze. Non solo. Accusa per la prima volta anche suo nonno Attilio e anticipa l’inizio delle violenze a quando aveva un anno (la cuginetta non era neppure nata!). Come potesse ricordarsi di violenze subite a un anno non è chiaro. Non solo. Aggiunge che la cuginetta non ha il coraggio di dire la verità, quindi se dovesse essere risentita lui vorrebbe essere presente, “così la aiuta a parlare”. Chionna chiede il rinvio a giudizio, il gip Bernardini fissa il giudizio immediato, ma estromette le consulenze tecniche-psicologiche affermando che non si limitano a fornire un apporto scientifico, ma esprimono dei giudizi sulla veridicità di quanto affermato dai bambini. Chionna, che senza quelle perizie ha pochi elementi, non si arrende. Chiede al Tribunale un’audizione protetta per i due bambini che, come richiesto da Angelo, saranno sentiti insieme dalla psicologa Paola Piola, già teste dell'accusa.
Alba, Attilio, Maria Cristina e Guido capiscono che se la bambina confermerà le accuse sono spacciati. E così sarà. La mattina del 5 giugno 1996, fuori dal tribunale, la sorella di Alba, Maria Rigolone e gli avvocati della difesa, attendono i Ferraro per un po’, poi allarmati dalla loro assenza chiamano i carabinieri. In casa furono trovati alcuni biglietti di addio. In uno, firmato da tutti e quattro, indirizzato al senatore Claudio Regis che li aveva sempre sostenuti c’era scritto “Violando il codice, dei bambini sono stati ascoltati come pretendeva il pm Chionna, dalla stessa psicologa chiamata dall’accusa come teste che da un anno prepara Angelo a condannare il padre e tutta la sua famiglia. La sentenza che ci aspetta è ovvia, siamo innocenti, non vale la pena continuare ad esistere”. Maria Cristina aveva scritto un’altra lettera in cui si augurava di incontrare di nuovo sua figlia nell’aldilà. Nonna Alba aveva lasciato un biglietto: “Non ho mai fatto porcherie con i figli e i nipoti che adoravo. Ho insegnato loro le cose belle e giuste della vita, chiedo perdono ai miei cari”. E poi quel biglietto sul cruscotto: “Siamo innocenti”. Morirono insieme, respirando monossido, nella Fiat Uno verde di Maria Cristina. Ai funerali parteciparono più di 1000 persone, a Sagliano in tanti credettero alla loro innocenza fino alla fine. La sentenza di improcedibilità mise fine alla vicenda. Chionna disse di aver lavorato con correttezza, Paolo Crepet sentenziò che “il suicidio è un’ammissione di colpa”, il senatore Claudio Regis affermò “Queste persone sono state uccise per un patto scellerato fra procura e tribunale dei minori”. (e per questa dichiarazione fu processato e condannato). “Ora il dolore è solo mio”, dichiarò Daniela, la grande accusatrice, ai giornali. Ma a rimbombare ancora, dopo 23 anni dalla tragedia, sono le parole della psicologa Paola Piola, una delle grandi sostenitrici dell’accusa: “In fondo le vittime sono ancora i bambini. Ora sono anche senza genitori. La vicenda giudiziaria è stata archiviata col decesso degli imputati, e forse è meglio così”. Quattro morti, una verità mai accertata e ombre antiche, che dopo 23 anni, spuntano fuori da una vecchia botola. L’unica che è davvero esistita, in questa orribile vicenda. No, non è stato meglio così.
Foti: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Elisa Sola su Corriere.it. Arrestato il 27 giugno con accuse infamanti — aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi sessuali non esistenti — Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e direttore scientifico della onlus «Hansel e Gretel», da oggi è un uomo libero. Il tribunale del Riesame di Bologna ha accolto l’istanza del suo legale, l’avvocato Girolamo Goffari, revocando la misura dei domiciliari. Secondo i giudici «non vi sono gravi indizi di colpevolezza» per Foti, finito nella bufera di «Angeli e demoni», inchiesta su presunti illeciti nel mondo degli affidi.
Claudio Foti, come ha accolto l’ordinanza del Tribunale del riesame?
«Per me è caduta l’accusa più grave e infamante, relativa alla manipolazione della ragazza e alla terapia, così hanno scritto, “brutale e suggestiva” che io avrei eseguito. Ma per fortuna il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e la grazia del Signore mi ha consentito di ricordarmi che io quegli incontri li avevo registrati. Venti ore di filmati per 15 sedute mi hanno salvato».
Sono queste le prove che hanno convinto i giudici?
«Sì. Se non avessi trovato i video, avrei potuto fare tutte le chiacchiere del mondo, ma sarei ancora agli arresti. Il tribunale ha preso atto del fatto che la mia terapia era basata sul rispetto empatico, che non vi erano elementi di induzione, né una concentrazione forsennata sull’abuso. Sono filmati inequivocabili: smentiscono clamorosamente le testimonianze contro di me, come quella della madre della ragazza, che ha cambiato le carte in tavola. Era stata lei a descrivere una situazione di abusi reiterati».
Al di là del processo, lei come sta?
«Non è facile stare ai domiciliari. Né sopportare la marea di fango. E mi scuso se mi commuovo mentre le parlo. Ma subire un processo mediatico così duro, quando da 30 anni porti avanti in maniera impegnata e sofferta un’attività a favore delle donne e dei bambini, è veramente difficile. Nel processo mediatico non puoi intervenire, né difenderti».
Come ha fatto a resistere, psicologicamente, per 22 giorni?
«Non saprei. Oggi ho fatto fatica ad uscire di casa. Ho fatto ore e ore di pratica meditativa. Il problema non erano tanto gli arresti, ma il senso di ingiustizia di subire il processo mediatico».
Come si spiega che le abbiano contestato accuse così pesanti?
«Ho delle idee, ma devo essere cauto. Un aspetto della “bufala” nei miei confronti, è che mi hanno indagato per aver trattato una paziente come “una cavia”. La verità è che noi avevamo vinto un bando dell’Asl di Reggio Emilia, che prescriveva un’attività di formazione di un gruppo di psicoterapeuti della stessa Asl, i quali avrebbero dovuto assistere alle sedute in una stanza con una videocamera a circuito chiuso. Una modalità che si usa in tutto il mondo. C’era il consenso della madre e di tutti gli interessati. Non so davvero perché tutto ciò sia accaduto. Sono di orientamento buddista, credo che le persone della procura che mi hanno accusato siano state animate dal desiderio di cercare la verità. Ma talvolta, la verità, la si cerca in modo sbagliato. Hanno detto a noi che eravamo verificazionisti, eppure, forse, lo sono stati loro: hanno trasformato in teorema qualcosa che non c’era».
Cosa farà, da oggi?
«Non andrò in vacanza, mi devo riprendere. Ora penseremo a un progetto di riflessione e di ripartenza. C’è un danno di immagine enorme fatto alla persona e all’associazione Hansel e Gretel. I pregiudizi si fossilizzano, sarà difficile uscirne. Ma ripartiremo certamente, prepareremo un documentario. Io scriverò un libro su questo, ho già iniziato. A 68 anni sarà il mio primo romanzo, finora ho pubblicato saggi. Proverò a tradurre cosa ho provato per un dovere di verità nei confronti di chi mi è stato vicino».
L'inchiesta shock Bibbiano. Lo psicologo scarcerato: “Su di me solo fango, io quei bimbi li ho salvati”. Federico Cravero il 20 luglio 2019 su La Repubblica. «Su di me c’è lo stereotipo dell’abusologo, quello che vede abusi dappertutto...». Prima di qualunque domanda è Claudio Foti a mettere le mani avanti e a dire quello che i suoi detrattori pensano di lui. Psicoterapeuta, fondatore del centro studi Hansel e Gretel di Moncalieri, alle porte di Torino, per tre settimane è stato agli arresti domiciliari, indagato nell’inchiesta “Angeli e demoni” della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di abusi e di affidi familiari a Bibbiano, in Val d’Enza.
L’accusa di fare il lavaggio del cervello, l’accostamento alla vicenda di “Veleno”, l’arresto... Si aspettava che un giorno la sua attività potesse passare da tutto questo?
«Su di noi è stata gettata un’ondata di fango e di fake news. La semplificazione che è stata fatta è una distorsione grave di un lavoro lungo trent’anni rigorosamente a favore dei bambini e delle donne vittime di violenza: non tutti gli abusi sono inventati».
L’hanno definita un mostro.
«Non abbiamo il controllo su quello che pensano di noi. Capisco che io possa essere scomodo e non pretendo applausi. Ci stiamo riorganizzando, sto già scrivendo un romanzo, ci riprenderemo da questa botta».
Di cosa è stato accusato?
«Ero ai domiciliari con l’accusa infamante di aver condotto una psicoterapia “suggestiva e brutale” su una ragazza, di averla usata “come cavia”, quando invece era stato firmato un consenso informato. Il mio avvocato Girolamo Coffari ha prodotto al Tribunale della libertà 20 ore di sedute videoregistrate e sono stato liberato».
E rispetto alle accuse di lucrare sui presunti abusi?
«Andavo fino a Reggio Emilia per 500 euro a giornata incluse le spese, quando in una qualunque giornata di formazione posso guadagnarne il doppio o il triplo».
Secondo lei cosa ha convinto il giudice che l’ha scarcerata?
«Era tutto nelle immagini, nessuna persona onesta avrebbe potuto dire che ho manipolato il ricordo di quella ragazza. Il mio metodo è basato sull’ascolto empatico dei sentimenti dei pazienti, che mi portano le loro sofferenze».
È il “metodo Foti”?
«Non esiste un “metodo Foti”, c’è una vasta area della psicoterapia che ha questo approccio. Naturalmente nella comunità scientifica c’è conflitto e sono stato accusato, soprattutto dagli psicologi forensi, di costruire falsi ricordi di abusi in modo aprioristico».
Invece?
«Invece il mio lavoro è solo finalizzato alla guarigione dei pazienti. Con una premessa, però. Le statistiche dicono che una bambina su cinque è abusata sessualmente prima dei 18 anni».
Così tanti casi?
«Gli abusi nell’infanzia sono un fenomeno sottostimato. La società è turbata, non lo accetta e preferisce non vederlo. È la stessa ragione per cui chi toglie i bambini ai genitori viene attaccato, dalla società e anche da alcuni partiti, in nome del valore della famiglia e si giudica un business quello delle comunità. Se i genitori hanno delle carenze vanno aiutati, ma a volte non si può e allora bisogna togliere i figli».
Non può accadere che il lavoro “clinico” degli psicoterapeuti diventi decisivo in un processo?
Certamente bisogna fare attenzione al rischio di false accuse, specie nelle separazioni, ma il nostro compito è di far emergere i “falsi negativi”, ovvero quei casi i cui i bambini non riescono a dare voce ad abusi davvero subiti e non li esternano. Se poi i magistrati abdicano al loro ruolo e si fanno suggestionare dagli psicologi, non è un problema mio. Ma di solito il quadro probatorio vede anche relazioni dei servizi sociali, delle maestre... L’importante è che ogni caso vada visto a sé, senza ideologie. Noi non siamo forcaioli, tant’è che abbiamo anche progetti di rieducazione dei sex offenders».
Ecco i verbali che inguaiano l'"uomo nero" di Bibbiano. Foti indagato anche per maltrattamenti familiari Lo sfogo della moglie: «Poi parli di tutela dei minori...» Nino Materi, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. Da un uomo che ha potere di «vita e di morte» su genitori e figli (nel senso che può decidere di togliere bambini alle famiglia in base a presunte «inadeguatezze genitorali»), ti aspetteresti che sia una persona competente, obiettiva ed equilibrata. E invece si scopre che Claudio Foti - il controverso psicoterapeuta della onlus «Hansel e Gretel» coinvolto nell'inchiesta sugli affidi illeciti a Bibbiano - è indagato anche per «maltrattamenti familiari». Il professionista che avrebbe dovuto combattere i maltrattamenti, sarebbe a sua volta un maltrattatore. Per il gip Foti è «portatore di una personalità violenta e impositiva». Vi fidereste di uno così? Accettereste di buon grado una sua sentenza da Foti che ha fatto per anni il giudice onorario al Tribunale dei minori di Bologna? Magari una sentenza che ordina che vostro figlio venga affidata a coppia gay? È quanto è accaduto a tante famiglie cui il «sistema Foti» ha scippato i bimbi con false accuse di pedofilia. Nelle intercettazioni si sente la moglie di Foti descrivere gli atteggiamenti violenti del marito nei riguardi suoi e dei figli. Si fa riferimento a «piatti rotti», ad «aggressioni verbali» e, addirittura, a «pavimenti sporcati con escrementi di cane». Foti smentisce tutto: «Mia moglie non mi ha mai denunciato. È stato solo un momento di nervosismo. Mai alzato un dito contro nessuno. Ci siamo subito chiariti, ora i rapporti sono ottimali». In caso contrario ci troveremmo dinanzi a uno psicoterapeuta che - più che curare le menti altrui - avrebbe bisogno di dare una regolata alla propria testa. A rendersene conto è la stessa moglie di Foti: quella Nadia Bolognini, anch'essa psicoterapeuta e coinvolta fino al collo in «Angeli e demoni». Dinanzi agli attacchi d'ira del marito, la Bolognini commenta: «E poi andiamo a fare i convegni sulla tutela dei minori...». Le nuove accuse sono emerse «attraverso le intercettazioni effettuate nelle indagini per altri reati». Oggetto di esame, le conversazioni con la moglie, anche lei indagata e finita ai domiciliari: misura che doveva essere estesa a Foti, ma nei giorni scorsi la decisione è stata revocata dal Riesame e sostituita con obbligo di dimora a Pinerolo. Un'attenuazione della posizione che ha permesso a Foti di accreditarsi come vittima di una «vergognosa gogna mediatica». Sulle responsabilità penali sue e degli altri indagati deciderà la magistratura. Ma, sotto il profilo morale, le distorsioni già appaiono evidenti. Trasmissioni tv come Matrix e Quarta Repubblica le hanno denunciate in maniera circostanziata, documentando affarismi e zone d'ombra dei servizi sociali. Un grumo di ideologie Lgbt, conflitti di interessi e commistioni politiche che il Pd vorrebbe far passare per «strumentalizzazioni».
«Non sono un mostro, ho solo cercato di riavvicinare i ragazzi alle loro madri». Simona Musco il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. Intervista allo psicoterapeuta Claudio Foti, presidente della “Hansel&Gretel”. Nuova indagine sul professionista: ora è accusato di maltrattamenti sulla moglie e i figli
«Non sono un mostro». L’ultima novità dell’inchiesta “Angeli e Demoni” Claudio Foti l’apprende poco prima dell’intervista, dal tg. «Dicono che sono indagato per maltrattamenti su mia moglie», dice confuso. Tutto riconduce ad un’intercettazione, che il gip utilizza in ordinanza per descrivere la personalità dello psicoterapeuta direttore della onlus torinese “Hansel& Gretel”, coinvolta nell’inchiesta di Reggio Emilia. Ovvero «violenta e impositiva», afferma il giudice, analizzando quella telefonata in cui la donna – anche lei ai domiciliari nell’ambito della stessa inchiesta – si sfogava con delle amiche. Ma lui si difende, respinge le accuse, e si dice certo di dimostrare la sua innocenza. Con la storia degli affidi non c’entra nulla, giura, mentre quelle con la moglie erano le liti di una coppia in via di separazione. E la verità, secondo Foti, che dal 18 luglio ha il solo obbligo di dimora a Pinerolo, è una sola: «ho costruito la mia rispettabilità con 30 anni di carriera. Ma a qualcuno, forse, non sta bene. E questa nuova indagine è forse la risposta alla mia scarcerazione».
Cos’è questa storia dei maltrattamenti?
«L’ho sentita al tg. Mia moglie, parlando con un’amica, si lamentava del fatto che io trattassi male lei e i bambini. Parlava di un episodio in cui avevo rotto dei piatti. Ci stiamo separando, con qualche conflittualità, e lo facciamo usiamo termini diversi dagli insulti, ma più vicini al nostro mondo. Ma questa lite è stata spettacolarizzata. Si usa tutto, anche un normale conflitto coniugale, per distruggermi. Conosco mia moglie, sono sicuro che tutto questo finirà nel nulla».
Sua moglie ha sporto mai denuncia contro di lei?
«Assolutamente no. È stata la procura di Reggio Emilia a inviare gli atti, per competenza, alla procura di Torino. Ed è lei stessa ad ammettere pacificamente che entrambi abbiamo fatto degli errori nella nostra storia. Io mi sento attaccato, la leggo come una risposta al fatto che il Tdl abbia annullato il capo di imputazione più infamante».
Ovvero l’accusa di aver manipolato una minorenne…
«Non c’è manipolazione alcuna. La madre stessa, che in sede di sit di- ce che la figlia stava benissimo, nella prima seduta con me aveva parlato di un triplice abuso e aveva descritto in modo estremamente preciso le sofferenze che la ragazza provava prima della psicoterapia, sofferenze che io ho cercato di curare. Le registrazioni dimostrano anche i miglioramenti, seduta dopo seduta. Con quei nastri ho dimostrato che non c’è stata alcuna manipolazione».
E la frode processuale?
«Io non ho mai sentito parlare di alcun processo e in quelle registrazioni non c’è un solo accenno a procedimenti civili o penali. Io lavoro sul paziente e sui suoi problemi. E non sono mai stato chiamato a testimoniare da qualche parte».
La procura contesta le accuse sulla base di una seduta, dalla quale emergerebbe una manipolazione. Come spiega quel nastro?
«Il reato sarebbe stato compiuto tra il 2016 e il 2017, io ho portato 15 registrazioni del 2016. Rispetto al periodo in cui avrei commesso il reato non ci sono elementi di prova: gli investigatori Si sono basati su quell’unica seduta registrata nel 2018 ed è chiaro il metodo di lavoro si desume dal complesso della terapia. Io ho lavorato sul materiale che mi hanno portato la madre e la paziente. I video sono stati un colpo di fortuna per me».
Eppure, nonostante anche il Riesame abbia negato la gravità indiziaria, l’opinione pubblica è ancora contro di lei.
«Perché c’è molta confusione. Sono accusato, nel processo mediatico, di aver organizzato un giro di affidamenti retribuiti. Ma io sono uno psicoterapeuta, sono esterno al servizio pubblico, non mi occupo di affidamenti. Mi imputano qualcosa che non appartiene al mio ruolo. E non potevo incidere in quelle scelte, perché non competono me e non me ne viene in tasca nulla».
E perché crede ci sia tutto questo odio preventivo?
«Molti di coloro che mi hanno espresso odio, minacce di morte, cose terribile, vogliono bene ai bambini e sono indignati, giustamente, nei confronti della violenza sui più deboli. Ma hanno un piccolo problema: hanno già fatto il processo e si è concluso con la condanna a morte. Io dico a queste persone che il processo non si è ancora celebrato e dimostreremo che abbiamo curato correttamente dei bambini sessualmente abusati, su cui c’era una diagnosi di trauma sessuale precedente all’inizio della terapia».
Cioè?
«Una diagnosi psicosociale, fatta da psicologi, assistenti sociali ed educatori che avevano già raccolto tanti elementi. Una diagnosi di trauma sessuale non nasce dal fatto che uno è fissato con l’abuso e prende un indicatore avulso dal contesto costruendo, su un sintomo isolato, una diagnosi. Questa è una bufala. Le diagnosi da cui le terapie sono partite – e lo dimostreremo – sono una raccolta di tantissimi elementi, tra cui le dichiarazioni dei bambini, i sintomi delle loro sofferenze, le loro confidenze non solo alla rete degli operatori ma anche, a seconda dei casi, all’insegnante, ai familiari, al genitore affidatario. Dichiarazioni credibili, coerenti e ripetute».
Che idea si è fatto degli altri casi?
«Posso parlare solo dei terapeuti del centro studi Hansel& Gretel, perché conosco solo il loro lavoro. Il loro problema è che non hanno delle videoregistrazioni, perché non lo si può sempre fare. Non è facile mettere i bambini a parlare di abusi davanti ad una telecamera. Ed escludo che la selezione della trascrizione delle sedute corrisponda allo stile di lavoro di questi colleghi, non riconosco quello stile inquisitoriale. C’è sempre empatia e non si fanno mai tre domande di fila. Qualsiasi tipo di trascrizione non rende l’idea di un colloquio in cui circolano emozioni».
Condivide l’allontanamento dei minori dalle famiglie?
«Io lavoro spesso e volentieri mettendo madre e figlia insieme. Sono estreme e penosissime le occasioni in cui consiglio di stravolgere il nucleo familiare, la più straordinaria risorsa formativa. L’allontanamento è una situazione estrema».
Lei è accusato anche di concorso in abuso d’ufficio.
«Da 30 anni, con il centro studio, lavoriamo con l’ente pubblico e non ci siamo mai occupati di come lo stesso definisse le modalità di affidamento. Diamo per scontato che lo faccia seguendo le regole. Si parla di ingenti somme guadagnate tramite questi incarichi: si tratta di 135 euro a seduta che è la cifra che io, che ho 30 anni di esperienza, prendo a Torino, senza alcuno spostamento. In questo dovevo andare a Reggio Emilia, per 600 euro massimo a giornata, per due giornate al mese. Beh, in altre zone d’Italia mi pagano il doppio o il triplo e ci mettono anche il rimborso spese».
Com’è stato il giorno dell’arresto?
«Mi trovavo in vacanza, sulla Costiera Amalfitana. Non ho capito niente per un giorno o due, non mi sono reso conto di cosa si stava scatenando contro di me e contro il centro studi».
Per molti questo caso rappresenta una conferma dell’inchiesta “Veleno”, di Pablo Trincia.
«Con quella storia io non c’entro nulla, non ero presente in quella vicenda 20 anni fa. L’unica contestazione è che ho fatto una lettera aperta, firmata da 410 persone, contro quella ricostruzione. Non credo si possa contestare la libertà di pensiero. E devo dire che quell’inchiesta non rende giustizia alla vittime, che continuano ad essere fedeli e coerenti alle dichiarazioni che allora vennero prese sul serio dai giudici e in base a cui, con tre gradi di giudizio, si pervenne ad una sentenza di condanna. C’è un comitato di vittime, di cui Trincia non si è occupato, e continuano a ricordare i traumi subiti. Vittime che non hanno mai chiesto dei loro genitori naturali e non sono andati ai loro funerali».
Bibbiano, Laura Pausini si schiera: «Sono piena di rabbia nei miei pugni». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Corriere.it. «Ho appena letto un articolo sulla storia dei Bimbi di Bibbiano. Sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni, mi sento incazzata fragile impotente». Inizia così il lungo post di Laura Pausini su Facebook, che schiera la sua popolarità su una vicenda non ancora chiarita. «Ho deciso di cercare questa storia perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati. Tutta Italia». La cantante si chiede cosa si può fare e come si possa aiutare perché il caso abbia l’eco che merita: « Per chi non sa ancora di cosa parlo scrivete Bibbiano su Google e leggete. E poi scrivete su questi maledetti social che usiamo solo per le cavolate, cosa pensate di queste persone che strappano i figli alle loro famiglie. Non parlo di politica, parlo di umanità, di rispetto, di diritto alla Vita… ecco, se avete letto, ditemi sinceramente … voi non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati? Non sentite la voglia di urlare? Non sentite la voglia di punire queste persone in maniera molto dura? Scusate lo sfogo ma a me manca il fiato pensando a questi bambini e alle loro famiglie che sono stati torturati psicologicamente per sempre. Se avete un figlio pensate che improvvisamente una persona della quale per altro potreste anche fidarvi, fa un lavoro psicologico tanto grave da portarveli via e affidarli ad altre persone. Come si rimedia adesso nella testa e nei cuori e nell’anima di queste persone? Ma vogliamo fare qualcosa?».
Il legale di Foti: «Non è un mostro, ma la gente è rabbiosa e cerca teste da tagliare». Secondo Girolamo Coffari, l’indagine è zeppa di sviste ed errori grossolani: «si parla perfino di elettroshock ma quel macchinario si trova su internet e gli psicologi lo usano da sempre…» Simona Musco il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Claudio Foti non avrebbe manipolato nessuna minore, convincendola di aver subito abusi che, in realtà, non ci sarebbero stati. Una convinzione che il giudice del Riesame ha maturato guardando i nastri di 15 sedute di psicoterapia, che dimostrerebbero l’inconsistenza di teorie sul lavaggio del cervello. Un dato che emerge dalla decisione di annullare gli arresti domiciliari dello psicoterapeuta 68enne, direttore scientifico della onlus “Hansel e Gretel”, da giovedì di nuovo libero, anche se con obbligo di dimora a Pinerolo, dove risiede. E che oggi fa dire all’avvocato Girolamo Andrea Coffari che dietro l’indagine “Angeli e Demoni” ci sono «errori grossolani» e polveroni. L’inchiesta, 23 giorni fa, aveva fatto scalpore, come un film horror fatto di plagi, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per sottrarre bambini a famiglie innocenti col solo scopo di guadagnare col sistema degli affidi. Un’indagine che riguarda 27 persone e conta 101 capi d’accusa, due soli dei quali contestati a Foti. Ma nonostante la sua posizione sia marginale, forse per la sua fama o forse per via di quei vecchi casi raccontati dall’inchiesta giornalistica di Pablo Trincia, dal titolo “Veleno” ( «una mera tesi giornalistica contestata anche dall’Anm», dice Coffari),- Foti è diventato il centro di tutto. E vittima predesignata dell’ennesimo processo mediatico, sfogatoio di una rabbia sociale cieca e superficiale.
LE ACCUSE. Sono due le contestazioni mosse a Foti. La più grave è quella di frode processuale, per aver «alterato lo stato psicologico ed emotivo di una minore». Una ragazza usata come «cavia» nell’ambito di un corso di formazione, con una psicoterapia dalle modalità «suggestive e suggerenti», che l’avrebbero convinta di aver subito abusi da parte del padre. E poi un concorso in abuso d’ufficio, perché il servizio di psicoterapia dell’Unione Comune della Val d’Enza, è finito in mano, in via esclusiva, alla sua coop senza alcun bando pubblico. Ma per il giudice del Riesame, sull’accusa più infamante non sussistono i gravi indizi di colpevolezza, mentre rimane solo l’abuso d’ufficio. Che, dice Coffari, «è una sciocchezza».
IL «MOSTRO». Nel caso di Bibbiano, dice l’avvocato al Dubbio, Foti ha una posizione marginale, fin dall’inizio. Lo è nel caso dell’abuso d’ufficio, dove si contesta ad un privato cittadino di non aver controllato «se l’amministrazione pubblica abbia osservato le regole amministrative». E quindi va subito a quell’accusa che vorrebbe Foti come un demiurgo di ricordi ossessionato dalle violenze sessuali come ragione di ogni disagio. A sostegno della tesi «due pagine di sommarie informazioni rilasciate dalla ragazza, che non dicono granché – afferma Coffari – e, soprattutto, un’intercettazione ambientale del 2018». Si tratta del corso di formazione e di frasi estrapolate da una seduta, nella quale Foti parte dal presupposto della violenza subita e da lì fa delle domande alla giovane. Come se volesse indottrinarla, per l’accusa. Ma quella non era la prima seduta per i due, bensì la ventesima, ognuna documentata da una registrazione. Precedenti che «non si possono ignorare – dice il legale – Noi abbiamo avuto la fortuna di trovare le videoregistrazioni delle prime 15 sedute, nelle quali si vede la giovane parlare spontaneamente di queste ipotesi di violenza». Foti si sarebbe così limitato a ripetere le stesse parole usate in precedenza dalla ragazza, nel tentativo, sostiene la difesa, di approfondire i suoi ricordi e ricollegarli ad un malessere grave da lei stessa lamentato.
LA «CAVIA». Per i pm la sua presenza al centro di una sala, con altri psicoterapeuti ad ascoltarla nascosti da un vetro, sarebbe stata una sorta di esperimento da laboratorio e lei un oggetto da vivisezionare. Il contesto è un corso di formazione per psicoterapeuti bandito dall’Asl, con lo scopo di formare una equipe di esperti in traumi, attraverso «il trattamento di un caso specifico». Una «prassi in tutta la psicologia clinica sistemico- relazionale dell’occidente», dice Coffari, che è anche presidente del “Movimento infanzia”.
IL PROCESSO MEDIATICO. Foti diventa il modello ideale di un orrore da buttare subito sul palcoscenico, senza garanzie, senza contraddittorio. Le carte lo descrivono come un uomo dalla personalità «brutale, violenta e impositiva», arrivando ad ipotizzare maltrattamenti sulla moglie, la ex compagna e i figli. «Questo sulla base di una telefonata in cui litiga con la moglie, anche lei psicologa che tratta maltrattamenti e abusi all’infanzia da una vita». Insomma, anziché urlarsi parolacce, i due si danno dei “maltrattanti”. «E questo basta». Perché a carico di Foti non c’è alcuna denuncia per maltrattamenti. E allora com’è diventato il mostro di Bibbiano? «Fa comodo, in un periodo in cui si cercano ghigliottine, teste da ghigliottinare», dice Coffari. Perché c’è «un clima da un prefascismo, un senso di rabbia che si deve sfogare istintivamente su dei capri espiatori».
«CONFUSIONE ED ERRORI». L’indagine, conclude Coffari, magari non è tutta da buttare e, forse, è riuscita a svelare qualche orrore. Ma gli errori, afferma, non si possono ignorare. Come quando si parla di elettroshock, «mentre si ha a che fare con un macchinario acquistabile su Amazon, usato normalmente dagli psicologi». O dell’Emdr, approccio psicoterapico riconosciuto dall’organizzazione mondiale della sanità, «trattato come una specie di sabba delle streghe». Insomma, «la mia impressione è che sia stato fatto più di un errore. E con Foti ho avuto ragione».
Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.
Bibbiano, l’indagine si allarga: ricontrollati oltre 70 casi. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Alessandro Fulloni su Corriere.it. Settanta fascicoli ricontrollati dai giudici del Tribunale dei minori di Bologna. Accertamenti non soltanto sui sei casi, finiti nell’inchiesta dei carabinieri, dei finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza, nel Reggiano, per togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli (con aiuti mensili sino a 1.300 euro) ad altre coppie giudicate più adatte. L’elenco comprende tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali — con sei Comuni, tra cui Bibbiano, sede del presidio più importante, quello della struttura «La Cura» — e approdati sui tavoli delle toghe minorili. A ordinare la verifica è stato il presidente del Tribunale Giuseppe Spadaro che aveva da tempo informato la Procura di Reggio sui sospetti relativi alle tante denunce in Val d’Enza per maltrattamenti in famiglia: ma poi, senza riscontri, fioccavano le richieste di archiviazione. Il meccanismo per togliere i bambini era però già avviato con il corollario — per l’accusa — delle relazioni false per screditare i genitori «inaffidabili», i condizionamenti degli psicoterapeuti sui minori. E le modifiche ai disegni dei piccoli. Uno mostra un uomo che accarezza una bimba: ma poi si è scoperto che erano state aggiunte delle lunghe braccia. Già il primo fascicolo rivisto dallo staff di Spadaro contiene pesanti «anomalie e omissioni». In una dichiarazione di abbandono, dove i genitori naturali erano autori di violenze, il servizio non avrebbe comunicato al tribunale di avere individuato la nuova coppia affidataria. Questo contravvenendo alla sentenza che prevedeva invece un tassativo iter «concertato con i giudici». L’inchiesta — che terminerà il 26 settembre, poi si valuteranno le richieste di rinvio a giudizio — intanto prosegue: gli indagati sono saliti a 29. Tre sono sindaci o ex sindaci: uno è quello di Bibbiano Andrea Carletti. Sospeso dal prefetto e autosospesosi dal Pd «è ai domiciliari, accusato di abuso d’ufficio e falso: avrebbe assegnato dei locali a una onlus» precisa il suo avvocato Giovanni Tarquini. Sotto inchiesta per abuso d’ufficio ci sono anche gli altri due ex primi cittadini: anche loro Pd, sono Paolo Colli (Montecchio) e Paolo Buran (Cavriago), ex presidente dell’Unione Val d’Enza. Uno degli arrestati tira intanto un sospiro di sollievo. Si tratta di Claudio Foti, 68 anni, psicoterapeuta e fondatore della onlus «Hansel e Gretel» che collaborava con gli operatori reggiani. Accusato di aver manipolato una minorenne spingendola a confessare abusi inesistenti è tornato in libertà dopo che il Riesame ha revocato i domiciliari perché «non vi sono gravi indizi di colpevolezza». Lui ora dice: «Non sono un mostro. Mi hanno salvato i filmati delle sedute. Dimostrano che la mia terapia era basata sul rispetto empatico: se non li avessi trovati sarei ancora agli arresti».
Bibbiano, bimba buttata fuori dall’auto e lasciata sotto al temporale: non confessava i finti abusi. Pubblicato domenica, 18 agosto 2019 da Agostino Gramigna su Corriere.it. L’inchiesta «Angeli e Demoni», con al centro i servizi sociali della Val D’Enza accusati di aver redatto false relazioni per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti, si arricchisce di nuovo materiale. In nuovi audio, diffusi da un servizio del TgR Emilia-Romagna, si sente una madre affidataria che lascia una bimba sotto un temporale e la sgrida perché non parla di abusi subiti (che di fatto non sarebbero mai avvenuti). «Scendi, io non ti voglio più» — grida la donna, madre affidataria, in un’intercettazione ambientale dei carabinieri. La bambina è stata tolta alla sua famiglia. In un altro audio, la stessa donna sgrida la bimba perché non racconta su un diario di abusi subiti in passato: «Tu non ci scrivi perché c’hai paura di scrivere, perché le cose che devi scrivere adesso sono talmente profonde che non ti va più di scriverci. Non ci vuoi neanche andare vicino». Anche in questo caso gli abusi non ci sarebbero mai stati, almeno stando agli elementi emersi dall’inchiesta. Sempre il TgR Emilia-Romagna aveva mandato in onda una delle intercettazioni ambientali raccolte nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in cui si sentono una neuropsichiatra e una psicologa dell’Ausl reggiana, indagate, conversare tra loro. In un passaggio si sente: «Comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c’ha figli, cioè non si sa mai...». Parole seguite da una risata. Nella conversazione le due professioniste si riferivano a un maresciallo dei carabinieri che aveva chiesto loro documenti sugli affidi di Bibbiano. Audio che aveva suscitato il commento via tweet del ministro Matteo Salvini: «Pazzesco, due dottoresse del sistema Bibbiano ridacchiano tra loro minacciando i carabinieri impegnati nelle indagini sugli affidi... Che vergogna, che schifo!». Salvini, in un secondo tweet, aveva poi aggiunto: «Spero che non ci si fermi di fronte a nulla: i delinquenti colpevoli di queste mostruosità devono pagare tutto!».
Affidi illeciti, madre affidataria intercettata: "Non ti voglio più". E lascia la bambina sotto il temporale. Sgridata perché non voleva ammettere abusi mai accaduti. La Repubblica il 18 agosto 2019. Una bambina che non capisce perché non può più vedere i genitori, martellata di frasi e domande per instillarle dubbi. La stessa bimba sgridata perché non parla di abusi subiti - ma che non sarebbero mai avvenuti - e cacciata per punizione dall'auto dalla madre affidataria mentre fuori c'è un temporale. Il quadro sui presunti affidi illeciti della Val d'Enza, il "caso Bibbiano", descritto dall'inchiesta "Angeli e Demoni" della Procura di Reggio Emilia si arricchisce di nuovi dettagli: gli audio delle intercettazioni di alcuni indagati. Dopo le due professioniste che ridono di un maresciallo dei carabinieri, ora ci sono gli aspri rimproveri di questa madre affidataria a una bimba tolta alla sua famiglia naturale. Con tanto di punizione sotto la pioggia. "Scendi, non ti voglio più. Io non ti voglio più, scendi, scendi!", così grida la donna, indagata dalla Procura reggiana, in un'intercettazione ambientale mandata in onda dal TgR Emilia-Romagna in un servizio di Luca Ponzi. La testimonianza audio amplifica la drammaticità di un episodio che era già emerso dalle carte dell'inchiesta. I giudici descrivono una bambina oggetto di vessazioni psicologiche del tutto gratuite, dettate dall'esigenza di denigrare i genitori naturali. La piccola viene sbattuta fuori dall'auto in una giornata di pioggia del 20 novembre, come punizione per il fatto che non voleva ammettere di 'pensare' quello che la madre affidataria riteneva che Anna (nome di fantasia della bimba, ndr), stesse "pensando". La donna intima alla bambina di rivelare il male fattole dai genitori naturali. "Pensi che? - dice - Anna pensa che??? (urlando sempre di più, ndr) Daii! Quando mi vedi davanti al telefono Anna pensa che??? Dai dillo!!!" La bimba dice che non riesce a parlare con la donna e che ritiene di avere ragione. A questo punto l'affidataria ferma la macchina e urla "Porca puttana... porca puttana vai da sola a piedi... porca puttana! Scendi! Scendi! Non ti voglio più". Si sente aprire lo sportello e si sente lo scrosciare della pioggia. La donna continua: "Io non ti voglio più, scendi!". La bimba appare impaurita e dice con voce tremolante: "Perché..." C'è poi un altro audio mandato in onda oggi. È la stessa donna che parla alla medesima bambina, ma stavolta le rimprovera di non mettere nero su bianco su un quaderno gli abusi che avrebbe subito in passato: "Tu non ci scrivi - dice - perché c'hai paura di scrivere, perché le cose che devi scrivere adesso sono talmente profonde che non ti va più di scriverci. Non ci vuoi neanche andare vicino". E dagli atti la conversazione prosegue, sempre urlando: "Anziché dire... io sono così perché mi è successo questo! Piuttosto che dare la colpa a quelli che ti hanno fatto male dai la colpa a quelli che ti vogliono bene!". "Anziché dire sono stati loro (i genitori naturali, ndr) a farmi male no... sono Michela e Andrea (nomi di fantasia della coppia affidataria, ndr) che mi sgridano... troppo comodo". Abusi che però, stando all'inchiesta, la piccola non avrebbe in realtà mai subito. La bambina è infatti protagonista di un altro dialogo intercettato e citato nell'ordinanza per spiegare come i bambini venissero di fatto plagiati, in modo da formare false relazioni. "Ma io non mi ricordo perché non li posso più vedere", diceva la bambina nell'ottobre 2018. "Ma non ti ricordi che hai detto che (tuo padre, ndr) non lo volevi più rivedere? Io ricordo questo", risponde una psicologa, indagata. Ma la bambina: "Non ho detto questo". "Sì, hai detto che non volevi vederlo perché avevi paura che ti facesse del male", le rispondeva l'affidataria. L'inchiesta ha portato a fine giugno a 18 misure cautelari e si è concentrata su 6-7 casi e alcune figure chiave. Uno scandalo diventato terreno di scontro politico perché tra gli indagati, ora ai domiciliari, c'è anche il sindaco Pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di abuso d'ufficio e falso ideologico. Il leader della Lega Matteo Salvini oggi torna a gridare "vergogna", "sono dei mostri, non esseri umani. Per loro tanta galera e nessuna pietà". Il Movimento 5 Stelle, in una fase politica di equilibri sul filo del rasoio, però lo incalza e gli chiede con quale "coraggio" parli, sostenendo che con la scelta di provocare la crisi ha "mandato in fumo le speranze delle vittime di questo sistema illecito". Il riferimento è alla task force per il monitoraggio nazionale sugli affidi avviata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e ora "bloccata perché Salvini desidera più poltrone in Parlamento".
Bibbiano, intercettate due psichiatre: "Anche il maresciallo ha figli, non si sa mai..." Nella conversazione la minaccia al carabiniere che aveva chiesto i documenti sugli affidi. Costanza Tosi, Sabato 17/08/2019 su Il Giornale. Non bastavano le minacce ai genitori dei bambini in affido. Gli assistenti sociali della Val d'Enza avrebbero addirittura pensato di intimidire pure i carabinieri. È quanto emerge da alcune intercettazioni - rese note dal Tg3 Emilia-Romagna - che aggiungono dettagli sempre più inquietanti al caso Bibbiano e che fanno pensare che i “demoni” degli affidi illeciti sapessero i rischi che stavano correndo e, pur di scamparla, fossero pronti a tutto. A parlare sono due neuropsichiatre. Durante la conversazione al telefono in cui discutono di un maresciallo dei carabinieri che si era rivolto a loro per richiedere alcuni documenti sugli affidi di Bibbiano, ad un certo punto, una delle due dottoresse esordisce dicendo “…E comunque potevi anche dirgli guardi che lei è sposato, c'ha figli, cioè non si sa mai…”. Poi una risata, probabilmente di risposta, da parte della collega. Un’intimidazione, una minaccia velata, persino nei confronti di un pubblico ufficiale. E perché proprio dopo la richiesta delle prove sugli affidi? Forse tutti sapevano l’illeicità di quello che stavano compiendo e nonostante avessero capito di essere finiti nell’occhio del ciclone perseveravano nell’errore, cercando persino di sviare le indagini. Dopo tutto non stupisce che questo fosse il modus operandi degli indagati. Lo avevano già fatto anche nei confronti di due genitori affidatari. Quando i carabinieri li chiamarono a consegnare le ricevute dei pagamenti inerenti all’affido, i due avvertirono del fatto gli assistenti sociali, che iniziarono a sommergerli di raccomandazioni. “Mi raccomando se fanno domande particolari rispetto a valutazioni…non rispondete - ordinava l’assistente sociale riferendosi al colloquio con gli ufficiali - soprattutto se vi fanno domande non adeguate vi devono spiegare…voi chiedete perchè vi stanno chiamando…qual è l’oggetto”. Ancora una volta, dalle intercettazioni pubblicate nell’ordinanza della Procura, gli psicologi appaiono preoccupati per le indagini e cercano, ad ogni costo, di sviare i controlli. “Menomale che me lo avete detto va… - diceva, sollevato, l’assistente sociale ai genitori - “ma non vi fate intimorire dalla divisa voglio dire…” Al momento per le due neuropsichiatre non è stato contestato il reato di minacce a pubblico ufficiale, sebbene, secondo gli inquirenti, vi fossero i presupposti. Intanto le indagini continuano, e non è escluso che possa aggiungersi alle ipotesi di reato a seguito di ulteriori approfondimenti.
Business o solidarietà? Le anomalie del sistema affidi del Lazio. Letizia Giorgianni 18 Agosto 2019 su lavocedelpatriota.it. La storia che stiamo per raccontarvi non parla solo di una mamma a cui è stata portata via, senza apparente motivo, la sua unica figlia, ma suggerisce anche l’inquietante ipotesi di un conflitto di interessi nella gestione dell’affido. Non siamo a Bibbiano ma nel Lazio. La mamma, antropologo medico, seguita dall’avvocato Fernando Ciurlia, ci racconta che sua figlia da ben sette mesi, vive in casa famiglia senza motivo alcuno, tanto che presenta un esposto contro i servizi sociali, ai loro ordini regionali e nazionali che infatti aprono un’indagine di controllo. Ci racconta che, dopo la conclusione del suo matrimonio, i servizi sociali hanno permesso, non opponendosi, che sua figlia vivesse in totale stato di abbandono per oltre un anno presso il domicilio paterno, ignorando tra l’altro il decreto di un tribunale che riteneva il padre non “all’altezza del compito genitoriale”. In un anno la ragazzina, senza la vigilanza attenta del padre, diventa irriconoscibile: si infligge lesioni per ben tre volte (taglio di un polso e ustioni); il suo stato psicologico è “devastato” come riferisce la terapeuta consultata dalla madre (atteggiamenti autistici, psicosi, alienazione dalla realtà, aggressività incontrollata) arrivando persino a rifiutare ogni contatto con la mamma, che pur ha sempre provveduto attentamente a lei, come possiamo anche dedurre dal fascicolo dell’intera vicenda. “Mia figlia era una ragazzina sana e felice prima che il padre me la portasse via. Del resto lui l’aveva già abbandonata per 4 anni per il suo rancore nei miei confronti poiché scelsi di chiudere la mia relazione con lui. Di questo rancore e delle sue intenzioni, che ha persino ammesso dinanzi ai servizi sociali e agli psicologi, ne sono informati tutti, eppure gli assistenti sociali hanno permesso che mia figlia si trasferisse da lui. I tribunali sono lentissimi quando non assenti: emettono decreti che poi mancano di far rispettare o emessi in totale assenza di informazioni poiché mai relazionate, senza leggere le relazioni esistenti, senza mai ascoltare la minore o i genitori; senza vagliare le prove, o basandosi su relazioni assolutamente false.” La ragazzina adesso vive nella casa Famiglia Borgo Don Bosco, a Roma, dove lei stessa avrebbe deciso di rimanere. Stiamo parlando di una bambina che ha subito il trauma della separazione dei genitori, e che, come capita a molti minori in frangenti del genere, si è chiusa in se stessa, probabilmente accusando i propri genitori, in particolar modo la mamma, della conclusione della convivenza. Ma davvero pensiamo che una bambina di appena 14 anni, possa comprendere lucidamente e metabolizzare la fine della relazione dei genitori? e quindi decidere da sola su cosa sia più giusto per lei? Tra l’altro la madre riferisce che nel periodo in cui viene affidata alla tutela del padre, a causa del disinteresse di quest’ultimo, avrebbe goduto di una libertà eccessiva per la sua età, che l’avrebbe portata, tra l’altro, ad episodi e situazioni che non si addicono ad una ragazzina. Ovvio che tornare a vivere con la mamma avrebbe interrotto quella condotta “senza nessuna limitazione”. Ci immagineremo che il ruolo delle istituzioni fosse quello di gestire con tatto e prudenza questa situazioni delicate, sempre tenendo ben chiaro in mente che crescere in famiglia dovrebbe essere il primo diritto inviolabile per ogni bambino; lo dicono le leggi italiane. E lo Stato, le Regioni ed i Comuni dovrebbero prevenire le cause degli allontanamenti, non favorirli, almeno quando almeno un genitore sia nelle condizioni di occuparsi come si deve del proprio figlio. In questo caso invece, dopo la separazione della coppia, si è prima favorito l’affido al padre, (che un decreto del tribunale aveva dichiarato incapace di prendersi cura della figlia), per poi far decidere una bambina traumatizzata dalla separazione dei genitori, dove vivere. Ma chi sono gli attori di questo allontanamento? Il servizio sociale del Municipio di pertinenza ovviamente: il Municipio V di Roma. Abbiamo quindi raccolto informazioni su questo Municipio. L’assistente sociale che si è occupata della ragazzina, nonchè referente tecnico-amministrativo del Municipio V, partecipa spesso a convegni sull’affidamento organizzati o dove comunque partecipa” Movimento della famiglie affidatarie” una costola dalla quale nasce il Borgo Don Bosco, dove si trova la ragazzina (notizia facilmente riscontrabile anche nel sito internet della casa Famiglia. Di questi intrecci tra servizi sociali e associazioni che si occupano di affidi troviamo tracce anche nel web, dove scopriamo che il Municipio V, anni fa era coinvolto anche nella campagna ” Donare Futuro“, promossa per tutelare il diritto di bambini e ragazzi ad avere una famiglia, il V Municipio per Roma si fa proprio portavoce. Non solo: i servizi sociali del V Municipio, insieme alla casa famiglia Don Bosco e CISMAI hanno realizzato, nel marzo 2019, un nuovo piano per la regolamentazione degli affidi nel Lazio, approvato dalla Regione Lazio. Tra i firmatari come possiamo vedere la costellazione completa di tutte queste associazioni che spesso hanno collegamenti diretti con il Municipio. Sempre in rete possiamo anche scoprire l’entità dei contributi che arrivano dalla Regione: la Regione Lazio (giunta Zingaretti) ha stanziato 9 milioni di euro per la tutela dei minori. In questo modo l’ente disciplina le regole in materia di affidi, conferendo un ruolo primario ai distretti socio-sanitari che abbiamo prima elencato. A noi sembra che ci siano tutte le premesse affinché qualche magistrato decida di approfondire. Anche perchè non sembra essere l’unico caso di affido “sospetto”. Scopriamo di un altro caso simile, di cui si sta occupando l’avvocato Miraglia, in cui il giorno dopo l’emissione del decreto, i servizi sociali del Municipio V di Roma avevano già trovato una casa famiglia in cui alloggiare il ragazzino. Anche qui si tratta di un ragazzino che aveva vissuto la separazione, in questo caso abbastanza conflittuale, dei propri genitori. Ma perché tanta fretta? se lo chiede anche l’avvocato Francesco Miraglia. Che pressioni hanno avuto? “Mi meraviglio di tanta celerità – si legge in una sua dichiarazione – dimostrata in questo caso dal Tribunale dio Roma, dove io stesso ho cause pendenti da tempo per le quali non è stata ancora emessa sentenza”. Non ci meravigliamo quindi se, sempre in rete, troviamo traccia di una protesta promossa proprio dagli assistenti sociali del V Municipio contro una norma che impone agli assistenti sociali di cambiare settore ogni 5 anni, eccolo qua su Redattoresociale.it. Ed ecco subito che loro insorgono: “così si distrugge la relazione, strumento principale della professione!”. Maliziosamente ci domandiamo quali siano veramente le relazioni che rischiano, con questa norma (peraltro giustissima a nostro avviso) di sgretolarsi. Certo che questo V Municipio non è certo un esempio virtuoso, perché già che ci siamo in rete troviamo un altro episodio a dir poco indicativo dell’operato interno: permessi di soggiorno falsi e finti contratti d’affitto, nel V municipio si favoriva persino l’immigrazione clandestina, tanto che a finire nei guai sono state 13 persone. Coinvolti anche impiegati comunali. La notizia risale al 31 luglio scorso. A questo punto.. non sarà il caso di far chiarezza anche sul sistema affidi Lazio? ho come l’impressione che avremo diverse sorprese!
Bibbiano, Colosimo: «S’indaghi anche nel Lazio: serve una commissione d’inchiesta». Il Secolo d'Italia martedì 30 luglio 2019. Una commissione d’inchiesta sugli affidi. Anche nel Lazio. La chiede FdI, «alla luce di quanto emerge dall’inchiesta su Bibbiano». A farsi promotrice dell’iniziativa è la consigliera regionale, Chiara Colosimo, che rilancia anche a livello regionale quando già chiesto da Giorgia Melonia livello nazionale, con la richiesta dell’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare.
La politica chiamata a fare la sua parte. «Alla luce di quanto emerge dall’inchiesta Bibbiano sugli arbitri compiuti nelle procedure di affidamento di bambini, come già proposto da Giorgia Meloni a livello parlamentare, ritengo sia indispensabile abbinare al buon lavoro del garante Jacopo Marzetti (Garante per l’Infanzia del Lazio, ndr), un serio intervento dei consiglieri regionali che, nel pieno esercizio delle loro funzioni ispettive, conducano approfondite indagini sull’operato di assistenti sociali, associazioni, operatori e comunità attive nel Lazio», ha spiegato Colosimo, nel giorno in cui le rivelazioni di una assistente sociale “pentita” hanno svelato ulteriori dettagli sul “metodo Bibbiano”.
A tutela dei bambini. «Nelle prossime ore presenterò la mia proposta di legge per chiedere l’istituzione della commissione d’inchiesta, come prevede l’articolo 35 dello statuto della nostra Regione», ha quindi annunciato Colosimo.
Bibbiano, Pd Lazio querela autori blitz circolo dem Ciampino. "Organizzato da Gioventù Nazionale con alcuni esponenti di FdI". Askanews.it Giovedì 8 agosto 2019. “Il Partito democratico del Lazio, come annunciato poche ore l’aggressione, ha depositato presso il comando dei carabinieri di Frascati la denuncia-querela contro gli autori del blitz, organizzato da Gioventù Nazionale col sostegno di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, ai danni del circolo dem di Ciampino”. Lo comunica in una nota l’ufficio stampa del segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre. I fatti risalgono alla notte del 24 luglio scorso quando alcuni esponenti di Gioventù Nazionale attaccarono di notte manifesti sulla sede del Pd di Ciampino con accuse per i fatti di Bibbiano.
Lazio, striscione "Parlateci di Bibbiano" in consiglio regionale: il Pd abbandona l’aula. Alessandro Della Guglia su Ilprimatonazionale.it il 31 Luglio 2019. Durante il consiglio regionale straordinario sulla sanità, subito dopo l’intervento del governatore Nicola Zingaretti, i consiglieri leghisti Laura Corrotti, Daniele Giannini e Orlando Tripodi, hanno esposto uno striscione con scritto “Parlateci di Bibbiano”. Uno striscione identico a quelli comparsi in tutta Italia due settimane fa, ovvero con la P rossa e la D verde. Inequivocabile dunque il riferimento alle iniziali del Partito Democratico. Rimosso quasi subito dai commessi, lo striscione (quando è stato esposto il segretario del Pd non era presente in aula) ha però scatenato una bagarre in consiglio. Il centrosinistra si è infuriato e quando hanno preso la parola i consiglieri della Lega, invece di replicare in qualche modo hanno abbandonato l’aula.
Zingaretti: “Hanno fatto bene ad abbandonare l’aula”. Zingaretti, rientrato pochi minuti dopo, ha difeso con veemenza il gesto dei suoi: “Vorrei mettere agli atti che bene hanno fatto consiglieri a uscire dall’aula, perché hanno denunciato l’impossibilità ad avere confronto quando ci sono pratiche di battaglia politica che ritengo inaccettabili. Io sono il presidente e non mi lascio scalfire da atteggiamenti di questo tipo e rimango – ha detto Zingaretti – ma reputo quanto accaduto gravissimo. Mi vengono in mente delle parole di Hannah Arendt quando denunciava in periodi difficili per le democrazie che non ci si confronta più tra idee diverse, ma si punta a demonizzare chi le idee le esprime. Io sono qui e se avete un canale diretto chiamate il vostro leader Salvini, che è atteso da circa un mese in Parlamento per parlare dei fondi russi: io non ho paura di riferire in Consiglio in quanto presidente di questa istituzione”. Eppure il confronto sul tema in questione a rifiutarlo sembrano essere proprio gli esponenti del Partito Democratico. Alessandro Della Guglia
Bibbiano, domanda di una giornalista a Zingaretti: lui ride e dà la colpa al M5S. Nicola Zingaretti ride del caso Bibbiano. Il M5S pubblica un video in cui il segretario del Pd Nicola Zingaretti scoppia a ridere quando una giornalista gli domanda del caso Bibbiano. Domenico Camodeca (articolo) e Pierluigi C. (video) su Blastingnews il 21 luglio 2019. Il caso Bibbiano - paese della provincia di Reggio Emilia dove alcuni assistenti sociali e politici del Pd sono accusati di aver strappato illegalmente diversi bambini alle loro famiglie per affidarli a coppie di amici - comincia a montare sui mass media. Dopo giorni, settimane forse, in cui i fari mediatici si erano sì accesi sul presunto scandalo dei bambini ‘rubati’, ma senza attirare l’attenzione che sarebbe dovuta, vista la gravità dei fatti, ora le continue denunce, provenienti soprattutto da M5S e Lega, stanno fungendo da detonatore per l’opinione pubblica. Prima è toccato al leader pentastellato, Luigi Di Maio, beccarsi una querela dal Nazareno per aver definito il Pd come il “partito di Bibbiano”. Poi è stata la volta di Matteo Salvini annunciare una sua imminente visita nella cittadina reggiana allo scopo di non lasciare impuniti quelli che considera senza dubbio dei “crimini”. Ora la palla ripassa nel campo del M5S che pubblica un video (guarda qui sotto) sul suo profilo Facebook ufficiale per mostrare la reazione del segretario Dem a una domanda sulla vicenda: lui ride e punta il dito contro i grillini.
Il video del M5S che mostra le risate di Zingaretti su Bibbiano. “Attenzione, ascoltate attentamente come risponde zingaretti alla giornalista sui fatti di Bibbiano. Guardate questo video e fate vedere a tutti la sua reazione vergognosa”. Sono queste le parole mostrate in sovrimpressione dal M5S per presentare il breve video, della durata di soli pochi secondi, che immortala Nicola Zingaretti mentre si abbandona a una reazione scomposta alla richiesta di una giornalista di illustrare la sua posizione sul caso Bibbiano.
M5S PD. “Mi scusi posso farle una domanda?”, chiede l’inviata della testata Prima Pagina a Zingaretti. “Su cosa?”, risponde inizialmente con aria distratta il segretario del Pd. “Bibbiano”, specifica secca la cronista. “Ahahahahah”, il governatore del Lazio esplode in una risata e cerca di divincolarsi per andarsene. Ma la donna insiste. “Segretario, una domanda su Bibbiano. Perché se ne parla così poco?”, lo incalza. “Ne parla in maniera vergognosa il M5S”, si decide allora a rispondere, sempre con un sorriso stampato in faccia, ma puntando il dito contro i rivali politici pentastellati.
Le reazioni social contro il segretario del Pd: Buffone. Una reazione talmente inaspettata e spiazzante, quella messa in scena da Zingaretti sul caso Bibbiano, da indurre il M5S a commentare così quanto appena mostrato sul web: “La sua risatina nervosa e le sue accuse al M5S dicono tutto dell’imbarazzo Pd rispetto alle drammatiche vicende in cui è coinvolto un loro Sindaco”. Insomma, l’inchiesta di Bibbiano starebbe mettendo in forte difficoltà i vertici del Nazareno che cercano quindi di scaricare la responsabilità su chiunque osi accusarli. “Voteranno no alla nostra proposta di Commissione di inchiesta sugli affidi dei minori?”, si chiedono infatti ironicamente i pentastellati. Intanto, però, il web, almeno quello colorato di gialloverde, ha già emesso la sua sentenza. “Buffone - si legge in uno delle migliaia di commenti indignati apparsi a corollario del video - hanno attaccato per mesi il papà di Di Maio per materiali nella sua proprietà. Era l’argomento di tutti i tg. E su questo fatto Zingaretti ride. Vergogna”.
Il delirio dei 5S: anche su Bibbiano accusano Salvini. L’ira della base: «Siete ridicoli». Giovanna Taormina domenica 18 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Adesso accusano Salvini anche dell’orrore di Bibbiano. «Che coraggio, Salvini. E per giunta su un tema delicato e tragico come i presunti affidi illeciti di Bibbiano». L’ultimo delirio dei 5S è comparso sul Blog delle Stelle. Sono così disperati da diventare ridicoli e confondono la politica con le indagini. E vogliono avere anche ragione. In apertura del blog c’è l’articolo dal titolo: “Bibbiano, ora Salvini ha pure il coraggio di parlare». «Peccato però – si legge – che Salvini abbia fatto cadere il governo. Lo stesso leader della Lega che, oggi, si sveglia e twitta parole di denuncia e condanna a carico delle “due dottoresse” che “ridacchiano tra loro minacciando i Carabinieri” e aggiungendo poi “che vergogna, che schifo”».
L’ultima follia dei 5S. Quello che si legge è a dir poco allucinante. «Ma Salvini, che ha fatto cadere il governo in pieno agosto esponendo tutti gli italiani a rischi gravissimi, dove trova la faccia per fare queste uscite? Ormai lo sanno tutti che con il suo gesto irresponsabile ha mandato in fumo anche la speranza delle vittime di questo sistema illecito. Non solo, Salvini ha soprattutto bruciato il prezioso lavoro che la Squadra speciale per la protezione dei minori, istituita dal ministro Bonafede e pienamente operativa, stava già facendo a ritmo serrato». E poi ancora rincarano la dose: «Un’attività di monitoraggio che, sulla base del campanello d’allarme di Bibbiano, avrebbe dovuto fare piena luce su questi sistemi, per evitare il ripetersi – in tutta Italia – di fatti di una gravità inaudita. Un’attività che adesso si è bloccata perché Salvini desidera più poltrone in Parlamento». «Una cosa è certa: il MoVimento 5 Stelle continuerà a battersi in ogni sede per fare giustizia. Per noi la parola data ai cittadini ha un valore sacro. La Lega invece si porterà sulla coscienza l’aver negato una possibilità fondamentale a tutte le famiglie che chiedono giustizia! A Salvini lasciamo i suoi tweet inutili, che servono solo a una dannosa propaganda che gli italiani hanno smascherato e che non ha più senso. Noi invece facciamo i fatti», assicurano i cinquestelle.
I grillini insorgono sul web. I commenti dei grillini in risposta all’articolo sono tutt’altro che lusinghieri. Scrive un utente: «Continuare a insistere e insistere sta diventando patetico e stucchevole. Io, convinto elettore del M5S, mi sto stancando e indispettendo. Ma lo vogliamo proprio battere nel ridicolo? E poi molti articoli ripetono spesso le stesse cose. Ci avete forse presi per “dementi”? Un po’ di pacatezza e silenzio, per favore». E un altro aggiunge: «Demonizzate Salvini e coi demoni di Bibbiano vi preparate a governare, traditori». Profetico un altro grillino: «Se si votasse a ottobre Salvini avrebbe il 40% Voi invece preferite l’inciucio con il Pd. Così facendo si voterà probabilmente l’anno prossimo e Salvini sarà salito nei consensi. Chissà, forse avrebbe anche il 50%. Brutto modo di sparire. Il Pd non è e mai sarà credibile».
Bibbiano, Prodi attacca i media: "Demonizzazione folle di un paese". "Questi media, debbono trovare un demonio, questo è uno dei problemi della nostra società moderna". Costanza Tosi, Venerdì 09/08/2019, su Il Giornale. Del caso Bibbiano sembra che non se ne parli mai abbastanza. Lo scandalo degli affidi illeciti, denunciato dalla Procura di Reggio Emilia, ha scoperchiato un giro di affari che ha distrutto, senza ritegno alcuno, intere famiglie e cambiato la vita a migliaia di bambini. Famiglie, che oggi chiedono giustizia e che sperano che nessuno lasci più cadere il silenzio sul loro dramma. Eppure, per qualcuno, il problema stà altrove. A intervenire su “Angeli e Demoni” ci ha pensato anche Romano Prodi. Il Professore ha rilasciato un intervista all’emittente locale Telereggio, accettando di parlare del caso scoppiato nel reggiano. Per Prodi , il vero problema di tutta questa storia sono i media e il loro atteggiamento. "La demonizzazione che viene fatta di un intero paese appartiene proprio alla follia, soprattutto per un problema come questo che andava ben oltre i confini", ha detto Prodi. "Questi media, debbono trovare un demonio, questo è uno dei problemi della nostra società moderna. (…) I media che schiacciano con uno slogan, tolgono ogni approfondimento di un problema, al di là di quello che possa decidere un giudice". Eppure, leggendo le carte della Procura di Reggio Emilia, non sembrerebbe che ci sia bisogno dei media per individuare i "demoni" di questa atroce storia. "Il sistema di demonizzare un' intera collettività - continua il Professore - legandola alle radici politiche è un sistema che dovrebbe essere ripudiato in ogni società con senso comune". Insomma, che chi ne parla stia "demonizzando Bibbiano" sembra essere la nuova trovata della sinistra progressista per giustificare il proprio silenzio su Bibbiano. Ci aveva già provato Nicola Zingaretti a travisare la questione attaccando la narrazione sui fatti di Bibbiano. Il leader del Pd aveva puntato il dito contro il governo, che dichiarando di voler tenere accesi i riflettori sul caso del reggiano, secondo lui, "strumentalizza e utilizza" la vicenda. Adesso si cambia musica, e anche il sindaco pd di Reggio Emilia, Luca Vecchi, aderisce al nuovo "slogan": "La demonizzazione di Bibbiano che scaturisce nella narrazione nazionale è barbara e inaccettabile", ha dichiarato alla Gazzetta di Reggio. "Una cosa è accertare responsabilità, violazioni, illeciti o addirittura abusi che se saranno accertati vanno severamente condannati. Altro è demonizzare un' intera comunità". Insomma, se si parla di Bibbiano accennando alla parola Pd è "demonizzazione". Ma trovare un altro modo per raccontare la questione non è cosa facile, dal momento che, non solo il sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, Andrea Carletti è agli arresti domiciliari e altri due sindaci dem, a capo di paesini del reggiano, sono finiti nel registro degli indagati, ma il sistema della Val D’enza, ora finito sotto accusa, è da sempre stato sostenuto dal Partito democratico, in Emilia e non solo. La sinistra portava il modello come esempio da seguire e sponsorizzava il modus operandi del gruppo degli indagati. Intanto a Bibbiano ieri è arrivato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. "Sono avvenuti fatti, che se confermati, sono molto gravi e dobbiamo avere fiducia nella magistratura», ha affermato il ministro. "Ma gli operatori devono poter lavorare serenamente e ai bibbianesi dico che si può ripartire. Si deve ripartire individuando le responsabilità. Non si riparte chiudendo gli occhi", continua Bonafede. Che promette di tenere alta l’attenzione: "Non si metterà una pietra sopra a nulla di quello che è successo perché sarebbe un grave torto ai bambini e alle famiglie che hanno subito quello che hanno subito. Quindi si riparte con gli occhi bene aperti su quello che è successo in passato e su quello che non dovrà più accadere in futuro". Per il Pd invece, parlare ancora delle famiglie vittime del sistema perverso, pare non essere la cosa più importante. A Cavriago con Bonafede era presente anche Graziano Delrio, che ha ben pensato di sfruttare l’occasione per difendendere ancora il sindaco Carletti: "Non è implicato in nessun modo nella violenza sui minori ma è indagato per un abuso d' ufficio. Non vogliamo che sia messo sotto processo un sistema che tende a proteggere i più fragili". In realtà, se i fatti fossero confermati in aula di tribunale, il sistema di Bibbiano i più fragili non li ha mai protetti.
Affidi, la Ferilli dice la sua: "Non esiste un caso Bibbiano". L'attrice "salva" il Partito Democratico e sostiene che non esiterebbe un caso Bibbiano, bensì un caso Foti, in riferimento allo psicologo. Pina Francone, Martedì 06/08/2019 su Il Giornale. "Io non credo che esista un caso Bibbiano", parola di Sabrina Ferilli. L'attrice romana ha commentato l'inchiesta Angeli e Demoni e lo fa con cognizione di causa, avendo da poco trattato la delicata e controversa tematica degli affidi dei minori nella fiction L'amore strappato, una serie che ha raccontato la storia di una bambina allontanata dalla sua famiglia per le false accuse di abusi sessuali della cugina nei confronti del padre. La 55enne, intervistata da Il Fatto Quotidiano, dice: "A Bibbiano bisogna capire chi ha sbagliato e in che termini, ma quello che è accaduto lì è quello che probabilmente è accaduto nella Bassa modenese e in tanti altri centri e tribunali d'Italia. Il problema non è il luogo, ma la metodologia utilizzata da questi psicologi per interrogare i bambini sui presunti abusi". Insomma, l'attrice, semmai, punta il dito contro gli psicologi, come Claudio Foti, psicoterapeuta della onlus torinese Hansel e Gretel coinvolto nell'inchiesta Angeli e Demoni della procura di Reggio Emilia sugli affidi illeciti. Per cui, per la Ferilli, sarebbe più opportuno parlare di "caso Foti". Infine, "salva" il Partito Democratico locale, non riconoscendolo colpevole: "Certo, quella è terra di sinistra, ma quando si parla di Emilia Romagna si parla pure di un territorio dove ci sono asili che funzionano, di metodi educativi che sono d’esempio per il resto del Paese, messi in piedi anche dalla sinistra. Come al solito la sinistra è incapace di prendersi i meriti e capace solo di prendersi gli schizzi di fango [....] Il Pd dovrebbe ricordare tutto quello che la sinistra ha fatto in tema di affidi, reinserimento, istruzione per i bambini e poi dire 'A Bibbiano siamo i primi che vogliono vedere puniti i colpevoli'. Ecco, serviva questo. L’Emilia è all’avanguardia su tante cose, la sinistra è ed è stata al centro di battaglie fondamentali per i diritti dell’infanzia, se ci dimentichiamo pure questo, ci resta solo il Papeete".
Il sindaco di Mantova chiama la polizia contro gli adesivi "Parlateci di Bibbiano". Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha dichiarato guerra agli adesivi “Parlateci di Bibbiano”, comparsi sui bidoni della città, tanto da esser pronto a chiamare la polizia. Francesco Curridori, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Il sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, ha dichiarato guerra agli adesivi “Parlateci di Bibbiano”, comparsi sui bidoni della città, tanto da esser pronto a chiamare la polizia. “Qualche cretino ha pensato bene di imbrattare diverse parti di piazza Virgiliana e del centro con questi adesivi. Di Bibbiano parleranno le indagini che sono in corso. Intanto qui, che siamo a Mantova, ho chiesto alla Polizia Locale di verificare le telecamere per beccarli e sanzionarli per bene", ha scritto Palazzi sottolineando che il Comune sta "spendendo milioni per rendere più bella e pulita la città" e, pertanto, "i responsabili pagheranno tutti i costi per ripulire”. Letizia Giorgianni su 'La Voce del Patriota' fa, però, notare le reazioni polemiche dei concittadini che postano foto di striscioni abusivi esistenti da mesi e mai rimossi. “Mantova è piena di adesivi “imbrattanti”, - scrive un utente – come ad esempio quello di eQual, associazione che fa iniziative di interesse sociale. A me non danno fastidio e non credo che tu abbia elevato sanzioni al loro indirizzo. Quindi un po’ di coerenza”. Il sindaco Palazzi, oggi, si è difeso dagli insulti ricevuti dai social "da diversi attivisti di Casa Pound" e ha respinto le accuse di "doppiopesismo". "Oggi lo Spazio sociale La Boje ha definito la nostra politica fascistizzazione del centro storico, perché abbiamo messo telecamere, più luci, operatori nei parchi e perché sanzioniamo chi imbratta. In sostanza sarei comunista e fascista insieme", ha scritto in un nuovo post su Facebook dove ha rivendicato l'uso delle telecamere per dare sicurezza ai cittadini nei quartieri più degradati. "Vengano nel mio quartiere e parlino con le nonne che da quando ci sono le telecamere e le luci nuove escono più sicure la sera, per andare alla tombola sociale", ha scritto con vena polemica. "Ciò detto ciascuno ha il diritto di manifestare il proprio pensiero, dissenso e anche disobbedienza civile, che in democrazia è assolutamente preziosa, se rispettosa del prossimo e dei valori costituzionali", ha chiosato dichiarando nuovamente guerra agli imbrattatori di destra e di sinistra.
“Parlateci di Bibbiano” e il Sindaco PD chiama la Polizia per qualche adesivo. Letizia Giorgianni su lavocedelpatriota.it il 24 Agosto 2019. La questione affidi illeciti provoca sempre dei gran travasi di bile tra gli esponenti Pd. Appena sentono parlare di Bibbiano partono con le minacce e le querele. L’ultimo a cui è saltata la mosca al naso è il sindaco Pd di Mantova, Mattia Palazzi che ieri, dalla sua pagina Facebook, ha promesso ferro e fuoco a chi ha imbrattato con degli adesivi i cassonetti di Piazza Virgiliana. “Parlateci di Bibbiano” c’è scritto nelle etichette incriminate, e lui tuona nevrastenico, dal suo profilo social: “Qualche cretino ha pensato bene di imbrattare diverse parti di piazza Virgiliana e del centro con questi adesivi – ha scritto nel post. Di Bibbiano parleranno le indagini che sono in corso. Intanto qui, che siamo a Mantova, ho chiesto alla Polizia Locale di verificare le telecamere per beccarli e sanzionarli per bene. Stiamo spendendo milioni per rendere più bella e pulita la città. I responsabili pagheranno tutti i costi per ripulire”. Solo che nella foto, oltre agli adesivi, compare in primo piano lo scarabocchio di un writer. E allora immaginiamo che, se per l’imbrattamento degli adesivi è stata allertata persino la Digos, probabilmente per il writer armato di bomboletta saranno stati chiamati di sicuro i Ros!! E non siamo gli unici a pensare che quello del “decoro” sia solo un pretesto, dal momento che non tardano ad arrivare alcuni commenti ironici, come quello di chi gli fa notare, postandone la foto, uno striscione affisso abusivamente da mesi su un vecchio edificio, senza che destasse la stessa solerzia nella rimozione. Nel caso specifico lo striscione era anche firmato, quindi, se avesse voluto, il sindaco paladino del decoro urbano, avrebbe saputo anche a chi telefonare! “Mantova è piena di adesivi “imbrattanti”, -prosegue il commentatore – come ad esempio quello di eQual, associazione che fa iniziative di interesse sociale. A me non danno fastidio e non credo che tu abbia elevato sanzioni al loro indirizzo. Quindi un po’ di coerenza”. Il sindaco a quel punto, stizzito, si lancia in spiegazioni sulla differenza tra pubblico e privato, cantilenando che sugli edifici privati nulla puó fare il Comune, ma ormai non convince più nessuno: “Cerchi con le telecamere chi mette gli adesivi perchè sono contro il PD (io personalmente impiegherei gli agenti per cercare altro) e quelli che invece imbrattano firmandosi la passano liscia? boh..” chiosa il commentatore. “Il vero motivo per la sparata e l’indignazione è che gli adesivi sono contro il PD. Capisco che tu essendo di quell’area politica ne prendi le difese. Però se la legge è uguale per tutti vorrei vedere la stessa indignazione per adesivi e striscioni di qualsiasi orientamento politico. Perchè a prescindere dal contenuto, o dalla proprietà pubblica o privata, tutti imbrattano la città. Invece il messaggio che passa è che ci sono adesivi da rimuovere subito e altri che va bene rimangano. E non è un bel messaggio”. Un altro posta la foto di adesivi di “azione antifascista” chiedendo: “Se non è ipocrita, Signor Sindaco, avrà fatto la stessa cosa con queste brutture”. Il sindaco tace.
Servizio Tg1 Rai dell'11 settembre 2019, ore 13,30 di Pasquale Notargiacomo. "Le cose che mi possono dire a me è che ho fatto troppe segnalazioni, hanno ragione. Alcune le ho fatte obbligata…mi sono sentita obbligata nel senso che se non le facevo questa qua mi minacciava di denunce". C’erano le pressioni dei servizi sociali della Val D’enza dietro le segnalazioni fatte dalla ASL di Montecchio sui casi di minori presunti vittime di abusi. Relazioni forzate su violenze che poi si sarebbero rivelate false davanti ai giudici. Lo ammette la psicologa Emelda Bonaretti in una conversazione con una collega: la neuropsichiatra Flaviana Murru finita agli atti del’inchiesta “Angeli e Demoni”. Entrambe sono indagate. Quando i carabinieri la intercettano sanno delle indagini in corso e stanno parlando delle minacce ricevute da Federica Anghinolfi, la potente dirigente dei servizi sociali e dal suo braccio destro Francesco Monopoli. "Io c’ho ancora talmente tanta sofferenza su quella roba lì che io, secondo me, smonto tutta laVal D’Enza, cioè se mi metto a dire quello che penso…se mi chiedono ha subito pressioni? …cazzo se ho subito". Pressioni che riguardavano anche il percorso dei bimbi in affido che dovevano essere seguiti rigorosamente a Bibbiano, dove lavorava il centro “Ansel e Gretel” di Claudio Foti. "Per mandarla a “La Cura”, per mandarla da Foti, lei non ci voleva andare. Io non posso obligarla se lei non ci vuole andare, cosa devoao fare…Obbligala te".
Fuori dal coro, diretta prima puntata con Mario Giordano. Inizia una nuova stagione dell'acceso talk di Rete4 sull'attualità politica. Si parlerà di immigrazione, pensioni, politiche economiche e dell'inchiesta sugli affidi dei minori a Bibbiano. Ospite l'ex Sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Alessandro De Benedictis su maridacaterini.it, Mercoledì, 11 Settembre 2019. Questa sera, alle 21:30 su Rete4, torna ad animarsi lo studio di Fuori dal coro. Mario Giordano lancia la nuova stagione del talk affidandosi ai temi più caldi dell’attualità politica. Spazio al dibattito sulle politiche migratorie e a quello che è stato annunciato dalla redazione come “uno scoop” sul controverso caso degli affidi dei minori a Bibbiano. Con fare esagitato, in apertura Mario Giordano presenta i temi della serata. Si sofferma molto sul caso di Bibbiano, esprimendo il suo grosso turbamento. Ora inizia quello che è stato annunciato come il momento clou della trasmissione, dedicato al presunto scandalo di Bibbiano. Mario Giordano la introduce con un’espressione afflitta, tormentata dal dolore. “Per tutta quest’estate non ho avuto pace”, si sfoga. Non è possibile, dice, strappare i bambini dalle madre e venderli. Non si può attaccare la famiglia per soldi e ideologie, rincara. In studio ci sono Anna e Franco – i nomi sono fittizi – genitori di Camilla (altro nome fittizio), bambina di due anni. La piccola sarebbe stata sottratta alla custodia dei genitori con violenza, durante una visita di finte Guardie Zoofile dell’Ente Nazionale Protezione Animali. Va in onda un video che fa vedere i momenti in cui le finte guardie letteralmente strappano Camilla di genitori. Un video mandato in onda per la prima volta da Chi l’ha visto?, su Rai3. Ma attenzione: sia l’ENPA, sia la Polizia Locale, sia il Servizio Sociale del Comune di Reggio Emilia hanno proclamato la loro estraneità. Contestualmente hanno denunciato la coppia per diffamazione. Al momento, dunque, il video è da trattare con molta cautela. Tuttavia, sia i genitori in studio, sia il loro avvocato confermano che si trattasse di assistenti sociali. Dal quadro accusatorio relativo al caso di Bibbiano, per ora, emerge un sistema collaudato. Attraverso una serie forzature amministrative e psicologiche, decine di bambini sono stati sottratti alle loro famiglie con accuse false. Il fine era quello di affidarli ad altre persone in cambio di denaro. Il tutto, corroborato da illeciti nell’organizzazione e nella gestione del servizio di assistenza sociale.
Un caso simile a quello di Camilla è quello di Sara (nome fittizio). Mario Giordano racconta di come sia stata portata via dalla famiglia per incuria genitoriale, presunti maltrattamenti e violenza sessuale da parte del padre. Ma, secondo l’inchiesta, le accuse alla famiglia erano state costruite ad arte dagli Assistenti Sociali. Pare che le confessioni della bambina siano state estorte (o addirittura inventate) durante i colloqui con la psicologa, condotti con modalità a dir poco anomale. È uno dei casi più conosciuti dello scandalo di Bibbiano. Se ne è parlato molto perché la famiglia affidataria è composta da due donne omosessuali. Dunque, al già delicatissimo tema del caso, si è aggiunto il dibattito sugli affidamenti alle coppie omosessuali. Con l’aiuto dell’Avvocato Morcavallo, in collegamento video, Mario Giordano sottolinea come tutto ciò sarebbe avvenuto per soldi. Il sistema degli affidi muove un business milionario, tra perizie, consulenze, colloqui, gestione delle case famiglia, affidi veri e propri. Secondo Morcavallo, è questo il motivo per cui i bambini non sono stati ancora riportati alle loro famiglie. Una tesi tutta da verificare.
Una delle figure centrali dell’inchiesta è Claudio Foti. È il Direttore della Onlus piemontese Hansel e Gretel, considerata dall’accusa il fulcro del sistema illecito. Nel suo ambito, Foti è considerato un grande esperto, ma in questo caso avrebbe alterato il sistema degli affidi per soldi. Fondi pubblici, principalmente, oltre al denaro pagato dalle famiglie affidatarie per mettere in atto la sottrazione. Una fonte definita segreta, cioè un ex dipendente della Onlus, conferma procedure alquanto dubbie durante il lavoro.
Nel frattempo, un’altra mamma racconta ai microfoni di Fuori dal coro come le è stata portata via la figlia. Le modalità sono sempre le stesse e prevedono la costruzione di prove fasulle per mettere in cattiva luce i genitori naturali.
Bimba “rapita”: i genitori querelano due assistenti sociali di Reggio. “Documenti finiti nella spazzatura”. Il caso questa sera a “Fuori dal Coro” su Rete4. Affidi illegali e bambini strappati alle famiglie: non è più “il caso Bibbiano”, ma una piovra che estende i suoi tentacoli ben oltre la val d’Enza.. Reggio Report 11/9/2019. Una coppia di genitori di Reggio Emilia, Stefania e Marco, ha denunciato alla Procura della Repubblica due assistenti sociali del Polo Est di Reggio Emilia, quali responsabili del “rapimento” della loro figlioletta, portata via da casa con l’inganno lo scorso mese di aprile. Lo annuncia l’avvocato Francesco Miraglia, che tutela la famiglia: le assistenti sociali sono state querelate per abuso di ufficio, falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, sostituzione di persona, false dichiarazioni all’autorità giudiziaria e violenza privata. Del caso l’avvocato Miraglia parlerà questa sera, mercoledì 11 settembre, nel corso della trasmissione Fuori dal Coro realizzata e condotta da Mario Giordano. Miraglia chiede inoltre che le querelate “vengano estromesse da questo caso C e cessino immediatamente di seguirlo” anche perchè – sostiene l’avvocato – hanno commesso un ennesimo, incredibile e increscioso atto: hanno gettato la documentazione relativa alla bambina dentro un bidone della spazzatura lungo la strada, visibile a tutti, con i dati sensibili bene in evidenza. Li hanno trovati, passando, proprio i due genitori de piccola, che hanno scoperto così, dai documenti gettati per strada, dove fosse alloggiata la loro figlioletta. Un altro episodio di una gravità inaccettabile». La signora Stefania, che in passato aveva fatto uso di droga – aggiunge il legale – al momento di partorire la bambina si è trovata contro i Servizi sociali, che le hanno tolto la figlioletta asserendo di aver trovato tracce di sostanze stupefacenti nel suo organismo e in quello della neonata. “Nulla di più falso, come dimostrano le cartelle cliniche. Ma la bimba, incredibilmente, le è stata portata via ben due anni dopo la sua nascita, e per di più nel corso di un blitz vergognoso e agghiacciante: fingendosi volontari dell’Enpa, l’ente di protezione animali, lo scorso 3 aprile addetti dei Servizi sociali si sono presentati a casa della donna, distraendola mentre qualcun altro saliva a prendere la piccola, l’afferrava dal lettino in cui dormiva, senza vestirla, e fuggiva verso l’auto con lei tenuta a penzoloni e sballottata come un sacco. Tutto ripreso, fortunatamente, dalle telecamere di sorveglianza di cui la casa è dotata”. «Ci aspettavamo che il Comune di Reggio Emilia chiedesse scusa a questa famiglia per come ha pianificato il blitz, che neanche le teste di cuoio organizzano in maniera così abile» prosegue l’avvocato Miraglia. «Oppure che promuovesse all’antiterrorismo le due assistenti sociali che lo hanno organizzato così bene. Invece il Comune ha denunciato la famiglia per diffamazione a mezzo stampa. Se questo è il modo di gestire le vicende dei bambini e il modo di agire dei Servizi sociali, l’unica soluzione è denunciare le assistenti sociali».
Fuori dal Coro, la testimonianza di una madre di Bibbiano: "Hanno staccato la luce, poi il raid in casa". Libero Quotidiano il 12 Settembre 2019. Una testimonianza sconvolgente, piovuta nel corso di Fuori dal Coro, il programma di Mario Giordano in onda su Rete 4 alla sua prima puntata della stagione. Si parla dello scandalo di Bibbiano, a raccontare l'orrore subito sono Anna e Franco, due genitori a cui è stata presa una figlia. Il ricordo del momento in cui è accaduto è terrificante: "Si presentano come Ente protezione animali, tanto che li riprendo anche dalla finestrina: volevano entrare in casa mia, non mi fidavo. Mi dicevano: un cane abbaia, mi apre? Mi apre? Non hanno voluto mostrarmi il tesserino. Poi hanno staccato la luce, dato che ci sono le telecamere di sorveglianza. Sono entrati quando è arrivata mia madre con la spesa", ricorda Anna. E ancora: "Sento gridare mia figlia. Alzo gli occhi, sono corsa, la ho vista in mano a qualcuno che la teneva a testa in giù, come un pacco. La ho inseguita fino a che è stata buttata sulla macchina", ha concluso.
Angeli e Demoni, seconda richiesta d'arresto per il sindaco di Bibbiano. Lunedì 16 settembre si svolgerà l’udienza davanti al Riesame di Bologna. Costanza Tosi, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. La Procura di Reggio Emilia non demorde. Per Andrea Carletti sono necessari gli arresti domiciliari. Il pm Valentina Salvi, a capo dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti della Val d’Enza, ha presentato - come riporta la Gazzetta di Reggio - una nuova richiesta di arresto nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Per il primo cittadino, all’inizio delle indagini, erano già stati predisposti i domiciliari, ma la misura era stata, poi, rivista dal gip Luca Ramponi il 20 giugno scorso in quanto il giudice aveva ritenuto insufficienti le motivazioni della Procura. Le accuse a cui deve rispondere Carletti per il caso riguardante i presunti affidi illeciti nel comune emiliano sono abuso d’ufficio e falso ideologico. Stessi reati per i quali sono accusati anche altri quattro indagati: l’avvocato Marco Scarpati, Federica Anghinolfi (dirigente del Servizio sociale della Val d'Enza), Nadia Campani (responsabile dell' Ufficio di Piano dell' Unione) e Barbara Canei (istruttore direttivo amministrativo del Servizio sociale dell' Unione). Anche per loro, adesso, la Procura chiede che siano disposti nuovamente gli arresti domiciliari. Secondo gli inquirenti, l’avvocato Scarpati avrebbe ottenuto guadagni ingiustificati grazie ad alcuni incarichi a lui affidati dall’Unione dei Servizi Sociali della Val d’Enza. La Salvi sostiene che sia stata “simulata l' effettuazione di una formale procedura a evidenza pubblica per l' affidamento dell' incarico di consulente giuridico a favore del Servizio sociale, procedura, in realtà, intrisa di macroscopiche e gravissime irregolarità volte a favorire Scarpati”. Sotto accusa, per la stessa vicenda, anche Federica Anghinolfi, la capa dei servizi sarebbe responsabile in quanto firmataria delle determine relative alle nomine fiduciarie del legale. Canei invece, avrebbe predisposto le determine di spesa mentre, Carletti e Campani - si legge nel capo d’imputazione riportato da La Stampa - erano “in costante raccordo con Anghinolfi e pienamente consapevoli della totale illiceità del sistema, disponevano la sistematica attribuzione di tutta la materia legale relativa ai minori affidati al Servizio sociale a un singolo soggetto”. Lunedì 16 settembre si svolgerà l’udienza davanti al Riesame di Bologna, cui spetta la decisione finale sulle ultime richieste avanzate dalla Procura. Per la terza volta il sindaco dem di Bibbiano dovrà difendersi per salvaguardare la propria libertà. Il Giudice per le Indagini Preliminari, infatti, ha respinto l' istanza di revoca dei domiciliari presentata da Carletti per ben due volte: i primi del mese di luglio, dopo l’interrogatorio di garanzia, e lo lo scorso 3 agosto.
Cala il sipario su Bibbiano. E gli amici di Foti salgono in cattedra. A soli tre mesi dallo scoppio dell'inchieste Angeli e Demoni si terrà a Firenze un convegno sugli abusi sui minori a cui parteciperà anche il legale di Claudio Foti. Nella scaletta, nessun accenno al "caso Bibbiano". Costanza Tosi, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Un mese, due mesi, adesso quasi tre. Il tempo passa e i media iniziano a deporre le armi. Cala il silenzio e si chiude il sipario. Dietro le quinte, le maschere dei "demoni" riprendono a muoversi. Sembra la storia di una tagedia teatrale e invece è tutto vero.
Il sindaco Pd di Bibbiano ancora nei guai. A pochi mesi dallo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni", lanciata dalla Procura di Reggio Emilia, sui presunti scandali scovati nel sistema di affidi della Val d'Enza, pare che il silenzio costante sulla vicenda, cui il Partito democratico ha tenuto sempre fede, stia adesso contagiando tutti. Con buona pace delle famiglie distrutte che cercano giustizia. Tra l’esultanza di tutti coloro che, a poco a poco, stanno riprendendo a fare esattemente ciò di cui si occupavano prima di finire nel registro degli indagati. Proprio ieri, Claudio Foti, terapeuta della onlus torinese finita nel mirino degli investigatori, è tornato a parlare nel piccolo schermo. Durante la trasmissione “Storie Italiane” di Rai 1, l’indagato è tornato a parlare in pubblico, dicendo di esser stato perseguitato ingiustamente. "A Bibbiano non facevo terapie ai bambini", ha dichiarato Foti. Forse lui no. Ma la sua associazione? Ricordiamo che proprio la Hansel e Gretel, onlus piemontese fondata dallo stesso Foti, era riuscita ad accapparrarsi la gestione esclusiva del centro pubblico "La Cura" di Bibbiano. Il tutto senza una regolare gara pubblica e esenti da ogni tipo di canone d’affitto. I servizi sociali della Val d’Enza infatti avrebbero mandato a “La Cura” la gran parte dei minori che avevano in carico, facendo così incasare alla associaizione di Foti 135 euro a seduta. Ma qualcuno pare esserselo dimenticato. Tanto che, persino il Movimento 5 Stelle, tornato al governo con gli alleati della sinistra, dopo aver promesso alle famiglie emiliane che sarebbero stati presi provvedimenti per fare chiarezza sul tema degli affidamenti in tutta Italia, adesso pare essere stato contagiato dal silenzio dei dem. E così spariscono dai punti del programma del nuovo governo giallorosso le commissioni d'inchiesta parlamentari sugli affidi e di iniziative governative su Bibbiano nessuno ha più fatto sapere niente. Un dietrofront ottimale per tutti coloro che dovevano riprendere a seguire i propri loschi affari e che adesso, a poco a poco, tornano a sponsorizzare i loro metodi non riconosciuti. Come avverrà a breve in Toscana. A Firenze si terrà un convegno intitolato “Proteggere i bambini e le bambine dalla violenza assistita”. Il tema centrale è, evidentemente, quello degli abusi sui minori. Ma, nella scaletta dell’evento - come riportato da La Verità - non vi è traccia di interventi per parlare degli scandali della Val d’Enza. In compenso, a intervenire al convegno sarà Andrea Coffari. Avvocato difensore di Claudio Foti, il legale fa parte anche dei componenti dell'associazione “Rompere il silenzio”, la stessa di cui fanno parte Foti e alcuni tra gli altri indagati di “Angeli e Demoni”.
Il suo intervento s’intitola così: “Violenza su donne e bambini: apologia della pedofilia, negazionismo, cattivi maestri e ddl Pillon-Camerini”. Insomma, qualche parolina per continuare a difendere le teorie di Foti sugli abusi e perseverare con la diffusione delle idee su cui si è costruito il sistema di affari illeciti a Bibbiano. Chi critica il “metodo Hansel e Gretel” e le sue teorie che, tra le altre cose, si scontrano nettamente con i principi della carta di Noto, non è altro che un “difensore dei pedofili”. Chi, invece, sostiene che quando si parla di abusi su minori è meglio andarci con i piedi di piombo, finisce per essere “negazionista”. Ma torniamo all’evento. Il convegno di Firenze è organizzato dal Consiglio regionale e dalla Commissione pari opportunità della Toscana, la stessa Regione che ha richiesto milioni di euro di risarcimento al Forteto, dopo aver silenziato gli orrori che, per anni, si consumavano all’interno della comunità toscana. La parte introduttiva dell’incontro sarà tenuta da due esponenti del Partito democratico: Eugenio Giani e Rosanna Pugnalini. Dunque, non solo nei tre mesi dallo scoppio del caso Bibbiano, il Pd è intervenuto soltanto per sottolineare che i sindaci del proprio partito, indagati nell’inchiesta, non erano ancora stati processati e che quindi non se ne doveva parlare, adesso, come se niente fosse, sponsorizza - attraverso le istituzioni pubbliche - convegni con gli amici di Foti. Ma non basta. Perché tra gli organizzatori della giornata di incontri ecco spuntare un nome conosciuto. Il Cismai. Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento che ricompare in molte storie di falsi abusi e affidi ingiusti. Un organismo che, pur non essendo mai finito sotto indagine, rispunta nelle iniziative di Foti e Co. ormai dai tempi dei “Diavoli della Bassa”. A interventire, a Firenze, sarà Gloria Soavi, presidente del Coordinamento. Anche lei una veterana. Cliccando il suo nome, sul web, compaiono una serie non proprio breve di eventi e iniziative a cui la Soavi ha partecipato al fianco degli operatori della Hansel e Gretel. In più, la presidente, come riportato da La Verità, compare tra i soci l' Unione dei Comuni modenesi area nord, l'ente attualmente coinvolto nella storia della bambina di Mirandola mandata in cura a Bibbiano, per la quale è indagato dalla Procura di Modena. A supportare il Cismai è, tutt’ora, l'autorità Garante per l' infanzia, guidata da Filomena Albano che, recentemente, ha anche versato 40mila euro per supportare una ricerca dell’organizzazione.
Bibbiano, cosa è successo. Nomi e accuse dell'indagine sugli affidi. Sono 29 le persone iscritte nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e Demoni": il punto. Il Resto del Carlino l'11 settembre 2019. Sono finora ventinove gli iscritti nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta 'Angeli e demoni', condotta dai carabinieri di Reggio con il coordinamento del pm Valentina Salvi, i cui accertamenti stanno tuttora proseguendo. Al centro dell'indagine sono finite le complesse vicende relative ai bambini - dieci in tutto quelli confluiti nel fascicolo originario - che sarebbero stati strappati alle loro famiglie naturali ricorrendo a escamotage illeciti messi in atto da operatori dei servizi sociali di Bibbiano. Secondo gli inquirenti, questi ultimi avrebbero steso relazioni in cui erano evidenziati particolari falsi per mettere in cattiva luce i genitori naturali - ad esempio abusi da loro subiti, case in pessimo stato, scarse attenzioni verso i figli - e poter così disporre l'affidamento coatto dei minori ad altre famiglie. Dietro c'era un business: i piccoli venivano sottoposti a sedute di psicoterapia nella sede della 'Cura', struttura pubblica di Bibbiano, praticate da operatori del centro privato torinese 'Hansel e Gretel', che avrebbero percepito un compenso orario doppio rispetto a quello medio di analoghi professionisti. Altri approfondimenti sono in corso sulle vicende di possibili affidi illeciti segnalati da altre famiglie, che si sono rivolte ai legali e alla Procura per denunciare di aver vissuto situazioni simili a quelle oggetto del filone di inchiesta principale. Per alcuni indagati, inoltre, potrebbe profilarsi prossimamente la richiesta di giudizio immediato. Sei le persone che, il 27 giugno, sono finite ai domiciliari. Tra loro c'è il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti (per abuso d'ufficio e falso ideologico, ipotesi di reato legate alle procedure amministrative per l'appalto della psicoterapia): il gip Luca Ramponi ha bocciato per due volte la richiesta da lui avanzata di liberazione, e ora il primo cittadino - sospeso dal suo incarico pubblico dalla Prefettura e autosospeso dal Pd - attende il responso sulla misura cautelare dal Riesame, di fronte al quale ci sarà udienza il 16 settembre. Stessa misura per Federica Anghinolfi, la responsabile dei servizi sociali della Val d'Enza, considerata una figura-chiave nei presunti illeciti, chiamata a rispondere di molteplici accuse (tra cui falsità ideologica, frode processuale, violenza privata, peculato, depistaggio e lesione personale aggravata per i casi di alcuni bambini sottratti). Altrettanto per Nadia Bolognini, psicoterapeuta di Torino e moglie di Claudio Foti - quest'ultimo alla guida di 'Hansel e Gretel' -, per il quale il Riesame ha di recente riformulato la misura in obbligo di dimora a Pinerolo. Ai domiciliari si trova anche l'assistente sociale Francesco Monopoli. Marietta Veltri, coordinatrice dei servizi sociali Val d'Enza, è tornata libera in concomitanza con il pensionamento. La sospensione per sei mesi dall'attività lavorativa riguarda nove indagati (oltre ad Anghinolfi e Monopoli) tra assistenti sociali, educatori e personale amministrativo: tra questi Cinzia Magnarelli è intanto tornata al lavoro (in un altro settore dell'Ausl dove lei aveva chiesto e ottenuto il trasferimento prima dell'inchiesta) dopo aver ammesso di aver falsificato alcuni report su pressione dei superiori. Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni hanno il divieto di avvicinamento alla minore che avevano avuto in affidamento e che avrebbe subito maltrattamenti. Tra gli indagati a piede libero ci sono l'avvocato Marco Scarpati (per l'incarico da 20mila euro per seguire legalmente i casi dei bambini, ipotesi di concorso estraneo in abuso d'ufficio) e il direttore provinciale dell'Ausl, Fausto Nicolini (concorso in abuso d'ufficio). Oltre agli ex sindaci di Cavriago Paolo Burani e di Montecchio Paolo Colli, entrambi ex presidenti dell'Unione Val d'Enza, indagati per falso ideologico.
A Genova il Pd chiede di riaprire il progetto di Foti. La richiesta dei dem è quella di “attivare un tavolo di confronto” per discutere di un progetto, realizzato e sostenuto dalle precedenti amministrazioni in collaborazione con il terapeuta Claudio Foti. Costanza Tosi, Domenica 08/09/2019, su Il Giornale. Il Pd non demorde. E a Genova propone di riaprire il "Progetto Arianna". Iniziativa creata in collaborazione con gli indagati del caso Bibbiano, tra cui Claudio Foti, padre della Hansel e Gretel, finito agli arresti domiciliari per l’inchiesta “Angeli e Demoni” della Procura di Reggio Emilia. A Rilanciare l’idea che, il progetto nato nel 2011 con il fine di “contrastare il maltrattamento e l'abuso di bambini e bambine”, debba essere rilanciato dal Comune, è stata Cristina Lodi, capigruppo dem a Genova. Qualche giorno fa ha presentato un ordine del giorno, firmato da altri cinque consiglieri del Partito democratico: Stefano Bernini, Alessandro Terrile, Mauro Avvenente, Alberto Pandolfo e Claudio Villa. Nel documento - come riporta La Verità - la richiesta è quella di “attivare un tavolo di confronto” per discutere di un progetto, realizzato e sostenuto dalle precedenti amministrazioni in collaborazione con il terapeuta Claudio Foti. Il testo, presentato giovedì, non è stato ancora discusso, ma in pochi giorni già sono state fatte manovre con cui, i dem, sembrano voler schivare le accuse. Dopo che i nomi dei consiglieri hanno iniziato a circolare, è spuntato un altro documento. Formale e senza le firme dei dem. A bloccare, in conferenza capigruppo, l’idea del Pd è stato Mario Mascia, leader dei consiglieri di Forza Italia. Che ha proposto, per contro, di istituire una commissione d’inchiesta che faccia chiarezza sul sitema degli affidi anche nella zona ligure. Nel testo, presentato in conferenza dalla Lodi, viene riconosciuta “l’ importanza del Progetto Arianna” e richiesto al sindaco, Marco Bucci, di coinvolgere “tutti gli organismi deputati che hanno competenza in materia”. La proposta è quella di ricreare una struttura che segua le linee del progetto bloccato dall' assessore alle Politiche sociali Francesca Fassio. Un’inziativa di cui, adesso, sono scomparse le tracce anche sul web. Dal sito del Comune di Genova, solo una mera spiegazione del progetto. Non compaiono nomi e il link alla pagina è stato cancellato. Poca trasparenza, per un progetto che viene considerato importante e da rilanciare. Sempre Mascia, a fine luglio e poco dopo l’uscita dello scandalo sul sitema degli affidi illeciti a Bibbiano, aveva presentato un' interpellanza in Consiglio comunale per sapere se c' erano rapporti o se fossero mai stati stipulati contratti tra l' amministrazione di Genova e gli indagati della Hansel e Gretel, Claudio Foti e Nadia Bolognini. Proprio da luglio, il Progetto Arianna è sparito dal sito del Comune. Diego Pistacchi, del Giornale del Piemonte e della Liguria, che per primo ha reso pubblico il contenuto del documento di cui è venuto a conoscenza, ha scoperto che, Claudio Foti, operava anche nella città ligure. Dal 2016 al 2018, almeno nove minori della zona sono stati affidati alle cure del terapeuta della onlus torinese. Incarichi che hanno consentito all’associazione finita sotto accusa di guadagnare ben 13mila euro. Tra questi, l’ultimo paziente preso in carico da Foti risale al 2 ottobre del 2018. In quel caso furono accordate quattro sedute della durata di tre ore l’una, per un totale di 1.200 euro. Adesso, il Comune ha deciso di fare chiarezza in merito e indagare se, anche a Genova, siano presenti storture per quanto riguarda la gestione degli affidi dei minorenni. I numeri già gettano qualche sospetto. Francesco Lalla, Garante regionale per l'infanzia, ha dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di circa 260 casi. Tanto che, in un comunicato dei giorni scorsi, aveva evidenziato di voler “creare un sistema rinnovato che metta insieme istituzioni e terzo settore, famiglie e loro rappresentanze”. Ora si attendono i dati ufficiali. Intanto, l'assessore Fassio ha fatto “firmare un protocollo per individuare le linee guida per operatori sociali, psicologi, assistenti sociali e tutte le figure professionali che ruotano intorno ai minori e agli affidi”.
Il post dell'onorevole leghista su Pd-Bibbiano scatena la bufera. Nell'accostare il Pd ai fatti di Bibbiano, in un post pubblicato su Facebook, l'onorevole Flavio Di Muro ha scatenato una bufera politica, ma a difenderlo è il commissario provinciale della Lega, Alessandro Piana. Fabrizio Tenerelli, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. "Ministro per la famiglia al Pd, saranno contenti a Bibbiano". È un post che ha scatenato un caso politico, quello pubblicato sulla propria bacheca Facebook dal deputato leghista, Flavio Di Muro, di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Molti gli attacchi allegati come commento allo stesso post, col Pd che naturalmente non ha gradito l'accostamento ai fatti di Bibbiano. "È vergognosa questa vostra strumentalizzazione di gravi fatti di cronaca, che non c'entrano nulla con il Pd - afferma Annalisa - per screditare gli avversari politici. Evidentemente non siete in grado di contestarli nel merito". A bilanciare i commenti contrari, c'è quello di Concetta, che scrive: "Ma scusate, quando Di Maio dice che non vuole fare un partito con quelli di Bibbiano e si sa, che si riferisce ai pidioti nessuno dice niente e solo perché un deputato, per adesso, è diventato di opposizione, bisogna contestarlo e metterlo a palo per una frase? Andate a cagher". A tenere le parti di Di Muro è il commissario provinciale imperiese della Lega (nonché consigliere regionale ligure), Alessandro Piana: "Il post pubblicato dal nostro deputato ligure Flavio Di Muro non è senz'altro lesivo della reputazione del Pd e e quindi non appare diffamatorio - afferma -. Riguardo i gravissimi fatti di Bibbiano e le persone su cui indaga la Procura, invece, aspettiamo l'esito del procedimento giudiziario. In ogni caso, i 'democratici' non possono mettere il bavaglio alle opinioni. La libertà di espressione è un diritto inviolabile ed è sacra". E aggiunge: "A questo punto, ci aspettiamo che i dirigenti del Pd querelino ministri, viceministri e parlamentari del M5s, che in particolare sui fatti di Bibbiano hanno rilasciato dichiarazioni gravi nei confronti dei loro nuovi amici di Governo. Ovviamente, credo che questo non succederà. Perché metterebbe a repentaglio la vita già breve dell'alleanza giallo-rossa e vanificherebbe la vergognosa spartizione delle poltrone, avvenuta senza nessun rispetto della volontà popolare dei liguri e degli italiani".
La retromarcia dei grillini su Bibbiano: "C'è una parte di leggenda". Nel M5s non si parla più dello scandalo degli affidi. E c'è chi come Di Stefano minimizza: "C'è una parte di leggenda". Luca Sablone, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. "Io con il partito di Bibbiano non voglio avere nulla a che fare", dichiarava a gran voce Luigi Di Maio esattamente il 18 luglio. Ma a distanza di poco più di un mese ci si trova a governa insieme. E inevitabilmente la guerra tra le parti che si era innescata fino a pochi giorni fa, per forza di cosa, dovrà allentarsi. Una prova la fornisce Manlio Di Stefano, intervistato da Bianca Berlinguer nel corso della trasmissione Carta Bianca.
La retromarcia. L'ex sottosegretario al Ministero degli Esteri in quota Movimento 5 Stelle ha risposto alla domanda del giornalista Mario Giordano, che chiedeva giustificazioni sull'esecutivo partorito con quello che era considerato il "partito delle banche": "No no. Il racconto che viene fatto su Bibbiano e sulle banche come sempre ha una parte di verità e una parte di leggenda ovviamente". Strano, perché il Partito democratico veniva da loro descritto come quello che "in Emilia-Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l'elettrochoc per venderseli". E il capo politico del M5S, durante l'esperienza con la Lega, si era anche offeso per le accuse di governo al fianco del Pd: "Dire che stiamo governando col partito di Bibbiano è veramente un'accusa ingiusta e falsa".
Morelli mostra a Conte la t-shirt "Parlateci di Bibbiano" alla chiama alla Camera. Giovanni Neve, lunedì 09/09/2019, su Il Giornale. Protesta inaspettata durante la chiama alla Camera per il voto di fiducia alla nuova maggioranza. Alessandro Morelli, deputato della Lega e presidente della Commissione Trasporti alla Camera, ha mostrato al premier Giuseppe Conte la maglietta con la scritta "Parlateci di Bibbiano". E citando Luigi di Maio, che aveva detto che non si sarebbe mai alleato con il "partito di Bibbiano", ovvero il Partito democratico, ha detto: "Ho segnalato al premier Conte che allearsi col partito di Bibbiano non significa dimenticarsi dei bimbi e delle famiglie vittime di questa tragedia.
Bibbiano, Lucia Borgonzoni e lo show in Senato. La Lega interrompe la seduta più volte, fischi e applausi. Il Resto del Carlino l'11 settembre 2019. Video Senato, Bergonzoni cita Bibbiano e scatena il coro dei leghistiArticolo Bibbiano, cosa è successo. Bibbiano di nuovo usata come arma politica. Questa volta a sfoderare il solito slogan "Parlateci di Bibbiano" è la senatrice leghista bolognese Lucia Borgonzoni (video), peraltro anche candidata al governo della nostra Regione. Ieri la pasionaria del Carroccio, sottosegretario alla Cultura del governo appena caduto, si è presentata a Palazzo Madama con addosso una maglietta bianca con scritto "Parliamo di Bibbiano". La seduta a quel punto è stata immediatamente sospesa, come vuole il regolamento, dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati. Lo stop è durato qualche minuto durante i quali i senatori leghisti si sono alzati e si sono andati a congratulare con Borgonzoni. Subito dopo la leghista, che sarà probabilmente la sola a sfidare Stefano Bonaccini alle prossime elezioni regionali (i grillini pare non abbiano un nome pronto a scendere in campo), si è rivolta al presidente Giuseppe Conte. «Forse – ha detto slacciandosi la giacca che copriva la scritta – il presidente non è che non sa cosa è Bibbiano, è che non ne vuole parlare. Non gliene importa nulla dei bambini e delle famiglie». Uno show fortemente contestato dalla nuova maggioranza e, invece, sostenuto da cori e applausi dall’emiciclo dove siedono i colleghi leghisti. Non ha tardato a rispondere il premier Conte: «Il governo non entra nel merito delle inchieste in corso – ha spiegato rivolgendosi alla ex alleata – Per quel che riguarda la competenza del governo una misura è stata già adottata: è stata istituita presso il ministero di giustizia una squadra speciale per la protezione dei minori». Una squadra istituita proprio di comune accordo con la Lega durante le ultime settimane di vita del governo giallo-verde. «E’ urgente un monitoraggio della situazione vigente e un più efficace censimento degli affidi – ha continuato Conte – Dobbiamo creare una banca dati nazionale per gli affidi in modo da poter incrociare i dati e rilevare eventuali anomalie già dall’incrocio dei dati», ha aggiunto il premier. Che poi ha replicato in punta di fioretto alla senatrice leghista: «La protezione dei minori non ha colore politico e non può essere circoscritta territorialmente. E’ un problema che riguarda tutti». «Da Salvini e dalla senatrice leghista Bergonzoni, candidata in pectore alle regionali, su ‘Angeli e Demoni’ solo ipocrisia. E’ la Lega che ha rischiato di fermare un lavoro serio su questo tema facendo cadere il governo Conte 1». Lo dichiarano infine in una nota i parlamentari emiliano romagnoli del Movimento 5 Stelle Maria Edera Spadoni, Stefania Ascari, Davide Zanichelli, Gabriele Lanzi, Maria Laura Mantovani, Michela Montevecchi, Alessandra Carbonaro, Marco Croatti, De Girolamo.
La protesta delle madri davanti a Palazzo Chigi: "Conte parlaci di Bibbiano". Il movimento nazionale #bambinistrappati scende in piazza: "Saremo qui ogni giorno perché si faccia luce su Bibbiano e su tutti i casi di bambini strappati". Costanza Tosi, Venerdì 13/09/2019, su Il Giornale. Striscioni di protesta, cori che gridano giustizia, magliette che uniscono la folla e fanno sentire tutti parte di un gruppo pronto a vincere. Sotto Palazzo Chigi decine di genitori protestano contro il nuovo governo giallorosso, uniti al grido di “Mai più Bibbiano”. Madri a cui sono stati tolti i figli, nonni che da anni non possono vedere più i propri nipoti, entrambe vittime di ingiustizie e soprusi, raggirate da un sistema che ha sfruttato le loro debolezze per lucrare sulla pelle di minori innocenti. Oggi, queste persone, hanno deciso di scendere in strada per pretendere che sia fatta chiarezza sul caso dei presunti affidi illeciti che ha sconvolto l’Italia. “Mai più Bibbiano” denuncia la folla scesa in piazza per la protesta organizzata dal Movimento Nazionale #bambinistrappati, associazione composta da 15mila persone e presente in numerosi Comuni d'Italia. È tempo di combattere per le famiglie distrutte perchè finite nel tunnel degli orrori. Intrappolate e manovrate dagli assistenti sociali della Val D’enza, spalleggiati dai terapeuti che violentavano psicologicamente i bambini per indurli a confessare abusi sessuali mai avvenuti. Oggi, queste persone, hanno deciso di lottare contro il silenzio delle istituzioni. Convinte, che per fare giustizia si debba denunciare e impaurite che il silenzio degli ultimi giorni porti all’insabbiamento dell’orrenda vicenda. "Abbiamo paura che questo nuovo Governo non parli più di Bibbiano", dicono i genitori. Che poi si fanno sentire e con gli occhi rivolti al Palazzo gridano: “Conte vienici a parlare di Bibbiano”. “Chiediamo commissioni regionali d’inchiesta per fare luce sugli affidi illeciti” spiegano i presenti. Dopo lo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni", sono state tante le storie che, da tutta Italia, madri, papà e intere famiglie hanno deciso di denunciare. Troppe, le vicende che sembravano seguire il copione delle storie raccontate nell’ordinanza della Procura di Reggio Emilia. Dopo tre mesi dall’uscita dell’inchiesta, la preoccupazione è che in molte parti d’Italia ci siano altri casi Bibbiano e ciò che la popolazione si aspetta è che il governo faccia qualcosa per fronteggiare questa minaccia, per far chiarezza su questo sospetto. Prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sorpresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. E c’è chi non ci stà. "Saremo qui ogni giorno - dichiarano i partecipanti alla protesta - perché si faccia luce su Bibbiano e su tutti i casi di bambini strappati".
Pontida, Salvini sul palco con bimba vittima di Bibbiano: "Lei ha ritrovato la sua mamma". Salvini accolto da una marea di persone a Pontida. Sul palco fa salire una bimba che da poco ha ritrovato la sua mamma. Serena Pizzi, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. "Oggi qui noi abbiamo vinto". E a giudicare dalle foto, dai numeri social e dall'affetto dimostrato, viene davvero facile dire che Matteo Salvini ha davvero vinto. Ad accoglierlo a Pontida ci sono migliaia di persone, ce ne sono talmente tante che gli abitanti hanno addirittura aperto i cancelli delle proprie abitazioni. "Non ho mai visto una Pontida così", dice il leader della Lega. E in effetti, il "pratone" è davvero pieno, ma soprattutto è carico. Carico di bandiere, di ideali, di progetti, di rabbia per questo governo dell'inciucio, ma c'è anche tanto amore. "La politica senza cuore e senza passione non è politica, ma una cosa da poltronari e qua ci sono valori", urla a gran voce Salvini. L'amore per una politica sincera "fatta per il bene del Paese" si sente nell'aria, nei cori dei presenti e si legge negli sguardi di tutte quelle persone che hanno scelto di andare a Pontida. Salvini non può far altro che ringraziare tutti questi sostenitori "uomini, donne e bambini, sono io che dico grazie a voi per questo spettacolo". Vedere tutta quella gente fa davvero impressione, fa venire i brividi. La piazza è davvero piena, quella davanti al leader della Lega è "l'Italia unita nel nome del lavoro". È l'italia che non vuole il governo giallorosso, è l'Italia che ha condiviso le idee e le mosse dell'ex ministro dell'Interno dall'inizio alla fine, è l'Italia che vuole andare a elezioni perché questo governo non rappresenta il nostro Paese e "noi vinceremo". Il discorso di Matteo Salvini dal palco di Pontida è davvero carico di argomenti, di emozioni e di rabbia per "tutti quei politici che se ne stanno chiusi nel palazzo e tengono solo alle loro poltrone". E in quasi un'ora di discorso, il leader del Carroccio mette il carico da 90 su tutto. Ma è sul finale che gli occhi dei suoi sostenitori si sono riempiti di lacrime. Salvini, infatti, ha fatto salire sul palco alcuni bambini, soli o con i propri genitori. E a una in particolare ha voluto dedicare qualche secondo: a Greta. "Greta è questa spelendida ragazza con i capelli rossi dopo un anno è stata restituita alla mamma - spiega Salvini emozionato -. Mai più bambini rubati alle loro famiglie, mai più bambini rubati alle mamma e papà, mai più bimbi come merce". Queste parole sono scandite chiaramente. Gli striscioni con riferimenti a Bibbiano arrivano sul palco. Fanno rabbrividire. E Greta è una delle poche che ce l'ha fatta, una fortunata. Ma non deve essere così. Lo scandalo di Bibbiano è agghiacciante, non dovrebbe proprio esistere. Poi Salvini si interrompe chiede ai presenti di prendersi per mano perché "la giornata di oggi sia l'inizio di una pacifica, democratica, rivoluzionaria liberazione del nostro Paese nel nome del lavoro, della dignità dell'orgoglio e della sicurezza. Viva la Lega, viva Pontida e viva l'Italia". E prima di lasciare il palco il leader del Carroccio batte un "cinque" alla mamma della ragazzina e poi alla stessa Greta. Loro si sono ritrovate, ma gli altri? Quanti bambini non vivono più con i loro genitori naturali perché sono stati portati via con l'inganno? Perché il Pd sta zitto e di Bibbiano non ne parla? Anzi, minimizza. Perché? Loro non risponderanno, ma oggi la piazza ha risposto in tutto e per tutto a Salvini.
Salvini: «La bambina di Bibbiano sul palco? Chi se ne frega. Ne porterei 50. Delinque chi li ruba». Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Chi se ne frega»: così il segretario della Lega Matteo Salvini a Aria pulita su 7gold ha risposto a una domanda sulle critiche che ha ricevuto per aver portato sul palco di Pontida Greta, una delle bambine di Bibbiano. «Non una ma cinquanta bambini», ha detto anche, «se qualcuno ruba i bambini ai genitori» per un ritorno economico «è lui il delinquente». Aggiungendo: «Di storie come Bibbiano ne verranno fuori altre, non solo in Emilia». Domenica Salvini aveva portato sul palco di Pontida, nel corso del tradizionale raduno leghista, una bambina di sette anni di Bibbiano in riferimento al caso giudiziario dei presunti affidi irregolari avvenuti nel centro urbano in provincia di Reggio Emilia. Dicendo: «Mai più bambini rubati alle famiglie. Mai più bimbi rubati alle mamma e i papà. Mai più bimbi come merce. Chiedo a voi che siete sul prato, nel nome di questi bimbi che sono il nostro futuro, di prendervi per mano». Tra le persone coinvolte nel giugno scorso nell’inchiesta Angeli e demoni figura anche il sindaco di Bibbiano, accusato di abuso d’ufficio, e da allora il Pd è stato associato in toto a quei fatti, dalla Lega e in passato soprattutto dal M5S (Luigi Di Maio è stato per questo querelato dai dem). Dopo l’esibizione del leader leghista sul palco di Pontida di domenica, in tanti si sono tuttavia chiesti l’opportunità di esibire una minore per giunta coinvolta in una vicenda giudiziaria in corso. Carlo Calenda ha per esempio scritto via social: «Che gente siete per usare bambini su un palco. Tutti a testa china davanti a questo schifo? Siete senza onore». «Guai a chi ruba i bambini per lucrare», ha però risposto oggi Salvini. Per l’ex vicepremier, non è questa l’unica polemica legata a minori che lo ha chiamato in causa quest’estate. Era già accaduto a Milano Marittima il 30 luglio, con l’episodio del figlio sedicenne sulla moto d’acqua di un agente di servizio all’allora ministro dell’Interno. In quel caso, Salvini aveva detto: «Mio figlio sulla moto d’acqua della polizia? Errore mio da papà», prima di aggiungere che «nessuna responsabilità va data ai poliziotti, che anzi ringrazio perché ogni giorno rischiano la vita per il nostro Paese». In seguito è stata aperta un’inchiesta e l’agente è sotto procedimento disciplinare.
Pontida, la bambina sul palco con Salvini non è di Bibbiano. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. Era ormai diventata, soprattutto sui social, la bambina di Bibbiano, dopo essere apparsa sul palco di Pontida. Greta non è di Bibbiano e neanche emiliana, ma vive in Lombardia. Alla kermesse leghista Salvini, dal palco, l’ha presentata come una «bellissima bambina con i capelli rossi che dopo un anno è stata restituita alla mamma». Non ha citato espressamente l’inchiesta della Val d’Enza, ma poi ne ha fatto riferimento aggiungendo: «Mai più bimbi rubati alle mamma e ai papà, mai più bimbi come merce», lasciando intendere che la piccola sul palco appartenesse al gruppo di minori di Bibbiano. Greta non è coinvolta nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti a Bibbiano e nella Val d’Enza reggiana, come risulta da fonti giudiziarie, dopo che la notizia era stata anticipata da Selvaggia Lucarelli: «Ho parlato con la madre. La bambina di Pontida non c’entra nulla con Bibbiano. Vive in Lombardia e le case famiglia a cui fu affidata erano a Varese e Como. Salvini ha strumentalizzato Bibbiano e i bambini in modo indegno», ha detto la blogger. Dal leader leghista nessun passo indietro sulla presenza della bambina a Pontida: «Chi se ne frega». Per il leader la piccola è un simbolo: «Non una ma cinquanta bambini. Se qualcuno ruba i bambini ai genitori» per un ritorno economico «è lui il delinquente». Di storie come Bibbiano «ne verranno fuori altre — aggiunge — non solo in Emilia».
Bimba Bibbiano a Pontida, l'attacco di Calenda: "È uno schifo". L'europarlamentare del Pd critica la Lega: "Che gente siete per usare bambini su un palco? Senza onore". Luca Sablone, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Matteo Salvini finisce nuovamente nel mirino della sinistra. La "gravissima" accusa recente è quella di aver ospitato sul palco di Pontida la piccola Greta, che dopo un anno è stata restituita alla mamma. Il leader della Lega l'ha presa fieramente in braccio: "Mi pare che tra i bambini ci sia anche Greta, che è questa splendida bimba coi capelli rossi che dopo un anno è stata restituita alla mamma. Mai più bambini rubati alle famiglie. Mai più bimbi rubati alle mamma e i papà. Mai più bimbi come merce". A guidare la protesta è Carlo Calenda, che ha criticato la scelta di coinvolgere la bimba: "Che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco? Ma i cosìddetti moderati della Lega non hanno nulla da dire su questo sconcio e sugli insulti a Gad Lerner. Tutti a testa china davanti a questo schifo? Siete senza onore".
"Strumentalizzazione". Sui social è ormai diventato un vero e proprio caso. Diversi utenti si domandano: "Menomale che non si dovevano strumentalizzare i bambini! Vero? E allora cosa ci faceva una bimba di Bibbiano sul palco?". C'è poi chi si aggrega all'attacco e affonda: "Salvini oggi ha dato il meglio di sé, strumentalizzando il caso di Bibbiano. Ma...non a parole, bensì prendendo in braccio una bambina di quella località. Lo sciacallo leghista è sempre in prima linea". E ancora: "Credevate di aver toccato il fondo? Illusi. Salvini espone sul palco di Pontida 2019 i corpi di una madre e una bambina, presunte vittime dei fatti di Bibbiano, per fini di bieca propaganda. Abbiamo raggiunto un degrado del costume e della politica mai visto da 75 anni a oggi". Una pagina Facebook ha invece lanciato una frecciatina nei confronti dell'ex ministro dell'Interno: "Ma il Matteo Salvini che oggi ha sventolato sul palco una bimba di Bibbiano (incommentabili i genitori) è lo stesso che invitava a non strumentalizzare i bambini quando ha usato la Polizia di Stato per far giocare il suo pargolo con una moto d'acqua?".
Chef Rubio attacca Salvini: "Hai sfruttato la bimba di Bibbiano". Gabriele Rubini contro il leader della Lega: "L'hai utilizzata per la tua cazzo di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa". Luca Sablone, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. Chef Rubio non risparmia l'ennesima dura critica a Matteo Salvini. Il conduttore televisivo su Twitter si è sfogato contro l'ex ministro dell'Interno, reo di aver preso in braccio la piccola Greta, bimba restituita alla mamma dopo un anno: "Sfruttare una bambina per la tua c**** di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa, è qualcosa di aberrante e il fatto che tu lo faccia dimentico delle volte in cui hai lanciato figli altrui in pasto ai tuoi haters minus habentes, fa di te una persona spregevole".
Polemiche. Ma Gabriele Rubini non è stato il solo ad attaccare il leader della Lega: nella giornata di ieri è arrivata anche la presa di posizione da parte di Carlo Calenda. L'europarlamentare del Partito democratico ha tuonato: "Che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco? Ma i cosìddetti moderati della Lega non hanno nulla da dire su questo sconcio e sugli insulti a Gad Lerner. Tutti a testa china davanti a questo schifo?".
SI PUÒ PARLARE DI BIBBIANO SENZA FINIRE NEL TRITACARNE? Luciano Moia per ''Avvenire'' il 18 settembre 2019. Bibbiano non è solo un caso mediatico-giudiziario. Non è solo un teatro amaro di strumentalizzazioni politiche che sgomentano per la totale assenza di coerenza etica (l' ultimo episodio è andato in scena domenica a Pontida). Non è solo l' ultimo caso di una lunga serie di situazioni che mostrano come il nostro apparato di protezione dei minori fuori famiglia abbia urgente necessità di una revisione globale, puntando all'armonizzazione di leggi e competenze oggi in equilibrio instabile tra magistratura, amministrazioni locali e, addirittura, privati. È anche - e soprattutto - un' inchiesta in cui sono finiti loro malgrado nove minori che hanno subito violenze psicologiche gravissime proprio da parte di quelle istituzioni preposte alla loro protezione e sono stati sottratti alle famiglie sulla base di presunzioni che, in almeno sette casi, si sono rilevate frutto di errori intollerabili, nella migliore delle ipotesi, se non di obiettivi legati a far lievi- tare i costi delle psicoterapie, oltre ad assurde congetture ideologiche. E ora tutti questi bambini e ragazzi, in vario modo e con diverse gradualità, stanno scontando sulla propria pelle gli esiti di comportamenti di cui la magistratura valuterà le responsabilità. Ma quanto avranno inciso quelle disavventure sul loro equilibrio psicologico? E come si sta cercando di rimediare ai guasti prodotti nella loro psiche dal gruppo di assistenti sociali e di psicologhe della Val d' Enza coordinate dalla dirigente del servizio, Federica Anghinolfi, tuttora ai domiciliari? Osservando gli esiti di quanto capitato, si può dire che ci siano situazioni sotto controllo e altre che mostrano ancora ferite aperte e sanguinanti. Abbiamo più volte fatto notare come dalle intercettazioni dei carabinieri, in gran parte rese pubbliche, emergano episodi agghiaccianti di accanimento violento verso i bambini, ascoltati per ore in modo oppressivo e minaccioso, con la reiterazione ossessiva di domande finalizzate a far raccontare a piccoli abusi e maltrattamenti da parte dei genitori. In sette casi su nove questi episodi si sarebbero rivelati inesistenti. Al di là di quanto emergerà nel processo - dovrebbe iniziare entro la fine dell' anno - siamo di fronte a procedure che, come più volte sottolineato, risultano al di fuori da ogni protocollo di corretto ascolto dei minori ma anche da ogni regola di deontologia professionale, oltre che da un minimo tasso di umanità. Con quali risultati? Quattro dei nove bambini coinvolti nell' inchiesta avevano già fatto ritorno alle proprie famiglie prima che fossero resi pubblici gli esiti del lavoro della procura di Reggio Emilia. La decisione era arrivata nei mesi scorsi, in tempi diversi, grazie alle verifiche avviate dai magistrati del Tribunale dei minori di Bologna a cui va dato atto di aver eseguito, in tempi non sospetti, il lavoro di verifica sulle relazioni dei servizi sociali con scrupolo e attenzione. E infatti, a fronte di perizie risultate tutt' altro che convincenti, erano richiesti approfondimenti di merito. Quindi, visto che neppure le nuove spiegazioni erano state convincenti, i quattro bambini avevano fatto ritorno alle proprie famiglie. Come già spiegato, queste verifiche sono state decise dal presidente dei Tribunale dei minori, Giuseppe Spadaro, nonostante l' assenza di comunicazioni dettagliate sull' inchiesta in corso da parte della procura di Reggio Emilia. O, meglio, la procura aveva comunicato solo l' archiviazione dei procedimenti penali a carico dei genitori maltrattanti ma ciò ovviamente non impediva, anzi imponeva ai giudici minorili di approfondire ugualmente le situazione di pregiudizio dei minori segnalate dai servizi sociali. Un' incongruenza che non ha impedito di risolvere quattro situazioni diverse, con un lavoro di accertamento molto complesso in cui è stato per esempio necessario riannodare i fili all' interno dei vari nuclei familiari. In un caso gli assistenti sociali erano intervenuti per i maltrattamenti inflitti alla moglie da un marito alcolista a cui il figlio di cinque anni era costretto ad assistere. La procura minorile ha obbligato l' uomo a seguire un percorso di riabilitazione e, una volta accertato che il problema era stato superato, ha dato disposizione perché, con il consenso della madre, il piccolo potesse rientrare in famiglia. Per un quinto bambino era stato il Tribunale ordinario di Reggio Emilia a disporre il ritorno a casa. Anche in questo caso l' allontanamento era stato deciso sempre dai servizi sociali della val d'Enza, nel corso di una causa di separazione. Poi il giudice, già all' inizio di giugno, verificata le condizioni, aveva deciso che il piccolo potesse essere riaffidato al padre. Esistono poi due casi per cui è già stata pronunciata la sentenza di affido preadottivo. L' indagine ha permesso di accertare la correttezza dell' ipotesi di abusi, confermata implicitamente anche dal fatto che i genitori, a differenza di tutti gli altri coinvolti nel caso Bibbiano, non hanno presentato appello. Per questi due bambini si apre quindi la strada dell' adozione definitiva e, si spera, condizioni per una vita migliore nell'abbraccio di una madre e di un padre capaci di stemperare con l' affetto e con il tempo i fatti terribili di cui sono stati vittime. Tutta da definire poi la sorte degli ultimi due minori di cui si parla nell' inchiesta. Per loro il ritorno in famiglia non può ancora essere programmato, anche se il gip di Reggio Emilia ha archiviato la posizione dei genitori per quanto riguarda le accuse di abusi. Sono due piccoli che hanno comunque alle spalle situazioni familiari non semplici.
Il sindaco di Bibbiano querela 147 persone tra cui Di Maio. Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti ha querelato 147 persone tra cui anche Luigi Di Maio che lo avrebbe offeso definendo il Pd "il partito di Bibbiano". Francesco Curridori, Giovedì 19/09/2019 su Il Giornale. Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso dal Pd, ha querelato 147 persone tra cui anche Luigi Di Maio. Il primo cittadino, agli arresti domiciliari per abuso d'ufficio e falso ideologico nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e demoni", ha ritenuto lesivi, offensivi e addirittura minatori alcuni post comparsi sui social da quando è scoppiato lo scandalo. Tra questi c'è anche l'ormai noto videomessaggio del capo politico del M5S che, prima della nascita del 'governo giallorosso', assicurava:"Col Pd non voglio avere niente a che fare". E ancora: "Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare". Come si legge sulla Gazzetta di Reggio gli avvocati di Carletti, Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, hanno presentato alla Tribunale della Libertà un ricorso contro i domiciliari del loro assistito e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l'arresto, negato dal Gip, in un altro filone. Ora agli investigatori spetta l'arduo rintracciare le 147 persone querelate e capire a chi corrispondono i relativi nickname.
Affidi illeciti, il sindaco di Bibbiano querela chi lo ha offeso online (anche Di Maio). Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso e attualmente ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta sugli affidi della Procura di Reggio Emilia, ha presentato una querela segnalando 147 fra post e mail dal contenuto ritenuto offensivo o minatorio nei suoi confronti. Tra i denunciati c’è anche Luigi Di Maio, che a metà luglio, prima della crisi di Governo e del patto coi dem, diffuse su Facebook un messaggio: «Col Pd non voglio avere niente a che fare. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare». Il sindaco, difeso dagli avvocati Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, è in attesa della pronuncia del tribunale della Libertà sul suo ricorso contro i domiciliari e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l’arresto, negato dal Gip, in un altro filone.
Inchiesta "Angeli e demoni", il sindaco di Bibbiano querela: c'è anche Di Maio. Segnala come offensivi o diffamatori 150 fra post e commenti. Compreso il messaggio dell'ex vicepremier. La Repubblica il 19 settembre 2019. Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, sospeso e attualmente ai domiciliari nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e demoni" sugli affidi in Val d'Enza della Procura di Reggio Emilia, ha presentato una querela segnalando 147 fra post e mail dal contenuto ritenuto offensivo o minatorio nei suoi confronti. Tra i denunciati c'è anche Luigi Di Maio, che a metà luglio, prima della crisi di Governo e del patto coi dem, diffuse su Facebook un messaggio: "Col Pd non voglio avere niente a che fare. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare". La notizia, riportata dalla Gazzetta di Reggio, trova conferme in ambienti giudiziari. Il sindaco - ai domiciliari dal 27 giugno scorso, indagato per abuso d'ufficio e falso ideologico - è in attesa della pronuncia del tribunale della Libertà sul suo ricorso contro i domiciliari e su un ricorso della Procura che ne aveva chiesto l'arresto, negato dal Gip, in un altro filone. La denuncia di questi 147 messaggi ritenuti diffamatori potrebbe non essere isolata: i legali cui Carletti si è affidato stanno vagliando decine di altri contenuti simili. Sarà la Procura a valutare il materiale e a identificare chi si nasconde dietro i nickname.
Il sindaco di Bibbiano non è più agli arresti domiciliari, concesso l’obbligo di dimora. Il Dubbio il 20 Settembre 2019. Andrea Carletti dovrà soggiornare la notte nel Comune di Albinea ma non è più soggetto alla misura cautelare. Per i giudici comunque sussiste ancora il pericolo di reiterazione del reato. Dalle querele all’obbligo di dimora, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti ha visto attenuare la misura cautelare che lo riguarda per essere coinvolto nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia sui cosiddetti affidi facili di minori. Carletti non è più dunque agli arresti domiciliari ai quali si trovava dal 27 giugno scorso. Il sindaco dovrà trascorrere la notte dalle 22 alle 7 del mattino seguente nel comune di Albinea. La nuova misura non elimina però le contestazioni della stessa Procura che gli attribuisce il reato di abuso di ufficio e falso ideologico. In ogni caso secondo il collegio dei giudici Criscuolo, Oggiani, Margiocco sussiste ancora il pericolo di reiterazione del reato nonostante l’obbligo di dimora. Dalle pagine del verbale sul quale è trascritto l’interrogatorio di Carletti si legge della “volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”.
Il sindaco di Bibbiano torna libero. I legali: «Contro di lui una gogna». Simona Musco il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. La decisione del tribunale del riesame. Ventiquattro ore dopo aver querelato 147 persone per gli insulti e le minacce ricevuti dopo l’indagine a suo carico, per il sindaco sospeso di Bibbiano, Andrea Carletti, è arrivata la revoca degli arresti domiciliari, disposti tre mesi fa nell’ambito dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, della procura di Reggio Emilia, sulle presunte irregolarità nell’affido dei minori. A deciderlo il Tribunale della Libertà, che ha disposto l’obbligo di dimora nel Comune di Albinea, dove risiede. L’uomo diventato simbolo, per la gogna mediatica, del “metodo Pd” sugli affidi, è in realtà accusato dalla procura di abuso d’ufficio e falso ideologico. A Carletti, avevano precisato gli inquirenti subito dopo il deflagrare della notizia, viene contestata la violazione delle norme «sull’affidamento dei locali dove si svolgevano le sedute terapeutiche». Non è minimamente contestato, dunque, «il concorso nei delitti che in quei locali avevano luogo». Ma secondo l’accusa, il sindaco avrebbe avuto «un ruolo decisivo», permettendo nella sua veste pubblica, prima la destinazione senza gara alla struttura “La Cura” di un immobile pubblico a Bibbiano, poi l’affidamento a psicoterapeuti come Claudio Foti e Nadia Bolognini, entrambi indagati, della terapia dei minori affidati alla Val d’Enza. E i magistrati parlano dunque di un’adesione a quello che viene definito “Metodo Foti”, anche se determinata da mere motivazioni politiche: per l’accusa, infatti, creare un centro con esperti famosi come quelli della onlus “Hansel e Gretel” avrebbe accresciuto il suo potere politico con un forte ritorno di immagine. Secondo i il Tdl, dall’interrogatorio di Carletti emergerebbe «la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo di azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante». Ed è per questo motivo che per il collegio dei giudici «sussiste tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo». L’atteggiamento del sindaco, dunque, sarebbe rimasto immutato, «non avendo determinato il tempo di tre mesi decorso in regime cautelare alcuna modifica nel suo atteggiamento», deduzione per la quale i giudici si richiamano all’interrogatorio del 12 agosto. E i rapporti politici sul territorio sarebbero rimasti intatti, rendendo dunque plausibile il rischio di poter influenzare qualcuno all’interno dell’amministrazione comunale fino a tre mesi fa da lui guidata. La permanenza coatta ad Albinea basta, perciò, a scongiurare qualsiasi rischio, secondo i giudici, non potendo, in tal modo, svolgere attività pubblica e soprattutto mantenere legami e influire su amministratori e dipendenti di enti locali territoriali a lui vicini. «L’isolamento a cui l’obbligo di dimora lo costringe – si legge nell’ordinanza appare misura adeguata e sufficiente al fine di recidere per il momento i contatti con il mondo professionale e pubblico in cui si collocava, ritenendo che anche i contatti via telefono o telematici saranno depurati di ogni possibile connotazione di reiterazione o inquinamento, alla luce della serra attività di intercettazione già svolta nel corso dell’indagine». Il ricorso per la revoca dei domiciliari, presentato dagli avvocati Giovanni Tarquini e dal professor Vittorio Manes, era stato discusso lunedì scorso. La decisione del Riesame, ha commentato Tarquini, «ha ridato un po’ di libertà al mio assistito. Avevamo chiesto la revoca della misura cautelare, questa è una decisione che l’attenua: è un miglioramento e un piccolo passo verso importanti chiarimenti». Una decisione, secondo Manes, che riporta le contestazioni «a una dimensione diversa e molto più contenuta rispetto a quella che gli effetti distorsivi della fortissima campagna mediatica avevano determinato. Ne escono ridimensionati anche i termini di gravità indiziaria e di necessità cautelare di questa vicenda». Intanto giovedì il tribunale di Bologna aveva rigettato un appello della Procura di Reggio Emilia su un’altra imputazione, per la quale la misura cautelare era già stata negata. «Su questa vicenda – ha aggiunto Manes – va tracciata una linea di distinzione molto chiara tra le presunte irregolarità amministrative che concernono l’affidamento del servizio da una parte e le modalità e le presunte distorsioni dello svolgimento del servizio di psicoterapia dall’altri». E gli i reati contestati a Carletti «si muovono solo sul primo versante ha concluso – e non hanno nulla a che vedere con i presunti abusi terapeutici» . I giudici, nel delineare la personalità di Carletti, fanno riferimento ad un episodio risalente al 2018, quando il sindaco sospeso si interessò in prima persona «circa la prosecuzione del metodo fino ad allora attuato, con cui si affidavano i minori in carico al Servizio sociale» a psicoterapeuti della Onlus piemontese “Hansel e Gretel”. Carletti si sarebbe adoperato per reperire un immobile a Bibbiano da adibire a nuova sede, dopo la dismissione della vecchia sede, oggetto di indagini per irregolarità amministrative, per far sì che la psicoterapia di Claudio Foti e dei suoi colleghi proseguisse. La scelta di cercarlo proprio nel Comune da lui amministrato, secondo i giudici, rappresenterebbe la volontà di «voler proseguire nella politica sociale che lo vedeva paladino dei diritti dei minori abusati, tuttavia incurante delle modalità con cui tale nobile scopo era attuato, anche a costo di eludere la normativa in materia e di finalizzare l’impiego di denaro pubblico al suo progetto». Dalle intercettazioni era emersa anche una sua disponibilità ad aiutare la onlus con la formazione di una comunità a Bibbiano, un centro di formazione che per il sindaco rappresentava «un buon progetto» e «un servizio alla comunità».
Bibbiano, i giudici duri su Carletti: “Spalleggiò organizzazione per ambizioni politiche”. Mattia Caiulo il 20/09/2019 su agenziadire.com dire. Il sindaco di Bibbiano è accusato di falso ideologico e abuso d'ufficio per il giro di presunti affidi pilotati a Bibbiano. Oggi gli sono stati revocati gli arresti domiciliari. Nonostante la revoca degli arresti domiciliari, sostituiti con l’obbligo di dimora ad Albinea, resta pesante la posizione giudiziaria di Andrea Carletti. Lo confermano le parole non tenere verso il sindaco sospeso di Bibbiano, accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, messe nero su bianco dal collegio di giudici del tribunale del Riesame di Bologna, Rocco Criscuolo (presidente) Mirko Margiocco e Rossana Maria Oggioni. Nell’ordinanza emessa oggi in merito al ricorso della difesa di Carletti contro la decisione del gip di Reggio Emilia di rigettare l’istanza di revoca o sostituzione della misura degli arresti domiciliari, si legge infatti in premessa che le altre persone indagate nell’inchiesta- lo psicoterapeuta Claudio Foti e gli assistenti sociali dell’Unione Comuni Val d’Enza, in primo luogo Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, oltre agli psicologici, Nadia Bolognini, moglie di Foti ed altri “in servizio presso la Asl locale”- erano “fortemente ancorati ad una visione ideologica del proprio ruolo, che li rendeva convinti di essere in grado di assistere i minori abusati con capacità e metodo loro proprio, di cui essi erano gli interpreti, uniti nella acritica convinzione della validità scientifica della loro metodologia e del loro approccio maieutico, in grado di far emergere, con valore salvifico e terapeutico, ricordi di abusi sessuali subiti da minori con personalità fragili e in difficoltà”. Tale assioma di fondo, proseguono i giudici “era condiviso senza alcun dubbio dai protagonisti della vicenda, attuato come una vera e propria missione e intrecciato a motivazioni personali per ciascun indagato, in un misto di interessi ideologici, professionali ed economici”. In questo quadro la figura di Andrea Carletti, come sindaco di Bibbiano e delegato alle Politiche Sociali per l’Unione Comuni Val d’Enza viene descritta così: “L’adesione ideologica di Carletti al ‘metodo Foti’ era determinata da motivazioni politiche” e finalizzata a dare “lustro alla sua figura politica”. E ancora, scrivono i giudici, “il suo programma politico era impostato sulla buona riuscita della predisposizione di servizi specializzati nella cura di bambini oggetto di molestie e sul raggiungimento di risultati di eccellenza in tale campo: la buona riuscita del progetto dedicato alla tutela dei minori si riverberava sul suo successo politico”. Da ciò “la sua accettazione incondizionata delle modalità di operare dei coindagati, la condivisione delle operazioni e delle procedure poco limpide, non conformi ai parametri normativi, adottate dai responsabili dei Servizi Sociali”. Nel merito della nuova misura cautelare disposta, i giudici chiariscono poi: “Sussiste in primo luogo tuttora il pericolo di reiterazione di reati dello stesso tipo“. E nell’ordinanza spiegano il perché in due passaggi. Il primo riguarda alcune intercettazioni tra gli indagati che, venuti a conoscenza delle indagini a loro carico, si preoccupavano del destino dell’immobile di Bibbiano sede del centro “La Cura” dove venivano svolte le sedute di psicoterapia sui minori. Il fatto che dovesse essere dismesso perché oggetto di indagini per le irregolarità relative, “non ha comportato l’abbandono del progetto da parte degli indagati ma la ricerca assidua di un altro immobile che potesse essere adibito a nuova sede per proseguire la psicoterapia da parte di Foti e colleghi”. Carletti in prima persona, si legge, “si adopera per reperire un immobile a tal fine proprio a Bibbiano, paese del quale è sindaco e che vuole evidentemente mantenere come fulcro delle politiche sociali da lui perseguite, dimostrando con estrema sicurezza di voler proseguire nella politica sociale che lo vedeva paladino dei diritti dei minori abusati, tuttavia incurante delle modalità con cui tale nobile scopo era attuato, anche a costo di eludere la normativa in materia e di finalizzare l’impiego di denaro pubblico al suo progetto”. Ebbene, si legge ancora nell’ordinanza, “tale atteggiamento del sindaco di Bibbiano permane immutato ad oggi, non avendo determinato alcuna modifica il tempo di tre mesi decorso in regime cautelare”. Si cita poi un interrogatorio del sindaco del 12 agosto, in cui il primo cittadino non si dimostra affatto pentito e di fatto si dichiara pronto a rifare tutto. “Se domani semmai dovessi tornare a fare il sindaco, se venisse un soggetto, una cooperativa che si occupa di minori e di anziani e mi propone un intervento su un terreno privato e fanno l’investimento loro e io reputo che loro abbiano le caratteristiche e siano persone oneste, serie…”, dice Carletti alla Pm. Per i giudici, insomma, “emerge da questo passaggio la volontà di proseguire la sua carica di sindaco di Bibbiano con un metodo d’azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”. Con riferimento al pericolo di inquinamento probatorio si osserva invece “che non risultano ad oggi concreti comportamenti volti a tal fine”. Dopo gli arresti non ha interrotto i rapporti incriminati. Tuttavia “la sospensione dalla carica di sindaco ad opera della legge Severino e la attribuzione ad altri della delega per le politiche sociali non si reputa abbiano determinato una cesura dei suoi rapporti con l’ambiente di appartenenza, in virtù dei soli tre mesi decorsi in regime domiciliare, essendo ragionevolmente tali rapporti di amicizia e colleganza politica ben radicati nel tempo e difficilmente scalfibili”. Ciò “comporta sicuramente una possibile influenza di Andrea Carletti su persone a lui vicine nell’ambito politico-amministrativo, con possibili ripercussioni negative sulle indagini”.
È comunque necessaria una misura. La “misura cautelare adeguata- concludono quindi i giudici- appare quella dell’obbligo di dimora nel Comune dove attualmente Andrea Carletti dimora e dove già erano in corso gli arresti domiciliari” che, pur rappresentando “una misura minore degli arresti domiciliari ne assicura tuttavia la medesima finalità, cioè l’impossibilità di svolgere attività pubblica e soprattutto mantenere legami e influire su amministratori e dipendenti di enti territoriali a lui vicini“. A margine viene infine fatto notare che con i motivi di Riesame gli avvocati di Carletti contestavano la sussistenza di gravità indiziaria, ma nell’udienza di oggi hanno rinunciato al primo motivo di gravame, insistendo esclusivamente sulla mancanza di esigenze cautelari.
Bibbiano, questa sera 20 settembre Claudio Foti a Quarto Grado: "Contro me solo fake news". Bibbiano, caso affidi illeciti: stasera Claudio Foti si difenderà davanti alle telecamere di Quarto Grado. Lo psicoterapeuta della Onlus "Hansel e Gretel" si difende e dice di non aver mai fatto l'elettroshock ai bambini. Federico Sanapo (articolo) il 20 settembre 2019 su Blasting News Italia. Continua a far parlare di sé quanto avvenuto a Bibbiano negli scorsi mesi, dove molti bambini, secondo quanto scoperto dalla Procura della Repubblica di Reggio Emilia, sarebbero stati sottratti illecitamente alle loro famiglie e dati in affido a terze persone senza alcun motivo. Per poter strappare i piccoli ai loro genitori, si sarebbero inventate le scuse più assurde, una su tutte quelle di presunti abusi che i minori avrebbero subito nelle proprie case. Ma la cosa che ha più inorridito, è stata la notizia secondo la quale ai piccoli sarebbe stato praticato anche l'elettroshock, questo in modo da poter manipolare la loro mente, facendo in modo che durante i processi potessero dire una versione dei fatti completamente differente da quella reale. Uno dei principali imputati è Claudio Foti, psicoterapeuta e direttore scientifico dell'associazione Onlus "Hansel e Gretel" che ha sede a Moncalieri, nel torinese, i cui studi sugli affidi sarebbero stati "promossi" in tutta Italia. L'uomo ha rilasciato negli scorsi giorni un'intervista alla trasmissione Quarto Grado, che da questa sera 20 settembre andrà in onda su Rete 4 e sarà condotta come sempre da Gianluigi Nuzzi e da Alessandra Viero.
Foti: Su di me solo fake news. Foti si è difeso a spada tratta davanti alle telecamere di Rete Quattro, spiegando che lui non ha mai utilizzato metodi violenti sui bambini, ne tanto meno l'elettroshock. Lo psicoterapeuta ha detto che su di lui sono state diffuse false notizie, e che non capisce tutto questo clamore mediatico su di lui. Secondo quanto riporta Tgcom24, sulle sue pagine online, durante l'intervista a Quarto Grado Foti ha dichiarato che lui ha fatto sempre del suo meglio, ma poi alla fine è stato accusato di aver utilizzato i bambini come cavie. L'uomo ha riferito che da quando è scoppiato questo caso non si è più ripreso, e che vive tutto ciò come un incubo, dal quale si augura di uscire presto.
Lo psicoterapeuta ha parlato anche della sua laurea. Inoltre, Claudio Foti ha precisato che sulla sua laurea sono state diffuse altre fake news, in quanto è in possesso di un regolare titolo di studio. Nel frattempo il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, anche lui finito nei verbali dell'inchiesta "Angeli e Demoni" è stato posto in obbligo di dimora presso il comune di Albinea. Fino a poche ore fa l'uomo si trovava in regime di arresti domiciliari, ma il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso presentato dallo stesso indagato. Carletti ha anche querelato il neo ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio, in quanto il pentestellato lo avrebbe diffamato in alcuni post su Facebook e nei testi di alcune mail.
Bidello accusato di aver abusato di 11 bambini viene assolto, a firmare la perizia fu Claudio Foti. Il collegio peritale affermò che i piccoli erano incapaci di ricordare quello che era accaduto a causa delle suggestioni subite. Costanza Tosi, Martedì 24/09/2019, su Il Giornale. Mentre il caso Bibbiano si allarga, tanto che l’ideologia del “guru” Piemontese pare aver, negli anni, preso piede in tutta Italia, si scoprono altri indizi che individuano l’ombra del terapeuta, indagato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, anche nell’aretino.
Il "metodo Foti" sembra aver determinato l’ennesima tragedia. Circa sette anni fa, un uomo di 51 anni che faceva il bidello in una scuola materna nel Valdarno, viene accusato di aver abusato di ben 11 bambini. Nel 2012 la prima segnalazione: una bimba, di appena quattri anni, manifesta atteggiamenti sospetti, tanto che, la madre, decide di farla visitare al Meyer, l’ospedale pediatrico fiorentino. In quell’occasione, una psicologa, ipotizza che possano esserci state violenze fisiche sulla minore. Un campanello d’allarme che induce gli altri genitori della scuola e prestare attenzione sul comportamento dei propri figli e prendere provvedimenti. I casi diventano 11. Secondo l’accusa l’uomo avrebbe portato i piccoli nel bagno, dove si sarebbero consumate le violenze sessuali. Il bidello viene messo agli arresti domiciliari, sostituiti, poi, dall’obbligo di dimora. Ma l’indagato nega e le maestre escludono che sia potuta succedere una cosa simile. Continuano le indagini. La scuola viene sorvegliata dai magistrati attraverso telecamere e microspie, ma nessun elemento giustifica le accuse. I racconti dei bambini fanno pensare al peggio. Centinaia di pagine di testimonianze distruggono il cuore dei genitori. A indirizzare i giudici nelle indagini sono alcuni disegni, fatti proprio dai minori. Secondo gli psicologi, i bimbi avrebbero tratteggiato nei fogli di carta figure riconducibili agli atti sessuali subiti. Sembra di assistere ad un film già visto. L’interpretazione delle immagini astratte create dai minori valgono all’uomo un processo che durerà anni e che, ancora, non ha visto fine. Come riporta La Nazione, è fissato per il 17 ottobre, infatti, il processo d’appello nel quale, il protagonista, ora 56enne, deve ancora difendersi dall’accusa di violenza sessuale che, in primo grado, gli era valsa una condanna a 13 anni di reclusione. A indurre i pm ad aprire il caso fu proprio Claudio Foti. Il terapeuta, nel 2012 firma la perizia che pone sotto accusa il dipendente della scuola materna nel Valdarno. Il metodo è sempre lo stesso. Deduzioni sulla base di disegni e denunce da parte dei minori avvenute dopo un percorso di psicoterapia. Così, come nei casi di Bibbiano, nei quali i bambini sarebbero però, stati plagiati e indotti a confessare abusi mai avvenuti. Il terapeuta della Hansel e Gretel fu anche presente come testimone al processo, durante il quale dichiarò che i bambini erano stati abusati e che erano in grado di testimoniare su quanto era successo. Dichiarazione subito contraddetta, in aula, da un’altra consulenza d’ufficio, che era stata disposta dal tribunale allora presieduto da Silverio Tafuro. Il collegio peritale di cui era alla guida il professor Giovanni Battista Camerini - riporta La Nazione - affermò che i piccoli sarebbero stati incapaci di ricordare quello che era accaduto a causa delle suggestioni subite. La conclusione di Foti venne definita “Sconcertante per improprietà”. Crolla la prova principale: il racconto dei minori. La sentenza è scritta. Il bidello viene assolto il primo dicembre 2016. Adesso, la corte d’appello ha disposto un’ulteriore perizia che impone che la capacità dei bimbi debba essere valutata caso per caso. I piccoli, ormai cresciuti, verranno ascoltati di nuovo. Quanto si riveleranno esatte,in questo caso, le deduzioni del terapeuta torinese? Se l’assoluzione venisse confermata saremmo, per l’ennesima volta, davanti ad una storia che ha distrutto la vita di un uomo, accusato ingiustamente di aver compiuto degli orrori e cambiato l’esistenza di bambini e famiglie costretti a vivere, per anni, con il dubbio di essere state vittime di un mostro.
BUSINESS AFFIDAMENTI. Il caso Bibbiano, a «Non è L’Arena» uno dei papà sul presunto sistema di affidi illeciti. Uno dei papà coinvolto nei presunti affidi illeciti: «Hanno stilato relazioni false su cosa si faceva e diceva». Corriere Tv il 22 settembre 2019. Il caso Bibbiano è uno dei temi affrontati nella prima puntata della nuova edizione di «Non è L’Arena» di Massimo Giletti. Parla uno dei papà coinvolti nel presunto sistema di affidi illeciti venuti alla luce nel corso dell’inchiesta ‘Angeli e Demoni’: «Hanno stilato delle relazioni completamente false su cosa si diceva e cosa si faceva all’interno degli incontri» dice l’uomo nel servizio trasmesso durante la puntata di domenica 22 settembre.
Ad Atreju la testimonianza choc di un padre di Bibbiano. "Così grazie alle mie denunce è partita l'inchiesta". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. Si parla del dramma di Bibbiano, ad Atreju, nella sessione intitolata come l’inchiesta che ha fatto indignare l’Italia sugli affidi illeciti di della Val d’Enza, Angeli e Demoni. Ma non solo, si parla anche della comunità toscana il Forteto, al centro di un altro grande scandalo di sopraffazioni e violenze. Ad introdurre il senatore Fdi Alberto Balboni, che osserva: “oggi dobbiamo chiederci perché è accaduto tutto questo”. La parola passa poi al direttore de Il Tempo Franco Bechis, il quale traccia un quadro di queste storie. La realtà di Bibbiano, spiega, “era stata dipinta da una parte della stampa come un’eccellenza, ma con 1.200 bambini affidati ai servizi sociali occorreva rendersi conto dell’anomalia”. E prosegue ricordando che “il business degli affidamenti sia maggiore, e di molto, rispetto a quello dell’accoglienza dei migranti”. E poi è il momento delle testimonianze, introdotte dalla deputata Maria Teresa Bellucci. Per Bibbiano parla Antonio Margini. “Ricordate quei bambini affidati ad una coppia omosessuale? Ecco, io sono il papà”. E racconta come un matrimonio come tanti sia stato, un bel giorno, interrotto dalla relazione di sua moglie con una donna. “E parte, contro di me, la segnalazione ai servizi sociali. Vengono ad ispezionare la mia casa, 500 metri quadri con giardino e piscina, e viene definita ‘non idonea’. Scelta incomprensibile”. E poi prosegue ricordando, forse, il momento più duro, cioè il provvedimento che gli imponeva di vedere i suoi bambini solo in “incontri protetti”. Emerge il nome della dottoressa Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza (protagonista di questa vicenda assieme allo psicoterapeuta Claudio Foti). “Mi viene detto che io non posso vedere da solo i miei figli perché sono sospetto di essere un omofobo”. Da lì comincia un ciclo di umiliazioni, in cui addirittura questo padre viene rimproverato per come parla con i suoi figli durante gli incontri. “Ho cominciato a registrare tutto, e quando sono arrivato a 7,8 pen drive le ho portate in Procura e di fatto si è creato il ‘la’ per l’inchiesta”. L’altra testimonianza, poi, è di Debora Ghillon, Toscana. Fu portata al Forteto, la ben nota comunità di Angelo Fiesoli, a 16 anni, incinta. “Arrivai lì per alcuni problemi che avevo in famiglia. Notai tutte le ragazze che avevano i capelli corti ed erano vestite tutte uguali. Mi venne subito spiegato che la prima regola, lì, era l’amore omosessuale. Per questo motivo c’erano molti ostacoli affinché il padre naturale di mio figlio, un ragazzo di 17 anni, avesse contatti con me e mi venisse a trovare. Un giorno, la mia madre affidataria lo prese a calci, fu l’ultima volta che lo vidi”. Da lì una fase da incubo. “Fui spinta a riconoscere come padre naturale di mio figlio, il figlio di Fiesoli”. Insomma, legata mani e piedi al Forteto. Fin quando, però non sono iniziate le prime denunce, degli altri accolti nella comunità, sottoposti a violenze e costrizioni. Anche Deborah si è unita a quel percorso di ricerca della verità. Ma si capisce che quell’incubo non finisce nè mai del tutto.
Milano, si lancia nel vuoto con la bambina: le avevano tolto altri due figli. La madre giù dall’ottavo piano: lei muore, salva la figlia di due anni e mezzo. Cesare Giuzzi e Gianni Santucci il 23 settembre 2019 su Il Corriere della Sera. La bambina accarezza il viso della madre. La bambina ripete: «Mamma, mamma». È inginocchiata accanto a lei. I capelli biondi della madre sono impregnati di sangue, una macchia larga sul marmo del pavimento. Le 15 di ieri passate da poco, nell’androne di un palazzo signorile al 5 di viale Regina Margherita, non lontano dal centro di Milano. La madre ha abbracciato la sua bambina, 2 anni e mezzo, e s’è buttata nella tromba delle scale, dall’ottavo piano. È morta. La bambina prova a svegliarla, in quel tempo sospeso che dura pochi secondi. Poi, una dopo l’altra, iniziano ad aprirsi le porte. Gli inquilini hanno sentito un tonfo, «come se fosse caduto un armadio». S’affacciano dall’alto. Vedono. Qualcuno perde il respiro. Qualcuno si copre gli occhi. Qualcuno urla. In sette chiamano il 118. L’impiegata di uno studio legale al piano terra esce e si trova davanti la scena. Non pensa. S’avvicina. Stacca la bambina dal corpo della madre. La tira su. Se la stringe in braccio. «Vieni con me, piccola. Vieni con me. Non stare qui». Le prime sirene attraversano il traffico. Accorrono tre Volanti della polizia. Arrivano gli specialisti della Scientifica per il sopralluogo. In pochi minuti accertano: la donna, 43 anni, ha due figli (8 e 11 anni) da una vecchia relazione con l’erede di una dinastia industriale lombarda. La bambina più piccola l’ha avuta con un altro uomo. Il palazzo per uccidersi con sua figlia l’ha scelto a caso. È entrata. Al custode ha detto: «Devo andare nello studio legale». Ha lasciato il passeggino all’ingresso, ha preso l’ascensore e ha appoggiato la borsa sul pianerottolo prima di buttarsi. «La bambina è viva, è un miracolo», bisbiglia un soccorritore. In serata, dopo un intervento all’ospedale «Niguarda», diventa una certezza: la piccola non ha lesioni cerebrali, solo fratture e violenti traumi al torace e all’addome, resta in pericolo di vita per tutto il pomeriggio, in serata i medici dicono che si salverà. Il Corriere non rivela alcun dettaglio personale della donna per proteggere i suoi bambini. Nella borsa i poliziotti trovano una convocazione dal Tribunale per i minorenni per un’udienza del 26 settembre, giovedì prossimo. La vita alla deriva di questa madre è raccontata negli atti giudiziari. Laureata in legge. Praticante senza aver mai lavorato. Molto benestante, di famiglia e di relazioni. I primi due figli affidati al padre. L’ultima perizia, di lei, diceva: «Gravi disturbi di personalità, narcisista e immatura, ma no disturbo psichiatrico». Poi ha conosciuto un altro uomo. È nata la bambina, che da sempre è affidata ai servizi sociali, ma in carico alla madre. Avrebbero dovuto vivere insieme in una comunità a Milano. Ma la madre s’allontanava di continuo. Ci sono molte segnalazioni, anche sull’uso di cocaina. Negli atti (di parte) viene accusata di avere relazioni molto ambigue, di uscire dalla comunità per andare al mare o nei locali, di lasciare la bambina da sola, di aver falsificato un certificato medico per non far vedere la figlia al papà, che avrebbe diritto a stare con lei 4 ore a settimana. Soprattutto, seguito dagli avvocati Daniela Missaglia e Giuseppe Principato, da agosto l’uomo ha intrapreso un nuovo percorso legale che, più dell’affido, puntava a un obiettivo netto e urgente: la mamma è pericolosa per la bimba. Di questo si sarebbe discusso in aula tra due giorni. Alle 10 di ieri mattina la donna ha mandato un sms al suo avvocato, Federico Balconi. Diceva: «Ho scritto una piccola memoria in cui smentisco punto per punto i testimoni. Ci vediamo alle 16, vero?». Alle 15 s’è trovata per caso davanti a quel palazzo col portone spalancato su viale Regina Margherita. Ed è entrata con la sua bambina.
«La donna ha ammesso i suoi errori»: l’ultimo referto 5 giorni prima che si lanciasse dall’ottavo piano con la figlia. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Elisabetta Andreis e Gianni Santucci. Il 18 settembre, mercoledì della scorsa settimana, i servizi sociali del Comune scrivono una stringata relazione. Il documento, non più di una ventina di righe, certifica però alcuni fatti che oggi diventano cruciali. Elementi che aprono una prospettiva ancor più nera sul suicidio della donna, 43 anni, che poco dopo le 15 di lunedì scorso, 23 settembre (cinque giorni dopo quella relazione), si è lanciata dall’ottavo piano di un palazzo portando con sé la sua bambina di 2 anni e mezzo. In quel documento i servizi sociali, che hanno in affido la piccola fin da quando è nata, prendono atto che la madre non vive da tempo nella comunità alla quale è stata assegnata e dove dovrebbe passare (almeno) tutte le notti. Sostengono di averle proposto una comunità alternativa, ma che la donna l’ha rifiutata. La signora ha detto di vivere in un suo appartamento, e lo fa come se fosse libera (e non lo è) di condurre la sua vita in piena autonomia. Come se le direttive del Tribunale per i minorenni e delle autorità fossero elastiche, poco più che suggerimenti. I servizi sociali ritengono anche che, rispetto a tutto questo, la signora si sia ravveduta, «riconoscendo di aver commesso molti e gravi errori» (appunto, una continua violazione delle prescrizioni: le regole che avrebbe dovuto rispettare per vivere in comunità e in semi-autonomia accanto a sua figlia). Ecco, di fronte a questa situazione non si accende alcun allarme, non nascono sospetti, non si ritiene di dover valutare un qualche intervento d’urgenza. Il contenuto di questo documento va letto in parallelo con le richieste affannate e accorate del padre di quella bambina, che con i suoi legali Daniela Missaglia e Giuseppe Principato, dopo continue segnalazioni, a settembre ha consegnato al Tribunale un faldone di indagini difensive che contiene testimonianze, chat, foto e video: raccontano che quella madre ha istinti al suicidio, ha detto di voler uccidere la figlia, è stata denunciata per abbandono di minore, ha un giro di frequentazioni molto ambiguo. Con istanze urgenti al Tribunale del 2 settembre, 9 settembre e in un’udienza del 12 settembre, l’uomo e i suoi avvocati hanno invocato l’affido o in alternativa la protezione della bimba. L’immagine di quella donna però, dall’altra parte, è stata definita per mesi da educatori, assistenti sociali e periti, cristallizzata escludendo qualsiasi elemento di rischio. È accaduto anche con la stessa comunità di Milano che il 10 luglio, quindi due mesi e mezzo prima della tragedia, in un’altra relazione sostiene di avere il sospetto, «da settimane», che la donna non rientri neanche di notte. Si limitano a richiamarla e la invitano a riprendere gli incontri con la sua educatrice, che la donna (sempre per sua decisione) ha sospeso dalla primavera. Anche questa relazione (pur dicendo che è più serena, più sicura e che ha una ricca relazione con la bambina) dimostra che quella donna viveva di fatto in autonomia quasi totale, e senza alcuna vigilanza, o comunque con blandi richiami. L’unico elemento problematico, si ripeteva, era il conflitto col padre della bambina. La donna è morta. La piccola si è salvata, ma è ancora ricoverata in condizioni gravissime al Niguarda.
La figlia, le liti, i servizi sociali: l’inchiesta sulla madre suicida. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Elisabetta Andreis e Giuseppe Guastella. Ipotesi istigazione a carico di ignoti: in Procura le carte del Tribunale per i minori sulla morte della madre che lunedì si è lanciata dall’ottavo piano con la figlia di 2 anni in un palazzo di viale Regina Margherita.
Affido sotto esame. L’inchiesta per istigazione al suicidio è stata aperta subito dopo la morte della madre che lunedì si è lanciata con la figlia di 2 anni e mezzo dall’ottavo piano di un palazzo in viale Regina Margherita. Ma quello che avrebbe dovuto essere un «contenitore» formale per fare tutti gli accertamenti necessari e di routine, come avviene sempre in questi casi, a breve inizierà a «riempirsi» di una mole di documenti sulla storia della donna di 43 anni e della sua bambina (che si è salvata ma è ancora in condizioni gravissime al «Niguarda»). Il sostituto procuratore Maura Ripamonti, titolare del fascicolo, ha chiesto infatti al Tribunale per i minorenni di Milano tutta la documentazione sulla vicenda dell’affido della bambina, che fin dalla nascita è stata in carico ai servizi sociali. Allo stesso modo di altri fatti di questo genere, di fronte a una persona che decide di uccidersi, l’istigazione al suicidio viene ipotizzata contro ignoti e non ha alcun legame con quello che è accaduto prima. In questo caso però esiste una battaglia legale tra i genitori, contenuta negli atti in possesso dei giudici minorili: documenti che dovranno essere esaminati dal o Ripamonti per valutare se esistano responsabilità di qualcuno e di che genere siano. Il che potrebbe, eventualmente, anche far modificare le accuse. L’inchiesta della Procura avrà dunque l’obiettivo di mettere ordine in quella storia cristallizzata in migliaia di pagine, che comprendono relazioni dei servizi sociali e degli educatori della comunità che ospitavano madre e figlia, perizie di parte o ordinate dai giudici, memorie e indagini difensive. Migliaia di pagine in cui si trovano due ricostruzioni totalmente opposte della realtà. Da una parte, la donna si descrive unicamente vittima di un complotto per sottrarle figlie (già due sue bambine erano state affidate al padre). Una linea sulla quale esiste una generale concordanza con le relazioni dei servizi, della comunità e dei consulenti di parte. Di fatto, emerge l’immagine di una donna che aveva una buona relazione con la figlia e che, pur con parecchie mancanze nel rispetto delle regole, si stava avviando verso un’autonomia. Dall’altra parte, sempre al Tribunale per i minorenni sono raccolte le decine di istanze del padre della piccola, rafforzate anche da corpose indagini difensive, in cui la donna era accusata di usare cocaina, di aver abbandonato in qualche caso la figlia da sola (su questo esiste anche una denuncia penale a Brescia), di avere frequentazioni ambigue, di essere psicologicamente instabile di aver manifestato più volte istinti suicidi. L’ultima richiesta di proteggere la bambina risale a tre ore prima del suicidio. L’unico punto di contatto, al momento, è l’ammissione della donna di alcune sue mancanze: «L’avere a volte disatteso i regolamenti della comunità, così come tutte le altre sciocchezze — si legge nella sua ultima memoria difensiva — sono state fatte esclusivamente per quello che io ritenevo il bene della mia bambina». Il punto chiave però, per la donna, era chiarire di essere vittima di attacchi e false accuse da parte del padre.
GLI ORCHI, LA FAMIGLIA, LA POLITICA. Franco Bechis su Bibbiano: "Pensavo usassero il caso contro il Pd, poi ho letto le carte". La scoperta-shock. Libero Quotidiano il 23 Settembre 2019. "Bibbiano è Italia, è Europa, è il mondo, è lo specchio della decadenza di una civiltà". Franco Bechis, sul Tempo, spiega perché è giusto continuare a parlare dell'indagine sullo scandalo adozioni della cittadina nel Reggiano. Un caso di cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni parlano da mesi, e che di contro il Pd che vede alcuni suoi esponenti coinvolti sta trascurando. Il direttore è intervenuto ad Atreju, la festa di FdI, per moderare un dibattito sul tema, chiamato direttamente dalla Meloni. "Ho sempre una certa diffidenza - confessa Bechis - sull'uso delle inchieste giudiziarie come arma politica e giornalistica (sconsiglio ai politici di farlo, prima o poi questo metodo si ritorcerà con chi lo impugna), e ancora più pudore avevo avvicinandomi a quelle cronache sulle vite di minori, spesso bambini, strappati alle famiglie naturali con provvedimenti autorizzati dalla magistratura". Anche perché chi come il M5s prometteva "Noi con il partito di Bibbiano mai" dopo un paio di settimane è stato pronto a "infilarsi proprio con quel partito nello stesso letto matrimoniale con gran piacere". Insomma, chiosa il direttore, "era chiaro l'uso strumentale del caso Bibbiano". Poi però, pungolato dalla Meloni, ha letto con attenzione tutte le carte dell'inchiesta ed è arrivato a una conclusione: "Aldilà delle responsabilità penali personali che verranno stabilite nei processi, dietro il caso Bibbiano c'è una questione culturale e antropologica profonda". Migliaia di bambini sono stati sottratti ai padri e madri naturali per venire affidati a "cooperative o comunità che fanno quel mestiere, coppie o unioni civili dello stesso sesso preferite alla famiglia originaria". I numeri del "modello Emilia Romagna" sono impressionanti: "Nei comuni della Val d'Enza cui appartiene anche Bibbiano c'erano nel 2016 1.900 bambini affidati ai servizi sociali. I minorenni in quelle stesse terre erano 12mila, quindi quelli con situazioni familiari difficili o impossibili erano addirittura il 16%. Quindi o eravamo in terre abitate solo da orchi e orchesse, o altro che modello, quella di Bibbiano era invece una anomalia che avrebbe dovuto fare saltare tutti sulla sedia e indagare per capire cosa era accaduto". Il nemico, suggerisce Bechis, forse non sono gli orchi "ma la stessa famiglia naturale. Perché retrograda, perché ancorata a vecchi stili di vita, perché non abbastanza evoluta dal punto di vista culturale, magari semplicemente perché povera. In molti di questi casi sarebbe bastato dare un aiuto economico alle famiglie naturali e i problemi sarebbero stati facilmente risolti, e a costo assai minore da quello sopportato dai servizi sociali attraverso l'affido a cooperative o case famiglia dove il costo di mantenimento di un bimbo oscillava fra 100 e 200 euro al giorno e talvolta anche molto di più". Simbolicamente, conclude Bechis, oggi al governo c'è proprio il partito di Bibbiano, "che ha le sue radici culturali in parte del Pd, ma anche dentro il M5s e nell'Italia viva di Matteo Renzi". E chi ha a cuore la famiglia naturale è all'opposizione.
Metodo Bibbiano: la storia di Mina e i “diavoli della bassa modenese”. Le Iene il 4 ottobre 2019. Matteo Viviani racconta la terribile storia di Mina e Najib. Le loro figlie sono state allontanate dalla famiglia per presunti abusi sessuali, raccontati dalle bambine 4 anni dopo essere state allontanate, in un centro che aveva già raccolto i racconti dei bimbi coinvolti nel caso dei “diavoli della bassa modenese”. False relazioni dei servizi sociali per sottrarre i bambini alle famiglie d’origine e affidarli a pagamento ad altre famiglie? Una vicenda incredibile, che ha inizio il 27 giugno scorso, quando i carabinieri portano a compimento l’operazione chiamata “Angeli e demoni”. Funzionari pubblici, assistenti sociali, medici e psicologi avrebbero, stando alle accuse, manipolato le testimonianze dei minori per allontanarli più facilmente dalle famiglie, mandandoli in affido e sottoponendoli a un ciclo di cure psicologiche a pagamento. Tutto parte nell’estate del 2018, quando sul tavolo della Procura di Reggio Emilia arrivano numerosissime segnalazioni di abusi sessuali sui minori. Segnalazioni che arrivano tutte dal servizio sociale della Val d’Enza, un gruppo di comuni del nord Italia che ha sede a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Gli investigatori piazzano cimici e avviano intercettazioni: per la Procura si è scoperchiato un sistema ben collaudato. Ma come funziona questo sistema? Dopo una segnalazione generica, magari quella di una famiglia in difficoltà o di maltrattamenti, si allontana subito il minore, che viene preso in carico dai servizi e avviato a un lungo percorso di psicoterapia pagato dal Comune. E quelle sedute di psicoterapia vengono fatte da una onlus piemontese, il Centro studi Hansel e Gretel. Da quel momento i bambini iniziano a raccontare di abusi sessuali terribili durante le sessioni. Ma quegli incontri si sarebbero svolti in modo assolutamente inconsueto. Un bimbo di 8 anni sta parlando con una psicoterapeuta, oggi indagata, che travestita da lupo finge di essere il papà del bambino. Questo, secondo il gip di Reggio Emilia, è fatto “per alterare lo stato psicologico ed emotivo del bambino rispetto ai propri genitori e alla loro condotta”. E dopo essere arrivato addirittura a far immaginare al piccolo la morte dei genitori. “Dobbiamo fare una cosa grossa, vedere tuo padre per come è nella realtà e sapere che quel papà non esiste più. È come se dovessimo fare un funerale”: un modo per costruire nella mente dei piccoli un ricordo di abusi. “Ma tu sentivi qualcosa là sotto nella patatina?”, dice a una bambina di 9 anni la psicologa, quando la piccola le dice di stare pensando agli abbracci di suo papà nel lettone. E quando la bimba dice un secco no a quella domanda, la psicologa insiste chiedendole se lui si muoveva. Lei, confusa da quella domanda che non capisce bene, risponde “un po’” e allora la dottoressa tira la somma: “Eh, faceva sesso!”. Ma a quanto pare, visto che la bimba non ha mai parlato di violenze, la psicologa sarebbe arrivata addirittura a modificare un disegno della bambina, aggiungendo elementi di chiara connotazione. Dopo un anno la bimba è tornata a casa dai suoi genitori. Quella di Bibbiano è una tragedia forse già accaduta, come nel caso dei “diavoli della bassa modenese”, di molti anni prima. Un caso tornato alle cronache dopo 20 anni a seguito dell’inchiesta dei nostri colleghi Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che lo hanno raccontato nel libro “Veleno”. Una storia che avrebbe molti punti in comune con le vicende di Bibbiano. Nel Modenese sono 16 i bambini allontanati dalle proprie famiglie, per accuse di pedofilia, satanismo e omicidi. Patrizia Micai, un avvocato che da 20 anni lavora al caso dei diavoli, dice al nostro Matteo Viviani: “Come può essere che all’improvviso dei bambini vedano i diavoli, le bare, i morti? È un fatto inquietante”. Noi de Le Iene abbiamo trovato una storia del passato in cui gli attori principali sono proprio quei professionisti legati al caso della bassa modenese. Una storia che sembra raccontare un metodo fuori da ogni regola. La storia di Najib e di sua moglie Mina. Najib è il padre di due ragazze che non vede da quando sono bambine. Mina è la mamma, le figlie le sono state portate dai servizi sociali appena arrivate in Italia dalla Tunisia. Siamo all’inizio del 2000: dopo la nascita della seconda figlia la donna divorzia e si sposta dalla Tunisia arrivando in Italia, dove trova un nuovo compagno. Due anni dopo, nel 2006, le bambine raggiungono la madre in Italia ma accade che il suo nuovo compagno inizi a maltrattare le bimbe. Mina si presenta al pronto soccorso, dove vengono notati i segni di quelle botte. “All’ospedale i dottori fanno tutte le visite – racconta la donna - e attivano i carabinieri, oltre a un’equipe specializzata in maltrattamenti”. Mamma e bimbe vengono prese in carico dai servizi sociali e mandate in una comunità protetta. Qui però le cose sembrano non procedere bene, tanto che una relazione dei servizi dice che la madre non si interessa alle figlie e che è capitato che uscisse senza di loro. Mina nega con tutte le sue forze, spiegando al nostro Matteo Viviani che non era possibile in alcun modo uscire da quella struttura. “Incapacità genitoriale” scrivono i servizi in una loro relazione e allora il tribunale per i minori chiede di collocarle in un ambiente protetto, “non necessariamente con la madre”. “Sono arrivate le assistenti sociali con i carabinieri, non mi hanno detto che volevano togliermi le bambine, ma le hanno prese”. Le due figlie di Mina vengono portate in una comunità per minori, lo stesso centro che anni prima ospitava alcuni dei bimbi del caso dei “diavoli della bassa modenese”. “Era il luogo dove questi bambini venivano ascoltati”, spiega l’avvocato Patrizia Micai. Le relazioni di quel centro piemontese, dove vengono portate le figlie di Mina, sono firmate dalla psicologa Valeria Donati, che nel caso Veleno aveva raccolto le dichiarazioni del bambino zero, il bambino da cui tutto è partito”. “Prima di essere allontanato dalla famiglia, mesi prima, questo bambino non aveva mai detto nulla”, spiega ancora il legale. Le relazioni della Donati a quei tempi parlavano di funerali, di bambini seppelliti vivi, di bambini che uccidevano altri bambini. Un orrore inimmaginabile. Intanto le figlie di Mina, dopo sei mesi in quel centro, a raccontare che le botte non arrivavano solo dal nuovo compagno della madre ma anche da lei stessa. “Non ho mai picchiato le mie bambine, le amavo tantissimo”, racconta con le lacrime agli occhi Mina. La donna tenta di vedere le figlie ma questo non fa che peggiorare la situazione: i servizi scrivono che lei “è poco lucida e concentrata solo su se stessa” . A scriverlo è Federica Anghinolfi, una delle principali indagate per i fatti di Bibbiano, accusata di aver falsificato documenti per dimostrare abusi che alcuni dei bambini non hanno mai davvero raccontato. Mina si separa dal nuovo compagno, trova un lavoro ben pagato e va a vivere per conto proprio: nella nuova casa ha già le due stanze pronte per le bimbe ma niente da fare, le bimbe non tornano. Le può vedere solo per 45 minuti al mese, sempre sotto lo stretto controllo degli assistenti sociali. “Le bambine pensavano che io le avessi lasciate lì, erano cambiate, piangevano sempre”, racconta la donna. Ma le relazioni degli assistenti sono impietosi con la madre e spiegano che è solo lei a cercare il contatto fisico con le bimbe, come per dimostrare che le bambine non vogliano avere contatti con lei. All’incontro del mese però succede una cosa terribile: la bimba piange e quando la madre chiede il perché lei dice che aveva dormito con un uomo. Mina è sconvolta e dice all’assistente sociale che, se fosse stato vero, l’avrebbe uccisa. La madre chiede una prova ginecologica, che però non verrà mai concessa. Per gli operatori del centro Mina è diventata aggressiva nei loro confronti, tanto che viene processata e condannata a dieci mesi per violenza e minacce a pubblico ufficiale. Mina viene dichiarata parzialmente incapace di intendere e di volere: gli incontri con le figlie vengono sospesi e da allora la mamma non vede più le bambine. Ma la cosa ancora più incredibile è che nessuno abbia mai cercato il genitore naturale delle bambine, come dovrebbe essere per legge. Anzi, è il contrario. Il padre infatti ha presentato dieci diverse domande per potere vedere le figlie, dichiarandosi disponibile a occuparsene. L’uomo arriva a lasciare il paese d’origine e il lavoro per raggiungerle in Italia, mentre gli assistenti sociali scrivono che lui si è sempre disinteressato di loro. E quando Najib si presenta ai servizi di Reggio Emilia, viene cacciato e anche al Tribunale dei minori gli chiudono la porta in faccia. Il padre chiede ufficialmente l’affidamento delle figlie ma i servizi sono irremovibili. Gli negano anche gli incontri protetti con le bambine, chiesti da un giudice. Dopo una battaglia durata 9 anni Najib ottiene la certificazione giudiziaria che non ha mai abbandonato le bambine. Alla fine però ci si limita a un’audizione delle bambine, a cui però non viene detto che il padre le sta cercando, “per non destabilizzarle”. La madre inizia uno sciopero della fame e proteste tra Reggio Emilia e il Parlamento ma nel 2009 da quella comunità parte una nuova segnalazione contro di lei. A firmare è la responsabile del centro, la psicologa Valeria Donati, che accusa la madre di fatti infamanti: abusi sessuali e prostituzione minorile (le bambine sarebbero state abusate da uomini che la mamma portava a casa). Accuse basate sulle dichiarazioni della figlia maggiore di Mina, ma a 4 anni dall’allontanamento. Una storia incredibile di abusi e anche orge, anche alla presenza del secondo compagno della madre. Le relazioni con le presunte dichiarazioni delle bimbe sarebbero però piene di contraddizioni tra loro. Si parla addirittura di una valigia piena di soldi, coi proventi della prostituzione, che sarebbe stata sotto al letto della madre. Una valigia mai trovata. Vi facciamo notare una “piccola” incompatibilità: la psicologa Donati era responsabile della psichiatria, della comunità dove le piccole erano ospitate e “portavoce” di questa denuncia gravissima. “Come musulmana, se dormo con un uomo che non è mio marito è un grande peccato per la mia religione e per la mia morale”, aggiunge Mina. Come anche per i casi della bassa modenese, anche qui ciò che la Donati relazionava ai giudici non si sarebbe basato su registrazioni video né audio, né su relazioni di quegli incontri con le minori. In quel procedimento Anna Cavallini, perito del tribunale di Modena, è incaricato di verificare le dichiarazioni delle piccole. La stessa Cavallini era già stata perito del tribunale di Modena in uno dei processi ai “diavoli”. Ma le dichiarazioni delle piccole cambiano col tempo. All’inizio la bambina dice di non aver assistito direttamente alle violenze sulla sorella. Poi però cambia versione, aggiungendo che la sorella era presente e veniva abusata insieme a lei. Racconti francamente incredibili, con la bimba che parla di violenze avvenute addirittura in un bagno di un bar. Il risultato della visita ginecologica, 4 anni dopo l’allontanamento, è chiaro: abusi. La relazione però cita 11 indicatori di presunta violenza che un medico chirurgo specializzato in pediatria, sentito da Matteo Viviani, definisce così: “Possono essere fattori normalissimi, fin dalla nascita, in alcune bambine. Sono normali varianti della fisiologia e dell’anatomia umana, ma qui vengono poste come elementi sicuri di abuso. Su 11 indicatori citati, c’è un solo elemento che può essere ricondotto a un trauma o a un contatto sessuale . Difficile però pensare che una bambina di 5 anni venga sodomizzata con una penetrazione completa e poi la mattina dopo possa andare tranquillamente all’asilo. È un po’ inverosimile”. Relazioni però sulla base delle quali Mina è stata condannata a 8 anni di carcere per maltrattamenti e prostituzione minorile. Ma la volete sapere la cosa più incredibile? La figlia più grande di Mina viene adottata da una famiglia che abita nello stesso comune della Donati. La piccola? Addirittura dalla stessa Donati! Matteo Viviani si reca dalla psicologa ma lei non ha niente da dire. “Io non parlo di queste cose sulla stampa”. E intanto ci sono due genitori che non vedono più le proprie figlie da anni.
Bibbiano, Mauro Grimoldi a Pietro Senaldi: "Delirio di onnipotenza degli psicologi". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. «Bimbi sottratti ingiustamente ai genitori? Ci sono tanti casi in Italia, quanto successo a Bibbiano non è un' eccezione, lo sa qualsiasi psicologo giudiziario. C' è una falla nel sistema, una patologia da sanare, anticorpi che non si attivano». Mauro Grimoldi, ex presidente dell' Ordine degli Psicologi della Lombardia, consulente del tribunale di Milano ed esperto nella valutazione di minori autori di reato ne ha viste tante e ha deciso di squarciare il velo delle ipocrisie. Non c' è nessuno scandalo politico, non esiste un partito di Bibbiano «e sono convinto anche che non ci sia nessun traffico, nessuna compravendita di bambini; almeno io, nella mia esperienza, non ne ho mai avuto il sentore. Tuttavia Bibbiano ha scoperchiato un enorme e reale problema». Grimoldi ci tiene a mettere subito in chiaro le cose, perché questa non è un' intervista scandalistica, ma solo la testimonianza di un professionista di grande autorevolezza che svela le proprie convinzioni dopo decenni di esperienza sul campo. La storia che ci ha raccontato è inquietante: il destino di adulti accusati di reati che generano stigma e suscitano spontaneo sdegno e orrore, o quello di bambini che hanno l' unica colpa di essere figli di genitori che si separano in modo conflittuale è affidato allo Stato. «Sbagliare per eccesso o difetto di tutele in questo caso produce sempre un disastro che deve essere evitato in ogni modo. La sorte di bimbi e genitori si dovrebbe giocare su fatti e indagini accurate, verificabili, eppure può capitare che qualcuno agisca sulla base di preconcetti ideologici» è la denuncia dello psicologo.
Dottor Grimoldi, com' è possibile che uno psicologo indichi la necessità di togliere un bimbo a una madre e a un padre senza che ci siano inconfutabili prove di incapacità genitoriale?
«È un tema di esercizio del potere, tema che mette sempre il singolo di fronte alla tentazione dell' onnipotenza. La verità che conoscono tutti gli addetti ai lavori è che esiste una nicchia minoritaria di psicologi e psichiatri cui viene affidato un compito delicatissimo, quello di esprimersi sulla capacità a testimoniare di una presunta vittima di violenza, oppure sulle capacità genitoriali di qualcuno, e che agisce sulla base di pregiudizi. Il loro ruolo, anziché ricercare la verità, diventa quello di dimostrare una tesi, di fare giustizia. Diventano dei missionari. Quando nel lavoro si incontra questo genere di consulenti d' ufficio ci si accorge che ogni dialogo o prova a discolpa portata dagli esperti di parte è inutile. Lo psicologo del tribunale conosce le conclusioni cui deve arrivare prima di iniziare. È un gravissimo problema per le conseguenze sociali dell' operato di questa minoranza di colleghi».
Questo può segnare la vita, e talora anche la morte, di cittadini comuni, che potremmo essere anche noi e i nostri figli.
«Non dovrebbe succedere, e nella maggioranza dei casi non succede. Avremmo tutti gli strumenti necessari per evitarlo, anzitutto il confronto tecnico con i consulenti nominati dalle parti in causa, ma anche i test e l' osservazione della relazione dei bambini con i genitori condotta con metodi esistenti, obiettivi e verificabili. Lo psicologo dovrebbe sempre confrontare le proprie convinzioni con la possibilità che la verità possa essere diversa. È ciò che distingue un percorso scientifico dall' ideologia. Per questo è particolarmente odiosa l' idea che il tecnico, cui è affidato un compito delicatissimo, in realtà possa talora lavorare secondo una posizione pregiudiziale, tendendo semplicemente a verificare una convenzione preordinata. Ci sono, in sintesi due modalità di approccio all' esecuzione di un compito tecnico di valutazione. Una consiste nel continuo tentativo di falsificare le proprie convinzioni, le si verifica pensando a soluzioni alternative, l' altra può essere definita confermativa di una posizione data. Si tratta di una questione etica, di tensione ideale nell' esercizio del proprio compito».
Come avviene che si dimostri che una famiglia non è adeguata o che un bambino è vittima di violenze che invece non ha subito?
«In astratto manipolare un bambino è facile. Fino a sei anni i minori sono totalmente suggestionabili, è ancora forte in loro il pensiero magico, che gli impedisce di cogliere il nesso tra causa ed effetto. Ma in realtà fino a dieci anni il bambino non ha una personalità tale da contraddire l' autorità esterna».
Lo si manipola promettendogli dei premi?
«Non serve, basta suggerirgli le risposte, chiedergli "è vero che è successa quella cosa?", per sentirsi confermare ciò che ci si aspetta. Ma in realtà è sufficiente che il bambino intuisca che ci si aspetta da lui una frase perché la dica spontaneamente. È così che la verità psicologica deforma la realtà e ne crea una parallela, sbagliata, che diventa però quella giudiziaria, e quindi, per gli effetti che produce, reale più di quella vera».
In sostanza gli si riesce a far dire quel che si vuole?
«Sì, se conduci le indagini in maniera suggestiva o senza adeguata preparazione sulla conduzione di audizione a minori. Qualcosa del genere è accaduto qualche anno fa nel caso di Rignano Flaminio».
Ma perché uno psicologo dovrebbe avere interesse a togliere un bambino ai genitori?
«Non è una questione di interesse. Direi che quella che ho definito, e ripeto essere, una patologia del sistema deriva da due tipi di pregiudizio».
Quali sono questi pregiudizi?
«Ruotano quasi sempre intorno al tema, evidentemente rilevante, della violenza e dell' abuso. Ci sono i negazionisti, che quando incontrano vissuti di violenza e di vittimizzazione nel corso di vicende di separazione conflittuale, fingono indifferenza e fanno di tutto per negarla sistematicamente. Recentemente nel corso di una consulenza, un bambino per quattro volte in un' ora ha cercato invano di raccontare le violenze cui aveva assistito per molti anni, e la consulente attivamente cambiava argomento. L' ideologia che c' è alla base spesso cerca di privilegiare, sempre e comunque, la famiglia tradizionale. Poi ci sono i cosiddetti abusologi, quelli che mirano alla dimostrazione della colpevolezza di autori di reati di violenza e abuso. Con Bibbiano si è arrivati a sospettare la manipolazione di colloqui e test. Sono convinto non solo che in astratto possa succedere ma anche di averlo visto accadere e di averlo segnalato».
Questi psicologi alla Bibbiano agiscono come santoni?
«Direi che si comportano più come missionari ciechi. Pensano di dover dimostrare una verità, e alla fine la trovano anche dove non c' è».
Diciamola tutta: gli psicologi in giudizio possono arrivare a creare una realtà che non esiste?
«L' errore qui ha cause spesso multiple e conseguenze gravi, su adulti e minori: stravolge le loro vite, le distrugge e le ricrea, producendo effetti catastrofici. Ma questo non succede solo con i minori».
Cosa intende?
«Nei processi penali, per esempio, ancora oggi lo psicologo talvolta cerca connessioni tra la personalità e lo stile di vita di un individuo e la possibilità che abbia commesso il reato».
Ma questo non è normale?
«Non dovrebbe esserlo, è vietato dall' articolo 220 del codice di procedura penale, e perfino i trattati di psichiatria forense segnalano questo come un errore grave. Ma ancora oggi ci sono giudici che chiedono se la personalità di un soggetto è coerente con la commissione di un reato o con l' esserne vittima. E psicologi che accettano di rispondere. È una metodologia lombrosiana. Sostenere che se hai un tratto somatico inquietante sei un criminale non è molto diverso dal cercare correlazioni tra un tratto della personalità e il fatto che tu abbia commesso un reato. Le prove processuali per giustificare una condanna, come un provvedimento d' affido, devono essere oggettive, non presuntive, o probabilistiche».
I giudici hanno colpe in questi affidamenti su presupposti sbagliati?
«Il giudice ha una competenza giuridica e un tempo limitato a disposizione: è naturale che si avvalga di consulenti, spesso molto validi».
Quindi il giudice è completamente manovrabile dagli psicologi?
«No. Il giudice deve affidare al consulente un compito tecnico, ma ha gli strumenti per difendersi dagli psicologi ideologizzati. I consulenti tecnici sono scelti dal magistrato tra esperti con una competenza molto specialistica. I nomi si conoscono. Se qualcuno raggiunge sempre le stesse conclusioni, è difficile che passi inosservato. Specie nelle realtà di provincia, come Bibbiano. Sono certo che il giudice, quando legge una relazione, è messo in grado di capire se le argomentazioni dello psicologo sono pretestuose o non adeguatamente motivate, specie leggendo attentamente anche le relazioni dei consulenti di parte, che sono il primo anticorpo alle perizie basate su pregiudizi».
L' esplosione del caso Bibbiano potrà in futuro sanare in qualche modo la patologia dei bimbi dati in affido con leggerezza?
«Me lo auguro ma non è facile. Trovo preoccupante che un grave problema tecnico venga strumentalizzato politicamente, perché sposta il focus».
In concreto cosa si può fare?
«Gli assistenti sociali coinvolti in casi così delicati dovrebbero avere un carico di lavoro non eccedente quanto umanamente sopportabile, ed essere affiancati da supervisioni costanti e competenti. I giudici e i consulenti dovrebbero valorizzare il contraddittorio tecnico come momento prezioso, di verifica e di garanzia. E gli Ordini degli Psicologi, infine, hanno il compito di garantire la qualità degli interventi dei propri iscritti. È una priorità l' intervento disciplinare sui casi critici, senza timore di comminare sanzioni che impediscano di nuocere a coloro che espongono le famiglie a sofferenze evitabili. Però il caso Bibbiano potrebbe produrre effetti negativi anche al contrario».
A cosa si riferisce?
«Alla donna che si è buttata dall' ottavo piano pochi giorni fa a Milano con il bimbo di tre mesi in braccio. Non escludo che la suggestione dello scandalo di Bibbiano abbia generato un eccesso di cautele rispetto a un intervento necessario». Pietro Senaldi
Sciacalli, fake e caccia alle streghe, tutta la verità sul caso Bibbiano. Simona Musco l'11 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il presidente del tribunale dei minori smonta il caso. Secondo Giuseppe Spadaro sarebbe necessaria la figura di un legale che tuteli gli interessi dei minori. Il cosiddetto “Sistema Bibbiano” non esiste. Non esistono i «bambini portati via alle loro famiglie per fare quattrini», né migliaia di casi di ragazzini “rapiti” senza motivo dagli assistenti sociali. Una certezza emersa durante una riunione voluta dal presidente del Tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, che lo scorso 13 settembre ha incontrato i responsabili dei servizi sociali della province di Reggio Emilia, impegnati sui diversi fascicoli provenienti dalla Val d’Enza, finita al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. E se un sistema è emerso dopo quell’inchiesta giudiziaria, che ha tentato di fare luce su nove casi sospetti di affido, è quello dello «sciacallaggio» mediatico e politico. Che ora rischia di provocare un effetto anche peggiore: una sfiducia nelle istituzioni e, quindi, una riduzione delle denunce per maltrattamenti. Così come rischiano di diminuire le famiglie disposte a farsi carico dei minori allontanati dal proprio nucleo familiare, destinati così a finire in comunità. L’allarme è stato lanciato nel corso della riunione voluta da Spadaro, durante la quale si è discusso degli esiti dell’analisi effettuata su ben cento casi risalenti agli ultimi due anni e provenienti dalla zona interessata dall’inchiesta. Un’attività di approfondimento preceduta da quella relativa ai nove fascicoli finiti in “Angeli e Demoni”. Di questi, sette sono stati chiusi con un ricongiungimento dei bambini ai loro genitori, avvenuto ancor prima dell’emanazione dell’ordine di custodia cautelare. Una decisione presa su segnalazione degli stessi servizi sociali e per merito dell’attività istruttoria svolta dal tribunale, dopo aver constatato il rientro della situazione di pregiudizio. Ma anche ciò è stato usato strumentalmente: sebbene il ricongiungimento sia avvenuto prima degli arresti, la notizia è stata diffusa solo pochi giorni dopo l’operazione, alimentando l’idea che un sistema esiste ed è marcio. Per altri due casi, più complessi e frutto di segnalazioni anche da parte di insegnanti e medici, il tribunale ha deciso di effettuare un’ulteriore indagine, affidando l’incarico ad un altro servizio sociale e nominando un consulente. Ma l’analisi è andata ben oltre, appurando come su cento richieste di affido 85 sono state respinte. Un esito confortante, dunque: il sistema degli affidi, al di là delle possibili storture, funziona, perché può contare anche su procura minorile e tribunale, che accertano la fondatezza delle segnalazioni. Un lavoro che richiede qualche mese di tempo, ma che rappresenta il filtro necessario per evitare traumi inutili. Lo studio, dunque, dà una certezza: al netto della patologia imprevedibile, costituita da singoli assistenti sociali e psicologi disposti a commettere un reato, non esiste una macchinazione finalizzata a strappare i bambini ai propri genitori per lucrarci su, così come descritta nei mesi scorsi. Un messaggio devastante, ha sottolineato nel corso della riunione Spadaro. Ma se tale visione ha preso piede, la colpa è anche e soprattutto della strumentalizzazione, spesso a fini politici, della vicenda, con la conseguenza, denunciata dai servizi sociali, che ora tutto il sistema è in difficoltà. E di bambini realmente maltrattati «ce ne sono a migliaia». Le criticità, però, non mancano. E tocca al legislatore – ora affiancato dalla “task force” del ministro della Giustizia – risolverle, ha sottolineato durante il vertice Spadaro. Che ha avanzato dei suggerimenti, come quello di nominare «un curatore speciale, con un avvocato per ogni minore, a prescindere dai genitori». Ma il primo punto su cui intervenire, ha sottolineato, è l’articolo 403 del codice civile, per ridurre il potere autonomo in via d’urgenza in capo ai servizi sociali, che consente loro di effettuare allontanamenti in via temporanea. Sarebbe utile, poi, accordare maggiori poteri giurisdizionali di controllo ai giudici minorili, con modifiche sulla procedura per una maggiore partecipazione nel rispetto del contraddittorio e un aumento delle piante organiche dei tribunali dei minori. Rimane la preoccupazione per gli effetti mediatici della vicenda. «Trovare persone disposte a prendere in carico bambini con così grossi problemi è difficile – ha evidenziato Spadaro nel corso della riunione – e ora lo sarà ancora di più. Sono persone straordinarie, disposte a prendersene cura pur non avendo la certezza che un giorno saranno i loro genitori». Un problema che si associa allo scoramento dei servizi sociali. «Se ci sono 17 mele marce – ha aggiunto non si possono buttare via 10mila assistenti sociali».
«A Bibbiano un sistema sano». Il Pd cerca di “cancellare” lo scandalo e vuole le scuse. Leo Malaspina giovedì 10 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. «Su Bibbiano qualcuno chiederà scusa al Partito democratico per mesi e mesi di calunnie?», si domanda il deputato del Pd Ubaldo Pagano. La faccia tosta è clamorosa, ma non è l’unica. Da questa mattina, sulle bacheche dei militanti del Pde anche di alcuni parlamentari, è tutto un fiorire di commenti. Lo scandalo degli affidamenti del paesino emiliano, che vede coinvolto anche il sindaco dei Democratici, sembra essere diventato una fake news. «Dovranno chiederci scusa», «Ecco, avete visto?», «A Bibbiano non è accaduto nulla». Il motivo?
La faccia tosta del Pd: su Bibbiano vuole le scuse. Cos’è successo? La novità è una dichiarazione del giudice del Tribunale dei minori di Bologna, secondo cui – a parte i casi accertati di abuso, 15 su cento – «il sistema dei servizi sociali era sano». Sano perché a fronte di un centinaio di segnalazioni di affidi illeciti o scorretti, in 85 casi non si è arrivati all’allontanamento dei bambini, archiviando le denunce arrivate. Ma va chiarito che i casi “sospetti” non sono affatto il 15%. «In una trentina di casi difficili i giudici hanno deciso l’affido esplorativo. I ragazzi non sono stati allontanati dalla famiglia ma i servizi sociali sono stati chiamati a sostenere genitori e figli per superare eventuali momenti di fatica. Su 100, infine, solo in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. La decisione è arrivata soltanto dopo verifiche approfondite svolte dai consulenti incaricati», spiega l’edizione di Repubblica Bologna, citando il Tribunale dei Minori. L’indiscrezione sarebbe emersa a margine di una riunione voluta dal presidente Giuseppe Spadaro per fare il punto della situazione dopo l’indagine “Angeli e Demoni”.
«Il sistema è sano, a parte le mele marce…». Secondo quanto spiega Repubblica, Monica Pedroni, nuova dirigente dei servizi con sede a Bibbiano, avrebbe rassicurato gli operatori: « Se vi sono state mele marce che hanno tentato di frodarci processualmente devono essere giudicate dalla magistratura e punite in maniera severa. L’assistente sociale è di fatto come la polizia giudiziaria per un pm, dunque chi ha sbagliato dovrà essere punito». Secondo il presidente Spadaro il “sistema” ha dimostrato nel suo complesso di essere sano: « Voi servizi sociali svolgete un delicato e fondamentale ruolo nel nostro Paese di tutela dei minori, non mollate e continuate a lavorare con prudenza, professionalità e coraggio». Nel complesso, significa che il 30% dei casi è sospetto: se vi sembrano pochi… In una trentina di casi, infatti, i giudici hanno deciso per «l’affido esplorativo»e in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. Numeri che – se confermano che non tutti a Bibbiano erano corrotti o in malafede, tra gli operatori sociali, com’è ovvio – non sgonfiano affatto lo scandalo. Anzi, ne confermano la gravità.
Bibbiano, respinti otto allontanamenti su 10. Il Tribunale dei minori: «Il sistema ha retto». Il presidente Spadaro fa il punto: «Se ci sono mele marce devono pagare». Redazione, Giovedì 10/10/2019, su Il Giornale. Sono passati tre mesi dall'esplosione dell'inchiesta della Procura e dei carabinieri sulla drammatica vicenda di Bibbiano, in val d'Enza. Un centinaio di bambini allontanati ingiustamente dalle famiglie, l'accusa. Psicologi, psicoterapeuti e assistenti sociali sotto inchiesta, anche il sindaco di Bibbiano coinvolto nel caso. Adesso l'intera vicenda viene ridimensionata da Giuseppe Spadaro, presidente del tribunale dei minori di Bologna. Ma ciò non significa che si possa fare come se non fosse mai accaduto nulla, perché le segnalazioni - rivelatesi per lo più infondate - sono partite o transitate attraverso i servizi sociali e così il sistema di verifiche sembra aver bisogno di un'importante revisione. «Su cento segnalazioni solo in 15 casi i giudici hanno accolto le richieste di allontanamento» sintetizza Giuseppe Spadaro, facendo il punto della situazione dopo l'indagine ribattezzata in modo inquietante «Angeli e Demoni». Alla riunione voluta da Spadaro , come riporta Repubblica.it, hanno preso parte i responsabili dei servizi sociali della province di Reggio Emilia impegnati sui diversi fascicoli della Val d'Enza. E Spadaro avrebbe rassicurato gli operatori: «Se vi sono state mele marce che hanno tentato di frodarci processualmente devono essere giudicate dalla magistratura e punite in maniera severa. L'assistente sociale è di fatto come la polizia giudiziaria per un pm, dunque chi ha sbagliato dovrà essere punito». Ma il sistema nel complesso sarebbe sano: «Voi servizi sociali svolgete un delicato e fondamentale ruolo nel nostro Paese di tutela dei minori, non mollate e continuate a lavorare con prudenza, professionalità e coraggio». Come spiega Spadaro, su cento fascicoli esaminati non è stata riscontrata nessuna anomalia, ma c'è voluta tutta l'estate per passare allo scanner le richieste di provvedimenti per i minori della Val d'Enza. Questo periodo è stato usato dai magistrati per controllare la regolarità degli allontanamenti dei bambini dalle loro famiglie. Il dato emerso, per i giudici, è confortante. Eppure, ad approfondire che cosa si nasconde dietro le statistiche, ovvero l'odissea di intere famiglie, i numeri dicono che su un centinaio di segnalazioni dei servizi di Bibbiano, con i quali si prospettava l'allontanamento dei bambini, in 85 casi il Tribunale ha deciso diversamente, ovvero di lasciare i bimbi nelle proprie case. In una trentina di casi difficili i giudici hanno deciso «l'affido esplorativo»: i ragazzi non sono stati allontanati dalla famiglia ma i servizi sociali sono stati chiamati a sostenere genitori e figli per superare eventuali momenti di fatica. Su 100, infine, solo in 15 casi i giudici hanno accolto la richiesta di allontanamento. La decisione è arrivata soltanto dopo verifiche approfondite svolte dai consulenti incaricati.
Meluzzi al legale di Foti: "Se fossi bimbo abusato mi asterrei da Bibbiano".
La risposta dell'avvocato: "Non si permetta di toccare questo tasto perché non ci fa una bella figura". Francesca Bernasconi, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. "Se fossi stato un bambino abusato mi asterrei da questioni che riguardano l'abuso di bambini". Con queste parole, lo psichiatra Alessandro Meluzzi ha attaccato Andrea Coffari, avvocato di Claudio Foti, direttore scientifico della onlus Hansel e Gretel, implicata nell'inchiesta Angeli e Demoni, durante la puntata di ieri di Quarto Grado. Secondo il professor Meluzzi, generalmente, "un buon criterio psicanalitico e psicologico dovrebbe spingerci ad astenerci da questioni che sono state parti gravi nella formazione della nostra personalità e del nostro disagio". Quindi Coffari, che è stato un bambino abusato, non dovrebbe occuparsi dello scandalo di Bibbiano. "Mi lasci dire- continua- che io considero questa sua assunzione di difesa una cosa professionalmente incauta: se fossi stato un bambino abusato mi asterrei da questioni che riguardano l'abuso di bambini". Immediata la risposta dell'avvocato che paragona il suo caso a quello di Primo Levi che, seguendo il ragionamento del professore, non avrebbe potuto scrivere il libro Se questo è un uomo, tornando ad occuparsi di abusi da lui stesso subiti. "La storia la scrivono i testimoni, le vittime sono testimoni di una storia- dice con forza Andrea Coffari-Perciò non si permetta di toccare questo tasto perché non ci fa una bella figura". E conclude avvisando lo psichiatra: "Parla a vanvera di un metodo Foti che non mi sa descrivere. Se ne parla in maniera negativa commette atto di diffamazione". Ma Meluzzi non sembra affatto intimorito e risponde: "Ne risponderò in tribunale".
Il centro del sistema Bibbiano: ecco tutti i tentacoli di Foti. Il professore finito al centro dell'inchiesta ha un passato poco noto: ecco quale. Costanza Tosi e Elena Barlozzari, Venerdì 11/10/2019, su Il Giornale. Dall’Emilia alla Campania lo scandalo degli affidi illeciti si allarga a macchia d’olio. Sono sempre di più le famiglie che denunciano l’allontanamento dei propri bimbi sulla base di false accuse. A Salerno la Procura si è già messa in moto per rivedere alcuni casi, mentre in città come Verona e Roma sono emerse storie che ricalcano in maniera impressionate quelle che arrivano da Bibbiano. Storie di mamme e papà accusati di aver abusato dei propri figli senza uno straccio di prova, storie di famiglie divise e minori portati via dalle proprie case come fossero dei pacchi. E a Torino? Dopo l’arresto di Claudio Foti, i riflettori sul capoluogo sabaudo si sono spenti, eppure è qui che il professore di Pinerolo, finito al centro dell’inchiesta Angeli e Demoni, ha mosso i primi passi come terapeuta. Siamo nel 1980, Foti ha in tasca una laurea in lettere ma finisce a fare un tirocinio da psicologo all’ospedale di Novara. Appena due anni più tardi darà vita alla sua creatura: la Hansel e Gretel di Moncalieri. Qualcosa di più di un quartier generale. La onlus è anche il biglietto da visita con cui il terapeuta riesce ad accreditarsi presso le procure di mezza Italia. I primi li assume a Torino, dove diventa consulente e perito nei processi di abusi e maltrattamenti sui minori, arrivando persino a ricoprire il ruolo di giudice onorario minorile. Sono gli anni in cui entra in contatto con l’establishment piemontese. Chi se lo ricorda ai tempi degli esordi lo descrive come un personaggio "estremamente carismatico e rassicurante". A fare da cerniera tra lui e quel mondo sono soprattutto gli eventi di respiro internazionale che organizza in città e che lo rendono popolare. La sua credibilità non viene scalfita neppure quando, alla fine degli anni Novanta, l’attività di consulente tecnico d’ufficio si interrompe bruscamente. “Non ho mai visto una perizia d’ufficio, né della procura né del tribunale giudicante, a firma del dottor Foti almeno dal 97”, ci racconta la psichiatra e storica consulente Patrizia De Rosa. Ad un certo punto, infatti, “l’azione giudicante si è resa conto di non aver bisogno di perizie assertive che spesso non si integravano con gli altri elementi di indagine”. Questo perché, il metodo Foti, ci conferma l’esperta, era caratterizzato da “un atteggiamento di estrema vicinanza a quello che riferivano la madre o il padre autori della denuncia”.
Nonostante l’inciampo, il professore continua a godere di ottima considerazione a livello istituzionale. Se per mesi si è parlato di "partito di Bibbiano" in riferimento al Partito democratico, accusato di aver promosso e sostenuto le attività di Foti, l’esperienza torinese insegna che, almeno all’ombra della Mole, l’infatuazione per il guru della psicoterapia sia stata trasversale. Il rapporto tra il Comune di Torino e la Hansel e Gretel, infatti, è stato costante. L’amministrazione guidata dalla grillina Chiara Appendino, ad esempio, ha destinato un assegno di 195mila euro a una decina di realtà volontaristiche. Tra queste spicca proprio la onlus di Foti. Ma già nel febbraio dello stesso anno, Palazzo Civico aveva concesso il suo patrocinio al trentennale dell’associazione. La tre giorni si è svolta in una sala di proprietà della Regione Piemonte, all’epoca governata dal dem Sergio Chiamparino. Uno spazio che, in più occasioni, ha ospitato i seminari organizzati da Foti e rivolti a psicologi, medici, operatori sociali, educatori, insegnanti, insomma tutte quelle figure che lavorano a contatto con bimbi e ragazzi. Parallelamente si intensificano le attività cliniche e terapeutiche. Fiore all’occhiello del progetto è proprio l’equipe che si occupa di maltrattamenti e abusi. Un gruppo di esperti che aveva il compito di diagnosticare il trauma nei casi segnalati dai servizi sociali. Il metodo utilizzato, era lo stesso che, a suo tempo, i tribunali torinesi avevano rottamato, rimpiazzando Foti e il suo staff con consulenti meno "ossessionati" dalla conferma dell’abuso. Una tendenza confermata dai dati diffusi in rete dalla stessa onlus: nel 70% dei casi affrontati, circa 400 dal 2011 al 2015, gli allievi del terapeuta hanno riscontrato il trauma. “Torino è una super Bibbiano. Il caso Hansel e Gretel, il caso Foti nascono proprio qui, quindi se dovessimo trovare un luogo che è la testa della piovra direi che questo è Torino”, ci spiega il professor Alessandro Meluzzi. Per andare a fondo sulla questione è stata creata una commissione d’indagine a Palazzo Lascaris, su iniziativa del capogruppo di Fratelli d’Italia, Maurizio Marrone. “La Hansel e Gretel ha formato intere generazioni di assistenti sociali, educatori, operatori, giudici onorari, tutte figure che appartengono allo stesso ambiente, e il rischio - sostiene il consigliere - è che questo abbia portato a una diffusione capillare dell’ideologia fotiana”.
La rabbia degli assistenti sociali: «Il 90 % è bersaglio di minacce». Pubblicato venerdì, 11 ottobre 2019 da Corriere.it. Una ricerca choc, realizzata su oltre 20mila assistenti sociali. Questi i risultati: il 90% degli operatori è stato vittima di aggressioni verbali, sono cioè stati minacciati di comportamenti ritorsivi. Tre su 20 hanno subito una forma di aggressione fisica. Uno su 10 ha subito danni a beni o proprietà, più di un terzo teme per sé o per la propria famiglia. Le vittime sono per lo più donne, che rappresentano la gran parte delle operatrici. Si tratta del cosiddetto “effetto Bibbiano”? No, perché la ricerca (presentata il 15 ottobre a Bologna durante il convegno «AmbienteLavoro») è del 2017 e quindi le cose non vanno bene da tempo. Gli effetti di quella vicenda, ancora aperta, sono caso mai riferibili ad un altro dato, come spiega Gian Mario Gazzi, Presidente del «Consiglio nazionale ordine degli assistenti sociali» (Cnoas). «Sul nostro sito abbiamo un sistema di rilevazione delle minacce: nel periodo estivo, che di solito registra un calo di casi, quest’anno abbiamo registrato una segnalazione al giorno». Quel conto quindi deve ancora essere fatto, mentre gli unici dati di cui per ora siamo in possesso, e che sembrano destinati a peggiorare, sono questi: considerando l’intero arco della carriera professionale, episodi di violenza fisica hanno coinvolto il 15,4% del campione. 872 intervistati dichiarano che in tali eventi l’aggressore ha utilizzato un oggetto o un’arma. L’indagine ha approfondito le modalità in cui si è espressa la violenza fisica contro gli assistenti sociali intervistati, in riferimento all’ultimo trimestre precedente la compilazione del questionario, rilevando che il 2,5% (503 assistenti sociali) è stato spinto da un utente; l’1,1% (214 assistenti sociali) è stato colpito con un pugno o un calcio da un utente; lo 0,7% (126 assistenti sociali) ha subito una violenza fisica che ha comportato un intervento medico importante e lo 0.9% (192 assistenti sociali) ha subito una violenza fisica che ha comportato un intervento medico di lieve entità. In un arco temporale così breve, tre mesi, sono stati oltre mille gli assistenti sociali coinvolti. L’esposizione al rischio di subire violenza o aggressività verbale è nettamente superiore nei servizi territoriali dedicati alla tutela minori o alla fragilità adulta, rispetto ai servizi dedicati a chi è sottoposto a misure penali o a servizi più orientati alla consulenza come i consultori. Secondo i numeri forniti dalla Croce Rossa Italiana, nel 2018 si sono verificati 3mila casi documentati di aggressioni agli operatori sanitari. I dati raccolti da Anaao Assomed con un sondaggio del maggio 2018 su un campione di 1.280 soggetti, confermano l’allarme: oltre due medici su tre dichiarano di aver subito aggressioni fisiche o verbali. Aggressioni che consistono in spinte, schiaffi, botte, insulti e minacce. Pronto soccorso, psichiatria e Sert i settori più a rischio. La Croce Rossa Italiana, a metà giugno, ha rilanciato la campagna “Non sono un bersaglio”, diffondendo i dati del primo semestre raccolti dall’Osservatorio creato nel dicembre 2018. Grazie a questionari anonimi tra i propri volontari, la Cri ha potuto rilevare che: quasi la metà delle aggressioni, il 42%, è fisica, e non si limita all’insulto o all’invettiva; quasi la metà delle aggressioni, il 47%, avviene in strada; più di una su quattro, il 28%, è ad opera del branco.
Quel che resta di Bibbiano: tracollo degli affidi, assistenti sociali aggrediti. Simona Musco il 12 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Prima di Bibbiano, il sistema italiano degli affidi era «tra più invidiati al mondo». Ma ora, di famiglie disposte ad accogliere i minori ne sono rimaste poche e i servizi sociali sono meno propensi a segnalare i casi problematici. Il sistema italiano degli affidi «è tra i più invidiati al mondo», aveva evidenziato qualche giorno fa, nel corso di una riunione con i responsabili dei servizi sociali della Val d’Enza, il presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro. Eppure, dopo il caso Bibbiano, tutto rischia di crollare. A partire dal numero delle famiglie affidatarie, ormai ridotte all’osso. Ma non solo: i servizi sociali sono meno propensi a segnalare i casi problematici e gli stessi operatori sono costantemente vittima di aggressioni. Un clima che trova le sue ragioni nella sfiducia generata dal racconto che del caso Bibbiano è stato fatto, che ha criminalizzato l’intero mondo dei servizi sociali. A segnalare la situazione di pericolo è il presidente del consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali, Gianmarco Gazzi, che parla di una «situazione drammatica». Una situazione in cui, «per propaganda – spiega al Dubbio – si è fatta di tutta l’erba a un fascio». Il racconto mediatico e politico del caso Bibbiano ha infatti messo in difficoltà le persone più fragili, rendendole meno propense «ad avvicinarsi ai servizi». Col rischio «di perderci intere situazioni che hanno invece bisogno di aiuto e di tutela – sottolinea – Inoltre, da quando tutto è iniziato i miei colleghi sono oggettivamente ancora più a rischio di aggressioni, violenze, minacce». Sono infatti aumentate le segnalazioni in tal senso: Gazzi parla di «un caso al giorno», con nove assistenti sociali su 10 che aggrediti nella propria vita professionale. «E non parliamo di urla: ci sono colleghi finiti in ospedale con 20- 30 giorni di prognosi aggiunge – L’ultimo caso nel comasco: un assistente sociale è stato aggredito, ma non dalla famiglia in cui si stava svolgendo l’allontanamento, che ha anzi collaborato, bensì dai vicini». I pericoli derivano anche dalle fake news sui numeri: «c’è chi ha diffuso cifre irrealistiche e scorrette, blaterando su cose come 500mila minorenni allontanati dalle famiglie». Ma la realtà è molto diversa: il ricorso a tale strumento, in Italia, come riportato nella relazione sullo stato di attuazione della legge sull’affidamento, elaborata dal ministero della Giustizia e dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali relativamente al biennio 2014- 2015, ha statisticamente i numeri più bassi in Europa, con 2,6 minorenni dati in affidamento ogni 1000 sotto i 18 anni, contro i 9,6 della Germania, in cima alla classifica, e i 3,9 della Spagna. Gli affidi familiari costituiscono circa la metà degli affidi totali: su 26.615 minori in affidamento, stando agli ultimi dati disponibili, quelli del 2016, sono 14.012 quelli ospitati presso famiglie, nella maggior parte dei casi individuate tra parenti, come previsto dalla legge. I restanti 12.603 minori sono invece risultati residenti in strutture per l’affido, sulle quali ora si è concentrata l’attenzione della task force ministeriale, che ha denunciato costi troppo elevati. «Smettiamola di raccontare storie che non esistono – conclude Gazzi – Bisogna, piuttosto, discutere di interventi preventivi. L’allontanamento è l’estrema ratio. E viene spesso dimenticato che le segnalazioni non partono dai servizi sociali, ma dalle scuole o dai medici di famiglia. Dobbiamo ribadire che non è con i bonus che aiutiamo le famiglie, ma se diamo dei servizi che siano capaci di sostenerli nelle loro competenze genitoriali. Al sud non abbiamo più consultori, mentre gli assistenti sociali in forza agli enti locali sono 12mila, a fronte di 8mila Comuni». A conferma della delicatezza della situazione, anche quanto testimoniato, nel corso delle audizioni davanti alla Commissione speciale d’inchiesta sul sistema di tutela dei minori in Emilia Romagna, da Daniela Casi, una delle referenti della rete di affido di emergenza emiliana, realtà parallela ed emergenziale rispetto alla rete degli affidamenti. «La vicenda scoppiata in Val d’Enza ha creato molto disorientamento, ma noi vogliamo far emergere il bene che c’è nel mondo degli affidi – ha spiegato Si è creata una sorta di “cappa negativa” su uno degli aspetti più marginali di un affido, quello del contributo economico. Ma le famiglie affidatarie non sono interessate di certo a questo». In questo periodo, dunque, «ci stanno arrivando molte meno richieste di emergenza, ma ciò non significa che ci siano meno situazioni di difficoltà. C’è, piuttosto, meno propensione, da parte dei servizi sociali, ad intervenire». E quando si parla di allontanamento di minori, ha aggiunto, non si deve pensare solo a quelli forzati, ma anche alle stesse richieste d’aiuto delle famiglie. «Un aspetto – ha concluso – rimasto nell’ombra in questi mesi».
Minori: quattro fratelli strappati ai genitori. Le Iene il 10 ottobre 2019. I De Stefano sono una bella famiglia napoletana che per venti anni ha dovuto affrontare un incubo terribile. Questa sera a Le Iene la loro storia nel servizio di Veronica Ruggeri. Vedersi portare via i propri figli senza alcuna colpa. Questa sera nel servizio di Veronica Ruggeri vi racconteremo la storia della famiglia De Stefano. Erano una felice famiglia napoletana composta da mamma Imma, papà Ferdinando e i loro quattro figli: Giusy, Gennaro, Salvatore e Antonio. Venti anni fa la loro vita è stata stravolta completamente ed è iniziato un incubo. I quattro fratelli, all’epoca bambini, vengono infatti allontanati dai loro genitori dopo che su questi cade un’accusa terribile: sfruttamento della prostituzione minorile. Un’accusa che poi si è rivelata falsa. I quattro fratelli non hanno rivisto i genitori per anni, nonostante fossero innocenti. E anche una volta stabilita dal tribunale la loro innocenza, il calvario per la famiglia continua. E l’incubo li perseguita ancora oggi.
Famiglie fragili che allo Stato chiedevano soltanto aiuto. Marco Guerra l'11 ottobre 2019 su Cultura ed Identità. Famiglie fragili, donne sole che hanno subito abusi di ogni tipo e vissuto una vita turbolenta, indigenza economica momentanea o cronica, richieste di aiuto ai servizi sociali ma al tempo stesso tanta dignità, un amore smisurato per i propri figli e una volontà sovraumana di combattere per riaverli tra le loro braccia. Sono questi i tratti comuni che emergono dalle testimonianze raccolte tra le mamme a cui i servizi sociali di Bibbiano e di altri comuni italiani hanno sottratto i loro bambini, laddove forse un aiuto e un’assistenza concreta sarebbe stata più utile. CulturaIdentità ha parlato con Sonia Cecchinato, seguita dai servizi sociali fin da quando aveva 15 anni, età in cui scappa da casa per non subire più abusi. Sonia racconta di non essersi mai drogata, mai alcolizzata, di non avere denunce per violenze, tuttavia i primi 4 figli avuti con un compagno tossico le furono portati via dai servizi sociali per “inadeguatezza genitoriale”. Sonia non si arrende, vede i figli crescere con altre famiglie ed alcuni di essi la fanno diventare anche nonna. Nel frattempo si ricrea una vita con un nuovo compagno e nel 2010 va ad abitare a Bibbiano, qui ha un altro figlio che cresce senza problemi. L’incubo inizia nel 2012 quando il marito perde il lavoro e la coppia chiede aiuto ai servizi sociali. Da quel momento dopo solo tre incontri, gli operatori dei servizi sociali redigeranno la relazione in base alla quale verrà emanato il decreto di allontanamento del bambino dalla famiglia. Tutto avviene il 17 luglio del 2017, Sonia si reca nella sede dei servizi sociali dopo aver lasciato Davide dall’Asilo. Non lo andrà mai più a riprendere e da quel momento lo vedrà solo un’ora ogni due mesi in un luogo protetto. Misure restrittive che non sono mai cambiate, malgrado il marito avesse trovato un nuovo lavoro. La relazione che ha portato al decreto del giudice era firmata tra gli altri dalla Anghinolfi, personaggio al centro dell’inchiesta. “Sono arrivati da noi perché mio marito ha perso il lavoro e ci siamo ritrovati senza un figlio, sono bastati 3 incontri per giudicarci” dice Sonia con tono tranquillo e con la speranza riaccesa dall’esplosione dello scandalo bibbiano. Ora a sperare sono anche altre migliaia di genitori in tutta Italia, che stanno facendo rete con le famiglie di Bibbiano. Chiara Fioletti di Brescia presenta una storia molto simile: compagni violenti, una situazione economica non rosea e la richiesta di aiuto ai servizi sociali che ha avuto come ultimo risultato la sottrazione della figlia nel 2016. Anche Chiara ci tiene a sottolineare che non è mai stata dipendente da droghe o alcol.
Caso Bibbiano, i giudici minorili contro lo sciacallaggio: «Ora basta speculazioni». Simona Musco il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La denuncia dei magistrati: «Non esiste alcun sistema». Il grido d’allarme di Giovanni Mengoli, coordinatore della Rete Minori : «Clima di sfiducia sproporzionato, così rischiamo di lasciare I giovani in condizioni di violenza». La «grave strumentalizzazione» del caso Bibbiano «ha bloccato il sistema di tutela». E ciò a causa di «una incontrollata comunicazione mediatica». Un allarme lanciato Giovanni Mengoli, religioso dehoniano, presidente del Consorzio gruppo CeIS e Coordinatore della rete tematica minori della Federazione italiana comunità terapeutiche, secondo cui l’interlocuzione tra comunità di accoglienza e servizi sociali sono diventate «difficili e formali». E mentre «calano le richieste di ingresso dai servizi», afferma, cresce «il disagio degli stessi ragazzi in accoglienza, confusi e destabilizzati per il clima di sospetto che respirano». Ma a lanciare l’allarme è anche l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, che venerdì si è riunita a Lecce per discutere di devianza e fragilità nei percorsi della giustizia minorile. Un’occasione che è servita per smentire nuovamente «l’esistenza di un “sistema emiliano” fondato su una gestione di assoluto potere da parte dei servizi sociali in assenza di un approccio critico e valutativo degli altri operatori istituzionali», ma anche per condannare il modo in cui la notizia su Bibbiano è stata offerta all’opinione pubblica. Ovvero «senza alcun filtro, cautele, sufficienti e autorevoli spiegazioni dei percorsi investigativi e della peculiarità del caso», esponendo così il sistema della giustizia minorile e familiare «alle speculazioni e, in qualche ipotesi, anche a comportamenti rivendicativi di soggetti in malafede, catalizzando le istanze di pancia degli scontenti e amplificando l’inutile logica del sospetto su tutto e su tutti, anziché proporre quella saggia del dubbio e dell’attesa». Comportamenti, affermano i giudici minorili, che hanno determinato «una devastante e generalizzata delegittimazione delle professioni di aiuto, di assistenza, di cura e protezione delle persone di minore età e della funzione del giudice delle relazioni», ribadendo «l’esigenza di salvaguardare con forza l’indispensabilità di un sistema di giustizia minorile e familiare». Ma la delegittimazione ha riguardato anche il mondo dei servizi sociali. Che al di là delle eventuali «mele marce», sulle quali, come ha evidenziato il presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, «sarà la procura ordinaria a fare chiarezza», rimane un presidio fondamentale per la gestione delle criticità. «Dopo il caso Bibbiano – spiega Mengoli al Dubbio – gli assistenti sociali non decidono più nulla. Le comunità, di solito piene, ora sono quasi svuotate, nessuna interlocuzione sta andando in porto e gli unici accessi che abbiamo sono quelli dei minori che finiscono nelle maglie della giustizia, ovvero quelli con qualche misura cautelare e con la messa alla prova. I servizi sociali hanno paura a prendere decisioni, si sentono sotto osservazione». Il tutto a svantaggio dei ragazzi, spiega Mengoli, ma anche delle famiglie. «Il disagio tra i giovani è innegabile – sottolinea – Vedremo tra un anno questo immobilismo che effetti avrà prodotto: basterà monitorare i servizi per le tossicodipendenze, il carcere minorile eccetera. Ho il timore che i problemi di abuso di sostanze aumenteranno, perché bisogna ricordare che quello è un sintomo di un malessere». E ciò, sostiene, implica anche maggiori costi per la comunità. In linea generale, afferma, il sistema funziona e anche bene, ma può migliorare. «Uno dei problemi più seri spiega – è il fatto di lavorare sempre in emergenza. I minori arrivano in continuazione, quindi va aumentato il numero di persone che lavorano in questo settore e quando si fanno degli interventi su un nucleo familiare è importante lavorare anche con i genitori. Servono psicologi, non tanto per valutare, ma per rinforzare». Un problema di priorità politiche, dunque, oltre che di procedure. Che necessiterebbero di interventi per «ammettere la possibilità del contraddittorio», come suggerito anche da Spadaro. Ma urgente è anche sottolineare «la strumentalizzazione mediatica e politica dell’informazione che, a partire dall’indagine su Bibbiano, sta creando un clima di sfiducia verso le istituzioni preposte alla tutela dei minori – sottolinea – Il pericolo è quello di colpevolizzare tutti i professionisti e i volontari, bloccarne le decisioni e abbandonare i minori a condizioni di violenza. Ricordo che le segnalazioni su presunti abusi, maltrattamenti o inadeguatezze genitoriali partono dalla scuola o da privati cittadini e, attraverso i servizi sociali, raggiungono il Tribunale dei minori che apre un fascicolo sul caso».
L'Associazione dei magistrati dei minori: "Il sistema Bibbiano non esiste". Dopo il controllo sull'operato dei magistrati bolognesi, i giudici sentenziano: "Non esiste un sistema emiliano". Costanza Tosi, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. “Non esiste nessun sistema Bibbiano” e “non è vero che i servizi sociali hanno potere assoluto”. Ha sentenziato l’Associazione dei magistrati per i minori e per la famiglia durante il congresso nazionale che si è svolto, a Lecce, venerdì e sabato scorsi. Ad aprire l’incontro è stata proprio una lunga discussione sull’inchiesta “Angeli e Demoni”. Dopo i fatti di Bibbiano il Tribunale dei minori di Bologna era stato accusato di aver, in qualche modo, facilitato il diffondersi del “metodo Foti”. La maggior parte delle relazioni stilate dagli assistenti sociali che si occuparono dei bambini protagonsti dell’inchiesta della Procura di reggio Emilia sui presunti affidi illeciti, infatti, erano state inoltrate proprio al Tribunale dei minorenni di Bologna che, si presume senza effettuare le dovute verifiche, aveva proceduto con le sentenze di allontanamento. Eppure, negli ultimi anni, le richieste di affido provenienti dai servizi sociali dell’Unione Val D’enza avevano registrato numeri altissimi, ma nessuno si era insospettito. O meglio, chi aveva provato a denunciare le storture era stato fatto fuori. Come aveva raccontato a ilGiornale.it Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei minori di Bologna, che dal 2009 al 2013, anni in cui ha prestato servizio dichiara di aver assistito a un vero e proprio giro d'affari, intrinso di misteri che parlavamo proprio di false relazioni, accuse infondate, pretesti inconcepibili per togliere i bambini alle proprie famiglie. “Abbiamo fatto degli esposti su anomalie enormi", aveva spiegato l’ex giudice, che, ancora oggi, non ha dubbi sulle proprie denunce: “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Qualcosa, anche al tribunale dei minori, non funzionava e, a quanto pare, continua a non funzionare. Schiacciati dalle accuse di aver favorito i "demoni di Bibbiano" i giudici avevano deciso di avviare un controllo interno al tribunale per verificare l’operato dei magistrati bolognesi. Sono stati analizzati un centinaio di fascicoli, che ripercorrevano i casi delle segnalazioni arrivate proprio dagli operatori della Val D’Enza, in un arco di tempo lungo un anno e risalente al periodo immediatamente precedente ai fatti di Bibbiano. Secondo i numeri, nell’85% dei casi il tribunale non ha accolto le richieste di allontanamento dei minori dalle loro famiglie. Nel restante 15%, invece, è stato deciso l’affido. Respinto anche il ricorso presentato dalle famiglie in questione. Eppure dagli scandali dei Diavoli della Bassa, alle storie di Morcavallo fino alle denunce della Procura sui casi dei bambini di Bibbiano qualcosa sembra essere andato storto. Considerando vent'anni di scancadali sugli affidi perchè analizzare proprio i dodici mesi precedenti all'uscita allo scoperto delle carte dell'inchiesta? In quei mesi evidentemente le indagini erano già in corso e gli indagati lo avevano capito. Tanto che, persino Federica Anghinolfi, come emerge dalle intercettazioni, sapeva di essere ascoltata. Non era forse necessario andare a scavare un po' più a fondo? Magari durante gli anni in cui le denuncie venivano silenziate e Morcavallo e sui colleghi messi da parte per aver disturbato il queto vivere delle aule di tribunale bolognesi. Ma è bastato un controllo interno per far esultare l’associazione dei magistrati: “In tale situazione risulta smentita l’esistenza di un sistema emiliano”. Intanto le indagini per comprendere se quel sistema fallato fosse davvero alla base delle storie dei bambini di Bibbiano sono ancora in corso. Anche se questo pare non fermare i magistrati, che hanno deciso di mettere a tacere le accuse nei loro confronti con il controllo di appena cento casi. Per l’Aimmf il vero problema è da ricondurre ai media. Secondo l’associazione avrebbero trattato “senza alcun filtro e cautele” l’uscita di informazioni riguardanti i minorenni. Tanto da aver “esposto il sistema della giustizia minorile alle speculazioni”. Il tutto, si legge nel comunicato pubblicato dall’associazione, “catalizzando le istanze di pancia degli scontenti e amplificando la logica del sospetto su tutto e tutti”. Un fatto questo che, per i magistrati, avrebbe causato un danno enorme a tutti coloro che lavorano in difesa dei minori.
Caso Bibbiano, «Gli affidi non sono business ma una vera benedizione». Caso Bibbiano parla la psicologa, Tiziana Giusberti, dirigente dell’Ausl di Bologna: «La gogna contro i servizi sociali rischia di impedirci di aiutare I bambini». Simona Musco il 17 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Non è vero che il numero d’affidi in Italia è spropositato. E non è vero nemmeno che le 85 richieste d’affido respinte dal tribunale dei minori di Bologna rappresentino un campanello d’allarme sulle competenze dei servizi sociali emiliani. Piuttosto, bisogna saper inquadrare i dati, senza quegli eccessivi allarmismi che dopo il caso Bibbiano hanno reso il sistema più vulnerabile, mettendo a rischio la sicurezza dei minori e creando diffidenza nei confronti degli affidi. Uno strumento, invece, importantissimo, sottolinea al Dubbio Tiziana Giusberti, responsabile del progetto “A. A. A. adozione, affido e accoglienza” dell’Ausl di Bologna e dirigente psicologo presso l’azienda sanitaria, che lancia l’allarme dopo l’inchiesta “Angeli& Demoni”. Se da un lato l’indagine ha cercato di fare luce su presunti abusi commessi dagli assistenti sociali della Val D’Enza, dall’altra è finita al centro di una strumentalizzazione mediatica che ha messo in pericolo un intero sistema. «C’è una maggiore diffidenza da parte delle persone e delle famiglie che si avvicinano a noi – spiega Giusberti – E gli operatori sono molto più impauriti, il che mette in pericolo soprattutto la tutela dei bambini». Tutto ciò perché se i servizi non sono liberi di ascoltare le difficoltà dei bambini, espresse attraverso i comportamenti «e non certo attraverso i proclami», il rischio che gli stessi vengano lasciati a situazioni poco sicure è molto alto, come evidenziato anche dal Tribunale dei minori di Bologna. «La gogna di questi mesi ha messo in pericolo il lavoro dei servizi», continua la psicologa. E la conseguenza immediata è il calo dei progetti d’affido, in un periodo in cui, secondo Giusberti, sarebbe invece necessario investire, creando un lavoro congiunto di confronto tra servizi e tribunale. Ciò che succede è, invece, il proliferare di fake news, come quella che ha fatto passare il metodo Emdr, un approccio psicoterapico interattivo e standardizzato, per una forma di elettroshock. «È un ambito molto complesso e bisogna fare un passo indietro per comprendere quali sono le metodologie per ascoltare i bambini e sostenerli – aggiunge Ma quello che sta succedendo in questi mesi rischia di non farci essere all’altezza del compito che lo Stato ci assegna, cioè aiutare i bambini a crescere». Nei giorni scorsi ci ha provato il tribunale dei minori di Bologna a fare chiarezza, analizzando cento casi degli ultimi anni pescati nel bacino di azione dei servizi della Val D’Enza, analisi dalla quale è emersa la certezza di una tenuta complessiva del sistema: ben 85 richieste d’affido, infatti, sono state respinte. Ma se ciò accresce la fiducia complessiva, dall’altro per qualcuno dimostra anche che qualcosa non ha funzionato, dato che nell’ 85% dei casi le richieste avanzate dai servizi sociali non sono state accolte. Una considerazione superficiale, per Giusberti, secondo cui è necessario «provare a comprendere il contesto giuridico». Bisogna, dunque, saper leggere i dati, partendo dal presupposto «che nel momento in cui gli operatori vengono a conoscenza di una notizia di reato sono obbligati ad informare la magistratura». Non ci sono, dunque, troppi affidi in Italia, Paese che si colloca agli ultimi posti in Europa per percentuale di casi. Uno strumento «bellissimo e complicatissimo, che mette davvero al centro il bambino e i suoi bisogni», continua Giusberti, e che richiede uno sforzo inter professionale, cure nei confronti del bambino, della sua famiglia e della famiglia che accoglie. E per fare tutto questo ci vogliono le risorse. L’altro dubbio avanzato dall’opinione pubblica, a seguito dell’indagine, è che lo scopo principale di molte famiglie affidatarie sia il sostegno economico, con l’effetto di trasformare tutto in business. Ma con 500 euro al mese, contesta l’esperta, non si arricchisce nessuno. «La contropartita – sottolinea è cura, sanitaria e affettiva, per bambini lasciati ai margini. Ci si dimentica che la legge italiana è chiara: l’obiettivo è far tornare il bambino in famiglia». Ma come viene mantenuto il legame con la famiglia d’origine? «Con il tribunale lavoriamo moltissimo su provvedimenti come l’adozione mite o aperta – spiega ancora – che garantiscono i rapporti affettivi positivi tra il bambino e la sua famiglia d’origine, assicurando contemporaneamente anche le cure quotidiane». Rimane comunque la necessità di riformare il sistema, così come sottolineato anche dal tribunale dei minori. Aumentando le risorse di personale, sociale e psicologico, troppo basse rispetto al fabbisogno. E serve maggiore supervisione e preparazione di base. «Non è possibile pensare che la decisione di allontanare un minore sia in mano ad un unico operatore – sottolinea Giusberti – Servono una squadra e una riflessione davvero molto seria, ricordando che da l’affido non è l’ultima spiaggia, ma un transito, un periodo in cui un bambino può usufruire del sostegno di una famiglia adeguata, preparata da noi, per poi tornare nella sua famiglia d’origine, una volta che la stessa si dimostra in grado di prendersene cura, materialmente e relazionalmente».
Minore rinchiusa in comunità dai servizi sociali: "Le hanno dato psicofarmaci senza nessun motivo". Dopo l'allontanamento dalla madre la ragazzina è stata portata in un centro in provincia di Asti dove si trova rinchiusa da giugno senza vedere nessuno e imbottita di psicofarmaci di cui non avrebbe bisogno. Costanza Tosi, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Rinchiusa in una casa famiglia, imbottita di psicofarmaci, esclusa dalla vita, distaccata dal mondo. É questa la situazione di Giorgia, una ragazza di 17 anni a cui gli assistenti sociali hanno tolto tutto negli anni più belli della sua vita. Da quando è stata portata via dalla sua casa, la ragazza è rinchiusa in una comunità terapeutica per minori in provincia di Asti. Non può incontrare nessuno, no ha più amiche, non va a scuola. Le sue giornate sono scandite dal sonno e dalle medicine che è costretta ad ingerire. Il suo calvario ha inizio nel mese di maggio. Per Giorgia e sua madre comincia l’inferno. Tra le mura delle loro abitazione un agguato simile ad un blitz. Si presentano in 14, tra assistenti sociali, medici e forze dell' ordine. Vogliono prendere Giulia e portarla via. Che lo avrebbero fatto a tutti costi lo si capisce dalle parole della mamma intervenuta, in veste anonima, a Unomattina, il programma di Rai 1. “Le mostrarono anche una siringa - racconta - per farle capire l' andazzo: se fai problemi, ti sediamo e ti portiamo via.” Ora la donna può sentire Giulia sono una volta a settimana per una breve chiamata di dieci minuti. Se non di meno. Perchè nel caso in cui l’operatore incaricato di supervisionare i contatti tra le due ritenga che la chiamata stia diventando troppo problematica, ha persino il potere di interrompere immediatamente la comunicazione. Il motivo per cui Giorgia è finita in questo lager non ha dell’umano, ma è l’ennesima storia fatta di ingiustizie e forzature ai danni di un minore. L’ennesimo inciampo di un sistema che, troppe volte, invece di aiutare uccide. Circa tre anni fa la mamma di Giorgia decide di affidarsi ai servizi sociali. La sua era un richiesta di aiuto resa necessaria dal difficile momento che lei e la sua prima figlia stavano attraversando. Le due non andavano più d’accordo e il fatto che la madre fosse rimasta incinta di due gemellini Giulia proprio non riusciva ad accettarlo. Così la madre ha cercato di farsi aiutare da qualcuno per riuscire a risolvere il problema che causava sofferenze nella minore. “Quando è stata presa in carico dai servizi sociali Giulia - ci racconta l’avvocato della madre Bruna Puglisi- ha fatto pochissimi incontri con dei professionisti. Due o tre volte ha visto la psicologa e c’è stato un appuntamento con la psichiatra. Fine.” Tre soli incontri e poi il peggio. “Le hanno diagnosticato un funzionamento psichico a tratti paranoide. I servizi sociali, riportavano nelle relazioni, che Giorgia era sola, isolata. Barricata in casa. In realtà questo non è assolutamente vero. La ragazzina andava a scuola come tutti, faceva nuoto ad alti livelli, voleva diventare insegnante. Usciva con le amiche, era una ragazza normale”. Ad ogni modo mamma e figlia hanno fatto quello che gli assistenti sociali consigliavano. Partecipavano a degli incontri e rispettavano il percorso richiesto. Piano piano le cose in famiglia sono iniziate a tornare alla normalità. La mamma ha disgraziatamente perso i due piccoli che portava in grembo e questo ha contribuito al riavvicinamento della figlia più grande. A Giulia era stato chiesto di recarsi ad un centro diurno, ma lei, come racconta l’avvocato, “si sentiva a disagio là dentro, sempre a stretto contatto con ragazzini con problematiche molto serie ed evidenti”. Così, quando il rapporto con la madre ha iniziato a ricucirsi, le due hanno piano piano diradato la loro presenza agli incontri e Giulia ha totalmente smesso di recarsi al centro. Un’iniziativa che non è piaciuta ai servizi sociali. Che hanno deciso di intervenire, richiedendo al Tribunale dei Minori il trasferimento della ragazza in una comunità terapeutica. Dopo poco Giulia è stata prelevata da casa con forza e rinchiusa in questo centro in provincia di Asti dove, per mesi, le sono stati somministrati psicofarmaci pesanti. “La madre non ha mai dato l’autorizzazione e invece alla ragazza sono stati dati farmaci per curare le schizzofrenie.” Ci spiega l'avvocato. Non le dicevano neanche a cosa servissero quelle pasticche. Quando è stata ascoltata in aula di tribunale Giulia, lo ha raccontato: “mi dicevano che erano per farmi stare tranquilla”. Eppure la madre continua a lottare. “Ci siamo rivolti alla Corte d' Appello - continua l' avvocato - per chiedere che fosse dimessa. Persino il pm ha chiesto una ispezione in comunità.” Sono state fatte delle perizie e sia il profilo rilevato dal perito di parte che quello emesso dalla ctu hanno confermato che la ragazzina non ha nessuna tendenza psicotica e non deve prendere psicofarmaci. L’esperto chiamato dal giudice, nella relazione descrive una ragazza che non ha bisogno di terapie farmacologiche costanti. Infatti, si legge nella perizia, Giulia “non manifesta sintomi psicotici, ma ha manifestato gravi disturbi del comportamento reattivi a eventi particolarmente stressanti, che possono essere stati interpretati come sintomi psicotici”. I farmaci per curare queste crisi sono consentiti, ma solo in caso “di intensi stati di ansia o di gravi disturbi comportamentali”. Un racconto agghiacciante che, si aggiunge alle storie delle famiglie piemontesi che noi de IlGiornale.it vi abbiamo raccontato nei giorni scorsi. A poco a poco nella regione della Hansel e Gretel, stanno emergendo decine e decine di segnalazioni che parlano di false relazioni e assurdi pretesti per allontanare i minori dalle proprie famiglie. Ed è per questo che, anche Chiara Caucino, assessore regionale del Piemonte alle politiche sociali, ideatrice peraltro del progetto di legge “allontamenti zero”, ha deciso di provare a vederci chiaro in tutta questa storia. É andata personalmente a suonare il campanello della comunità terapeutica, ma una volta lì davanti nessuno le ha aperto. “Non mi hanno fatta entrare. Non hanno mai aperto il cancello. Siamo rimasti fuori per due ore” ha raccontato. Porte sbarrate. Ma cosa si nasconde dietro quei cancelli? “C’è un atmosfera carceraria - racconta l’avvocato Puglisi - Fanno vivere i minori peggio dei detenuti. Alla Ragazza hanno tolto il cellulare. Non sente più nessuno. Non vede più nessuno. Sta solo a letto. É privata di tutti i suoi diritti.” Per far vivere i ragazzi in questo stato, la comunità dove si trova Giulia, incassa ogni giorno ben 260 euro più iva. E con lei, vivono almeno altre nove ragazze. “Lei vuole uscire, vuole tornare a scuola, sperava di farlo a settembre e invece niente.” Continua l’avvocato. E se Giulia stà male, sua madre muore dentro al solo pensiero di averla vista due volte in cinque mesi, in un luogo neautro e sotto costante osservazione. In fin dei conti lei, voleva solo essere aiutata.
Bibbiano, la testa del serpente: "Qui è iniziato tutto quanto". Dopo l'arrivo di decine di segnalazioni da parte di famiglie che denunciano di essere state allontanate ingiustamente dai propri figli, nella città della onlus di Claudio Foti la Regione ha deciso di istituire una commissione d'indagine. Costanza Tosi e Elena Barlozzari, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. Dopo lo scoppio del caso Bibbiano a Torino sono arrivate decine e decine di segnalazioni. Denunce che ricalcano le storie dei bambini di Reggio Emilia e descrivono situazioni di false accuse e finte relazioni con le quali onlus e assistenti sociali sarebbero riusciti a portare via i minori dalle proprie famiglie. Un campanello d’allarme per le istituzioni che, proprio in Piemonte, hanno avviato una commissione d’indagine per fare chiarezza sul tema degli affidi. Da cosa parte l’idea di istituire un’indagine conoscitiva? “La prima ragione è che ci sono arrivate moltissime segnalazioni che meritano di essere approfondite”, spiega il capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Piemonte, Maurizio Marrone, che insieme alla deputata Augusta Montaruli e al criminologo Alessandro Meluzzi si sta occupando di raccogliere gli appelli dei genitori. Ad aggiungere sospetti anche il fatto che, proprio a nel capoluogo sabaudo, hanno sede alcune realtà coinvolte nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Le stesse che, continua Marrone, “qui da noi hanno avuto per anni in appalto il servizio di formazione degli assistenti sociali e consulenze di psicoterapia a centinaia di minori”. L’esito delle votazioni in Assemblea regionale è stato positivo: 33 i sì provenienti dai gruppi di maggioranza, ma anche da M5s e Moderati. Al via il mandato alla commissione Sanità di svolgere un’indagine conoscitiva sul sistema piemontese di segnalazione e presa in carico di casi di abuso e maltrattamento ai danni di minori. Ma l’iniziativa divide i partiti politici. Il Pd, reduce dalle accuse di essere il “partito di Bibbiano” dopo che alcuni dei suoi esponenti sono rimasti invischiati nello scandalo di Angeli e Demoni, si è astenuto dalle votazioni. Il ritornello è sempre lo stesso, per la sinistra moderata non è compito della politica “ergersi a giudice”. “Non è nostro compito trasformare i consiglieri regionali in una sorta di pubblici ministeri – è intervenuta la consigliera Monica Canalis – e non dobbiamo mascherare da Commissione d’indagine conoscitiva quella che, a tutti gli effetti, sembra una Commissione d’inchiesta”. Ma c’è chi non ci sta. “Abbiamo recepito tutte le proposte di emendamenti che sono arrivate dal Partito democratico su quest’ordine del giorno – dichiara Marrone – eppure il Pd alla fine non ha partecipato al voto. Hanno perso una buona occasione per fare chiarezza una volta per tutte.” Un’opportunità per prendere le distanze da un metodo che ha portato allo scandalo sui presunti affidi illeciti e a cui, proprio i dem piemontesi, hanno permesso di diffondersi. “I seminari organizzati – prosegue il consigliere – si svolgevano in sale istituzionali di proprietà della Regione e del Comune di Torino, con tanto di patrocini istituzionali e quote di partecipazione.” Grazie ai patrocini pubblici, le associazioni come Hansel e Gretel non dovevano affrontare alcun costo, a fronte di un guadagno di centinaia di euro a persona. Per di più, l’ordine degli assistenti sociali riconosceva i crediti formativi a questi seminari che, così, diventavano un passaggio quasi obbligato per gli addetti ai lavori. “Il timore è che queste associazioni abbiano influito sulla mentalità professionale degli assistenti sociali, diffondendo un’ideologia che deduce gli abusi sui minori anche quando non ci sono prove e che criminalizza l’ambiente familiare, ritenendo l’inserimento in comunità o a famiglie affidatarie come una sorta di redenzione”, conclude il capogruppo di Fratelli d’Italia. A posizionare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidi in Piemonte anche l’assessore Chiara Caucino, che ha sta lavorando a un disegno di legge (Affidi zero) per contrastare l’allontanamento pretestuoso dei minori. “In Piemonte c’è una percentuale di allontanamenti di minori superiore alla media nazionale, quindi – sostiene le leghista – è necessario definire in modo più stringente le regole legate agli allontanamenti”. Secondo i dati forniti dal Centro nazionale di documentazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, in Piemonte i bambini e ragazzi presi in carico e collocati in affidamento familiare nel 2017 erano 1.397 mentre per quanto riguarda le comunità per minori se ne contavano 1.131 per un totale di oltre 2.500 allontanamenti.
Bibbiano arriva a Reggio Emilia, indagata una funzionaria del Comune. Dalle intercettazioni telefoniche ascoltate dai carabinieri emerge che la donna avrebbe avuto contatti con Federica Anghinolfi e consigliato ai vertici dell'Asl di affidare alla onlus di Claudio Foti un appalto pubblico. Costanza Tosi, Martedì 15/10/2019, su Il Giornale. Si allunga la lista degli indagati nell’inchiesta sui presunti affidi illeciti e i sospetti sull’esistenza del sistema Bibbiano arrivano fino al comune di Reggio Emilia. "Te lo do brevi manu, perché non vorrei mai che intercettassero delle cose anche nei giri di mail privati". Così recitava, in una telefonata ascoltata dai carabinieri, Daniela Scrittore, una funzionaria del settore Politiche Sociali al Comune di Reggio. Dall’altra parte della cornetta Federica Anghinolfi. La responsabile dei servizi sociali della Val D’enza finita al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Fu proprio la paladina delle coppie gay, secondo le carte della Procura, ad essere determinante nel mantenere i contatti che riuscissero a legare tribunali, associazioni, operatori sociali e istituzioni, affinchè il suo progetto aberrante di strappare i minori alle famiglie d’origine per darle in affido ad amici e conoscenti avesse la meglio. E infatti, eccola che spunta di nuovo, in contatto con l’ennesima indagata. Daniela Scrittore, come emerge dalle intercettazione telefoniche mandata in onda in un servizio di Luca Ponzi del Tgr Emilia Romagna, aveva un rapporto molto stretto con l’Anghinolfi e le due si sentivano spesso, per scambiarsi documenti e informazioni. E se alcuni tra gli accusati sembravano essere plagiati dalle più alte menti del sistema occulto, la Scrittore sembrerebbe aver proprio contribuito alle decisioni più importanti. Dalle cinquanta telefonate intercettate infatti, si può dire che fu proprio la funzionaria del Comune a convincere il già indagato dirigente dell’Asl Attilio Mattioni ad assegnare un appalto alla onlus del terapeuta Claudio Foti. In barba alle gare pubbliche. Ad aggiungere dettagli all’accusa sono state anche alcune funzionarie della stessa Asl di Mattioni che, avrebbero confermato di aver incontrato la donna proprio nella segreteria dell’ufficio che aveva bandito la gara. Circostanze negate con forza, da Scrittore in aula di tribunale dove venne ascoltata come testimone nel processo a carico del dirigente, motivo per cui è finita nel registro degli indagati con l’accusa di false dichiarazioni. Secondo gli inquirenti la dipendente pubblica avrebbe sviato le indagini. Mattioli, accusato di aver favorito Foti, procurando al suo centro studi un ingiusto profitto, grazie all’assegnazione di un appalto per un corso di formazione per operatori socio sanitari, era stato interrogato dai magistrati nel mese di giugno. In quell’occasione, l’indagato spiegò di aver affidato il servizio alla Onlus piemontese affidandosi, in via informale, alla sua collega del Comune, la quale gli avrebbe consigliato la Hansel e Gretel come servizio di psicoterapia valido a cui avrebbe dovuto affidare l’incarico. Nonostante l’indagata abbia negato i fatti raccontati dal dirigente dell’Asl le testimonianze del personale incaricato alla segreteria di Mattioli hanno confermato la presenza della donna in circostanze sospette: all’interno degli uffici incaricati per la gara pubblica e proprio nel momento in cui stava per essere determinata l’assegnazione. I racconti hanno confermato i sospetti dei magistrati e adesso, la Scrittore, si ritrova tra gli indagati del caso Bibbiano. Intanto i carabinieri continuano a sbobinare le telefonate intercettate tra la nuova indagata e Federica Anghinolfi e non si asclude che per la Scrittore, possano moltiplicarsi le accuse. Proprio venerdì si è proceduto al sequestro del suo telefono cellulare per ulteriori accertamenti. Un quadro che lascia aperti molti sospetti. Ad aggiungersi alle dichiarazioni in tribunale anche un intervento della Scrittore, risalente al mese di settembre. La funzionaria faceva parte dei mebri del Tavolo regionale sulle linee di indirizzo per l’accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento e abuso, motivo per cui - come riporta La Verità - era stata sentita il 30 settembre in occasione della Commissione regionale affidi, istituita per fare chiarezza sul tema a seguito dei sospetti destati dai casi dei bambini di Bibbiano. Un’incontro in cui la Scrittore apparve schiva e dedita a nascondere le evidenze del caso. Quando i consiglieri regionali la sollecitarono a intervenire su Angeli e Demoni, furono queste le sue parole sui numeri degli affidi nella zona: “Non si tratta assolutamente di numeri anomali, ma di numeri compositi, nel senso che comprendono sia gli affidi consensuali che giudiziali, a tempo pieno e a tempo parziale”. Insomma i numeri non erano un problema, anzi, secondo la funzionaria, potevano persino rispecchiare l’evidenza di un’attenzione particolare alle necessità dei minori: “Se qui ci sono più affidi è perché li preferiamo agli inserimenti in comunità, pensiamo che la famiglia sia sempre una soluzione migliore per i bambini” aveva aggiunto la Scrittore. Sull’affidamento delle cure per la ricerca del trauma alla Hansel e Gretel che, da anni, occupava gli spazi del centro pubblico La Cura, la Scrittore giustifica le scelte del Comune. “Perché i Comuni ricorrono a centri privati? Perché il servizio pubblico in ambito sanitario purtroppo spesso non è sufficiente e non sempre riesce a garantire la cura. Non abbiamo luoghi adatti per fare colloqui e accogliere gli utenti. È come dire alle famiglie: “Ti ho fatto una buona diagnosi, ma ora non posso metterti a disposizione il trattamento”. Insomma, la Asl non era in grado di garantire cure psicologiche ai bambini e quindi meglio affidarli ad un centro “ossessionato” dalla conferma dell’abuso a tutti costi, messo da parte dai Tribunali Piemontesi che avevano riscontrato poca attendibilità nelle ralazioni provenienti dagli operatori di quel centro e, per di più, che negli anni aveva persino sfornato psicologi già finiti al centro di scandali sugli allontanamenti forzati come quelli dell’inchiesta dei Diavoli della Bassa. Ma forse la Scrittore non è d’accordo con l’inadeguatezza del "metodo Foti", tanto che è persino riuscita a difendere l’operato degli undici assistenti sociali che organizzarono il "rapimento" della bambina di Reggio Emilia. Si intrufolarono in casa della famiglia della minore con la scusa di essere della protezione animali e, in undici, strapparono la piccola dalle braccia della madre tra urla di disperazione e pianti da far accapponare la pelle. “L’allontanamento - ha commentato la Scrittore - era stato deciso dal Tribunale per i minorenni e si cerca il più possibile di intervenire affinché la separazione non sia troppo traumatica. In alcuni casi però, quando reiterati tentativi di dialogo con i genitori non vanno a buon fine, è necessario agire diversamente. Rimane un caso eccezionale nel quale i servizi sociali non hanno deciso le modalità d’intervento”. E mentre i magistrati sentenziano l’inesistenza di un metodo Bibbiano, ogni dettaglio che sia aggiunge alle storie degli angeli di Reggio Emilia fa pensare all’esatto contrario.
L'escalation piemontese di Foti, a sostenerlo fu il Partito democratico. Anche in Piemonte sede principale di Hansel e Gretel, Claudio Foti ha approfittato di patrocini pubblici concessi da Pd e M5S per svolgere attività remunerativa di tipo formativo e terapeutico. Costanza Tosi, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. Se Claudio Foti negli anni ha riscosso il successo che lo ha portato a raggiungere livelli altissimi nel campo della psicologia è perché qualcuno ha dato credito a tutte le sue teorie, appoggiando le sue ipotesi ed elevandolo a guru della materia. E questo qualcuno è il Partito democratico. Prima di approdare nel reggiano, infatti, il terapeuta finito al centro dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti, è riuscito a portare in alto il suo nome tanto da poter vantare un curriculum pieno zeppo di eventi e convegni da lui presieduti, straripante di docenze di alto livello e una lunga serie di incarichi come consulente tecnico nelle aule di tribunale. Pur non potendo vantare di grossi titoli a livello di istruzione, dove riesce ad ottenere una laurea in lettere (presa in otto anni) e una serie di brevi corsi di specializzazione in ambito psicologico di poco credito. Vette altissime, che Foti ha scalato in Piemonte (regione in cui è nato e dove, anni dopo, ha fondato il centro Studi Hansel e Gretel) grazie al costante sostegno, anche a livello economico, del Comune di Torino, da sempre marchiato dalla direnzione dei partiti della sinistra. Dall’85 all 89 infatti, il terapeuta con laurea in lettere, ha ricoperto il ruolo di professore di “psicologia della devianza” alla Scuola Superiore di Servizio Sociale, il cui ente di riferimento, si legge nel curriculum di Foti, è proprio il Comune di Torino. Poi, una serie di docenze nei vari comuni piemontesi che gli permettono di arrivare persino a ricoprire il ruolo di giudice onorario presso il tribunale dei minori di Torino per ben 12 anni (dal 1982 al 1994). Un successo che però si rivelerà il primo inciampo per Foti che, “almeno dal 97”, ci spiega la psichiatra Ptrizia De Rosa è stato messo da parte per quanto riguarda l’attività di consulente tecnico in ambito giuridico. “Si era capito che le sue relazioni eccessivamente sbilanciate verso i racconti delle vittime non coincidevano con le evidenze emerse durante le indagini e questo provocava attrito nei casi da portare a termine”. Insomma, il metodo del terapeuta che vantava conoscenze a livello internazionale, iniziava a destare sospetti per i magistrati. Non fu così per le istituzioni che, fino a pochi mesi fa, hanno continuato a finanziare i seminari dell’indagato. Nel 2015, ad esempio, si svolse uno dei convegni patrocinati nella sala regionale Atc. L’obiettivo dell’incontro, dall’inquietante titolo “Recuperare i cattivi. Ma noi, siamo veramente buoni?”, era focalizzato sul lavoro psicologico da svolgere nei confronti di detenuti sex offenders.Tra i partecipanti, l’ormai onnipresente CISMAI. Nel programma, della durata di due giorni, anche il saluto istituzionale di Giovanna Pentenero (Pd), ex assessore all’istruzione, lavoro, formazione professionale della Regione Piemonte. Stessa storia a marzo del 2017 quando, sempre nel medesimo spazio, gentilmente concesso dalla Ragione (al tempo sotto la giunta Chiamparino), si è svolto un’altro incontro di “due giornate di studio organizzate dal Centro Studi Hansel e Gretel.” Il tema era il cavallo di battaglia del professor Foti: “L’educazione sessuale che non c’è, l’abuso sessuale che c’è e il mancato ascolto dei bambini”. Questa volta, l’evento, era persino “accreditato per la formazione continua degli assistenti sociali”. Infine, a febbraio del 2019, la onlus di Foti decise di organizzare un seminario in occasione del trentennale di Hansel e Gretel. Una tregiorni che si è tenuta nella sala convegni ATC di proprietà della Regione Piemonte che, “grazie ai patrocini pubblici viene concessa gratuitamente invece che al costo di 2250 euro da listino”, come ci spiega Maurizio Marrone, capogruppo di Fratelli d’Italia. E, difatti, l’evento era organizzato con il patrocinio del Comune di Torino. Concesso, questa volta, dalla Giunta Appendino. Anche in questo caso l’incontro si rivelava di massima importanza per gli operatori socio-assistenziali, essendo accreditato dall’Ordine degli assistenti sociali per i crediti di formazione. I partecipanti, nonostante la concessione dello spazio a titolo gratuito, per assistere agli interventi dovevano versare 75 euro più IVA. Altro denaro veniva raccolto con una lotteria i cui fondi sarebbero stati destinati “alle terapie dei bambini in condizioni di difficoltà”. Se Claudio Foti ha agito indisturbato per un ventennio formando, attraverso la sua ideologia, decine e decine tra assistenti sociali, operatori e addetti ai lavori c’è stato chi gli ha permesso di farlo. Sponsorizzando il suo operato e garantendo, anche, aiuti in termini di spese. Le amministrazioni Piemontesi hanno permesso al metodo finito sotto accusa per le storie dei bambini di Bibbiano di affondare le proprie radici in tutto il territorio. “Così - spiega Marrone - queste associazioni potevano anche influire sulla mentalità professionale degli assistenti sociali nel diffondere quest’ideologia di sostenere una diffusione capillare degli abusi sui minori e quindi dedurli anche quando non ci sono prove e anche nella mentalità di criminalizzare l’ambiente familiare e optare su l’allontanamento e l’inserimento in comunità o a famiglie affidatarie come una sorta di redenzione rispetto all’ambiente che viene molto demonizzato come quello della famiglia d’origine.” E se le sviste degli anni addietro potrebbero sembrare ormai acqua passata, errore figlio di una dilangante “disattenzione”. In realtà il Partito Democratico sembra non voler optare per un cambio di rotta. In Regione, pochi giorni fa, è stata istituita una commissione d’indagine per fare chiarezza sul tema degli affidi a seguito di decine di segnalazioni arrivate da famiglie che denunciano di essere state ingiustamente allontanate dai propri figli. Il giorno della votazione il Pd, reduce peraltro dalle accuse di essere il “partito di Bibbiano” dopo che alcuni dei suoi esponenti sono rimasti invischiati nello scandalo di Angeli e Demoni, non ha partecipato al voto. Il ritornello è sempre lo stesso, per la sinistra moderata non è compito della politica “ergersi a giudice”. Lo dichiara prontamente la consigliera Monica Canalis: “Non è nostro compito trasformare i consiglieri regionali in una sorta di pubblici ministeri e non dobbiamo mascherare da Commissione d’indagine conoscitiva quella che, a tutti gli effetti, sembra una Commissione d’inchiesta”. Ma c’è chi non ci sta. “Abbiamo recepito tutte le proposte di emendamenti che sono arrivate dal Partito Democratico su quest’ordine del giorno – dichiara Marrone – eppure il Pd alla fine non ha partecipato al voto. Hanno perso una buona occasione per fare chiarezza una volta per tutte.” La stessa occasione che si sta lasciando sfuggire anche il governo giallorosso. Nonostante i continui solleciti da parte dei partiti dell’opposizione. “Alla Camera stiamo ancora aspettando che nasca una Commissione d’inchiesta - ha dichiarato il deputato della Lega Alessandro Morelli - continueremo a batterci affinché non cali il sipario sulla vicenda, in barba a quei media che ritengono sia “inutile” indagare su questo sistema”.
Quella lotta silenziosa del leghista su Bibbiano: "Nessuno ne parla". La battaglia solitaria del leghista Alessandro Morelli: "Su Bibbiano è calato il silenzio da parte di tutti. Noi insisteremo a oltranza". Giorgia Baroncini, Sabato 12/10/2019, su Il Giornale. "Su Bibbiano è calato il silenzio da parte di tutti, compreso quello del mondo politico, che fino a poco tempo fa denunciava il sistema degli affidi, salvo poi dimenticarsene una volta spenti i riflettori". Lo ha affermato il deputato Alessandro Morelli, responsabile Editoria della Lega. Morelli ha parlato ogni giorno, per un mese intero, di Bibbiano e dello scandalo "Angeli e Demoni". Il Partito Democratico ha sempre cercato di non affrontare l'argomento mentre in tutta Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle parole che ricordano il simbolo dei dem. Il deputato leghista ha continuato a parlare della tragica vicenda ogni giorni sulla sua pagina Facebook. "Le persone hanno risposto bene al nostro servizio, ringraziandoci per quello che stavamo facendo, ce lo chiedevano proprio loro di parlare di Bibbiano. Sono pochi infatti, e i cittadini ce lo confermano, i media che parlano di quello che per noi rimane il più grande scandalo degli ultimi tempi", ha affermato Morelli. Lo scorso luglio, l'ex governo gialloverde aveva deciso di fare chiarezza dando vita una Commissione d'inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori. "Ad oggi l'istituzione di una Commissione è bloccata alla Camera, dopo l'ok al Senato, e speriamo si velocizzi l'iter - ha spiegato il leghista -. Noi continueremo a occuparcene in sede parlamentare, sono pronti infatti degli atti per sollecitare il governo affinché non cali il sipario su questa vicenda". La Lega vuole tenere alta l'attenzione sul tema e spera di vederci presto chairo. "Insisteremo a oltranza, così come abbiamo già fatto sia alla Camera che al Senato, quando con la collega Lucia Borgonzoni abbiamo mostrato delle magliette al premier Conte per sensibilizzare l'esecutivo sul tema. Stiamo parlando di decine di famiglie alle quali sono stati strappati i figli per ragioni economiche o persino ideologiche, e spesso nel silenzio della politica locale", ha concluso Morelli.
Caso Affidi: quale giustizia per i bambini? Dopo Bibbiano emergono decine di casi analoghi che impongono riflessioni sull'intero sistema. Ne parliamo con l'avvocato Daniel Missaglia che segue questo tipo di casi. Panorama il 26 ottobre 2019. “Quale giustizia per i bambini?” è la domanda che riassume il titolo di un convegno, il primo, organizzato dal Comitato contro l’ingiustizia personale e familiare, costituito poco prima dell’estate con l’ambizioso scopo di fornire supporto alle persone che si vengano a trovare coinvolte in qualunque forma di ingiustizia, anche scaturente da conflitti familiari, attraverso percorsi di conoscenza e approfondimento. Il 29 ottobre 2019, a Palazzo Parigi, Milano, si terrà il battesimo operativo di questo Comitato, presieduto dall’ex Sindaco, Gabriele Albertini. Moderatore l’Avv. Daniela Missaglia, matrimonialista, socio fondatore del comitato stesso di cui è anche membro del direttivo e vicepresidente. L’abbiamo contattata per aiutarci a comprendere il tema del convegno e provare a rispondere all’interrogativo che ne costituisce il titolo.
Buongiorno Avvocato, per quale motivo ha deciso di far nascere questo Comitato ed organizzare questo dibattito?
"Tutto nasce al termine di lunga riflessione maturata all’esito di una pluridecennale attività legale nel campo del diritto di famiglia. Vede, ho sempre vissuto il mio lavoro come una ‘missione’, con particolare attenzione ai minori coinvolti. Per questi ultimi la patologia del nucleo familiare costituisce una lacerazione drammatica e sono loro a patirne le conseguenze. L’avvocato di famiglia incanala i conflitti verso un binario legale e, applicando il diritto e la giurisprudenza, come anche la logica ed il buon senso, contribuisce in modo determinante ad arrivare ad un punto d’arrivo che giova a tutti i protagonisti di queste amare vicende. Non sempre però vi si riesce. E questo dipende anche dal fatto che abbiamo a che fare con un meccanismo di giustizia fatalmente imperfetto".
In che senso, può spiegarci?
"Anni di esperienza nelle aule giudiziarie e nei gangli dell’apparato della giustizia che gravita attorno alle crisi familiari mi hanno formato ed aiutato a riconoscere cosa funziona e cosa no e che costituisce una freno alla risoluzione dei conflitti, pregiudicando la tutela dei soggetti deboli, i figli in primis. Il costituente ed il legislatore hanno disegnato un sistema ‘ideale’, quasi utopistico, attraversato però da numerose falle che, con l’andar del tempo, si sono tradotte in frequenti ingiustizie con danni irreversibili. Ad esempio: se, per colpa del malfunzionamento della giustizia non riesco a conseguire un credito, ho perso del denaro. Importante, vero, ma lo si può superare. Ma quando, per effetto di un cortocircuito distorsivo, finisco per ‘perdere’ l’affidamento o collocamento di un figlio, il danno si ripercuote sulla vita stessa, gli affetti, non è più un danno, è un incubo. A noi giusfamiliaristi le persone mettono in mano le loro vite e quelle dei loro figli e noi stessi siamo spesso accompagnati dalla frustrazione di non riuscire ad ottenere per loro "giustizia" o di non riuscire ad ottenerla in tempo utile. Montesquieu diceva che una giustizia ritardata è una giustizia negata".
Quindi sono i tempi lunghi a creare ingiustizie?
"Anche, ma non solo. Vi sono criticità più importanti che concernono la struttura stessa dei Tribunali. Solo pochi Tribunali, in Italia, in genere quelli dei capoluoghi di regione (ma non tutti), hanno una sezione specializzata nel diritto di famiglia, dove si respira una maggiore capacità di applicare i criteri più corretti ed aggiornati della giurisprudenza e dove i giudici, occupandosi solo di queste vicende, hanno sviluppato maggiore empatia e professionalità con i casi concreti. Ma nella stragrande maggioranza dei Tribunali, quelli medi e piccoli, una separazione delicata viene trattata tra una causa condominiale ed un dissidio fra aziende e fornitori di materiale, decreti ingiuntivi e sfratti per finita locazione. Il Giudice, mancando di specializzazione ed esperienza, finisce sovente per decidere secondo una valutazione estemporanea e non a norma di diritto. Anche nelle sezioni specializzate, però, il ricambio dei giudici è intenso e vengono designati magistrati che hanno tutt’altra formazione e non sono pronti a dirimere casi complessi di conflitti familiari. Quello che si chiede da tempo è che si faccia una seria riforma che crei, in ogni ufficio giudiziario, il Tribunale della Famiglia, così come esiste quello delle Imprese o del Lavoro, formato da giudici specializzati con una peculiare formazione, che permetta loro di affrontare le cause familiari con estrema competenza".
In tal caso i problemi sarebbero risolti?
"Non ancora, perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Quand’anche avessimo ovunque giudici specializzati che assumano decisioni uniformi, non è detto che queste decisioni risultino poi corrette e preservino dalle ingiustizie. Il problema è a monte: con eccessiva frequenza i Giudici abusano del meccanismo della delega e sub-delega, avvalendosi di soggetti terzi a cui devolvono accertamenti istruttori che poi fanno propri e condizionano i loro pronunciamenti. E se questi soggetti cadono in errore, ovvero sono in conflitto di interessi o in malafede, il danno è comunque fatto. Nei procedimenti di diritto di famiglia i Giudici si avvalgono di ausiliari, di consulenti (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri in genere), così come di operatori dei Comuni, i Servizi Sociali. Fino ad uno/due decenni fa era il Giudice a prendersi sulle proprie spalle la responsabilità delle decisioni. Con gli anni si è diffuso il meccanismo della deroga a terzi e questo ha amplificato, a mio avviso, i casi di ingiustizie contro cui lotto, sia individualmente sia, da ora in poi, anche attraverso il Comitato".
Chi sono i cattivi che ostacolano la giustizia?
"Non vi sono buoni o cattivi. Esistono giudici capaci, consulenti capaci, assistenti sociali capaci. Poi vi sono gli altri, ed è da questi che bisogna guardarsi. I grandi scandali che, da Bibbiano a ritroso, hanno coinvolto i Servizi Sociali e lo stesso funzionamento dei Tribunali per i Minorenni, hanno acceso i riflettori su un sistema fallato, quand’anche corrotto, secondo i dati emersi nelle inchieste della magistratura. Un circolo vizioso di soldi, rapporti, connivenze, interessi di vario tipo fra autorità, assistenti sociali, cooperative a loro volta delegate dagli enti affidatari, il tutto nel più incivile spregio verso le vite coinvolte, quelle dei bambini e quelle dei loro genitori. Il 29 ottobre parleremo anche di questo, pur stando ben attenti a non generalizzare e non buttare via, come si dice, il bambino con l’acqua sporca. Ho incontrato operatori sociali di grande sensibilità e passione, e quando è accaduto è stata una benedizione a protezione di chi doveva essere tutelato".
Le è mai capitato invece di imbattersi in un sistema "Bibbiano" o qualcosa di simile?
"Purtroppo sì e anche di questo si parlerà all’evento di Palazzo Parigi. Molte volte ho percepito e raccolto io stessa prove di connivenze inadeguate o sovrapposizioni di nomine: Le sembra normale, ad esempio, che un Assistente Sociale che ha in mano il destino dell’affidamento di un minore ricopra anche la funzione di Giudice Onorario nello stesso Tribunale chiamato a pronunciarsi? Eppure è accaduto, nonostante il Consiglio Superiore della Magistratura abbia cercato di arginare questo fenomeno. Così come accade che i professionisti chiamati ad assolvere il compito di consulenti del giudice appartengano quasi sempre ad un ‘circolo magico’ chiuso, fatto di una ridda determinata di nomi, sempre gli stessi, alcuni dei quali a loro volta in conflitto di interessi a vario titolo. Si costituisce così un potentato autoreferenziale che è molto pericoloso e tende a danneggiare la giustizia privandola della sua rigorosa terzietà e cecità, quella che rende tutti uguali davanti alla legge. Spesso questo non accade, in un sistema malato che crea figli e figliastri o che, come nel caso di Bibbiano, si nutre di affidamenti extra-familiari, in cooperative della stessa rete, per alimentare una giostra infernale che utilizza i bambini per autosostentare se stessa".
A Bibbiano i protagonisti sono i servizi sociali ed il Tribunale per i Minorenni, anche quest’ultimo non funziona?
"Io ne chiedo, da tempo, l’eliminazione con accorpamento di tutte le sue competenze nel Tribunale ordinario, magari in quel Tribunale della Famiglia di cui ho parlato pocanzi. Che funzionino poco e male lo scoprono tutti coloro che, volenti o nolenti, finiscono al suo cospetto. Lo stesso legislatore se n’è accorto al punto da privarlo di competenze, a favore del Tribunale ordinario, in svariati ambiti civili. Il problema sta a monte, nella sua struttura rigorosamente collegiale, dove ogni decisione non può essere assunta nell’immediato da un singolo giudice ma, appunto, da un collegio di giudici togati ed onorari. Questo limite fisiologico, unito alla mancanza cronica di magistrati e ad una struttura del processo tutto sommato libera e deregolata, ha fatto sì che per ogni decisione si aspettino tempi biblici".
Insomma, va tutto male, ma vede luce alla fine del tunnel?
"Certamente, ma ci vuole coraggio e competenza. Coraggio di ammettere che qualcosa non funzioni e competenza nella selezione delle personalità chiamate a riscrivere le regole. I politici si improvvisano tuttologi e spesso invadono campi a loro estranei per formulare proposte di legge che aggravano, anziché risolvere, i problemi. L’Italia, anche nell’ambito del diritto di famiglia, ha realtà di eccellenza, studi legali iper-specializzati, magistrati attenti e competenti, consulenti navigati che non fanno parte di circoli chiusi ed hanno come mero interesse la giustizia. Questo vale anche per ottimi operatori sociali e studiosi della materia. E’ a questi che va affidato il compito di raddrizzare le righe storte di un sistema che può e deve migliorare, nell’interesse di tutti noi cittadini".
Emilia, l'orrore della sinistra: "Affidi a coppie omosessuali". Il deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami denuncia: "Le famiglie povere ora sono diventate preda della sinistra". Luca Sablone, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. Le polemiche sul caso Bibbiano non si placano. Anzi: i toni in Emilia-Romagna sono destinati a inasprirsi. Soprattutto dopo che Giuliano Limonta, coordinatore della commissione tecnica sui minori, ha ridotto il tutto a un semplice "raffreddore". Per questo La Verità ha intervistato Galeazzo Bignami, deputato bolognese di Fratelli d'Italia, che l'ha definita una "banalizzazione intollerabile e allucinante. Da queste commissioni d'inchiesta non ci aspettavamo nulla. Ma neanche ci aspettavamo degli insulti alle vittime". Uno degli aspetti che avrebbe provocato la stortura del meccanismo degli affidi potrebbe essere l'assenza di verifiche da parte di autorità pubbliche indipendenti: "Infatti l'autocontrollo era l'aspetto più patologico di tutto il sistema". Così come spiegò Federica Anghinolfi, una delle indagate: "Ammise che i servizi sociali avevano bypassato un livello di controllo". Inoltre in Val d'Enza era stato "sperimentato un sistema specialistico in connessione con il territorio, senza sottoporsi alle previste verifiche da parte della provincia". E questo significa che "non si possono minimizzare le responsabilità della Regione e del Pd che la guida".
"Adozioni Lgbt". Nella relazione della commissione tecnica si sottolinea che la carenza di personale e fondi nelle strutture pubbliche rischia di spostare il "baricentro delle decisioni clinico-assistenziali in contesti professionali non pubblici". Ma questo passaggio "sembra un tentativo di lavarsi la coscienza". Oggi le Asc, le Asp, le Asl, l'unione dei Comuni, i Comuni stessi possono occuparsi di affido dei minori: "A chi compete unificare il tutto? Alla Regione. Che invece dà la colpa agli altri". Alcuni elementi della commissione Bonaccini stupiscono Bignami: "Non si cita mai l'Anghinolfi, non si citano mai i finanziamenti elargiti. Le commissioni muovono delle critiche lievi, cercando però di salvare il sistema. E poi si continua a mettere a repentaglio la famiglia tradizionale". Sotto la lente di ingrandimento sono finiti i progetti approvati e finanziati dalla Regione: "Tutti volti a un unico obiettivo: vincere le ultime resistenze in tema di affidi alle coppie omosessuali". Il deputato ha parlato anche del Movimento 5 Stelle: "Hanno dato un contributo ad Hansel e Gretel di Foti". Nello specifico Rossella Ognibene, candidata sindaco dei grillini a Reggio Emilia e quindi eletta consigliera comunale a maggio 2019, "si è dimessa per assumere la difesa dell'Anghinolfi". E poi Andrea Coffari, candidato alle politiche per il M5S, "ha assunto la difesa di Claudio Foti". Infine Bignami ha parlato del caso Bibbiano in vista delle elezioni Regionali in Emilia-Romagna il 26 gennaio: "Nessuno vuole strumentalizzare questa tragedia. Ma di certo Bibbiano è un'ombra pesantissima sui servizi sociali della Val d'Enza e sulla Regione Emilia-Romagna". Infine è stato fatto notare come "le vittime non erano figli di professoroni o professionisti dell'intellighenzia borghese", ma si trattava di "famiglie povere, fasce deboli". "Una volta questa gente era protetta dalla sinistra. Oggi ne è diventata preda", ha concluso.
Meglio le famiglie delle comunità, lo dice la Cassazione. Una recente sentenza della Suprema Corte detta le linee guida sui casi di affidi: prima la famiglia, le comunità solo extrema ratio. Ma la realtà delle cose è differente. Daniela Missaglia il 7 novembre 2019 su Panorama. Il 4 novembre 2019 la Cassazione ha smentito la Corte d’Appello di Venezia che, in aderenza alla precedente pronuncia del Tribunale per i Minorenni della città lagunare, aveva confermato il collocamento di due bambini in una comunità, lontano da mamma e papà, senza accogliere la richiesta dei nonni di affido temporaneo. Gli Ermellini, annullando la sentenza, hanno, ancora una volta, censurato il malvezzo di non considerare un principio basilare collegato alle situazioni in cui i genitori risultino incapaci di assolvere al proprio ruolo. Vien da chiedersi, di fronte alle tragedie di Bibbiano e di tutti i casi che hanno preceduto questa inchiesta, se i nostri Tribunali siano sintonizzati con i principi che la Suprema Corte di Cassazione continua ad enunciare, annullando le sentenze delle corti di merito che perseverano nel privilegiare le strutture esterne alle famiglie quali luoghi in cui disporre affidi temporanei dei bambini strappati ai genitori (per presunte inadeguatezze). Principio secondo il quale occorre sempre privilegiare il contesto familiare dei minori, cui i nonni appartengono a pieno diritto, onde indirizzare i bambini tolti ai genitori presso queste figure con cui hanno un legame affettivo e di relazione. Insomma: la comunità deve costituire solo l’extrema ratio, la scelta ultima quando ogni possibilità di affidamento presso gli ascendenti o altri parenti appaia impercorribile. E’ ovvio, è logico, è umano persino, applicando solo il buon senso. E invece no, pare. Perché le comunità etero-familiari proliferano e si diffondono in tutta Italia, lucrando (in troppi casi, ma non in tutti, sia chiaro) proprio sulla violazione di questo enunciato principio che salvaguarda la famiglia d’origine del minore in luogo di qualsiasi alternativa esterna ad essa. Senza contare che, ad oggi, i controlli sulle Comunità etero familiari si riducono a mere autocertificazioni delle stesse, atteso che le procure presso i Tribunali per i Minorenni non paiono sufficientemente attrezzate per farlo direttamente. E’ un dato di fatto che il giro di denaro che si origina è davvero notevolissimo per quanto ingiustificato visto che, nella stragrande maggioranza delle fattispecie, i nonni (o gli zii) prenderebbero con sé i minori in difficoltà con tutto l’amore possibile e pure a gratis. E chi paga queste scelte? Tutti noi, anche quando non ve ne sarebbe bisogno: Bibbiano sta scoperchiando un vaso di Pandora di incarichi e commesse legati agli affidi temporanei che farebbe girare la testa a chiunque, in termini di spesa non necessaria. Altro che spending review, altro che Cottarelli. Un ingegnere giapponese, Shingo Shigeo, divenuto celebre dopo la seconda guerra mondiale, dedicò la sua vita allo studio dei sistemi per migliorare e rendere più efficienti i processi industriali e coniò un detto che lo rappresenta ma che ben si adatta a queste situazioni: il tipo di spreco più pericoloso è quello che non siamo in grado di riconoscere. Un giro miliardario (sì, miliardario) che - unito ad altri osceni business - fanno dell’Italia uno scolapasta dai cui fori escono rivoli di denaro pubblico che potrebbe essere destinato ad altro. Senza contare che molti dei giudici onorari che decidono gli affidamenti dei minori sono ancora oggi in un palese conflitto di interessi, già ben censurato dal Consiglio Superiore della Magistratura. In altre parole, ancora oggi, l’operatore sociale è spesso il giudicante. Anche nella graduatoria per il triennio 2020 -2022, sono stati ( ri) confermati alcuni Giudici Onorari, in barba alle ultime circolari del Consiglio Superiore della Magistratura sulle incompatibilità previste per i componenti dei collegi giudicanti di primo grado o delle sezioni per i minorenni delle corti d'appello. Morale: le leggi e i principi ci sono ma il sistema pare allergico agli stessi. Dunque, i poveri nonni, per poter difendere i diritti dei nipotini, dovranno passare attraverso tre gradi di Giudizio, sperando di essere ancora vivi alla fine del percorso giudiziario.
L'ira di una madre: "Mi hanno tolto mio figlio per darlo a una coppia gay". Mamma Roberta si sfoga col Giornale.it: "Dicono che è per il suo bene, ma un bambino non avrebbe diritto a crescere con una madre e un padre?" Elena Barlozzari e Costanza Tosi, Venerdì 15/11/2019 su Il Giornale. Quella di Roberta non è solamente la storia di una mamma che sta lottando per riportare a casa i propri figli. Di genitori che si sono riscattati da un passato difficile e stanno cercando di ricomporre il puzzle della propria vita ce ne sono tanti. Ma la sua storia è diversa. Nel suo caso, infatti, sembra di intravedere lo stesso movente ideologico che avrebbe spinto Federica Anghinolfi, paladina dei diritti Lgbt e responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, ad affidare un minore a una coppia di omosessuali. Ma andiamo con ordine. Roberta oggi ha 32 anni. Ne aveva appena 24 quando i servizi sociali del Comune di Torino le hanno tolto i bambini: Riccardo, Maria e Ginevra. Quel giorno non se la scorderà mai. “Sono andata a prenderli all’uscita di scuola – racconta in esclusiva a Il Giornale.it – e non li ho trovati, non c’erano più, li avevano portati via”. Roberta e i bimbi vivevano già da qualche tempo in una comunità mamma-bambino in provincia di Torino. “Quando ho scoperto che il mio ex marito si drogava ho chiesto aiuto agli assistenti sociali – spiega – che ci hanno mandato in comunità”. Quello che doveva essere un modo per proteggere la famiglia ha finito con lo smembrarla. Roberta finisce in mezzo alla strada, i suoi figli, invece, vengono mandati in comunità minorili diverse. La situazione si sblocca nel 2014. Maria e Ginevra vengono affidate alla zia, dove si trovano tutt’ora, la storia di Riccardo, invece, è più complicata. Viene affidato alla nonna materna che dopo poco rinuncia. “Ha preso il bambino – racconta Roberta, che con sua madre ha sempre avuto un rapporto conflittuale – e senza nemmeno avvisarmi lo ha riportato indietro”. Siamo nel 2016 e il bimbo ha ormai dieci anni. L’accaduto le viene comunicato da un’assistente sociale. Ma non è la sola novità. Riccardo, dopo essere stato rifiutato dalla nonna, è stato già dato in affido ad una coppia gay. Roberta non crede alla sue orecchie. Le sembra una cosa assurda. “Dicono di volere il bene di mio figlio, ma un bambino – si domanda – non avrebbe diritto a crescere con una madre e un padre?”. L’avvocato Simona Donati che assieme al collega Silvio Delfino sta seguendo il caso di Roberta ci ha spiegato che “a differenza delle adozioni, non esiste una norma che vieti espressamente l’affido di un minore ad una coppia gay ma neppure una che lo consenta”. La legge 184 del 1983 stabilisce che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Insomma, in materia di affidamento la normativa fissa una corsia preferenziale per le famiglie tradizionali e non c’è nessun riferimento alle unioni civili. Ma non è finita qui. Come ha scoperto il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, infatti, “a gestire l’affido di minori alle coppie omosessuali come consulente interna c’è un’assistente sociale del Comune che è contemporaneamente attivista Lgbt e fondatrice di una nota associazione di aspiranti genitori omosessuali”. Quello che potrebbe apparire come un conflitto di interessi sembra non preoccupare l’amministrazione pentastellata. Tanto che a gennaio di due anni fa la funzionaria ha partecipato ad un incontro pubblico “per riflettere sull’affidamento dei minori a persone o coppie omosessuali attraverso la condivisione dell’esperienza di alcuni protagonisti”. Tra le testimonianze c’è anche quella dei due papà affidatari con cui vive il figlio di Roberta. Il tutto con il patrocinio dell’amministrazione comunale. La stessa che negli ultimi mesi si è distinta per aver fatto da apripista alla trascrizione anagrafica dei figli delle coppie gay nati all’estero con la maternità surrogata. “Ci chiediamo se nella Torino amministrata dai Cinque Stelle – denuncia Marrone – le famiglie povere non siano diventate il safari park per le coppie gay ricche in cerca di figli”.
Bibbiano, il ministero non si ferma e manda gli ispettori a Bologna. Simona Musco il 13 Novembre 2019 su Il Dubbio. Si cercano possibili connivenze tra indagati e giudici minorili. Ma sulle toghe che hanno smentito il sistema di “Angeli e demoni” si abbattono vecchie e nuove fake news. L’aria al Tribunale dei minori di Bologna è tesa. Perché dopo l’indagine sui Comuni della Val d’Enza, ormai a tutti nota come “Caso Bibbiano”, le ombre che fino ieri avevano coperto il cielo dei servizi sociali si addensano anche sopra la magistratura, con una nuova inchiesta amministrativa disposta dal ministero della Giustizia a via del Pratello, per accertare eventuali anomalie nell’attività svolta dal Tribunale con l’ausilio del servizio sociale. L’intento del guardasigilli Alfonso Bonafede è quello di monitorare eventuali rapporti, anche extraprofessionali, tra giudici e operatori del settore minorile, che potrebbero aver determinato situazioni di incompatibilità e il rispetto dei protocolli. Un rispetto che era stato sancito, nelle scorse settimane, da un’approfondita indagine interna disposta dal presidente del Tribunale, Giuseppe Spadaro, sui fascicoli degli ultimi anni, compresi quelli finiti nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Da quell’indagine era emersa una certezza: non esiste, a dire del presidente, alcun sistema Bibbiano, perché gli unici casi ambigui sarebbero quelli finiti sotto la lente della procura ordinaria. Nove casi in tutti, sette dei quali erano già stati “risolti” dal Tribunale dei minori con il ricongiungimento dei minori con le rispettive famiglie. Tutto regolare, insomma, e nemmeno un minimo spazio per poter immaginare connivenze tra i magistrati minorili e indagati. E che le anomalie evidenziate dall’inchiesta non potessero tradursi in un “sistema” era emerso anche dall’indagine della commissione regionale appositamente costituita: nessuna macchinazione mostruosa ordita per allontanare i minori dalle famiglie, bensì singoli «casi in cui qualche anomalia si è verificata e sui quali la magistratura sta svolgendo il suo lavoro», aveva chiarito Igor Taruffi, vicepresidente di quell’organismo. L’indagine del ministro, ora, dà però di nuovo adito a dubbi e sospetti. Un’indagine che non si limiterà all’acquisizione di documenti, ma che prevede anche la consultazione del protocollo riservato e l’audizione diretta degli interessati: dai magistrati al personale amministrativo, passando per chiunque sia in grado di fornire informazioni. «Sin dall’inizio ho chiarito che la protezione dei bambini è una priorità – ha sottolineato Bonafede – e su questo fronte andremo fino in fondo. La prossima settimana presenteremo i dati sul monitoraggio degli affidi effettuato dalla squadra speciale di giustizia per la protezione dei minori. È la prima volta che si è in grado di fornire un quadro di dati chiaro, omogeneo e su base nazionale». L’idea di fondo è quella che esista un’area grigia, con rapporti poco chiari tra indagati e Tribunale. Un’ipotesi fortemente respinta dagli stessi magistrati e che nei mesi scorsi era stata avallata anche grazie a fake news che avevano fatto sospettare del lavoro dei giudici. Tutto fa riferimento ad un’intercettazione del dicembre 2018, nella quale lo psicoterapeuta Claudio Foti del centro “Hansel e Gretel” e l’assistente sociale Francesco Monopoli facevano riferimento all’aiuto che il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti avrebbe potuto dar loro «contattando giudici che sostenessero in un convegno la soluzione metodologica da loro preferita». E alla richiesta di Foti circa il nome del «giudice amico», Monopoli rispose «Mirko Stifano», giudice togato minorile di Bologna che, però, non risulta indagato. Il che significa che per la procura non esistono elementi in grado di sostenere un’accusa circa un suo coinvolgimento nella vicenda. Ed è qui, dunque, che compare l’anomalia a mezzo stampa. A fine luglio, infatti, spunta la notizia shock: il Tribunale dei Minori, scriveva un giornale locale, era stato avvisato dalla procura di Reggio Emilia che uno degli affidi era illecito e che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. Ad avvisare il giudice Stifano sarebbe stato il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, che gli avrebbe chiesto di interrompere l’iter di allontanamento, inviandogli gli atti che avrebbero dimostrato la falsità dei servizi sociali. Una richiesta, riportavano i giornali, caduta nel vuoto, tant’è che il bambino sarebbe comunque finito nel centro “La Cura” di Bibbiano, dove sarebbe rimasto fino all’esecuzione dell’ordinanza. Notizia categoricamente smentita dal Tribunale: la Procura di Reggio Emilia, giurava in una nota Stifano, che ha anche dato mandato ai propri legali per difendere la propria onorabilità, non avrebbe «mai segnalato falsità poste in essere dai servizi sociali», né «fatto richieste o dato indicazioni di alcun genere perché i decreti del Tribunale dei minori non fossero eseguiti». Tant’è che il bambino è stato ricongiunto alla propria famiglia proprio su iniziativa del Tribunale stesso, il 13 maggio, molto prima, dunque, dell’esecuzione dell’ordinanza “Angeli e Demoni”. Una bufala strana, ancora più strana alla luce dell’ispezione disposta da Bonafede.
"Pubblichiamo i dati sugli affidi". Così i giudici finiscono nel mirino. La proposta arriva dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che ha annunciato che, la prossima settimana, saranno pubblicati i dati sul monitoraggio degli affidi in tutta Italia. Costanza Tosi, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Se la commissione d’indagine regionale ha cercato di mettere un punto alle ricerche sugli affidi illeciti decretando che il sistema è sano e definendo Bibbiano “un raffreddore” c’è chi continua a volerci vedere chiaro. C’è qualcuno che, forse, sulla profondità delle indagini della sinistra per scovare le colpe dei suoi mette ancora un punto interrogativo. Chi, perlomeno, propone di non parlare solo di “macrotemi” e affidarsi ai dati. Forse, sarebbe anche l’ora. A distanza di quattro mesi dallo scoppio dello scandalo sulle storie dei bambini di Bibbiano, che ha portato a un'inchiesta giudiziaria che procede sulle accuse di ventisei indagati e diciotto misure cautelari, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede annuncia una nuova inchiesta amministrativa sull' operato del Tribunale di Bologna. "La protezione dei bambini è una priorità", ha affermato il Guardasigilli la cui proposta sarà portata a termine dall' ispettorato del ministero della Giustizia al tribunale per i Minorenni di Bologna. "Una decisione nata - spiega in una nota Bonafede - in seguito all' ispezione eseguita immediatamente dopo l' emergere dell' inchiesta Angeli e Demoni, tenuto conto degli esiti dell'istruttoria". Se non altro forse questa volta si parlerà di numeri e, come si suol dire, la matematica non è un’opinione. Il ministero ha annunciato che, la prossima settimana, saranno pubblicati i dati sul monitoraggio degli affidi in tutta Italia. Non sono bastate le rassicurazioni di indagini frettolose, né tantomeno la costanza dei dem nel mantenere oscurata la questione del tema degli affidi per far calare il sipario sugli scandali emersi dall'inchiesta della procura di Reggio Emilia. L’indignazione di centinaia di famiglie impaurite dalla scoperta di un probabile meccanismo, ben collaudato, intrinso in illeciti che lucra sulla pelle dei bambini non è poi così facile da silenziare. L’idea del ministro è quella di "andare oltre le sole forme dell' acquisizione documentale che prevede anche la consultazione del protocollo riservato e l'audizione diretta degli interessati: magistrati professionali e onorari, personale amministrativo, altri soggetti in grado di fornire informazioni in merito alla vicenda e anche rappresentanti del foro locale". Insomma, scavare un po' più a fondo di quando non sia riuscita a fare la commissione d’indagine istituita in Regione. L'obiettivo è quello di "accertare possibili anomalie nell'attività svolta dal Tribunale per i minorenni di Bologna con l' ausilio del Servizio sociale della Val d'Enza". Era proprio lì, dalle aule del tribunale bolognese che passavano la maggior parte delle relazioni fallate stilate dai servizi sociali che, in alcuni casi, passate inosservate e senza essere verificate sarebbero costate l'ingiusto distacco di una famiglia dal proprio bambino. Tanti, troppi problemi riscontrati dalla Procura di Reggio nei casi dei bambini finiti nelle mani di Federica Anghinolfi e Claudio Foti, potenti dirigenti inseriti nel sistema e capaci di dialogare con magistrati, istituzioni e onlus. Da lì l'allarme. La nuova indagine amministrativa ha l'obiettivo è porre l'attenzione su "gli eventuali rapporti, anche extraprofessionali, tra giudici e operatori del settore minorile che potrebbero aver determinato situazioni di incompatibilità; le misure eventualmente adottate dal presidente del Tribunale sulle possibili situazioni di incompatibilità/astensioni; la corretta applicazione delle tabelle di organizzazione anche con riguardo alle attività dei giudici onorari minorili; ogni altro aspetto che possa risultare di interesse". Bibbiano è solo a Bibbiano? O davvero, come hanno gridato centinaia di mamme e papà, o come affermò con forza, a noi del Giornale.it, lo psichiatra Alessandro Meluzzi "Bibbiano è in tutta Italia"? Il dubbio non può restare e per questo è necessario capire dove stà la verità.
Affidi, dodicimila in 18 mesi. Bonafede: «Niente allarmi ma noi vigiliamo». Simona Musco il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. I risultati della squadra speciale del ministero della Giustizia. Parla il Guardasigilli: «Nessuno può insinuare che non ci sia volontà di parlare di questi argomenti. Per la prima volta c’è qualcuno che toglie la benda allo Stato». È la «prima volta» che «lo Stato si toglie la benda che ha avuto finora e apre gli occhi per guardare a 360 gradi la situazione». Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, affermando che «sul tema degli affidi la maggioranza politica che oggi è al governo ha la massima concentrazione». «In un momento in cui qualcuno osa insinuare che non ci sia volontà di parlare di queste tematiche, cancelliamo questo dubbio: la maggioranza politica ha concentrazione massima non solo per parlarne, ma anche per agire concretamente, tutti uniti e compatti». Quello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sembra quasi una manovra per compattare la maggioranza, dopo gli scossoni degli ultimi giorni e in risposta a chi, fino a ieri, era al governo. Il pretesto, con due settimane di anticipo sulla tabella di marcia, viene dal “Caso Bibbiano”, con i primi risultati della Task Force voluta dal ministero per monitorare il sistema degli affidi. E i numeri grezzi della fase uno – per la «prima volta» in cui «lo Stato si toglie la benda» -, per quanto freddi «non sono allarmanti», assicura Bonafede: nel periodo dal primo gennaio 2018 al 30 giugno 2019, i minori allontanati dai propri genitori sono stati, complessivamente, 12.338, circa 23 al giorno, su un totale di 9,8 milioni di bambini e adolescenti, dei quali 1540, poi, conclusi con un rientro nella famiglia d’origine, ovvero il 12,5%. Numeri, al momento, privi di valutazione qualitativa: «dobbiamo capire le condizioni di disagio sociale – ha sottolineato il guardasigilli -. Ma è la prima volta che il ministero ha la possibilità di avere questi dati». Ma cosa dice l’indagine circa i fatti dell’inchiesta “Angeli e Demoni”? E 12.338 affidi sono troppi o pochi? Impossibile, al momento, rispondere, giura il ministro. Ma un dato certo, dall’Emilia Romagna, viene dato dal presidente del tribunale dei minori di Bologna: nello stesso periodo monitorato dal ministero, in Emilia gli allontanamenti sono stati 249 e di questi circa la metà dei ragazzi sono rientrati in famiglia. «Numeri bassissimi», ha commentato il giudice Giuseppe Spadaro. Il monitoraggio ha consentito di verificare anche la natura degli stessi affidamenti: 8.722 sono stati disposti da un tribunale, mentre la parte restante dagli altri uffici. E il collocamento in comunità dipende dalla mancanza di famiglie disposte ad accoglierli o su precisa richiesta degli stessi minori, in particolare gli adolescenti. Dati che arrivano da un monitoraggio su 213 uffici su 224, ossia il 95% del totale. Negli stessi 18 mesi, inoltre, sono state 5.173 le ispezioni ordinarie o straordinarie effettuate negli istituti di assistenza pubblici o privati, ossia a circa 9 al giorno. «La squadra si era data compiti importanti e ambiziosi – ha spiegato Bonafede – ovvero il monitoraggio dell’applicazione della normativa, la raccolta di proposte e la creazione di una banca data nazionale degli affidi». Un monitoraggio che rischiava di essere interrotto dalla crisi di governo, «la mia più grande paura», ha confidato Bonafede. Ma il ministro è riuscito a concludere ieri la fase uno, restituendo intanto l’entità del fenomeno. «Non agiamo per allarmare qualcuno», anzi, «non è un dato allarmante ha spiegato -. Vogliamo, semmai, tranquillizzare i cittadini, dicendo che c’è una maggioranza politica che concentra l’attenzione, per la prima volta, proprio sui bambini, per garantire un sistema che protegge bambini e famiglie». Le criticità riguardano l’eterogeneità delle esperienze e lo spezzettamento del percorso del minore, che risulta, così, non sempre sotto controllo. La fase due sarà perciò caratterizzata da un lavoro di riflessione sui numeri, sullo sviluppo della banca dati e sullo studio di nuove possibili linee d’azione per rendere l’attuazione delle leggi omogenea. «È necessario prevedere un termine di scadenza dell’affidamento, salvo proroghe, con un monitoraggio semestrale ha aggiunto -. Serve una revisione della disciplina dei collocamenti, con una tempestiva valutazione da parte del tribunale dei minori e un protocollo normativo peri provvedimenti d’urgenza che non tolga il controllo allo Stato in nome dell’emergenza».
Bibbiano, la verità della Regione: «Altro che silenzio». Simona Musco il 27 Novembre 2019 su Il Dubbio. La relazione della commissione emiliana sugli affidi. Dal 2014 al 2017 sono stati 2970, in totale, I minori fuori famiglia. Molti I casi di affido consensuale, soprattutto in Val d’Enza: ben 25 sui 64 complessivi. La politica fa finta di non vedere Bibbiano, sosteneva ieri, dalle colonne del Fatto Quotidiano, Selvaggia Lucarelli. O meglio il Pd, che trincerandosi dietro la frase “Bibbiano non esiste” avrebbe messo fine alle polemiche sui presunti affidi illeciti scoperchiati dalla procura di Reggio Emilia con l’inchiesta “Angeli e Demoni”. La critica di Lucarelli parte dal presupposto che in Emilia Romagna l’analisi sulla questione che rimane a tutt’oggi un’ipotesi di reato che ancora non ha varcato le soglie di un’aula di tribunale sia stata affidata ad una commissione tecnica composta, in buona sostanza, da soggetti collaterali alla vicenda. Insomma, gente che in qualche modo con quel sistema c’entrava e che non avrebbe dunque la necessaria obiettività per analizzare i fatti. In sostanza Lucarelli punta il dito contro la commissione tecnica presieduta da Giuliano Limonta, esperto di neuropsichiatra infantile, affiancato da collaboratori del Cismai, il coordinamento dei servizi contro i maltrattamenti di cui faceva parte anche Claudio Foti, della Hansel& Gretel, finita nello scandalo “Angeli e Demoni”. Il timore, comprensibile, è che il controllato e il controllore corrispondano alla stessa persona, fornendo dunque una comoda scappatoia alla politica per camuffare il silenzio dietro un gran baccano.
Ma la commissione tecnica di cui parla Lucarelli non è l’unica. Ve n’è in realtà, un’altra, squisitamente politica, composta da 27 consiglieri regionali e presieduta da Giuseppe Boschini, del Pd, affiancato da esponenti provenienti, oltre che dal Partito Democratico, anche da M5S, Lega, Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia, L’Altra Emilia e Gruppo Misto. Una commissione che il 14 novembre scorso ha concluso i propri lavori, dopo 45 audizioni, l’acquisizione di documenti e vari confronti politici e di metodo, con una relazione di 250 pagine che analizza numeri, norme e dichiarazioni. Insomma, se n’è parlato. E anche prendendo posizione politicamente, se è vero, com’è vero, che il governatore dem emiliano, Stefano Bonaccini, ha annunciato la costituzione di parte civile della Regione in caso di processo. Ma non solo: la commissione politica, proprio per scansare qualsiasi accusa di semplificazione e di insabbiamento, ha messo in evidenza tutte le criticità del sistema affidi, proponendo alcuni correttivi per renderlo più efficiente e fornire più garanzie di tutela ai minori. Ma nelle sue conclusioni ha smentito anche le fake news, a partire da un fatto: non è mai stata affidata a privati la valutazione dei casi dei minori e quindi nemmeno l’analisi delle situazioni familiari o le segnalazioni alla magistratura. A causa di una cronica carenza d’organico nel pubblico, invece, il privato sociale subentra nella fase successiva, ovvero nella gestione delle comunità di accoglienza, che entrano in campo quando non ci sono famiglie affidatarie o un contesto familiare idoneo. E poi ha restituito la misura dell’inchiesta: su 2500 operatori sociali, sono sette quelli indagati, per sei casi su circa 3000 minori fuori famiglia. Ma andiamo ai numeri, dunque. Che vanno incrociati, per iniziare, con quelli forniti dal ministero della Giustizia al termine della prima fase dei lavori della squadra speciale voluta da Alfonso Bonafede. Il dato finale fornito da via Arenula, relativo agli ultimi 18 mesi, parla di 12.338 minori collocati fuori famiglia in tutta Italia. E in questo panorama, risulta tra i più bassi il numero a quello relativo alla sola Emilia Romagna, dove stando ai dati forniti dal presidente del tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, nello stesso arco di tempo sono stati eseguiti 249 allontanamenti, dei quali 116 conclusi con un ricongiungimento. E a ciò si aggiunge un ulteriore dato: il 45% di tali casi riguarda adolescenti – quindi situazioni estranee al cosiddetto “caso Bibbiano” – per i quali a richiedere l’affido è stata la stessa famiglia. Si tratta, dunque, di allontanamenti consensuali, pensati per risolvere situazioni di disagio. I numeri, ovviamente, cambiano considerando il dato complessivo degli interventi, che comprende anche quelli in corso dagli anni precedenti. In totale, al 31 dicembre 2017, erano 2970 i minori fuori famiglia, dei quali 1529 in affido familiare, in 452 casi consensuale. Di questi, nella famigerata Val d’Enza, 17 Comuni i cui servizi sociali sono finiti al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, il numero totale è di 64, dei quali 25 su richiesta della stessa famiglia. E nei casi in cui il tasso di minori fuori famiglia risulta maggiore rispetto alla media regionale – come Piacenza ( 6,55), Reggio Emilia ( 5,71) e Bologna ( 4,90) -, così come in quelli per cui le percentuali di ricorso all’affido familiare risultano più alte – Piacenza ( 4,61) e Reggio Emilia ( 4,29), compresa la Val d’Enza ( 3,32) – «si riscontra un forte ricorso agli strumenti dell’affido consensuale», ossia «un progetto condiviso con la famiglia e che non comporta quindi allontanamenti di tipo traumatico». Un dato interessante se si pensa che rispetto ad una media regionale pari a 0,64, nella Val d’Enza il ricorso all’allontanamento consensuale è pari a 1,80. Uno dei problemi emersi dalla relazione è quello della durata degli affidi: il totale in corso da più di 24 mesi, tempo previsto dalla norma di riferimento, «risulta pari a circa il 67%». Ma importanti sono anche le classi d’età: i minori in affido da zero a 10 anni rappresentano il 40% del totale, con un picco nella fascia 6- 10 ( 27,34%). Le proposte normative, anche a seguito dell’audizione del presidente Spadaro, non sono mancate, con l’impegno, da parte della Regione, di farsi parte attiva nell’accompagnare i processi di riforma. Tra queste due in particolare: una revisione delle procedure d’urgenza per l’allontanamento transitorio dei minori, con criteri di garanzia e rappresentanza per le famiglie e per il minore stesso, assicurando in tempi certi un adeguato contraddittorio; e l’istituzione di una sorta di “codice rosso minori”, che analogamente a quello istituito per la violenza di genere «consenta un triage approfondito, ma preferenziale e quindi rapido, per i casi urgenti di intervento sul maltrattamento e abuso ai minori, in un quadro giuridicamente chiaro, vigilato direttamente dalla autorità giudiziaria, e con le opportune garanzie giuridiche per tutti gli attori coinvolti».
Infanzia, la Garante: «I servizi ai minori non rispettano gli standard minimi». Simona Musco il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Filomena Albano, alla guida dell’authority per l’infanzia: «Dalle relazioni familiari al digitale, le tutele vanno aggiornate». Mascherin ( Cnf): «Serve il difensore del minore». Trenta anni dopo la rivoluzione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, è il momento di un “Child Act”, che metta insieme tutti gli interventi necessari per rendere i diritti dei minori davvero diritti “in crescita”. Un atto formale che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni, il rispetto della forma del giusto processo, con la presenza di un avvocato dei minori, e un welfare per l’infanzia, in grado di combattere la denatalità e l’emergenza educativa. Al netto delle polemiche a volte sterili e, soprattutto, disinformate sui presunti “sistemi”, come quello Bibbiano, che, dicono gli esperti, «non esiste». Spunti che sono venuti fuori dai tavoli di lavoro organizzati dal Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, in occasione dei 30 anni della Convenzione, firmata il 20 novembre del 1989. Ma il mondo di oggi non è lo stesso di 30 anni fa e ciò comporta nuovi bisogni, nuove esigenze e nuove vulnerabilità e, quindi, nuovi diritti. «Tra essi ricordo il diritto dei bambini a non essere lasciati soli, a non dover assistere a discussioni o litigi tra genitori, a coltivare i propri sogni e a realizzarli, a utilizzare in modo consapevole e sicuro i nuovi media digitali», ha sottolineato Albano. Diritti in crescita, dunque, ovvero da interpretare in chiave evolutiva, partendo dal concetto base della prevalenza del superiore interesse del minore. «Oggi i servizi all’infanzia e all’adolescenza non rispettano standard minimi uguali per tutti», ha spiegato Albano, che ha proposto quattro livelli essenziali delle prestazioni: mense scolastiche per tutti i bambini delle scuole dell’infanzia, posti di nido autorizzati per almeno il 33% dei bambini fino a 36 mesi, spazi- gioco inclusivi per i bambini da zero a 14 anni e una banca dati sulla disabilità dei minorenni. «Dobbiamo garantire che i diritti siano realizzati per tutti, non uno di meno». La rivoluzione epocale segnata dalla Convenzione, ha sottolineato Licia Ronzulli, presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è quella di aver reso i bambini soggetti di diritti e non più oggetti di tutela. Ma le norme, in Italia, sono ancora carenti. Ed è dimostrato dalla fotografia dell’Istat, secondo cui 1,26 milioni di bambini vivono in povertà assoluta, in termini di mezzi di sostentamento ma anche di povertà educativa. E la soluzione è «un vero welfare per l’infanzia», ha sottolineato. A sottolineare l’esigenza di considerare il sistema infanzia come unico e integrato al sistema economico è stato il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin. Che ha ricordato come non esistano riserve di competenza all’interno del mondo dell’infanzia. «Il processo minorile ha bisogno di interventi modificativi – ha sottolineato -. Un sistema che vede un soggetto di diritti, il minore, al centro del processo, con la garanzia di una voce autonoma e indipendente: il difensore del minore. Questo manca in maniera chiara». L’avvocato del minore, ha spiegato Mascherin, garantisce infatti soggettività, autonomia e indipendenza di difesa. E «serve un procedimento che più si avvicini alle regole del contraddittorio e del giusto processo», ha aggiunto.
La lentezza pachidermica del Tribunale dei Minori. Iter burocratici assurdi, carta invece del digitale, lentezze di ogni tipo. Da tutta Italia arrivano notizie di malfunzionamenti. E' ora di fare qualcosa. Daniela Missaglia il 22 novembre 2019 su Panorama. Immaginate che in una gara di Formula 1, ad un certo punto, scenda in pista Giuda Ben-Hur con la sua quadriga trainata da cavalli, pretendendo di partecipare alla corsa. E’ più che scontato che, già dopo la prima curva, il celebre personaggio del colossal hollywoodiano perda nettamente di vista le monoposto e, tra le risate di compatimento del pubblico, proceda con un passo trotterellante mentre gli altri sfrecciano sull’asfalto. La metafora proposta illustra la differenza, oramai sempre più marcata, tra la giustizia amministrata nei Tribunali ordinari e quella all’interno dei pachidermici Tribunali per i Minorenni, sempre più arretrati ed ingolfati, anti-storici e quindi dannosi, per molti versi. Già, perché le residue competenze che permangono in capo alla giustizia minorile, sul piano civilistico, vengono gestite da una struttura che non è in grado di procedere alla stessa velocità del Giudici dei Tribunali ordinari, zavorrata da plurimi fattori. Il primo dei quali è la gestione delle cause e dei fascicoli, ancora legata alla "carta", quando sono anni che fuori da quelle mura è tutto telematizzato. Se i Tribunali ordinari oggi viaggiano on-line, su appositi portali, accessibili e consultabili dagli avvocati, dai giudici, dai cancellieri, dai periti, snellendo tutto l’iter, nei palazzi dei Tribunali per i Minorenni ogni causa è ancora legata all’atto depositato fisicamente, con la conseguenza - invero drammatica - che basta non stampare un documento, non allegare un fax, per esempio una relazione dei Servizi Sociali, e cambia il corso stesso degli eventi. Senza contare che per avere la copia dei documenti depositati la trafila burocratica può durare anche una settimana, se tutto va bene. Vi è poi il cosiddetto rito minorile, ancestrale, basato sulla rigorosa collegialità di ogni decisione: un provvedimento che, nei casi d’urgenza, al Tribunale ordinario può essere assunto da un singolo magistrato, al Tribunale per i Minorenni presuppone la riunione di un consesso di più giudici, onorari e togati, con la conseguenza di finire, molto spesso alle calende greche. Appunto, per rimanere in tema. In questi giorni novembrini il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia è esploso e ha sentito il bisogno di licenziare un durissimo comunicato contro il malfunzionamento del Tribunale per i Minorenni di Bologna: fascicoli che mancano o incompleti, giustizia lenta, omesse comunicazioni, assenza di telematizzazione, ordinanze che languono nell’iper-spazio, e chi più ne ha più ne metta. Queste accuse possono valere per ogni ufficio di giustizia minorile in Italia. La lentezza è tale che infinite volte al minore - della cui tutela si discute - cresce la barba e oltrepassa la soglia della maggiore età senza che venga pronunciata una decisione definitiva. Non vi è più ragione di proseguire questa agonia, non è più tollerabile che la giustizia venga amministrata a due velocità, visto che - in ambito familiare - il prezzo da pagare è salatissimo, con interessi in gioco di importanza capitale. In fondo, la vicenda di Bibbiano è fatalmente esplosa anche in virtù di questi malfunzionamenti. Ben-Hur ha fatto il suo tempo, ma non può più competere con l’evoluzione di un mondo che non lascia più spazio alle sue quadrighe.
Bibbiano: satanismo, papà-orchi, mamme-streghe. Ecco come convincevano tutti a “falsare” i casi. Chiara Volpi sabato 23 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. L’inchiesta su Bibbiano, che con un dettagliato servizio pubblicato oggi da La Verità, aggiunge un altro capitolo orrorifico agli sconcertanti atti già acquisiti dalla magistratura e resi noti dai media. Stante alle nuove rivelazioni pubblicate oggi sul quotidiano diretto da Belpietro, la cornice si arricchisce infatti di nuovi elementi. E la scena si “arricchisce” di boschi misteriosi, maschere inquietanti, sangue e ombre. Orchi e streghe. Satanisti, cannibali e adoratori del Male. Una narrazione gotica, quella desunta dalle relazioni di assistenti sociali e psicologici, per cui i mostri erano i genitori. I salvatori gli operatori dei servizi sociali. L’unica costante rimasta inalterata anche oggi che la verità sta venendo fuori è che le vittime sono sempre stati i bambini…
L’inchiesta su Bibbiano: nuovi, sconcertanti, elementi. Già, perché aumentano i mostri. Decuplicano le false accuse. Proliferano tentativi più o meno striscianti di difendere aguzzini chiave e comprimari. Non si contano più le volte che il Pd ha tentato di sminuire gravità e responsabilità politiche dello scempio. Ma le figure chiave dell’inchiesta su Bibbiano, Federica Anghinolfi (responsabile del servizio sociale dell’Unione della Val d’Enza), Claudio Foti (direttore della onlus Hansel e Gretel) e Francesco Monopoli (assistente sociale dei servizi sociali dell’Unione Val d’Enza). Tutti oltre che potentissimi deus ex machina intervenuti dram,maticamente nelle vite delle famiglie, stravolgendone i destini, anche abili persuasori occulti di colleghi e dipendenti indottrinati giorno dopo giorno. E convinti da menzogne e artefazioni ad hoc a operare secondo il loro terribile disegno.
Le inquietanti dichiarazioni degli assistenti sociali interrogati. Secondo quanto ricostruito da La Verità, infatti, Anghinolfi e Monopoli avrebbero fatto credere agli assistenti sociali che occorreva proteggere i bambini da una setta. In base a quelle che il quotidiano di Belpietro definisce «le sconcertanti dichiarazioni rese agli inquirenti dagli assistenti sociali», interrogati, «i loro capi li spingevano a togliere i figli alle famiglie inventando la minaccia di un gruppo “satanista”». Di più: «Dobbiamo salvare i bambini a costo di forzare le relazioni o addirittura falsificarle»- Come scrive La Verità, infatti, «la presentavano, così, come una lotta contro il male. Una forza oscura, terribile e insidiosa, una piovra che allungava ovunque i propri tentacoli viscidi». dunque, per la precisione, «si sarebbe trattato di una setta satanica dedita a violenze sistematiche sui piccini, a omicidi di minorenni, a riti blasfemi e addirittura a cannibalismo rituale». Operatori e operatrici, terrorizzate, venivano anche ammoniti in merito al potere esercitato da questi presunti “adoratori del male”: tutti giudici, membri delle forze dell’ordine, professionisti di successo. Insomma, i satanisti potevano essere ovunque. I loro figli vessati sempre…
Papà-orchi e mamme-streghe: incredibile trama per facilitare gli affidi. Guarda caso, però, come scrive La Verità, «la comparsa di queste storie sui riti satanici a Reggio Emilia e dintorni risale al 2016. Cioè nel periodo in cui nella zona sbarcano i professionisti di Hansel e Gretel. A cui venne affidata la gestione del centro La cura di Bibbiano». E allora, come è stato possibile non notare quella “strana” coincidenza fra i casi di Bibbiano e quelli della Bassa Modenese al centro dell’inchiesta “Veleno»? E, soprattutto, come operatori e assistenti sociali di quelle zone hanno potuto farsi convincere così facilmente che quelle storie dell’orrore, a dir poco inverosimili. Popolate di papà mostri e familiari orchi. Mamme-streghe e complici fantomatici? Come convincersi, senza notare nulla di strano, che, come conclude anche il servizio de La Verità, «due potentissime e terribili sette sataniche avrebbero operato in provincia di Modena e in provincia di Reggio Emilia a distanza di vent’anni l’una dall’altra»? Ai giudici la neanche troppo ardua sentenza…
"A Bibbiano parlavano di cannibali e satanisti per togliere i bimbi ai genitori". Spuntano i testimoni che raccontano come i "demoni di Bibbiano" li inducevano a fare carte false con le storie di uomini pedofili e cannibali. Una minaccia per i piccoli del paese. Costanza Tosi, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Liberare i bambini da una setta satanica spietata. Così il capo dei servizi sociali Federica Anghinolfi, il suo collaboratore Francesco Monopoli e il fondatore della Hansel e Gretel, Claudio Foti insieme alla ex moglie Nadia Bolognini plagiavano gli operatori per spingerli a compiere gli atti illeciti. Per convincerli che strappare i bambini alle proprie famiglie di origine era la cosa giusta da fare. O,meglio, che quella era l’unica cosa da fare. La sola via per salvare i piccoli da questo terribile pericolo.
Il terreno era labile sotto i piedi di chiunque nel paesino in provincia di Reggio Emilia. Secondo i falsi racconti dell’orrore che i "Demoni di Bibbiano" riportavano agli assistenti sociali, i mostri, pedofili che abusavano dei bambini potevano essere ovunque. Denunciarli era troppo pericoloso perché gli uomini della setta erano persone molto potenti: magistrati, personale delle forze d'ordine, professionisti del settore. Un gruppo numeroso le cui pedine potevano trovarsi sparse ovunque, anche di fronte alla propria casa. Le menti del sistema illecito che muoveva gli affidi in tutta la Val D’Enza plagiavano chi aveva più bisogno. A raccontarlo, in aula di tribunale, sono almeno sei testimoni diversi e non tutti indagati dalla Procura di Reggio Emilia. Indotti, convinti e spaventati dai racconti di Anghinolfi e Monopoli, gli operatori dei servizi stilavano decine di perizie false allo scopo di allontanare i minori dalla propria famiglia. "Anche adesso che mi avete aperto gli occhi faccio fatica a credere che fosse tutto falso", ha detto uno dei testimoni durante l’interrogatorio. E nella convinzione che due righe di falsità scritte su un foglio avrebbero salvato la vita ad un bambino voi, non avreste fatto lo stesso? Così agivano gli uomini dei servizi sociali, convinti di fare del bene. Sicuri che stavano solo salvando le vittime da una setta di cannibali. "Vivevamo in una stanza chiusa, ci avete portato la luce aprendo le finestre”, anche queste parole arrivano da una degli assistenti sociali del comune di Bibbiano in aula di tribunale. Le favole dell’orrore attaccavano. Funzionavano per mandare avanti il gioco illecito e le parole dei racconta menzogne erano forti. Persuasive. Tanto da essere credibili. Così, la rete si allargava a poco a poco e la favola diventava una realtà per tantissime persone. Ad essere imbrogliato, anche un perito, che pare sia stato avvicinato in Tribunale, prima di un' udienza. Ad indirizzarlo sul da farsi sarebbe stato proprio Monopoli. Raccontando al professionista “il pericolo" che quel bambino correva, la famiglia era un nido di mostri. Gli psicologi di Claudio Foti, alla Hansel e Gretel avevano tutto sotto controllo. Era semplice procedere con le sedute. Bastava seguire alcune linee guida. Se i bambini, nei loro racconti o ottraverso i loro disegni, utilizzavano le parole bosco, camionista o maschera scattava il campanello d’allarme. Quelli erano i segnali che il piccolo era finito nelle mani dei pedofili. Storie surreali che aggiungono dettagli inquietanti a quella che già dalle carte della procura di Reggio Emilia si era mostrata come una vicenda disumana. Testimonianze che, Rossella Ognibene, legale di Federica Anghinolfi, respinge. Non ci sono prove che confermino i racconti dei testimoni. Eppure la storia rende tutto amaramente più credibile. Qualcosa di troppo simile era già successo. A pochi chilometri di distanza da Bibbiano. Nel 1997 gli stessi racconti di sette staniche di pedofili che abusavano di minori e compivano riti nei cimiteri portò, nella Bassa Modenese, ad aprire un indagine. 16 bambini vennero allontanati dalle proprie famiglie e il parroco più amato della zona morì, nella stanza del suo avvocato, abbandonato dal suo stesso cuore che non resse il peso delle accuse. Nessuno trovò mai le prove dell’esistenza di una setta di maniaci che sacrificavano i propri bambini. Quasi vent’anni di processi e poi la verità. Le accuse non reggono. Nessuna setta è mai esistita. Alcuni degli imputati vennero assolti nel 2013 dalla Corte d' Appello. Ad interrogare quei bambini che raccontarono gli atti osceni, anche ai tempi furono gli operatori della Onlus di Claudio Foti. La stessa che, nei casi dei bambini di Bibbiano, è stata accusata di plagiare le piccole vittime al fine di inculcare nelle loro menti ricordi falsati. Ancora una volta sembra di assistere al un film già visto. Una delle bambine dei “Diavoli della bassa” il cui padre è finito in carcere con l’accusa di pedofilia, venne poi rintracciata da Pablo Trincia autore del podcast Veleno in cui racconta la verità sui casi di Mirandola. La ragazza a anni di distanza confidò al giornalista "di avere la percezione di essersi inventata tutto".
"Vogliono eliminare la famiglia". Ecco cosa c'è dietro Bibbiano. Papa Francesco incontra le famiglie a cui furono tolti i figli per false accuse di pedofilia e satanismo e si scaglia contro quel sistema che portò all'inchiesta dei "Diavoli della Bassa" negli anni novanta e al "caso Bibbiano" vent'anni dopo. Costanza Tosi, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. Dei "demoni" di Bibbiano è vietato parlare. A distanza di mesi dallo scoppio dell’inchiesta "Angeli e Demoni" sui presunti affidi illeciti nel paese in provincia di Reggio Emilia c’è chi ancora prova a silenziare le denunce, bloccare in petto le grida dei genitori che cercano giustizia. Condannare la spinta dei media a tenere accessi i riflettori affinché venga fatta chiarezza per tutte quelle famiglie strappate dai propri bambini sulla base di false accuse e lavaggio del cervello ai minori. In molti ancora continuano a negare l’esistenza di un sistema e di un’ideologia estrema che cerca di distruggere la famiglia naturale. La storia però porta proprio lì, all’evidenza di una cultura che ha combattuto la famiglia fino ad arrivare a condannare genitori innocenti. É proprio con questi genitori che, questa volta, si schiera anche papa Francesco. Il vescovo mercoledì ha incontrato i familiari a cui una ventina di anni fa, psicologi e assistenti sociali tolsero i bambini con falsi pretesti. Le cronache li chiamavano “diavoli” e invece si sono dimostrati delle vittime. Anche se ancora c’è chi non crede alle loro storie, su cui ormai, e finalmente, i tribunali hanno fatto giustizia. Sono i protagonisti delle storie di Veleno, l’inchiesta in cui il giornalista Pablo Trincia racconta la verità sulle famiglie che, alla fine degli anni novanta, vennero accusate di far parte di sette sataniche che commettevano abusi sui minori. Accuse da far accapponare la pelle: pedofilia e satanismo. Ma lì, a Mirandola, in quel paesino del modenese, tra queste famiglie, spesso fragili e indifese, di pedofili che compievano riti satanici si scoprirà che non ce ne sono mai stati. Quelle erano solo storie dell’orrore che gli assistenti sociali hanno assecondato e gli psicologi fatto denunciare ai minori in tribunale dopo lunghi lavaggi del cervello in cui i medici plagiavano i bambini fino a farli parlare di abusi mai avvenuti. Alcuni di loro facevano parte della Onlus Hansel e Gretel, l’associazione capitanata da Claudio Foti, oggi al centro dell’inchiesta sui bambini di Bibbiano. A loro sono andate le parole di Papa Francesco: "I bravi fedeli di Mirandola! Io vi ringrazio - ha detto - per come avete portato la croce e per come avete avuto il coraggio di difendere il parroco. Era innocente e voi lo avete tanto difeso". Il parroco è don Giorgio Govoni. Il prete che fu accusato di capitanare la setta satanica degli abusi. Le scioccanti testimonianze dei bambini molestati riportate da psicologi e assistenti sociali schiacciarono di accuse il parroco fino a farlo soffocare dal dolore. Don Giorgio morì nel 2000, ucciso da un malore mentre era nell' ufficio del suo avvocato. Il cuore non ha retto il dolore per quelle accuse terribili che spinsero il pm a condannare l’uomo a 14 anni di reclusione. La sua storia fu poi raccontata in un libro “Don Giorgio Govoni martire della carità, vittima della giustizia umana”. L’autore, don Ettore Rovatti, parroco di Finale Emilia quando era ancora in vita parlò con Trincia: “C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata. Queste psicologhe e assistenti sociali dell' Ausl volevano dimostrare che Dio, poveretto, non ha saputo far bene il suo mestiere. Erano loro che sapevano fare meglio del padreterno”. Disse il parroco, che aveva ricostruito l’intera storia dei “Diavoli della Bassa” attraverso atti dei processi, testimonianze, documenti. Ritrovare le sue trencento pagine di verità, oggi, è come cercare un ago in un pagliaio. Il suo libro è ormai introvabile, le copie stampate furono pochissime e, una volta esurite, non andarono mai in ristampa. La verità sul perché di questa piccola storia è un altro pugno nello stomaco, un’altra ferita per tutte le vittime di quelle vicende che hanno distrutto intere famiglie e cambiato la vita a decine di bambini. L’editore subì delle minacce e la paura lo spinse a fermare tutto. Così hanno raccontato mercoledì al Papa, quando una delle famiglie del caso Veleno a cui furono portati via i bambini ha regalato a Francesco una copia del libro su don Giorgio Govoni. Davanti a tutto questo niente è riuscito a fermare le parole di Bergoglio: “Siamo forse in dittatura? - ha detto - In Italia non c' è la libertà di stampa? Fate forza per ripubblicare questo libro, la libertà di stampa è per tutti”. Eppure in un paese in cui la libertà di stampa esiste, ancora ci sono storie che faticano ad essere accettate, che qualcuno non vuole che vengano raccontate. Forse, perchè portano a galla la verità su un sistema figlio di un’ideologia malata: la stessa ideologia che ha portato alle storie dei Diavoli della Bassa, prima, e dei bambini di Bibbiano, ora.
A Ferrara il Pd fa ricorso al Tar per fermare indagine su affidi. Il Pd ha deciso di presentare un ricorso al Tar per chiedere che la delibera che istituisce la commissione d'inchiesta di Ferrara sia dichiarata illegittima. Ecco le motivazioni (irrisorie). Aurora Vigne, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Il sistema Bibbiano, si sa, ha contagiato diverse città emiliane. Un meccanismo malato sul quale le famiglie, ora, chiedono chiarezza. Proprio per questo il Comune di Ferrara, guidato da giugno dal leghista Alan Fabbri, ha approvato l' istituzione di una commissione di inchiesta locale sul sistema di gestione dei minori per verificare se la macchina degli affidi funziona bene. Ma facciamo un passo indietro. È di giorni fa la notizia che l'indagine della Regione Emilia Romagna è stata conclusa - o meglio, sepolta - con questa sentenza inverosimile. "I servizi comunali sono complessivamente ben organizzati sul territorio - ha detto il presidente della commissione Giuseppe Boschini (del Pd) - che operano in un quadro sempre più complesso, con risorse non sempre adeguate: serve un passo avanti anche da parte della Regione Emilia-Romagna per migliorare il coordinamento di queste complessità". Insomma, non ci sarebbe nessun allarme sociale diffuso sul tema. Il che è assurdo. Ma si sa, la commissione era presieduta dal Pd e aveva un 5 Stelle come vice e così i dem e le istituzioni emiliane hanno potuto dormire sonni tranquilli. Ma a dare fastidio al Partito democratico ora è proprio la città di Ferrara. Con la commissione di inchiesta locale sul sistema di gestione dei minori, il pavimento sotto ai piedi ben saldi dei dem ha iniziato a tremare. E dire che non si tratta assolutamente di una caccia alle streghe. Ma piuttosto si tratta "della volontà di approfondire, spinti da un doveroso impegno di trasparenza nei confronti delle famiglie, utenti di un servizio delicatissimo, soprattutto dopo i dubbi sollevati sull' intero sistema dalle inchieste nazionali ancora in corso", ha spiegato l' assessore alle Politiche sociali, Cristina Coletti. Ma al Pd l'iniziativa non è piaciuta per niente e addirittura ha deciso di presentare un ricorso al Tar per chiedere che la delibera che istituisce la commissione sia dichiarata illegittima. E quali sarebbero le motivazioni? Considerando che siamo in Comune guidato dal centrodestra sembrano alquanto irrisorie. I consiglieri dem, infatti, insistono in particolare su un punto, ovvero il numero di piddini all' interno della commissione, che non ritengono proporzionale. In altre parole, ai dem brucia il fatto di non avere il controllo della commissione. Ma perché avere tanta paura? D'altronde, secondo la Regione a guida Pd, tutto funziona perfettamente e non c'è un sistema malato. Che dire: forse il Pd preferisce la linea dell'insabbiamento. Non si sa mai che poi esca qualche lato marcio anche a Ferrara.
Sinistra e Chiesa unite per censurare il caso Bibbiano. Un nuovo convegno sui fatti di Bibbiano scatena gli animi dei toscani. Il cardinale Giuseppe Betori e il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, uniti nella battaglia per la censura. Costanza Tosi, Martedì 12/11/2019 su Il Giornale. Bambini abusati, schiacciati da pressioni psicologiche, plagiati da pensieri umani figli di ideologie esasperate. Dagli scandali del Forteto toscano ai Diavoli della bassa modenese, fino alla più recente inchiesta guidiziara sui bambini di Bibbiano. A distanza di vent’anni le une dalle altre, ripercorrendo queste storie si compongono gli orrori di 50 anni di violenze sui minori che hanno rovinato centinaia di vite e distrutto intere famiglie. Ma parlarne è quasi un reato. Dirlo è offensivo e legare vicende che hanno alla base un dato comune, nonché l’ideologia, per qualcuno è strumentalizzazione. Per i progressisti uomini della sinistra la soluzione sarebbe tacere davanti a tanto squallore. Lo avevano fatto intendere agli inizi delle indagini sui "demoni" di Bibbiano, fingendosi, a comodo, garantisti e gridando all'unisono "no alle strumentalizzazioni. Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso". Che importa denunciare gli abusi, le violenze psicologiche sui minori affinchè non si ripetano, in nome di un dovere morale che serva ad accendere i riflettori su un tema che forse, visti i fatti, meriterebbe alcune riflessioni? A loro, niente. L’importante è silenziare le questioni, sopratutto quelle in cui, in qualche modo, i sinistri sono coinvolti, anche solo perchè condividono le stesse ideologie, o hanno creduto in metodi che si sono verificati pericolosi.
É successo di nuovo. Che qualcuno abbia cercato di censurare un momento di confronto e, questa volta, la squadra che si è schierata contro la libera espressione di un pensiero è numerosa e ben assortita. Succede che, il 30 novembre, a Bergamo, si terrà un convegno, Da Barbiana a Bibbiano. Tra gli ospiti, il giornalista Pucci Cipriani, il garante per l'infanzia e l'adolescenza del Lazio, Jacopo Marzetti, e Francesco Borgonovo, vicedirettore della Verità. Il tema è quello dell’abuso dei minori e il titolo fa intuire il focus. Barbiana è, infatti, una località in provincia di Vicchio, il paese in Toscana, casa del celebre don Lorenzo Milani. Bibbiano, il paese nel reggiano finito al centro delle cronache con l'inchiesta "Angeli e demoni". Un evento per continuare a parlare di storie che mai riusciranno ad essere seppellite e che hanno ancora bisogno di essere tinte della verità più pura, almeno finché la giustizia non farà il suo corso. Ma c'è chi non è d’accordo. Insorgono i garantisti sui social e, a questo giro, dice la sua persino il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. "Non si può accettare che la figura di don Lorenzo Milani, servitore esemplare del Vangelo e testimone di Cristo, sia strumentalizzata", ha dichiarato. Ci risiamo. Con la stessa filastrocca. Strumentalizzazione sembra essere diventata la parola d’ordine. "Si tratta dell' ennesima distorsione e travisamento che da varie e diverse parti, in maniera ricorrente nel corso dei decenni, è stata fatta e continua ad essere fatta del pensiero e dell' azione di questo nostro sacerdote - ha proseguito Betori - vicende inaccettabili come questa suscitano amarezza e dolore per il ricordo di don Milani, per la diocesi, e per tutti coloro che lo hanno conosciuto". Eppure ci sono episodi che di amarezza e dolore ne hanno sicuramente causato di più. Che nel titolo della locandina del convegno venga accostata Barbiana ai più recenti fatti di Bibbiano dipende da un fatto semplice e chiaro. È proprio dalla "scuola di don Milani" che provenivano alcuni tra i fondatori del Forteto, la comunità degli orrori gestita da Rodolfo Fiesoli, tornato ad occupare le pagine di cronaca pochi giorni fa quando la Cassazione ha confermato la sua condanna a 14 anni e 10 mesi di carcere per maltrattamenti e violenza sessuale su minori. A dirlo è chi non avrebbe mai voluto farlo e a cui questa consapevolezza ha provocato sì, sofferenze e tanto, dolore. La “denuncia” è partita da alcuni soci della sede di Bologna del Centro formazione e ricerca "don Lorenzo Milani" e scuola di Barbiana che hanno spiegato del legame fra alcuni discepoli di don Milani e il Forteto. Motivo per cui, hanno poi deciso di dimettersi e tirare giù la saracinesca della sede bolognese del centro. "Un socio fondatore della nostra associazione di Vicchio, Edoardo Martinelli, è stato anche fondatore del Forteto, poi fuoriuscito, che da anni sapeva delle violenze che ivi venivano commesse", hanno spiegato i soci di Bologna. Che poi hanno aggiunto, senza mezze parole, che "i documenti raccolti hanno messo in evidenza la piena commistione tra la vicenda Forteto e Barbiana attraverso l'abuso distorto del pensiero di don Milani, ma anche attraverso l'inerzia di coloro che, consapevoli da anni, avrebbero potuto e dovuto intraprendere una battaglia in difesa dei più deboli". Come se non bastasse tra i fatti ricordano che "un noto esponente della nostra associazione di Vicchio, Manrico Velcha, in rete definito segretario generale, ha per anni partecipato al cda della Istituzione Centro di documentazione don Milani del Comune di Vicchio a fianco del pregiudicato per reati di violenza sessuale, atti di libidine violenti e continuati ai danni di minori disabili Rodolfo Fiesoli, partecipazione protrattasi fino al giorno dell'arresto di Fiesoli, 20 dicembre 2011". Evidentemente si parla di una esasperazione malata, di un utilizzo improprio di un ideologia per compiere atti disumani. Ma infatti, dato che il convegno ancora non si è tenuto, con ogni probabilità nessuno avrebbe partecipare con l’intento di voler infangare il nome di don Milani. Una strana interpretazione di un titolo volto a collegare due vicende purtroppo legate da un filo rosso. Una cosa però è certa: i rapporti tra alcuni seguaci di don Milani e i protagonisti della vicende del Forteto meritano di essere chiariti. Senza censura. Senza che questo possa offendere nessuno che, piuttosto, dovrebbe essere sconcertato dalle ultime denunce. E invece, a farsi sentire è stato anche il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Con lui, anche il sindaco del Mugello, che ha aderito persino ad una marcia a Barbiana. Una trasferta speciale per salvaguardare il nome di don Milani che Rossi ha annunciato persino sulla sua pagina Facebook dove, peraltro, non gli è passato di mente di dedicare due parole alla notizia della condanna del mostro del Forteto. Così, giusto per dire. Della gita ha invece scritto: "L'esperienza di Barbiana è così alta che non può essere infangata. Tutti devono rispettarla e attingere ad essa, come ad una fonte, per riflettere sul presente e sul futuro, proprio e della propria comunità. A me pare che mai come oggi tutti noi siamo chiamati in causa, personalmente, per un impegno di solidarietà verso chi ha bisogno, senza distinzioni di appartenenza nazionali, etniche o di classe". D'accordo anche Luca Lotti che ha invece diffuso un comunicato contro il leghista Simone Pillon. Anche lui, tra i partecipanti al convegno. "Pillon ha superato ogni limite di decenza", ha scritto Lotti. Per poi arrivare puntuale al ritornello: "È inaccettabile che la figura di don Milani venga strumentalizzata per miseri scopi di propaganda politica". Tutti adirati per la paura che si associ il nome di don Milani alle storie scandalose sui bambini. Nessuno che proferisce due parole per condannare la condotta disattenta (ci si augura) di chi, prima di loro, ha appoggiato e, ancor peggio, finanziato il Forteto nonostante le denunce e le condanne per reati che fanno accapponare la pelle. Per Bibbiano in fondo, è stato lo stesso. Forse però, qualcuno dovrebbe rendersi conto che è arrivato il momento di mettere da parte la propria tanto amata concezione del mondo progressista e ammettere che condannare i danni di un’ideologia smisurata non ha niente a che vedere con la strumentalizzazione politica. Che difendere le vittime condannando i colpevoli non ha niente a che vedere con la volontà di infangare gli innocenti. L'insurrezione ingiustificata per ostacolare convegni, eventi, spazi di discussione su Bibbiano, sul Forteto, su Veleno, è una censura contro la ricerca della verità. Perché? Fa paura a qualcuno?
Bibbiano scarica la sinistra: "Quelli del Pd ci hanno traditi". Gli scandali di Bibbiano hanno scosso i cittadini del paesino in provincia di Reggio Emilia. Ora la sinistra perde una fetta dei suoi elettori. Costanza Tosi, Martedì 26/11/2019, su Il Giornale. Pd sì, oppure no? A pochi mesi dalle elezioni regionali in Emilia Romagna è questo il dilemma. La regione rossa per antonomasia subirà la crisi della sinistra o rimarrà fedele agli uomini del Pd? Siamo andati a sentire cosa ne pensano i cittadini di Bibbiano. Il piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, balzato alle cronache negli ultimi mesi, per gli scandali sugli affidi illeciti. Le storie di Angeli e Demoni per il Partito democratico sono state un boccone difficile da digerire. Tra gli indagati dalla Procura di Reggio Emilia, infatti, sono finite anche alcune reclute del Pd. Tra questi Andrea Carletti, sindaco del paese e colpevole, secondo l’accusa, di aver favorito la Onlus di Claudio Foti offrendo allo psichiatra spazi comunali per svolgere le terapie ai minori, senza istituire le dovute gare d’appalto. Ora il primo cittadino è passato dagli arresti domiciliari all'obbligo di dimora nel Comune di residenza, Albinea. Come deciso dal tribunale della Libertà di Bologna sul ricorso della difesa del primo cittadino, attualmente sospeso dall'incarico dopo l’inchiesta in cui risponde di abuso di ufficio e falso. Ma non basta. Perché Carletti non è l’unico ad essere accusato di aver compiuto qualche passo falso in Emilia Romagna. Insieme a lui sono finiti nel registro degli indagati altri due sindaci dem: Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro indagati per abuso d’ufficio. Passeggiando per le vie del paese l’odore che si respira è di scetticismo. A dominare tra i bibbianesi sono gli indecisi, che ora temono che gli errori della sinistra potrebbero aver fortificato il sistema malato che coordinava gli affidi in tutta la Val D’enza. Regna la strategia del "non voto". "Tanto non cambia niente. I partiti ormai sono tutti marci. Da una parte e dell’altra. Tanto vale rinunciare a dire la propria", dicono i cittadini. "Io non voto e faccio prima. Quando verrà fuori la verità saprò cosa fare", proseguono. Ma qualche anima più speranzosa c’è. E, tra un caffè e l’altro, qualcuno ammette che da tempo ha abbandonato il proprio credo politico. "Il Partito democratico mi ha deluso. Hanno fatto cose inaccettabili". E chi invece rincara la dose e senza mezzi termini emmette: "Io sono allergico al Pd". Non tutti però escono scossi dalle storie delle famiglie a cui hanno strappato i piccoli con false accuse e lavaggi del cervello ai bimbi al fine di fargli confessare abusi mai avvenuti. "Bibbiano rimane a Bibbiano. Non credo che incida molto", ci spiega un passante. Altri riducono l’inchiesta ad uno slogan dei populisti per sconfiggere la sinistra. Come il leader delle Sardine, Mattia Santori, che in occasione della manifestazione in piazza a Modena aveva dichiarato che "gli slogan su Bibbiano qua non funzionano perché la gente ha un cervello". E così, dietro l’onda dei pesciolini, c’è chi sostiene che sia tutta una farsa. "Quelle su Bibbiano sono tutte dicerie. Di tutto quello che hanno detto, di vero, non c’è quasi niente", si scalda una signora nella piazza del Comune. Beh, sarebbe il caso di dire che questo, forse, ce lo diranno le indagini.
NON PARLATECI DI BIBBIANO. Davide Lessi per “la Stampa” il 20 novembre 2019. Parlateci di Bibbiano, dicono. Ma farlo da questo paese di poco più di 10 mila anime, a una manciata chilometri da Reggio Emilia, non è semplice. I suoi abitanti sfuggono. Prevale la discrezione, la voglia di non alimentare polemiche. Tanto più ora che mancano un paio di mesi alle Regionali. Il motivo di questa diffidenza te lo spiegano al bar Carducci, a pochi passi dalla piazza principale. «Ci hanno trattato come appestati», dice Mario. «Pensi che quest' estate quando sono andato in vacanza l' albergatore mi ha sconsigliato di dire agli altri ospiti da dove venivo. Non voleva creare paure e ansie». Bibbiano, il paese diventato "hashtag" dello scontro politico estivo, è ancora stravolto. Poco importa che le luci del set ora si siano abbassate. Tutti ricordano l' inizio del film: è l' alba del 27 giugno quando questa comunità della Val d' Enza viene tramortita da 6 arresti, 27 indagati, 1600 pagine di intercettazioni. L' indagine si chiama "Angeli e Demoni", e va a scoperchiare un presunto sistema di affidi illeciti di minori, gettando ombre sull' amministrazione della cosa pubblica e sui servizi sociali. Mettendo in discussione uno dei baluardi di questa terra: la fiducia tra cittadini e istituzioni.
"Le minacce continuano". «Siamo stati travolti da un' onda anomala», racconta Paola Tognoni, sindaca facente funzione. È lei che ha sostituito Andrea Carletti (Pd) finito agli arresti domiciliari (a settembre convertiti in obbligo di dimora) con l' accusa di abuso d' ufficio e falso. «Non è semplice per una comunità come questa ritrovarsi alla ribalta delle cronache nazionali per un tema delicatissimo come la tutela dei minori», spiega dagli uffici del Comune. C'è da capirla. Bibbiano, cuore della Val d' Enza, conosciuta per le feste settembrine che la celebrano come «culla del parmigiano» è stata trasformata in un' agorà politico-mediatica che poco o nulla aveva a che vedere con l' indagine. Nella scalinata del municipio un via vai di manifestazioni, comizi di leader (da Matteo Salvini a Giorgia Meloni) e di sconosciuti personaggi in cerca d' autore, come tale Padre David, sedicente esorcista che, vestito con un saio bianco, diceva di voler far espiare alla comunità i suoi peccati. «Alcuni raduni hanno rasentato l' orrido - ammette ancora Tognoni -. Ma la verità, purtroppo, è che abbiamo subito minacce da tutta Italia». In Comune non si contano le telefonate e le mail di offese. «Una volta abbiamo ricevuto anche delle lettere che contenevano sterco. E il primo consiglio comunale dopo gli arresti, per motivi di sicurezza, è stato fatto con i poliziotti in tenuta anti-sommossa a presidiare l' ingresso».
Un sistema sotto-accusa. Passati, per ora, i problemi di ordine pubblico, si prova a fare una conta dei danni di quest' onda anomala. Che ha travolto i servizi sociali di tutta la Val d' Enza: dai 15 operatori occupati nella cura e nel sostegno dei minorenni, in sette sono finiti nell' indagine. Alcuni di loro con delle accuse gravi: l' aver manipolato le testimonianze dei bambini per facilitare l' avvio delle procedure di affidamento urgenti. Per capire l' effetto dell' inchiesta aiuta spostarsi a Barco, frazione di Bibbiano, dove hanno sede gli uffici sulla tutela dei minori dell' Unione Val d' Enza. «Le minacce non sono ancora finite», spiega Francesca Bedugni, sindaca dem di Cavriago e ora titolare delle deleghe ai servizi sociali per gli 8 comuni della valle. L'ultima intimidazione è stata recapitata ai servizi sociali della vicina Ferrara: una busta con dentro proiettili che indicava come destinatari «gli assistenti sociali di Bibbiano». Si lavora in un generale clima di diffidenza che mette a rischio anche l' erogazione dei quotidiani servizi di tutela ai minori. «Il paradosso è che il clamore suscitato dall' inchiesta ha fatto sì che, per ora, il sistema sia diventato più debole: non c' è da meravigliarsi che nei prossimi mesi, come anticipato dal presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, calino le segnalazioni di violenze e abusi». In tutta Italia diversi assistenti sociali, tra gli oltre 40 mila iscritti all' albo, starebbero chiedendo di essere spostati dai servizi ai bimbi a quelli per adulti e anziani. «Abbiamo paura di finire in indagini nel normale svolgimento del lavoro, perciò chiediamo di essere trasferiti ad altri impieghi», dice una di loro che preferisce l' anonimato.
L'autocritica. Eppure c'è chi, in attesa delle verità processuali, vorrebbe parlare di Bibbiano. «Ma seriamente, non con degli slogan», premette Alberto Iotti, consigliere nel vicino comune di Sant' Ilario. Lui ha redatto un libro bianco per sottolineare le responsabilità politiche che emergono dall' inchiesta. «Il limite di questa vicenda è quello di aver esaltato un modello, quello della Val d' Enza, senza un pensiero critico», dice. E spiega: «Hanno abbracciato le teorie dell' associazione Hansel e Gretel e le hanno sostenute economicamente senza esercitare un controllo politico». Il metodo di ascolto empatico dei bambini, professato dallo psicologo Claudio Foti e dalla moglie Nadia Bolognini (entrambi indagati), diverge da quello prescritto dalla Carta di Noto, il protocollo che contiene le linee guida deontologiche per gli psicologi forensi. «L' errore degli amministratori è quello di fidarsi di un metodo senza metterlo in discussione. Per questo dovrebbero fare autocritica - dice ancora il consigliere Iotti -. Ma Salvini smetta di dirci che qui rubiamo i bambini». La nuova ondata Il clima, con la campagna per le regionali entrata nel vivo, rischia di infiammarsi di nuovo. «Il pericolo c' è - ammette la dem Francesca Bedugni -. C' è chi vuole cavalcare l' inchiesta per strumentalizzarla e raccogliere consenso». Ancora più diretta è Valentina Bronzoni, 29enne consigliere comunale eletta a Bibbiano con una lista civica di opposizione. «Qui in Emilia, Salvini non può utilizzare lo spauracchio dei migranti ma sta politicizzando il caso affidi per creare un' altra paura atavica tra le persone: quella che un giorno, ingiustamente, qualcuno gli porti via i figli. È un gioco troppo facile però». Fatto sulla pelle dei bambini.
Bibbiano, la Cassazione revoca i domiciliari al sindaco. Secondo la corte non c'erano condizioni per arresto di Carletti. Giuseppe Baldessarro il 03 dicembre 2019 su La Repubblica. Torna il libertà il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. La Cassazione ha revocato l'obbligo di dimora nei confronti del primo cittadino Pd indagato per lo scandalo 'Angeli e Demoni' sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d'Enza, in provincia di Reggio Emilia. La misura cautelare era scattata nel giugno scorso quando il politico venne arrestato e messo ai domiciliari. Successivamente era stata decisa la misura dell'obbligo di dimora. A distanza di sei mesi ora è tornato libero. In attesa delle motivazioni, la Cassazione avrebbe deciso per la revoca sentenziando che non sussistevano le condizioni per l'arresto. Il ricorso alla Cassazione era stato presentato dai legali di Carletti, l'avvocato Giovanni Tarquini e il professore Vittorio Manes. Il sindaco non era direttamente coinvolto nelle vicende degli affidi illegittimi dei bambini da parte dei servizi sociali dell'Unione dei comuni della Val d'Enza, ma risulta indagato d'abuso d'ufficio e falso per aver affidato degli spazi pubblici all'associazione "Hansel e Gretel", che si occupava della psicoterapia dei bambini. Carletti alla lettura della sentenza è parso commosso, a chi ha avuto modo di parlargli è sembrato soddisfatto e ha detto: "È un importante passo verso la verità. Stasera sono felice, è finito un incubo"
Bibbiano, la Cassazione "È illegittimo l'arresto del sindaco Pd Carletti". Le motivazioni della Cassazione: "Indizi insufficienti per far scattare la misura cautelare". Angelo Scarano, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. "Il sindaco Andrea Carletti non poteva essere arrestato". Sono queste in sintesi le motivazioni della Cassazione che è stata chiamata a pronunciarsi sulle misure cautelari per il primo cittadino del Pd di Bibbiano. Il sindaco dem era stato sottoposto agli arresti domiciliari e poi all'obbligo di dimora proprio nell'ambito dell'inchiesta sugli affidi dei minori. Le motivazioni della Cassazione sono state riportate dall'ex parlamentare Pierluigi Castagnetti su Twitter e poi sono state confermate, secondo quanto riporta ilCorriere, dal deputato dem di Reggio Emilia, Andrea Rossi: "Mi sono messaggiato con i legali di Carletti che hanno confermato la notizia". Il sindaco di Bibbiano, finito nella bufera per il caso di alcuni affidi di minori, resta indagato per abuso d'ufficio. Ma di fatto la Cassazione ha stabilito che gli indizi non erano sufficienti a far scattare le misure cautelari. In questi mesi il caso degli affidi nel piccolo comune in provincia di Reggio Emilia ha fatto parecchio discutere diventando anche un vero e proprio caso politico. Il tema è entrato anche nella campagna elettorale per le Regionali in Emilia Romagna che si terranno a gennaio: "Per qualcuno non sarà stato un 'sistema', ma nel registro degli indagati sono finite 28 persone, si sono aperti nuovi filoni d'inchiesta, una funzionaria del Comune di Reggio Emilia è stata indagata per depistaggio ed emergono nuovi casi preoccupanti. L'ultimo è la denuncia fatta da due genitori di Bibbiano che non vedono da ormai sette mesi la figlia di tre anni", ha affermato qualche giorno fa la candidata della Lega alla guida della Regione, Lucia Borgonzoni. "La fine delle indagini - ha detto Borgonzoni - che dovrebbe essere imminente, consentirà di far luce, giustizia e chiarezza sui fatti. Minori e famiglie hanno bisogno di tutele, protezione e trasparenza. E noi continueremo la nostra battaglia politica per ottenerle e per arrivare a una riforma del sistema delle decisioni che coinvolgono bambine e bambini". Di certo questa vicenda infiammerà ancora queste ultime sette settimane di sfida elettorale per un voto, quello dell'Emilia Romagna, che si potrebbe rivelare determinante anche per la tenuta dell'esecutivo. E di fatto nel voto peserà anche il modo in cui i cittadini si sono approcciati a questa vicenda su cui ci sono ancora molti aspetti da chiarire.
Bibbiano, «I barbari del web hanno minacciato di morte mio figlio di 5 anni». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Quando rientrerò nel mio ufficio? Per ora non ci penso, bisogna fare un passo alla volta ma ci vogliono calma e gradualità. Per oggi mi accontento delle innumerevoli telefonate di stima, amicizia e solidarietà che sto ricevendo. Attestati che mi fanno dimenticare quelle continue minacce di morte indirizzate a me, a mia moglie e a mio figlio che ha cinque anni». Dopo che la Cassazione martedì sera ha revocato l’obbligo di dimora, Andrea Carletti — 47 anni, laurea in Scienze politiche, dirigente alla provincia di Reggio Emilia,— è tornato un uomo libero. Ed è tornato anche — così prevede la legge Severino che norma la sospensione degli eletti — sindaco di Bibbiano, il comune travolto dall’indagine sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d’Enza. Carletti — autosospeso dal Pd — era stato accusato di falso e abuso d’ufficio per aver irregolarmente affidato alcuni spazi comunali a un’associazione coinvolta nell’inchiesta. «Ma in poche ore, dopo che la notizia dell’indagine è finita su web, telegiornali e carta stampata sono diventato un orco, un mostro» accusato di «nefandezze indicibili, senza capo né coda, tipo il rapimento dei bimbi, violenze, abusi». Per i «barbari del web» — così li definisce — la sentenza era «stata emessa subito: pubblico linciaggio per tutti gli indagati e in primis per il sindaco del Pd». Carletti parla nell’ufficio a Reggio di Giovanni Tarquini, uno dei due avvocati — l’altro è Vittorio Manes, ordinario di diritto penale a Bologna — che lo assistono. Interrompe lo sfogo per telefonare alla moglie — «tra un po’ torno a casa» — e poi riprende: «Leggevo le carte giudiziarie che raccontavano uno scenario e sui social ne veniva descritto uno diverso, terrificante, vignette sconvolgenti per il loro orrore, frasi irripetibili. Un’inarrestabile macchina del fango alimentata da un mix di falsità, odio, ignoranza, ipocrisia. A un certo momento ho catalogato le offese e le minacce peggiori ricevute online e ho dato mandato ai miei avvocati di denunciare 147 persone». Il volto del sindaco è visibilmente provato, ma sa di essersi lasciato alle «spalle cinque mesi da incubo». Ricorda l’orario esatto in cui i carabinieri di Reggio Emilia hanno suonato al campanello — «6 e 55 del 27 giugno scorso» — per notificargli gli arresti domiciliari, misura poi «alleggerita», a settembre, in quella dell’obbligo di dimora ad Albinea, il comune nel Reggiano dove vive. Resta indagato, «ma le prossime fasi giudiziarie le affronterò a schiena dritta, fiducioso di veder riconosciuta la mia estraneità ai fatti contestati».
Bibbiano, il sindaco Carletti: «Il web voleva il mio linciaggio in nome del popolo». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Abbiamo ricevuto minacce di morte io, mia moglie e mio figlio. Il web chiedeva il mio linciaggio “in nome del popolo”»: Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano tornato completamente libero dopo che la Cassazione ha stabilito che non esistevano i presupposti per arrestarlo parla. Parla per la prima volta dal 27 giugno scorso quando venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulle adozioni denominata «Angeli e demoni» cavalcata per mesi dal centrodestra. «Ho toccato da vicino il significato vero, profondo della parola libertà. Il giorno dopo una delle tante serate trascorse in Comune vieni svegliato, e in poche ore, dalle Alpi alla Sicilia diventi il mostro, l’orco di Bibbiano» ha esordito Carletti, 47 anni, che resta indagato ma per reati di natura amministrativa e non per abusi sui bambini. «La tua pagina Facebook - prosegue ricordando i giorni dopo lo scoppio dell’inchiesta - è sommersa da insulti e minacce di morte rivolte non solo a te ma alla tua famiglia, a tuo figlio. Insulti e minacce di morte che riempiono anche le pagine social di `autorevoli´ figure istituzionali a livello nazionale. Il Procuratore Mescolini il giorno dopo, in occasione della conferenza stampa, chiarisce la mia posizione, ma la verità sembra interessare a pochi. Ormai la macchina del fango è partita: un mix di falsità, odio, ignoranza, ipocrisia con tanti obiettivi ma non sicuramente quello della verità e del bene dei minori. Dopo pochi giorni la sentenza di condanna era già stata emessa: i vili barbari del web chiedevano “in nome del popolo” il pubblico linciaggio degli indagati, sindaco in testa, se poi - ha concluso - il sindaco è del Pd ancora meglio». Il prefetto di Reggio Emilia ha chiarito che Carletti potrà riprendere a svolgere il ruolo di sindaco: «Da domani tornerò al silenzio, affronterò le nuove fasi giudiziarie a schiena dritta -prosegue ancora il primo cittadino di Bibbiano - per il doveroso rispetto verso chi sta svolgendo le indagini, delle famiglie e dei minori coinvolti. Nei prossimi giorni, con la dovuta cautela, con la dovuta gradualità, riprenderò un cammino interrotto il 27 di giugno. Questo lo devo innanzitutto a chi a maggio mi ha rinnovato la mia fiducia. Per ora riassaporare la libertà dopo cinque mesi ha un gusto indescrivibile».
Bibbiano: la Cassazione revoca i domiciliari al sindaco, Renzi:”Su di lui montagna di fango”. Il Riformista il 4 Dicembre 2019. Torna il libertà il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. “Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonchè l’ordinanza applicativa della misura cautelare attualmente in esecuzione. Per l’effetto, revoca la misura cautelare dell’obbligo di dimora”. Questo il dispositivo emesso ieri sera, al termine della camera di consiglio, dalla sesta sezione penale della Cassazione che ha accolto il ricorso del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti contro la misura cautelare a cui era stato sottoposto per le ipotesi di reato di abuso d’ufficio e falso nell’ambito dell’indagine ‘Angeli e demoni’ su presunte irregolarità negli affidi di minori. I difensori del sindaco avevano impugnato in Cassazione il provvedimento con cui il Riesame di Bologna, il 20 settembre, aveva sostituito gli arresti domiciliari (a cui Carletti era stato sottoposto dal 27 giugno) con l’obbligo di dimora nel Comune di Albinea, nonchè quello con cui il gip di Reggio Emilia aveva detto ‘no’, il 25 settembre, alla revoca delle misure cautelari. Il sostituto pg della Suprema Corte Ciro Angelillis aveva invece sollecitato, nell’udienza a porte chiuse di ieri mattina, il rigetto dei ricorsi. Entro un mese, come prevede la legge, i giudici del ‘Palazzaccio’ depositeranno le motivazioni della loro sentenza. A distanza di sei mesi dall’obbligo di dimora è tornato libero. In attesa delle motivazioni, la Cassazione avrebbe deciso per la revoca sentenziando che non sussistevano le condizioni per l’arresto. Il sindaco non era direttamente coinvolto nelle vicende degli affidi illegittimi dei bambini da parte dei servizi sociali dell’Unione dei comuni della Val d’Enza, ma risulta indagato d’abuso d’ufficio e falso per aver affidato degli spazi pubblici all’associazione “Hansel e Gretel”, che si occupava della psicoterapia dei bambini. Carletti alla lettura della sentenza è parso commosso, a chi ha avuto modo di parlargli è sembrato soddisfatto e ha detto: “È un importante passo verso la verità. Stasera sono felice, è finito un incubo”. “Vi ricordate la storia di Bibbiano? L’attacco violento di Lega e Cinque Stelle al sindaco? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan ‘Parlateci di Bibbiano?’. Bene. Ieri la Cassazione ha detto che quel sindaco NON doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa contro un uomo che non meritava quel trattamento – ha scritto su Facebook Matteo Renzi – Ricorderete come l’arresto venne usato: il grimaldello per costruire la battaglia politica di chi ha più a cuore i sondaggi che la verità. La giustizia è una cosa seria. Lasciarla in mano ai giustizialisti rende questo Paese un posto barbaro. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco. Non smetteremo mai di chiedere giustizia e verità contro il populismo e gli slogan. No, non smetteremo MAI”.
Primi mea culpa M5s su Bibbiano. Gabriella Cerami su huffingtonpost.it il 04/12/2019. "Di Maio ha sbagliato", dice il pentastellato Carabetta. E anche altri parlamentari accusano il capo politico. Lui tace. C’è un video che torna indietro come un boomerang, che fa molto male al Movimento 5 Stelle e a Luigi Di Maio che lo ha girato. “Linea comunicativa totalmente sbagliata”, lo accusa il deputato Luca Carabetta. Ma ricostruiamo i fatti. A fine luglio il capo politico M5s, per smentire le voci di una futura alleanza con il Pd, disse in diretta Facebook che quello dei dem era il “Partito di Bibbiano” e che mai, dunque, avrebbe fatto nascere un governo con loro. Cavalcò l’inchiesta sugli affidi illeciti approfittando del fatto che il sindaco dem del piccolo comune di Reggio Emilia, Andrea Carletti, era stato accusato di abuso di ufficio e falso. Al di là del fatto che esattamente un mese dopo è nato l’esecutivo giallorosso, ora il primo cittadino di Bibbiano non ha più l’obbligo di dimora e può riprendere il suo mandato. Così le parole utilizzate nel famoso video si ritorcono contro l’ex vicepremier e il suo partito non gli perdona quell’uscita quanto mai affrettata: “Non ho mai scritto un post su Bibbiano o sul Pd perché non ho mai condiviso la linea comunicativa di Di Maio. Ha sbagliato”, dice il deputato grillino Luca Carabetta. I parlamentari 5Stelle sono piombati nell’imbarazzo generale. Sotto accusa finisce ancora una volta il capo politico. “Partiamo in quinta senza conoscere le carte, senza sapere. Come sempre. Se andate sulla mia bacheca Facebook non trovate post su Bibbiano per questa ragione”, dice un altro deputato al primo mandato. Di Maio approfittò dell’inchiesta sugli affidi dei bambini per colpire il partito di Nicola Zingaretti e per seguire la linea di Matteo Salvini, allora suo alleato di governo. Anche la Lega andò con toni pesanti contro il Pd. Basti pensare che l’attuale candidata governatrice dell’Emilia Romagna Lucia Borgonzoni in Aula alla Camera si presentò con una maglietta con su scritto: “Parliamo di Bibbiano”. Il mea culpa da parte di Di Maio ancora non è arrivato. E neanche da Salvini che non torna indietro: “Bibbiano? Le uniche scuse devono farle coloro che senza motivo hanno portato via i bambini alle loro famiglie e coloro che hanno coperto questo indegno sistema”. Ma i parlamentari 5Stelle invece sono molto critici: “La comunicazione esce sparata senza aspettare un minuto”, dice chi ha tenuto sempre un profilo basso e ora fa notare: “Ci siamo coperti di ridicolo. Prima e adesso”. E infatti adesso Matteo Renzi lo fa notare: “Vi ricordate la storia di Bibbiano? L’attacco violento di Lega e Cinque Stelle al sindaco? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan ‘Parlateci di Bibbiano?’. Ricorderete come l’arresto venne usato: il grimaldello per costruire la battaglia politica. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco”. Nicola Zingaretti invece non cita il Movimento 5 Stelle ma in maniera molto chiara dice: “A chi ha utilizzato una storia di cronaca giudiziaria per organizzarci una campagna politica dico nuovamente: vergognatevi!”. La campagna politica è quella in Emilia Romagna, che a gennaio andrà al voto. Tra i 5Stelle c’è anche chi oggi dice: “Forse dovremmo chiedere scusa”.
Borgonzoni e la t-shirt su Bibbiano: «Non mi scuso» Il sindaco: su di me macchina del fango. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 su Corriere.it da F. Caccia, A. Fulloni. La senatrice della Lega, a meno di due mesi dalle elezioni, attacca di nuovo il Pd: «Chi ha sbagliato deve pagare». «Io non cambio idea. Chi ha sbagliato deve pagare». La senatrice della Lega, Lucia Borgonzoni, non chiede scusa. Anzi rilancia. «Tra un festeggiamento e l’altro il Pd si ricordi dell’orrore dei bambini sottratti alle loro famiglie senza una ragione, delle sofferenze e delle ingiustizie», così contrattacca la candidata alla presidenza della Regione Emilia Romagna, a meno di due mesi dalle elezioni. E a chi sulla sua pagina Facebook la provoca («Parliamo adesso di Bibbiano, dai!») ricordandole la maglietta esibita a Palazzo Madama tre mesi fa - quella appunto diventata presto virale, «Parliamo Di Bibbiano», con le lettere «P» e «D» scritte in rosso in riferimento polemico al partito del sindaco Carletti - lei replica dando del tu all’interlocutore: «Se ne parlerà a processo, ti sei accorto vero che ci sarà un processo...?». Il sindaco Carletti, finito quest’estate al centro dell’inchiesta-scandalo «Angeli e Demoni» sul sistema di affidi nel Comune in provincia di Reggio Emilia, dopo il pronunciamento della Cassazione è tornato un uomo libero. «Leggere gli articoli e non solo i titoli farebbe comunque bene», insiste però la Borgonzoni su Facebook. Secondo lei, il provvedimento a favore del sindaco di Bibbiano non sposta d’un millimetro il problema: «Per qualcuno non sarà stato un “sistema” - ha anche scritto nei giorni scorsi - ma nel registro degli indagati sono finite 28 persone, si sono aperti nuovi filoni d’inchiesta, una funzionaria del Comune di Reggio Emilia è stata indagata per depistaggio ed emergono nuovi casi preoccupanti. L’ultimo è la denuncia fatta da due genitori di Bibbiano che non vedono da ormai sette mesi la figlia di tre anni. La fine delle indagini, che dovrebbe essere imminente, consentirà di far luce, giustizia e chiarezza sui fatti. Minori e famiglie hanno bisogno di tutele e protezione. E noi continueremo la nostra battaglia politica per ottenerle».
Zingaretti straparla su Bibbiano. Bonafede, esiste la querela a Di Maio? Francesco Storace giovedì 5 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. A Zingaretti dà fastidio se si parla di Bibbiano. E quindi preferisce straparlarne. Quando lo fa, sbraca, deraglia, sbatte. Da ieri il segretario del Pd rischia testate sui lampioni perché sembra ubriaco. Appena ha saputo che il sindaco di Bibbiano può affrontare il processo da imputato a piede libero, ha cominciato a bere. Vodka a volontà, compagni. Come se qualche giudice avesse mandato al macero un’inchiesta contro una banda di delinquenti che sottraevano i figli alle loro famiglie. Che ha da festeggiare Zingaretti? Il sindaco Carletti non è stato prosciolto dalle accuse: aveva addosso quelle di falso e abuso d’ufficio e di quelle dovrà rispondere. Il sistema Bibbiano non si chiama Carletti, ma un’ideologia rossa che punta a sterminare l’istituto familiare. Al punto che Zingaretti commette un clamoroso autogol quando pretende di mettere all’indice chi si batte per accertare quanto accaduto. Ce l’ha con Laura Pasini, che si disse schifata per quanto appreso? Con Giorgia Meloni, che è invece fiera della denuncia che si è beccata per questa battaglia sacrosanta di verità? Oppure con Luigi Di Maio. Il suo delizioso partner di governo fu il più duro di tutti con il Pd quando esplose lo scandalo degli affidi: mai con il partito di Bibbiano, disse il capo pentastellato beccandosi la querela di Zingaretti. O meglio: l’annuncio della querela, perché non si sa che fine abbia fatto. Perché risulta difficile fare contemporaneamente l’indignato e poi governare assieme. Zingaretti, prima di parlare di Carletti, sarebbe molto più credibile – e gliene daremmo atto – se rendesse pubblici la querela, il testo, la ricevuta di effettiva presentazione in tribunale. Se non ricorda, Zingaretti può rivolgersi al guardasigilli Bonafede, che non mancherà di sguinzagliare i suoi ispettori a caccia della querela annunciata. Magari il ministro può anche essere sollecitato in proposito da qualche parlamentare curioso.
Zingaretti si rassegni: Bibbiano non è un’invenzione. Il segretario del Pd si deve rassegnare: la vicenda di Bibbiano è vergognosa e non la si può più nascondere con le falsità, con le accuse sulla propaganda altrui. Perché è per gli inquirenti che c’è stato un intreccio pauroso tra soggetti istituzionali e non sulla pelle delle creature rubate all’amore dei loro famigliari. E questo dovrebbe fare accapponare la pelle anche a lui. Invece preferisce – dice di preferire – le querele, magari selettive. Se stai con me tollero le tue parole. Se stai contro di me ti scateno giudici e avvocati. Anche questo attiene ad una politica sbagliata, urlata, odiosa. Abbia coraggio, Zingaretti. Chi è che sbaglia su Bibbiano? I magistrati? I giornali? Le destre? E persino la Pausini? Vuole querelare il mondo, il segretario del Pd, ma non dice se lo ha fatto nei confronti del suo maggiore alleato. E neppure che cosa pensa sia accaduto da quelle parti. Se pensa che a palazzo di Giustizia abbiano sbagliato, ha un solo modo per riscattare l’onore; firmi una norma sulla responsabilità civile dei giudici e la sbatta in faccia a chi accusa il suo sindaco. Ma faccia attenzione ai tempi, proprio perché non è stato ancora prosciolto. L’assoluzione d’ufficio non è stata ancora introdotta nel codice e certo sarebbe difficilmente prevederla come potere del segretario del Pd. I bambini tolti con l’inganno alle famiglie non sono una congiura delle forze oscure della reazione in agguato.
Caso Bibbiano, i demoni non erano demoni. Angela Azzaro su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Per i giornali era il mostro, il ladro di bambini. Per la Lega e Fratelli d’Italia era il cavallo di Troia attraverso cui far cadere il buon governo Pd in Emilia Romagna. Dall’altro ieri il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, può tornare a fare il sindaco, dopo la decisione della Cassazione di revocare l’obbligo di dimora. «Pur dovendo attendere le motivazioni della decisione – è il commento dei suoi legali Giovanni Tarquini e Vittorio Manes – sembra desumersi che la Corte abbia ritenuto che le condotte, contestate a Carletti, non giustificano alcuna misura cautelare». Chissà che diranno quei pm che a fine giugno hanno invece deciso di mettere le manette al primo cittadino a uso e consumo dei media. L’accusa nei suoi confronti è abuso di ufficio e falso per l’affidamento di locali per la cura di minori, ma la decisione dell’arresto era stata così forte e mediaticamente strumentalizzata che per l’opinione pubblica il sindaco, a cui già da settembre erano stati revocati gli arresti domiciliari, era diventato una sorta di appestato, uno che rubava i bambini alle famiglie. Ora la rabbia è tanta da parte di chi ha subito il linciaggio, anche indirettamente. «Chi chiederà scusa a Carletti e alle persone messe alla gogna ingiustamente?» ha chiesto polemico il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. «La Cassazione – è stato il commento del leader di Italia Viva, Matteo Renzi – ha detto che quel sindaco non doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa contro un uomo che non meritava quel trattamento». Il caso di Bibbiano andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo e di sociologia per capire quel meccanismo che coinvolge procure, giornali e psicosi collettiva. È quel circolo vizioso che a partire da un’inchiesta trasforma gli indagati in colpevoli, i colpevoli in mostri, i giornalisti in seguaci non dei fatti ma di una presunta Verità intesa come dogma. Quello che è successo in Emilia Romagna è da manuale. Fin dalla prima battuta. La procura invece di avere un basso profilo, considerato che sono coinvolti alcuni bambini e le loro nuove e vecchie famiglie, decide di chiamare l’inchiesta “Angeli e demoni”. Con un nome così come è possibile pensare che l’opinione pubblica possa farsi una idea serena? Come ci si può fare un quadro oggettivo, quando l’informazione fa di tutto per allarmare, cambiare i numeri, amplificare, gettare fango? A leggere alcune testate o a sentire alcuni programmi tv (anche del servizio pubblico) il caso Bibbiano coinvolge centinaia di bambini. Numeri sballati che non hanno nulla a che vedere con l’inchiesta. I bambini coinvolti sono nove, sette dei quali sono già tornati alla loro famiglia di origine. Il sospetto è che si volesse colpire il sistema di welfare della Val d’Enza e con questo gli assistenti sociali e gli psicologi coinvolti. In tutto ci sono 28 indagati, compreso il sindaco Carletti e dovranno rispondere, a vario titolo, di 102 capi di imputazione. Diversi di loro, più o meno famosi, in attesa della chiusura delle indagini prevista per metà dicembre, stanno facendo partire più di una querela o stanno ottenendo le prime sentenze a favore. È quello che è accaduto a Claudio Foti. La sua foto è diventata l’emblema dell’inchiesta: immagini scelte appositamente per farlo apparire crudele, per attirare su di lui l’odio delle persone. Nei suoi confronti pesano due capi di imputazione. Il primo, quello di frode processuale, è di fatto già caduto: il tribunale della Libertà ha infatti tolto i domiciliari con la motivazione che non esistono gravi indizi di colpevolezza. Resta il concorso esterno in abuso d’ufficio. Il suo avvocato Girolamo Andrea Coffari è pronto a dare battaglia. «Presenterò – ci spiega – un articolato al pm da cui si evincerà come Foti non ha fatto assolutamente nulla. Non ho alcun dubbio. Si tratta di un clamoroso errore e lo dimostrerò. Ci metto la faccia che verrà assolto. Abbiamo assistito – chiude – a una gogna mediatica indecente». Già. I fatti, le prove, un giusto processo. Coffari è convinto che il sistema mediatico non condizionerà i giudici. Purtroppo questo non sempre è vero. Negli ultimi anni si è sviluppato un fenomeno chiamato giustizia difensiva, cioè una giustizia che tende ad assecondare l’opinione pubblica per timore delle critiche che purtroppo a volte diventano anche minacce nei confronti di quei giudici che invece di rispondere alla pancia, si basano sullo Stato di diritto. «Leggeremo il testo della Cassazione – ha scritto il deputato Pd Stefano Ceccanti – ma sin da ora parliamo davvero di Bibbiano, della carcerazione preventiva, delle accuse spacciate per condanne, del circuito mediatico-giudiziario, del giusto processo, della presunzione di innocenza». Ha ragione Ceccanti, non c’è tempo da perdere. Con Bibbiano si è andati oltre, si è costruito un mostro sulla pelle dei minori, di chi è più fragile e dovrebbe essere ancora più tutelato. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.
Ps: Oggi sui giornali leggeremo le parole di Zingaretti, di Renzi e di altri che chiedono le scuse per i fatti di Bibbiano, ma i primi a dover chiedere scusa sono quegli stessi giornali su cui leggiamo la notizia e che fanno finta di nulla.
Bibbiano, nessuna assoluzione cancella la gogna social. Claudio Rizza il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’indignazione resta identica, Bibbiano è uno scandalo, poveri bambini. E nessuno dirà mai: ci siamo sbagliati. Due cavalli di battaglia della campagna leghista (e anche cinquestelle) anti immigrati e anti Pd si sono clamorosamente afflosciati in questi ultimi giorni e mesi. Si tratta dei casi politici di Bibbiano e di Riace. Il primo, ricorderete, è quello dello scandalo dei “bimbi strappati ai genitori” in Emilia Romagna, con la complicità dei tribunali dei minori, di assistenti sociali e del sindaco Carletti, che li avrebbe favoriti. Ha sollevato un’indignazione senza confini e pronunciato sentenze senza appello, prima di ogni accertamento di verità. Le indagini del Tribunale dei minori e della Commissione regionale, corroborati da cifre e statistiche, hanno invece appurato che non c’era scandalo, che i casi sospetti erano sei su cento, che non c’erano state sevizie, insomma che «Angeli e Demoni» era una sorta di fiction. Una campagna mediatica pompata da politici sia sui social che in Parlamento: parlateci di Bibbiano. Il tam tam orchestrato dai siti web teleguidati ha fatto sì che fake news diventassero verità. Succede ormai dappertutto e da anni. Il sindaco è stato arrestato, spedito ai domiciliari e finalmente liberato dalla Cassazione: non c’erano motivi per privarlo della libertà. L’altro sindaco, quello di Riace, Mimmo Lucano, fu preso di petto dal ministro dell’Interno, Salvini nel 2018: «Con me l’immigrazione di massa non sarà più un affare, la pacchia è finita». Arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Mimmo Lucano è stato allontanato con un «divieto di dimora». Un sindaco leghista ha poi preso il suo posto. Ma era ineleggibile ed è stato dichiarato decaduto. La Cassazione e il gip hanno smontato le accuse a Lucano: «Non ha compiuto alcuna irregolarità nell’assegnazione degli appalti né ci sono elementi per dire che abbia favorito presunti matrimoni di comodo». Cosa resta di questi due casi divenuti emblema di durissime battaglie politiche? Purtroppo tutto. Perché il gioco al massacro è proprio questo: quando i tribunali ristabiliscono la verità, ti assolvono, ti riabilitano, il danno resta intatto e non è più risarcibile. Gli accusatori senza prove non possono essere puniti, intanto i voti li hanno presi, i social e il web continuano imperterriti a riproporre presunti e fasulli illeciti come verità accertate, sulle “colpe” dei sindaci ci sono tonnellate di articoli, sulla loro innocenza qualche riga delle sentenze. L’indignazione resta identica, Bibbiano è uno scandalo, poveri bambini. E nessuno dirà mai: ci siamo sbagliati.
Santificano il sindaco ma gli abusi di Bibbiano restano sotto inchiesta. Carletti scarcerato, non assolto. Celebrato come eroe, nessuno però spiega il caos affidi. Fabrizio Boschi, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Prima di scaldarsi tanto i dem dovrebbero riflettere su un fatto: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, al quale la Cassazione ha revocato l'obbligo di dimora nell'ambito dello scandalo «Angeli e Demoni» sul presunto sistema di affidi illeciti di minori scoppiato in Val d'Enza (Reggio Emilia), nel giugno scorso, è, e resta, indagato per abuso d'ufficio e falso per l'affidamento di locali per la cura di minori. Nulla è cambiato da questo punto di vista e, infatti, lo attende il processo (per la metà di dicembre è prevista la chiusura delle indagini preliminari) assieme agli altri 28 indagati nell'inchiesta condotta dalla Procura di Reggio Emilia tra cui anche una funzionaria del Comune di Reggio Emilia. Che sia innocente o meno lo stabiliranno i giudici. Non quelli del Pd o Matteo Renzi. Eppure a sentire i dem sembra che Carletti sia il nuovo martire. Minacce e insulti sessisti sono piovuti sulla pagina Facebook, e nei messaggi privati, della candidata del centrodestra alla presidenza dell'Emilia-Romagna, Lucia Borgonzoni, per la t-shirt che indossò in Senato con su scritto «Parlateci di Bibbiano», con le lettere P e D scritte in rosso in riferimento polemico al partito del sindaco Carletti. Lei replica dando del tu all'interlocutore: «Non mi faccio intimidire, ma vado avanti. Ecco l'effetto del clima d'odio seminato da qualche democratico che forse si è dimenticato che il sindaco Carletti, resta indagato. Se ne parlerà a processo, ti sei accorto vero che ci sarà un processo? Io non cambio idea. Chi ha sbagliato deve pagare. Tra un festeggiamento e l'altro il Pd si ricordi dell'orrore dei bambini sottratti alle loro famiglie senza una ragione». I dem si affrettano, invece, a pretendere le scuse per il sindaco ma non c'è nulla da scusare in verità perché l'indagine è ancora in corso. Pure il deputato dem Matteo Orfini si rifà vivo su Twitter: «Molti si dovrebbero vergognare per aver speculato su Bibbiano. Tanti dovrebbero chiedere scusa. Ma ce ne è uno che più di chiunque altro avrebbe il dovere di farlo: l'attuale ministro degli Esteri», prendendosela con Luigi Di Maio per i duri attacchi mossi al Pd. E per tutta risposta il M5s sarebbe pronto a sgambettare gli alleati di governo con la possibile candidatura alle regionali di Natascia Cersosimo, la consigliera di Cavriago (Re) che per prima scoprì il caso dei bimbi di Bibbiano. La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ribadisce la propria posizione: «Credo che nessuno debba chiedere scusa, intanto perché la revoca dell'obbligo di dimora a Carletti non vuol dire che non ci sia un procedimento nei confronti del sindaco. In secondo luogo, se queste persone sono colpevoli o innocenti questo lo stabilirà la magistratura. La cosa che a me sfugge è questo accanimento del Pd sulla vicenda di Bibbiano. È stato il Pd che ha acceso i riflettori su un suo interesse facendo una difesa senza precedenti dei suoi rappresentanti coinvolti nella vicenda, io nel dubbio questa difesa ad un mio sindaco non l'avrei fatta». Ma Carletti fa comunque l'offeso: «È stata una sofferenza incredibile. Sono stato trattato cinque mesi da orco, linciato dai barbari del web e da autorevoli figure istituzionali a livello nazionale. Un incubo per me e la mia famiglia insultati e minacciati di morte. Odio, ignoranza, ipocrisia: nessuno voleva vedere la verità, se poi il sindaco è del Pd ancora meglio».
Quanta confusione sotto il cielo di Bibbiano. Dal sindaco Carletti, che per errore molti dicono “assolto” ai dubbi sulle richieste di allontanamento ricevute a Bologna: il presidente, Spadaro, nega siano state 100. Ma l’Associazione dei giudici minorili dice il contrario. Maurizio Tortorella il 6 dicembre 2019 su Panorama. Ma quanta confusione riescono a fare, giornali e social media, sullo scandalo Bibbiano? Fanno confusione sulla sorte giudiziaria del sindaco del paesino emiliano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico, uno degli inquisiti che lo scorso 27 giugno era stato confinato agli arresti domiciliari, e che ora la Cassazione ha liberato dalla misura cautelare dell’obbligo di dimora. Fanno confusione perché, contrariamente a quanto su Carletti hanno scritto alcuni quotidiani (scatenando sui social media una ridda di precoci festeggiamenti nella parte politica del sindaco) la recente decisione della Cassazione non è affatto un’assoluzione definitiva. A dirla tutta, non è nemmeno un’assoluzione. In realtà il sindaco Carletti, così come gli altri 27 indagati nell’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, resta pienamente coinvolto nel procedimento sui presunti dieci affidi illegittimi di bambini: per lui come per gli altri indagati il pubblico ministero Valentina Salvi prima o poi chiederà il rinvio a giudizio e solo allora, finalmente, comincerà il processo penale vero e proprio. Poi arriveranno le sentenze e solo allora, finalmente si vedrà se le accuse reggeranno o meno alla prova dei fatti. E se ci sarà da festeggiare. Va detto, però, che a Bibbiano la confusione è davvero tanta e non riguarda soltanto il sindaco: c’è ben altro, che ancora non torna. Affogato nei dubbi resta un dato fondamentale, cioè quello relativo alle richieste di allontanamento di bambini e adolescenti da parte dei Servizi sociali della Val d’Enza, il Consorzio di Comuni di cui Bibbiano è parte e che è finito al centro dell’inchiesta reggiana. C’è una statistica, di cui s’è molto discusso negli ultimi mesi, che scaturisce da un complesso lavoro di verifica annunciato ai primi di luglio da Giuseppe Spadaro, il presidente del Tribunale dei minori di Bologna che ha competenza su tutta la Regione. Pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo di Bibbiano, Spadaro aveva dichiarato di avere deciso di ricontrollare “una settantina di altri allontanamenti” di bambini della Val d’Enza, decisi dal suo Tribunale tra 2018 e 2019. L’iniziativa era stata presentata dai mass media come uno scrupolo meritorio e s’era poi conclusa verso la metà di ottobre. Secondo quanto avevano riportato tutti gli organi di stampa, in una riunione svolta attorno al 12 di quello stesso mese Spadaro aveva rivelato una statistica importante, evidente frutto del lavoro di approfondimento avviato in luglio. Sia pure con sfumature diverse, tutti i giornali avevano attribuito a Spadaro alcuni numeri davvero sorprendenti: su un centinaio di segnalazioni in cui i servizi di Bibbiano-Val d’Enza avevano prospettato l’allontanamento dalle famiglie, in 85 casi il Tribunale aveva deciso all’opposto e aveva lasciato i bambini all’interno delle famiglie. Le cronache avevano sottolineato che il presidente Spadaro avesse dichiarato che quel rapporto di 15 contro 85 era “il segno di un sistema giudiziario che ha fatto il suo dovere e ha dimostrato di essere sano”. Spadaro aveva anche dichiarato o lasciato intendere che “il sistema Bibbiano non esiste”. Quei dati e quelle parole, però, erano state fatte oggetto di critiche. Da più parti si erano manifestate perplessità sul “lavoro di scavo” deciso da Spadaro: perché i giudici minorili di Bologna avevano sentito la necessità di una verifica suppletiva? E perché il supplemento d’indagine era avvenuto solo dopo l’emersione dell’inchiesta penale sui presunti affidi illeciti? Insomma, come erano stati decisi quegli allontanamenti? Erano stati condotti con tutte le verifiche del caso e come frutto del corretto contraddittorio fra le parti, o ci si era semplicemente affidati alle relazioni dei Servizi sociali? Un’eco di quei dubbi è emersa anche nei lavori della Commissione d’inchiesta della Regione Emilia-Romagna. Varata un mese dopo lo scoppio dell’inchiesta sui bambini di Bibbiano, la Commissione regionale s’è data il compito d’indagare nel sistema regionale degli affidi minorili. Per questo ha ascoltato assistenti sociali, avvocati, psicologi ed esperti. A manifestare perplessità, in particolare, era stato Camillo Valgimigli, docente di neuropsichiatria infantile all’Università di Modena e Reggio, e dal 1995 al 2003 giudice onorario minorile d’appello proprio a Bologna. Da tempo il professor Valgimigli è critico sul sistema degli affidi, e alla fine dello scorso ottobre ha depositato agli atti della Commissione d’inchiesta una relazione dettagliata in cui ha sottolineato che, “se è vero quanto afferma il presidente Spadaro, i Servizi sociali di Bibbiano in meno di due anni avrebbero proposto al Tribunale dei minori altri 85 allontanamenti ingiustificati, evidentemente spinti da una visione distorta, che ovunque sospetta abusi e maltrattamenti”. Valgimigli ha allargato l’orizzonte del dubbio: “Se i numeri non ci ingannano” ha scritto nella relazione “e se la logica è logica, 10 di quei 15 allontanamenti decisi dal Tribunale minorile di Bologna sono poi stati comunque definiti ‘illeciti’ dalla Procura di Reggio Emilia. Quindi la proporzione finale tra richieste di allontanamento e allontanamenti motivati sarebbe ancora inferiore”. Insomma: per Valgimigli la tesi dell’esistenza di un “sistema Bibbiano” avrebbe trovato una conferma proprio nei numeri esposti da Spadaro. Alla fine di ottobre la Commissione regionale sembrava dovesse chiudere i suoi lavori senza ascoltare il presidente del Tribunale minorile. Poi all’improvviso, il 14 novembre, la Commissione ha “audito” per molte ore il presidente del Tribunale (e forse proprio la relazione del professor Valgimigli non è estranea alla decisione). È stato un intervento autorevole e importante, quello del presidente del Tribunale, anche perché – come lo stesso Spadaro ha sottolineato più volte – il poter parlare “in una sede istituzionale” gli permetteva finalmente di “sgomberare il campo da valutazioni errate ed equivoci”. Il problema è che, proprio sulla fondamentale statistica degli allontanamenti, Spadaro ha offerto alla Commissione una spiegazione che purtroppo ha lasciato irrisolti tutti i dubbi. Anzi, rischia forse di accrescerli. Verso la fine della sua audizione, infatti, il presidente del Tribunale dei minori di Bologna ha risposto a una domanda del consigliere Andrea Galli, di Forza Italia, che gli ha chiesto lumi sul fondamentale tema di quelle 100 “richieste di allontanamenti” in 85 casi respinte dal Tribunale dei minori: “Se le cose stanno così” ha obiettato Galli “questo vuol dire che i Servizi sociali della Val d’Enza hanno un tasso di errore dell’85%”. L’implicita domanda di Galli: come era stato possibile che i giudici minorili non avessero reagito a “un tasso di fallimento di tale portata”? Spadaro ha risposto negando l’assunto di partenza: “C’è un equivoco” ha dichiarato il magistrato “perché è passato un messaggio fuorviante. Le cose non stanno così. Se davvero l’85% delle segnalazioni dei Servizi sociali che io ho analizzato mi avessero chiesto di allontanare i bambini (dalle loro famiglie, ndr), io stesso sarei andato alla Procura della Repubblica e avrei detto: guardate che ci sono altri casi da analizzare”. Spadaro ha quindi specificato che i Servizi sociali della Val d’Enza non avevano affatto proposto al Tribunale “100 richieste di allontanamento”, ma che si erano limitati a fornire “segnalazioni di potenziale pregiudizio”, relazioni molto meno preoccupanti. “Insomma” ha spiegato Spadaro “in quell’85% di casi non era stato chiesto l’allontanamento, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante. Questo lo devo dire per amore di verità. In 15 casi, invece, le segnalazioni erano così gravi da aver comportato un allontanamento, prima temporaneo e poi definitivo”. Ora, è possibile che alla metà di ottobre i giornalisti avessero collettivamente capito male i dati di Spadaro, trasformando per errore le segnalazioni di potenziale pregiudizio in richieste di allontanamento. Noi giornalisti, si sa, sbagliamo spesso, come peraltro dimostra il diffuso equivoco sulla presunta “assoluzione in Cassazione” del sindaco Carletti. Il problema è che dei dati attribuiti alla metà di ottobre al presidente Spadaro non hanno scritto soltanto i giornali, ma resta un ben più autorevole riscontro ufficiale. A fornirlo è un comunicato dell'Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf), di cui proprio Spadaro è vicepresidente. L’11 e 12 ottobre, l’Aimmf ha tenuto a Lecce un congresso su “Il Giudice delle relazioni tra disagio, devianza e nuove fragilità”. E nel comunicato finale del convegno, vergato a puntuale difesa del Tribunale dei minori di Bologna, si legge testualmente: “A seguito delle recenti e puntuali precisazioni fornite dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna, dopo una scrupolosa verifica interna e una riunione con i responsabili dei servizi sociali e con la nuova dirigente della Val d’Enza, è stato accertato che in 85 procedimenti su 100, avviati su richiesta della Procura minorile, era stata respinta la proposta di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine e il collocamento presso terzi suggerito dai detti servizi". Il comunicato dell’Aimmf prosegue: “Risulta smentita l’esistenza di un ‘sistema emiliano’ fondato su una gestione di assoluto potere da parte dei servizi sociali in assenza di un approccio critico e valutativo degli altri operatori istituzionali". Alla luce di queste due opposte versioni dei fatti, la questione delle 100 relazioni dei servizi sociali resta del tutto irrisolta: chi ha ragione? Il presidente Spadaro, che nega autorevolmente di aver ricevuto 100 richieste di allontanamento dai suoi assistenti sociali, o l’Associazione dei magistrati (di cui Spadaro è vicepresidente), che invece parla chiaramente di 100 “proposte di allontanamento e collocamento presso terzi”? Qualcuno farà chiarezza? Perché sotto il cielo di Bibbiano c’è davvero troppa confusione…
Il sindaco Pd e il sistema Bibbiano: ora spuntano le intercettazioni. Nelle carte della procura di Reggio Emilia tra le storie dei bambini di Bibbiano spuntano le intercettazioni tra il sindaco e gli altri indagati. Costanza Tosi, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Adesso tutti parlano di Bibbiano. Nel vortice di chiacchiere e discussioni opinabili, nel bel mezzo degli editoriali che, in barba alla legge, già sentenziano sull’esistenza o meno del sistema di affidi illecito denunciato dalla procura di Reggio Emilia c'è un particolare che sfugge ed è forse l’unico che bisognerebbe sottolineare. Cosa c'è davvero nell'ordinanza? Nelle carte le intercettazioni captate dai carabinieri smentiscono, parola dopo parola, la difesa del sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. Tra i racconti dettagliati delle indagini la valutazione del gip del Tribunale di Reggio Emilia Luca Ramponi. "Non è vero che l'indagato non sapesse nulla, piuttosto sapeva e coprì politicamente l'iniziativa amministrativa illegittima, compartecipando nella agevolazione fattiva della stessa anche a fronte di specifiche richieste di altri componenti dell' organo di indirizzo politico". Si legge. Ramponi accusa senza mezzi termini l’indagato di esser stato non solo complice di tutto, ma in maniera del tutto lucida e consapevole. E per gli scettici diventa più facile da credere se si vanno a rileggere le telefonate tra Carletti e alcuni degli indagati, tra cui Federica Anghinolfi. La responsabile del Servizio Sociale dell'Unione Val d'Enza finita al centro degli scandali sui bambini di Bibbiano. Ma partiamo dalla storia. I protagonisti dell’inchiesta “Angeli e Demoni” stavano lavorando all’apertura di una comunità per minori. Un'operazione in grande. La casa avrebbe accolto bambini provenienti da tutto il nord Italia e non solo minori del reggiano. Di questo progetto Anghinolfi, Carletti, ma anche Foti e altri parlarono a lungo. In una telefonata con con Marcello Cassini, legale rappresentante della società cooperativa “Si può fare”, la capa dei servizi della Val d'Enza racconta di essersi mossa per trovare una sede che potesse ospitare il centro. "Loro hanno cercato sta benedetta casa su a Bibbiano e ne avevano trovata una in affitto, ma per come è articolata non si riesce a suddividere", dice l'assistente sociale. A questo punto l’interlocutore tira in mezzo il sindaco. Come riportano i carabinieri, "Marcello dice di aver già avvisato Carletti di questa cosa, in quanto quest'ultimo gli aveva detto di conoscere una grande casa in cui i proprietari volevano fare un caseificio". Carletti avrebbe, dunque, contribuito alla ricerca del centro inconsapevole di cosa stesse andando a fare? Senza sapere di cosa si trattasse veramente? Ignaro di come queste persone stessero lavorando con i minori? Ma andiamo avanti. Per il progetto era tutto pronto. Persino il nome era già stato deciso. “Rompere il silenzio”. Secondo la procura a spingere per creare il centro nelle sue zone era proprio Carletti. Le cure secondo il sindaco dovevano essere, ovviamente, affidate alla onlus di Claudio Foti. Per il sindaco i metodi dello psichiatra Torinese erano eccellenti. Come dimostra una telefonata registrata tra la Anghinolfi e Carletti. Dopo il convegno Rinascere dal trauma: il progetto La Cura i due si sentono per scambiarsi opinioni su come fosse andato l’incontro volto a celebrare il sistema Bibbiano. Federica Anghinolfi: "Secondo me è arrivato un messaggio molto chiaro, anche di natura scientifica". Carletti d’appoggio: "Io l'ho ribadito apposta in fondo...". Carletti era persino intervenuto per sottolineare il messaggio di natura scientifica senza essere al corrente di come funzionasse tutto il sistema? Ciò che è certo è che il sindaco era molto legato alla Anghinolfi e agli altri. Li conosceva. Aveva un rapporto stretto tanto da scambiarsi consigli, pareri e perplessità. Secondo il gip "il suo ruolo di copertura si è anche estrinsecato facendo valere espressamente la propria competenza e il proprio peso politico per superare le perplessità di altri componenti della giunta dell' Unione proprio con riguardo alle modalità di affidamento del servizio di psicoterapia e della sua retribuzione di fatto". Tra le tante, un’altra telefonata è utile a chiudere le fila del discorso e rendere più chiara la posizione del sindaco santificato dopo aver ottenuto la revoca dell’obbligo di dimora. A parlare sono Claudio Foti e Francesco Monopoli uno degli assistenti sociali che collaboravano con Federica Anghinolfi. Questa volta si parla di cifre. Il nuovo centro di accoglienza per minori doveva fissare un costo per i bambini che venivano accolti. A tal proposito Monopoli racconta: "Ho provato a sondare per il discorso della retta e… fra i 250 e i 260 euro... è un po' un discorso di lana caprina... nel senso che fino a 250 nessuno dice niente". Dunque sembrerebbe che fosse già tutto deciso. Mancavano solo le cifre. Ma sarebbe stata la "Hansel e Gretel" ad occuparsi della psicoterapia ai minori. Eppure non era stata indetta nessuna gara pubblica. Tutto in amicizia e senza rispettare i dovuti step legali. Come riporta La Verità a confermare il modus operandi di Andrea Carletti è stato anche l'ex sindaco di Gattatico in provincia di Reggio Emilia, Gianni Maiola. Secondo quanto emerso dalle sue segnalazioni sembrerebbe che "per un verso la gratuità del servizio non era emersa nella discussione di giunta e che vi era una precisa consapevolezza della onerosità del servizio, tanto che egli pose il problema e segnalò le proprie perplessità, e sia Carletti che Anghinolfi e Campani rassicurarono gli altri componenti della giunta dell'esistenza di un formale affidamento alla Hansel e Gretel". Adesso, per qualcuno, dopo che il sindaco del Pd è tornato libero, “Bibbiano” è diventata tutta una farsa mediatica strumentalizzata dalla destra populista. Ma oltre i discorsi, in cui per di più andrebbe intanto sottolineato che la decisione dei pm non rende ancora Carletti innocente, ci sono delle indagini trascritte in un’ordinanza della Procura che parlano di fatti. Che mettono nero su bianco perchè di Bibbiano si doveva parlare. E che fanno pensare che, forse la sinistra prima di pretendere le “scuse” dovrebbe aspettare i processi.
Bibbiano, tornano a casa gli ultimi 4 bimbi coinvolti nell'inchiesta. Gli ultimi quattro bambini le cui storie erano state raccontate nelle carte della procura sull'inchiesta "Angeli e Demoni" hanno iniziato il percorso per tornare a riabbracciare i propri genitori. Costanza Tosi, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Anni di sofferenze, battaglie e ingiustizie che hanno distrutto intere famiglie e rovinato gli anni più belli della propria vita a decine di bambini. A Bibbiano i servizi sociali avrebbero tolto i bambini ai propri genitori naturali, con accuse mai confermate e pretesti infondati. Ora, anche gli ultimi piccoli rimasti lontani dalla propria famiglia, stanno per rientrare nelle proprie case. Un calvario durato anni il loro, che forse adesso vedrà la parola fine. Gli ultimi quattro bambini le cui storie sono state riportate nelle oltre duecento pagine dell’inchiesta “Angeli e Demoni” hanno iniziato il percorso per rientrare a casa. Adesso porteranno a termine i necessari incontri protetti e poi potranno finalmente riprendere la loro vita accompagnati dall’affetto del loro papà e della loro mamma. Tra loro anche Katia. La sua storia era una delle più crude tra quelle raccontate dalla procura. La bambina era stata affidata, sotto consiglio di Federica Anghinolfi, a capo dei servizi sociali della Val D’enza, ad una coppia di donne omosessuali. Nelle carte, le intercettazioni delle due donne trascritte dai carabinieri e già riportate da noi de IlGiornale.it a pochi giorni dallo scoppio dell’inchiesta, furono uno dei passi più strazianti. Un giorno la piccola venne scaraventata fuori dall’auto di una delle due donne. Si tratta di Daniela Bedogni, compagna di Fadia Bassmaji nonchè amica e ex fidanzata proprio di Anghinolfi. Tutte molto attive all’interno del mondo per i diritti Lgbt. La donna lasciò la minore sotto la pioggia, in strada. Tra urla di rabbia e parole da far accapponare la pelle. “Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!”. Sbraitava la madre affidataria. La bambina nel tragitto non riusciva ad accusare il padre di abusi nei suoi confronti. Katia non riusciva a dire una bugia. Quelle violenze infatti non sono mai state provate, eppure per qualcuno la bambina avrebbe dovuto confessarle. Di forza. E solo perchè questo avrebbe fatto sì che la piccina non tornasse più a casa e rimanesse ostaggio delle due donne. La minore dopo le denunce è stata subito allontanata dalla coppia e adesso, come ha raccontato il giornalista della Rai Luca Ponzi, potrà ritornare finalmente a casa. A tornare a casa sarà anche un altro tra i bambini del bibbianese. La sua è una storia tanto assurda quanto dolorosa. Gli assistenti sociali lo pressarono per fargli confessare di aver subito abusi dai suoi genitori. Volevano che dicesse che i suoi genitori avevano masturbato sia lui che i suoi fratelli. Queste accuse non furono mai provate e l’incubo, questo bambino, non lo visse a casa sua, ma nella famiglia affidataria alla quale venne dato proprio dagli stessi servizi sociali della Val d’Enza. Fu a casa dei “nuovi genitori” che il piccolo venne abusato. Stuprato da un ragazzo di 17 anni, affidato alla stessa famiglia. Una vicenda assurda e che lascerà un trauma nel bambino per tutta la vita. Ma che, non ha toccato minimamente uno degli indagati. Francesco Monopoli, collega di Federica Anghinolfi infatti, dopo essere venuto a conoscenza della tragedia diede la colpa proprio al piccolo abusato. “Chissà che segnali avrà mandato a questo ragazzo perché fosse predabile”. Con queste parole l’assistente sociale sostenne che il bambino avesse fatto intendere all’adolescente di essere disponibile dal punto di vista sessuale e che questo avrebbe fatto fare il primo passo al ragazzo. Un po’ come dire alle donne stuprate che è colpa della minigonna. É con queste storie che resta impossibile non gridare all’evidenza della gravità dei fatti di Bibbiano. Eccole qui le vittime del sistema. Sono queste piccole creature che per tutta la vita dovranno portarsi dietro il peso delle ingiustizie che hanno subite che lasceranno per sempre una ferita profonda nelle loro anime. Ma il popolo dei garantisti, della sinistra liberale, chiede le scuse per il sindaco Carletti. Che solo per essere tornato un uomo libero dopo la revoca da parte del pm dell’obbligo di dimora è stato dichiarato vittima del sistema. In realtà ancora oggi il sindaco dem dovrà provare, in aula di tribunale, di non aver favorito tutti coloro che hanno fatto carte false (nel vero senza della parola) per strappare questi bambini dalle proprie famiglie, di non aver aiutato le menti di questo sistema illecito, senza mettersi dalla parte delle vittime. Quelle vere.
Le uniche vittime di Bibbiano sono i bambini, non il sindaco. Andrea Carletti, il primo cittadino, si dice "crocifisso". Ma a chiedere le scuse posso essere soltanto le famiglie devastate dallo scandalo affidi. Mario Giordano il 20 dicembre 2019 su Panorama. Perseguitato? Vittima? Addirittura «crocifisso», come si è autodefinito, paragonandosi nientemeno che a Gesù sul Golgota? Non scherziamo: intanto il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, resta indagato. E poi resta indagato nell’ambito di una inchiesta che ha sollevato il velo su un orrore spaventoso, quello del business sui minori strappati alle loro famiglie. Dunque dovrebbe pensarci due volte prima di proclamarsi vittima. Come dovrebbero pensarci il segretario del suo partito, Nicola Zingaretti del Pd, e tutti gli altri politici che si sono affrettati a guadagnare un titolo di giornale, vestendo i comodissimi panni dei martiri mediatici. Perché, in questa vicenda, le vittime ci sono davvero. Ma non sono quelli che stanno sulle cadreghe che contano e strepitano sui giornali. Non sono né il sindaco né il segretario del Pd. Non sono i partiti politici e i loro rappresentanti. Le uniche vittime di questa vicenda, purtroppo, sono i bambini. Il sindaco di Bibbiano per ora ha solo avuto la revoca dell’obbligo di dimora. Non l’assoluzione. Per l’amor dei cielo: ce l’avrà. Glielo auguriamo. Gli auguriamo di dimostrare l’innocenza in tribunale, oltre che sui giornali. Ma nel frattempo abbia la decenza di evitare la parola «crocifissione». Perché di crocifissioni, in questa orrenda storia, ce ne sono state fin troppe: sono stati crocifissi quei bimbi strappati alle loro mamme, tenuti lontani per anni, quei bambini a cui si diceva «facciamo il funerale al tuo papà»; sono stati crocifissi quei bambini che chiedevano «perché papà non viene a trovarmi?» e si sentivano rispondere «perché non ti vuole più»; sono stati crocifissi quei bambini che non ricevevano i giocattoli dai loro genitori perché gli assistenti sociali li buttavano nell’immondizia, insieme con le loro lettere. E sono stati crocifissi quei bambini i cui disegni venivano modificati per dimostrare che erano stati molestati anche se non era vero. Solo per tenerli lontani dai genitori. Per sfasciare le famiglie. E per fare più soldi. Ecco chi sono le vittime di Bibbiano. Ecco chi è stato davvero crocifisso. Il sindaco dimostrerà la sua innocenza, Zingaretti si guadagnerà un po’ di agenzie di stampa facendo la vittima e gridando alla «vergogna». Qualche altro politico ripeterà che bisogna «chiedere scusa». Ma vi rendete conto dell’assurdità? Ancora una volta la politica ha perso il contatto con la realtà: gli unici cui bisogna chiedere scusa, infatti, sono quei piccoli torturati e plagiati in nome dell’ideologia e del dio denaro. Nessun adulto può tirarsi fuori dalle responsabilità di questo orrore. Nessuno adulto, se ha un minimo di umanità, può fare a meno di sentirsi toccato nel profondo. Nessun adulto può fare a meno di sentirsi in qualche modo responsabile di non aver capito, di non aver intuito, di non aver protetto questi bambini. Di non aver scoperchiato prima il pentolone dell’orrore. Figurarsi se può farlo chi è stato sindaco in quelle zone. Figurarsi se può farlo il segretario di un partito che da quelle parti da sempre fa il bello e il cattivo tempo. Bibbiano non è stato un raffreddore, come hanno scritto i tecnici mandati dalla Regione per seppellire tutto. Bibbiano è un’inchiesta che ancor prima di individuare reati e eventuali colpevoli (questo lo stabilirà il processo), ha sollevato il velo su uno scandalo che non è solo a Bibbiano, ma che è nazionale. Ed è lo scandalo dei bambini calpestati da un sistema che mira soltanto a fare soldi. E che nessuno controlla. Tanto è vero che ancora oggi non si sa quanti sono i bambini allontanati dai tribunali in Italia, nessuno conosce quanto rendano, dove finiscono quei soldi, nessuno indaga sulle complicità e sui conflitti di interesse tra giudici minorili che decidono gli affidi e le cooperative che su quegli affidi prosperano. Nessuno è riuscito a fermare il business osceno che si è scatenato sulla pelle dei più piccoli. Altro che raffreddore: è una pestilenza. Una pestilenza che fa guadagnare molte persone, si capisce. Ma che non ha pietà dei bambini. E che perciò andrebbe fermato. A qualsiasi costo. In qualsiasi modo. Anche a costo di indagare un sindaco, se è necessario. Perché per quante violenza ci possa essere nell’indagare un sindaco che poi (forse) si dimostrerà innocente, non è paragonabile alla violenza che c’è nello strappare un bimbo al suo papà dicendogli che «papà è morto» o «papà non ti vuole», mentre il papà lo sta aspettando fuori dalla porta. E il fatto che i politici non lo capiscano, autoproclamandosi vittime e crocifissi, è l’ennesima dimostrazione, caso mai ce ne fosse ancora bisogno che i politici pensano a difendere sempre e soltanto sé stessi, anziché chi ne ha davvero bisogno, come i bambini. Poi si chiedono perché la gente non crede più in loro.
Abusi sui bambini, il Papa più avanti della politica. Donzelli: «Da Bibbiano al Forteto, hanno paura». Francesco Storace mercoledì 18 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Forteto, Bibbiano, sugli abusi ai bambini il Papa sembra più coraggioso della politica italiana….“Il Parlamento invece pare chiudersi a riccio. La commissione d’inchiesta sul caso esploso in Toscana anni addietro non parte. Le forze politiche di maggioranza la rinviano ancora ed è una vergogna oggettiva”. Lo dice al Secolo d’Italia il deputato Giovanni Donzelli, parlamentare toscano di Fratelli d’Italia, che sul caso Forteto ha condotto una durissima battaglia fino al varo della commissione. “Una certa politica – aggiunge – ha raggiunto livelli così bassi da far apparire cose di buonsenso come lungimiranti. Accusano la destra di aver strumentalizzato il caso per distrarre dalla realtà: sono i minori le vittime di questa vicenda, strumentalizzati per interessi economici e personali. E adesso pretendono anche che stiamo zitti?”
Chi e che cosa frena il varo della commissione d’inchiesta?
“Pd e Movimento 5 Stelle stanno litigando su tutte le poltrone, e fra queste anche quella del Forteto. Nella migliore delle ipotesi si tratta di questo. Sono nove mesi che l’istituzione della commissione d’inchiesta parlamentare è una legge dello Stato: quando partirà dovrà indagare anche per capire se fra i motivi di questo inaccettabile ritardo ci sia il tentativo di qualcuno, ancora oggi, di coprire i pedofili e i loro amici”.
Il Forteto in sintesi… molti italiani ancora non sanno…
“Il Forteto nasce negli anni ’70 dalla spinta ideologica del ’68. L’idea di una vita comunitaria a contatto con la terra e la natura si è trasformata presto in un luogo dove si sono commesse le peggiori angherie. Bambini con situazioni difficili affidati dai magistrati e poi abusati. Non si parla solo di abusi fisici, ma anche psicologici e sociali che hanno coinvolto anche le persone entrate in buona fede per lavorare e scappate per disperazione. E pensare che per anni le istituzioni della sinistra l’hanno incensata presentandola come un esempio. Il Forteto è stata una vera e propria setta”.
Dove dovrebbe spingersi la commissione?
“La commissione d’inchiesta ha il dovere di indagare sulle responsabilità dei magistrati, della politica, e di tutti quegli ambienti che hanno permesso a dei mostri di agire indisturbati, sguazzando in un sistema di potere granitico creato dalla sinistra in Toscana. Ma soprattutto è un risarcimento di verità e giustizia che lo Stato deve alle vittime: lo stop, per contro, rappresenta l’ennesima ferita inferta”.
Perché non può presiederla chi ha denunciato lo scandalo?
“Io penso che certamente non possano presiederla rappresentanti in continuità con le forze che per anni, al governo della Toscana, hanno finanziato il Forteto, lo hanno accreditato fino ad usarlo per le campagne elettorali. Sulla verità non possono esserci compromessi: per indagare efficacemente è necessario conoscere in modo approfondito la vicenda, dalle sentenze al lavoro delle due commissioni d’inchiesta toscane, le cui relazioni sono state approvate all’unanimità dal Consiglio regionale. Mi auguro che nessuno si sogni di mettere in discussione questi documenti”.
Bibbiano, nuovi guai per Foti: «Sospeso sei mesi dalla professione». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it. Nuovi guai per lo psicoterapeuta Claudio Foti, 68 anni, direttore scientifico della onlus «Hansel e Gretel» coinvolto nell’inchiesta «Angeli e Demoni» della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di affidi illeciti a Bibbiano, nella Val D’Enza. Questa mattina — lunedì — i carabinieri del Nucleo Investigativo di Reggio Emilia hanno dato esecuzione a Pinerolo (Torino) a un’ordinanza cautelare interdittiva nei suoi confronti, emessa il 6 dicembre scorso dal gip del Tribunale di Reggio Emilia, che dispone per Foti il divieto per mesi sei di esercitare l’attività professionale di psicologo-psicoterapeuta nei confronti di soggetti (pazienti o clienti) minorenni. Il provvedimento è stato assunto in ordine al capo di imputazione secondo cui il terapista avrebbe sottoposto una minore a «sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti, con la voluta formulazione di domande sul tema dell’abuso sessuale» per ingenerare in tal modo in capo alla minore «il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e dal socio». Questo con l’obiettivo di radicare «nella minore un netto rifiuto nell’incontrare il padre», che è stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale. La nuova misura cautelare è stata decisa dopo una serie di indagini successive all’esecuzione dell’ordinanza cautelare del 27 giugno scorso, quando per Foti erano scattati gli arresti domiciliari, poi revocati il 18 luglio dal tribunale del Riesame di Bologna e commutati nell’obbligo di dimora nel Comune di residenza (Pinerolo). Secondo fonti giudiziarie proprio il materiale video prodotto dalla difesa di Foti a sostegno dell’istanza di riesame che è stata accolta, è stato analizzato da un consulente tecnico della Procura reggiana risultando «in maniera oggettivamente antitetica a quanto prospettato dalla predetta difesa, un chiaro ed inequivocabile sostrato probatorio a sostegno invece delle ipotesi accusatorie». Una tesi che ha visto concorde il giudice per le indagini preliminari, che ha firmato l’ordinanza di sospensione dalla professione per Foti.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Mesi fa Andrea Coffari, avvocato difensore di Claudio Foti, rilasciò una intervista a questo giornale e spiegò di aver consegnato alle autorità ore di filmati delle sedute di terapia effettuate dal suo assistito sui bambini del caso «Angeli e demoni». Secondo Coffari, da quei video si sarebbe potuta evincere la bontà del lavoro di Foti. Grazie a quelle ore di registrazione, sosteneva Coffari, tutti coloro che avevano avanzato dubbi sulla professionalità del terapeuta torinese avrebbero dovuto ricredersi, e prepararsi a chiedere scusa. Siamo di fronte a uno dei più clamorosi casi di eterogenesi dei fini che la Storia ricordi. Poiché proprio quei filmati hanno costituito «al contrario di quanto prospettato dalla predetta difesa, un chiaro ed inequivocabile sostrato probatorio a sostegno invece delle ipotesi accusatorie della procura di Reggio Emilia». Questo ha scritto il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, Luca Raponi, nel provvedimento in cui stabilisce che il guru di Hansel e Gretel, 68 anni, «non potrà esercitare l' attività di psicologo o psicoterapeuta con pazienti minorenni» per un periodo di sei mesi. Si tratta di una nuova misura interdittiva a carico di Foti, che scaturisce da accuse piuttosto pesanti mosse dalla Procura di Reggio Emilia, secondo cui Foti avrebbe condotto su una minorenne «sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti, con la voluta formulazione di domande sul tema dell' abuso sessuale». Queste sedute avrebbero ingenerato nella piccola «il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e da un suo socio». In questo modo Foti avrebbe radicato «nella minore un netto rifiuto nell' incontrare il padre». Il risultato fu che al padre della minorenne fu tolta la potestà genitoriale. In pratica, la bimba gli fu strappata. Quel padre fu trasformato in un mostro a seguito di sedute di terapia condotte in modo sbagliato, tramite i metodi che gli operatori di Hansel e Gretel hanno sempre rivendicato con orgoglio, presentandosi come gli illuminati cacciatori di abusi ingiustamente osteggiati dai difensori dei pedofili. Non importava che la comunità scientifica avesse da tempo rigettato le tecniche di Foti e dei suoi collaboratori. Questi ultimi continuavano a insistere di essere nel giusto. È emblematico, a tal proposito, ciò che accadde mesi fa, quando a Foti furono revocati gli arresti domiciliari. Inizialmente, infatti, il guru di Hansel e Gretel era stato sottoposto a una misura cautelare pesante. Il suo difensore fece però ricorso al Tribunale del Riesame di Bologna, che decise di revocare gli arresti, limitandosi a imporre a Foti l' obbligo di dimora a Pinerolo, il suo paese in provincia di Torino. In quell' occasione, Coffari cantò vittoria, spiegando che - proprio poiché aveva visionato i famigerati filmati delle terapie - il giudice aveva deciso di alleviare i provvedimenti nei confronti del terapeuta. Qualche tempo dopo, però, uscirono le motivazioni del Riesame, e i toni utilizzati dai giudici, si scoprì, non erano poi così blandi, anzi. In realtà, il Riesame usava parole pesantissime nei confronti del terapeuta piemontese. Il giudice spiegava che Foti, Federica Anghinolfi, Nadia Bolognini e gli altri del giro bibbianese erano «fortemente ancorati a una visione ideologica del proprio ruolo che li rendeva convinti di essere in grado di assistere i minori abusati con capacità e metodo loro proprio, di cui essi erano gli interpreti; uniti nella acritica convinzione della validità scientifica della loro metodologia e del loro approccio maieutico; in grado di far emergere, con valore salvifico e terapeutico, ricordi di abusi sessuali subiti da minori con personalità fragili e in difficoltà». Esisteva, secondo il giudice del Riesame, una «scuola Foti» e il metodo che essa utilizzava appariva «di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura, nonché ingerenza nella vita privata dei minori, in violazione della Carta di Noto». Secondo il giudice «l' opera di Foti si è inserita in una scia che portava gli indagati a credere fortemente nella sussistenza a priori di abusi sessuali nella vita dei piccoli pazienti». Tra le altre cose, il giudice bolognese contestava persino la professionalità del terapeuta (che, va ricordato, non ha una laurea in psicologia o psichiatria, ma in lettere, ed esercita grazie a una sanatoria). Il Riesame, nelle motivazioni, parlava infatti di «trattazione di questioni delicatissime su eventuali abusi sessuali e maltrattamenti subiti da parte di una persona che, tra l' altro, non risulta in modo certo dotata delle competenze professionali e scientifiche per esercitare l' attività di psicoterapeuta». Di fronte a queste frasi viene da chiedersi: come mai, allora, il tribunale del Riesame decise di revocare gli arresti domiciliari a Foti e addirittura di far cadere una delle accuse nei suoi confronti? Il motivo è semplice. L' accusa in questione era quella di frode in processo penale e depistaggio. Riguardava appunto la vicenda di una ragazzina che il terapeuta ha seguito tra il 2016 e il 2017 e che sarebbe stata spinta a ricordare abusi subiti dal padre in tenera età. La ragazza nel frattempo è diventata maggiorenne, il procedimento sugli abusi ha già fatto il suo corso e l' accusa è caduta soltanto per questioni tecniche legate alle tempistiche. Secondo il tribunale, tuttavia, restava «pacifico che la terapia con la ragazza era per Foti un vantaggio economico, posto che per ogni seduta di un' ora il suo guadagno era di euro 135, tariffa ben al di sopra e quasi doppia rispetto alla tariffa media di uno psicoterapeuta pari a euro 70». Questa ragazza è la stessa a cui, ora, fa riferimento il Gip di Reggio Emilia. Sapete che cosa significa? Che qui abbiamo ben due giudici - quello del Riesame di Bologna e quello reggiano - che hanno espresso nero su bianco critiche pesantissime all' operato di Claudio Foti e di Hansel e Gretel. Secondo entrambi i giudici, infatti, il terapeuta torinese utilizzava metodi invasivi, faceva pressioni sui pazienti minorenni affinché raccontassero abusi che in realtà non avevano subito. Il provvedimento del Riesame impediva a Foti di operare a Bibbiano, ma gli consentiva comunque di seguire pazienti a Pinerolo. Il nuovo provvedimento del Gip, invece, blocca per sei mesi qualunque attività del creatore di Hansel e Gretel. Di fronte a tutto questo, di fronte a giudici (non pm, non giornalisti) che attaccano con tanta forza il lavoro sui pazienti minorenni di Foti e compagni, tocca porsi una domanda. Per quale motivo ad Hansel e Gretel fu affidata la gestione esclusiva del centro La Cura di Bibbiano?
Quali attestati di benemerenza aveva prodotto Foti? Sul suo conto circolavano già parecchi pareri negativi, il suo lavoro era stato ampiamente contestato anche prima che arrivasse in Emilia Romagna. Eppure il sindaco del Pd Andrea Carletti e gli assistenti sociali bibbianesi hanno deciso di concedere a Foti e ai suoi totale libertà di azione. Come sia stato possibile, forse, dovrebbero dircelo i fini analisti che, da qualche tempo, continuano a definire Bibbiano «un raffreddore». Lo dicano al Gip che il caso Angeli e demoni non esiste. Oppure, optino per un più dignitoso silenzio.
Giovanardi: "perché il Pd non si dissocia dalle idee di Foti?". Sulla vicenda di Bibbiano, l’ex ministro lancia una polemica sulle idee dello psicologo e sulla sinistra che per anni le ha sponsorizzate. Panoram ail 10 dicembre 2019. Una nuova, dura polemica sullo scandalo dei bambini di Bibbiano: la lancia Carlo Giovanardi, ex senatore modenese del centrodestra e più volte ministro. Giovanardi chiama in causa il Partito democratico e chiede come sia stato possibile che, per anni, quel partito abbia sostenuto e addirittura “sponsorizzato” Claudio Foti, lo psicologo piemontese finito al centro dell’inchiesta Angeli e Demoni della Procura di Reggio Emilia. Di Foti, indagato per frode giudiziaria e abuso d’ufficio, Giovanardi critica alla radice idee e statistiche: secondo lo psicoterapeuta, il 75% dei minori sarebbe vittima di abusi di qualche genere (sessuali, fisici o psicologici), tanto da usare l’irriverente iperbole di “Olocausto” per descrivere il fenomeno. Giovanardi sottolinea poi che Foti sostiene che anche gli abusi non provati dalla giustizia sono quasi sempre veri, e che le sentenze di assoluzione non significano nulla. Lo psicologo teorizza inoltre che l’allontanamento dei bambini dalle famiglie è la sola strada per fare emergere in loro il ricordo delle violenze subite. Alla luce di tutto questo, Giovanardi chiede che anche il Pd si opponga a queste idee da “caccia delle streghe”.
Carlo Giovanardi: Tutti conosciamo il terribile significato del termine "Olocausto", che richiama lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti nella Seconda guerra mondiale. Ma c'è un altro Olocausto, meno noto, che ci illustra lo psicologo Claudio Foti nel suo intervento "il negazionismo dell'abuso sui bambini, l'ascolto non suggestivo, la diagnosi possibile", pubblicato sul numero 2 del 2007 della rivista MinoriGiustizia. Scrive Foti: "L' olocausto dell'abuso sulle donne e sui bambini, con i suoi scenari infinitamente differenziati e sfumati, ma forse più impensabili e indicibili di quelli dei lager e assolutamente non circoscritti da un visibile filo spinato, rimane comunque un fenomeno in gran parte sommerso e l' impegno a sottrarlo dalla notte millenaria di rimozione e di negazione, in cui resta avvolto, per poterlo contrastare ed affidare alla coscienza ed alla memoria, risulta assai piu' difficile di quanto non sia accaduto per altre espressioni di violenza storicamente documentate". Nello stesso intervento leggiamo: "La prima verità è che gli abusi organizzati (ritualistici o finalizzati al traffico di materiale pedopornografico) esistono o sono diffusi; la seconda verità è che sono destinati a rimanere ancora a lungo sostanzialmente impensabili e pertanto socialmente inaffrontabili dal punto di vista preventivo e repressivo". Sin dal tempo dei cosiddetti "Diavoli della bassa modenese" (1999) passando per il caso degli “orchi” dell’asilo di Rignano Flaminio (2006), un ristretto numero di persone dalla più disparata estrazione politica e professionale, hanno contestato in Parlamento e fuori questo approccio ideologico alla tematica dell' abuso sui minori: dal giornalista Pablo Trincia, con la sua indagine Veleno, all’avvocato Patrizia Micai, difensore di alcuni dei condannati; dallo psichiatra modenese Camillo Valgimigli all’ex giudice del Tribunale minorile di Bologna, Francesco Morcavallo. Dopo la esplosione dell'indagine "Angeli e Demoni" Francesco Borgonovo sulla Verità, Maurizio Tortorella con il suo libro "Bibbiano e dintorni" e Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano hanno con pacatezza e e ineccepibile documentazione informato i lettori della gravità dei reati ipotizzati dalla magistratura di Reggio Emilia. Viceversa, un tema così angoscioso e delicato ha innescato polemiche strumentali e imbarazzanti, sceneggiate da parte di esponenti della Lega, di Fratelli d'Italia e dei 5 Stelle, e altrettante incredibili e imbarazzanti difese d'ufficio da parte del Partito democratico: un clima ben diverso da quello dell'epoca delle maestre di Rignano Flaminio, quando il Pd era giustizialista e forcaiolo, e la destra non era da meno, con Alessandra Mussolini e Luca Barbareschi a chiedere al governo Berlusconi, di cui facevo parte come sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia, di dissociarsi pubblicamente dalla mia difesa delle maestre (poi assolte con formula piena). Purtroppo la rissa politica rischia di far dimenticare il dramma di migliaia di famiglie vittime di pregiudizi ideologici, come quelli che hanno portato il Centro Hans e Gretel di Claudio Foti a sostenere e diffondere tra magistrati minorili, operatori dei servizi e psicologi il dato che il 75% dei bambini italiani sia abusato in famiglia, o sessualmente o tramite violenza fisica o psichica. Come scrive Foti nel testo già citato, “i clinici, attrezzati all'ascolto empatico dei loro pazienti, ben conoscono su un piano empirico la diffusione dell'abuso sui bambini, essendo abituati ad accogliere, magari dopo mesi e anni di psicoterapia, precisi ricordi di violenze, latenti o manifeste, avvenute nell'infanzia dei loro pazienti e a verificare effetti di integrazione e benessere di straordinario rilievo a seguito della narrazione ed elaborazione terapeutica di questi ricordi".
E che cosa accade se la giustizia poi assolve o archivia? "I dati relativi alle false accuse" scrive Foti "non possono basarsi sulle archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie. Non si può considerare il responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale, confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che la prima necessariamente deve tener conto, giustamente e inevitabilmente, del parametro delle prove. La stessa verità giudiziaria, inoltre, risulta spesso condizionata vuoi da modalità d'indagine e processuali che tengono assai poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa preparazione psicologica dei giudici". Conclude Foti: "Si rischia di lasciare il piccolo testimone in balìa di vissuti paralizzanti. Si finisce per generare anziché una suggestione positiva, una massiccia suggestione negativa nel bambino…". I milioni di cittadini italiani che hanno visto in televisione le agghiaccianti immagini di come venivano interrogati i bambini della Bassa Modenese e di Bibbiano si sono resi conto di come sono stati tradotti nella realtà certi teoremi, suffragati anche dalla teoria del cosiddetto "disvelamento progressivo", secondo la quale un bambino sottratto ai genitori, con i quali per mesi viene precluso ogni contatto, se debitamente (ed empaticamente) interrogato farà affiorare gli abusi subiti. Abusi che non possono non essere veri perché, come scrive Foti, "in conclusione non è affatto dimostrato che il falso ricordo, quando consiste in un evento sconvolgente e traumatizzante si possa inserire nella memoria autobiografica". Vorrei pertanto che il Pd di Reggio Emilia e quello nazionale spiegassero perché abbiano sempre esaltato e sponsorizzato le teorie di Foti; perché non condannino le terribili conseguenze di queste teorie; e soprattutto perché non intendano fare causa comune con tutti coloro, anche della loro stessa area politica, che ben prima di Bibbiano si sono opposti a questo ritorno alla "caccia alle streghe".
Le strane statistiche del giudice di Bibbiano. Il presidente del Tribunale dei Minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, ha detto che il sistema è sano. Ma i numeri sugli allontanamenti che ha fornito lasciano dubbi. Maurizio Tortorella il 22 dicembre 2019 su Panorama. Giuseppe Spadaro, forse, ricorderà questo 2019 che ormai declina come uno dei peggiori anni della sua vita. Dopo un’estate infernale, e alla fine di un autunno da incubo, al presidente del Tribunale dei minori di Bologna sembrerà poca cosa perfino la grave intossicazione alimentare che in aprile gli aveva imposto un ricovero in ospedale. Per Spadaro la guerra, quella vera, è iniziata alla fine di giugno, quando è scoppiata l’inchiesta «Angeli e demoni»: suo malgrado, da allora il magistrato è sotto i riflettori dei mass media e il suo ufficio è finito al centro dello scandalo per i presunti allontanamenti illegittimi dei bambini di Bibbiano, la cittadina emiliana che in quel campo (come l’intera Regione) è sotto la sua giurisdizione. Nato 55 anni fa in Calabria, magistrato dal 1990 e dal 2013 in carica a Bologna, Spadaro ha disperatamente cercato di presentare se stesso e i suoi giudici come le «prime vittime» degli assistenti sociali coinvolti nell’inchiesta. Non è servito: il gorgo accusatorio dei social media lo ha risucchiato. A Spadaro «Angeli e demoni» ha rovinato anche luglio, agosto e settembre: il magistrato ha dovuto rinunciare al mare per scavare nei fascicoli da cui ha fatto uscire mille statistiche, a suo dire rassicuranti. Ma l’inchiesta della Procura di Reggio Emilia, involontariamente, gli ha soprattutto stoppato la carriera: prima di Bibbiano veniva data per certa la sua promozione al vertice del Tribunale per i minori di Roma, il più importante d’Italia, per cui Spadaro aveva fatto domanda nel 2018. Il Consiglio superiore della magistratura era schierato con lui, Piercamillo Davigo in testa. A metà novembre, invece, lo stesso Csm ha sospeso tutto. Ai primi di luglio, del resto, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha avviato un’indagine amministrativa sull’ufficio di Spadaro. È vero che gli ispettori ministeriali, da buoni magistrati, non sono mai troppo severi con i colleghi dei quali si occupano. Ma stavolta il Guardasigilli ha domandato un’analisi insolitamente approfondita: Bonafede ha ordinato di «andare oltre l’acquisizione documentale» e di «ascoltare giudici, personale amministrativo, avvocati e altri soggetti in grado di fornire informazioni». Non contento, l’11 novembre Bonafede ha chiesto agli ispettori un supplemento d’indagine «sui rapporti tra giudici e operatori che potrebbero aver determinato situazioni d’incompatibilità, e sulle misure adottate dal presidente». Cioè dal povero Spadaro. Questo supplemento d’ispezione è stato probabilmente motivato dal fatto che nelle intercettazioni di «Angeli e demoni» era emersa la vicinanza tra uno dei 41 giudici bolognesi e gli psicologi Claudio Foti e Nadia Bolognini, al centro delle indagini. Il 27 agosto Spadaro aveva sostituito il magistrato in questione, ma non c’è stato nulla da fare: un mese fa, la nuova ispezione ha indotto il Csm alla prudenza. Come se i guai non bastassero, in novembre è arrivata la ciliegina sulla torta: l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia ha inviato a Bonafede e al Csm un rapporto sulle presunte inadempienze del Tribunale di Spadaro. Ne esce un quadro più che fosco, cupo. Gli avvocati lamentano che a Bologna ci sono procedure di sospensione della potestà genitoriale, e addirittura di adottabilità dei bambini, «in cui da oltre un anno non vengono fissate le udienze». Denunciano «il sistematico, mancato reperimento dei fascicoli in cancelleria e negli uffici dei magistrati» e lo «smarrimento di fascicoli». La presidente dell’Ordine, Celestina Tinelli, sostiene che spesso «gli avvocati non possono nemmeno partecipare alle udienze». E la grana rischia di ripetersi con iniziative analoghe di altri Ordini legali emiliani…Alla fine di questa nera sequenza di avversità, il 14 novembre Spadaro è stato chiamato a rispondere alle domande della Commissione d’inchiesta sugli affidi minorili, varata dalla Regione Emilia-Romagna. Lì, caricato a molla, il magistrato ha finalmente potuto sfogarsi. Ha ricordato le offese e le minacce ricevute sui social media: «Mi hanno chiamato sequestratore di bambini!», ha protestato. Il presidente ha cercato di rappresentare la piena efficienza del suo Tribunale: «Siamo tra i migliori in Italia» ha dichiarato con orgoglio. Ma poi è accaduto un fatto strano. Perché a Spadaro è stato chiesto conto di due numeri, fondamentali, che i giornali, concordi, gli avevano attribuito alla metà di ottobre: per dimostrare l’insussistenza di ogni problema e respingere l’accusa di un «sistema Bibbiano», Spadaro avrebbe riferito che tra 2018 e 2019 i Servizi sociali avevano chiesto al suo ufficio 100 allontanamenti, e che i suoi giudici ne avevano respinti ben 85. Proprio alla Commissione regionale, però, quella statistica è stata sottoposta a critiche. Possibile che gli assistenti sociali avessero chiesto allontanamenti infondati nell’85 per cento dei casi? E come mai, davanti a quella valanga di errori, i giudici non avevano preso provvedimenti? Posto di fronte alla questione, Spadaro ha dato la sua versione: «È un equivoco», ha spiegato «perché i Servizi sociali non chiedevano 100 allontanamenti, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante e io stesso sarei andato in Procura a segnalarlo». Spadaro ha dichiarato che, al contrario, gli assistenti sociali avevano presentato 100 «segnalazioni di potenziale pregiudizio», cioè relazioni assai meno definitive. E non così preoccupanti. Resta agli atti, però, un comunicato ufficiale dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, di cui lo stesso Spadaro è vicepresidente. L’11 e 12 ottobre, l’Aimmf si è riunita in congresso a Lecce, e nella nota finale di quell’assise si parla proprio delle 100 «richieste di allontanamento». Così la versione di Spadaro viene autorevolmente smentita proprio dall’associazione di cui è vicepresidente: «A seguito delle recenti e puntuali precisazioni fornite dal presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna» scrive l’Aimmf «è stato accertato che in 85 procedimenti su 100, avviati su richiesta della Procura minorile, era stata respinta la proposta di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine e il collocamento presso terzi suggerito dai Servizi sociali». L’annus horribilis di Spadaro, insomma, continua.
Nek e l'appello per Bibbiano: "Vogliamo la verità". Nek, dopo la Pausini, lancia un messaggio su social su quanto accaduto ai bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Angelo Scarano, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Il mondo della musica si mobilità per far luce sui fatti di Bibbiano. Diversi volti noti della musica italiana chiedono la verità su quei bambini tolti ai gentiori per essere poi affidati (nel silenzio più assoluto) ad altre coppie. La prima voce ad alzarsi in questo senso è stata quella di Laura Pausini. Proprio la cantante romagnola ha voluto lanciare un appello molto chiaro: "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni. Mi sento incazzata, fragile, impotente". E ancora: "Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?". Adesso su questa vicenda (che da settimane ilGiornale.it sta raccontando) è intervenuto anche Nek che con un post sui social ha chiesto la verità su quanto accaduto a Bibbiano. Il cantante non usa giri di parole e anche lui dai social lancia un appello che ha fatto in poche ore il giro del web: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Insomma la storia dei bimbi di Bibbiano grazie anche ai messaggi dei volti noti dello spettacolo tenta di rompere il muro del silenzio che diversi organi di stampo hanno creato attorno a questa vicenda. E c'è da giurare che l'appello di Nek non resterà isolato e non sarà certo l'ultimo. Altri cantanti sono pronti a chiedere la verità e a dar voce ad una vicenda su cui è importante tenere alta l'attenzione.
Bibbiano, Nek risponde agli insulti rossi: "Bah, passo e chiudo..." Nek adesso non usa giri di parole e risponde per le rime a chi lo ha attaccato per il suo post su Bibbiano: "Vi pare giusto?" Angelo Scarano, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. Nek reagisce. Non ci sta a subire attacchi gratuiti per il suo appello a far luce su quanto accaduto a Bibbiano. Come è noto, il cantante sui social ha lanciato un messaggio chiaro per chiedere verità su una vicenda che finora ha diverse ombre. Lo ha fatto con semplicità, con queste parole: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Parole che hanno subito scatenato la reazione degli haters "rossi" che su Facebook e Twitter hanno messo nel mirino il cantante. Ma non ci sono solo gli haters ad attaccare Nek. C'è anche Luca Bottura che su Repubblica non ha usato certo toni morbidi per il cantante: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Livore gratuito contro chi ha espresso un'opinione legittima e che viene deriso anche sul fronte professionale. Ma Nek non ci sta e così ha deciso di reagire e dire la sua rispedendo al mittente tutti gli insulti ricevuti: "Paragonare una mia canzone di 25 anni fa a un crimine contro l’umanità, uno di quelli veri… Ma certo, è normale, si fa, è satira! Tirare fuori addirittura i lager e Salò. Ok, è sempre satira! Ma sarà davvero satira accostare tutto questo? Una canzone che legittimamente può o non può piacere, con eventi e tragedie che hanno segnato la storia di tutti noi? Bah!! Passo e chiudo". Poi chiama in causa in modo esplicito Bottura: "Non discuto la critica – scrive Nek – Sono quasi 30 anni che ci sono abituato. Né tantomeno, quando è attinente, la satira. Evviva la libertà di espressione, del signor Bottura, della stampa, quella di ognuno di noi, ma anche la mia". Ma dopo aver regolato i conti con chi l'ha insultato, Nek rilancia il suo appello per Bibbiano: "Ho espresso un pensiero su una vicenda che mi stava a cuore, e che ritengo importante. Sono stato oggetto di critiche, giudizi, insulti, strumentalizzazioni e forzature. Me ne faccio serenamente una ragione. E certo non mancherò di esprimermi ancora ogniqualvolta ne sentirò il bisogno". Insomma il cantante non usa giri di parole e non torna sui suoi passi dopo aver chiesto verità per Bibbiano.
Da Nek a Mietta e Laura Pausini anche i VIP contro il silenzio su Bibbiano. Letizia Giorgianni il 21 Luglio 2019 su La Voce del Patriota. Mentre il Pd minaccia querele a chiunque parli della vicenda ed il suo segretario Zingaretti risponde con una risata alla domanda della giornalista, l’indagine sugli affidi di Bibbiano si estende a nuovi casi, che riguardano anche altri comuni, e che getterebbe ombre su oltre 70 affidi. Si perché, mentre il pool degli avvocati del Pd sono impegnati affinché “nessuno osi strumentalizzare” la vicenda, i magistrati del Tribunale e della Procura dei minori di Bologna, su ordine del Presidente Giuseppe Spadaro, stanno ricontrollando tutti i dossier trattati negli ultimi due anni dalla rete dei servizi sociali per 6 Comuni. Impossibile ormai arginare lo sdegno provocato da una tale mercificazione e violazione dell’infanzia; non basta più il silenzio dei media e neppure l’infaticabile lavoro della fallimentare agenzia on-line di Mentana, impegnata alacremente a far sgonfiare l’inchiesta con notiziole ininfluenti (tipo il finto prete che parlava di Bibbiano). Lo sdegno della gente comune è tangibile. E allo sdegno della piazza, (l’ultimo corteo a Bibbiano proprio ieri) adesso si unisce anche quello dei vip, come la Pausini, Nek, e nella tarda serata di ieri anche la cantante Mietta, che dopo aver letto su Instagram lo sfogo di Nek, chiede a quest’ultimo la possibilità di condividere il post, appoggiandolo in pieno. Niente prime pagine per loro però. I loro post sono passati praticamente inosservati, ignorati. Dal canto loro i media, o per lo meno quelli che ritengono che l’informazione sia un diritto solo quando non lede gli interessi del padrone, continuano a tacere. Anzi, adesso, dopo la presa di posizione di personaggi dello spettacolo, tacere non gli basta più. Sono passati all’attacco, dimenticandosi completamente ogni regola, oltre che deontologica di buon senso, di quella che dovrebbe essere l’attività di un cronista. C’è infatti persino chi tenta di ironizzare e mettere alla berlina coloro che vogliono venga fatta completa luce sulla vicenda. Lo fa Repubblica, che chiama con disprezzo gli indignati “complottisti da social” ma anche La Stampa, che titola un articolo, (che di informativo non ha proprio niente): E allora Bibbiano? con il chiaro intento di descrivere in toni grotteschi chi osa collegare l’inchiesta di Bibbiano al Pd. Nell’articolo la giornalista, incredibilmente, parla di “luoghi comuni e falsità contro il Pd” di chi vuole strumentalizzare la vicenda per interessi personali. Probabilmente ne sa più lei che i pm che si stanno occupando dell’inchiesta. Fa eco Next, che di tutta l’inchiesta, documentata anche da intercettazioni, ci propina un “trattato” sull’uso improprio della parola “elettroshock” sui bimbi, rassicurandoci che non si è trattato di un vero e proprio elettroshock ma di “stimoli di tipo elettrico usati nella terapia per superare alcuni tipi di traumi”. Certo, adesso ci sentiamo sicuramente sollevati. E ci domandiamo se non vogliano anche loro prendere il posto degli inquirenti che si stanno occupando della vicenda. Per fortuna esistono anche giornalisti che alle imbarazzanti forme di autocensura preferiscono la coraggiosa e dolorosa ricerca delle verità nascoste. E anche la politica lo deve fare. E non si tratta di strumentalizzazione, si tratta di tenere ancora i riflettori accesi affinchè venga fatta piena luce sulla vicenda. Se non si considerano le responsabilità politiche ci ritroveremo tra qualche anno a dover affrontare un altro caso, altre vittime. Ricordiamo che prima Forteto e oggi Bibbiano si sono generati negli stessi ambienti culturali e politici. In tutti questi casi il silenzio è stato il nutrimento che ha consentito a queste realtà di operare per anni in modo incontrastato.
#ParlatecidiBibbiano. Perché la cacca non diventi… cioccolata. Cristiano Puglisi 23 luglio 2019 su Il Giornale. Ancora mutande sporche di Nutella. Questa volta al Comune di Bibbiano. A consegnarle, in sei borsette chiuse destinate ad altrettanti e differenti destinatari, tutti interni alla macchina comunale, è stato nuovamente il misterioso gruppo degli “Idraulici”, che già si era distinto per un’azione similare nei confronti della nave della ONG“ Open Arms”, ormeggiata al porto di Lampedusa. Il gruppo di attivisti, vestiti proprio da idraulici, ha fatto irruzione sabato mattina negli uffici comunali e ha recapitato la “castana” sorpresa a quelli che ha identificato come i responsabili dello scandalo relativo agli affidi. “Gli Idraulici – hanno poi spiegato gli autori del gesto in un comunicato stampa - non dimenticano qual è il loro compito principale, la ragion stessa del loro esistere: sturare quelle situazioni in cui l’accumulo di merda è diventato eccessivo. Bibbiano è una latrina a cielo aperto, la cui puzza viene coperta e deviata in ogni modo dal silenzio di sistema. È in questi frangenti che un Idraulico torna utile!”. “Non ci sono stati – dice ancora il comunicato – servizi-scandalo, maratone, titoloni a tutta pagina e chi ha provato a richiamare l’attenzione è stato immediatamente tacitato con news spacciate come prioritarie. Ma gli Idraulici arrivano come il destino, senza pretesti, senza riguardo, esistono come esiste il fulmine! E con loro, la gente d’Italia, che nella famiglia naturale ha un cardine imprescindibile(…)”. Il gruppo degli “Idraulici” è ritenuto vicino al think tank identitario Il Talebano. “Quanto è successo a Bibbiano è un fatto tremendo, la politica deve intervenire fermando la sperimentazione sociale attuata nelle scuole di stato sui bambini – ha commentato al proposito Fabrizio Fratus, fondatore proprio de ‘Il Talebano’ – Le strutture pubbliche non devono essere utilizzate per fini ideologici”. Già. Eppure il fecale fetore dei fatti di Bibbiano sembra, nella grande stampa generalista, essere già stato dimenticato. Passato in secondo piano, destinato non più alle prime pagine (come invece capita agli scontri tra le ONG e l’attuale ministro dell’Interno e al ridicolo “Russiagate” all’amatriciana), ma, al più, alla cronaca giudiziaria. #ParlatecidiBibbiano è l’hashtag-denuncia che sta circolando in queste ore su Twitter, rilanciato, tra gli altri, anche dal presidente di CulturaIdentità, Edoardo Sylos Labini. Giusta iniziativa, perché di Bibbiano si deve parlare. Se ne deve parlare per rispetto verso i bambini, vittime innocenti e senza difesa, e verso le famiglie coinvolte. È una questione morale, prima che giornalistica. Perché non si può consentire che la cacca, ancora una volta, diventi cioccolata.
Sui social centinaia di meme e post costruiti ad arte accusano media, Partito Democratico e movimento Lgbt di aver oscurato l’inchiesta di Reggio Emilia sui presunti abusi. Nadia Ferrigo il 18 Luglio 2019 su La Stampa. «Allora Bibbiano?» La «guerriglia culturale» invocata da VoxNews.info, l'autodefinitosi «quotidiano sovranista» Il Primato Nazionale e da una nebulosa galassia di decine di pagine Facebook dai nomi più o meno evocativi, ha un nuovo tormentone: l'inchiesta sui presunti abusi su minori in provincia di Reggio Emilia. Ne parlano centinaia di post e articoli, condivisi e commentati migliaia di volte sui social: nulla aggiungono, se non notizie false e un minestrone di pregiudizi e luoghi comuni che vanno dai «risultati della campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale e diffondere la teoria gender» a una «ideologia aberrante che mira alla disgregazione totale della famiglia nel nome del gender, del femminismo, della famiglia arcobaleno, dei diritti/capricci». Colpevole è il Partito Democratico, che con «la complicità dei media» vuole mettere a tacere la vicenda. Una squallida speculazione, con argomenti che nulla hanno a che fare con l’inchiesta di Reggio Emilia. Cosa c'entrano per esempio Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Roberto Saviano e Laura Boldrini? Assolutamente nulla. Ma sono decine i meme che accostano le loro fotografie al «connivente silenzio dei media» sull’indagine. Lo stesso accade sugli account Facebook e Twitter dei media nazionali. Le notizie di politica sono bersagliate dallo stesso, squallido ritornello: «Parlate dei rubli, per non parlare di Bibbiano». Nella lettura complottista di una galassia di siti specializzati nella produzione di bufale e fake news virali, i media sono complici di Pd e movimento Lgbt: l’obiettivo di tutti sarebbe nascondere la realtà. Ecco i fatti. Giovedì 27 giugno i carabinieri di Reggio Emilia hanno messo agli arresti domiciliari sei persone al termine di un'indagine su un'organizzazione criminale che da una parte aveva lo scopo di togliere bambini a famiglie in difficoltà e affidarli a famiglie di amici o conoscenti, mentre dall’altra gestiva illecitamente fondi pubblici. L'indagine si concentra dell'affidamento di sei bambini legati ai servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, un consorzio di sette comuni che condividono la gestione di molti servizi. La notizia è stata riportata da tutti i principali media italiani, che continuano a seguirne gli sviluppi. Ma la campagna d’odio, anche in assenza di notizie, va alimentata: online le varianti morbose sono infinite, per forza ripetitive. Spesso ricostruzioni assolutamente false. Titola l’ultimo link di VoxNews.info: “I mostri di Bibbiano occupano aula contro Salvini”. Le fotografie sono quelle della protesta dei parlamentari del Pd, che chiedono che il ministro Matteo Salvini riferisca in Parlamento sulla vicenda dei fondi russi alla Lega. Nulla a che fare con l’inchiesta. Tra i più attivi su Facebook, gli account legati all’estrema destra. Un esempio, il «Gruppo Gnazio». I post con riferimenti a Bibbiano sono decine, i commenti assolutamente irripetibili. Tra quelli che senza vergogna si possono riprendere c’è: «Vauro ha la matita rotta, nessun commento sui bambini di Bibbiano?». Continua a essere postato e ripostato il video attribuito a Bibbiano – ma che in realtà si riferisce a un’altra vicenda di cronaca, come raccontato da Open – di un bimbo che si dispera perché separato dal padre. Filmato postato anche dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Questa squallida campagna di speculazione su una vicenda giudiziaria ancora agli esordi, cui prodest? A chi giova? Non certo ai bambini. Nè a quelli vittime degli abusi – che per oltre il 70% avvengono in famiglia – né ai bambini presunte vittime degli errori del sistema di affidamento. A decidere non saranno né i social né le invocate «indagini giornalistiche», ma la magistratura.
Commento di Alessandra Ghilardini: Questo sotto è una parte di quello che scrivevate nel non tanto lontano 31 luglio 2016...definendo l'unione val d'Enza una lavatrice sana....quindi non mi stupisco ora la vostra improvvisa prudenza e ritrosia nel commentare anni di abusi perpetrati da chi voi esaltavate come la soluzione ai problemi di quella "cattivona" (mio aggettivo) modello di famiglia patriarcale così definito da quella brava professionista Federica Aghinolfi.
"La Val d’Enza. C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza - 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi , 31 seguiti per abusi sessuali - hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori. E magari cambiare anche la testa di chi non vede il problema. «Abbiamo fatto rete e lavoriamo con operatori specializzati capaci di dare risposte rapide. La variabile tempo è decisiva», dice Carletti. È seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi. «Noi la volontà politica l’abbiamo avuta. E nonostante i tagli abbiamo anche trovato i soldi». Come li hanno spesi? Facendo formazione sugli operatori per renderli in grado di leggere in anticipo i segnali di malessere, spesso aspecifici, dei bambini, rivalutando la figura dell’assistente sociale, lavorando con gli ospedali e con le scuole e appoggiando in modo esplicito le vittime della violenza. Ad esempio costituendosi parte civile in un processo contro una madre che faceva prostituire la figlia dodicenne. Favoloso. Ma i soldi? «Abbiamo cercato di ricorrere meno alle comunità (che pure sono fondamentali) dove per seguire un bambino servono 50mila euro l’anno. E abbiamo incentivato il ricorso agli affidi, che costano molto meno». Le idee. Un piano capillare. La professionalità degli operatori. «Per noi è decisiva la riumanizzazione delle vittime. E per questo servono empatia e competenze specifiche. Ma sa quanti sono i corsi di laurea, a medicina o a psicologia, che prevedono la materia: “vittime di violenza”? Zero», dice Maria Stella D’Andrea, che chiede al governo interventi non solo teorici. La legge di Stabilità del 2016 ha previsto, ad esempio, un “percorso di tutela delle vittime di violenza” rimandando a un decreto della presidenza del consiglio la definizione delle linee guida. Ma il decreto non è mai arrivato. E anche se arrivasse ci sarebbe la garanzia della sua applicazione? Dubbio legittimo. «Dal 2001 la legge prevede l’obbligo per il sistema sanitario di mettere a disposizione delle vittime uno psicoterapeuta. Ma, mancando i soldi e mancando una visione, mancano anche gli psicoterapeuti. Però tutti zitti. In questo Paese è ancora troppo forte l’idea della famiglia patriarcale padrona dei figli», dice Anghinolfi. Così in provincia di Reggio insistono con il fai da te. E a settembre, grazie anche alla consulenza del centro studi Hansel e Gretel di Torino, apriranno un Centro di Riferimento per minori che garantirà formazione, tutela, ascolto e assistenza. Venite qui, vi diamo una mano. Il sistema? Lo chiamano “riciclo delle emozioni”. Come se i bambini finissero dentro una lavatrice sana e cominciassero a lavarsi dentro. Ora, il modello degli otto comuni dell’Unione Val d’Enza è lì, basta allungare una mano e prenderlo. Interessa?"
Non è più tollerabile. Luca Bottura il 21 luglio 2019 su La Repubblica. Ameno stavolta. Filippo Neviani in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt’ora nella lista dei crimini contro l’umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato al gusto Puffo. Successivamente prestò la sua immagine a una campagna contro la droga condotta fianco a fianco dell’allora ministro Giovanardi e di un cane poliziotto. Il cane cominciò a drogarsi di lì a breve. Non stupisce che ieri abbia pubblicato sui social un post indinniato sulla vicenda di Bibbiano, l’indagine su presunte sottrazioni di minori nel Reggiano, corredata da uno striscione in caratteri postfascisti nel quale si attribuisce al Pd il ratto dei piccoli. Quella di Nek viene subito dopo la presa di posizione social di Laura Pausini, a sua volta desiderosa di squarciare la coltre di silenzio su un evento di cui parlano tutti dacché è emerso, e di Enrico Ruggeri, che l’altro giorno accusava Zingaretti di aver preso i rubli prima di Salvini. Successivamente, la Pausini è stata ripresa dal sottosegretario contro gli Interni, Sibilia, mentre a Nek è toccato il retweet di Giorgia Meloni. La domanda sorge spontanea: ma il povero Povia, che il sovranista da pentagramma lo faceva quando non era ancora così di moda, sarà contento di vedere tutta ‘sta gente sulla Lada dei vincitori?
“E allora Bibbiano?”: Pd, media, movimento lgbt nel mirino dei complottisti da social. La macchina dell'odio che specula sull'inchiesta "Angeli e demoni" di Reggio Emilia si è riattivata alcuni giorni fa, dopo le parole del vicepremier Di Maio. E cerca di saldarsi all'indagine statunitense sul miliardario Jeffrey Epstein. Segnalato un utente che ha minacciato di morte il deputato dem Andrea Romano. Simone Cosimi il 19 luglio 2019 su La Repubblica. L’operazione è stata certificata dal vicepremier Luigi Di Maio. Intervistato sugli scenari politici, in merito a un possibile accordo di governo col Pd ha spiegato che il M5S non avrebbe mai fatto un’alleanza “con il partito di Bibbiano”. In risposta, i dem hanno annunciato una querela al ministro dello Sviluppo economico. Non era una dichiarazione campata in aria. Da qualche giorno l’implacabile macchina della calunnia si è messa in moto sui social network, dove l’inchiesta "Angeli e demoni" sul sistema illecito di gestione dei minori in affido in Val d’Enza, secondo l’accusa strappati alle famiglie con manipolazioni e pressioni e assegnati ad altri nuclei, viene da giorni sfruttata come stigma con cui screditare e attaccare il Partito democratico. E non solo. Il gancio è con l’ormai ex sindaco sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo i pm avrebbe saputo del sistema e avrebbe deciso, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all’interno dei locali della struttura pubblica ‘La Cura’”. Sui social il topic "Bibbiano" è montato in questi giorni come una gelatina in cui avvolgere una nuova campagna d’odio dalle mille facce. Davvero una delle più scivolose degli ultimi tempi. Passando anche dalle parole del vicepremier, che il 18 luglio in diretta Facebook ha detto: "Col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd". Centinaia di post, articoli e meme (alcuni raffiguranti personaggi come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Fabio Volo o Laura Boldrini con la mano sulla bocca, rei di aver censurato il tema) hanno nel corso dei giorni mescolato il fatto a mille altri cavalli di battaglia del sovranismo e populismo digitale, transitando da siti come VoxNews.it, dalle galassie social sovraniste – come l’intervento del consigliere di Ostia di CasaPound, Luca Marsella - fino a eventi reali. Come quello di ieri organizzato da Fratelli d’Italia con ospite Alessandro Meluzzi che in un video rilanciato da Giorgia Meloni (fra gli account più attivi per l’hashtag #Bibbiano insieme a quello di Francesca Totolo, collaboratrice del Primato nazionale, il sito di CasaPound, e di @adrywebber) spiega che “il caso di #Bibbiano è solo la punta dell'iceberg”. Dalla teoria gender alla “campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale”, come si legge in altri post, tutto – secondo l’intossicazione in corso – è coperto dal Pd che avrebbe lanciato il diversivo del Russiagate “divulgato provvidenzialmente dopo #Bibbiano, lo scandalo del #Csm e quello della sanità in Umbria” come scrive Totolo in una battaglia che nella mattinata di venerdì l’ha contrapposta all’eurodeputato Pd Carlo Calenda, che è ripetutamente intervenuto per tentare di contrastare la campagna d’odio e disinformazione. Perché Bibbiano è diventato ormai il ritornello con cui un ristretto ma agguerrito gruppo di account risponde a qualsiasi post o contenuto, specialmente se pubblicato da esponenti Pd o giornalisti. La “world cloud” delle parole più usate in quei contenuti e in quelle risposte è composta da “bambini”, “scandalo”, “caso”, “fatti”, “famiglie”, “attenzione” e poi “minori”, “inchiesta”. C'è chi si è spinto oltre: Andrea Romano, deputato del Partito democratico, ha segnalato alla polizia di aver subito minacce di morte su Twitter dall'utente @VincenzoMoret17 per la vicenda del presunto screzio con la deputata dei 5 Stelle Francesca Businarolo. La vicenda è slegata da quella di Bibbiano, ma l'utente ha twittato le sue minacce usando l'hashtag #Bibbiano. Gli hashtag che raccolgono le diverse articolazioni della campagna sono #Bibbiano e #BibbianoPD. Anche se a scavare bene, il primo a muovere le truppe dell’odio è stato uno ben più pesante: #PDofili, decollato dal 27/28 giugno, per esempio col tweet di @alberto_rodolfi in risposta a Matteo Orfini o di @ValeMameli. Il più condiviso è stato quello di @PiovonoRoseNoir, il cui si dice che “da oggi non sono più #PDioti ma #Pdofili. Hanno fatto il salto di qualità le merde”. A firmare i contenuti, a conferma di squadriglie piccole ma agguerrite, sono stati 2.600 utenti per 6.200 post fra tweet e retweet. Ma solo poco più di 400 utenti hanno postato un contenuto originale. Nonostante si sia ormai spento da giorni, anche per i timori di querela traslocando #BibbianoPD, è ancora ricco di orrori di ogni genere. Ne escono collage fotografici con i personaggi citati sopra, e altri come Lucia Annunziata, la senatrice Monica Cirinnà o la nostra giornalista Federica Angeli, e la frase “Tutti muti su Bibbiano”. Contenuti fuori da ogni senso e contesto come vecchi spezzoni di video in cui Matteo Renzi elogiava il sistema degli asili nido di Reggio Emilia o di un bambino disperato perché separato dal padre ma, come ha svelato Open, attribuibile a un’altra situazione in Sardegna di due anni fa. E ancora, orribili vignette con protagonisti bambini sottoposti a sevizie elettriche, ritornelli contro il “silenzio dei media”, che in realtà stanno coprendo approfonditamente il caso, e sul “sistema che ruba i bambini”. Non basta. Negli ultimi giorni sembra essersi saldato anche un ponte digitale con le vicende che negli Stati Uniti hanno portato in carcere il miliardario Jeffrey Epstein, ex amico di Bill Clinton, del principe Andrea, duca di York, ma anche di Donald Trump, accusato di sfruttamento sessuale dei minori fra 2002 e 2005 e che ora rischia fino a 45 anni di carcere. Alcuni tweet (basta scorrere quelli dell’utente @DPQ87968970) tentano di trapiantare quella vicenda, innestandola sul tessuto dell’inchiesta italiana di Bibbiano e simili, con un obiettivo: avvalorare la folle tesi di un sistema internazionale, una specie di Spectre per cui la pedofilia è uno strumento per tenere sotto controllo politici e le mosse dei governi. L’hashtag è, non a caso, #PedoGate e raccoglie fra l’altro riferimenti ai più diversi casi di cronaca del passato, anche italiano, che ovviamente non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro. Ricapitolando, gli hashtag più utilizzati su Twitter – che è il canale principale su cui si sta squadernando l’operazione – sono #bibbiano, #bibbianopoli (che sta decollando proprio in queste ore, quasi in contrapposizione a Moscopoli), #bibbianopd (su cui tuttavia poco meno 300 profili nell’ultima settimana hanno pubblicato post originali, il più popolare è l’elogio degli asili nido di Renzi, nel 2012, il secondo più diffuso è del deputato 5 Stelle Massimo Baroni che rilancia il meme con Saviano e gli altri accomunati dalla scritta “Bibbiano”), #bibbianonews, in ordine decrescente di utilizzo. In una decina di giorni, tutti i contenuti sul tema, sempre rimanendo al social dell’uccellino, sono circa 78mila. Non c’è nulla di casuale: il numero relativamente basso delle utenze più attive coinvolte e il loro schema d’azione – quasi sempre risposte a post del Pd e di altri – racconta dell’ennesima operazione coordinata. Sono infine dati e tendenze che dimostrano la reale capacità di influenzare e raggiungere altri utenti perché non includono gli utenti o i contenuti” nascosti” da Twitter in quanto offensivi o dannosi secondo gli ultimi aggiornamenti delle regole della piattaforma.
Quelle bufale crudeli sulla pelle dei bambini. Angela Azzaro il 20 luglio 2019 su Il Dubbio. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini. Nei giorni scorsi sui social girava un messaggio che accusava l’informazione di aver oscurato il caso di Bibbiano. Era un post molto sentito, molto emotivo. E diceva una marea di fesserie. In primo luogo l’accusa rivolta a giornali e tv. Se c’è infatti un caso che ha avuto una risonanza immediata, e fuori luogo, è stato proprio quello dell’inchiesta sull’affido di alcuni minori. Il commento, condiviso da migliaia di persone, faceva riferimento a centinaia di bambini strappati ingiustamente alle loro famiglie. L’inchiesta di Bibbiano, chiamata dalla procura “Angeli e demoni” a uso e consumo del processo mediatico, in realtà riguarda solo 6 casi. Ma l’opinione pubblica, abilmente strumentalizzata, ha già deciso che le persone coinvolte nell’inchiesta a vario titolo siano mostri, persone orribili che andrebbero più che processate mandate alla ghigliottina. La stessa sorte che è toccata al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti: coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di abuso di ufficio e falso in atto pubblico è invece diventato, anche grazie alle dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, il simbolo di un sistema corrotto con cui invece non c’entra nulla anche per la procura. Bene ha fatto il Pd di Zingaretti a querelare per diffamazione il vicepremier dei 5 Stelle. Ma forse anche il Partito democratico avrebbe dovuto non solo rifiutare qualsiasi accostamento tra l’inchiesta e il proprio simbolo, ma dire che un’inchiesta non è una condanna e che soprattutto su temi così delicati bisognerebbe essere molto, ma molto cauti. Così non è stato. La conferenza stampa organizzata dalla procura di Reggio Emilia è diventata subito spettacolo, titoli sparati a tutta pagina. Si voleva l’orrore, il sangue, e si è fatto di tutto per costruirlo. Emblematici i titoli sul cosiddetto elettrochoc, in realtà un macchinario – riconosciuto dalla comunità scientifica – che non infligge scosse al paziente, ma emette suoni e vibrazioni che servono a stimolare i ricordi. Bastava leggere le carte. Ma in pochi anche nelle redazioni lo hanno fatto. Per chi ha avuto la pazienza di visionare le 270 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare la decisione del riesame di scarcerare Claudio Foti non è una sorpresa. Ma paradossalmente i giudici si basano sui fatti. Il processo mediatico no. E sarà difficile far cambiare idea a un’opinione pubblica sempre alla ricerca di qualcuno da linciare. Non si sa nulla o si sa male, ma ci si sente in dovere di aizzare la folla. Lo ha fatto anche Laura Pausini: «Mi sento incazzata e impotente», ha scritto chiedendo ai suoi fan di prendere posizione. Una volta che si è creato il mostro è difficile rinunciarci.
Commento di Andrea Battoccolo: Allora spiegatemi una cosa: parlate di risonanza immediata: appena venuta fuori la notizia ho visto i TG che ne anno parlato per circa 2 giorni, poi personalmente non ho più visto niente, se no qualche piccolo riassunto sulle notizie precedenti. Che si tratta solo di 6 casi lo sento ora da voi, e personalmente non ci credo,dico personalmente perché più che un idea personale non posso farmi visto che i media tradizionali non ne parlano e le notizie che si trovano in rete vanno prese con le pinze giustamente. Allora perché non la fate voi informazione,no voi state zitti per 2 settimane, poi ve ne uscite accusando di infamia chi accusa i responsabili di questo schifo, tanto non imparerete mai, ma la storia del forteto la gente se la ricorda, parlate di andare cauti, io parlo di giustizia e TRASPARENZA. Se volete essere credibili la prostima volta non state in silenzio per 2 settimane perché così mi sembrate più insabbiaturi che giornalisti. Buonasera merde! No, giusto per dire...Era il 2013 su canale 5 quando Morcovallo già denunciava che era un sistema e non un un caso isolato, io non so se sarebbero indagati solo su 6 casi ( mi pare strano visto il giro di soldi che porta)mi interessa sapere in quanti altri posti succede Sto schifo, mi interessa sapere perché nel 2013 non è esplosa una bomba di fronte tali affermazioni e in fine mi interessa sapere quanta codardia e servilismo servono per starsene zitti 2 settimane( parlo in generale perché è il secondo articolo che vedo a difesa degli indagati dopo 2 settimane di puro silenzio) e uscirvene difendendoli, siete fantastici. VOI e chi vi sostiene NON CONOSCETE VERGOGNA E RISPETTO PER LE VITTI “Allora Bibbiano?” è il nuovo tormentone della “guerriglia culturale” di Vox&Co.
Bibbiano, insulti "rossi" su Nek "Tue canzoni come Hiroshima". Bottura su Repubblica punta il dito contro Nek che ha chiesto verità su Bibbiano. Il cantante "massacrato" per le sue canzoni. Angelo Scarano, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. Nek ha chiesto la verità sul caso Bibbiano e per questo motivo è finito nel mirino della stampa di sinistra. Non si spiega altrimenti l'attacco di Repubblica, a firma Luca Bottura, contro il cantante che qualche giorno fa si è esposto sui social proprio sul caso che riguarda i bimbi tolti alle loro famiglie per essere affidati ad altre coppie. Non si tratta di una voce isolata. Anche Laura Pausini ha chiesto la verità su quanto accaduto. Ma a sinistra hanno già messo per bene nel mirino Nek. Le sue parole sono state fin troppo chiare, parole di un padre: "Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia!!". Nessuna polemica, solo la richiesta di dare voce a questa vicenda sui cui è in corso un inchiesta. A quanto pare però l'appello di Nek che è stato condiviso da tutti suoi fan e non solo, non è stato digerito a sinistra. Ed ecco qui che arriva il livore. Nel suo pezzo Botturaparla con questi toni di Nek: "Filippo Neviani, in arte Nek esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l'umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo". Un vero e proprio assalto al cantante che viene colpito con un giudizio (molto) discutibile sulla sua carriera e sul suo stile musicale. A prendere le difese di Nek è stato Salvini che su Facebook ha commentato così le parole di Bottura: "Non avevamo dubbi che una certa sinistra avrebbe subito messo Nek tra i “cattivi” per aver denunciato gli orrori di Bibbiano, nonostante lui con la politica non c’entri nulla e si sia permesso di fare solo un ragionamento da papà. Non si smentiscono mai". Insomma la colpa di Nek è forse quella di aver alzato il velo su una storia, come quella di Bibbiano, che merita luce e verità in tempi rapidi? A quanto pare porsi alcune domande può essere pericoloso. Sulla strada si può incontrare anche chi paragona una tua canzone ad una tragedia come quella di Hiroshima...
Bibbiano, Nek e Pausini veri megafoni del popolo. Paolo Giordano, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Il pop torna a smuovere la politica, a infiammare l'opinione pubblica, a dividere le opinioni. Finita senza rimpianti l'epoca dei cantanti ideologici (quelli che poi si trovavano al Festival de l'Unità, per intenderci) adesso ci sono artisti che rilanciano casi di cronaca e lo fanno a prescindere dal partito di appartenenza. Laura Pausini e Nek, per esempio, o Mietta subito dopo. Per venti giorni le indagini sul presunto giro illecito di affidi di bambini a Bibbiano (16 misure cautelari e 29 indagati) avevano volato basso nell'informazione, scatenando più che altro qualche baruffa social, ma niente più. E dello psicoterapeuta Claudio Foti o del sindaco Andrea Carletti parlavano soltanto i vicini di casa e gli avvocati, anche se il primo cittadino Pd è ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. La cronaca è così ingolfata da pinzellacchere e bagattelle, da casi di penoso glamour o ridicola politicanza da perdere per strada talvolta le questioni di reale importanza. Come questa. Ci hanno pensato per primi due artisti che con la politica non hanno mai avuto a che fare ma che stavolta sono «scesi in campo» muovendo le opinioni dei loro fan, che sui social sono milioni. «Non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati?», ha scritto per prima Laura Pausini alla propria maniera verace e sincera: «Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati». Prima botta da migliaia di like. Poi è arrivato Nek, un altro che non si è mai schierato con la politica ma solo con il buon senso: «Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell'agghiacciante vicenda di Bibbiano». Missione raggiunta. Non soltanto Salvini e Di Maio hanno parlato della questione, ma pure i social hanno fatto il proprio mestiere, dividendosi tra favorevoli e contrari ma comunque dando un segnale di grande interesse. Insomma, più o meno come altri loro colleghi tanti anni fa, anche Pausini e Nek hanno dato la scintilla all'opinione pubblica, si sono schierati, hanno preso evidentemente una posizione. Rispetto agli anni '70 e '80, oggi gli artisti si spendono per questioni vere, non per vertenze ideologiche. E perciò, da genitori, Pausini e Nek hanno richiesto maggiore chiarezza sui fatti di Bibbiano. Suscitando immediata risposta ai piani alti. A conferma che gli artisti pop sono ancora autentici megafoni del sentimento popolare.
Mannoia sbotta per Bibbiano: "Volete screditare l'avversario". Fiorella Mannoia attacca Sibilia per aver condiviso l'appello per Bibbiano della Pausini. Ed è scontro sui social. Angelo Scarano, Mercoledì 24/07/2019 su Il Giornale. La vicenda di Bibbiano da qualche giorno si è intrecciata con il mondo della musica italiana. Diversi cantanti, tra questi in prima fila ci sono Nek e Laura Pausini. Tutti e due sono finiti nel mirino del web solo per aver chiesto luce e verità su una vicenda, quella dei presunti affidi illeciti, che ha parecchi lati oscuri. Proprio ieri la Pausini è intervenuta sul caso per ribadire la sua posizione e per sottolineare che non ha lanciato un appello per "sentirsi dire brava" ma per richiamare l'attenzione su quello che avrebbero passato questi bambini. Ma c'è un'altra voce che fa parecchio discutere, quella di Fiorella Mannoia. La cantante "rossa" ha avuto un battibecco con il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia proprio sui fatti di Bibbiano. La Mannoia non ha usato giri di parole e ha attaccato il grillino che ha chiesto di far luce sulla vicenda: "Lo vedete come fate? State strumentalizzando qualsiasi cosa per motivi politici. Cantanti, bambini... Ma non vi vergognate? La faccenda di Bibbiano è grave e seria. Smettetela di strumentalizzarla, i bambini e le famiglie non lo meritano. Che sia fatta luce su questo schifo al più presto". La Mannoia non ha digerito il post di Sibilia che condividendo una foto di Laura Pausini ha di fatto ringraziato chi in questi giorni ha cercato di tenere alta l'attenzione su un caso come questo. E così il grillino ha immediatamente replicato alle accuse della Mannoia: "Mi sono limitato a ringraziare chi ha scritto pensieri che condivido. Sono pubblici. Ho condiviso e ringraziato. Perché sono (momentaneamente) un politico dovrei smettere di ringraziare, retwittare, vivere? Ognuno faccia la sua parte per fare luce su questo schifo. Non dividiamoci". Ma di fatto la Mannoia non ha digerito la risposta del pentastellato ed è passata nuovamente al contrattacco contestando la posizione del sottosegretario e mettendo in discussione il suo appello: "State attaccando il cappello su questa storia triste approfittando per screditare l’avversario, fatelo su tutto, ma non sui bambini. Se veramente vogliamo stare uniti smettiamola di farne un caso politico. È un triste caso umano sul quale si deve fare luce". Insomma sul caso pian piano si sta sviluppando una polemica feroce che riguarda sia il mondo della politica che quello dello spettacolo. E probabilmente lo scontro non finirà in tempi brevi. L'indagine in corso prosegue e a quanto pare il caso Bibbiano resta un nervo scoperto per il Pd che ha protestato duramente per la visita di Salvini nel centro dell'Emilia-Romagna finito sotto i riflettori.
SU BIBBIANO È VIETATO ESPRIMERSI. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 24 luglio 2019. Grazie all'odiosa vicenda di Bibbiano gli italiani hanno finalmente la possibilità di comprendere come funzioni la cultura progressista. Una regola imposta da tale cultura è la seguente: gli artisti che si interessano a temi sociali vanno benissimo, ma solo se i temi sociali sono quelli graditi alla sinistra. In caso contrario, gli artisti in questione meritano dileggio, insulti e attacchi feroci. A questo proposito ci sono tre casi emblematici che meritano di essere approfonditi. Partiamo da quello di Laura Pausini, la prima a esporsi con enorme coraggio sulla Val d' Enza. La cantante, con un post su Facebook, ha richiamato l' attenzione su quanto sta accadendo a Bibbiano e dintorni, e ha notato che la gran parte dei media sta cercando di insabbiare tutto. Come prevedibile, con quell' intervento la Pausini si è attirata un fiume di critiche. Così ha deciso di tornare sul tema: «Questo messaggio è per i bambini. Non lo faccio né per farmi insultare né per farmi dire brava. Qui c' è solo da fare qualcosa subito e da far sapere a tutti coloro che perdono tempo a scrivere cazzate, che c' è una notizia gravissima con cui dobbiamo fare i conti», ha scritto. E ha aggiunto: «Ecco chi ha bisogno di sfogarsi, stavolta utilmente, tiri fuori la voce per parlare di questo scandalo». La Pausini, purtroppo, non è stata l' unica a finire alla gogna per aver parlato di Bibbiano. La stessa sorte è toccata anche a Nek. Pure lui ha deciso di esporsi pubblicamente con un messaggio accorato: «Sono un uomo e sono un papà», ha scritto. «È inconcepibile che non si parli dell' agghiacciante vicenda di Bibbiano. Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre... E non se ne parla. Ci vuole giustizia!!». Tanto è bastato per attirargli l' astio del progressista medio internettiano. Come se non bastasse, contro Nek si è scatenata pure Repubblica, tramite la penna di Luca Bottura, uno che, dopo decenni di carriera, continua a confondere la satira con la spocchia. Con la consueta sicumera, Bottura ha rivolto a Nek un corsivo feroce: «Filippo Neviani, in arte Nek, esordì a Sanremo con una canzone antiabortista che risulta tutt'ora nella lista dei crimini contro l' umanità, dopo Nagasaki e Hiroshima ma comunque prima del gelato gusto Puffo». Mascherata dietro un' ironia degna delle peggiori scuole medie, c' è l' accusa infamante: Nek ha commesso un crimine contro l' umanità perché ha scritto una canzone a favore della vita, dunque merita di essere sbertucciato e insultato. Già: i temi pro life, le battaglie su Bibbiano o sul gender sono ridicole. Non meritano altro che sberleffi e sputi. Esattamente come quelli che sono piovuti addosso a Ornella Vanoni, celebratissima icona della musica italiana. Di solito, quando la si cita, ci si leva il cappello. A meno che, ovviamente, non si occupi di temi sgraditi all' intellettuale unico progressista. La Vanoni ha scritto quanto segue: «È mostruoso ciò che è accaduto a Bibbiano. Questi bambini hanno perso l'infanzia, come tanti ormai nel mondo, e sono rovinati per sempre. Non sono pupazzi che si possono spostare da una famiglia all'altra. Queste persone dovrebbero andare in galera senza processo». In men che non si dica sulla cantante hanno cominciato a piovere pietre, sotto forma di offese via Web. C' è chi l' ha accusata di non essersi siliconata il cervello, chi la descrive come una vecchia rimbambita e altre amenità dello stesso tenore. Persino alcuni quotidiani online si sono accodati, accusandola di aver utilizzato toni troppo duri e di aver invitato a condannare gente senza prima averla processata.
Tre casi diversi, stesso trattamento. Morale: se un artista si impegna in una causa politicamente scorretta, gli tocca il linciaggio. In realtà, nelle parole della Vanoni, della Pausini e di Nek non c' è alcun riferimento politico. C' è solo il caro, vecchio e troppo spesso dimenticato buon senso. C' è la rabbia del genitore (o del figlio, del fratello, del semplice osservatore) davanti a uno scandalo che grida vendetta e di cui nessuno si è interessato se non per difendere i presunti colpevoli. Ma nemmeno una normalissima manifestazione di umanità viene tollerata: su Bibbiano è vietato esprimersi. A meno che non lo si faccia per difendere il Pd.
Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano E finisce nel mirino degli haters. Dopo Laura Pausini, Nek e Ornella Vanoni, ora anche Rita Dalla Chiesa parla di Bibbiano. Ed è subito polemica. Costanza Tosi, Giovedì 25/07/2019, su Il Giornale. Laura Pausini, Nek, Ornella Vanoni e ora, anche Rita Dalla Chiesa. La giornalista dice la sua sul caso Bibbiano e, anche per lei, è pioggia di insulti sui social. Ad innescare la polemica è stato un tweet del giornalista di Rai3 Massimo Bernardini che attacca il ministro degli interni, Matteo Salvini, sul caso degli affidi illeciti emerso dall’inchiesta della Procura di Reggio Emilia. “Prima le Ong adesso le famiglie affidatarie e i servizi sociali: l’offensiva di Matteo Salvini contro i corpi intermedi che fanno sussidiarietà è grave e senza precedenti. Nella furia della polemica politica sta demolendo la credibilità di interi pezzi di società.” Scrive Bernardini, che esorta la replica del vicepremier: “Urge risposta”. A schierarsi dalla parte di chi tiene accesi i riflettori sullo scandalo di “Angeli e Demoni” è invece la conduttrice Rita Dalla Chiesa. Che commenta: “Perché pensi che sia solo una battaglia politica? Allora anche il vostro silenzio lo è… Qui si parla di bambini, ci sono le prove, ci sono famiglie distrutte, sappiamo tutti che non sempre gli assistenti sociali si comportano in modo eticamente corretto. Riflettiamoci.” Ma come era già successo nei giorni scorsi con i big della musica, attaccati a suon di insulti dal popolo dei social, anche per la giornalista non mancano le critiche: “Da quando sei diventata leghista? Pensavo che fossi una persona affidabile”, commentano i followers. Mentre il leader della Lega prende le sue parti, esprimendo solidarietà a Rita Dalla Chiesa tramite una foto postata sul suo profilo instagram: “Solidarietà a Rita Dalla Chiesa, riempita di insulti in rete perchè ha osato rompere il muro di omertà su Bibbiano". La prima a parlare di Reggio Emilia, finendo nella bufera tra i commenti degli haters, era stata Laura Pausini. E, nonostante le polemiche, scaturite per il suo appello a tenere alta l’attenzione sulla vicenda, la cantante continua a difendere la sua battaglia tramite Facebook: “Ho chiesto di non strumentalizzare le mie parole NON sono un messaggio politico. Come NON lo erano quelle dedicate ai bambini morti nei barconi. Sto dalla parte dei bambini. Sempre.” Il caso Bibbiano continua a dividere e a fare polemica. Mentre le famiglie e i bambini restano in attesa di avere giustizia.
Alessandro Borghese chiede verità e giustizia per i bambini di Bibbiano. Lo chef più amato della tv lancia una petizione sui social per chiedere una Commissione di Inchiesta sugli affidi illeciti nel comune emiliano. Alessandro Zoppo, Mercoledì 31/07/2019, su Il Giornale. Alessandro Borghese si è aggiunto alla schiera di volti noti del mondo dello spettacolo che hanno voluto esprimersi sul caso Bibbiano, l’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori nel comune in provincia di Reggio Emilia che è diventata un caso politico nazionale. Lo chef più amato della tv ha usato i social per sostenere la petizione #MaiPiùBibbiano, che chiede una seria riforma degli affidi dei minori in Italia. “Never again!”, il messaggio di Borghese, affidato ad una foto che racconta lo choc provocato dal venire a conoscenza della storia dei bambini di Bibbiano. La petizione, lanciata dal Moige (il Movimento Italiano Genitori) sul sito ufficiale della onlus, chiede l’attivazione di una Commissione di Inchiesta che faccia luce sulle responsabilità dirette e indirette e sulle eventuali complicità degli amministratori locali.
Alessandro Borghese appoggia il Moige sul caso Bibbiano. Il Moige chiede inoltre al Parlamento italiano una modifica sostanziale al “sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con i suoi genitori e rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore”. “Il rapporto mamma-figlio-papà – si legge nel documento presentato dal Moige – va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore e per questo chiediamo a gran voce al Parlamento italiano una riforma delle norme che regolano gli affidi dei minori, prevedendo, modalità chiare e stringenti unite a severe verifiche delle professionalità e dei potenziali conflitti di interesse”. Boghese è soltanto l’ultimo tra i tanti attori, cantanti e personaggi tv che si sono espressi, prendendo una posizione netta su un caso che presenta diversi lati oscuri. Prima del noto chef star del piccolo schermo, erano stati Nek, Rita Dalla Chiesa, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni e Laura Pausini ad affrontare la vicenda, scatenando spesso e volentieri violenti scontri verbali e insulti a pioggia sui social.
L'ipocrisia progressista su Bibbiano. Karen Rubin, Sabato 27/07/2019, su Il Giornale. «Non venire sarebbe stato molto peggio perché è necessario che le istituzioni siano presenti». Si espresse così Laura Boldrini in visita a Fermo quando Amedeo Mancini fu arrestato per l'omicidio di Emmanuel Namdi. Al funerale c'erano la Boldrini, Sassoli, la Kyenge e per il governo Renzi presiedeva Maria Elena Boschi. Al cospetto della Rackete su una nave Ong, di fronte alle telecamere c'erano Orfini, Delrio e Fratoianni. Una passarella antirazzista funzionale al proprio elettorato dal momento che nessuno di loro era presente né quando a Palagonia fu sterminata una coppia di italiani da un ivoriano né quando furono assassinate Pamela Mastropietro da un nigeriano e Desiree Mariottini da tre nordafricani. Se invece Salvini va in visita a Bibbiano non si tratta più della presenza dello Stato ma della strumentalizzazione di un caso di cronaca su cui esigere silenzio. Un atteggiamento da due pesi e due misure. Dall'inchiesta su Bibbiano emerge un abuso di potere che impressiona come un traffico di organi ma siccome il sistema welfare utilizzato nel reggiano era quello sostenuto dalla sinistra si cerca di stendere un velo pietoso su agiti che hanno provocato indicibili sofferenze a molte famiglie. Sui bambini dei comuni della Val d'Enza è stata usata una stimolazione elettronica che non è l'elettroshock ma non è neanche una terapia standardizzata e considerata la più sicura allo stato dell'arte. Queste stimolazioni sono associate ad una tecnica psicoterapica, l'Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), che si prefigge lo scopo della rielaborazione di vissuti traumatici attraverso la stimolazione del cervello. In Italia è una tecnica usata da poco e sulle stimolazioni elettroniche si conosce poco o niente. Fatto è che si sono presi dei bambini che avrebbero subito un abuso, li hanno stimolati affinché rievocassero un abuso ipotizzato. Tutto questo senza il consenso dei genitori, messo in atto da una Onlus, la Hansel e Gretel. Una bambina sottratta alla sua famiglia è stata data in affidamento ad una coppia di lesbiche da una dirigente dei servizi sociali, attivista Lgbt, che con una delle donne era stata legata sentimentalmente: forse non è un conflitto di interesse ma fa pensare ad una sorta di risarcimento. La sinistra invece di invocare il silenzio di Salvini dovrebbe dare una risposta sul perché il comune gestito da un loro sindaco abbia assegnato ad una attivista Lgbt i servizi sociali e la tutela di minori che dovrebbero essere protetti da tutte le ideologie.
Bambini picchiati: nuove accuse all'"eroe della Repubblica" Germana Giacomelli. Le Iene 31 marzo 2019. Dopo il primo servizio dedicato alla super mamma d'Italia, premiata dal presidente Mattarella come "eroe della Repubblica", Pablo Trincia ha raccolto nuove testimonianze di ragazzi che raccontano di aver subito o visto maltrattamenti da parte di mamma Germana nella sua casa famiglia. Nuove testimonianze di ragazzi cresciuti nella casa famiglia di Germana Giacomelli, la donna che alcuni giorni fa è stata premiata dal presidente Mattarella con una delle più alte onorificenze riservate a chi è impegnato nel sociale. Dopo il primo servizio di Pablo Trincia, in cui abbiamo parlato con alcuni dei 121 figli che sono stati affidati nel corso degli anni alla casa famiglia di Germana e che ci hanno raccontato di maltrattamenti che avrebbero subito in quella casa per mano della donna, ci sono arrivate molte segnalazioni. Il numero di chi dice di aver subito o visto maltrattamenti all’interno di quella casa è passato da otto a trenta. “Quando ho visto il vostro servizio ho detto ‘cazzo io lo so chi è’. Mi è preso il panico. Quella donna è cattiva”, ha detto una ragazza a Pablo Trincia. “Se sbagliavamo a pulire ci maltrattava, ci picchiava, spintonava, ci dava le botte in testa”. Con una psicologa siamo andati a parlare con una bambina che sta ancora in quella struttura e che è tornata a casa per qualche giorno. “Adesso non mi picchiano più, perché tempo fa mi picchiavano”, dice la bambina. Quando le chiediamo da quanto tempo la trattano bene risponde “un mese”. Proprio da quando abbiamo iniziato a seguire questa storia. Ma non sarebbe stato sempre così. “Una volta la Germana mi ha dato uno schiaffo nel naso mi ha fatto uscire il sangue. Anche agli altri dava le sberle”. E poi aggiunge, in riferimento all’educatore che lavora insieme alla donna: “Pietro mi ha detto "se qualcuno ti chiede se la Germana ti picchia tu non rispondere"”.
"Le Iene" e il presunto "business" dei minori. Claudio Figini, Coordinatore della Cooperativa Sociale COMIN e pedagogista, il 4 giugno 2014 su Il Fatto Quotidiano. Oggi vorrei stigmatizzare certi pregiudizi alimentati da servizi televisivi discutibili e aggressivi che sfruttano l’imbarazzo dell’interlocutore non avvezzo alle telecamere per disinnescargli sul nascere spiegazioni e giustificazioni. Già, perché a volte non basta avere la coscienza pulita per essere abili affabulatori. È un tipo di televisione che ricorda quella pubblicità coi tipi a cui piace vincere facile. Ce l’ho col servizio de “Le Iene” intitolato “Come funziona il business dei bambini” trasmesso il 21 maggio. Criticare “Le Iene” è impopolare: godono fama d’integerrimi fustigatori d’imbroglioni e malandrini che non guardano in faccia a nessuno e probabilmente è così. Però ricorrono spesso a quella bassezza del mettere a disagio e utilizzano sovente fattori scandalistici e a effetto per aggiudicarsi il tifo degli spettatori.
Io chiedo: ma sapete qual è il percorso che porta un minore in comunità? Pensate che si tratti così spesso di abusi di potere da parte di assistenti sociali e giudici in malafede? E siete certi che sia poi ‘sto gran business?
Nel dubbio, prima di dare cifre e giudizi alla carlona, fate un giro nelle nostre comunità. Se maneggiate le cifre, allora provate a leggerle, altrimenti sono solo numeri da enfatizzare. Se per voi una retta tra i 70 e i 90 euro giornalieri è un magna-magna, il giro nelle comunità fatelo lungo, così vedrete bollette da pagare, cibo, vestiti e libri da comprare, il dentista da onorare. C’è tutto ciò che occorre alla gestione dignitosa di una casa e a far sentire un minore a proprio agio. Ci sono operatori da stipendiare (e sai che stipendi!), automezzi da mantenere e corsi e sport e vacanze estive. Un gelatino, se non è troppo. Ci sono le strutture indispensabili per il buon funzionamento delle comunità, perché quel che ci viene chiesto è un servizio efficace e decoroso. Esistono standard da rispettare e organismi di vigilanza che li esigono e garantiscono. Insomma, le comunità non sono espedienti per spillare denaro pubblico. Conosciamo bene le situazioni dei ragazzi che accogliamo così come i nostri sforzi per farci carico efficacemente della loro situazione. Ogni anno la cooperativa che io coordino ospita un quarantina di minori in cinque comunità e le rette son quelle. Nessuno di noi si arricchisce. Rispondiamo solo a un bisogno sociale concreto e forniamo servizi economicamente sostenibili, quindi ci tocca pensare anche a quel lato lì, il che non fa però di noi dei faccendieri. Che poi, ben venga il giorno in cui le comunità non serviranno più! Noi per primi spingiamo per soluzioni alternative ad esempio ci piace l’affido, che troviamo ideale per tanti minori e che ai Comuni costerebbe assai meno. I nostri bilanci sono pubblici e basta scorrerli per intuire che senza donazioni da privati e supporto di volontari non potremmo garantire servizi di qualità senza andare in rosso. Sì, ci tocca maneggiare denaro e ne faremmo a meno, senza dubbio. Così come non c’è dubbio che ci muoviamo in ambiti di forte emotività individuale e collettiva. Le immagini di bambini allontanati dalle madri, spesso usate in modo strumentale per canalizzare un istintivo sdegno, hanno comunque del vero. Trovatelo, un bambino entusiasta di entrare in comunità, pur provenendo da una situazione molto critica! Diverso però è dipingerci come macchine da soldi che ci lucrano sopra. E intendiamoci: non dico mica che le comunità funzionino tutte in modo impeccabile e che non ci siano situazioni al di sopra di ogni sospetto. Possiamo avere umana comprensione per quei genitori che si rivolgono ai media per denunciare supposti torti subiti, offrendo punti di vista emotivi ma parziali. Sappiamo che errori di giudizio possono essere commessi da chi è tenuto a giudicare. Però esistono la responsabilità della tutela e il dovere istituzionale d’intervenire di fronte a maltrattamenti e abusi. Sono provvedimenti che hanno spesso un che di drastico e brusco, ma sono doverosi e responsabili. E comunque, da noi non caverete mai una parola di puntualizzazione sulla situazione specifica di un nostro ragazzo. Le comunità sono una risorsa, non una iattura. Quindi ripeto: venite a vederle; entrate senza urlare; armatevi di pazienza e domandate, osservate, sforzatevi di cogliere cosa c’è dietro e oltre. Eviterete di fabbricare fuorvianti stereotipi. Chiudendo, esprimo la mia personale solidarietà alla Cooperativa Sociale di Trento (e alla vice-direttrice e giudice onorario del Tribunale per i Minorenni, ingiustamente attaccata) e lo faccio rilanciando il comunicato stampa del Coordinamento Nazionale Comunità d’Accoglienza diffuso il 22 maggio.
PERDE I FIGLI AFFIDATI ALL’AMICA, A LE IENE LA STORIA DI MADELAINE. Morgan K. Barraco il 28 Novembre 2017 su Tuttotv.net. Le Iene hanno raccontato la storia di Madeleine nella puntata di martedì, 28 novembre 2017. Una storia straziante che inizia in Africa, da dove la famiglia della donna e di Balla sono partiti per raggiungere l’Italia. Qui conoscono Simona, con cui stringono una forte amicizia e che spesso aiuta Madelaine ad accudirli. Una potente alluvione costringe però la coppia a ritornare in Paese per sistemare tutto e convinti dalle parole di Simona, decide di lasciarli in custodia sicuri che sarebbero stati con una persona fidata. Madelaine ed il marito Balla non avrebbero mai immaginato che nel giro di poco tempo avrebbero perso i bambini. Balla viene infatti avvisato dal figlio maggiore che la situazione è molto diversa da quella che crede e che i ragazzini sono stati affidati in una casa famiglia. L’uomo ha contattato Simona per capire che cosa fosse successo, ma la donna mente e gli dice che i ragazzini sono andati a fare una vacanza a sue spese. Solo in quel momento rivela la verità e la donna afferma che i servizi sociali sono stati chiamati su segnalazione della scuola. Madelaine quindi contatta l’istituto, come mostrano Le Iene, ma scoprono che ancora una volta Simona ha mentito. E’ stata infatti lei a chiedere l’intervento delle autorità e si è anche impegnata a trovare loro una Casa Famiglia. Solo messa alle strette Simona ammette di aver agito per interesse dei bambini, convinta che non fossero sereni insieme ai genitori. Le Iene però hanno intervistato tutte le persone che in tanti anni hanno conosciuto Madelaine ed affermano tutti che si trattava di una famiglia per bene. Delle foto dimostrano tra l’altro che i bambini avevano tutto, dai vestiti sempre puliti fino alle feste di compleanno con gli amici. Madelaine ora non può più riavere i figli e Simona rifiuta di rispondere alle domande de Le Iene sulle sue molteplici menzogne. Sottolinea invece di aver fatto il bene della madre e dei bambini, chiedendo addirittura l’intervento dei Carabinieri e continuando a ripetere che è il Tribunale dei Minori a dover decidere sul destino dei bambini di Madelaine. Clicca qui per vedere il servizio di Ruggeri de Le Iene sulla storia di Madelaine.
“Ho perso i miei figli per una bugia”. Le Iene 02 aprile 2018. Annamaria Notario da quattro anni, tra bugie e calunnie contro di lei, aspetta di riabbracciare i figli. “Sto mettendo tutto l’impegno che posso per riportare i miei figli a casa. Voglio che finisca questo incubo”. Sono le parole di una mamma, Annamaria Notario, a cui gli assistenti sociali, quattro anni fa, hanno portato via i tre figli. Bugie, false accuse e indagini superficiali hanno fatto sì che una mamma che, come ripete Annamaria, “non ha fatto niente”, perda i suoi figli. Tutto inizia quattro anni fa, quando Annamaria viene chiamata dai carabinieri, che le dicono di portare con sé i bambini. “Mi sono fidata, mi avevano detto che dovevano solo parlarmi”. In caserma trova gli assistenti sociali e un'ordinanza del Giudice di Torino, con la quale le venivano tolti i figli. I bambini vengono chiusi in una stanza, e da quel momento non potranno più stare con la madre. “Io non li ho più potuti abbracciare, baciare, non li ho più visti. Non ho neanche potuto spiegargli il motivo, il perché, cosa ci stava succedendo. E li ho rivisti dopo 28 giorni”. Cosa ha provato quando ha capito cosa stava succedendo? “Mi è caduto il mondo addosso. È stato bruttissimo”. Gli assistenti sociali, per cui, come spiega l’avvocato di Annamaria, Edoardo Carmagnola, ora la giudice Elena Stoppini ha rinviato gli atti al pm affinché siano indagati, si sarebbero basati solo sulle parole del papà dei bambini e di Giulia Baro, la sua nuova compagna. Indagati anche alcuni carabinieri che avrebbero aiutato la Baro entrando nel database dell'Arma. Il padre dei bambini, ci racconta l’avvocato, accusava la Notario di non fargli mai vedere i figli. “Non è assolutamente vero”, ribatte Annamaria, “li ho sempre lasciati andare dal padre”. Poi arriva la denuncia di Giulia Baro per stalking: “Si sono basati solo sulle sue parole. Non mi hanno mai creduto. Non hanno nemmeno guardato le prove”, ci racconta Annamaria. Inizia così un processo lungo e lentissimo, che dura quattro anni. Fino a quando, qualche giorno fa, Giulia Baro viene condannata a due anni e sei mesi per calunnia dal Tribunale di Ivrea. Ad incastrare la donna, oltre alle continue prove che, ci spiega l’avvocato Carmagnola, Annamaria ha portato per difendersi, sarebbe stata una lettera inviata dalla Baro, che si fingeva Annamaria, in cui si ricoprivano di ingiurie e offese gli assistenti sociali. Ma è proprio con questa lettera, spedita da un computer aziendale, che le indagini sono arrivate alla Baro. Quando chiediamo ad Annamaria cosa prova nei confronti della donna che le ha portato via il compagno e i figli risponde secca, perdendo il tono gentile che aveva tenuto fino a quel momento. “Un disgusto totale”, dice. “Se voleva prendersi il mio compagno se lo poteva pure prendere, ma non rovinare la vita di tre bambini”. Bambini che continuano per ora a stare con il padre e che possono vedere la madre solo una volta la settimana. “Non vivendo con loro la quotidianità non vedi i loro cambiamenti. È bruttissimo”. “Il tempo che ho perso con loro non me lo ridarà più nessuno. Ma spero che ci siano altri giorni per fare tutto quello che non abbiamo fatto in questi anni”, Annamaria s’illumina solo all’idea. E quando le parliamo della nuova consulenza tecnica dovrà affrontare sulle sue capacità genitoriali ci risponde: “Sto mettendo tutto l’impegno che posso per riportarmeli a casa. Voglio che finisca questo incubo”. A luglio Annamaria saprà se potrà riabbracciare i suoi bambini. Noi le facciamo un grosso in bocca al lupo e continueremo a seguire la sua battaglia per riabbracciare i figli.
Sabrina Saccomanni e Andrea Barlocco, all’ex corteggiatrice di Uomini e Donne e al pr i servizi sociali tolgono i figli: “La casa è troppo sporca”. Oggi il 6 marzo 2014. Secondo gli assistenti sociali il disordine eccessivo in casa è sintomo di incapacità genitoriale. Barlocco: «Sono tra l’incavolato e il disperato». Mentre il legale della coppia dice: «Non c’è una sola prova». L’ex corteggiatrice di Uomini e donne, Sabrina Saccomanni, e il pr Andrea Barlocco, i servizi sociali tolgono loro i figli: “La casa è troppo sporca”. La storia ha dell’incredibile, ma è la vicenda che sta travolgendo la vita della coppia. I loro figli di sei mesi, 21 mesi e quasi 13 anni sono stati portati via da casa circa un mese fa. A raccontare la vicenda Matteo Viviani delle Iene.
PRIMA IL CONTROLLO, POI IL VERDETTO – La coppia vive in un complesso residenziale alle porte di Milano e lì si sono presentati non solo gli assistenti sociali, ma anche i Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo un controllo hanno portato via i bambini perché la casa era sporca e in disordine: «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno scritto, infatti, i servizi sociali nella loro relazione. Ma Barlocco non intende arrendersi e davanti alla troupe delle Iene Andrea contesta tutti i punti d’accusa. Tra questi si parlerebbe di panni puzzolenti da lavare, di vestiti sporchi gettati sul pavimento della stanza dei ragazzi, di totale disordine ed escrementi di cane in un bagnetto. Sul punto Barlocco sottolinea che è usato solo dall’animale.
L’AVVOCATO: “PORTARE VIA I FIGLI DECISIONE SPROPORZIONATA” – «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da provocare un allontanamento dei tre bambini», hanno dichiarato i legali di Sabrina Saccomanni e Andrea Barlocco, che sono passati dal colpo di fulmine all’altare. Hanno anche aggiunto: “Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i carabinieri”, sottolineando che gli assistenti “avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio”. Mentre, proprio alle Iene sia l’allenatore sia prete dicono di non aver notato segnali di trascuratezza nel bimbo più grande che vedono spesso. Inoltre, la casa è grande quasi 300 metri quadrati, insomma una abitazione confortevole. E, sempre dal racconta dalle Iene, gli assistenti sociali non hanno neppure chiesto ai parenti se disposti ad accudire i figli, ma hanno preferito portarli via all’improvviso. Anzi, i nonni sentiti dalle Iene hanno poi detto: “Avremmo fatto di tutti per tenerli. E’ normale che ci fosse un po’ di disordine, tra il giocare con i bimbi e fare una lavatrice i genitori preferiscono giocare con i figli. Anche casa nostra, quando vengono a trovarci i bimbi, sembra un campo di battaglia.
BARLOCCO: “SONO TRA IL DISPERATO E L’INCAZZATO” – «Sono tra il disperato e l’incavolato», dice ora Barlocco, cercando la sua giustizia attraverso le Iene. Mentre gli assistenti sociali controbattono: «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali, quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». Per concludere: «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…». E ora sarà battaglia durissima.
Le Iene: sottratti i figli all'ex corteggiatrice di Uomini e Donne Sabrina Saccomanni. Andrea e Sabrina alle Iene raccontano la storia. La storia è stata raccontata dalle Iene nell'ultima puntata, ecco tutti i retroscena della vicenda di Sabrina e Andrea. Martina Biaggi il 07 marzo 2014 su it.blastingnews.com. Il 5 marzo è andata in onda una nuova puntata del noto programma Le Iene, tra i servizi c'è ne stato uno che riguardava una coppia di ex famosi, parliamo di Sabrina Saccomanni ex corteggiatrice del programma di Canale 5, Uomini e donne, e di Andrea Barlocco ex PR dei VIP. La storia:
Tutto ha inizio circa un mese, quando nell'appartamento della coppia che si trova in una zona residenziale di Milano, sono arrivati degli assistenti sociali accompagnati dai carabinieri e dalla polizia locale. Gli ufficiali, dopo aver effettuato un controllo della casa, decidono inaspettatamente di portare via i 3 figli dei due, rispettivamente di 6 e 21 mesi e uno di quasi 13 anni, inoltre anche la baby sitter che in quel momento era con i minori viene portata via dalle forze dell'ordine. Sabrina e Andrea durante il servizio delle Iene hanno svelato il loro disagio e la loro indignazione per quanto accaduto e che ancora sta accadendo, raccontando poi che ogni volta che vanno a trovare i figli in caserma devono fare finta di niente per non turbare i piccoli,inoltre devono comportarsi secondo certi canoni per non ricevere un verbale negativo. Secondo quanto si evince dal rapporto dei Carabinieri, la motivazioni che stanno dietro alla sottrazione dei minori sarebbero le cattive condizioni igieniche della casa e il disordine che regna in essa. In particolare si parla di "panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi o anche degli escrementi di una cane nella vasca da bagno".
L'avvocato. Secondo l'avvocato di Sabrina e Andrea, Sonia Gaiola, la situazione non giustificava un allontanamento dei bambini dalla casa, ha dichiarato inoltre che non ci sono foto comprovanti del disordine e della mancanza d'igiene, gli assistenti sociali non hanno verificato se ci fossero state segnalazioni dalla scuola, non hanno chiesto informazioni al pediatra che li aveva in cura, e soprattutto non hanno chiesto ai nonni e ai parenti più stretti se si potevano occupare loro dei minori in quel periodo. Secondo l'avvocato non si sta pensando per niente al benessere dei bambini, infatti anche i più piccoli si accorgono dell'assenza dei genitori e questo sicuramente non gli fa bene.
I servizi Sociali. Ad un incontro con gli Assistenti Sociali, l'avvocato Gaiola alla richiesta di una spiegazione sulle motivazioni dell'allontanamento dei bambini si è sentita rispondere che il motivo per il quale sono stati tolti i figli alla coppia era il dubbio nato sulle loro competenze genitoriali, venuto fuori dalla trascuratezza della casa. L'allenatore di calcio dei bambini, così come il prete che conosce bene la famiglia hanno rivelato alle telecamere delle Iene, che non hanno mai notato disagi di nessun tipo nei figli di Sabrina e Andrea, e che sicuramente non si aspettavano una cosa del genere. Se è vero che gli assistenti sociali hanno utilizzato criteri alquanto semplicistici per arrivare alla decisione di portare via tre bambini dalle braccia dei genitori, allora bisogna preoccuparsi in quanto un genitore a meno di gravi maltrattamenti e situazioni particolari che vanno approfondite, non dovrebbe mai essere allontanato dal proprio figlio.
Le Iene e i figli tolti ai genitori per una casa sporca. Giornalettismo.com il 06/03/2014. Ad una nota coppia di genitori dopo una visita in casa vengono sottratti i tre figli a causa delle cattive condizioni igieniche dell’abitazione. È la storia raccontata in un servizio mandato in onda nella puntata di ieri de Le Iene, firmato da Matteo Viviani.
LA SOTTRAZIONE DEI BAMBINI – Il calvario comincia un mese fa, quando alla porta della casa di Andrea Barlocco, ex pr dei vip, e Sabrina Saccomanni, ex corteggiatrice di Uomini e Donne, in un complesso residenziale alle porte di Milano, si presentano assistenti sociali accompagnati da Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo aver effettuato un controllo decidono di portar via tre bambini, di 6 mesi, 21 mesi e quasi 13 anni, e la baby sitter che li stava accudendo. Da allora – è la stessa coppia a raccontarlo alle telecamere di Mediaset – viene stravolta la vita dei due genitori, che passano il loro tempo a piangere, impossibilitati a vedere i loro bambini e oltretutto costretti, quando incontrano i piccoli in caserma, a sorridere per non compromettere con un verbale negativo il percorso stabilito dai servizi sociali. Ma, ovviamente, anche sorpresi dalla motivazione della sottrazione dei figli.
LA RELAZIONE DEL DISORDINE – «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno messo nero su bianco i servizi sociali nella relazione che racconta del disordine trovato in casa. Alla troupe delle Iene Andrea risponde punto su punto ai rilievi del rapporto, in cui si parla dei panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi, o anche degli escrementi di un cane in una vasca da bagno (che il padrone di casa dice essere esclusivamente riservato all’animale).
LA PAROLA ALL’AVVOCATO – «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da poter provocare un allontanamento dei tre bambini», ha spiegato l’avvocato di Andrea e Sabrina, Sonia Gaiola. «Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i Carabinieri», ha aggiunto l’assistente del legale. «In questo caso specifico si stanno adottando delle procedure che non favoriscono il benessere psico fisico dei bambini», ha poi continuato la dottoressa Gaiola. «Avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio», dice. Ma nè l’allenatore Franz nè il prete che conosceva la famiglia dicono alle telecamere delle Iene di aver visto il ragazzino più grande vestito o curato in cattivo modo. «Siamo rimasti colpiti». «Nessuno si aspettava questa cosa», rivelano alle Iene chi conosceva la famiglia. Già, la famiglia. A quanto pare gli assistenti sociali, racconta il servizio, non hanno chiesto ai parenti (ai nonni, ad esempio) se disposti ad accudire i figli. Nè segnalazioni o informazioni sono giunte al pediatra che curava i bambini più piccoli. Un particolare, quest’ultimo, che potrebbe seriamente avere il suo peso nella crescita e nella formazione dei bambini. Anche i neonati riescono a percepire la mancanza dei genitori e della casa, spiega una psicoanalista alle Iene. «Sono tra il disperato e l’incazzato», dice il papà Andrea.
LA RISPOSTA DEGLI ASISSTENTI SOCIALI – «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali», rispondono le assistenti sociali ad un incontro con l’avvocato della coppia. Un dubbio aperto – spiegano – «sulla base della possibilità di presenza di una trascuratezza importante rispetto a questi tre bambini». «Quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…».
La trasmissione manda in onda la vicenda dell’allontanamento di tre minori cernuschesi. Dal Comune ribattono: «Servizio non corrispondente ai fatti, ci riserviamo di tutelare l'immagine dell'ente»». Giornale-infolio.it il 07 Marzo 2014. Alla fine il servizio annunciato delle Iene questo mercoledì sera è andato in onda. E i retroscena di una vicenda raccontata a metà nei giorni scorsi si chiariscono. Nel servizio di Matteo Viviani non viene mai citata Cernusco, ma i luoghi della storia si riconoscono così come è noto il dirigente del Settore Servizi Sociali intervistato alla fine. Tema, l’allontanamento disposto dalle assistenti sociali cernuschesi, in accordo con le forze dell’ordine e il Tribunale dei Minori, dei tre figli (8 mesi, 21 mesi e 12 anni) dell’ex corteggiatrice di Uomini e Donne, Sabrina Saccomanni, e del compagno Andrea Barlocco, ex pr dei vip. Il motivo? Nel servizio si parla di casa sporca (descritta con fotografie anche da una relazione dei carabinieri) e dei minori trovati da soli nell’abitazione. Troppo poco per portarli in una comunità, secondo la psicoanalista Giuliana Barbieri, interpellata da Viviani. Il dirigente municipale, dal canto suo, prova a fornire delle spiegazioni lasciando intendere che si attiverà per riportare al più presto i bambini in famiglia, dai nonni o dagli zii. Il giorno dopo la messa in onda il tam tam in Rete è stato immediato. Accuse anche pesanti sono state rivolte all’amministrazione comunale che in giornata ha diffuso una nota stampa: «In riferimento al servizio del programma di Italia 1 Le Iene sull’allontanamento dai genitori di tre minori, tutti residenti in città, il Comune intende chiarire che la vicenda, così come rappresentata nel servizio, non corrisponde alla realtà dei fatti e che, a differenza di quanto visto e sentito nel corso della puntata, la situazione è stata gestita dai Servizi Sociali nell’esclusivo interesse dei minori coinvolti: quanto affermato è inoltre confortato dalla documentazione in possesso del Comune che, come richiesto, è stata trasmessa all’autorità giudiziaria competente. L’amministrazione comunale si riserva, pertanto, ampia facoltà di tutelare la propria immagine e quella dei Servizi Sociali che hanno sempre operato nel rispetto della legge e nell’interesse primario dei minori coinvolti nella vicenda».
Casa sporca? Via i bambini: ecco la reazione delle assistenti sociali. Le due assistenti sociali non hanno gradito il servizio de “Le Iene” e hanno chiesto ai genitori di non fotografare i loro figli e poi di vederli a settimane alterne. Fabio Giuffrida su tv.fanpage.it il 19 marzo 2014. Matteo Viviani torna a parlare del caso dei due bambini sottratti ai propri genitori poiché tenevano la loro abitazione in condizioni igieniche non compatibili con gli standard degli assistenti sociali. I due genitori si sono detti disperati per la situazione che si è venuta a creare anche perché i due figli hanno vissuto una bella infanzia e, a detta loro, la sottrazione dei due piccoli sarebbe del tutto ingiustificata. "Casa sporca? Via i bambini", questo il titolo che è comparso nel servizio trasmesso da "Le Iene" questa sera. Dopo la visita di Viviani, tra i genitori e gli assistenti sociali è venuto meno "il clima di collaborazione" al punto che non gli è stato più consentito scattare foto ai propri figli e gli è stata limitata la possibilità di vederli (infatti potranno incontrarli a settimane alterne e potranno telefonarli, nella settimana in cui non li vedranno, una sola volta). "Non sta né in cielo né in terra!" ha sbottato una psicoanalista interpellata dalla iena. Il Sindaco di Cernusco sul Naviglio ha preso le distanze da "Le Iene" sottolineando come Viviani abbia descritto in maniera non veritiera la vicenda dei due minori. Vincenzo Spadafora, Garante per l'Infanzia e Adolescenza, infine, ha dichiarato: Sono rimasto senza parole. L'eccesso di zelo ha portato gli assistenti sociali a non compiere tutti gli atti preliminari prima dell'allontanamento dai genitori. Non avrebbero dovuto usare le forze dell'ordine, avrebbe dovuto sentire la scuola, i nonni e il pediatra.
"Amore strappato" perplessità tra fiction e realtà; riflessione di Leonardo Lauricella, scrive il 02/04/2019 La Sicilia. Il primo cittadino di Siculiana per più di 35 anni ho lavorato presso il Tribunale di Agrigento come funzionario di cancelleria. Riceviamo e pubblichiamo una lettera dal sindaco di Siculiana, Leonardo Lauricella. "Per più di 35 anni ho lavorato presso il Tribunale di Agrigento come funzionario di cancelleria; molta esperienza ho acquisito nel settore penale occupandomi di misure cautelari personali e reali, quindi di provvedimenti emessi dai giudici in materia di libertà personale. Ho lavorato in stretta collaborazione con Magistrati che ho avuto modo di apprezzare per la serietà di giudizio e per il rispetto che hanno sempre dimostrato per la verità dei fatti. Ciò posto, con riferimento alla fiction "L'amore strappato", andata in onda il 31.03.2019, non posso non esprimere il mio turbamento e disappunto per il comportamento rappresentato dal Pubblico Ministero che coordinava le indagini, allorchè ha tentato di convincere la madre della ragazzina ad accusare il marito di avere approfittato sessualmente della loro figlioletta. Una condotta decisamente deplorevole quella posta in essere dal Pubblico Ministero il quale, in assenza di prove oggettive ed inconfutabili, ma a fronte solamente di qualche debole indizio, priva della libertà personale il padre e prova a condizionare il pensiero della madre, prospettandole la possibilità di rivedere la figlia, che era stata sottratta alla potestà genitoriale, qualora avesse ammesso di essere a conoscenza degli abusi commessi dal marito. Questi i fatti rappresentati nella serie televisiva; sono consapevole del fatto che trattasi di fiction, ma proprio perchè vista da milioni di persone , mi chiedo può una tv pubblica trasmettere un messaggio così grave e fuori dalla realtà? Può un tv pubblica gettare un' ombra di discredito e di superficialità sul lavoro della Magistratura? Può un tv pubblica, con disinvoltura e superficialità inaudita, vanificare la delicata attività dei magistrati chiamati quotidianamente ad applicare le leggi e ad assicurare Giustizia? Mi chiedo ancora, sono interrogativi che solo io mi pongo?"
Figli strappati ai genitori: rapita dallo Stato, il dramma dei minori in affido, scrive venerdì, 29 marzo 2019 Antonio Amorosi su Affari Italiani. Una storia incredibile, degna dei migliori incubi della giustizia. Pensate se a 6 anni e mezzo lo Stato vi avesse rapito, qualcuno vi avesse fatto credere che i vostri genitori erano morti e per 11 anni aveste vissuto una vita non vostra. E’ la storia vera di Angela Lucanto, figlia di un piccolo costruttore di origini calabresi che vive a Milano. Siamo dentro un mix di errori giudiziari e macchina degli affidi mangia soldi pubblici. Una storia estrema ma che si muove dentro un filone di casi tipici. Negli ultimi dieci anni si è calcolato che sono circa 1800 le strutture che in tutta Italia si occupano della gestione dei bambini che finiscono per vari motivi allontanati dalle famiglie di origine, con un numero di minori che oscilla negli anni tra i 26.000 e gli oltre 30.000, quando in Paesi più abitati come Germania e Francia non raggiungono mai i 10.000. La metà di questi minori finisce in comunità e l’altra in affido familiare; tra i 1000 e i 2000 bimbi sono anche sotto la soglia dei 6 anni di età. La principale causa scatenante i problemi che portano poi all’affido è la condizione di indigenza della famiglia d’origine. Eppure i bambini ospitati costano oro, dai 70 euro al giorno fino a diverse centinaia di euro, rette pagate con soldi pubblici. Un giro di affari che si muove tra l’1 e i 2 miliardi di euro l’anno, un flusso in aumento ma che latita sotto il profilo della trasparenza. Per anni diverse inchieste giornalistiche hanno posto l’accento sui conflitti di interesse dei giudici onorari che si occupano dei minori, che non sono magistrati professionisti, ma educatori, psicologi, sociologi e avvocati. Il Csm in un comunicato del 3 aprile 2018 ha reso noto i dati relativi alle oltre 59.000 domande presentate nell’anno per 400 nuovi posti da giudice onorario: il 73% degli aspiranti giudici particolari sono proprio avvocati. Risulta però che molti di questi giudici onorari sono in conflitto d’interessi perché lavorano nelle stesse case famiglia dove finiscono i bambini affidati. Costoro per anni decidono le sorti di migliaia di minori, nella fase più delicata della loro vita. Ma non bisogna generalizzare. Ci sono anche strutture che funzionano e che fanno ottimi interventi. Anche se nel settore la parte più fragile e confusa è proprio quella relativa alla gestione dei controlli, poco rigorosi, raramente fatti a sorpresa, in strutture difficilmente supervisionate o monitorate da soggetti terzi. Per molti anni si è parlato di istituire un Osservatorio nazionale sulle strutture di accoglienza ma non se ne è mai fatto niente. Resta difficilissimo fare ispezioni nelle comunità minorili. Anni fa il coordinamento interassociativo Colibrì stigmatizzò “l’eccessiva facilità negli affidamenti”. “Per la legge”, chiarì il portavoce del gruppo Massimo Rosselli Del Turco, “un minore sottratto ai genitori va affidato a parenti fino al quarto grado. L’affidamento extra-familiare, però, frutta soldi”. Ma torniamo alla storia drammatica Angela, una vicenda raccontata dai giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri nel libro “Rapita dalla giustizia” (Rizzoli). Siamo negli anni ‘90. Angela è la seconda figlia di Salvatore e di Raffaella. Ha un fratello, Francesco. Una cugina quattordicenne di Salvatore denuncia presunti abusi sessuali nella sua famiglia di origine, un’intero gruppo di consanguinei pedofili. Gli altri parenti non le credono. E quando tempo dopo la ragazza scopre che neanche il cugino Salvatore ha preso le sue difese lo denuncia per averla abusata: avrebbe anche commesso le stesse violenze sulla figlia, Angela. La cugina racconta molti particolari, poi ritratta, poi ricambia di nuovo versione. Partono comunque gli accertamenti. La psicologa raccomanda il ricovero. Angela viene prelevata dalla scuola elementare di Masate (Milano) da un’assistente sociale e da due carabinieri. La bimba viene collocata in un centro di affido protetto. Lo stesso in cui ha lavorato la psicologa. Salvatore viene arrestato su richiesta della procura di Milano e rinchiuso nel carcere di San Vittore; dove seguirà il durissimo regime destinato ai pedofili: vi trascorrerà 2 anni e 4 mesi. Condannato in primo grado a tredici anni di reclusione per violenza sessuale verrà poi assolto in appello e in Cassazione. Una rocambolesca sequenza di errori giudiziari durati anni. In uno dei frangenti si chiede addirittura alla moglie, Raffaella, che organizza manifestazioni di protesta per riavere la piccola Angela, di prendere le distanze dal marito, Salvatore. Salvatore viene liberato ma il tribunale dei minore procede per l’adottabilità di Angela. Proprio Maurizio Tortorella con Panorama e il Maurizio Costanzo Show danno vita ad una campagna per far tornare la bambina dalla famiglia d’origine ma non c’è niente da fare. Anche il ministro della Giustizia dell’epoca Roberto Castelli si dichiara inerme rispetto alle decisioni dei magistrati.
I genitori la cercano non sapendo che fine abbia fatto, fino a che un giorno trovano dove vive la famiglia di adozione e il fratello Francesco spiega alla bimba, ormai cresciuta ,quanto accaduto. Sono passati 11 anni da prigioniera inconsapevole dello Stato. Angela pensava che la sua famiglia fosse morta. Torna a casa soltanto il 27 maggio 2007, ormai quasi maggiorenne, e solo grazie alla disperata e infaticabile ricerca da parte dei suoi genitori veri. Solo dopo i 18 anni ha potuto riottenere il suo vero cognome facendosi riadottare dalla sua vera famiglia. La corte di Strasburgo ha condannato il governo italiano a 20.000 euro di multa per l’ingiusta detenzione di Salvatore che è stato risarcito al minimo per gli anni di ingiusta detenzione.
Lo sfogo della Cuccarini: "Fate luce su Bibbiano alla faccia di chi ci insulta". Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano. Anna Rossi, Sabato 03/08/2019 su Il Giornale. Lo scandalo degli affidi illeciti di Bibbiano ha sconvolto l'opinione pubblica. L'inchiesta Angeli e Demoni fa davvero rabbrividire. E ora, anche i personaggi del mondo dello spettacolo alzano la testa e vogliono la verità. La esigono. La prima a farsi sentire è stata Laura Pausini. "Ho appena letto un articolo e sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni - ha scritto sui social la cantante romagnola -. Mi sento incazzata, fragile, impotente. Ho deciso di cercare questa storia, perché una mia fan mi ha scritto pregandomi di informarmi. Non ne sapevo nulla. Non posso credere che abbia dovuto cercare questa vicenda, perché sì, quando sono in tour sono spesso distratta dall’attualità e dalla cronaca ma questa notizia è uno scandalo. Cosa si può fare? Come possiamo aiutare?" E al suo grido di rabbia si è unito anche Nek. L'artista non ci sta, non può stare zitto di fronte a questo scempio. "Sono un uomo e sono un papà - commenta anche lui su Facebook -. È inconcepibile che non si parli dell’agghiacciante vicenda di #bibbiano Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico. È proprio così. Ci sono intere famiglie distrutte, vite di bambini di padri e di madri rovinate per sempre...e non se ne parla. Ci vuole giustizia". Ma i loro appelli hanno scatenato tutta la sinistra rossa che si è rivolta a loro con parole d'odio, immediatamente condannate da Matteo Salvini. Il ministro, anzi, ha personalmente ringraziato questi artisti per essersi interessati a un tema così delicate e al contempo forte. Diversi, quindi, i cantanti e i personaggi del mondo dello spettacolo che chiedono giustizia. E a questi si aggiunge anche Lorella Cucccarini. Intervistata da La Verità sfoga tutta la sua rabbia. "I miei su Bibbiano sono sentimenti condivisi. [...] E insieme alla nostra gente penso a quello che è accaduto a Bibbiano e mi domando com'è possibile. Se fosse successo a me di patire ciò che hanno dovuto subire quei poveri genitori forse sarei morta di dolare oppure avrei reagito come una belva". "La Anche Lorella Cuccarini prende parte a quel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo che esige la verità su Bibbiano su Bibbiano deve uscire tutta - dice - e abbiamo diritto di sapere se quello era un sistema ristretto o se è successo anche in altre parti d'Italia. [...] Quella di Bibbiano è una barbarie assoluta e io sto con loro, sono una di loro. Noi mamme sappiamo cosa significa anche solo la remotissima possibilità che ti possano togliere un figlio: è un incubo, uno strazio, un dolore anche solo immaginarlo. Posso dirlo? Non ne posso più del politicamente corretto. È ora che noi che abbiamo un dialogo col pubblico facciamo sentire la nostra opinione al di là delle convenienze ed è anche ora di smetterla di pensare che i giudizi della rete siano oro colato. Basta fare come me: fregarsene. Mi raccomando voi continuate: andate fino in fondo".
Da Alessandro Borghese a Milly Carlucci: si allarga il fronte “Mai più Bibbiano”. Carlo Marini giovedì 1 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. Si allarga il fronte di associazioni e cittadini che pretendono chiarezza sullo scandalo degli affidi in provincia di Reggio Emilia. A questo proposito, in queste ore il Moige ha lanciato la petizione on line Mai più Bibbiano. «È inaccettabile –si legge nel comunicato stampa – che qualcuno possa prendersi il diritto di strappare i figli alla mamma e al papà e che servizi sociali “deviati” distruggano la vita dei minori senza alcun controllo e senza alcun ragionevole motivo. La Costituzione e il diritto internazionale ribadiscono con forza l’importanza dell’indissolubilità del rapporto mamma-figlio-papà che va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore». La petizione è disponibile a questo link: «Per questo –prosegue la nota del Movimento italiano dei genitori – lanciamo una petizione per chiedere al Parlamento di riformare subito il sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con la sua mamma e il suo papà, rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore. Ecco alcuni dei punti su cui chiediamo di riformare il sistema degli affidi a tutela dei ragazzi: rafforzare il sistema del contraddittorio, evitare il conflitto di interessi, fornire il potere di decisione esclusivamente ai giudici e non ad altre figure professionali, riconoscere abusi e violenze solo tramite comprovate prove filmate, valutare l’allontanamento solo in casi estremi privilegiando comunque l’affidamento ai parenti del minore».
Mai più Bibbiano: i vip aderenti: «Sono sempre più numerosi i personaggi del mondo dello spettacolo e dei media che stanno aderendo alla petizione, in primis Sabrina Ferilli, reduce del successo della fiction “L’amore strappato”, che tratta di una storia vera di falso abuso e allontanamento del minore dai genitori, ma ad oggi anche Alessandro Borghese, Guillermo Mariotto, Eleonora Daniele, Metis Di Meo, Rita Dalla Chiesa, Andrea Lo Cicero, Monica Leofreddi (nella foto di copertina con Mariotto e Borghese), Monica Marangoni, Cataldo Calabretta, Carla Gozzi, Milly Carlucci, Milena Miconi che hanno deciso di dare voce e sostegno ad una riforma che rimetta al centro la tutela del legame tra mamma-figlio-papà».
Da Pausini a Branduardi: in campo anche i big della musica. Nei giorni scorsi, anche nel mondo della musica alcuni artisti più coraggiosi avevano fatto sentire la propria voce. A cominciare da Laura Pausini, passando per Nek e Ornella Vanoni, per concludere con Angelo Branduardi, autore di un paio di post di denuncia sulla vicenda di Bibbiano.
Bibbiano, il “Rolling Stone” zittisce i VIP e impone il silenzio. Stelio Fergola su Oltrelalinea.news 25 Luglio 2019. “Su Bibbiano i musicisti italiani hanno perso la testa”, recita il titolo del Rolling Stone di ieri. E ancora: “L’indecente passerella di oggi del ministro Salvini nel paese reggiano conferma la tossicità del dibattito sul tema”. Il riferimento è a Laura Pausini, a Nek ma anche a Ornella Vanoni, i quali invertendo decisamente il trend di VIP che tradizionalmente non fanno altro che da megafono al pensiero unico su praticamente ogni tema, hanno alzato la voce contro lo scandalo degli affidi pilotati di Bibbiano.
Il Rolling Stone impone il silenzio. Proseguendo nella lettura, l’articolo ci regala perle ancora maggiori: “Il problema è che quando una vicenda come quella di Bibbiano viene strumentalizzata in maniera feroce come una parte politica ha fatto in queste settimane, chiamarsi fuori da un dibattito così tossico, soprattutto per una persona con così tanta visibilità, sarebbe buonsenso.” Il risultato di questa frase è chiaramente solo uno, tranne per chi vuole intendere diversamente: i signori cantanti non possono parlare di Bibbiano, anche se non citano questo o quel partito, ma si limitano a constatare l’orrore di fatti che, al netto del giudizio definitivo, in molti casi sono praticamente flagranze di reato. Ammesso e non concesso che la “strumentalizzazione” sia presente infatti, questo non è un buon motivo per cucire la bocca a chi ha tutto il diritto di criticare uno scempio come quello perpetrato contro famiglie, mamme, papà e soprattutto bambini. La verità è che, come sempre, la “tossicità” consiste nel fatto stesso che se ne parli, come non potrebbe essere diversamente, vista la gravità dell’accaduto. E specialmente in questo momento i dibattiti devono andare sempre verso altre direzioni politiche. Giammai discutere l’integrità dei democratici.
Bibbiano, la denuncia di Meluzzi: «Scandalo frutto della cultura di sinistra, basta omertà». Il Secolo d'Italia martedì 23 luglio 2019. In un video pubblicato su Youtube da Fratelli d’Italia, il professor Alessandro Meluzzi, famoso psichiatra ed esperto di problemi legati ai minori, denuncia un clima di pesante omertà sullo scandalo dei bambini “sottratti” ai genitori legittimi dagli operatori sociali, con la complicità della politica. «Sembra che si voglia far calare il silenzio su questa tragedia frutto di una certa cultura di sinistra», dice Meluzzi, che loda le denunce di cantanti come Nek e Laura Pausini e invita chiunque abbia a cuore la sorte dei bambini a parlare di questo scandalo e ai musicisti chiede di organizzare un grande concerto per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa vicenda, “contro un certo buonismo e un’omertà mafiosa di cui si stanno rendendo complici anche i media».
Bibbiano, Alessandro Meluzzi sulla commissione d'inchiesta: "Il Pd si deve vergognare". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Uno scandalo nello scandalo. In Emilia Romagna è stata nominata una commissione deputata a indagare su Bibbiano. Peccato che sia presieduta da Pd, sinistra italiana più una ragazza del M5s. Per Giorgia Meloni uno scandalo, un tentativo di insabbiare l'orribile vicenda dei bambini strappati alle legittime famiglie. E la pensa così anche Alessandro Meluzzi, che dice la sua in un durissimo video, in cui spiega: "Giorgia Meloni ha giustamente stigmatizzato e denunciato lo scandalo della regione Emilia Romagna, che ha nominato una commissione di inchiesta sugli orrori di Bibbiano presieduta dal Pd, da Sinistra italiana e da una ragazzotta del M5s - premette Meluzzi -. Se questa è la volontà di ricerca da parte dell'ente da cui dipende la sanità, l'assistenza della regione Emilia Romagna, io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo, che si aggiunge ancora di più al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte le vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani". Dunque, Meluzzi picchia durissimo contro la sinistra: "In questo modo il Pd si condanna, condanna se stesso non solo all'inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Ma si condanna anche di fronte al tribunale della storia, dell'etica, della dignità. Che vergogna cari amici del Pd: un tentativo di fare una commissione per insabbiare", conclude. Il video è stato rilanciato su Twitter dalla Meloni: "Ascoltate il prof Meluzzi sulla recente nomina di una commissione d'inchiesta in Emilia Romagna sui presunti affidi illeciti di Bibbiano. Uno scandalo nello scandalo, che vergogna!", conclude la leader di Fratelli d'Italia.
Bibbiano, Meluzzi al Pd: «Volete solo insabbiare. Che vergogna». Il Secolo d'Italia sabato 3 agosto 2019. «Che vergogna, cari amici del Pd. Il tentativo di fare una commissione non per denunciare e rivelare, ma insabbiare. Che vergogna». Con un video postato su Facebook, Alessandro Meluzzi torna su Bibbiano e si sofferma sul caso della Commissione d’inchiesta istituita alla Regione Emilia Romagna, in cui il Pd si è messo alla presidenza e ha affidato le due vicepresidenze a Sinistra italiana e M5S. Una scelta che, visti i coinvolgimenti politici nell’inchiesta sui bambini rubati, lascia quanto meno interdetti.
«Uno scandalo nello scandalo». Meluzzi lo dice chiaramente, parlando della «commissione sugli orrori di Bibbiano presieduta da Pd, Sinistra italiane e M5S»: «Io credo che questo sia uno scandalo nello scandalo. Uno scandalo che si aggiunge al furto dei bambini, ai traffici delle cooperative e a tutte quelle vicende che hanno scatenato la sacrosanta reazione degli italiani». «In questo modo – prosegue Meluzzi – il Pd si condanna, ma condanna se stesso non soltanto all’inevitabile sconfitta elettorale, anche in Emilia Romagna. Condanna se stesso di fronte al tribunale della storia, dell’etica, della vita. Che vergogna, cari amici del Pd. Che vergogna», conclude Meluzzi, che in apertura del filmato loda Giorgia Meloni per aver denunciato – anche – la vicenda della commissione d’inchiesta.
La denuncia di Giorgia Meloni. «Il Pd nomina una commissione d’inchiesta in Emilia Romagna sullo scandalo degli affidamenti illeciti di minori assegnandosi la presidenza e dando le due vicepresidenze al M5S e alla Sinistra italiana», ha scritto la leader di FdI sulla sua pagina Facebook, ricordando che si tratta dello «stesso Pd che ha i propri esponenti coinvolti nello scandalo e che non voleva si parlasse di Bibbiano» e dello «stesso M5S che chiedeva verità, ma a livello locale vanta tra le sue fila un avvocato che ha rinunciato a ogni ruolo istituzionale per difendere una delle principali indagate». «Una situazione talmente paradossale – ha concluso Meloni – che farebbe quasi ridere, se di mezzo non ci fosse il dramma di tante famiglie».
Giorgia Meloni, furia contro il Pd: sapete chi indaga su Bibbiano? Lo scandalo. Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Giorgia Meloni a valanga contro il Pd. Motivo? Bibbiano. "Il Pd", scrive Giorgia su Twitter, "che non voleva si parlasse di Bibbiano, nomina la commissione d'inchiesta sugli affidi illeciti prendendosi la presidenza e nominando 2 vice di SI e M5S (da cui proviene l'avvocato di una delle indagate). Farebbe ridere se non ci fosse di mezzo il dramma di tante famiglie". Si è insediata la commissione d'inchiesta regionale per approfondire il tema degli avvidi illeciti. Presidente della commissione sarà infatti il consigliere del Pd Giuseppe Boschini, mentre i suoi vice saranno Igor Taruffi di Sinistra Italiana e Raffaella Sensoli del M5s. "E' possibile supporre - ha detto il consigliere leghista Massimiliano Pompignoli - che l'obiettivo del Pd sia quello di mettere i lavori della commissione in sorveglianza preventiva: non si sa mai cosa potrebbe emergere".
Bibbiano, sindaco Pd nei guai: ecco cosa emerge dalle carte. I dirigenti locali del Partito democratico si schierano al fianco di Andrea Carletti, ai domiciliari: "Siamo con te". Pina Francone, Martedì 06/08/2019 su Il Giornale. L'inchiesta Angeli e Demoni continua e ora che il giudice ha confermato gli arresti domiciliari al sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, i compagni di partito tornano a difenderlo con forza dalle accuse. Andrea Carletti, primo cittadino del comune di 10mila anime in provincia di Reggio Emilia, teatro dello scandalo degli affidi illeciti, non è accusato di reati commessi contro i bambini, ma è indagato – in quanto delegato dei servizi sociali dell'Unione dei Comuni della Val d'Enza – per abuso d'ufficio e falso ideologico. Ecco, gli è stata negata la revoca della misura cautelare, che il gip Luca Ramponi gli ha appunto confermato. E il giudice gli ha confermato i domiciliari spiegando che "non sussistono ragioni per un'attenuazione della misura, tanto meno per una revoca, tenuto conto della pendenza di indagini anche relative ad altre fattispecie contro la pubblica amministrazione, analoghe a quelle per cui è cautelato". Insomma, ci sarebbe altra carne sul fuoco, ovvero nuovi accertamenti investigativi su ulteriori aspetti delle sue attività da sindaco in relazione ai servizi sociali di sua competenza. E qui è scattata la gara di solidarietà tra i dem locali, con il segretario del Pd di Bibbiano, Stefano Marazzi, che ha scritto una lettera all'ex sindaco: "Sul filo del rasoio, ma non posso lasciar passare questa giornata senza mandarti un pensiero. È inutile e superfluo dire che ci abbiamo sperato con tutti noi stessi, abbiamo vissuto questa attesa con l'ansia di chi prova un grande senso di ingiustizia e non attende altro che questa situazione assurda finisca", le parole vergate e riportare da LaVerità. "Per l'ennesima volta, le notizie che ci giungono non ci danno sollievo. Dobbiamo ancora attendere per riabbracciarti, ma siamo ancora qui, al tuo fianco, come e più di prima. Tieni duro Andrea, non mollare. La tua comunità rimane saldamente al tuo fianco e aspetta il tuo ritorno", scrive ancora il segretario Marazzi nella sua missiva, a prova di una Pd compatto e a difesa, a spada tratta, del proprio esponente. Del quale provano a sminuire il ruolo nel caso Angeli e Demoni, ma sul quale gli inquirenti continuano a puntare un cono di luce per statuire la verità e fare giustizia.
Caso Bibbiano. Fi: Commissione senta 10 persone. 24emilia.com il 5 Agosto 2019. Andrea Galli, capogruppo di Forza Italia, in Regione chiede alla Commissione regionale appena insediata, che deve fare luce sulla vicenda dei presunti affidi illeciti in Val d’Enza, di ascoltare 10 persone. “Gentile Giuseppe Boschini, presidente della Commissione d’inchiesta regionale sui fatti della Val d’Enza, come membro della Commissione appena insediata sono costretto a ribadirle anche formalmente la mia totale contrarietà rispetto alla decisione del Pd, partito che lei rappresenta, di escludere il centrodestra dall’ufficio di presidenza. Una scelta che credo possa pregiudicare lo svolgimento dei lavori e che getta una luce equivoca sulle reali intenzioni della maggioranza di far chiarezza sullo scandalo vergognoso che sta emergendo dall’inchiesta Angeli e Demoni. L’impressione da molti rilevata è che il Pd su una questione così delicata abbia deciso di diventare controllore di se stesso. Infatti, escludere Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia significa ad oggi escludere un centrodestra che, in base alle ultime elezioni europee, rappresenta la maggioranza relativa degli elettori emiliano-romagnoli: non certo una buona partenza rispetto all’obiettivo di un lavoro comune e super partes che lei stesso si è dato nel momento della elezioni. Ora, in ogni caso la Commissione esiste e spero che i membri di centrodestra che ne fanno parte possano almeno esercitare in modo pieno i diritti e doveri che la legge consente loro. In qualità di capogruppo di Forza Italia in Regione, alla luce di questa premessa, chiedo immediatamente vengano sentiti alla prima riunione utile alcuni personaggi chiave di questa vicenda. Al di là della possibilità di sentire gli stessi indagati, chiedo vengano invitati in Commissione:
Roberta Mori, consigliere regionale Pd e coordinatrice nazionale degli Organismi di pari opportunità regionali
Pablo Trincia, giornalista autore dell’inchiesta Veleno
Luigi Costi, ex sindaco di Mirandola
Mauro Imparato, psicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori
Paola Tognoni, vicesindaco di Bibbiano e sindaco in pectore dopo la sospensione di Carletti
Cinzia Magnarelli, assistente sociale pentita, indagata ma già intervistata da diversi media
Marcello Burgoni, già direttore del Servizio Minori dell’ASL di Mirandola
Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla famiglia
Gloria Soavi, presidente Cismai
Monica Michele, vicepresidente Cismai
Grazie per la sua disponibilità”.
Reggio Emilia. Bimbi sottratti, metodi sospetti. Per 20 anni lo stesso copione. Lucia Bellaspiga domenica 7 luglio 2019 su Avvenire. Modena, Reggio Emilia, Salerno, Biella... «stessi operatori, stessi drammi». E a "Chi l’ha visto" la prova dei lavaggi di cervello. «Mi sono occupato di ’Ndrangheta per anni, ma questa inchiesta è umanamente devastante». Così il procuratore capo di Reggio Emilia ha commentato "Angeli e Demoni", l’inchiesta che avrebbe fatto emergere un giro di affidamenti illeciti di bambini nella provincia di Reggio Emilia. Corposo il materiale raccolto in mesi di indagini e intercettazioni su figli strappati ai genitori 'per essere sottoposti a lavaggio del cervello', convinti di 'aver subìto abusi in realtà inesistenti', indotti attraverso falsi ricordi ad accusare i genitori. Un sistema lucroso (centinaia di migliaia di euro secondo gli inquirenti) messo in opera da anni dalla rete dei servizi sociali della Val d’Enza reggiana. Le sedute psicoterapeutiche erano condotte dagli operatori dell’associazione Hansel&Gretel di Moncalieri ( Torino), con il loro metodo del "disvelamento progressivo" o "empatico": agli arresti il fondatore Claudio Foti ('alterava lo stato psicologico attraverso suggestioni' e così "convinceva il minore dell’avvenuto abuso"), con la sua attuale compagna Nadia Bolognini. Chiaro il procuratore capo: «Abbiamo fatti, non critiche a metodologie». Aggiornamento del 18 luglio 2019: Il Tribunale del Riesame di Bologna ha revocato gli arresti domiciliari a Claudio Foti; la misura è stata sostituita con un obbligo di dimora nel Comune di Pinerolo. E allora ecco i fatti. Sono 277 le pagine dell’ordinanza con cui il gip di Reggio Emilia Luca Ramponi ha disposto 17 misure cautelari e indagato 27 persone: vi sono le pressioni subite dai bambini, la violenza psicologica con cui venivano indotti a dire e pian piano a credere ciò che 'dovevano' dire e credere, il tutto con l’ausilio di metodiche che, se non fossero state registrate e riprese dai Carabinieri, sembrerebbero incredibili. Qualche esempio. Una delle psicoterapeute vuole rimuovere la figura del padre dalla mente del piccolo: «Dobbiamo fare una cosa grossa – gli dice – sai qual è?, l’elaborazione del lutto... quel papà non esiste più come papà, è come fosse morto, dobbiamo fargli un funerale ». Chiaro perché i regali e le lettere portati dai genitori non venivano consegnati ai figli, sempre più certi di essere stati abbandonati.
Il metodo di Hansel&Gretel e affini. I bambini – continuano gli inquirenti – "anche in tenera età, subivano ore di lavaggi del cervello intercettati, dopo esser stati allontanati dalle famiglie attraverso le più ingannevoli attività". Tra queste, "relazioni mendaci, disegni artefatti con l’aggiunta mirata di connotazioni sessuali" e addirittura "terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male".
La macchinetta della "verità". E poi i "falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella spacciata ai bambini per macchinetta dei ricordi". Nessun elettrochoc, come sbrigativamente titolato dai giornali, ma un Neurotek, macchinario Usa il cui utilizzo non è certo previsto dal sistema sanitario italiano: il bambino riceve sulle dita impulsi elettromagnetici mentre confessa. Non un elettrochoc, certo, ma se veniva applicato un effetto lo aveva. Facile immaginare la paura di quei piccoli, soprattutto leggendo quali domande suggestive fossero loro rivolte durante gli impulsi. Questo nell’Italia del 2019, dove se un maestro bacchettasse le dita di un alunno sarebbe radiato.
Satana, da copione. E così, quasi da copione (visti i pregressi di Finale Emilia vent’anni fa, di cui parleremo poi), ecco arrivare le confessioni anche sul satanismo. Il meccanismo è perverso, sempre lo stesso: la bimba nel 2011 è stata allontana dal nucleo familiare solo per problemi economici. Ma solo dal 2017, quando inizia la terapia a 'La Cura' di Bibbiano con la Bolognini – attuale compagna di Foti, anche lei ai domiciliari – 'emersero racconti di abusi sessuali seriali, subiti da lei, dal fratello e dalla sorella da parte dei genitori'. Di peggio: "Subito dopo la seduta con la citata terapeuta nel 2018 avrebbe iniziato a manifestare sintomi di una sorta di possessione demoniaca, giungendo a raccontare omicidi plurimi commessi dal padre quando lei aveva tra 2 e 4 anni... La notte di Halloween uomini mascherati portavano 5/6 persone per volta, immobilizzate con iniezioni presso la sua abitazione, ove il padre le uccideva e ove i bambini venivano poi stuprati". Infine "il padre truccava il volto dei bambini col sangue dei cadaveri e li dava alla madre". Gli inquirenti precisano che la Bolognini ha atteggiamenti fortemente induttivi per far emergere nella ragazzina "l’essere cattivo che dimorava dentro di lei".
I danni nel tempo. Torture psicologiche indelebili. Lo dice il gip: diventati adolescenti, quei bambini ora 'manifestano profondi segni di disagio', caduti nella droga e nell’autolesionismo. Questi dunque i risultati ottenuti da esperti? Niente di nuovo, per chi conosce già le vicende analoghe avvenute venti anni fa nel Modenese, seguite fin dagli esordi da 'Avvenire' e oggi approdate nelle otto imperdibili puntate di 'Veleno' di Pablo Trincia. Anche lì si verificò uno strano 'picco' di presunti abusi sui bambini, tant’è che una ventina furono prelevati la notte nelle case o al mattino a scuola e mai più fecero ritorno. Dopo le sedute con gli operatori della Hansel&Gretel (allora non c’era la Bolognini ma la prima moglie di Foti, Cristina Roccia) cominciarono uno a uno a raccontare di messe nere, sangue di cadaveri bevuto scoperchiando lapidi e bare in pieno giorno, decine di bimbi accoltellati sulle croci e decapitati da loro stessi. Orrori mai avvenuti (non mancava un solo bambino nei paesi), ma gli 'esperti' ci credettero e fioccarono allontanamenti definitivi, arresti, condanne. Anche gli assolti non rividero più i figli.
Il vero dramma a Chi l’ha visto. Mercoledì Chi l’ha visto ha ripercorso i punti di contatto tra la Bassa Modenese e l’attuale caso di Reggio Emilia (in entrambi opera la psicologa Valeria Donati). Grande il turbamento quando hanno parlato di spalle due delle ex bambine, all’epoca torchiate da psicologhe e assistenti sociali con i soliti metodi. Oggi, donne di 27/28 anni, sono ancora convinte di aver squartato decine di bambini. E per questo piangono, tremano: «Certo che l’ho fatto, lo ricordo benissimo»... La Cassazione ha stabilito da anni che nulla di ciò era avvenuto, ma ormai sono marchiate a vita, si credono ancora assassine, prostrate dal pentimento di ciò che non hanno fatto. In studio c’era una delle madri (assolta), mater dolorosa impietrita a veder sua figlia ridotta così, mai più vista da 21 anni fa.
L’odio lgbt per i maschi. Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza (ora ai domiciliari) è attivista lesbica. In qualche caso (forse tre) ha sottratto i minori e li ha affidati a coppie lesbiche. Una volta addirittura alla sua ex compagna Fadia Bassmaji, ai domiciliari. Non solo: le due affidatarie lesbiche, dice l’ordinanza, imponevano alla piccola "un orientamento sessuale vietandole tassativamente i capelli sciolti", ritenuti "appetibili per i maschi". Atteggiamento che il gip definisce "ideologicamente e ossessivamente orientato". Dalle intercettazioni emerge che le due instillavano nella piccola l’idea che il padre l’avesse abusata, e la ingiuriavano con cattiveria gratuita.
Non solo Emilia Romagna. Alessandra Pagliuca, psicologa di Hansel& Gretel, contribuì a sottrarre i 16 bambini nella Bassa Modenese vent’anni fa. Ma la giornalista napoletana Rosaria Capacchione denuncia su fanpage.it: alla Pagliuca si deve pure l’inchiesta sulle sètte sataniche a Salerno nel 2007. Tre fratellini raccontarono di adulti incappucciati, diavoli, pozioni di sangue, sperma e droga. Stessa follia di Finale Emilia, guarda caso. «Inchieste poi fondate sul nulla, ma i bambini non sono più tornati», dice. Il fatto quotidiano invece ricordava ieri il famoso suicidio a Biella di quattro adulti accusati di pratiche indicibili sui figli. Lasciarono un biglietto, "siamo innocenti". «A far parlare i bambini erano Claudio Foti e, di nuovo, Cristina Roccia».
Traumatizzati all’infanzia? Tutti gli indagati "hanno avuto esperienze traumatiche nell’infanzia" simili a quelle attribuite ai minori, scrive il gip: uno stupro di gruppo da piccola, una dipendenza da alcol, maltrattamenti dal padre alcolizzato... Esperienze pregresse per le quali 'non potevano porsi in rapporto di indifferenza verificando gli eventi'. Storie oscure di affidi illeciti: le gravi accuse nell’ordinanza, i fatti sconcertanti emersi dalle intercettazioni Il procuratore capo: «Mi sono occupato di ’ndrangheta, ma questa inchiesta è umanamente devastante. Sono fatti» Modena, Reggio Emilia, Salerno, Biella... «stessi operatori, stessi drammi». E a Chi l’ha visto la prova dei lavaggi di cervello
Dalla Bassa a Bibbiano, quel filo che lega le onlus. redazione Sul Panaro i 4 Agosto 2019. MIRANDOLA E DINTORNI – Non si spengono i riflettori sui fatti di Bibbiano. In questi ultimi giorni sono stati diversi gli approfondimenti riguardo al filo che lega la vicenda degli affidi nel reggiano e quanto avvenuto nella Bassa venti anni fa. A partire dalla vicenda della bimba di Mirandola e dai finanziamenti (269 mila euro impegnati dall’Ucman, come denunciato da Antonio Platis e Mauro Neri) al Centro Studi Hansel e Gretel coinvolto proprio nei fatti di Bibbiano. Proprio su quest’ultimo punto si sono accesi i riflettori anche della stampa nazionale. I quotidiani La Verità e Il Giornale hanno rilanciato la questione del finanziamento dell’Ucman al Centro Studi sollevata da Platis e Neri che si chiedono se si possa parlare di danno erariale:
Nell’ottobre 2018 è stato organizzato al Teatro Metropolis a Bibbiano (RE) un convegno nella cui locandina appare, come Partners de “La Cura”, oltre al Centro studi Hansel e Gretel un solo ente locale: l’Unione Comuni Modenesi Area Nord. Eppure la scadenza del rapporto Mirandola-Bibbiano doveva essere il 30.4.2018.
Al convegno hanno partecipato numerose persone oggi indagate nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Tra i relatori figura anche la Responsabile della onlus a cui Mirandola aveva affidato nel 2013 la bambina oggi al centro dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Da notare – spiegano i consiglieri Neri e Platis – che la Responsabile della casa famiglia è nel direttivo di una nota associazione assieme a Claudio Foti, Nadia Bolognini e Sarah Testa. Questa associazione realizza un quotidiano on line che ha “l’obbiettivo di difendere i bambini dall’adultocentrismo, dal negazionismo e dalla cultura patriarcale”.
Complessivamente, per gli affidamenti diretti, sono stati impegnati dall’Ucman indicativamente 269.354 euro in favore di questa onlus. Agli atti della prima determina nel 2013, la responsabile dell’epoca Monica Benati, affermava che verosimilmente la minore sarebbe stata nel centro scelto fino alla maggior età (raggiunta a fine 2018). Già questo – incalzano gli esponenti di FI – è un fatto molto grave perché si è scelta una struttura direttamente, senza considerare l’impegno palesemente pluriennale che avrebbe portato sopra la soglia dei 40mila euro l’affidamento. A questo si aggiunge un altro aspetto già contestato nel 2017. Perché invece di affidarci al Servizio Sanitario Regionale, l’Unione Area Nord ha fatto una convenzione, formalmente con la Val d’Enza, ma palesemente con il Centro Hansel e Gretel per pagare psicologi privati a 135 euro all’ora? Pensate che i preventivi agli atti dell’Ucman non sono dei comuni reggiani, ma di un privato. Quei soldi non dovevano finire là. A nostro avviso c’è il rischio di un danno erariale e per questo abbiamo chiesto ulteriori chiarimenti con un’interrogazione.
I quesiti sono sostanzialmente tre.
Perché l’Unione Area Nord ha dato adesione al convegno del 10-11 ottobre 2018 a Bibbiano come unico ente locale “partners”?
Quale ruolo ha avuto l’onlus in cui era affidata la minore mirandolese oggetto dell’inchiesta “Angeli e Demoni” nella scelta del Centro Hansel e Gretel visti i rapporti palesi che si evincono tra i responsabili dei due centri.
Se la Giunta Ucman, in futuro, intenda rendere maggiormente trasparente il criterio di selezione delle case famiglia.
Inoltre, secondo Il Resto del Carlino e il giornalista Pablo Trincia autore dell’inchiesta Veleno, la onlus “Il centro aiuto al bambino” della psicologa Valeria Donati, finita nell’inchiesta di Bibbiano, “in corrispondenza delle sentenze di assoluzione dei coniugi Covezzi e della famiglia Morselli e con la pubblicazione dell’inchiesta Veleno i ricavi scendono nel 2017 a 70.000 euro”. Invece, la onlus avrebbe ricevuto da tribunali, associazioni e Comuni nel 2004 251 mila euro, 269 mila nel 2005, 337 mila nel 2006, 480 mila nel 2007, 495 mila nel 2008, 512 mila nel 2009, 571 mila nel 2010, più di 650 mila nel 2012. Secondo Trincia, poi, i 18 bambini del caso Veleno seguiti dal CAB dal 2002 al 2013 erano suddivisi in quattro categorie a seconda della gravità della situazione e per loro il CAB riceveva 1.032 euro al mese per la fascia D e 1.400 per la A. Intanto nei giorni scorsi si è insediata la Commissione regionale di inchiesta sui fatti di Bibbiano e in Parlamento le commissioni Affari Istituzionali e Giustizia del Senato, riunite in sede congiunta e deliberante, hanno approvato la proposta relativa all’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sugli affidi. Ora la palla passa alla Camera, ma sembra che la proposta possa procedere speditamente come ha spiegato anche la senatrice M5S Maria Laura Mantovani: “Adesso va alla Camera dove farà anche lì un percorso rapido. Da senatrice dell’Emilia Romagna sento particolarmente la delicatezza del tema: l’inchiesta sui fatti di Bibbiano e sui servizi sociali dell’Unione dei Comuni della Val d’Enza e le vicende accadute 20 anni fa nella Bassa modenese, note come ‘caso Veleno’, sono ferite aperte e dolorose. La commissione d’inchiesta intende far luce sulle procedure degli affidi in tutta Italia”.
Sulla commissione regionale e sulla sua composizione, ovvero escludere il centrodestra, Forza Italia ha sollevato perplessità e Andrea Galli, capogruppo in Regione, in una lettera aperta al neoeletto presidente Boschini ha scritto: In ogni caso la Commissione esiste e spero che i membri di centrodestra che ne fanno parte possano almeno esercitare in modo pieno i diritti e doveri che la legge consente loro. In qualità di capogruppo di Forza Italia in Regione, alla luce di questa premessa, chiedo immediatamente vengano sentiti alla prima riunione utile alcuni personaggi chiave di questa vicenda. Al di là della possibilità di sentire gli stessi indagati, chiedo vengano invitati in Commissione:
Roberta Mori, consigliere regionale Pd e coordinatrice nazionale degli Organismi di pari opportunità regionali
Pablo Trincia, giornalista autore dell’inchiesta Veleno
Luigi Costi, ex sindaco di Mirandola
Mauro Imparato, psicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori
Paola Tognoni, vicesindaco di Bibbiano e sindaco in pectore dopo la sospensione di Carletti
Cinzia Magnarelli, assistente sociale pentita, indagata ma già intervistata da diversi media
Marcello Burgoni, già direttore del Servizio Minori dell’ASL di Mirandola
Carlo Giovanardi, ex sottosegretario alla famiglia
Gloria Soavi, presidente Cismai
Monica Michele, vicepresidente Cismai
Quanto alla vicenda di Bibbiano, il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia Luca Ramponi ha confermato gli arresti domiciliari per il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (ora sospeso dalla Prefettura). Carletti, che si è autosospeso dal Partito Democratico, è accusato di abuso d’ufficio e falso ideologico e si trova agli arresti domiciliari dal 27 giugno.
Bibbiano, "Chiesta l'audizione di Carlo Lucarelli". La Lega ha chiesto che Carlo Lucarelli, in qualità di presidente della Fondazione emiliano romagnola vittime dei reati, sia convocato per un'audizione della Commissione speciale della Regione sul caso Bibbiano. Francesco Curridori, Sabato 24/08/2019, su Il Giornale. Lo scrittore Carlo Lucarelli probabilmente sarà ascoltato sul caso Bibbiano. Lo rende noto Stefano Bargi, capogruppo della Lega in Regione Emila Romagna, la quale negli scorsi giorni ha aperto una commissione d'inchiesta. "Se qualcuno si aspettava che la Lega si adeguasse al ruolo marginale che le è stato affidato nell’ambito della Commissione speciale di inchiesta sul sistema tutela minori della Regione Emilia-Romagna si sbagliava", ha chiarito Bargi al Secolo d'Italia. La Lega vuole vederci chiaro e ha chiesto che Carlo Lucarelli, in qualità di presidente della Fondazione emiliano romagnola vittime dei reati, venga ascoltato insieme a Elena Buccolieri, direttrice del medesimo ente. Lo scopo è capire i rapporti tra la Fondazione e gli indagati dell'inchiesta sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza. Bargi spiega che la Lega intende" alzare il sipario e fare luce su una vicenda orribile e sconvolgente qual è quella che è emersa dall’indagine Angeli e Demoni” e, pertanto, ha chiesto che vengano sentita anche "figure cardine nella gestione dei Servizi sociali". Il timore è che i vertici del Pd della Commissione speciale hanno tutto l'interesse a offuscare la vicenda dal momento che sono coinvolte esponenti politici come il sindaco di Bibbiano e gli ex primi cittadini i di Cavriago e di Montecchio. "Del resto gli ultimi sviluppi dell’indagine Angeli e Demoni – conclude Bargi – stanno facendo emergere come tutta l’Emilia Romagna, e non solo la Val d’Enza, sia, in realtà, stata infettata dal sistema degli affidi illeciti".
Televisione. “L’amore strappato”, così la “giustizia” spezza una famiglia, scrive Giuseppe Matarazzo domenica 31 marzo 2019 su Avvenire. Su Canale 5 la serie diretta da Simona e Ricky Tognazzi sulla drammatica storia di Angela, “rubata” ai genitori da clamorosi errori in tribunale. «Ma la realtà supera la fiction». Da stasera su Canale 5 “L’amore strappato”, la serie diretta da Simona e Ricky Tognazzi sulla drammatica storia (vera) di Angela, “rubata” ai genitori da clamorosi errori in tribunale. «Però la realtà supera la fiction» «Mamma e papà lo sanno dove mi porti?». È il 24 novembre 1995, un’assistente sociale e due carabinieri prelevano Angela, una bambina di sei anni, dalla sua classe, nella scuola di Masate nel Milanese, per affidarla a una comunità. In quella fredda giornata di apparente normalità la giustizia italiana rapisce Angela, la allontana dai suoi genitori, Raffaella e Salvatore, e dal fratello Francesco, e la risucchia in un lungo tunnel dal quale uscirà soltanto dopo undici interminabili anni. Il tribunale dei minori è convinto che il padre della bambina abbia abusato di lei e della cugina quattordicenne, con disagi psichici, da cui sono partite le accuse. Che Angela non pensasse affatto questo e adorasse il suo papà e la sua famiglia non importava a nessuno. I test psicologici, gli esami, il calvario degli interrogatori nei primi mesi al Centro di affido familiare tentano di estorcere, e ci riescono, l’orribile confessione che per i periti sta in un disegno, un fantasma, arrivato dopo che Angela ha colorato infinite bambole e le Barbie con i vestitini che stavano nella sua cameretta. Un disegno, che probabilmente manifestava la paura che viveva Angela in quel momento, con i pianti di mesi passati a capire perché non potesse tornare a casa, perché mamma e papà non venissero a prenderla. Il papà, condannato in primo grado, resterà in carcere a San Vittore per 2 anni, 4 mesi e due giorni, prima di venire poi assolto in appello e in Cassazione con formula piena, perché «il fatto non sussiste». Ma l’assoluzione non fermerà la “giustizia” minorile: per il tribunale è troppo tardi e la bambina verrà data in adozione a una nuova famiglia. Un assurdo. Di Angela i genitori perderanno tutte le tracce. La ritroveranno su una spiaggia di Alassio dieci anni dopo. Angela, pochi mesi prima di diventare maggiorenne, nel 2006, riuscirà ad abbracciare la sua vecchia famiglia. E uscire finalmente da quel tunnel. Un calvario che Angela Lucanto ha raccontato passo dopo passo, con estrema lucidità, come una liberazione e un riscatto, nell’emozionante libro scritto nel 2009 con i giornalisti che si erano occupati del caso a “Panorama”, Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella, che del settimanale è stato vicedirettore: Rapita dalla giustizia. Come ho ritrovato la mia famiglia (Rizzoli, pagine 210, euro 12, in libreria in una nuova edizione). Ora queste pagine straordinarie di ingiustizie e vita vera hanno liberamente ispirato L’amore strappato, la serie tv in sei episodi coprodotta da Rti e Jeki Production che Mediaset propone da stasera, per tre domeniche, alle ore 21.20, su Canale 5. Una produzione diretta da Simona e Ricky Tognazzi (che per la prima volta firmano con lo stesso cognome) con protagonisti Sabrina Ferilli ed Enzo Decaro. Si parte da Angela Lucanto, da questa incredibile vicenda, ma il film segue poi i suoi binari: non è ambientato a Milano, ma a Roma; diverse sono le circostanze in cui si svolgono i fatti; diversi i nomi dei protagonisti. Rocco (Enzo Decaro), Rosa (Sabrina Ferilli), Ivan (Christian Monaldi) e Arianna (Elena Minichiello) sono uniti e felici. Li conosciamo mentre fervono i preparativi per il festeggiamento del compleanno di Ivan e della recita a scuola di Arianna. Ma poco prima del suo ingresso in scena, la bambina viene prelevata da un carabiniere e da una psicologa. E il calvario comincia, anche in tv. «Una storia talmente assurda che questa volta la fiction ha dovuto quasi “contenerla”», confessa il regista Ricky Tognazzi. Frenando la tentazione e il rischio «di essere manichei e di accanirsi su operatori, magistrati, forze dell’ordine: perché accanto all’episodio incredibile che narriamo e ad altri casi di errori e ingiustizie che purtroppo avvengono, ci sono storie di quotidiana professionalità e bambini strappati ad abusi e realtà disumane. Non era il caso di Angela. A lei è stato strappato l’amore di una famiglia felice». La sceneggiatura di Simona Izzo (con Vinicio Canton, Giancarlo Germino e Maura Nuccetelli) si concentra sul ruolo della madre che lotta contro le ingiustizie che si abbattono sulla famiglia: difendere il marito da un’accusa infamante e lottare per riavere la sua bambina, con un altro figlio da crescere. «È l’amore di una madre a cui viene strappato l’amore della sua vita – continua Tognazzi –. Un amore nei confronti del marito, a cui continua a credere, sempre. Lei non viene mai attraversata dal dubbio, non tentenna neanche quando è “ricattata” dalle autorità: se non ammetti le sue colpe, non potrai vedere neanche tu tua figlia. Ma lei non cede. Non sta al gioco, non accetta compromessi, anche a rischio di perdere tutto». Simona Izzo e Ricky Tognazzi leggono insieme questa storia sconvolgente. «Non credevamo ai nostri occhi. Sembrava scritta da un abile e perfido sceneggiatore. Invece era tutto vero. Parafrasando il filosofo Wittgenstein, si può dire che tutto ciò che non può essere spiegato deve essere raccontato: abbiamo scelto di mettere in scena questa storia perché è, per certi versi, davvero inspiegabile », evidenzia la Izzo. «Io – riprende Tognazzi che nel film recita anche la parte dell’avvocato difensore – mi sono immedesimato nella figura del padre. Che subisce l’accusa infamante, conosce il carcere e perde la figlia. Ho pensato a come avrei potuto reagire io. Ho provato un senso di drammatica impotenza di fronte a certe prove della vita, ma anche la necessità di non perdere mai di vista la speranza. Ci siamo confrontati con Simona: lei, donna, ha guardato da un’altra prospettiva. Così la protagonista di questo adattamento è diventata la madre». «Doppiamente coraggiosa, doppiamente sul campo. Lei che ha dovuto tenere insieme tutto. Fino alla fine. Un ruolo che Sabrina ha interpretato con la forza e la passionalità che da sempre la contraddistinguono. Così come Enzo Decaro, profondamente rispettoso della storia del padre, che ha incontrato, riportando la sua grande sensibilità», aggiunge la Izzo. Il papà, probabilmente, è proprio la persona più segnata: «Non è ancora riuscito a leggere il libro. Ogni volta che lo inizia, si mette a piangere e non ce la fa a continuare», racconta Maurizio Tortorella. La realtà è più forte della fiction anche nel lieto fine. «Oggi Angela – aggiunge Tortorella – è una donna serena, lavora, è diventata mamma da pochi mesi del piccolo Stefano». Stasera la famiglia Lucanto vedrà probabilmente il film in tv, riunita a casa. Rivivrà quello che ha passato con occhi diversi. Quelli della fierezza. Con i gorgheggi del piccolo Stefano in sottofondo e quella luce che una nuova vita sa regalare a tutti. E al futuro. «Ci sembra una bella coincidenza», conclude Tognazzi. Angela può finalmente sorridere. Circondata da un amore ritrovato.
La storia vera che ha ispirato “L’amore strappato”. La fiction si ispira a una vicenda avvenuta a Milano tra il 1995 e il 2006 e raccontata dalla protagonista, Angela Lucanto, ai giornalisti Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella nel libro “Rapita dalla giustizia”, scrive il 28 Marzo 2019 Silvia Perazzino su sorrisi.com. La fiction “L’amore strappato” si ispira a una vicenda vera avvenuta a Milano tra il 1995 e il 2006 e raccontata dalla protagonista, Angela Lucanto, ai giornalisti Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella nel libro “Rapita dalla giustizia” (Rizzoli, 12 euro). Tutto inizia il 24 novembre 1995 quando, per colpa di una falsa accusa di pedofilia contro suo padre, Angela, sei anni, viene prelevata da scuola e rinchiusa in una casa-famiglia. Il padre, Salvatore, finisce in carcere. Nel 2001 l’uomo viene assolto anche in Cassazione, ma nel frattempo Angela è stata data in adozione a un’altra famiglia e solo nel 2006 tornerà finalmente a casa. «Abbiamo scelto la formula “liberamente ispirato” perché per esigenze televisive sono stati fatti alcuni cambiamenti. La fiction, per esempio, è ambientata a Roma. Cambiano i nomi e alcune fasi particolarmente drammatiche sono state stemperate» spiega la Guarneri, che ha collaborato alla fiction. «Subito dopo l’assoluzione del marito, Raffaella, così si chiama la madre nella realtà, venne a “Panorama”, dove Tortorella lavorava, e in seguito anche io, per denunciare l’ingiustizia subita dalla sua famiglia e poter riavere la figlia. Il caso colpì tutti allo stomaco. Questa storia andava raccontata, e noi lo abbiamo fatto insieme con Angela quando è tornata». Ma c’è dell’altro, in una vicenda di per sé già incredibile: «Quello che Angela ha passato in quegli anni lontana da casa, la mamma lo ha scoperto leggendo il libro, mentre il padre non ha ancora trovato il coraggio di leggerlo» conclude la Guarneri.
Angela Lucanto. La storia vera, de l’Amore Strappato: “Io rapita dalla giustizia”, scrive il 13.04.2019 Dario D'Angelo su Il Sussidiario. La storia vera di Angela Lucanto, protagonista de “L’amore strappato”, fiction con Sabrina Ferilli ed Enzo Decaro giunta all’ultimo appuntamento su Canale 5. Ultimo appuntamento in tv con la fiction “L’amore strappato“, la fiction di Canale 5 che vede protagonisti Sabrina Ferilli ed Enzo Decaro tratta da una storia vera. La prima grande vittima di questa storia è Angela Lucanto, “strappata” letteralmente all’affetto dei suoi genitori dopo che il padre Salvatore venne accusato di molestie su minori nel novembre del 1995. all’epoca Angela aveva soltanto sei anni: subito venne prelevata mentre si trovava a a scuola e trasferita in una casa-famiglia. Una scelta che secondo la “giustizia” aveva il compito di tutelare Angela dal padre-orco, ma che invece si rivelò un clamoroso errore giudiziario. Sei anni dopo le accuse, infatti, papà Salvatore venne assolto dalla Cassazione dopo aver trascorso due anni in carcere da innocente. Troppo tardi per consentire alla piccola Angela di trascorrere un’infanzia normale con i suoi genitori. Da quel 2001, anno in cui papà Salvatore venne definitivamente assolto da ogni accusa, trascorsero altri 5 anni prima che ad Angela fosse consentito di ricongiungersi con la sua famiglia d’origine. Cresciuta in un’altra famiglia che in quegli anni si è presa cura di lei, Angela da adulta ha scritto un libro dal titolo fortemente evocativo:”Rapita dalla giustizia”. Intervistata dal settimanale “Chi”, Angela ha raccontato:”Nessuno mi ridà mai indietro il tempo trascorso lontana dalla mia famiglia. Ma credo di aver superato tutto sia mentre lo vivevo sia dopo grazie al mio carattere forte e ribelle. Se mi fossi permessa anche una sola fragilità, mi avrebbero schiacciata (…) Cerco di non associare le cose ma oggi, da mamma, capisco ancora di più che cosa ha vissuto la mia. Riesco a vedere quello che ci è successo attraverso i suoi occhi e da persona adulta e consapevole, ho capito ancora di più l’incredibile tragedia che ha vissuto“.
L'amore strappato, la vera storia di Angela Lucanto che ha ispirato la fiction con Sabrina Ferilli, scrive il 12 aprile 2019 Francesca Demirgian su pianetadonna.it. Chi è Angela Lucanto, la bambina strappata alla famiglia per un errore giudiziario, che ha ispirato la nuova fiction di Canale 5 L'amore strappato.
L’amore strappato la fiction di Canale 5 su Angela Lucanto. Il prossimo 31 marzo arriva in tv, su Canale 5, la nuova fiction con Sabrina Ferilli e Enzo De Caro, dal titolo "L'amore strappato". Una serie in 3 puntate che segue a Non Mentire e a Il silenzio dell'acqua e che porta sul piccolo schermo una storia agghiacciante, realmente accaduta. L'amore strappato, infatti, diretta da Ricky Tognazzi e Simona Izzo, si ispira alla storia vera di Angela Lucanto, una bambina che a soli 7 anni fu strappata dalla mamma e dal papà (rispettivamente interpretati da Sabrina Ferilli e Enzo De Caro) per un errore giudiziario, con accuse infamanti di molestie ai danni del padre. Tutto accadde quel terribile 24 novembre 1995, quando i carabinieri e un assistente sociale entrarono in classe di Angela, che aveva poco più di 6 anni, e la prelevarono, senza ulteriori spiegazioni, portandola in un istituto di Milano gestito dal Cismai (Centro italiano contro il maltrattamento e l'abuso dell'Infanzia). Qualche mese dopo, il padre di Angela fu arrestato e processato con l'accusa di abusi verso la figlia e la cugina. Così, per quasi due anni, Angela rimase chiusa in quell'istituto, senza poter vedere la sua famiglia. Mentre il padre fu costretto a trascorrere 2 anni e mezzo in carcere, prima di essere liberato con sentenza assolutoria. I tempi lunghi della giustizia italiana, tolsero la patria potestà ai genitori, rendendo Angela una bambina adottabile da un'altra famiglia. A nulla servirono la disperazione della madre e il suo incatenarsi davanti alla struttura dove la figlia si trovava, anzi, quel gesto di una mamma esanime, spinse al trasferimento di Angela in un istituto di Genova. Qui, la bambina è costretta a rispettare regole rigide e a sopportare dure punizioni.
Angela Lucanto adottata da un'altra famiglia. Fino al giorno dell'adozione da parte di una famiglia che non ha mai incontrato Angela e che ha già 3 figli, due adottati e uno naturale. Angela non si trova bene in questa nuova realtà, pensa al passato, ma i suoi ricordi sono sempre più sfocati. Intanto i genitori naturali continuano a cercarla disperatamente, per 9 lunghi anni. Riusciranno a trovarla solo quando, ormai, la ragazza è quasi maggiorenne. Sarà il fratello a farle avere una lettera dei genitori e delle foto che li ritraggono insieme prima di quel terribile 24 novembre 1995. Angela deciderà, allora, di scappare dalla sua famiglia adottiva, andando contro lo Stato e contro la Giustizia italiana che tanto erano stati ingiusti con lei e la sua famiglia, per ricongiungersi con le persone che nonostante tutto ha sempre amato.
Il libro “Rapita dalla giustizia” scritto da Angela Lucanto. Sarà proprio Angela Lucanto, nel 2010, a pubblicare un libro autobiografico, per raccontare, passo dopo passo, a tutti quell'assurda storia, la storia di un errore giudiziario imperdonabile, la storia di una bambina strappata per anni alla sua famiglia, la storia di una mamma e di un papà coraggio che hanno lottato senza mai arrendersi. Il libro, dal titolo "Rapita dalla giustizia - Come ho ritrovato la mia famiglia", è stato scritto da Angela insieme a Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri, edito da Bur Rizzoli. La storia di Angela Lucanto diventa fiction. Oggi quella terribile storia è pronta a diventare una fiction dal titolo "L'amore strappato", appunto, che arriverà su Canale 5, il prossimo 31 marzo in 3 puntate.
SABRINA FERILLI E LA FICTION L'AMORE STRAPPATO. “LA SOFFERENZA DI QUELLA FAMIGLIA MI È ENTRATA DENTRO”, scrive il 14/04/2019 Eugenio Arcidiacono su famigliacristiana.it. L'attrice racconta la grande commozione vissuta nell’interpretare il delicato ruolo di Raffaella Lucanto. «Mi ha colpito l’impotenza di questi genitori di fronte a un meccanismo assurdo», dice l’attrice. «Ciò che mostriamo in tv, può capitare a chiunque». Un’icona di Roma in un’icona di Milano: incontriamo Sabrina Ferilli nella storica pasticceria Sant Ambroeus, a due passi dal Duomo: «In realtà, io adoro Milano. Per carattere sono molto rigorosa: mi piacciono le città dove le cose funzionano. Nel caos non mi trovo molto bene. E poi posti come questi non sono semplici bar, sono luoghi che conservano un’umanità antica».
In L’amore strappato lei interpreta la parte di Raffaella Lucanto. Conosceva già questa storia?
«Sì, avevo letto il libro di Angela. Durante le riprese non ho voluto incontrarli, perché non volevo farmi influenzare nell’interpretazione. L’ho fatto ora ed è stato molto emozionante vedere la loro dignità. Salvatore, il padre, mi ha detto che la sofferenza maggiore l’hanno ricevuta dalle persone più vicine: amici, colleghi di lavoro che da quando lui è stato accusato hanno fatto terra bruciata attorno a loro».
Qual è l’aspetto di questa vicenda che l’ha colpita di più?
«L’impotenza di queste persone che non avevano fatto niente. Sopra di loro si è innescato un meccanismo fatto di errori giudiziari, di burocrazia, di gente sorda a ogni buonsenso che ha iniziato a travolgerli: chiunque decideva al posto loro. Un meccanismo assurdo, come dimostra il fatto che per fare riavere il loro cognome alla figlia sono stati costretti ad adottarla».
Presentando questa fiction in varie occasioni si è commossa…
«I torti, le sofferenze che hanno subìto mi sono entrate dentro. E poi ho pensato che quanto hanno vissuto poteva capitare a me, ai miei fratelli che hanno figli, a chiunque altro».
Lei come si sarebbe comportata se fosse stata davvero al posto della madre di Angela?
«Come lei. Avrei lottato, ma sempre nell’ambito della legalità. Non credo nella giustizia fai da te».
Cosa pensa allora della nuova legge sulla legittima difesa?
«Non ce n’era assolutamente bisogno. Nei Paesi dove sono adottati provvedimenti simili, i crimini sono aumentati».
Lei come reagisce alle ingiustizie?
«Non ne ho subìte tante, forse perché ho condotto sempre una vita molto riservata e ho cercato di circondarmi di persone migliori di me».
Nell’animo si sente più avvocato o giudice?
«Avvocato, perché mi piace l’idea di dare a chiunque la possibilità di riscattarsi. Un uomo non può identificarsi con il reato che ha commesso: è troppo riduttivo».
Oggi però viviamo in una società piena di giudici senza toga che dal loro computer sputano sentenze…
«Lo so ed è terribile. Solo che quando lo fai notare, c’è sempre qualcuno che ti fa passare per sprovveduta. “Ma che male potrà mai fare un selfie un po’ volgare, o una foto che inneggia al fascismo?”, ti dicono. E invece sono spie di una disgregazione culturale in atto di costume, di lingua, di rispetto».
È per questo motivo che lei non si vede molto sui social?
«Ho solo una pagina Facebook che non gestisco e che uso solo per far conoscere le mie attività professionali».
È vero che è rimasta legatissima ai suoi genitori?
«Sono legatissima alla mia famiglia in generale. La prima cosa che faccio al mattino è telefonare a papà. Lui è come me. Appena si alza, legge tutti i giornali. Perciò mi sveglio alle sei e, quando ho finito, lo chiamo e ci confrontiamo sui fatti del giorno. Facciamo una specie di rassegna stampa e alla fine siamo sempre d’accordo sulle valutazioni».
Suo padre è stato un funzionario del Pci. Com’è stato crescere in un ambiente così?
«A casa mia erano tutti, come si direbbe oggi, “cattocomunisti”. Mi ricordo mia nonna che indossava due medagliette: in una c’era la Madonna e nell’altra il simbolo della falce e martello. Gente integra, molto severa, che ha contribuito a ricostruire il Paese dalle macerie della guerra».
Le hanno trasmesso anche la fede?
«Sì. Sono amica di preti e frati straordinari, conosco anche la realtà della mia parrocchia. Non vado a Messa, ma due o tre volte alla settimana sento la necessità di entrare in chiesa».
Rapita dalla Giustizia, se la cronaca ispira la fiction. Mediaset racconta la vicenda realmente accaduta di una bambina sottratta alla sua famiglia per un errore giudiziario, scrive Panorama. Un’accusa infamante, un incredibile errore giudiziario e una bambina di sette anni viene strappata alla sua famiglia. Ruota attorno a questi tre snodi L’amore strappato, la nuova serie tv di Canale 5 con Sabrina Ferilli, che torna a recitare a due anni dall’ultima fiction e lo fa calandosi nei panni di una «mamma coraggio» che sfida la giustizia italiana e morde la vita pur di ritrovare sua figlia. Mediaset questa volta veste i panni del «servizio pubblico» e lo fa raccontando una storia in tre puntate, in onda su Canale 5 a partire da domenica 31 marzo, liberamente ispirata al libro Rapita dalla Giustizia (Rizzoli), scritto dalla protagonista Angela Lucanto con i giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri. Oggi Angela ha 29 anni e la sua vicenda alla Oliver Twist diventa una fiction che lascia senza parole per la sequenza di folli assurdità. Tutto comincia quando Rocco, il padre di Arianna – interpretato da Enzo Decaro - viene ingiustamente accusato da una lontana parente di aver molestato la figlia. Viene subito allontanato dalla sua famiglia fino a quando gli assistenti sociali la danno in affido e poi in adozione. Inizia così una storia dalle sfumature incredibili, che pare un romanzo ma è solo bruciante verità. «Il paradosso è che una situazione così può capitare a tutti. Non c’è ricco, povero o classe sociale che tenga davanti ad accuse infamanti e errori giudiziari tanto macroscopici», spiega Maurizio Tortorella, che proprio su Panorama, di cui è stato vicedirettore, raccontò la storia e condusse una lunga inchiesta sul fenomeno dei bambini portati via dai servizi sociali oltre che sugli interessi economici delle case-famiglia in Italia. E proprio per ricucire quell’«amore strappato» - su cui è incentrata la fiction prodotta da Jeky Productions, e diretta da Ricky Tognazzi e Simona Izzo - la mamma di Arianna, Rosa, combatte la sua battaglia riuscendo a non farsi schiacciare dagli eventi. «Mio marito è innocente, dovete ridarmi mia figlia» è il suo mantra. Continuare a crescere l’altro figlio, sostenere il marito che finisce in carcere e non smettere di cercare quella figlia che le hanno portato via (e che solo dopo oltre dieci anni riuscirà finalmente a riabbracciare), la sua missione. Tocca alla Ferilli restituire al pubblico la potenza eroica di questa donna che rifiuta compromessi per tutelare la figlia che ingiustamente le hanno strappato. «La forza di questa storia è l’amore che resiste a tutto, anche all’impatto con una tragedia dai contorni devastanti», riconosce l’altra autrice, Caterina Guarneri.
La storia di Angela Lucanto non è un caso isolato. La politica deve intervenire”, parla l’autore del libro da cui è tratta la fiction L’amore strappato. Il giornalista Maurizio Tortorella ha raccontato su Panorama la storia della bambina tolta alla famiglia a causa di un errore giudiziario, che ha ispirato la fiction con Sabrina Ferilli, scrive Anna Ditta il 5 Aprile 2019 su TPI. Anna Ditta. Nata a Castelvetrano (TP) nel 1991. Dal 2013 collabora con TPI, dove si occupa di interviste e inchieste. È autrice del libro "Belice" (Infinito edizioni, 2018). Domenica 31 marzo è andata in onda la prima puntata della fiction L’amore strappato, ispirata alla storia vera di Angela Lucanto, allontanata dalla famiglia quando aveva sei anni a causa di un sospetto nei confronti del padre, poi rivelatosi infondato, e data in adozione a una nuova famiglia. La vicenda della famiglia Lucanto è stata raccontata nel libro “Rapita dalla giustizia” (Rizzoli, 2009). TPI ha intervistato Maurizio Tortorella, ex vicedirettore di Panorama e autore del libro insieme a Angela Lucanto e Caterina Guarneri.
Come ha conosciuto la storia di Angela?
«Mi chiamò il loro avvocato, Raffaele Scudieri, all’inizio del 2002. All’epoca ero inviato speciale di Panorama, mi occupavo di giustizia. L’avvocato non mi conosceva ma mi chiese di andare da lui, disse di avere una storia assurda e pazzesca. Andai e trovai il padre e la madre di Angela. Lui era stato appena assolto in Cassazione e domandava giustamente perché mai la figlia nel frattempo venisse data in adozione definitivamente a un’altra famiglia, visto che lui era vittima di un orribile errore giudiziario. Aveva fatto 2 anni, 4 mesi e due giorni di carcere. Sarebbe stato ovviamente risarcito per l’ingiusta detenzione, ma quello che gli stava più a cuore era riavere la figlia che da sette anni non vedeva».
Qual è stata la sua reazione dinanzi a questa storia assurda?
«Mi sono messo a piangere come un bambino, perché avevo da poco avuto un figlio e mi sono reso conto che questo disastro sarebbe potuto capitare a chiunque. È stato come prendere un treno in faccia, l’ho trovata un’ingiustizia atroce. E Panorama avviò sul caso una campagna molto intensa di articoli scritti da me che cercavano in ogni modo di fermare l’adozione e soprattutto di riparare a questo errore folle che faceva sì che la giustizia penale avesse riconosciuto la completa innocenza di Salvatore Lucanto mentre invece il Tribunale dei minori, seguendo una logica del tutto difforme, andasse in una direzione totalmente opposta. Tra l’altro con delle illogicità pazzesche. Il padre di Angela era stato accusato di pedofilia da una cugina di 14 anni, che lo ha accusato di aver violenza non solo a se stessa, ma anche al figlio maschio, Francesco, all’epoca 12enne, e ad Angela. Quindi non si capisce perché soltanto la figlia femmina fosse stata portata via. E soprattutto perché, dopo che il padre era stato arrestato, Angela non fosse stata riportata a casa. Anche perché la mamma, Raffaella, non era mai stata indagata. Non aveva alcun coinvolgimento penale nella vicenda. Era del tutto assurdo. Una storia assolutamente irrazionale».
Sembra una catena di errori.
«Se la mamma non è indagata tu non puoi portare via il marito e la figlia contemporaneamente e poi, attraverso lo psicologo, far sapere che la bambina torna a casa nel momento in cui lei accusa il marito innocente. È intollerabile ovviamente».
Possiamo dire che sia qualcosa di simile a un ricatto?
«È di fatto qualcosa di ingiusto».
La vostra campagna su Panorama ha sortito degli effetti?
«Purtroppo no, assolutamente nulla. Scrivemmo anche una lettera aperta al presidente della Repubblica, che all’epoca era Carlo Azeglio Ciampi. Insieme a Maurizio Costanzo, ad aprile 2002, facemmo tre puntate del Maurizio Costanzo Show in cui cercammo di contattare i genitori adottivi, coinvolgerli e far capire loro che c’era qualcosa di profondamente malato nello strappare una bambina alla famiglia che non aveva nessuna colpa. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Castelli, disse che non avrebbe potuto fare nulla perché i giudici avevano totale autonomia».
Poi è arrivata la decisione di scrivere un libro.
«Sì, perché dopo anni la signora Lucanto mi chiamò e mi disse che Angela era tornata. Era il 2006-2007. Io andai subito a conoscerla, perché ero stato molto coinvolto nella vicenda ovviamente. Abbiamo scritto il libro con Caterina Guarneri, che è una brava giornalista e fu fondamentale perché, da donna, riusciva a scandagliare meglio l’animo e certi punti di vista di una ragazzina diventata poi una ventenne. Il libro è stato un parziale risarcimento per i Lucanto, hanno avuto modo di raccontare quello che ha subito Angela nelle case famiglia, che è piuttosto pesante. La storia è raccontata attraverso gli occhi di una bambina dai 7 ai 18 anni e lei attraversa questi 11 anni come un Oliver Twist contemporaneo: soffre, subisce maltrattamenti. Sono convinto e mi auguro che le case famiglia non sono tutte come quelle in cui è passata lei, però a me piacerebbe che i Tribunali per minori fossero non solo più attenti nelle decisioni che prendono, ma soprattutto molto più rigorosi nei controlli sulle case famiglia».
Attraverso i tuoi articoli e le tue inchieste sei riuscito a capire cosa non funzioni nel sistema?
«Intanto a me pare impossibile che il Tribunale dei minori possa agire nella totale indifferenza rispetto a quello che accade nel processo penale parallelo. Nel momento in cui il padre viene dichiarato innocente già in Corte d’Appello, mi domando perché il Tribunale dei minori non tenti di tener conto della sentenza e di rallentare il procedimento di adottabilità della minore sottratta alla famiglia. Il Tribunale dei minori, inoltre, deve comunque garantire un contatto tra la madre e la bambina e tra il fratello e la sorella. Non per nulla la Corte europea dei diritti dell’uomo ha censurato il governo italiano e il ministero della giustizia perché ha impedito i contatti e ha riconosciuto che era stata proprio la decisione della mamma di non “collaborare” con la giustizia alla base del fatto che la bambina fosse stata ingiustamente allontanata da casa sua».
Quindi basterebbe far coordinare il lavoro del Tribunale dei minori con quello ordinario?
«In passato più volte si è pensato a riformare il Tribunale dei minori. Hanno una procedura che secondo me tiene troppo poco conto dell’esigenza delle famiglie, assumono decisioni inaudita altera parte, cioè senza ascoltare le ragioni delle famiglie cui vengono sottratti i bambini. Inoltre quando assumono delle decisioni poi è difficilissimo tornare indietro. Se parli con gli avvocati che si occupano di diritto di famiglia ascolti storie molto dure, a cui non riesci a credere. Si parte spesso da una relazione degli assistenti sociali che viene presa per buona sempre e comunque. Gli errori sono all’ordine del giorno. Occorrerebbe secondo me, soprattutto perché si tratta di bambini, molta cautela. Sicuramente vanno protetti da tanti pericoli, dagli abusi, come stabilisce il codice, ma i giudici dovrebbero essere molto più attenti».
È positivo che sia trasmessa una fiction sull’argomento?
«Penso di sì. È ancora una volta un risarcimento per quello che ha sofferto la famiglia in questione. Io spero che serva anche a far aprire un dibattito e che la politica e la magistratura capiscano che questo sistema non funziona. Ti assicuro che questi errori si ripetono, anche ai nostri tempi. Non è un caso del tutto isolato».
Ci sono altri casi simili?
«Sì, ce n’è anche uno appena successo. La politica deve intervenire, la magistratura deve guardare dentro di sé, capire dove sbaglia e cercare di rimediare i suoi errori. Secondo me dev’esserci comunque una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica su questi temi. È fondamentale che quando un uomo viene arrestato con un ordine di custodia cautelare, l’opinione pubblica non lo giudichi automaticamente colpevole, come se si trattasse di una sentenza di Cassazione. Ogni anno sono 90mila gli imputati prosciolti con formula piena dopo un processo».
Servirebbe uno sguardo più garantista. Ma una parte della politica sembra andare in direzione contraria.
«Sì, è vero. Ma io sono garantista da sempre, e liberale, da quando avevo 12 o 13 anni. Non riesco a capire chi è colpevolista o giustizialista».
“L’Amore strappato? Non è solo una fiction, ecco perché il sistema non funziona”, l’avvocato a TPI. Cristina Franceschini, avvocato e fondatrice della onlus Finalmente liberi, spiega come lo scollegamento tra procure e tribunali per minorenni possa comportare errori e ritardi nell'allontanamento dei minori dalla famiglia, scrive Anna Ditta l'1 Aprile 2019 su TPI. Anna Ditta. Nata a Castelvetrano (TP) nel 1991. Dal 2013 collabora con TPI, dove si occupa di interviste e inchieste. È autrice del libro "Belice" (Infinito edizioni, 2018). Dalla fiction di Canale 5 "L'amore strappato". La storia di una bambina sottratta ingiustamente alla sua famiglia e data in adozione è il tema al centro de L’amore strappato, fiction di Canale 5 con protagonista Sabrina Ferilli, il cui primo episodio è andato in onda domenica 31 marzo. La serie è liberamente ispirata alla vicenda realmente accaduta ad Angela Lucanto e raccontata nel libro “Rapita dalla giustizia” scritto dalla protagonista della storia insieme ai giornalisti Maurizio Tortorella e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009). La storia è quella di un clamoroso errore giudiziario dopo che il padre di Arianna (questo il nome della bambina nella serie tv) viene accusato di molestie sessuali nei confronti della figlia, arrestato e condannato in primo grado, prima di essere assolto in appello e in Cassazione con sentenza definitiva. Nonostante le accuse vengano smontate, Arianna viene data in adozione a una nuova famiglia, dalla quale si separa poco prima di aver compiuto 18 anni per tornare dalla sua famiglia d’origine. Ma davvero in Italia possono accadere casi come quello vissuto dalla famiglia Lucanto? TPI ha intervistato l’avvocato Cristina Franceschini, che si occupa di minori allontanati dalla famiglia e ha fondato l’associazione Finalmente liberi onlus.
Avvocato, in Italia si verificano casi simili a quello di Angela Lucanto? Se sì, con quale frequenza?
«Purtroppo non posso conoscere la frequenza, posso parlare solo dei casi che seguo come avvocato difensore in ambito civile, mentre per il penale mi interfaccio con qualche collega. Posso confermare però lo scollegamento tra procura ordinaria, che magari indaga per maltrattamenti o abusi, e tribunale per minorenni. Questo scollegamento può essere più o meno netto, ma è un dato di fatto.
Quindi ci sono casi in cui il genitore viene assolto in via definitiva, ma il minore non torna alla famiglia?
«Sì, ma faccio anche un altro esempio. Ci sono casi in cui il minore scappa dalla famiglia dicendo di essere stato picchiato, ma poi durante l’incidente probatorio ritratta e dice di essersi inventato tutto perché voleva fare un dispetto. Lo ammette dopo essere stato subito allontanato, quindi senza che la sua versione possa essere stata manipolata da nessuno. Ciononostante, passano comunque mesi o anni affinché possa tornare a casa. Questo non può accadere».
Può farci altri esempi?
«Ho seguito personalmente il caso di un bambino allontanato da casa con una misura d’urgenza dopo una segnalazione partita dalla scuola. Il bambino è caduto mentre si trovava nell’istituto scolastico e ha sbattuto la fronte. Poi è stato assente una settimana per un’influenza intestinale e quando è tornato a scuola aveva gli occhi lividi perché l’ematoma era sceso dalla fronte agli occhi, ed è partita una segnalazione per maltrattamento».
Cos’è che non funziona?
«Lavorando nei tribunali minorili ho potuto constatare tante cose che non vanno. Mi sono anche confrontata con tante ottime realtà, anche di comunità, di servizi sociali buoni. Di certo non voglio puntare il dito contro tutto il sistema, ma se ci sono di mezzo i bambini non deve esserci neanche una cosa che non va. Sarà utopistico, ma se c’è qualcosa che non funziona e la politica viene allertata, bisogna correre ai ripari e rimediare quanto prima. Invece spesso non si sa neanche da dove partire».
Quando può essere disposto l’allontanamento di un minore?
«L’articolo 403 che consente l’allontanamento immediato è generico perché parla di situazione di “abbandono morale o materiale”. Ci sarebbe bisogno di specificare qualcosa di più. Sono state proposte delle modifiche di questa norma ma adesso è tutto fermo. La Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, cui ho collaborato, ha già stilato un documento con tutte le criticità, frutto del lavoro di anni. Ora bisogna intervenire e iniziare a cambiare qualcosa, non nascondere la polvere sotto il tappeto».
Prima parlava di uno scollegamento tra procura ordinaria e tribunale per minorenni. Che intende?
«Questi due organismi intervengono sulla base della stessa segnalazione, proveniente ad esempio dalla scuola o dal pediatra. La procura indaga sui comportamenti dei genitori, per capire se integrano un reato, invece la procura minorile apre un procedimento che va a incidere sulla loro responsabilità genitoriale. Mentre sono in corso le indagini, spesso al tribunale per minorenni non si vengono a sapere neanche i motivi, perché è tutto sottoposto al segreto istruttorio. A volte si ha accesso al fascicolo dopo mesi dall’allontanamento, durante i quali il genitore non sa dove si trovi il figlio e perché gli sia stato tolto. Manca un vero contraddittorio. Inoltre bisogna fare attenzione alla valutazione psicologica del minore e alla valutazione genitoriale: se queste avvengono dopo l’allontanamento, per me sono già inficiate. Dopo le indagini, se emerge che i motivi dell’allontanamento sono fondati viene confermato l’allontanamento, altrimenti il figlio viene riconsegnato alla famiglia. Ma in questo secondo caso vuol dire che non doveva essere tolto. Allora io dico, nel momento in cui ci sono delle condotte incerte, adottiamo misure alternative, in modo da non incorrere in questo errore».
Che intende con “misure alternative”?
«Mi riferisco a progetti diversi. Se ci sono delle difficoltà contingenti nelle famiglie – ad esempio un genitore si ammala e non può seguire i figli al meglio – il servizio pubblico può intervenire in base alla legge sull’adozione e sull’affidamento. L’ente comunale deve fornire tutti gli strumenti possibili per poter crescere il bambino all’interno della famiglia. Ad esempio, se ci sono delle criticità a livello psicologico, bisogna fornire supporto psicologico. Se le difficoltà sono nel quotidiano forniamo assistenza domiciliare. Lo Stato non può togliere il bambino e dire: vediamo, poi casomai te lo ridiamo. Questo ovviamente solo nel caso in cui il problema non sia talmente grave da comportare la misura dell’allontanamento immediato».
Quando viene decretata invece l’adottabilità? Su che basi?
«È il tribunale dei minori che prende provvedimenti sulla responsabilità genitoriale. Quando dichiara decaduta la potestà e il bambino diventa adottabile si apre l’affidamento preadottivo presso una famiglia, che poi diventa adozione quando c’è un riscontro positivo».
Lei ha creato una onlus che si occupa di questi temi. Come mai?
«Per entrare in contatto con le istituzioni e fornire loro qualche referente con cui confrontarsi. Ma la onlus ha fatto soprattutto opera di denuncia e di raccolta dati».
Lei ha denunciato anche conflitti d’interessi tra i giudici onorari minorili e le strutture per minori. Ci può dire qualcosa su questo?
«Ho scoperto che molti giudici onorari minorili lavoravano all’interno di comunità. Già dal 2010 una circolare del Csm vieta ai giudici onorari di avere cariche rappresentative all’interno di comunità, ma nonostante questo qualcuno continuava a farlo. Accadeva inoltre che alcuni di loro lavorassero nelle comunità, magari come psicologi, senza essere dirigenti. Questa situazione, che è un caso di incompatibilità e può creare conflitti d’interessi è stata denunciata in vari articoli, soprattutto di Panorama, grazie al vicedirettore Tortorella. Nel 2015 il Csm si è espresso con una nuova circolare, che vieta ai giudici onorari e ai loro parenti di lavorare all’interno di strutture per minori a qualsiasi titolo, ma mancano i controlli: è lo stesso giudice onorario che autocertifica di non lavorare o non aver lavorato in una comunità, e poi il presidente del tribunale avalla la candidatura. Intanto, così almeno in passato, nei loro curricula caricati online si leggeva che erano anche dirigenti di una comunità quindi se ancor oggi mancano controlli puntuali, non si può aver certezza che non esistano tuttora casi di incompatibilità. Un’altra denuncia che ho fatto dal 2013 è quella di comunità, per lo più a valenza terapeutica, che avevano rette talmente alte da arrivare a 400 euro al giorno per un minore, a fronte di servizi non particolarmente validi. A pagare sono le regioni o i comuni, talvolta con la co-partecipazione dei familiari dei minori».
Quanti minori in Italia sono stati allontanati dalla famiglia?
«Non c’è una raccolta dati esaustiva, anche se l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha chiesto di calcolare il numero dei minori adottabili. Ci sono però delle raccolte parziali. La più recente sostiene che ci siano oltre 20mila bambini in comunità, ma mancano i dati di quelli in affido familiare e il flusso nel relativo anno, dati che per esempio erano presenti in un altro report pubblicato nel 2011 parla di circa 15mila bambini in famiglia affidataria e 15mila in comunità. Si parla inoltre di un flusso di altri 10mila bambini entrati e già usciti dalle comunità nel corso del 2010. Quindi già allora si parlava concretamente di 40mila minori. Ad oggi manca una banca dati certa ed esaustiva, che contenga anche i motivi dell’allontanamento, che sono la cosa più importante. L’unico report che vi fa riferimento è quello del 2011, che parla come motivo principale (il 37 per cento dei casi) di “inadeguatezza genitoriale”, e all’interno di questa percentuale fa rientrare anche i problemi economici. Ma lo Stato non può allontanare i bambini per motivi di indigenza economica (legge 184 del 1983), piuttosto deve mettere a disposizione tutte le risorse possibili affinché il bambino non sia allontanato».
Che riscontro ha avuto finora nella sua attività?
«Ci sono operatori che lavorano con buonsenso, non vogliono far sprecare denaro pubblico né provocare traumi al bambino e si mettono a disposizione della famiglia. Ma ci sono anche quelli in cui trovi le porte chiuse, non si mettono in discussione, e si cerca di trovare comunque una linea comunicativa. Ma intanto passa il tempo. Spesso sono gli stessi servizi sociali che chiedono aiuto nell’interpretare le norme e de-istituzionalizzare il bambino, questa è la più grossa soddisfazione. Quando anche chi lavora nell’istituzione riconosce che c’è qualcosa che non va e prova a trovare una soluzione per il bambino, è la più grande vittoria, proprio perché si tiene ad una vera tutela del piccolo».
Dalla fiction alla realtà: quegli “amori strappati” da tribunali distratti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Aprile 2019 su Il Dubbio. La storia di un padre accusato ingiustamente di pedofilia raccontata da Canale 5. Il papà di Angela venne accusato di abusi sui minori e la bimba allontanata dalla famiglia per essere trasferita in una casa protetta.Ma l’uomo era innocente. La fiction “L’amore strappato”, liberamente ispirata al libro “Rapita dalla giustizia” di Caterina Guarneri e Maurizio Tortorella, ha avuto il merito di attirare l’attenzione su un tema particolarmente complesso quale quello del contrasto ai reati a sfondo sessuale nei confronti dei minori. Lo sceneggiato in onda su Canale 5 racconta la storia di Angela Lucanto, allontanata dalla sua famiglia quando aveva sei anni a causa di un clamoroso errore giudiziario. Suo padre Salvatore venne accusato di molestie su minori ed arrestato il 24 novembre 1995. Angela, prelevata dai carabinieri mentre era a scuola, venne subito allontanata dalla famiglia per essere trasferita lontano in una casa protetta. Il padre, dopo aver passato due anni in carcere, nel 2001 venne però assolto dalla Cassazione per non aver commesso il fatto. I giudici di piazza Cavour appurarono infatti che la testimonianza della cugina della figlia, su cui si fondava l’accusa di pedofilia a suo carico, era completamente inventata. Nel frattempo Angela era stata affidata ad un’altra famiglia da cui venne poi anche adottata. Solo nel 2006, ad oltre dieci anni dall’arresto del padre e dopo un iter difficilissimo, la ragazza riuscì a rintracciare i propri genitori naturali. Errori giudiziari nelle indagini sui reati sessuali non sono purtroppo infrequenti. Il motivo è legato essenzialmente al modo in cui vengono condotte le indagini. Le sezioni specializzate su questi crimini negli Uffici giudiziari esistono solo da pochi anni. E lo stesso dicasi per i comandi di polizia e carabinieri che devono svolgere questo tipo di accertamenti. La particolare efferatezza di tali condotte delinquenziali necessita di inquirenti ed investigatori preparati, in grado di muoversi su un terreno reso delicatissimo dal reato stesso. I reati sessuali su minori, infatti, nella quasi totalità dei casi hanno la vittima come unico testimone. O, vedasi il caso di Angela, un coetaneo o un compagno di giochi. L’accusa ingiusta di essere un pedofilo è una macchia indelebile. Chi viene assolto esce comunque con la vita distrutta ( specie se è stato sottoposto alla carcerazione preventiva, dove i reati sessuali in genere sono gli unici per cui gli altri detenuti non applicano la presunzione di innocenza). Il Consiglio superiore della magistratura ha sul punto redatto delle best practice a cui attenersi nella conduzione dell’attività investigativa. Si ricorda nella scorsa consiliatura il lavoro, anche per quanto attiene la violenza di genere, della presidente della Sesta commissione Paola Balducci. Ma oltre ad una sempre maggiore specializzazione degli inquirenti non è da sottovalutare il ruolo degli assistenti sociali e degli psicologi. A tal proposito il Governo ha in agenda un approfondimento dell’intero comparto. Alcune proposte di modifiche sono state presentate in Parlamento. E non bisogna dimenticare il ruolo dei Tribunali per i minorenni su cui, ciclicamente, si apre la discussione per una loro chiusura, con conseguente assorbimento delle funzioni da parte dei Tribunali ordinari. C’è da augurarsi che una volta incardinati i lavori parlamentari, interrotti nella scorsa legislatura, essi procedano spediti. Per evitare il ripetersi di errori giudiziari come quelli raccontati nella fiction “L’amore strappato”.
Il giudice dimentica la perizia che assolve il papà accusato di pedofilia. L’uomo era stato condannato per presunti abusi nei confronti della figlia di due anni, scrive Simona Musco il 9 Marzo 2018 su Il Dubbio. Una perizia sconfessata dalla comunità scientifica e prove mai analizzate. Sono questi gli elementi che hanno portato alla revisione del processo per un imprenditore di 45 anni, condannato in via definitiva a sette anni e mezzo con l’accusa infamante di aver abusato della propria figlia, all’epoca dei fatti di soli due anni. Oggi per l’uomo si terrà la prima udienza del processo di revisione davanti alla Corte d’Appello di Brescia, chiamata a decidere se analizzare o meno le nuove prove che la difesa ha presentato convinta della sua innocenza. A partire dalle dichiarazioni di Claudia Squassoni presidente del collegio di Cassazione che rigettò il ricorso presentato da quel padre mettendo in cassaforte la condanna -, pronunciate durante un convegno all’università Bicocca il 14 ottobre 2016. Durante quel dibattito, Vittorio Vezzetti, pediatra ed ex consulente del condannato, parlò del caso e delle sue incongruenze, facendo saltare sulla sedia il giudice. «Se nel ricorso in Cassazione fossero state fatte le eccezioni che ha fatto il dottore disse Squassoni -, naturalmente avrebbe avuto un risultato diverso». Ma nel fascicolo c’era tutto. E ora tutto è stato riscritto nell’articolata richiesta di revisione firmata dall’avvocato Cataldo Intrieri, «basata sull’acquisizione di decisive prove scientifiche». Una richiesta accolta a luglio scorso e che contiene, tra le altre cose, la prova che la perizia che ha inchiodato l’uomo in tribunale non era scientificamente credibile. A stabilirlo una sanzione disciplinare inflitta il 26 gennaio 2017 dall’ordine degli psicologi della Lombardia al perito nominato dal tribunale di Como, censurato proprio per il suo lavoro in questo processo. La bambina, che oggi ha 9 anni, non ha infatti confermato nessun elemento dell’accusa durante l’incidente probatorio, definito perciò dal tribunale «deludente ed al di sotto delle aspettative, un insuccesso». I magistrati, dunque, chiedono un’altra perizia. Il nuovo consulente stila una relazione che ruota attorno alla fatidica domanda «dove ti ha fatto male papà?». Ma per l’ordine degli psicologi è inaccettabile, un manuale di tutto ciò che non andrebbe fatto. E dunque punisce il perito, che con quel documento, di fatto, ha accertato un disturbo clinico nella bimba giustificabile con un abuso. Il dottore, nel corso dell’audizione davanti all’ordine, fa un passo indietro, smentisce la sua relazione, ammette di non essere riuscito a effettuare una «intervista cognitiva» della piccola. Impossibile, dunque, dire cosa sia successo tra lei e il padre. E così tenta di sminuire il peso della sua perizia nel processo. Quella stessa perizia, sostiene Intrieri, che ha invece fatto condannare l’uomo. Ma non solo: i giudici che lo hanno giudicato sono gli stessi del caso Renato Sterio, accusato dalla moglie e dalla suocera e condannato nel 2005 per i presunti abusi sulla figlia di 4 anni. Scontò l’intera condanna prima di una revisione del processo e prima di essere riconosciuto innocente. Una coincidenza strana, per Intrieri: «Molto difficilmente diversi giudici avrebbero assunto le stesse decisioni». Gli abusi si sarebbero consumati nel 2010, nel periodo in cui i genitori della bambina decidono di separarsi. La situazione è ingarbugliata e conflittuale e i due si contendono l’affidamento della piccola. A luglio 2010 madre e nonna materna riferiscono alcune frasi che sarebbero state pronunciate dalla bimba e che testimonierebbero l’orrore: gli abusi compiuti dal padre utilizzando anche delle torce elettriche, sulle quali, però, non sono mai state eseguite analisi per rintracciare residui biologici. A supportare l’orribile tesi c’è la visita della pediatra di famiglia, che dopo aver «osservato – per sua stessa ammissione – “con un’occhiata” i genitali ne constatava la tumefazione ritenendola “compatibile”» con un abuso. Un esame avvenuto senza alcun criterio scientifico, senza referti né foto e senza nessuna esperienza pregressa del genere. «L’aspetto fondamentale di questa vicenda – spiega Intrieri – è che da un lato c’è la scienza, della quale non si tiene conto, dall’altra i giudici, che decidono di valutare secondo i propri parametri, svalutando il primo perito, che aveva evidenziato l’assenza di segni di trauma, e accogliendo le deduzioni del secondo, poi sconsacrato dal suo stesso ordine, fatto di scienziati. La cosa più drammatica – conclude – è il rifiuto che si possa mettere in dubbio la credibilità della parte offesa, sacrificando le garanzie costituzionali della difesa. Ad essere negata è ogni astratta possibilità di rigettare le accuse, basate su una perizia che crollando smonta tutto. Come se le prove scientifiche, in questo tipo di processi, non contassero nulla».
Palermo, accusato di abusi dalle figlie: assolto per due volte. Due processi in trent'anni per lo stesso reato. Il giudice ribalta la sentenza di primo grado dopo l'ultima denuncia, scrive Romina Marceca il 22 febbraio 2019 su La Repubblica. Accusato per due volte di avere abusato delle figlie, assolto per due volte nel giro di trent'anni. E' la storia di un padre di 57 anni, un operatore sociosanitario in un ospedale di Palermo. Per due volte è finito sotto processo per violenza sessuale. Nel primo caso era stata una figlia nata dal primo matrimonio, nel secondo è stata l'altra figlia di 13 anni. Il giudice della terza sezione d'appello Antonio Napoli ha assolto stamane il genitore perché il fatto non sussiste. La seconda vicenda ha inizio nel 2015 durante una lezione a scuola. Il tema trattato era la violenza sulle donne. La professoressa avrebbe notato un disagio da parte di una studentessa mentre veniva affrontato il tema. Era arrivata così una segnalazione alla psicologa dell'istituto. La giovane ha raccontato delle presunte violenze che sarebbero andate avanti per circa tre anni. Inizialmente la procura aveva archiviato. Poi dopo l'opposizione si era celebrato il processo con il rito abbreviato e il giudice aveva condannato il padre a 4 anni e 4 mesi. In appello sono state prodotte numerose prove da parte dell'avvocato Laura Salvaggio che hanno convinto i giudici dell'innocenza dell'imputato. Le false accuse mosse dalla ragazza sarebbero state dettate da un forte risentimento nei confronti della famiglia. Ma c'è di più. "Le accuse della figlia erano identiche a quelle rivolte dalla sorellastra anni fa, quasi un copione che si ripeteva", dice l'avvocato Laura Salvaggio. L’imputato scagionato oggi era già stato accusato alla fine degli anni Novanta anche da un’altra figlia, nata da un precedente matrimonio. Venne assolto in primo grado in quel caso. Il padre, secondo il racconto della seconda figlia, avrebbe abusato di lei anche davanti al fratello che, però, ha dichiarato di non avere mai visto nulla. Troppe incongruenze. Anche sulla fine delle violenze, cessate solo con uno schiaffo dato dalla figlia al padre.
· Sempre più anziani malati costretti alla contenzione.
Sempre più anziani malati costretti alla contenzione. Oltre a quella meccanica è molto diffusa anche quella farmacologica. Il garante ha avviato un monitoraggio e visite alle residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare il rischio di privazione della libertà, scrive Damiano Aliprandi il 16 Aprile 2019 su Il Dubbio. Dai bracciali per immobilizzare polsi e caviglie, alle fasce addominali per bloccare al letto o alla carrozzina, alle fasce pelviche, ai corsetti con bretelle o con cintura pelvica; ai tavolini per carrozzina, a vari tipi di camicie, come i “fantasmini”, che si indossano come una maglia lasciando libere braccia e mani ma impedendo alla persona di alzarsi dal letto. Parliamo della contenzione degli anziani. Molto si è dibattuto – anche se non basta mai – sull’utilizzo eccessivo della contenzione per i pazienti psichiatrici, poco però per gli anziani. Oltre alla contenzione meccanica, esiste – spesso in aggiunta – anche quella farmacologica. Si parla di quest’ultima quando i farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale sono finalizzati a limitare o annullare la capacità motoria e di interazione dell’individuo. Si tratta spesso di farmaci sedativi, antidepressivi e antipsicotici, che, in dosi eccessive, hanno numerosi effetti collaterali, quali sopore, confusione, agitazione. L’uso della contenzione è aggravato dallo stato di fragilità delle persone anziane. All’aumento di aspettativa di vita non corrisponde ancora un miglioramento della qualità della stessa, e la gran parte degli anziani negli ultimi 3/ 5 anni di vita è affetta da malattie invalidanti e demenze senili: sono questi i soggetti più colpiti dalla contenzione. Il fenomeno però è sommerso e i dati sono molto scarsi, poiché in Italia sono ancora pochi gli studi che analizzano la complessità del fenomeno anche da una prospettiva etica e deontologica. I primi a fare i conti, anche dal punto di vista umano, sono gli operatori sanitari. Solo nel 2010 c’è stato uno studio, in Lombardia, condotto dai tre collegi della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri Ipasvi di Aosta, Brescia e Milano- Lodi- Monza e Brianza, dal quale era emersa una prevalenza della contenzione fisica del 15,8% su 2.808 degenti nelle unità di chirurgia, geriatria, medicina, ortopedia e terapia intensiva e del 68,7% su 6.690 residenti nelle Rsa, le residenze sanitarie assistenziali. Lo studio qualitativo ha dato voce agli infermieri sulle convinzioni, anche da una prospettiva etica e deontologica, sui fattori ostacolanti e soprattutto quelli che favorirebbero una riduzione di tale pratica. Gli intervistati hanno riportato una varietà di emozioni associate all’uso della contenzione fisica, spesso ambivalenti e contrastanti, espresse nei confronti di diversi soggetti ( familiari, altri operatori e responsabili istituzionali), tra cui: la rabbia, la pena, l’angoscia, la tristezza, l’imbarazzo, il sollievo/ tranquillità, la sensazione di prevaricazione, il senso di impotenza, il fallimento e la soddisfazione. L’immedesimazione con il paziente contenuto è il sentimento più forte e più frequentemente citato, anche in termini di proiezione futura di sé. Per il processo decisionale, ricordiamo, l’infermiere assume un ruolo strategico all’interno dell’equipe assistenziale, soprattutto per la posizione di garanzia che ha nei confronti dei cittadini. La contenzione degli anziani è una privazione della libertà, proprio per questo l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà ha da tempo avviato un monitoraggio e delle visite a residenze per persone con disabilità o anziani ove si possa configurare il rischio di privazione della libertà, appunto, de facto. Un monitoraggio non facile visto le tipologie di residenze diffuse su tutto il territorio. «Tale capillarità – si legge nell’ultimo rapporto del Garante – unita a un’articolazione regionalizzata del sistema socio- sanitario, con quel che consegue in termini di differenti normative tra una Regione e l’altra, suggeriscono l’utilità d’un lavoro di rete che coinvolga i Garanti territoriali».
Casa-lager, anziani violentati e seviziati. I pianti delle vittime derise: "Quando vuoi torno". Arrestati il titolare, accusato di aver abusato di un'ospite, e tre operatrici di una struttura sull'Appennino bolognese. Intercettazioni da brividi, la Regione chiede il massimo della pena e una nuova normativa nazionale per prevenire casi simili, scrive il 19 febbraio 2019 La Repubblica. Ci sono anche due episodi di violenza sessuale ai danni di un'anziana fra i maltrattamenti scoperti dai Carabinieri nella casa famiglia "Il fornello" di San Benedetto Val di Sambro, sull'Appennino bolognese. La struttura - aperta da circa un anno - è stata sequestrata ieri sera al termine di un blitz dei militari della compagnia di Vergato, che da qualche mese avevano avviato indagini, anche con l'utilizzo di telecamere nascoste che hanno ripreso "immagini strazianti": anziani percossi, lasciati al freddo e con cibo insufficiente, derisi e umiliati. A carico del titolare, un 52enne bolognese che è finito in carcere, c'è appunto anche l'accusa di violenza sessuale per avere abusato in due occasioni di una ospite. Gli altri tre provvedimenti, agli arresti domiciliari, hanno raggiunto la moglie 53enne dell'uomo e due operatrici sanitarie. Tutti gli ospiti della struttura sono stati ricollocati dall'Azienda sanitaria, d'intesa con il Comune.
Il gip: "Violenze sistematiche". "Una continuità sistematica di violenze fisiche e psicologiche, consistenti in umiliazioni, mortificazioni, ingiurie e abusi emotivi". E' un passaggio dell'ordinanza con cui il Gip di Bologna Alberto Ziroldi ha disposto le quattro misure cautelari. Oltre ai filmati che documentano percosse e abusi sessuali, agli atti dell'indagine ci sono diverse intercettazioni ambientali. "Vedrai che dopo ti passa, tra un po' parti", dice ridendo una delle operatrici a un'anziana degente, con un'infelice battuta sul tempo che le resta da vivere. Altre intercettazioni riportano insulti e minacce agli ospiti, oltre a rumori di schiaffi e pianti disperati degli anziani. Anche gli abusi sessuali commessi dal titolare 52enne della struttura su una anziana non autosufficiente sono documentati in almeno due occasioni. Nelle intercettazioni si sentono i pianti della donna e la voce dell'uomo che, al termine, le dice: "Quando vuoi lo torniamo a fare".
La Regione: "Serve il massimo della pena". Per l'assessore regionale alla Sanità Sergio Venturi "tutto questo è indegno, inaccettabile. Non trovo altre parole per definire tanta violenza e tanto accanimento nei confronti di persone così fragili e indifese, come sono gli anziani non autosufficienti. Se i fatti saranno confermati, queste persone meritano il massimo della pena". Di fronte al ripetersi di episodi “davvero ignobili”, ribadisce Venturi, la Regione Emilia-Romagna chiederà di modificare la legislazione nazionale per consentire controlli preventivi, prima di autorizzare l’apertura di Case famiglia, soprattutto alle amministrazioni comunali e alle Aziende sanitarie. "Ringraziamo l’operato di Procura e Carabinieri- prosegue Venturi-, che hanno portato alla luce quanto stava accadendo. Come Regione, a legislazione vigente, abbiamo fatto tutto il possibile, attraverso le Linee guida condivise con i Comuni dell’Anci e le organizzazioni sindacali, per tutelare gli ospiti delle Case famiglia, prevedendo attività strutturate di vigilanza e controllo, senza preavviso né limiti di orario, per verificare non solo il possesso e il mantenimento degli standard richiesti, ma anche per scongiurare episodi di abusi e maltrattamenti. Abbiamo previsto la creazione di specifici elenchi comunali con le strutture d’eccellenza, le cosiddette ‘Case famiglia di qualità’, che, su base volontaria, e non avremmo potuto fare diversamente, dimostrino di possedere elementi in più per migliorare la qualità della vita e l’assistenza degli ospiti". “Purtroppo, un caso come quello di San Benedetto ci dice che tutto ciò che abbiamo messo finora in campo, tanto rispetto alle competenze oggi definite, non basta ancora: servono ulteriori strumenti per intercettare eventuali rischi. Per questo- annuncia l’assessore- chiederemo una modifica della legislazione nazionale per consentire a Comuni e Aziende sanitarie di effettuare controlli e verifiche su gestore, ambiente di vita e personale prima di autorizzare l’apertura di nuove Case famiglia, mentre attualmente non è così”.
Il vescovo: "Anziani sono un business". "Il problema degli anziani è e sarà un problema enorme, servono tanti controlli e tanta attenzione. Perché, purtroppo, gli anziani sono anche un business e dobbiamo davvero avere tantissima attenzione. E difendere la vita dall'inizio alla fine": è il commento sulla vicenda dell'arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, interpellato a margine di un convegno.
· Matti da Slegare.
Pino: un'infanzia e una vita rubata da un manicomio. Le Iene il 02 dicembre 2019. Giuseppe Astuto, per tutti Pino, ha 61 anni e ci racconta la sua storia tragica e assurda, degna di un film. A soli 9 anni viene portato al manicomio. Il paradosso: non è mai stato malato di mente e nemmeno adesso lo è. Una storia innocente e tenera della sua infanzia l’ha portato all’esito drammatico: “Pino è malato e va portato all’ospedale”. Succede un giorno del 1967 in cui Pino viene mandato dalla sua mamma a comprare il pane. La povertà, la disperazione e la fame lo spinge a mangiare quella pagnotta. Tra gli schiaffi e le miserie della sua famiglia, Giuseppe ha paura di tornare a casa perché “menavano a volte i genitori”. Decide di tornare indietro e di rubare un altro pane per portarlo a casa sua e non si accorge che in quel momento rimane chiuso dentro. Quel buio segnerà per sempre la sua vita. Tra le bontà che Pino non ha mai visto a casa sua: carne, formaggio, castagne, inizia ad assaggiare tutto di quel “paradiso” e si addormenta lì. La mattina dopo viene ritrovato dai carabinieri accompagnati dalla sua mamma con un esito del tutto inaspettato: “Signora Teresa, vostro figlio non lo vedrete più”. E con questa frase, Pino si ricorda anche adesso il sollievo di sua madre: “Non mi ha mai potuto vedere, io non lo so perché”. È il grido disperato di quei ricordi. Perché la madre non prova nemmeno a salvare suo figlio da quel posto che gli rovinerà la vita: il manicomio. Quel posto crudele se lo ricorda purtroppo perfettamente: grate alte di 20 metri, medici e malati psichiatrici gravi. Pino è un bambino sano che non c’entra niente con quel mondo. La cartella clinica del 1967 riporta: “Diagnosi: carenza affettiva, ricoverato per ragioni umanitarie”. Di umanitario in questa storia non c’è proprio nulla. “Mi hanno spogliato nudo e con una scopa lunga di due metri mi hanno spinto sotto la doccia. Erano schifati”, racconta Pino alla Iena. Senza scarpe per 7 anni, senza cibo per 20 giorni, in condizioni disumani e trattato da malato. Il più giovane a parte lui aveva 40 anni. “Dormivano due persone in un letto. Magari era pulito, magari qualcuno faceva la pipì mentre dormiva”. Poi c’erano le pillole chiamate “caramelle” per calmarlo, legato al letto come una persona che va curata. Così passa la sua infanzia. Quando Pino chiede quando sarà liberato, sente sempre la stessa frase: “Lunedì te ne vai”, ma quel lunedì non arriva mai. “Per me era una vita perduta, non c’erano speranze”, dice Giuseppe. Il suo corpo e la sua mente, anche se abituati a quel ambiente, non perdono la lucidità. Nel 1978 la legge Basaglia chiude i manicomi e salva anche il bambino Pino ormai diventato uomo. Il mondo là fuori però lo guarda come un pazzo ricoverato: è ancora più difficile per Giuseppe che non è mai stato malato. Ci vorranno un po’ di anni per farlo capire agli altri. Anche i medici si rendono conto dell’ingiustizia. Giuseppe è un ragazzo libero, ma ostaggio della sua vita, impreparato ad affrontarla. “Dove andavo io? Era troppo tardi per me”, dice Pino. Uscire dall’ospedale psichiatrico è una sfida. Nel 1999 Giuseppe Astuto lascia per sempre il manicomio. La paura di quella vita tutta da ricostruire prevale sulla felicità, tanto che richiede di essere accolto di nuovo all’ospedale ma viene rifiutato. Dopo tanti anni, torniamo con Giuseppe al manicomio. “Questo era il reparto più brutto che esisteva nel mondo. Un camerone intero con 200 persone”, dice Pino. Del manicomio oggi non è rimasto molto, ma Pino si ricorda ogni angolo di quella struttura. La vita di Giuseppe Astuto non è stata ancora ristrutturata, è una vita a metà. Anche se non è stato cresciuto con amore, ha comunque imparato ad amare grazie a sua moglie Angela. Non riesce a fidarsi di nessuno, tutto per la colpa delle schegge di quel passato. Adesso Pino vive in una casa popolare che ha sistemato con le sue mani. Realizza un sogno nel cassetto che fa tenerezza, colleziona penne: “Tutte le penne che non ho avuto a scuola”. Sono sogni rubati da quel manicomio del 1967. Non sa scrivere niente a parte il suo nome e vive con una misera pensione di 270 euro. Se dovesse avere tantissimi soldi, l’unica cosa sarebbe fare felice la sua Angela: “La voglio vedere con il vestito elegante, con la piega e con i denti”. Purtroppo il tempo che gli è stato rubato non può tornare indietro. È riuscito a chiedere solo un risarcimento: 50mila euro per il danno di non essere stato inserito in una famiglia. Soldi e cifre che non potranno mai recuperare la sua vita. A Pino sono mancate tante cose: la scuola, l’affetto, il mestiere, cibo decente. Noi vorremmo aiutare questo signore, soprattutto il bambino che vive dentro di lui. Così decidiamo di portarlo a scuola per imparare a leggere e scrivere. Giuseppe Astuto, dopo tanti momenti di scetticismo e paura, accetta la nostra sfida. lo accompagniamo a scuola. Ci ricordiamo anche di sua moglie Angela e facciamo quello che vorrebbe farlo Pino, solo se avesse le possibilità: la portiamo dal parrucchiere per farle una piega. Abbiamo passato qualche giorno insieme a Giuseppe e abbiamo visto sul suo viso nuove speranze, felicità e voglia di vivere. Con la tenerezza di chi ne ha sofferto tanto ci ha insegnato molte cose, a modo suo.
Pino al primo giorno di scuola, ecco come aiutarlo. Le Iene il 02 dicembre 2019. La commovente storia di Pino Astuto ha toccato tanti di voi. A soli 9 anni Giuseppe è stato portato in manicomio. Il paradosso: non è mai stato malato di mente e nemmeno adesso lo è. Questo incubo gli ha rubato tante cose: la scuola, gli affetti, il mestiere e il cibo decente. Noi abbiamo deciso di aiutarlo. Qui sotto trovate come aderire alla raccolta fondi aperta dal suo avvocato Serenella Galeno. Giuseppe Astuto, per tutti Pino, ha 62 anni e tanti sogni nel cassetto. La sua infanzia è stata rubata da un manicomio. Mangia una pagnotta e viene rinchiuso da piccolo tra i malati psichici. Adesso vive con una misera pensione di 270 euro e l’unica cosa che desidera è fare felice la sua Angela. Con la tenerezza di chi ha sofferto ci ha insegnato molte cose, a modo suo. Noi proviamo ad aiutare quest’uomo straordinario (clicca qua per aderire) e dopo tanti momenti di scetticismo e paura, Pino accetta la nostra sfida. Nina Palmieri lo accompagna a scuola e realizziamo così il suo desiderio di potere scrivere e leggere. Nella foto sopra potete vedere Pino al primo giorno di scuola e sul suo viso vediamo fiorire nuove speranze. In tantissimi ci avete scritto per sapere come aiutare Pino con le esigenze di tutti i giorni e per dare una vita dignitosa anche alla moglie. E in queste ore è partita la raccolta fondi su GoFundMe. “La campagna è stata lanciata dall’avvocato Serenella Galeno, avvocato di Pino Astuto", si legge sul sito, "il quale sarà l’unico beneficiario della raccolta fondi e tutto il denaro raccolto sarà destinato a fronteggiare esigenze primarie atte a garantirgli lo svolgimento di una vita quanto più possibile dignitosa e serena”, scrive su GoFundMe.
Sleghiamo i "matti". Non si può ma in molti ospedali alcuni pazienti psichiatrici vengono immobilizzati per ore, con tutti i rischi del caso. Giorgio Sturlese Tosi il 12 novembre 2019 su Panorama. «Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi». Era il 1909 quando il Regio decreto n. 615 vietava la «contenzione meccanica» sui pazienti con disturbi psichici. Centodieci anni dopo la questione, invece di risolversi, è diventata emergenza. Il 13 agosto scorso Elena Casetto, 19 anni, brasiliana nata a Milano dal sorriso carioca e la pelle scura, muore bruciata nel reparto di psichiatria dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo. I responsabili del nosocomio dicono che aveva appena tentato di impiccarsi con un lenzuolo. Tre infermieri l’hanno bloccata e tentato di calmarla. Ma nessuno aveva ancora formulato una diagnosi: era arrivata in reparto solo cinque giorni prima...Elena ha un passato difficile, scrive belle poesie, ma nessuno sa quali ombre attraversino i suoi pensieri. Viene portata di peso al letto, immobilizzata, legata mani, piedi e torace alle sbarre. Si decide di sedarla. Poi, in attesa che il sedativo faccia effetto, gli infermieri escono e chiudono la porta a chiave. Elena è sola, agitata, immobilizzata. Ma riesce a muovere una mano e a usare un accendino che tiene nascosto addosso. Le fiamme attaccano il pigiama, le lenzuola e il materasso. Quando scatta l’allarme antincendio e l’infermiere va a vedere cosa succede è ormai tardi. Sono i vigili del fuoco, spente le fiamme, a trovare il suo corpo carbonizzato. Elena era caduta dal letto, forse nel tentativo di salvarsi. Una caviglia era ancora legata alla sbarra. Le indagini sulle cause della morte sono affidate alla polizia e il pubblico ministero di Bergamo, Letizia Ruggeri, ha disposto perizie tecniche che a giorni arriveranno sul suo tavolo. L’Azienda sanitaria ha frettolosamente parlato di suicidio, ma se Elena avesse tentato di liberarsi dalle fasce di contenzione bruciandole? Al «Papa Giovanni XXIII» dicono che tutto era a norma, che il reparto era organizzato in modo esemplare, che nonostante fosse Ferragosto l’organico bastava per gestire i 30 posti letto di psichiatria. Col senno di poi, qualcuno dice che «se avessimo in dotazione maschere antigas come quelle dei pompieri, avremmo potuto salvarla». «Non si può rispondere al dolore legando chi soffre» sottolinea Giovanna Del Giudice, psichiatra di fama internazionale, presidente della Conferenza permanente salute mentale e allieva di Franco Basaglia, il padre della Legge 180 del 1978 che prevedeva la chiusura dei manicomi. «Non studiamo per anni psichiatria e psicologia all’università per legare i pazienti. Oggi si parla solo delle morti per contenzione di cui veniamo a conoscenza, ma i decessi sono molti di più». Secondo l’associazione «…E tu slegalo subito!», che ha chiesto in proposito un incontro al ministero della Sanità Roberto Speranza, il caso di Elena Casetto è solo l’ultimo decesso registrato nei servizi psichiatrici ospedalieri. Almeno altri due sarebbero le morti negli ultimi 14 mesi. Il 3 settembre 2018, a Sassari, è morto Paolo Agri, 30 anni, dopo essere stato legato mani e piedi per giorni. Il 23 dicembre 2018, invece è stata la volta di Agostino Pipia, 45 anni, deceduto dopo una contenzione all’Ospedale della «Santissima Trinità» di Cagliari. Insomma, in attesa delle conclusioni di indagini e delle sentenze, «di contenzione» in Italia si muore. E la pratica, sommersa e diffusamente utilizzata, non riguarda solo i pazienti psichiatrici, ma - come denuncia lo stesso Comitato nazionale per la bioetica della Presidenza del consiglio dei ministri - «anche i minori ricoverati in strutture per problemi di disabilità mentale o fisica e anziani degenti in ospedali o in strutture residenziali assistite». Nel 2015, proprio il Comitato nazionale di bioetica si era espresso per il superamento della contenzione nei confronti di persone con problemi di salute mentale e degli anziani, come stabilito dalla Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità nel 2006, ratificata, ma solo sulla carta, dal governo italiano nel 2009. In molti Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) vi si ricorre spesso, invocando a sproposito gli stati di «necessità e urgenza» che ammettono la pratica di legare i pazienti ma solo come extrema ratio, quando cioè ci sia un grave, concreto e immediato pericolo per lo stesso malato, per altri ricoverati o per il personale dell’ospedale. Ma anche in quei rarissimi casi la contenzione è consentita solo per il tempo strettamente necessario e sotto costante monitoraggio sanitario. Eppure, se esistono anche strutture psichiatriche che hanno bandito la contenzione, significa che se ne potrebbe fare a meno. La professoressa Mara Tognetti, con l’OsMeSa, «Osservatorio e metodi per la salute» dell’Università Milano Bicocca, da anni studia il fenomeno. Ed è pessimista. «Registriamo un progressivo incremento del ricorso alla contenzione meccanica. Talvolta per fronteggiare il calo degli organici nelle strutture psichiatriche e l’aumento di pazienti, compresi gli anziani con demenza senile, per i quali la costrizione fisica diventa una vera pratica di cura». Per Tognetti c’è però anche un problema di sensibilità degli operatori che «ricorrono alla contenzione in modo improprio». Ossia illegale, contro la legge e la giurisprudenza. La Cassazione, infatti, nel novembre 2018 è stata chiamata a decidere sulla vicenda processuale dei medici e degli infermieri coinvolti nel caso del maestro Franco Mastrogiovanni, morto nel 2009 nel presidio ospedaliero «San Luca» di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, dopo essere stato legato mani e piedi per 96 ore. Per i giudici della Suprema corte, che hanno condannato sei medici e undici infermieri, «l’uso della contenzione meccanica non ha finalità curative né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente, anzi può concretamente provocare lesioni anche gravi all’organismo». Ma cosa ne pensano gli infermieri? Il loro codice deontologico, varato nel 2019, pur riconoscendo che «la contenzione non è un atto terapeutico», stabilisce che può essere attuata «anche dal solo infermiere se ricorrono i presupposti dello stato di necessità», perché «essendo un atto contenitivo e non terapeutico non è subordinato alla decisione del medico». Quindi si può legare un paziente, o un anziano, anche senza l’ordine e il controllo dello specialista. Ammette Nicola Draoli, consigliere della Federazione nazionale degli infermieri: «In Italia mancano dai 50 ai 70 mila infermieri su un organico di 450 mila e il rapporto tra personale e pazienti fissato dalle Regioni è sempre più sbilanciato. Il problema è anche culturale e di formazione». Così, di fronte a difficoltà oggettive, capita che sia più semplice ricorrere alla contenzione. Del resto le Regioni dovrebbero destinare il 5 per cento della spesa sanitaria alla salute mentale; invece, quando va bene, si arriva al 3,5 per cento. Quasi inesistente, poi, l’attività dei presidi territoriali. Il 75 per cento delle prestazioni medico-sanitarie a pazienti psichiatrici viene erogata nei reparti ospedalieri e appena l’8 per cento negli ambulatori territoriali di salute mentale. Questi dati, estratti dal Rapporto salute mentale del ministero della Salute, raccontano quanto poco si faccia per intercettare precocemente i disturbi mentali. Che crescono e riguardano fasce di popolazione sempre più giovane. Le cifre appena diffusi dalla Società italiana di psichiatria sono allarmanti: nel 2017 ci sono stati oltre 92 mila ricoveri e 600 mila accessi al pronto soccorso per patologie psichiatriche, la metà dei quali avrebbe dovuto essere trattata dai servizi territoriali. Di contro, il 10 per cento del corpo medico è andato in pensione e non è stato rimpiazzato: 600 erano psichiatri. Sempre secondo la Società italiana di psichiatria, i pazienti bisognosi di cure sono arrivati a 851 mila, in costante aumento per gli abusi di alcol e droga e i disturbi alimentari, e per i casi di migranti con disturbi cognitivi e di anziani con alterazioni comportamentali. Un esercito di persone che avrebbe bisogno di diagnosi e cure attente, invece diventano cronici e finiscono per ingolfare i reparti psichiatrici dove la contenzione viene talvolta praticata come alternativa a veri processi di cura. Come Elena, curata con le fasce e morta in ospedale.
· Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi.
La storia di Tarcisio Manna, paziente psichiatrico ucciso dai maltrattamenti. Rossella Grasso il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. “Voglio raccontare questa storia, lo devo a mio fratello Tarcisio, paziente psichiatrico, morto dopo essere stato vittima di tante violenze”. Si porta dentro tanta rabbia Nunzia Manna, per tutto ciò che suo fratello ha subito, strappato dalla famiglia e trasportato tra case di cura “lager” e reparti di psichiatria. “È per il suo bene”, dicevano tutti, ma i segni delle botte subite e dei sedativi assunti in eccessiva abbondanza indicavano tutt’altro. E alla fine il 2 luglio del 2018 Tarcisio è morto mentre stava nuotando. “Nessuno mi toglie dalla testa che Tarcisio è morto a causa di quello che gli hanno fatto patire negli ultimi due anni di vita. Potrei definirlo omicidio ambientale, dove nessuno ha commesso l’azione decisiva ma tutti hanno contribuito a far rotolare le cose in quella direzione – dice Nunzia – e il peggio è che le istituzioni per noi sono state un muro di gomma”. “Mio fratello Tarcisio era un paziente psichiatrico – continua Nunzia – I primi segni di squilibrio si erano manifestati dopo aver fatto il militare”. Per questo motivo era stato preso in carico della psichiatria di Fano, città dove risiedeva insieme alle sorelle. Non era un paziente grave, era autonomo tant’è che guidava l’auto e lavorava in un centro diurno dove si occupava di giardinaggio, le piante e la Juventus erano le sue grandi passioni. Oltre a lavorare, partecipava alle attività di un gruppo buddista. “Nel 2017, però a 64 anni, la sua condizione psichica mutò aggravandosi a causa di ripetute crisi deliranti. Noi siamo in dieci tra fratelli e sorelle – racconta Nunzia – e prendere decisioni su mio fratello che mettessero tutti d’accordo non era facile. Allora abbiamo deciso di rivolgerci al Giudice Tutelare per richiedere l’aiuto di un amministratore di sostegno, una persona super partes che potesse aiutarci a fare il meglio per Tarcisio. Ce ne fu affidato uno bravo, ma purtroppo, dopo poco, per motivi suoi rinunciò all’incarico. Dopo di lui arrivò un’avvocatessa, il suo arrivo coincise con l’inizio del calvario di mio fratello. Fin da subito lavorò per rinchiudere mio fratello in una struttura, in modo da liberarsi di tutti i problemi che con una gestione domiciliare del paziente avrebbe dovuto affrontare”. Così Tarcisio, senza alcun preavviso, fu allontanato dal centro diurno dove lavorava. Di lì a poco si ritrovò in casa solo e fisso davanti al televisore. Nunzia racconta che in quel periodo Tarcisio cominciò a peggiorare anche perché il padre era morto da poco e lui aveva accusato il colpo più degli altri fratelli. A questo punto della vicenda i medici chiesero a Nunzia di accompagnare il fratello nel reparto di psichiatria ma lei rifiutò di appoggiare quella che lei stessa definì una sorta di “deportazione”. Allora l’amministratrice optò per il prelievo forzato. In quel periodo Tarcisio viveva a casa della sorella Carmela, particolarmente legata a lui. Lì fu prelevato con forza, con tanto di vigili urbani, e portato in una struttura. “Noi vedemmo tutta la scena nelle riprese della telecamera che mia sorella teneva in casa – continua Nunzia – Lui, impaurito tentava di resistere, ‘non ho fatto niente, voglio tornare a casa mia’ urlava tra le lacrime invece fu costretto a seguirli con la forza ‘stai tranquillo stai andando in vacanza’ gli risposero. Dalle immagini si vede tutta la prepotenza gratuita usata contro una persona fragile e indifesa”. Non si trattava nemmeno di un TSO, (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Anzi secondo lo psichiatra che lo aveva conosciuto e seguito, sarebbe dovuto andare per vedere il posto e se per qualche ragione la struttura non gli fosse piaciuta sarebbe dovuto tornare a casa (inserimento Dolce). Invece con quel ratto cominciò un calvario durato nove mesi. Arrivato nella sua nuova residenza, gli operatori si resero conto che in quelle condizioni Tarcisio per loro era ingestibile, per cui fu rispedito in psichiatria a Fano grazie a d un TSO. Una volta tornato in ospedale a noi sorelle ci fu impedito di fargli visita. La motivazione era che la nostra presenza lo avrebbe destabilizzato. “Era chiaramente un escamotage messo in atto dai medici e avallato dall’amministratore – dice Nunzia che è anche medico per professione – Nel momento in cui noi familiari ci siamo rivolti al giudice tutelare per nominare un amministratore abbiamo praticamente perso ogni diritto di parola”. Qui comincia la parte peggiore di questa storia. “Tarcisio nella psichiatria di Fano – ricorda Nunzia con grandissimo dolore – venne legato al letto, stava male, aveva la febbre, problemi respiratori e nessuno ci diceva nulla. A tutti impedivano di vederlo, pure a me che sono medico”. Poi un giorno mia sorella Lucia andò a trovarlo e le comunicarono che lo avevano trasferito, ancora all’insaputa della famiglia in un’altra struttura, un luogo noto alle cronache per essere una sorta di lager. La titolare della casa di riposo fu condannata anni fa, dalla Corte d’Appello di Bologna per omicidio colposo a due anni e nove mesi. “Un giorno senza avvertire la direttrice andai a far visita a mio fratello – racconta Nunzia – lo trovai con un occhio nero, lui mi disse che l’avevano picchiato invece la direttrice sosteneva che si era fatto male da solo. Mi sono rivolta immediatamente al Giudice Tutelare di Tarcisio il quale incaricò l’Amministratore di sostegno di verificare l’accaduto, senza informare il pubblico ministero. A questo punto andai in questura e sporsi denuncia. Lì i poliziotti mi spiegarono che il tipo di contusione e il relativo ematoma erano così nitidi che secondo loro, poteva essere stato causato soltanto da un pugno. Nel periodo di ricovero coatto mio fratello perse 20 chili. Non solo lo lasciavano senza mangiare ma per non fargli sentire i morsi della fame lo riempivano di psicofarmaci. Non contenti gli avevano pure sospeso alcune terapie salvavita. Io e le mie sorelle non sapevamo più che fare, decidemmo di rivolgerci ad un bravo giornalista a cui raccontammo la storia. Lui contattò l’amministratore di sostegno e la direttrice per chiedere la loro versione sulla vicenda. L’intervista non fu mai pubblicata ma sortì ugualmente l’effetto sperato, dopo pochi giorni nostro fratello fu rispedito nuovamente in reparto a Fano. Dopo la minaccia dell’intervista per noi sorelle fu sempre più difficile riuscire a vedere Tarcisio. Le rare volte che ci autorizzavano la visita, all’ingresso gli infermieri ci perquisivano la borsa”. A questo punto Tarcisio era diventato una specie di zombie. “Dal momento in cui mio fratello fu prelevato da casa di mia sorella era peggiorato tantissimo e stava malissimo”. Dopo questo secondo ricovero in psichiatria Tarcisio fu trasferito in una nuova casa di cura. “Per accogliere mio fratello chiesero al giudice due cose: divieto di visita dei familiari per almeno due mesi e la possibilità di tenerlo legato all’occorrenza. Fu allora che la trasmissione Chi l’Ha visto mandò in onda il servizio che riguardava l’odissea di mio fratello”. Dopo la emessa in onda di quella inchiesta Tarcisio fu mandato via anche da lì, rispedito nuovamente in psichiatria a Fano dove rimase per altri tre mesi, “come se fosse rinchiuso in un manicomio”, ha detto Nunzia. Le sorelle, per riavere il fratello, si rivolsero al Telefono Viola con loro organizzarono un sit-in davanti all’ospedale. All’inizio dell’estate 2018 Tarcisio tornò a casa da Carmela. Un giorno decisero di andare al mare, Tarcisio iniziò a nuotare e dopo due bracciate fu colto da malore “Una morte cardiaca improvvisa, che probabilmente ha a che fare con le quantità abnormi di farmaci neurolettici con cui lo avevano imbottito nei mesi precedenti”. Poi il 13 dicembre 2018 scattò il blitz dei Nas di Bologna: all’alba di quel giovedì, una raffica di perquisizioni e arresti nei confronti del legale rappresentante e degli operatori della struttura, dove gli anziani venivano maltrattati. “Al momento del blitz i militari dell’Arma scoprirono 36 anziani in condizioni pietose e visibilmente denutriti tanto che, la prima cosa che chiesero fu quella di poter mangiare qualcosa. Allo stesso tempo, nei vari ambienti della casa di riposo fu trovata sporcizia e aleggiava un odore nauseabondo. La titolare, nel 2001, era già stata al centro di una vicenda analoga. In quella occasione era stata arrestata e condannata insieme al fratello sempre per maltrattamento di anziani. “In questi due anni io e le mie sorelle abbiamo speso un mare di soldi in avvocati per denunciare tutte queste schifezze. Noi denunciavamo il comportamento inadeguato dell’amministratrice e dei medici, denunciavamo i pestaggi, le condizioni di vita indecenti della casa di riposo ma nessuno ci ha ascoltato preoccupati com’erano a coprirsi tra loro in una sorta di connivenza para mafiosa. Solo oggi il giudice responsabile del blitz ci ha sentito parecchie volte, purtroppo per Tarcisio fu troppo tardi ma è nostra intenzione al processo, costituirci come parte offesa, perché furono tanti gli attori entrati in scena soltanto per levarsi dai piedi Tarcisio e le sue sorelle e nessuno mi toglie dalla testa che gli psicofarmaci e le violenze subite causarono la morte di Tarcisio”. “Sono stati in tanti ad aiutarlo a morire – ha concluso Nunzia – C’è stato chi lo ha prelevato da casa con la forza, chi lo ha spedito in giro per strutture mangia soldi come fosse un pacco, chi lo ha legato al letto, chi lo ha picchiato, chi lo ha rimbambito di farmaci, chi mirava ai suoi soldi e soprattutto, una pletora di sciacalli sociali composta da giudici, avvocaticchi, medici , amministratori, case, casette, cooperative, che approfittando della malattia mentale ne traggono profitto tirando a campare sulla pelle dei malati. Questi sono, io credo, i responsabili della morte di mio fratello”. Quella di Tarcisio è una storia purtroppo simile a molte altre. Drammi che si consumano nel dolore delle famiglie e nel silenzio di chi sta intorno perché purtroppo la malattia mentale interessa a pochi.
Tso: la salute mentale tra zone grigie ed eccessi. Il trattamento sanitario obbligatorio da misura eccezionale diventa pratica normale. Il garante nazionale, nell’ultima relazione al Parlamento, ha raccomandato la predisposizione di un registro nazionale e un diverso iter procedurale, scrive Damiano Aliprandi il 14 Aprile 2019 su Il Dubbio. Era seduto sulla sua panchina preferita in piazza Umbria, a Torino, ed è stato avvicinato dal suo psichiatra, accompagnato da un’ambulanza e tre vigili urbani. Per costringerlo a ricoverarsi lo ammanettano, lo stringono per il collo e lo caricano a pancia in giù sulla barella. Muore soffocato prima di arrivare in ospedale. Accade il 5 agosto 2015 e parliamo di Andrea Soldi, 45 anni, un “gigante buono” con una mente schizofrenica, che con i suoi oltre 100 chili di peso si rifiutava di salire sull’ambulanza che lo avrebbe portato in ospedale. Lì lo attendeva il "Trattamento sanitario obbligatorio", concordato il giorno prima dalla famiglia con lo psichiatra. Così, per vincere la sua resistenza, mentre due vigili lo immobilizzavano, il terzo lo cingeva con forza al collo. E quella stretta – così ha svelato l’autopsia – gli fu fatale. Qualche mese prima, nel salernitano, era toccato a Massimiliano Malzone, deceduto in Spdc ( Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, cioè l’unità di ricovero dei reparti di Psichiatria) a causa dei neurolettici che gli erano stati somministrati durante il ricovero. Senza dimenticare Franco Mastrogiovanni, chiamato dai suoi alunni il “maestro più alto nel mondo”, deceduto a Vallo della Lucania nel 2009, dopo quattro giorni di contenzione ininterrotta. Tre anni prima, un giorno d’estate, un’ambulante sardo di nome Giuseppe Casu viene raggiunto da un Tso attivato d’ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell’ordine a causa dell’ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Muore dopo sette giorni di contenzione. A fine marzo di quest’anno è stato rinviato a giudizio un poliziotto che ha ucciso a colpi di pistole un ragazzo ecuadoregno di 22 anni. Si chiamava Jefferson Tomalà ed era stato raggiunto da un Tso. L’episodio è complesso e controverso e la versione dell’accaduto è cambiata più volte con le testimonianze delle numerose persone che quel giorno erano presenti a casa di Jefferson ( otto agenti, almeno quattro familiari, personale medico non specificato). Siamo a giugno del 2018, è una domenica pomeriggio e la madre di Jefferson è preoccupata: vede che il ragazzo è in uno stato alterato, agitato e confusionale, che brandisce un coltello da cucina con il quale lei teme si possa ferire e infatti alcuni tagli auto- inferti sono stati rivenuti sul suo corpo dal medico legale. I carabinieri erano già intervenuti la sera prima a causa di una lite molto accesa tra Jefferson e la madre, in seguito alla quale la compagna del ragazzo aveva deciso di andarsene momentaneamente insieme alla loro figlia di due mesi. La donna chiama quindi il 118, convinta che sarebbe accorso solo del personale sanitario, senza forze dell’ordine: «Chiedevo l’intervento di un medico, invece sono arrivati i poliziotti. Aveva preso un coltellino dalla cucina e avevo paura che si facesse male. Ma io non temevo per me, lui era un bravissimo ragazzo». Nel corso della trattativa, stando a quanto riferito dagli agenti, il 22enne estrae un coltello e si scaglia su uno due poliziotti, che prova a fermarlo spruzzando lo spray al peperoncino in dotazione. A quel punto Tomalà si sarebbe avventato contro il sovrintendente ferendolo al torace: è a quel punto che il collega più giovane estrae la pistola e spara, colpendo diverse volte il ragazzo. Un proiettile è fatale: Jefferson muore tra le mura di casa, mentre il poliziotto ferito viene portato in gravi condizioni all’ospedale San Martino, dove qualche giorno dopo incontrerà anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che in visita a Genova deciderà di andare a trovarlo per manifestargli solidarietà. Sono casi di cronaca ovviamente eccezionali, ma sono possibili conseguenze di un trattamento, quello forzato, che teoricamente dovrebbe essere una misura eccezionale, mentre in realtà viene considerata pratica normale. Ma non solo. Teoricamente la contenzione non ha niente a che fare con il Tso, tuttavia è molto diffusa non solo nei servizi di salute mentale, ma in tutto il sistema sanitario e sociale: i pazienti vengono legati nelle comunità terapeutica, nelle Rsa, nelle strutture per anziani, nelle comunità per minori. Di fatto si parla della privazione della libertà delle persone e gli interventi coercitivi sono molto diffusi nel nostro Paese, sebbene le leggi neghino la possibilità di procedere in tal senso e sebbene l’Italia abbia sottoscritto protocolli internazionali sul rispetto dei diritti umani. Un trattamento che viene utilizzato, non di rado, anche nei confronti dei detenuti che rifiutano la terapia psichiatrica. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha attivato da tempo un monitoraggio e la questione è stata affrontata anche dall’ultima relazione al Parlamento raccomandando innanzitutto la predisposizione di un Registro nazionale dei trattamenti sanitari obbligatori nel quale annotare ogni informazione circa il ricovero in Spdc, la modalità in cui si sviluppa, gli eventuali passaggi da situazione volontaria a obbligatoria, la durata del ricovero stesso con suo inizio e fine e tutte le altre informazioni già ampiamente elencate nelle sue precedenti relazioni al Parlamento. Spetterebbe, infatti, a un’Autorità centrale la competenza per le procedure di controllo in collaborazione con il Garante nazionale. L’ulteriore traguardo che il Garante nazionale auspica venga raggiunto – e per il quale chiede l’impegno, a diversi livelli di chi ha responsabilità amministrativa e operativa – riguarda l’iter procedurale che dà luogo all’emissione del provvedimento del ricovero e, più in generale, del trattamento non volontario. Riguarda la parte relativa alla convalida della proposta di Tso fatta da un primo medico, nei casi in cui il secondo parere è espresso da un altro medico appartenente alla stessa struttura operativa: è opinione del Garante nazionale, che ha riscontrato, con seria perplessità, tale prassi in più strutture visitate, che questo modo di procedere mini il significato di “‘ pareri indipendenti” che la norma richiede. Cosa accade, di fatto, con questa diminuita indipendenza dei pareri? Nella relazione, l’autorità del Garante spiega che ciò crea un rischio elevato di un utilizzo del trattamento non volontario come modalità prevalente e a volte routinaria nell’affrontare situazioni di difficoltà, “facendo cadere quella connotazione di eccezionalità che tale trattamento deve avere”. Emerge, quindi, che a 40 anni dalla legge Basaglia, la salute mentale continua ancora ad essere gestita in chiave emergenziale. Il Tso non è un mandato di cattura, non è un fermo di polizia e non è nemmeno il ricovero coatto dell’epoca manicomiale. Quindi si rischia di concepire il Tso come se fosse una misura per arginare la pericolosità sociale di un soggetto e non, come dice la legge, un dispositivo di tutela per il paziente. Per questo motivo c’è da tempo un progetto di legge promosso dai Radicali Italiani, che mira – così scrivono i promotori – «a ridurre il potere assoluto ( e arbitrario) che l’attuale normativa delega alla psichiatria, garantendo una difesa legale e obbligatoria ( quindi anche d’ufficio) a quanti vengano fatto oggetto di provvedimenti di limitazione della libertà personale e di imposizione coatta di cure».
Vincenza Sicari, 5 anni da incubo tra ospedali e denunce: «Non voglio morire così». Pubblicato sabato, 30 marzo 2019 su Corriere.it. E’ una storia sempre più difficile da raccontare. Una storia che ha un inizio preciso, uno svolgimento caotico e una conclusione che non si intravede all’orizzonte. Partiamo dall’inizio: circa 6 anni fa Vincenza Sicari, maratoneta con tante vittorie in curriculum e una partecipazione ai giochi di Pechino, comincia ad avere problemi alle gambe. Nel 2014 le viene diagnosticato un tumore raro, che viene operato e rimosso con successo . Ma Vincenza non sta bene e ad un certo punto i suoi arti inferiori si bloccano. Forse una malattia degenerativa, di certo da quel momento inizia per lei un’odissea che significherà passare da un letto d’ospedale all’altro, da un medico all’altro, senza che nessuno riesca a dirle di cosa soffra e soprattutto come curarsi. In questo drammatico peregrinare (oltre dieci ricoveri in ospedali diversi), qualche professore comincia ad avanzare l’ipotesi che non esista alcuna malattia e che la paralisi di Vincenza Sicari sia solo frutto della sua mente. La maratoneta entra in contrasto con alcune strutture sanitarie, chiede approfondimenti costosi, e procede con denunce che però nel breve non portano a nulla. Un anno fa l’ospedale Sant’Andrea di Roma la dimette «perché - scrive nella lettera - non è stata riscontrata nessun tipo di malattia degenerativa, la paziente è afflitta da un «disturbo compatibile con la Sindrome di Münchhausen». Vincenza denuncia tramite i suoi avvocati il Sant’Andrea, e la Procura di Roma ordina la composizione di una commissione super partes di medici e ordina anche che l’atleta 40enne venga ricoverata in una struttura specializzata dove possano effettuare analisi accurate. La paralisi agli arti inferiori si sta aggravando e ora anche un braccio non le funziona bene. Vincenza Sicari vorrebbe essere trasferita in un reparto di Neurologia idoneo alla sue esigenze come indicato dall’ ematologo Rigacci che ha effettuato una consulenza e prescritto esami specifici e come risulta altre certificazioni in mano ai legali. Ma i mesi passano e nulla accade, con uno scarico di responsabilità tra medici che appare davvero triste. E’ una malata «scomoda» Vincenza, una che protesta, che chiede a voce alta che siano rispettati i suoi diritti. E i contenziosi si moltiplicano. A luglio 2018 viene ricoverata nell’ospedale di Padova dove però è trattata come malata psichiatrica. Poi un tso «illegittimo» e il trasferimento in psichiatria a Frascati. La forza di combattere non abbandona neppure dopo tanti anni Vincenza che però appare stanca: «Non ce la faccio più. Sono abbandonata a me stessa, piango giorno e notte. Per fortuna ho i miei legali che credono in me e portano avanti la mia battaglia». Rischia di impazzire davvero qui in Psichiatria Vincenza, che ha trascorso anche il 40esimo compleanno su un letto d’ospedale: «Anche il primario di questa struttura ha scritto nero su bianco che non sono una malata psichiatrica e ha chiesto il mio trasferimento. Cosa aspettano a curarmi in un centro all’altezza della situazione? Sono una vittima di un sistema malato e dell’indifferenza di troppe persone» . Lo scorso 11 febbraio viene effettuata un’interrogazione urgente a risposta scritta presso il Consiglio regionale del Lazio, mentre sia a Frascati che ad Albano (la città natale dell’ex maratoneta) si organizzano manifestazioni fiaccolate e sit in di protesta. Vincenza Sicari chiede aiuto, è disumano restare indifferenti.
· "Pensa solo ai minori stranieri".
"Pensa solo ai minori stranieri". Rivolta contro la toga garante dell'infanzia. Sei garanti regionali dell'infanzia non saranno alla relazione annuale: "Ci sono bambini italiani in stato di bisogno". Angelo Scarano, Mercoledì 19/06/2019 su Il Giornale. C'è una spaccatura nel mondo dei garanti dell'infanzia. Un frattura che divide l'Autorità nazionale e sei esponenti regionali. Oggi alla Camera è in programma la relazione annuale della Garante Filomena Albano alla presenza di Sergio Mattarella, ma i responsabili di Lombardia, Lazio, Campania, Calabria, Puglia e Basilicata non ci saranno. La spaccatura parte da lontano, da quanto a ottobre 2018 ben 16 garanti locali firmarono una lettera contro le decisioni della Albano, magistrato che dal 28 aprile 2016 guida l'Autorità che ha il compito di "assicurare a livello nazionale la piena attuazione e la tutela dei diritti dei bambini e degli adolescenti". Tra le posizioni assunte della Albano, spiccano quelle in favore della legge sullo ius soli: "Lo ius soli - diceva in occasione della presentazione della Relazione 2016 - rappresenta un passo importante sul piano dell'integrazione delle cosiddette "seconde/terze generazioni" ed è diretta espressione del principio di uguaglianza di bambini e adolescenti sancito dalla Convenzione sui diritti del fanciullo". Ma torniamo alla frattura. A mettere in chiaro i perché di questa scelta è Antonio Marziale, garante calabrese: "In tre anni di Conferenza nazionale dei garanti, Albano si è interessata quasi esclusivamente di minori stranieri non accompagnati, eppure esistono tante altre emergenze e bimbi italiani in gravissimo stato di bisogno - spiega a La Stampa -. Sono stanco di assistere a sfilate festaiole. Nel territorio a più alto indice di povertà (con il 90% delle scuole senza decreto di agibilità e una sanità allo stremo) ho portato in Calabria la prima terapia intensiva pediatrica. Incidere sulle decisioni politiche è un obbligo". E ancora: "Ci sono i bambini che prendono colpi di pistola a Napoli, quelli calabresi che spiccano nella classifica italiana della povertà educativa, con il 90% degli istituti senza decreto di agibilità - dice a Oggi Sud- Ci sono bambini le cui istanze dei bisogni vengono portate alla luce dai colleghi regionali, invano, perché la Garante nazionale ci convoca in Conferenza nazionale di garanzia sempre meno spesso e quasi sempre con all’ordine del giorno i minori stranieri non accompagnati (l’ultima volta quasi un anno fa) o altri motu proprio e le nostre esigenze possono andare a farsi friggere”. Duro anche il responsabile lombardo, Massimo Pagani: "Filomena Albano, con le sue modalità autoreferenziali, svilisce e sminuisce il nostro ruolo di difensori dei bambini e degli adolescenti sul territorio". Per Jacopo Marzetti, garante del Lazio, "in tre lettere, distanziate pochi giorni l' una dall' altra, abbiamo ricevuto dalla Garante nazionale soltanto inviti a celebrazioni o richieste di dati. Non siamo mai stati chiamati all' elaborazione di linee guida condivise per far fronte a tutte le emergenze che coinvolgono i nostri minori". L'emergenza però c'è: l'Istat, infatti, certifica che circa un milione e 200mila giovanissimi sono in povertà assoluta. "Non ci si può occupare solo di minori stranieri non accompagnati", conclude Ludovico Abbaticchio, responsabile della Puglia.
· Quando l’assassino è in casa.
Quando l’assassino è in casa: in famiglia un omicidio su 2. I dati del rapporto eures sui delitti tra le mura domestiche. Il Dubbio il 28 giugno 2019. Quando l’assassino è in casa. Nel 2018 il 49,5% degli omicidi volontari commessi in Italia ( 163 su 329) sono avvenuti all’interno della sfera familiare o affettiva: la percentuale più alta mai registrata in Italia, cresciuta ulteriormente (+ 10,3%) nei primi cinque mesi di quest’anno. E il 67% ( 109) delle vittime di omicidi in famiglia del 2018 sono donne. Sono dati allarmanti quelli che emergono dall’ultimo Rapporto Eures sul fenomeno. Il maggior numero di vittime ( 49,1%) degli omicidi in ambito familiare si registra all’interno della relazione di coppia ( in essere o passata) ma a crescere ( del 47,6%, dai 20 del 2017 ai 31 del 2018) sono i figlicidi. Complessivamente, dal 2000 a oggi, gli omicidi in famiglia sono stati 3.539, in media uno ogni 3 omicidi volontari commessi nel nostro Paese. All’interno dell’omicidio in ambito familiare è nella relazione di coppia che si consuma il maggior numero dei delitti: nel 2018 sono 80 le vittime tra coniugi, ex coniugi o ex partner, pari al 49,1% degli omicidi in famiglia. La relazione più a rischio è quella coniugale o di convivenza, con 60 vittime ( 54 donne e 6 uomini).
A destare preoccupazione è il tema dei figlicidi: si contano infatti 31 figli uccisi dai genitori nel 2018, con una crescita del + 47,6% sull’anno precedente. I 31 figlicidi censiti sono stati commessi in 20 casi dai padri ( pari al 64,5%) e in 11 casi dalle madri ( 35,5%).
La responsabilità delle madri è stata esclusiva nei 4 omicidi di figli di età inferiore ad un anno per poi scendere al 40% nella fascia 1- 5 anni e al 33,3% nella fascia 6- 13 anni.
In diminuzione (- 34,4%) il numero dei genitori uccisi dai figli: nel 33,3% dei casi l’autore aveva disturbi psichici, negli altri alla base del gesto figurano liti, dissapori e moventi economici.
Dai dati del rapporto Eures emerge che l’anno scorso in Italia 65 delle 163 vittime di omicidi in famiglia ( il 39,9%) sono state uccise da armi da fuoco, il 97% in più rispetto all’anno precedente.
Dopo le armi da fuoco, quelle più utilizzate negli omicidi in famiglia – sempre riferito al 2018 – sono armi da taglio ( 24,5%), armi improprie/ percosse ( 9,8%), soffocamento ( 7,4%) e strangolamento ( 6,1%).
L’omicidio in famiglia colpisce in misura sempre più frequente gli anziani: le vittime over 65 raggiungono il 30,1% del totale ( 49 in valori assoluti nel 2018), a fronte del 18% del 2000.
Aumenta contestualmente anche l’età media delle vittime, che passa dai 45 anni nel 2000 ai 48,8 dell’anno scorso. I ricercatori dell’Eures lo spiegano in parte con «il crescente fenomeno degli omicidi pietatis causa ( o compassionevoli), dettati cioè dalla decisione dell’autore di porre fine ad una condizione di disagio estremo della vittima ( grave malattia, demenza senile, ecc.) da lui ritenuta insostenibile» ( 23 casi nel 2018). L’autore degli omicidi in famiglia nell’ 88,1% dei casi è un uomo, con un’età media passata da 43,9 anni nel 2000 a 51,5 nel 2018.
Benevento, lancia figlio di 4 mesi nel burrone. Mamma arrestata e piantonata a vista. Niccolò Magnani il 17 settembre 2019 su Il Sussidiario. Benevento, madre sordomuta getta figlio di 4 mesi nel burrone, poi lo uccide a bastonate: arrestata, ora è piantonata in cella. Mentre quest’oggi un altro orrendo caso di neonato innocente ucciso è giunto dall’Alto Adige, ci son sviluppi in merito al triste caso di Benevento: è stata arrestata la mamma 34enne accusata di aver ucciso barbaramente il figlio di 4 mesi e ora è piantonata a vista in cella in attesa dell’udienza di convalida dell’arresto fissato domani mattina dal Gip del Tribunale di Benevento. Si è avvalsa della facoltà di non rispondere la giovane sordomuta accusata di aver lanciato il neonato nel burrone tra gli svincoli di Solopaca e Telese Terme e di averlo poi finito a bastonate in un secondo momento; sempre domani verrà effettuata dal medico legale Emilio D’Oro l’autopsia sul corpo del piccolo. Un esame decisivo dal quale si dovrà stabilire la vera causa del decesso se già dopo la caduta o in seguito al secondo raptus di follia della giovane madre disabile. Si cercano ancora le motivazioni che possano aver portato prima alla fuga da casa e poi al doppio folle gesto contro il piccolo neonato di 4 mesi.
INFANTICIDIO BENEVENTO, SPUNTA TESTIMONE. Pare vi sia un testimone che avrebbe visto la mamma gettare il figlio di 4 mesi nel burrone dopo il “finto incidente” sulla statale Telesina: L.M., le iniziali della 34enne accusata di infanticidio, avrebbe lanciato una specie di fagotto nel dirupo pochi istanti dopo lo schianto della sua Opel Corsa contro il guard rail a lato strada. Le forze dell’ordine hanno interrogato a fondo l’uomo, facendosi raccontare nel dettaglio ogni possibile informazione che potrebbe rivelarsi cruciale come testimonianza contro la donna ancora ricoverata sotto choc in ospedale. La vicenda di Benevento ha diversi lati “oscuri” che si aggiungono alla già di per sé tragica sequenza dei fatti finora noti: va ad esempio approfondito se effettivamente si sia calata, dopo averlo lanciato nel dirupo, per finire quel suo figlio a bastonate, anche se dai primi rilievi tutto sembra combaciare. Secondo quanto riportato da Napoli Fanpage, la donna sarebbe sordomuta ed è stata già sentita dagli inquirenti attraverso un interprete della lingua dei segni. Secondo altre informazioni raggiunte dal Mattino, tra la donna e il compagno da qualche tempo vi erano delle tensioni che ora sono al vaglio delle indagini per capire se possano aver fornito il “movente” dietro l’allentamento e il presunto omicidio volontario.
GETTA IL FIGLIO DI 4 MESI NEL BURRONE. La storia che arriva da Benevento è di quelle difficilmente comprensibili dalla mente e logica umana: un neonato di 4 mesi è stato prima lanciato in un dirupo e poi ucciso a bastonate, il tutto dopo aver subito un incidente fortissimo sull’auto dove viaggiava (lanciata contro un guard rail). Ad essere accusata di tutto ciò è la madre 34enne originaria di Campolattaro e ora piantonata in ospedale in attesa di capire se le prime impressioni d’indagine che la vedono omicida del suo stesso figlio siano confermate dalle prove prese dalla Scientifica sul luogo del delitto. Secondo quanto riportato dal Quotidiano.net, la donna avrebbe si sarebbe prima schiantata contro un guard rail della Statale 372 Telesina, nei pressi di Solopaca; si pensava ad un incidente in un primo momento ma pare invece che sia stata una manovra scientemente voluta dalla donna che poi è scesa dal veicolo e ha lanciato nel dirupo quel neonato immaginiamo in preda ad una crisi di pianto.
BENEVENTO, L’ORRORE E LE ACCUSE GRAVISSIME ALLA MADRE. Se già non fosse abbastanza tragico quanto successo, pare che dopo la donna fosse anche scesa nella scarpata per sincerarsi che il figlio fosse morto definitivamente (e forse lo era già visto il volo, ndr): ha preso un bastone o un forte sasso e lo ha letteralmente “finito” colpendolo più volto. L’orrore di Benevento è stato raccontato questa mattina dagli inquirenti alle agenzie, con il sostituto procuratore di Benevento Vincenzo Toscano che ha emesso l’arresto preventivo per la donna ora piantonata all’ospedale campano. In caserma, nella stazione di Solopaca, in questo momento si trova il compagno della 34enne: viene interrogato per ricostruire le ultime ore di vita del piccolo, proprio lui pare abbia dato l’allarme perché la sua compagna era sparita da ore in compagnia del figlio di 4 mesi. Resta da capire perché se ne fosse andata e perché soprattutto la decisione di un atto così crudo e così contrario alla logica umana come l’infanticidio messo in atto (ripetiamo, qualora fosse confermato da ogni prova esistente).
ORRORE IN ALTO ADIGE: UN NEONATO TROVATO MORTO DAI TURISTI IN UNA SCARPATA VICINO MERANO. Da Ansa il 17 settembre 2019. Il corpo senza vita di un neonato è stato trovato da alcuni turisti nella scarpata di una stradina a Lana di Sopra, nei pressi di Merano. Come scrive il quotidiano Dolomiten, la testa del maschietto era avvolta in un panno, legato più volte intorno al collo. Il corpicino, ancora con il cordone ombelicale, si trovava sotto un cespuglio. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e la Croce bianca. La morte - prosegue il giornale - risalirebbe ad alcune ore prima del ritrovamento. La procura di Bolzano ha ordinato l'autopsia. Il ritrovamento è avvenuto nei pressi del maso-trattoria Glögglkeller, sopra Lana, una zona molto frequentata in questa stagione dai turisti. Sono infatti stati due escursionisti - scrive sempre il Dolomiten - ad intravedere i piedini del neonato morto sotto un cespuglio lungo una stradina secondaria. Hanno avvisato un contadino che si trovava poco lontano che si è avvicinato al cadavere. E così partito l'allarme e sul posto sono intervenuti la Croce bianca con il medico d'urgenza e i carabinieri, ma - così il medico - il bebè era morto da alcune ore. Si tratterebbe di un maschietto di carnagione chiara. Secondo il giornale il piccolo è stato strangolato con il panno usato per coprire la testolina. "Il corpo del bambino mostrava segni di violenza". Lo afferma la procura di Bolzano in una nota dopo aver disposto l'autopsia sul piccolo trovato morto in una scarpata nei pressi di Merano. A scoprire il corpicino "nascosto in un cespuglio", sottolinea ancora la procura, è stata ieri "una turista tedesca, mentre passeggiava con il cane". La donna ha avvisato i Carabinieri e sono state avviate immediatamente le indagini. "Sono in corso ulteriori accertamenti per una più approfondita ricostruzione dei fatti" concludono i pm.
Neonato morto in una scarpata trovato da due turisti. Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 da Corriere.it. Il corpo senza vita di un neonato è stato trovato da turisti nella scarpata di una stradina a Lana di Sopra, nei pressi di Merano. Secondo quanto scrive il quotidiano Dolomiten, la testa del bambino era avvolta in un panno, legato più volte intorno al collo. Il corpicino, ancora con il cordone ombelicale, si trovava sotto un cespuglio. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e la Croce bianca. La morte - prosegue il giornale - risalirebbe ad alcune ore prima del ritrovamento. La procura di Bolzano ha ordinato l’autopsia. Gli inquirenti per il momento mantengono il massimo riserbo sull’inchiesta. Il ritrovamento è avvenuto nei pressi del maso-trattoria Glogglkeller, sopra Lana, una zona molto frequentata in questa stagione dai turisti. Sono infatti stati due escursionisti - scrive il Dolomiten - ad intravedere i piedini del neonato morto sotto un cespuglio lungo una stradina secondaria. Hanno avvisato un contadino che si trovava poco lontano che si è avvicinato al cadavere. È così partito l’allarme e sul posto sono intervenuti la Croce bianca con il medico d’urgenza e i carabinieri, ma il medico ha verificato che il bebè era morto da alcune ore. Secondo il giornale il piccolo è stato strangolato con il panno usato per coprire la testolina.
Neonato trovato morto in un cespuglio in Alto Adige: fermata la madre. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 da Corriere.it. La madre del neonato trovato morto lo scorso lunedì pomeriggio in un cespuglio tra i frutteti di Lana e Cermes in Alto Adige, è stata fermata e si trova piantonata in ospedale a Merano. Si tratta di una donna polacca impegnata nella raccolta delle mele. Oggi, come disposto dalla Procura di Bolzano, sarà effettuata l’autopsia e proseguiranno gli accertamenti al fine di ricostruire quanto accaduto. Il corpicino senza vita di un maschietto, ancora col cordone ombelicale attaccato e con il capo avvolto da un panno, era stato trovato lunedì da turisti tedeschi attorno alle ore 16.30 lungo la via Raffein non distante dal Buschenschank (trattoria) Gloegglkeller. La Procura ha confermato che «il corpo del bambino mostrava segni di violenza» e quindi non viene esclusa che sia deceduto causa strangolamento. Il piccolo sarebbe stato strangolato con il panno usato per coprire la testolina. Molto probabilmente il bebé è nato e morto a distanza di poche ore. Informato dalla coppia di turisti, a lanciare l’allarme ai soccorritori è stato il contadino del vicino maso Oswald Verdorfer. Che racconta: «Quel corpicino era lì, sotto il cespuglio. Era stato volutamente nascosto. Era nudo, pulito. Sono stati due turisti tedeschi ad avvisarmi, che stavano portando a spasso il loro cane. Io sono corso sul posto e poi abbiamo subito chiamato il 112».
Quando le madri uccidono, da Cogne a Lecco. Adnkronos il 18 settembre 2019. Annegati, soffocati, accoltellati, brutalmente uccisi da chi gli ha dato la vita. Dal delitto di Cogne alla mamma di Lecco, che confessato l'omicidio delle sue tre figlie di 4, 11 e 13 anni, uccise a coltellate nella loro abitazione a Lecco, ecco alcuni casi di infanticidio degli ultimi anni.
- 30 GENNAIO 2002: Il piccolo Samuele Lorenzi viene massacrato nella villetta di Montroz in cui vive con la madre, il padre e il fratellino. I soccorritori, chiamati dalla donna, Annamaria Franzoni, lo trovano con gravissime ferite alla testa: il piccolo morirà poco dopo. La madre viene accusata dell'omicidio ma nega e, dopo un calvario giudiziario, viene riconosciuta colpevole con sentenza definitiva dalla Corte di Cassazione.
- 12 MAGGIO 2002: A Madonna dei Monti, frazione di Santa Caterina Valfurva (Sondrio), una donna di 31 anni, Loretta Z., uccide la figlia di 8 mesi mettendola nella lavatrice alla quale fa compiere un ciclo di lavaggio. A trovare il cadavere, nel cestello della lavatrice, è il padre della bambina.
- 3 GIUGNO 2003: Una peruviana di 29 anni, Helga R., strangola e poi affoga in un water dell'ospedale di Desio, in provincia di Milano, la figlia di tre mesi, che era ricoverata per una caduta dalla carrozzina.
- 7 LUGLIO 2004: A Vieste, in provincia di Foggia, Giuseppina D.B., 33 anni, casalinga, uccide i suoi due figli, una bambina di 5 anni e un maschietto di quasi 2, soffocandoli con del nastro adesivo. Poi si suicida nello stesso modo.
- 18 MAGGIO 2005: Il 18 maggio del 2005, a Casatenovo in provincia di Lecco, Maria Patrizio, 29 anni, racconta di essere stata aggredita in casa mentre faceva il bagnetto al figlio di 5 anni, scivolato nell'acqua e morto. La notizia poi si rivelerà falsa: a uccidere il piccolo è stata la donna, che poi, due settimane dopo, confessa.
- 17 MARZO 2005: Sempre nel 2005, il 17 marzo, una neonata di due mesi viene trovata uccisa con una coltellata nella casa della Romanina, a Roma, dove vive con i genitori: anche qui la madre, 23 anni, dopo averla uccisa tenta il suicidio.
- 8 SETTEMBRE 2005: A Merano un bambino di quattro anni viene ucciso a coltellate dalla madre, Christina Rainer, 39 anni, che poi tenta il suicidio gettandosi da una finestra del secondo piano del commissariato di polizia. L'infanticidio avviene in un appartamento di una palazzina di case popolari in via Wolkenstein, nei pressi dell'ippodromo di Maia. Quando gli investigatori arrivano sul posto si trovano davanti una scena agghiacciante: il bambino giace in una pozza di sangue nella cucina dell'appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti della prima colazione con un panino con la marmellata appena iniziato.
- 20 LUGLIO 2009: a Parabiago, in provincia di Milano, un'altra mamma uccide il figlio di 4 anni, strangolandolo con un cavo elettrico. La donna, 36 anni, soffriva di depressione ed era in cura in un centro psicosociale della zona. A trovare il piccolo, agonizzante, sono la madre e la sorella della donna, che erano andate a trovarla perchè non rispondeva al telefono. La mamma viene trovata accanto al bimbo, in stato di choc.
- 26 AGOSTO 2009: Appena un mese prima, il 26 agosto a Genova, una madre di 35 anni uccide il proprio bambino di appena 19 giorni, strangolandolo nel lettino con il cavetto di alimentazione del cellulare. Poi si suicida. La donna viveva da sola con il figlio e soffriva di depressione post-partum, condizione probabilmente aggravata dalla mancanza di lavoro e dall'assenza del padre del bimbo.
- 24 SETTEMBRE 2009: A Castenaso, alle porte di Bologna, una madre di 36 anni, Erika M., uccide, accoltellandoli, i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di cinque. Poi si suicida gettandosi dalla terrazza della sua abitazione, al secondo piano di una palazzina di via Mazzini a Castenaso. I carabinieri trovano i corpi dei due piccoli sul letto matrimoniale. La donna soffriva di depressione per una separazione in vista dal marito.
- 19 FEBBRAIO 2010 - La tragedia si consuma in una casa di Ceggia, in provincia di Venezia: Tiziana Bragato 47 anni, uccide il figlio, un bimbo di appena sei anni, soffocandolo nel suo letto. Poi si uccide, impiccandosi. A scoprire i corpi è il marito, un 51enne.
- 22 OTTOBRE 2011: A Grosseto viene arrestata la mamma di un bambino di 16 mesi morto annegato durante una gita in pedalò nelle acque della Feniglia. L'accusa è che sia stata proprio lei ad annegarlo.
- 25 OTTOBRE 2013: Ad Abbadia Lariana, in provincia di Lecco, una donna uccide il figlio di tre anni. La donna , una 25 enne originaria della Costa d'Avorio, uccide il primo dei suoi due figli, Nicolò, infierendo più volte sul corpo del piccolo.
- 6 MARZO 2013: Viene sottoposta a fermo Daniela Falcone, la 43enne di Rovito che ha ucciso il figlio Carmine di 11 anni con un paio di forbici. La donna aveva prelevato il figlio nella mattinata di sabato 1 marzo dalla scuola e lo aveva portato in una zona di montagna tra Cosenza e Paola uccidendolo con delle forbici. Successivamente ha tentato, senza riuscirci, di togliersi la vita. I poliziotti del commissariato di Paola e della squadra mobile hanno rinvenuto nella mattinata di lunedì 3 marzo madre e figlio in auto, e la donna è stata trasportata in ospedale.
· Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila.
FATE UNA CAREZZA AI VOSTRI BAMBINI. Cesare Peccarisi per il “Corriere della Sera - Salute” il 12 settembre 2019. Un papà povero, ma affettuoso come l' indimenticabile Chris Gardner del film di Gabriele Muccino La Ricerca della Felicità può formare un ottimo figlio, come il piccolo Christopher della famosa pellicola. I padri che accarezzano molto i propri figli assicurano loro un miglior sviluppo emotivo-cognitivo, e li preservano anche da disturbi quali ansia, depressione e - come adesso si è scoperto - pure dal mal di testa. L' accudimento genitoriale supera anche l' influenza negativa del basso livello socioeconomico, considerato il fattore peggiore sullo sviluppo psichico del bambino prima che, nel 2012, un noto studio della Concordia University restituisse un ruolo di primo piano all' affetto che si riceve in famiglia. Se infatti al bambino questo affetto viene a mancare è un problema, soprattutto se gli succede fra i 3 e i 5 anni, quando se ne nutre come un assetato a una fonte. Nel film di Muccino Christopher ne aveva proprio 5, ma secondo un altro studio del 2013 della Iowa University già a 2 anni una relazione calda, sicura e positiva con almeno uno dei genitori determina lo sviluppo di una solida struttura emotiva del bambino portandolo ad avere esperienze positive con i coetanei dei suoi primi ambienti sociali (nido e scuola materna). In questo periodo si forma anche un' importante funzione emotivo-cognitiva, la cosiddetta «ToM», acronimo di Theory of Mind che è la capacità di capire cosa gli altri pensano e come ciò influenzi le loro azioni. Così, mentre il piccolo prende coscienza di sé rispetto alle sue figure genitoriali di riferimento, acquista anche coscienza del loro modo di pensare e di agire e di riflesso arriva a capire il suo stesso modo di essere, il suo Io empatico-cognitivo e quello degli altri. Comunque, sia che si verifichi a 2 o a 5 anni, una carenza affettiva genitoriale può dar luogo ai cosiddetti disturbi di internalizzazione , come ansia o depressione. Fin dai tempi di Freud gli psicologi attribuiscono per via teorico-empirica la loro comparsa a un' alterazione del processo che porta allo sviluppo dell'Io del bambino che si confronta con il Super-Io dei genitori, soprattutto del padre, un confronto da cui scaturisce il controllo delle strutture cognitive e affettive che darà al piccolo sicurezza nei processi di socializzazione e interazione sociale. Secondo una ricerca presentata all' ultimo congresso internazionale sulle cefalee di Stresa da Vincenzo Guidetti, neuropsichiatra dell' Università della Sapienza di Roma, fra questi disturbi di internalizzazione rientrerebbe anche il mal di testa. «Come nell' adulto ogni bambino ha una sua storia personale e una sua esperienza di vita - dice Guidetti - e la sua vulnerabilità può essere capita solo analizzandone le radici, altrimenti le nostre conclusioni sono parziali e ci fanno perdere di vista la complessità del problema». Per arrivare a inserire il mal di testa fra questi disturbi Guidetti ha analizzato una sessantina di studi condotti dal 2014 ad oggi da cui emerge che ormai siamo passati dal livello teorico-empirico degli psicologi a quello concreto della neurovisualizzazione strumentale. Dalla enorme revisione è risultato che gli psicologi avevano intuito bene, ma solo adesso ne abbiamo la prova certa, perché con la risonanza magnetica funzionale non si tratta semplicemente di processi astratti, ma dell' attivazione di precisi circuiti cerebrali: quello del giro frontale anteriore in entrambi i sessi e quelli del giro frontale inferiore e del solco temporale superiore di destra nelle femmine. Inoltre i maschi presentano una forte attivazione della giunzione temporo-parietale del cervello, l' area che consente una distinzione fra ciò che sentono loro stessi e ciò che ritengono sentano gli altri. In particolare, l' analisi che Guidetti ha condotto con i colleghi di psicologia clinica e di neuroscienze comportamentali dell' università romana, indica che nei piccoli cefalalgici c' è un' alterata capacità a gestire le emozioni che, diversamente da quanto finora creduto, è carente allo stesso modo sia nei maschi che nelle femmine. Le ricerche che hanno guidato i ricercatori romani dimostrano poi che si verificano adattamenti neurofisiologici anche nel cervello dei genitori, che corrispondono a ciò che gli psicologi chiamano mirroring, rispecchiamento, termine che indica il modo in cui il genitore impara a riconoscere emotivamente gli stati mentali del suo bambino. Grazie al rispecchiamento mamma e papà restituiscono il loro senso di comprensione al bambino, che così legge nei loro occhi che hanno capito cosa desidera e ciò gli consente di percepirsi come entità capace di propri stati mentali, avviando in lui il cosiddetto processo di mentalizzazione con cui impara a regolare e modulare i suoi affetti e le sue angosce. Un concetto gravido di drammaticità alla luce di recenti fatti di cronaca che hanno riguardato l' interferenza sullo sviluppo neuropsichico di bambini affidati alle cure di insegnanti improvvisati e colpevoli che hanno agito sulla psiche di questi piccoli che avevano bisogno di rispecchiarsi anche negli occhi di figure di riferimento come la maestra, che diventa una seconda mamma nell' ambiente sociale dell' asilo. In neuropsichiatria una qualsiasi deviazione dal normale percorso è sempre stata considerata a rischio per lo sviluppo di disturbi psicopatologici o di personalità. Guidetti ora aggiunge anche il rischio di cefalea: «Uno dei migliori consigli da dare ai genitori per guidare correttamente i figli è ascoltare e capire con empatia i loro bisogni. I piccoli si rispecchiano nei loro occhi - dice Guidetti - e lo stile di educazione che gli daranno è fondamentale: ai bambini che sviluppano cefalea è stata, ad esempio, concessa da piccoli un'autonomia significativamente inferiore alla media, spesso hanno genitori divorziati o madri che tendono a enfatizzare eccessivamente i loro disturbi, manifestando il dolore in maniera molto più marcata rispetto ai padri». Fra le principali ricerche che hanno aperto la strada ai cercatori romani c' è certamente quella di Rebecca Saxe del Mit (Massachussets Institute of Technology, USA) che ha dimostrato come si sviluppi una puntuale corrispondenza fra processi mentali e attività cerebrali di genitori e figli. Grazie alla scoperta della Saxe sarà possibile avere anche nello studio della cefalea del bambino più precisione rispetto alle ricerche che puntavano genericamente il dito sul concorso di molteplici fattori ambientali, psicologici, genetici o epigenetici senza però individuare il vero colpevole. «Possiamo dire che, a differenza dei precedenti studi solo clinici - conclude Guidetti - cominciamo a vedere anche quali strutture neurofisiologiche sono implicate nel rispecchiamento emotivo, che è alla base del corretto accudimento».
«Io punita dalla scuola perché ho segnalato i maltrattamenti sull’alunna di 6 anni». Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Eleonora lanzetti. Una maestra avvisa la polizia dopo che la piccola arrivava in classe impaurita e con dei lividi, ma la preside la sospende: «Violati segreti d’ufficio». Più volte si era presa cura di quella bambina di 6 anni che arrivava in classe impaurita e con vistosi lividi addosso. J. C., maestra in una scuola elementare nel Pavese, aveva segnalato alla dirigente scolastica ogni singola violenza subita tra le mura di casa dalla piccola alunna. Non avendo avuto alcun riscontro, ha deciso di denunciare il fatto a carabinieri, Questura, Procura dei minori e servizi sociali. La dirigente l’ha sospesa dall’insegnamento per un giorno. I motivi: l’insegnante avrebbe violato il «segreto d’ufficio», ossia «avrebbe tenuto una condotta non conforme alle responsabilità e ai doveri inerenti il ruolo», e causato un danno d’immagine all’istituto. «Un fatto di una gravità inaudita — ha commentato l’avvocato Luisa Flore della Uil, che si sta occupando del ricorso in tribunale contro la sospensione —. È stata mortificata un’insegnante che ha avuto solo l’istinto di proteggere una minore vittima di violenze in famiglia».Maestra, si aspettava un provvedimento disciplinare simile? «Mi sento ferita. Di certo non pensavo di essere messa in discussione umanamente e come insegnante. Un provvedimento che sembra invitare i docenti a tacere».Ora si è rivolta ai giudici per chiedere l’annullamento della sospensione. Che cosa la preoccupa di più? «Mi sono rivolta al giudice del tribunale di Pavia, Donatella Oneto, che pochi giorni fa ha invitato la dirigente scolastica ad annullare la sanzione (udienza aggiornata al 15 dicembre, ndr). Non lo faccio per i 75 euro in meno di stipendio, ma perché non passi un messaggio sbagliato, gravissimo: non si deve far finta di nulla, essere omertosi davanti a questi episodi. Il mio curriculum finirebbe per essere macchiato per aver agito con coscienza».A settembre dello scorso anno scatta il campanello d’allarme: la bambina è strana, triste, schiva. Il rendimento scolastico cala, e il clima di terrore che si respirava a casa, con quel padre problematico, inizia a venire a galla. Compaiono anche i lividi sulle gambe minute della piccola che si rifugia tra le braccia della maestra chiedendo aiuto. La docente, che è anche psicologa, scrive diverse relazioni per avvertire la preside. Senza esito.Come si è accorta che c’era qualcosa che non andava in quella bambina? «Ci sono stati segnali preoccupanti sin dall’inizio dell’anno. La piccola era molto introversa e tendeva a isolarsi dai compagni. Anche i voti cominciavano a calare, quindi decisi di capire meglio. Un giorno il padre si presentò a scuola aggredendoci verbalmente perché sosteneva che avessimo affidato la bambina alla nonna, solo perché era venuta a prenderla. Poi venni a sapere che aveva problemi con l’alcol e che alla madre della bimba era stata tolta la potestà genitoriale. Nei mesi successivi la bambina era sempre più sfuggente, si metteva in un angolo e piangeva. Avevamo notato anche i lividi: alle compagne aveva confessato che era stato il padre».La dirigente era al corrente di tutto?«Ho segnalato tutto alla dirigente, inviando relazioni per posta elettronica, ma non ho mai avuto risposta».Qual è stato l’episodio che l’ha portata a denunciare?«Avevo interrogato la bambina ma era impreparata. Conoscendo le condizioni in cui viveva le ho dato 6. Il padre la picchiò lo stesso. Il giorno dopo arrivò piangendo, con i lividi sulle ginocchia; c’è il referto del pronto soccorso, dove la nonna l’aveva portata. A quel punto ho avvisato ancora la dirigente che mi ha chiesto l’ennesima relazione scritta. Non ci ho più visto: le ho telefonato dicendo che, se non ci fosse stato un intervento della scuola, avrei avvisato le forze dell’ordine. E l’ho fatto. Temevo che la bimba fosse in pericolo. Ho preso coraggio e ho agito per il suo bene».
Maestra denuncia maltrattamenti in famiglia su una sua alunna, la preside la sospende: il caso a Pavia. La docente si è rivolta al tribunale che ha stabilito la revoca del provvedimento. La Repubblica il 27 ottobre 2019. Si era accorta che una sua alunna arrivava a scuola con lividi evidenti sulle gambe, e che spesso scoppiava a piangere all'improvviso, senza un apparente motivo. Così la maestra, che insegna in una scuola elementare della provincia di Pavia, prima ha segnalato il caso alla dirigente dell'istituto e poi ha deciso autonomamente di rivolgersi alle forze dell'ordine. A quel punto la preside ha sospeso per un giorno (non retribuito) la maestra, per aver violato il segreto d'ufficio e aver arrecato un danno d'immagine alla scuola. Il tribunale, a cui la docente si è rivolta, ha però deciso che la sospensione va revocata. La vicenda, avvenuta nello scorso anno scolastico, è raccontata da "La Provincia pavese". La docente aveva capito che la bambina viveva una situazione familiare difficile, quindi aveva iniziato a segnalare ogni singolo episodio alla dirigente, mettendo anche per iscritto quelle segnalazioni, fino a riferire che la stessa bambina aveva detto a lei e ad alcune compagne di classe che a procurarle quei lividi era stato il padre. Ma dopo mesi in cui - a quanto ha spiegato - nessun provvedimento veniva preso, ha deciso di denunciare quanto stava accadendo ai carabinieri. La segnalazione è passata alla procura dei Minorenni e ai servizi sociali: la bambina, a quanto si apprende, è stata affidata temporaneamente alla nonna. Ed è stato allora che la dirigente l'ha sospesa. Per questo la docente - che quest'anno insegna in un'altra scuola - si è rivolta alla Uil e, con l'avvocata Luisa Flore, al tribunale di Pavia. La giudice Donatella Oneto, dopo aver esaminato il caso, ha invitato la nuova dirigente scolastica (che ha preso il posto di quella che aveva adottato il provvedimento) a revocare la sospensione e a restituire alla docente la mancata retribuzione: l'udienza è stata aggiornata a dicembre. "Nell'amministrazione scolastica di questo paese episodi del genere non dovrebbero mai accadere, e non dovranno mai accadere. La vicenda della maestra di Pavia che prende l'iniziativa, essendo rimasta inascoltata, di denunciare un caso di violenza verso un minore e che si ritrova punita per aver danneggiato l'immagine della scuola ha dell'incredibile" - commenta il sottosegretario all'Istruzione Peppe De Cristofaro -. L'amministrazione scolastica dovrebbe piuttosto ringraziare la sensibilità e l'attenzione di questa docente, altro che portare per le lunghe l'iter burocratico-giudiziario. Spero che in tempi rapidissimi si possa annullare l'assurdo provvedimento di sospensione per rimediare a quello che è, in tutta evidenza, un grave errore. E chiedere scusa alla maestra, alla quale esprimo tutto il mio sostegno e la mia solidarietà".
Quei bambini maltrattati dai genitori: in Italia sono quasi 100mila. Pubblicato sabato, 31 agosto 2019 da Corriere.it. Novantunomila. È il numero dei bambini che nel nostro Paese, secondo uno studio realizzato a più mani, tra cui quelle dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, sono a vario titolo «vittime di maltrattamento». La maggior parte di questi casi si verifica in ambito familiare o domestico. E viene comunque portata a termine da persone di cui i bambini «si fidano». O sarebbe meglio dire «si fidavano, prima che...» il sogno di quella fiducia venisse strappato. Per questo è suggestivo che il titolo del progetto dedicato a loro dalla Fondazione Con i bambini - la quale vi ha destinato 15 milioni - sia proprio «Ricucire i sogni»: quinto bando promosso dalla Fondazione nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’iniziativa più in generale è rivolta non solo ai bambini ma alla «cura e protezione degli adolescenti vittime di maltrattamenti nonché alla prevenzione e al contrasto di ogni forma di violenza verso i minori di 18 anni». Lo studio cui si è accennato in apertura («Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia») è stato condotto insieme con l’Authority dal Cismai (Coordinamento italiano servizi maltrattamento all’infanzia) e da Fondazione Terre des Hommes Italia. I dati cui fa riferimento sono del 2015 e sono i più completi se si vuole avere uno spaccato delle cose su tutto il territorio. La fotografia dice che in Italia circa 50 minori ogni mille sono seguiti dai servizi sociali: il che tiene dentro tutti i tipi di situazione, quindi anche quelle legate non per forza a violenze bensì a tutta la galassia delle condizioni familiari difficili. In questo totale però sono compresi i 91mila casi di cui sopra. E i numeri confermano che la causa principale della gran parte dei reati compiuti sui bambini è connessa alla violenza domestica: in Italia nel 2016 - su questo aspetto i dati sono disponibili anche per l’anno successivo a quello del Rapporto - i reati sui bambini «vittime di maltrattamento in famiglia» sono stati 1.618 (nel 51 per cento dei casi si tratta di bambine), con un incremento del 12 per cento rispetto all’anno precedente. E proprio perché a differenza di altre situazioni qui esiste un contesto preciso su cui lavorare la prevenzione è possibile. Con programmi anche di lungo periodo. Come spiega Carlo Borgomeo, presidente di Con i Bambini, illustrando le premesse del progetto: «I bambini hanno il diritto di sentirsi protetti e al sicuro in tutti gli ambienti in cui crescono, a cominciare dalla casa. Maltrattamenti, abusi e violenze lasciano traumi indelebili nella vita dei ragazzi, impedendo loro uno sviluppo pieno. Per questo, il nuovo bando di Con i Bambini vuole stimolare la prevenzione e il contrasto del maltrattamento dei minori, attraverso interventi che restituiscano a bambini e adolescenti un diritto umano inalienabile: quello alla protezione e alla cura». Le proposte dovranno essere presentate da un partenariato composto da almeno tre organizzazioni (il soggetto responsabile deve essere un ente del Terzo settore) e dovranno mirare a potenziare i servizi già esistenti di protezione e cura dei minori, o a realizzarne dei nuovi. Inoltre dovranno prevedere attività complementari: supporto alla genitorialità, formazione di professionisti sul tema del maltrattamento (capacity building) e programmi informativi e di sensibilizzazione dell’intera «comunità educante» per riconoscere e affrontare i primi segnali di violenza, e incoraggiare le vittime a denunciare. La novità - non tale in assoluto, ma certamente notevole in una formulazione così esplicita e molto significativa soprattutto alla luce dei fatti di cronaca recenti come quelli di Reggio Emilia - è la raccomandazione di individuare metodi di controllo affinché i bambini siano protetti anche da chi dovrebbe aiutarli e magari non è abbastanza bravo, diciamo così, mentre quest’ultimo sia a sua volta aiutato a restare bravo se già lo è. Si chiama «Child Safeguarding Policy» e consiste nell’adozione di adeguate procedure per «tutelare i minori dai rischi di abuso, maltrattamento, sfruttamento e condotta inappropriata da parte degli operatori». Ma a queste dovranno aggiungersi ulteriori procedure interne per «prevenire il rischio di stress lavoro-correlato e/o di burn-out degli operatori coinvolti». Oltre a «Ricucire i sogni» la Fondazione ha rinnovato la linea di «cofinanziamento» a enti del Terzo settore e privati per altre iniziative nell’ambito del percorso contro la povertà educativa minorile in tutta Italia. E con un budget complessivo di dieci milioni coprirà il 50 per cento dei costi dei progetti.
· La strage dei bambini innocenti.
La strage dei bambini innocenti. Picchiati, strangolati perché piangono o disturbano. L'assassino è spesso il padre, la madre è complice. Sono decine i bambini che muoiono senza che nessuno li aiuti. Maurizio Tortorella il 21 giugno 2019 su Panorama. La strage degli innocenti non è soltanto quella raccontata nel Vangelo secondo Matteo, duemila anni fa. Avviene anche nell’anno del Signore 2019. E in Italia. In un sobborgo di Napoli. In un paesino vicino a Cassino. Alla semiperiferia di Milano. A Novara. È davvero la strage degli innocenti, l’ecatombe dei bimbi: bimbi piccoli, uccisi dalle loro stesse famiglie; da padri e da madri a volte con storie di droga e alcol, da genitori irascibili e violenti, o comunque acquiescenti e complici, che strangolano i figli oppure li picchiano fino a farli morire.
I moventi sono assurdi, demenziali, abietti: quei poveri figli piangevano, si lamentavano, davano fastidio, impedivano il sonno dei grandi o la loro intimità sessuale. A Milano non è morta solo per un miracolo la bimba egiziana di tre anni, che i due genitori riempivano di botte e chiamavano «scimmia» solo perché disabile, progettando di avvelenarla perché disturbava e piangeva sempre. Ma le botte a volte non hanno nemmeno un perché, come pare sia stato nel caso di Tony Essobti Badre, nato 24 anni fa in Italia da genitori tunisini. A Cardito, un comune di 22 mila abitanti a nord di Napoli, alla fine di gennaio Badre ha ucciso Giuseppe, 7 anni, secondo figlio della sua compagna, bastonandolo con un lungo manico di scopa. Con la stessa arma l’uomo ha massacrato la primogenita di 8 anni, Noemi, poi salvata in ospedale. Dalla strage ha escluso solo la sua vera figlia, terzogenita della coppia. A Cardito, come spesso capita in questi casi, dietro il portone nero del palazzo scrostato i vicini oggi raccontano delle frequenti urla disperate che uscivano dalle finestre della famiglia imperfetta. Ma anche a scuola, l’elementare «Salvatore Quasimodo», le maestre erano consapevoli che i bambini venivano maltrattati. Intercettata nella sala d’aspetto del commissariato, in attesa dell’interrogatorio, un’insegnante mormorava: «Tutti i giorni venivano con il volto tumefatto: la sorellina è arrivata con un pezzo d’orecchio mancante». Qualcuno aveva anche segnalato la situazione alla preside, ma non era servito. Ora Tony è in carcere, accusato di omicidio volontario aggravato. Ma intanto Giuseppe è per sempre al buio, in una piccola tomba. È stata arrestata anche sua madre, Valentina Caso, 30 anni, che pure aveva raccontato di aver tentato di fermare il compagno, e aveva giurato di essere poi crollata in una trance psicofisica durata fino alla morte del figlio: due-tre ore nelle quali Valentina sosteneva di essere rimasta paralizzata, incapace di capire l’agonia di Giuseppe. L’accusa sostiene che in realtà la donna abbia contribuito alla morte del figlio evitando di chiamare i soccorsi e abbia cercato di coprire il compagno addirittura nascondendo le ciocche di capelli strappati alla figlia. Poi c’è stata la sequenza sconvolgente di aprile-maggio.
Primo atto del dramma: l’uccisione di Gabriel Feroleto, 2 anni, strangolato a Piedimonte San Germano, un paesino vicino a Cassino, dalla madre ventottenne, Donatella Di Bona. Lo schema è lo stesso della storiaccia di Cardito, ma invertito: qui il padre, Nicola Feroleto, 48 anni, che pure inizialmente aveva giurato di essere arrivato troppo tardi per salvare il figlio, è stato poi arrestato per complicità con la moglie. Donatella aveva inventato la storia di un’auto pirata che in strada aveva travolto il figlio, ma ha finito per confessare di averlo strangolato perché piangeva mentre lei e il compagno volevano fare sesso in una strada di campagna: «Per farlo stare zitto gli ho stretto le mani intorno al collo e gli ho tappato la bocca».
Il secondo atto ha i capelli biondi di Mehmed, due anni e mezzo, ucciso a Milano dal padre Aljica Hrustic, un croato venticinquenne. Nel palazzone bianco di via Ricciarelli, sofferente semiperiferia milanese per paradosso così vicina all’elegante quartiere di San Siro, vivevano in quattro in un misero trilocale occupato abusivamente: camera, cucinino e bagno con finestra sul ballatoio, i vetri rattoppati con gli asciugamani. «Non riuscivo a dormire» ha confessato Aljica «così mi sono alzato e l’ho picchiato». Non si sa se Mehmed stesse piangendo. La madre, Silvijia, una 23enne croata con precedenti per furtarelli e borseggi, ha dichiarato tra le lacrime: «Ho provato a fermarlo, ma ha picchiato anche me». Dopo quelle due maledette ore di violenza, Hrustic ha preso le altre due figlie (il quarto della coppia, il maggiore, vive in Croazia con gli zii), è uscito di casa e prima di fuggire ha chiamato il 112: «Venite subito, mio figlio non respira bene». Poliziotti e infermieri non dimenticheranno facilmente la scena che si sono trovati davanti: Silvijia, incinta di un quinto figlio, ninnava ossessivamente Mehmed, ormai senza vita e con i piedini fasciati per le ferite subite nei giorni precedenti. Il corpo del bimbo era coperto di lividi, non tutti provocati dall’ultimo raptus del padre. «Era già successo» ha ammesso lei: «Quando mio marito fuma hashish va fuori di testa. Perde il controllo». I vicini, dopo aver fatto a lungo finta di non sentire le grida che uscivano dal trilocale dei croati, oggi chiacchierano e raccontano di altre dipendenze. Dicono che Hrustic vagasse spesso nel condominio, ubriaco e fatto di droga, pronto a tirare pugni e calci contro il contatore del gas cui non riusciva ad allacciarsi, o contro il primo malcapitato.
Il terzo atto è il corpo martoriato di Leonardo, 20 mesi appena, che secondo l’accusa è stato ucciso in una casa alla periferia di Novara dai suoi genitori: Nicholas Musi di 23 anni e Gaia Russo di 22, incinta di un secondo figlio. Interrogati in ospedale, dove avevano portato il bimbo in fin di vita, i due avevano parlato di una caduta dal lettino. In realtà, a provocare la morte del bambino è stata un’emorragia al fegato, causata da percosse. Il medico legale ha trovato lesioni sul capo, sul torace, sulla schiena, persino sui genitali di Leonardo. Interrogati, i suoi genitori sono rimasti freddi. «Lui mi ha detto che aveva la coscienza pulita» ha rivelato il pubblico ministero Ciro Caramore: «Una frase che, col senno di poi, mi pare agghiacciante». In base ai test tossicologici, Nicholas aveva assunto cocaina e cannabinoidi, ma non ci sono prove fosse sotto effetto di droghe quando Leonardo è stato picchiato e ucciso. La mamma era «pulita». Ora lui è in carcere, lei è in una struttura protetta solo perché incinta. Gli inquirenti hanno scoperto che Leonardo era già stato portato al pronto soccorso in aprile: «È stato morsicato da un cane»avevano detto i suoi genitori. Oggi si pensa che non fosse vero. Lo psichiatra Massimo Ammanniti sottolinea l’età delle vittime: «Sono tutti bimbi intorno ai due anni» dice. «È il momento in cui un neonato, che va solo nutrito e pulito, diventa un essere umano che si muove, cammina, fa richieste». La sua spiegazione è che, alla prima prova, i genitori di Mehmed, Gabriel e Leonardo non abbiano retto.
Ammanniti parla di padri e madri «che non sono veri adulti, ma adultescenti», privi della minima idea di che cosa sia davvero fare i genitori. Dice Daniela Missaglia, avvocato milanese ed esperta di diritto di famiglia, autrice del recente Crimini d’amore, saggio coraggioso sulle violenze intrafamiliari: «In un mondo dove basta un disegno equivocato all’asilo per allertare battaglioni di assistenti sociali, persino a sproposito, queste drammatiche realtà sfuggono e fanno notizia quando è troppo tardi». Concorda Francesco Morcavallo, oggi avvocato a Roma, ma dal 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna: «Questi drammi» dice «sono il segnale che il sistema non funziona. Servizi sociali e tribunali minorili si occupano di decine di migliaia di casi, spesso sottraendo alle famiglie bambini in maniera indebita: distratti, troppo spesso si lasciano poi sfuggire i casi di vero pericolo, le vere emergenze». L’altro problema riguarda le mogli di mariti violenti: «Se sono madri» ricorda Morcavallo «hanno un problema in più a denunciare il compagno: la paura di vedersi sottrarre i figli». La strage degli innocenti nasce anche da qui.
· Quando i figli e i nipoti picchiano genitori e nonni.
Quando i figli e i nipoti picchiano genitori e nonni. Pubblicato domenica, 31 marzo 2019 da Corriere.it. Caro Aldo (Cazzullo), le scrivo per riflettere con lei sulle violenze domestiche perpetrate da figli e nipoti adulti su genitori e nonni, scatenate spesso da ludopatia, tossicodipendenze o per bramosia di denaro per acquistare l’ultimo modello di cellulare, come riportato dalla stampa locale che ci avverte anche non essere episodi rari. Questi episodi non sono il segnale di una società dove serpeggia la violenza, dove «l’altro» non è occasione di confronto e arricchimento personale, ma limite all’appagamento delle proprie pulsioni e, nel caso degli anziani, anche dalla mancanza di pietà per chi è in difficoltà e andrebbe solo alleviato dal peso degli anni? La prepotenza e la violenza verbale che dilagano in rete sono forse una conseguenza di una società infantile, incapace di senso del limite? Dove e quando abbiamo sbagliato nel consentire ai figli di aspettarsi tutto dai genitori, persino il perdono dopo che sono stati arrestati in flagranza di reato, negando tutto davanti al giudice per «amore»? Brunella Guatta, Brescia
· Quando i bimbi si menano a scuola.
Bimbi picchiati dal maestro: «Zitti o volate fuori dalla scuola». Pubblicato venerdì, 29 marzo 2019 da Corriere.it. «Lo faccio per disciplinarli». A queste parole i vigili urbani che gli avevano appena consegnato l’ordinanza cautelare emessa dal gip nei suoi confronti hanno sgranato gli occhi. E il pensiero è andato al motivo - peraltro per ora poco chiaro - per cui non avevano potuto arrestare colui che avevano davanti. Sospensione dal servizio a tempo indeterminato e divieto di avvicinamento alla scuola e ai bambini sono infatti le uniche misure decise dal tribunale per il maestro di 42 anni accusato dalla Municipale di aver maltrattato, picchiato e umiliato più volte 11 dei 19 bambini della classe che gli era stata affidata in una scuola dell’infanzia comunale fra Portuense e Bravetta. Gli agenti del Gruppo Marconi proseguono ora nelle indagini per capire quanto indietro nel tempo devono andare con gli accertamenti, visto che per il momento hanno scoperto violenze su bimbi fra i tre e i cinque anni a partire dal dicembre scorso, dopo aver scoperto per caso, parlando con una coppia di genitori convocati in ufficio per altri motivi, gli atteggiamenti violenti del maestro. «Un collega severo», come lo hanno descritto i colleghi e la coordinatrice della sezione, che hanno riferito di non aver mai saputo di violenze in quella classe. Un pendolare dalla provincia di Avellino, dove risiede, appoggiandosi a un alloggio a Roma dove vive da solo. È stato denunciato per maltrattamenti aggravati e continuati su minori, alcuni dei quali - gli otto che non sono stati picchiati - hanno comunque dovuto assistere alle violenze. Al vaglio anche il reato di abbandono del posto di lavoro, visto che l’educatore costringeva i bambini a dormire per potersi poi assentare. Dopo aver scoperto quello che accadeva nella scuola dell’infanzia, i vigili hanno convocato alcuni genitori che hanno riferito di improvvisi cambiamenti di umore dei loro piccoli, che non volevano più andare a scuola, manifestando anche insonnie. Decisive a quel punto le immagini delle telecamere nascoste piazzate dalla procura nell’aula assegnata al maestro. Le intercettazioni video e ambientali solo fra gennaio e febbraio hanno fornito un quadro drammatico di quello che accadeva ai bambini. Sculacciate, colpi alla testa, spinte, strattonamenti, anche violenti. Punizioni a chi doveva andare in bagno, come rimanere faccia al muro, fino a quando i bimbi non potevano più trattenersi. «Ti gonfio come una zampogna», diceva il maestro a una piccola dopo averla picchiata perché si era alzata dal suo lettino durante il «riposo forzato». E ancora un suo compagnuccio è stato costretto a restare seduto con la testa girata verso il muro perché non ricordava i giorni della settimana e a un altro che si lamentava perché era stato afferrato per la testa l’educatore ha risposto: «Non mi rispondere che ti faccio volare fuori dalla scuola, quelle sono lacrime di coccodrillo». A un piccolo che non voleva dormire, la minaccia era «basta, ti lego al letto, ha capito?» e a una bimba che non voleva essere obbligata a dormire e aveva paura della porta chiusa diceva: «Non la apro, ci stai fino a domani, ti butto le bambole al secchio, se svegli tutti ti sbatto la schiena, e se ti addormenti fra mezz’ora ti sveglio ogni secondo». Le immagini dei maltrattamenti sono state analizzate per giorni dai vigili del Nucleo assistenza minori del Gssu (Gruppo sociale sicurezza urbana) che hanno poi inviato in procura una relazione insieme con i colleghi del Gruppo Marconi. Ma adesso si indaga su altri eventuali casi.
Bullismo. Bulli da menare.
BULLI BUONI DA MENARE. Fausta Chiesa per Corriere.it l'11 Settembre 2019. Il caso è quello di un ragazzo calabrese, Francesco, che ha tirato un pugno a Gianmarco facendogli saltare un dente, perché lo stava bullizzando. I genitori del ragazzo, Maria Giovanna e Claudio, sono stati condannati dalla Corte di Appello di Catanzaro nel 2017 a risarcire con 18mila euro Gianmarco. L’episodio tra i due compagni di scuola risale a circa dieci anni fa, dopo che per lungo tempo Francesco era stato angariato da Gianmarco e da altri ragazzini. Secondo la Corte d’Appello, «essendo il comportamento offensivo e persecutorio della vittima collocato in una fase temporale diversa da quella della reazione di Francesco, quest’ultimo non aveva agito per legittima difesa, ma per aggredire fisicamente il proprio rivale». Dunque la reazione «a freddo» non andava «perdonata». Ora, invece, la Cassazione ha ribaltato la sentenza, assolvendo il ragazzo e motivando così la decisione. È «doveroso che l’ordinamento si dimostri sensibile» verso gli adolescenti bullizzati che hanno reazioni aggressive dopo essere stati lasciati soli, «dalla scuola e dalle istituzioni», nell’affrontare il conflitto» e che non hanno avuto il «sostegno» della condanna «pubblica e sociale» dei bulli», scrive infatti la Suprema Corte che ha accolto il ricorso dei genitori contro la condanna al risarcimento del danno. «Nell’attesa che si diffondano forme di giustizia riparativa specificamente calibrate sul fenomeno del bullismo - auspica il verdetto - ferma la necessaria condanna tanto dei comportamenti prevaricatori quanto di quelli reattivi, la risposta giuridica, nel caso affrontato, non avrebbe dovuto ignorare le condizioni di umiliazione a cui l’adolescente in questione è stato ripetutamente sottoposto». «Ed è prevedibile - prosegue il verdetto - che la vittima possa reagire con comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi particolarmente elevati in termini emotivi, in forme di resilienza passiva e auto-conservativa, evolversi in forme di autodistruzione oppure tradursi, come in questo caso, in comportamenti esternalizzati aggressivi». Per la Cassazione, «in assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e sostenere Francesco, mancando anche la prova di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte di Francesco una reazione controllata e non emotiva».
Bullismo, concorso di colpa per la reazione violenta della vittima. Andrea Alberto Moramarco l'11 settembre 2019 su Il Sole 24 ore. In caso di reazione violenta da parte della vittima di bullismo nei confronti del “bullo”, deve essere riconosciuto il concorso di colpa anche se l'aggressione è avvenuta in un secondo momento, dovendosi tener conto, sotto il profilo della causalità e in termini di equità, delle vessazioni precedentemente subite dallo studente, non tutelato dalla scuola. Ad affermarlo è la Cassazione con una densa ed articolata ordinanza (22541/2019), nella quale si dà rilievo altresì all'importanza dell'educazione impartita dai genitori ai propri figli.
Il caso. La vicenda prende le mosse da un litigio scoppiato nelle vicinanze di una scuola tra due studenti, all'esito del quale uno di essi riportava, a causa di un pugno sul volto, un'avulsione traumatica ad un dente ed escoriazioni al labbro. In seguito all'accaduto si apriva un procedimento penale nei confronti del ragazzo-aggressore, che si concludeva con una sentenza di non luogo a procedere, in quanto i giudici del Tribunale dei minorenni avevano rilevato la presenza della provocazione e perciò ritenevano l'alunno non meritevole di sanzione penale. La controversia si spostava così dinanzi ai giudici civili, ai quali il ragazzo-aggredito chiedeva che gli fosse riconosciuto un cospicuo risarcimento del danno da parte del suo aggressore, nonché dei suoi genitori ex articolo 2048 Cc, in quanto responsabili in solido del fatto illecito commesso dal loro figlio minore. In tale sede emergevano poi più chiaramente due aspetti della vicenda: i continui atti di bullismo, a cui il ragazzo-aggressore avrebbe reagito, e la giustificazione della reazione di quest'ultimo da parte dei suoi genitori. In primo grado, il Tribunale escludeva la responsabilità dei genitori e riconosceva un concorso di colpa tra i due ragazzi, mentre la Corte d'appello al contrario riconosceva la responsabilità in base all’ articolo 2048 Cc ed escludeva il concorso di colpa dell'alunno aggredito.
Il ruolo dei genitori. La delicata questione giunge così in Cassazione, dove i giudici di legittimità chiariscono alcuni aspetti giuridici della vicenda e offrono al contempo importanti spunti di riflessione sull'importanza dell'educazione impartita dai genitori e sulla piaga del bullismo. Quanto al primo tema, la Suprema corte ricorda come per andare esenti da responsabilità i genitori avrebbero potuto e dovuto provare di aver impartito al proprio figlio «un'educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari», ovvero di aver «esercitato sul minore una vigilanza adeguata all'età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti», sicché l'azione violenta del figlio non avrebbe potuto essere imputabile ad una loro negligenza educativa. I genitori, invece, si sono limitati a giustificare l'azione violenta del figlio quale risposta alla serie di soprusi di cui era stato vittima, «dimostrando di non aver percepito il disvalore della condotta del figlio e la gravità del fatto imputatogli». Pertanto, dal punto di vista giuridico, per la Cassazione sussiste una responsabilità dei genitori per il fatto illecito commesso dallo studente.
La piaga del bullismo. Quanto al tema del bullismo, i giudici di legittimità ritengono doveroso contrastare questo delicato fenomeno sociale, anche attraverso il riconoscimento di una sua valenza, in casi come quello di specie, dove non è sufficiente ragionare giuridicamente in termini di stretta causalità generale, ma è opportuno valutare in termini di equità la causalità individuale, dando cioè rilevanza alle costanti provocazioni subite nel tempo dal ragazzo che hanno portato ad una sua aggressione violenta. Ciò vale soprattutto quando la vittima degli atti di bullismo sia un adolescente, in quanto «la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e positivo» rispetto agli avvenimenti di cui è suo malgrado protagonista, essendo possibile che la sua reazione si risolva, «a seconda dei casi, nell'adozione di comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi […] in forme di resilienza passiva e auto conservative, evolvere verso forme di autodistruzione, oppure tradursi, come è avvenuto nel caso di specie, nell'assunzione di comportamenti esternalizzati aggressivi». Per i giudici di legittimità, inoltre, «il bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale» e richiede «un coacervo di interventi coordinati» che possano arginare il fenomeno. Per il Collegio, che rimarca pesantemente l'assenza totale di una presa di posizione dell'istituto scolastico nei confronti dei bulli e contro il fenomeno del bullismo, è «doveroso che l'ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificare le reazioni», soprattutto ove la vittima «venga lasciata sola nell'affrontare il conflitto». Pertanto, dal punto di vista giuridico, in attesa che «si diffondano forme di giustizia ripartiva specificamente calibrate sul fenomeno del bullismo», per la Suprema corte è necessario condannare tanto i comportamenti prevaricatori quanto quelli reattivi, «senza mortificare le regole causali, né utilizzarle come giudizi di valore», accedendo ad una piano di valutazione complessiva di tutti i fattori concausali della vicenda.
Bullismo, rompe un dente all'aguzzino. Cassazione: “Reazione legittima”. Le Iene l'11 settembre 2019. Per la corte è comprensibile che Francesco, un adolescente che ha reagito contro il proprio aguzzino, sia diventato aggressivo: nessuno l’ha aiutato. “Ma non è un via libera alla violenza”, dice Matteo Lancini a Iene.it. Con Nina Palmieri vi abbiamo raccontato il dramma simile di Andrea. È stato bullizzato per anni, sottoposto a ogni tipo di angheria. Un giorno reagisce, colpisce il suo aguzzino con un pugno e viene condannato a risarcirlo. Ma la Cassazione ribalta la sentenza: nessuno lo ha aiutato, la vittima è rimasta sola e in quel contesto è normale che abbia reagito con violenza rompendo il dente al suo bullo. La storia risale a dieci anni fa. Gianmarco e Francesco sono compagni di scuola, ma il primo inizia a bullizzare l’altro con vessazioni continue. Nessuno interviene per fermarle. Qualche tempo dopo Francesco si difende e sferra un pugno a Gianmarco e gli rompe un dente. Inizia un lungo processo e nel 2017 i genitori di Francesco vengono condannati a risarcire 18mila euro a Gianmarco per quel pugno. Per la corte d’Appello "essendo il comportamento offensivo e persecutorio della vittima collocato in una fase temporale diversa da quella della reazione di Francesco, quest'ultimo non aveva agito per legittima difesa, ma per aggredire fisicamente il proprio rivale". La Cassazione ieri ha cambiato il verdetto: niente risarcimento per Gianmarco. Per la corte nessuno, nemmeno la scuola, è intervenuto per aiutare Francesco a difendersi dal suo bullo e quindi è comprensibile che il ragazzo abbia colpito il suo aguzzino. Per la Cassazione, insomma, non si poteva pretendere che Francesco avesse una reazione più controllata, vista la sua età e le “condizioni di umiliazione” subite. “È importante che la Cassazione abbia analizzato il caso concreto e preso una decisione basata su quanto accaduto tra questi due adolescenti”, dice a Iene.it Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta presidente della Fondazione Minotauro. “In un contesto in cui i genitori e la scuola non riescono ad intervenire, in cui addirittura si cerca un risarcimento economico, è giusto che la corte abbia protetto la vittima di bullismo”. Non bisogna però pensare che la sentenza sia un via libera alla violenza come unica reazione nei confronti dei bulli. “Sarebbe una lettura superficiale”, dice Lancini. “In realtà è una risposta a un caso specifico: in questo contesto era l’intervento giusto, ma non necessariamente si potrebbe applicare in una dinamica differente”. No alla violenza dunque, ma agire con altri mezzi: “È sempre necessario l’intervento delle famiglie e delle istituzioni a protezione della vittima, analizzando la situazione e cercando la migliore soluzione possibile. Poi bisogna cercare di aiutare anche il bullo: spesso a quest’ultimo servono punizioni educative, che lo aiutino ad analizzare le fragilità che lo portano a comportarsi così”. Una realtà, quella del bullismo tra gli adolescenti, che abbiamo raccontato con Nina Palmieri e una storia simbolo di queste dinamiche, nel servizio che vedete qui sotto: quella di Andrea, un ragazzo di 12 anni con alle spalle una lunga storia di vessazioni da parte dei compagni di scuola. Siamo in un paesino della Calabria, dove Andrea frequenta una scuola d’élite. Tutto inizia, come spesso succede tra bambini come un gioco. Che però si è trasformato presto in vero bullismo. “Credevo di essere come mi descrivevano loro, era come se quegli insulti me li meritassi”, racconta Andrea, con gli occhi timidi e un po’ impauriti, a Nina Palmieri. “All’inizio della prima media mi dicevano parole brutte, come coglione, merda, cacca”. Parole che Andrea si sente ripetere per più di anno a scuola e fuori. “Hanno iniziato delle ragazze e poi i ragazzi le hanno seguite”. A mettere in moto quella macchina di insulti sarebbero state tre bambine che Andrea descrive come le “vip della scuola”. Belle, brave a scuola e amate da tutti. Nonostante non parli molto a casa, la mamma di Andrea si rende conto che qualcosa non va e più volte va a scuola per cercare di risolvere la situazione. Ma Andrea ormai è diventato il passatempo del gruppo. Fino a un video che finisce su Instagram in cui il ragazzo viene preso in giro pubblicamente: Andrea torna a casa e, in lacrime, racconta tutti ai genitori. Ma le segnalazioni che sua madre continua a fare alla scuola continuano a cadere nel vuoto. Anche dopo l’estate, quando ricominciano le lezioni, le cose non migliorano, anzi: “Mi sono sentito come se fossi ai margini di tutta la scuola”. Un pomeriggio di dicembre Andrea, che nel frattempo ha iniziato ad andare da una psicoterapeuta, va in un centro commerciale con uno dei pochi che non l’hanno isolato. Un ragazzo che, racconta Andrea, era nella sua stessa scuola ma in un’altra classe gli si avvicina. “Mi ha dato un pugno in pancia”: Andrea cade e si rompe un piede. I genitori presentano denuncia alle autorità e chiedono di trasferire Andrea. Nina Palmieri è andata a parlare con la preside della vecchia scuola di Andrea, che però ha negato: “Il ragazzo di cui volete parlare in questa scuola non ha ricevuto alcun episodio di bullismo”. Una frase che ci sembra rispecchiare la delusione di Andrea: a fargli male, dice, sono stati più i grandi dei bambini: “Mi aspettavo che li sgridassero, che cercassero di risolvere il problema”. Questo bambino coraggioso è arrivato addirittura alla consapevolezza che ad avere bisogno di aiuto, sono anche quei bambini che lo bullizzavano: “L’unica cosa che fanno i bulli è ingannare loro stessi. Non ha senso questa cosa”.
· Quando son le donne le pedofili.
Antonio Palma per fanpage.it il 16 dicembre 2019. Colpo di scena nel processo a carico della donna 32enne di Prato che ha avuto un figlio da un ragazzino minorenne dopo aver avuto diversi rapporti sessuali col ragazzino che all’epoca aveva solo 13 anni e che oggi ne ha quindici. Al termine dell’udienza di oggi in Tribunale, infatti, i legali dell'imputata hanno deciso di chiedere l'intervento della Consulta sollevando la questione di legittimità costituzionale. Nel dettaglio, secondo i legali della donna, ci sarebbe "un'eccezione di legittimità costituzionale in ordine alla presunzione assoluta d'incapacità dei minori di 14 anni prevista dall'articolo 609 quater del codice penale". In pratica, la difesa sostiene che il consenso di un minore a fare sesso ci può essere anche sotto i 14 anni. I legali della signora da tempo hanno basato la loro difesa sul fatto che i rapporti col minore fossero consenzienti e oggi, al culmine di una lunga relazione in aula, hanno sostenuto che la legge sulla violenza sessuale su minore di 14 anni ormai è obsoleta in quanto il consenso consapevole può essere dato anche da un ragazzo più piccolo e che quindi ogni caso va valutato singolarmente. Nella loro memoria difensiva, gli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri sostengono che il discrimine tassativo dei 14 anni per i ragazzi di oggi non sarebbe più valido in tutti i casi e chiedono alla corte costituzionale di esprimersi. Acquisendo la memoria difensiva, il giudice si è riservato di ammettere l'eccezione e comunicherà la decisione nell'udienza del prossimo 20 gennaio. Il tempo necessario per permettere alle altre parti in causa, pm e parti civili, di poter esaminare la richiesta e fare le proprie controrepliche. Il processo intanto va avanti. La donna, che è agli arresti domiciliari dal marzo scorso, è accusata di violenza sessuale su minore sotto i 14 anni, violenza sessuale per induzione e violazione di domicilio. Per la stessa vicenda il marito invece è imputato per alterazione di stato civile per avere riconosciuto il bambino pur sapendo che non è suo
Prato, così il 14enne molestato è crollato: «Sono disperato, la mia vita è rovinata». Gli sms della donna. Dna sul primo figlio. Pubblicato da Marco Gasperetti giovedì 28 marzo 2019 su Corriere.it. Una delle testimonianze più drammatiche contenute nelle carte dell’inchiesta sull’operatrice sanitaria di 31 anni di Prato arrestata per violenza sessuale su un ragazzino allora 13enne (oggi ne ha 15) e dal quale dopo due anni di relazione ha avuto un figlio, è l’incontro tra la mamma dell’adolescente, l’istruttrice e la direttrice della palestra che il ragazzo frequentava insieme all’accusata. L’istruttrice racconta di aver avuto un incontro con la mamma del ragazzino, che frequentava la palestra da quando aveva cinque anni, durante il quale chiedeva aiuto a lei e alla direttrice perché aveva notato un comportamento strano del figlio. «Ci disse che la sera prima aveva saputo che chattava con frequenza assidua con una donna madre di un altro mio allievo – racconta l’istruttrice - e ci chiese di organizzare un incontro per capire bene la natura del rapporto tra il figlio e la donna». L’incontro con il ragazzo viene organizzato in ufficio e l’istruttrice, alla presenza della mamma dell’adolescente, chiede che tipo di rapporto avesse con questa signora. «Lui mi rispose che la sentiva perché lei frequentemente minacciava di ammazzarsi e quindi cercava di sostenerla e tranquillizzarla. – racconta l’istruttrice -. Gli dissi che era strano che parlasse con lui e non con uno psicologo». L’istruttrice chiede al ragazzo per quale motivo la donna parlasse solo con lui e non con gli altri allievi del suo corso. «Lui inizialmente disse che non ne sapeva il motivo, - prosegue l’istruttrice - ma si vedeva che era nervoso. Notai immediatamente che non stava dicendo tutta la verità». Al ragazzino viene chiesto di mostrare tutta la chat ma lui dice di averla cancellata. A quel punto la mamma e l’istruttrice gli suggeriscono di portare il telefonino dal gestore per avere l’elenco di tutte le conversazioni. «Lo vidi ancora più nervoso. – ricorda l’insegnante sportiva -. Gli dissi che in quell’ufficio erano presenti due delle donne più importanti della sua vita in quel momento, ovvero la madre, di cui doveva fidarsi, e io, che sono quella che lo sta facendo arrivare a buoni livelli e gli sta assicurando un futuro sportivo importante. Cercai di rassicurarlo e di farlo sentire libero di parlare. Gli chiesi allora di chi fosse il figlio più piccolo della donna, visto che lei non faceva mistero che il padre non fosse il marito». Il ragazzino inizia a piangere e a urlare confessando che la donna gli aveva rivelato che era lui il padre e che quella donna gli aveva rovinato la vita. «Raccontò che la donna aveva scritto su Facebook di essere incinta e lui, spaventato dall’eventualità di poter essere il padre del bambino, l’aveva chiamata ma gli aveva detto di non preoccuparsi perché il bambino era figlio del marito. Ma poi, a gravidanza ormai avanzata, aveva confessato che in realtà il piccolo che portava in grembo era suo. A quel punto l’aveva pregata di abortire, ma lei gli aveva detto che oramai era tardi». Il ragazzino è disperato, piange, ripete che ormai la sua vita è rovinata. Racconta del primo rapporto con la donna dicendo che aveva «l’ormone del tredicenne» ma allo stesso tempo di non sapere che cosa sarebbe accaduto durante il rapporto. Un’altra testimonianza, sempre nella palestra frequentata dalla operatrice sanitaria arrestata, descrive alcuni comportamenti particolari della donna. «Ho potuto notare che la donna ha piacere a parlare in generale coi ragazzini, sia maschi che femmine. Ho anche sentito qualche volta qualcuno dei genitori fare delle battute sul fatto che lei sta sempre a parlare con questi adolescenti e ricordo che puntualmente risponde: “chi sta in mezzo ai ragazzini rimane giovane”. Gira voce che questa donna non sia tanto normale, poiché non ha mai fatto mistero che il bambino appena nato non sia figlio del marito». Dall’inchiesta salta fuori anche un’ossessione continua della donna con il ragazzino al quale promette di volersi separare con il marito ma è anche gelosa e minaccia di uccidersi. Accade, la prima volta, quando vede il ragazzino su Facebook con un’amica di scuola. «Ora so per certo che ami una persona – scrive via chat al ragazzo – e quindi non capisco se ami questa (ragazza) cosa tu ci faccia da me, veramente») e gli rimprovera di andare da lei solo per avere rapporti sessuali. Lui gli risponde di essere all’esasperazione, lei risponde che incontrarsi sapendo che lui ama un’altra la fa arrabbiare, ma si dice pronta a darle dei consigli se lui vorrà confidarsi con lei. Il ragazzo prova a resistere lei alla fine dice che allora non vuole vederlo più perché non sa con chi fa sesso. «Sono stanca va a finire che mi ammazzo», scrive. E il giorno dopo ribadisce che «mi sa che stavolta prendo coraggio devo solo trovare un modo quasi indolore, la vita non ha mai fatto per me, da quando ti amo più che mai, però ecco, ci tengo a rivederti». E la sera ribadisce che ha trovato una soluzione per uccidersi: «Mi sparo aria in vena».
Michela Allegri per “il Messaggero” il 29 marzo 2019. Diceva di avere un progetto per il futuro - «oggi stesso andrò dall' avvocato per avviare le pratiche di separazione, sei contento?» -, parlava di quando sarebbero stati «più grandi» e di un futuro insieme: «Quanti figli pensi di volere?». Emergono nuovi dettagli dalle 175 pagine di chat depositate agli atti dell' inchiesta che ha portato ai domiciliari l' infermiera trentunenne di Prato, accusata di atti sessuali con un minore di 14 anni e violenza sessuale per induzione. Dal 2017 fino a poco più di un mese fa ha avuto una relazione con un ragazzino che, all' inizio della storia, aveva solo 13 anni. Hanno avuto anche un figlio. Nell' ordinanza si legge che la donna avrebbe «soggiogato» l' adolescente, ricattandolo e costringendolo a portare avanti quella storia morbosa. Lo ha anche minacciato, per mesi, dicendo che in caso di rifiuto si sarebbe suicidata: «Non ce la faccio ad amare a senso unico», gli scrive il 14 febbraio. A incastrare l'indagata, oltre al test del Dna che ha confermato che il bimbo nato 7 mesi è figlio del quindicenne, sono proprio le chat acquisite dalla procura. Quando il ragazzo, dopo giorni di pressioni estenuanti e di fronte alla minaccia della donna - «mi uccido» -, dice di amarla, lei sostiene che si separerà subito dal marito. Lo stesso marito che è stato indagato per avere alterato lo stato di nascita del neonato, dichiarando che fosse suo figlio, nonostante sapesse che il vero padre era l'adolescente, oggi quindicenne. «Sto meglio perché so che mi ami», scrive la donna al ragazzino. E commentando il progetto del divorzio chiede: «Sei contento?». Lui tentenna, «forse è più intrigante se resti con tuo marito», scrive. L'infermiera lo accusa di volerla solo come amante. È delusa perché durante il loro ultimo incontro lui aveva detto «che si vedrebbe insieme a lei nel futuro». L' adolescente replica che non sa «come si evolveranno le cose», non sa se avranno «una relazione stabile». La donna si arrabbia e il giovane, allarmato, si giustifica: «Era solo una riflessione». Alle 22.08, l'infermiera dice di avere «ripreso lo Xanax» e di aver «paura di morire durante la notte». Ieri, convocato dai pm Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli e dalla Squadra Mobile per essere interrogato, il marito della donna non si è presentato e, tramite il suo legale, ha fatto sapere di volersi avvalere della facoltà di non rispondere. Gli avvocati Mattia Alfano e Lorenzo Nistri, che assistono la donna, hanno già presentato al riesame istanza di revoca della misura. Prima, però, ci sarà l' interrogatorio di garanzia dell' infermiera, fissato per il 2 aprile. Intanto i risultati del test del Dna disposto sull'altro figlio della coppia, che ha 11 anni, hanno confermato che il padre è il marito della donna. La verifica è stata effettuata perché la procura ritiene che l'indagata abbia avuto contatti - e forse rapporti - anche con altri minori. Un sospetto che sembra trovare conferme dalle verifiche effettuate sul computer e sul cellulare della trentunenne: gli inquirenti hanno trovato scambi con un altro adolescente, mentre nella cronologia delle ricerche internet sono stati recuperati siti pedopornografici. Riscontri arrivano anche dalle dichiarazioni di alcuni testimoni. La titolare della palestra frequentata sia dal ragazzino che dal figlio maggiore della donna ha raccontato ai pm di avere notato «comportamenti sospetti: una sera sono entrata nello spogliatoio dei bambini, utilizzato sia da maschietti che da femminucce accompagnati dai genitori, ho visto quella donna appoggiata alla colonna del muro delle docce, che parlava con il quindicenne, mentre lui si faceva la doccia. Non distoglieva lo sguardo dal suo corpo. Dopo quell' episodio dissi a lui di trasferirsi nello spogliatoio degli uomini». Non è tutto: «All' uscita, dopo che suo figlio si era cambiato, lei aveva l' abitudine di rientrare nello spogliatoio, lasciando il piccolo sulla panca. Puntualmente, andava via quando usciva anche il quindicenne».
Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 29 marzo 2019. «Lei era quella che arrivava sempre con largo anticipo in palestra ed era l' ultima a uscire. Stava spesso lì, seduta sulle panche davanti allo spogliatoio dei piccoli atleti. E anche quando suo figlio era ormai cambiato, lei era l' unica a rientrare spesso nello spogliatoio. Una volta l'ho vista in piedi, appoggiata a una colonna, mentre parlava con che faceva la doccia. Non distoglieva gli occhi da lui. In effetti, ripensandoci, qualcosa di strano c' era». È uno dei racconti resi agli inquirenti dalla direttrice della palestra di Prato, una tra le prime, insieme alla madre della vittima e alla sua istruttrice di karate, a raccogliere la confessione del ragazzino abusato sessualmente dall' infermiera 31enne che gli dava anche ripetizione di inglese a casa, finita ieri agli arresti domiciliari per violenza sessuale verso l' adolescente. Un ragazzino conosciuto proprio qui, nella struttura sportiva frequentata dal figlioletto di sette anni, diventata per mesi teatro di questa insospettabile relazione dai contorni torbidi che ha fatto scalpore non solo per il fatto che la donna, accusata di atti con minore e violenza sessuale per induzione, ha tenuto sotto scacco sessualmente l' allora tredicenne, ma anche perché da lui la scorsa estate ha avuto un bambino, un secondogenito riconosciuto poi dal marito. Per questo motivo l'uomo ora è indagato per "alterazione di stato", un reato che si applica a chi altera lo stato civile di un neonato. «Quindici giorni fa la mamma di (...) ha chiesto aiuto a me e alla direttrice della palestra perché aveva notato un comportamento anomalo nel figlio», confessa l' istruttrice di karate che allena il ragazzino da quando aveva appena cinque anni. «In particolare aveva notato che chattava con frequenza assidua con (...) che è la mamma di un altro mio allievo. Ci siamo incontrati con la madre e la direttrice nell' ufficio della palestra: lui disse all' inizio che la sentiva con frequenza perché lei minacciava di suicidarsi e quindi cercava di sostenerla». Prosegue l'istruttrice: «Era nervoso, alla fine è scoppiato a piangere e ha confessato la loro relazione. Gli ho chiesto allora di chi era il figlio più piccolo di (...), visto che lei in palestra l' infermiera non faceva mistero che il padre non fosse il marito e lui ha detto di essere il papà di quel bambino. Ha iniziato a urlare, dicendo che quella donna gli aveva rovinato la vita e la carriera atletica. Ha anche detto di avere iniziato ad avere rapporti con lei a 13 anni, nel novembre 2017, di nascosto dai genitori, quando le dava lezioni di inglese a casa per l' esame di terza media». Nell' ordinanza di 40 pagine, emergono altri dettagli: «Ha raccontato la sua prima volta: diceva che quel giorno aveva mal di testa e che si era steso sul letto in mutande», aggiunge l' istruttrice. «Poi si era trovato questa donna nuda addosso ed avevano avuto il primo rapporto sessuale. Ha raccontato che non si era neppure reso conto di quello che stava succedendo, e ricordo che ha detto testuali parole: "Avevo l' ormone del tredicenne ma non sapevo neanche che stavo venendo perché era la prima volta". Solo alla luce di quanto accaduto posso capire come mai ad ottobre ho dovuto riprendere (...) perché aveva iniziato a non controllare i colpi e a ferire i compagni. Prima era gioioso, poi è diventato un ragazzo triste e angosciato». La donna lo teneva sotto scacco: quando si è accorta che l' adolescente non voleva più avere rapporti sessuali con lei, lo ha iniziato a minacciare tramite centinaia di messaggi WhatsApp, dicendogli che si sarebbe tolta la vita o che avrebbe portato il loro figlio a scuola o nella palestra che frequenta. «Ha notato se la (...) avesse particolare confidenze con qualcuno in palestra?». Chiedono gli inquirenti all' istruttrice. «Lei ha confidenza con tutti», risponde. «In palestra era di dominio pubblico il fatto che il secondogenito non fosse figlio del marito». nessun mistero Lo scorso settembre l' infermiera aveva iscritto il figlio, che oggi ha dieci anni, in un' altra palestra, spiegando di averlo fatto perché il marito non aveva piacere che andasse nella stessa palestra frequentata dal padre biologico del neonato. «Gli chiesi chi era il vero padre e non mi rispose», prosegue il racconto l' istruttrice, «salvo dirmi che il marito era al corrente di tutto». Per tre mesi l'operatrice socio-sanitaria non si era vista, salvo poi ripresentarsi, con suo ultimo nato in braccio, in palestra. «Mi chiese di iscrivere di nuovo il primogenito», afferma la direttrice. Non solo: per rimanere più vicina al 14enne che nel frattempo le aveva bloccato ogni contatto, la donna ha chiesto alla dirigente di iscriversi nella stessa palestra: «Non le ho rateizzato l' importo», spiega agli inquirenti, «per cercare di renderle l' iscrizione il più onerosa possibile, visto che in tanti anni non aveva mai palesato alcun interesse per l' attività fisica e visto quanto accaduto. Voglio aggiungere che quando il ragazzino ha confessato tutto, ho consigliato alla madre di fare denuncia per cercare di tenerla lontana dal figlio, perché la palestra non era in grado di farlo». Il procuratore di Prato, Giuseppe Nicolosi, non ha escluso la possibilità che la donna frequentasse altri ragazzini anche in base alla «frequentazione di certi siti internet» da parte della 31enne.
Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 29 marzo 2019. Ancora con lei, nonostante tutto. «La amo, la sostengo, non la lascio sola in questo momento». Il marito della 31enne al centro dello scandalo di Prato non ha sbattuto la porta quando ha saputo di quel bimbo non suo, concepito dalla moglie con un ragazzino che frequentava la loro casa per le ripetizioni d' inglese. Non ha ripudiato la consorte infedele ma si è presentato con lei in procura quando è scoppiato il caso. Lei sentita dai magistrati, lui nella stanza accanto con gli occhi bassi e il terrore di perdere la prole. Insieme la coppia ha affrontato la prova del Dna sul piccolo di 7 mesi, insieme ha affrontato il medesimo test anche sul primogenito di 11 anni dopo i dubbi sulla paternità scaturiti nelle ultime ore: «È figlio nostro. Nato dalla nostra unione, sono io il padre», ha sempre dichiarato. E ieri sera il Dna ha confermato che nessuno potrà portargli via il figlio nato nel 2008. In questa storia di amor fou tra una lei più grande, sposata e ossessionata da un giovanissimo allievo da cui ha avuto un bimbo che tanto gli somiglia, si conosce quasi tutto dell' impianto accusatorio e poco o nulla della difesa. Si sa, ad esempio, che se la donna è finita ai domiciliari (i legali hanno chiesto ieri la revoca della misura), il marito risulta indagato per alterazione dello stato in quanto ha registrato il bebé del "peccato" come fosse suo e invece non lo è. Il coniuge dell' operatrice socio-sanitaria, che ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere, avrebbe dichiarato il falso pur sapendo che quella creatura era stata concepita da un altro. Perché l' ha fatto? Per coprire la moglie in difficoltà? Perché innamorato pazzo anche lui? O perché vittima, egli stesso, come l' adolescente che per un anno e mezzo ha preso il suo posto nel letto coniugale, di una donna che nell' ordinanza viene definita capace di una «subdola attività di persuasione», avvezza a «ricattare moralmente» il minore con la sua «penetrante attività di condizionamento?». Chi è questo marito così devoto da sembrare finto? Trentadue anni, impiegato in una grande azienda, dopo gli studi al liceo, si è messo a lavorare e ha fatto diverse esperienze in ditte di livello, ma al centro del suo mondo c' è sempre stata la famiglia, quel nucleo d' amore che da almeno undici anni lo lega alla compagna, conosciuta quando era ancora un teenager. Tanto lavoro e poi il weekend di relax tra le braccia dei suoi cari, ligio alla frase condivisa con gli amici: «La domenica sera la vivo sempre con una sensazione di morte imminente perché so che dovrò affrontare un' altra settimana di merda». La passione per lo sport, il ricordo del capitano Davide Astori scomparso prematuramente, e poi la spasmodica ricerca della giustizia (proprio lui che ha una denuncia per omissione di soccorso per avere investito una persona nel centro di Prato), l' appassionarsi a tanti casi di cronaca giudiziaria dove gli arrestati continuano a professarsi innocenti, nonostante le prove del Dna, i processi subìti, le sentenze della Cassazione. «Ingiustizia è fatta. Io sto con Bossetti», dice l' operaio 32enne. E su Marco Vannini, il ventenne ucciso a Ladispoli a casa della fidanzata su cui c' è stata polemica perché in Appello sono state ridotte le pene ai responsabili: «Non c' è pace senza giustizia, non c' è giustizia senza pace». Babbo affettuoso e presente, ora deve affrontare questo macigno. La prossima settimana la moglie sarà interrogata e c' è da scommettere che lui sarà ancora lì, vicino a lei.
Laura Natoli per La Nazione il 16 aprile 2019. Tre ore in cui il ragazzino ha ricostruito tappa per tappa la relazione avuta con quella donna molto più grande di lui, da cui ha avuto un figlio che ora ha sette mesi. Tre lunghe ore durante le quali il quindicenne è apparso tranquillo e ha risposto a tutte le domande del gip Francesca Scarlatti arricchendo di particolari importanti la ricostruzione dei fatti emersa dalle indagini della squadra mobile. Risposte che hanno confermato in toto le accuse, compresa la collocazione nel tempo del primo rapporto sessuale avvenuta quando aveva 13 anni. Nessuna contraddizione ma una ricostruzione apparsa credibile e coerente della relazione avuta con la operatrice socio sanitaria di 31 anni agli arresti domiciliari per atti sessuali con minore (prima e dopo il compimento dei 14 anni, aggravata dal ruolo di educatore che l’indagata aveva in quel momento) e violenza sessuale su minore per induzione. Il ragazzino è arrivato in tribunale scortato da due agenti della Questura in borghese e accompagnato dalla mamma ed è entrato nel palazzo di giustizia passando da una entrata secondaria in modo da evitare fotografi e telecamere. Il giovane è stato ascoltato nella stanza delle audizioni protette in quanto minore alla presenza di uno psicologo e del gip Scarlatti. I pm titolari dell’inchiesta, Lorenzo Boscagli e Lorenzo Gestri, insieme ai legali della donna, Mattia Alfano e Massimo Nistri e all’avvocato dei genitori dell’adolescente, Roberta Roviello, hanno assistito all’interrogatorio in una stanza attigua sentendo la voce e potendo rivolgere solo poche domande al ragazzo – come da prassi – attraverso la mediazione del giudice, unico che può rivolgere domande al minore. L’incidente probatorio è stato un passaggio importante per tutta l’inchiesta, l’ultimo, per allineare i tasselli mancanti e su cui l’indagata aveva fornito una versione diversa da quello che emergerebbe dalle carte. Fondamentale è stata la ricostruzione del primo rapporto sessuale fra i due. Il ragazzo lo ha datato nella primavera del 2017, ossia quando la donna gli impartiva lezioni di inglese per preparare la tesina in vista dell’esame di terza media. La donna lo aveva conosciuto in palestra e si era offerta di dargli ripetizioni quando aveva saputo delle difficoltà dello studente in inglese. Alla madre aveva chiesto appena cinque euro l’ora per le lezioni private «a titolo di amicizia». «Una volta avevo mal di testa o ero stanco, ora non ricordo con esattezza, e mi sono sdraiato sul letto. Mi sono addormentato e quando mi sono svegliato lei era sopra di me. Non mi sono neppure accorto che era la mia prima volta. Avevo l’ormone del tredicenne». Il quindicenne ha spiegato al giudice che il primo rapporto sessuale della sua vita lo ha avuto a casa sua, a 13 anni, con quella che doveva essere l’insegnante privata di inglese smentendo categoricamente la versione data dall’indagata. Durante l’incidente probatorio inoltre il ragazzo ha spiegato come la relazione non si sia mai interrotta fino al febbraio scorso quando la madre ha sporto denuncia insospettita dalle pressioni che il figlio riceveva dalla donna. Per la procura quello di ieri è stato un atto «soddisfacente» che conferma l’impianto accusatorio dell’ordinanza comprese le pressioni psicologiche a cui il quindicenne è stato sottoposto negli ultimi mesi, costretto dalla donna a proseguire la relazione.
13enne abusato da prof, Feltri: «niente scandalo, cose che capitano», scrive l'11 Marzo 2019 Vvox. «Creare uno scandalo perché una docente e il suo discente si sono trovati bene non solo sui libri, ma anche tra le gambe del tavolo non mi sembra opportuno. Al massimo potrei consigliare alla donna di usare un anticoncezionale onde evitare grane». Commenta così Vittorio Feltri (in foto), direttore di Libero, la notizia della professoressa di Prato indagata per violenza sessuale nei confronti di un 13enne a cui faceva ripetizioni. «La magistratura – scrive Feltri – dovrà decidere se la gentile professoressa è stata troppo gentile con l’allievo, e abbia commesso il reato di violenza sul minore». «Al di là del problema giuridico e formale – aggiunge il direttore – qui si tratta di accertare se la docente sia punibile per aver convinto il giovinetto a farsela oppure se la vicenda sia archiviabile alla voce: succede che fra un maschio e una femmina, al di là della loro età, si instauri una relazione intima, troppo intima». Per Feltri, la professoressa «in fondo, non ha fatto nulla di male, posto che un rapporto sessuale non nuoce a nessuno, nemmeno a un adolescente. Tantomeno me la prenderei con quest’ultimo che ha approfittato della disponibilità, pure eccessiva, della donna per compiere ciò che tutti desiderano compiere: una sana scopata, probabilmente la numero uno della sua vita». In definitiva, «a mio modesto parere – conclude – la legge non è autorizzata ad esplorare quanto accade sui materassi e sotto le lenzuola, sono affari privati». (r.a.)
Prato, insegnante incinta di alunno 14enne. Feltri: “Non punirei lei che non ha recato dispiacere al giovine”, scrive la Redazione di NewsNotizia.it il 10/03/2019. E’ una vicenda di cronaca che vi abbiamo riportato ieri e che ha fatto e sta facendo parlare, per le implicazioni morali relative all’accaduto: a Prato una insegnante di 35 anni sarebbe andata a letto e sarebbe stata messa incinta da un ragazzino di 14 al quale impartiva ripetizioni private (venendo indagata per violenza su minore, data l’età del ragazzo, sia pur consenziente). Quest’oggi, sulle pagine di Libero, il giornalista Vittorio Feltri ha espresso la propria opinione al riguardo. E, come sempre quando Feltri mette mano alla propria penna, sono parole destinate a far discutere. Di seguito vi proponiamo un breve estratto. "Se devo essere sincero non me la sento di dare addosso a una signora che, in fondo, non ha fatto nulla di male, posto che un rapporto sessuale non nuoce a nessuno, nemmeno a un adolescente. Tantomeno me la prenderei con quest’ ultimo che ha approfittato della disponibilità, pure eccessiva, della donna per compiere ciò che tutti desiderano compiere: una sana scopata, probabilmente la numero uno della sua vita. E allora che facciamo? Una idea ce l’avrei. Eccola. Non punirei lei che non ha recato dispiacere al giovine, al quale ha concesso una gioia rara a uno della sua età, e non costringerei lui a provvedere all’ erede non essendo questi in grado di valutare le conseguenze del proprio abbandono ludico. A mio modesto parere la legge non è autorizzata ad esplorare quanto accade sui materassi e sotto le lenzuola, sono affari privati, talmente privati da non meritare l’ intromissione delle toghe. D’ accordo, qui è nato un pargoletto. Ma chiunque sa che è meglio crescere che calare. Un fanciullo in più non è una iattura a condizione che qualcuno, per esempio la madre, se ne prenda cura".
“UN RAPPORTO SESSUALE NON NUOCE A NESSUNO, NEMMENO A UN ADOLESCENTE”. Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 10 marzo 2019. La notizia non passa inosservata. A Prato una insegnante di 35 anni è stata ingravidata da un ragazzo di 14 al quale impartiva ripetizioni, e ora ha partorito un bambino. Cose del genere non succedono tutti i giorni e indubbiamente suscitano impressione. Adesso la magistratura dovrà decidere se la gentile professoressa è stata troppo gentile con l' allievo, e abbia commesso il reato di violenza sul minore, inoltre dovrà stabilire a chi tocchi mantenere il neonato e fino a quando. Un bel dilemma. Però al di là del problema giuridico e formale, qui si tratta di accertare se la docente sia punibile per aver convinto il giovinetto a farsela oppure se la vicenda sia archiviabile alla voce: succede che fra un maschio e una femmina, al di là della loro età, si instauri una relazione intima, troppo intima. Se fossi un giudice avrei qualche difficoltà sia a condannare la professoressa sia ad assolverla. Nel primo quanto nel secondo caso a quali argomentazioni ricorrerei per motivare la sentenza? Se devo essere sincero non me la sento di dare addosso a una signora che, in fondo, non ha fatto nulla di male, posto che un rapporto sessuale non nuoce a nessuno, nemmeno a un adolescente. Tantomeno me la prenderei con quest' ultimo che ha approfittato della disponibilità, pure eccessiva, della donna per compiere ciò che tutti desiderano compiere: una sana scopata, probabilmente la numero uno della sua vita. E allora che facciamo? Una idea ce l' avrei. Eccola. Non punirei lei che non ha recato dispiacere al giovine, al quale ha concesso una gioia rara a uno della sua età, e non costringerei lui a provvedere all' erede non essendo questi in grado di valutare le conseguenze del proprio abbandono ludico. A mio modesto parere la legge non è autorizzata ad esplorare quanto accade sui materassi e sotto le lenzuola, sono affari privati, talmente privati da non meritare l' intromissione delle toghe. D' accordo, qui è nato un pargoletto. Ma chiunque sa che è meglio crescere che calare. Un fanciullo in più non è una iattura a condizione che qualcuno, per esempio la madre, se ne prenda cura. Creare uno scandalo perché una docente e il suo discente si sono trovati bene non solo sui libri, ma anche tra le gambe del tavolo non mi sembra opportuno. Al massimo potrei consigliare alla donna di usare un anticoncezionale onde evitare grane. Ma davanti ad un bebè personalmente provo soltanto tenerezza.
Feltri: "a Prato nessuno stupro". Il direttore di Libero sostiene che una donna non possa in alcun modo stuprare un uomo, a meno che quest'ultimo non sia consenziente.
“Dritto e Rovescio”, Vittorio Feltri si alza e se ne va: “Ma andate a fare in c…” Il direttore di “Libero” interrompe il collegamento a causa delle critiche ricevute per aver detto che a Prato non cʼè stato "Nessuno stupro", scrive Venerdì 29 Marzo Tgcom24. "Me ne vado, andate tutti a fare in c...". Così Vittorio Feltri, a "Dritto e Rovescio" dopo essere stato criticato per alcuni commenti sulla vicenda di Prato. Secondo il direttore di Libero la 31enne, che ha avuto un figlio dal 13enne a cui faceva ripetizioni di inglese, non avrebbe "stuprato" il minore. "Mi avete rotto i coglioni", ha detto Feltri prima di interrompere il collegamento con il programma di Del Debbio. "Se mi fate una domanda dovete lasciarmi rispondere", ha concluso il giornalista. Feltri è stato aspramente criticato per la sua posizione sulla vicenda di Prato, dove secondo lui “una scopatina non fa male a nessuno". "Sto ragazzino - ha dichiarato il giornalista - avrà avuto degli impulsi come tutti noi a quell’età. Non credo che questa donna - conclude Feltri - possa essere accusata di violenza sessuale”.
· Pedofilia e tecnologia. L’app TikTok.
"30 euro e fai sesso coi bimbi". Prostituzione choc nel campo rom. A Napoli nel quartiere Poggioreale diversi i residenti che parlano di minori che si prostituiscono. A Gianturco abbiamo raccolto il racconto di una testimone. Agata Marianna Giannino, Venerdì 29/11/2019 su Il Giornale. “A Gianturco si prostituiscono anche i bambini”. È una testimonianza scioccante quella che arriva da Napoli. In una zona dove è dilagante la prostituzione su strada, tra i residenti c’è chi lancia l’allarme. Tra via Gianturco, i vicoli del rione Luzzatti e via Taddeo Sessa a vendere il proprio corpo sono principalmente donne originarie di Paesi dell’Est Europa. Calcano i marciapiedi anche alla luce del sole, in un’area durante il giorno solitamente trafficata per il viavai dal vicino Centro direzionale. In questo contesto di degrado, dove i residenti da tempo urlano l’abbandono e i disagi che ne conseguono, si affaccia una realtà devastante, quella della prostituzione minorile. Nel quartiere c’è chi riferisce di ragazzine impegnate a consumare rapporti sessuali all’aperto. Cristina dichiara di aver assistito a una trattativa tra tre bambini e un presunto pedofilo. “Erano tre ragazzini che avevano 10,11 anni. Loro volevano 30 euro e lui, il ragazzo, chiedeva 10”, racconta oggi. Ha assistito alla contrattazione dalla finestra di casa sua, circa un anno fa. “Alla fine mi sono messa urlare per farlo allontanare. Non ho mai denunciato perché lo feci scappare e non riuscì a prendere il numero di targa”, spiega. Quell’episodio non sarebbe isolato. I residenti raccontano che non è raro vedere scene di sesso all’aperto tra ragazzine e anziani. “Loro (i minori) escono e trovano le macchine nel viale sulla Decima, dove non c’è nessuno”, racconta Cristina, che rivela di aver visto personalmente dei ragazzi giovanissimi consumare rapporti con persone anziane. “Una ragazzina - dice - stava facendo sesso orale con un uomo anziano e tre ragazzini stavano facendo sesso, sempre con un uomo anziano, in una macchina grande”. “Qui non passa mai nessuno e si mettono qua sotto”, spiega, indicandoci il punto, proprio sotto la finestra di casa sua. Cristina vive in un parco con accesso da via Gianturco. Il marciapiede dirimpetto è coperto da una distesa di preservativi usati. Di fronte vivono decine di famiglie. L’idea di qualche residente è che a prostituirsi siano alcuni dei bambini che vivono nel vicino campo rom. “E chi può essere? – sbotta Cristina - Solo loro. Perché, qui, i bambini nel rione di sera non escono, c’è il coprifuoco”. Un dramma nel dramma, se fosse così, che decreterebbe il fallimento delle politiche di inclusione sbandierate dal sindaco De Magistris e che richiederebbe un intervento urgente per dare fine a quella che, secondo i racconti dei testimoni, sembra essere un’infanzia violata a cielo aperto.
Pedofilia, Fiesoli condannato e libero. “L'ho visto con dei ragazzini”. Le Iene l'11 settembre 2019. Juri Gorlandi, coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana sostiene, mostrando le foto, di aver visto il “profeta” della comunità agricola il Forteto, condannato per abusi sui minori e ancora in libertà, avvicinare in maniera sospetta dei ragazzini. Uno di loro: “Faceva discorsi strani”. Rodolfo Fiesoli, il “profeta” del Forteto, sarebbe stato avvistato mentre chiacchierava con ragazzini ad Aulla (Massa-Carrara), spacciandosi per uno scrittore. A sostenerlo è Juri Gorlandi, coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana. Gorlandi che ha anche scattato delle foto pubblicate su Facebook che vedete qui sotto e che ritraggono l’orco della comunità agricola in Toscana travolta dagli scandali per le accuse di abusi e molestie sessuali sui minori, mentre chiacchiera con giovani ragazzi.
La corte d'appello di Firenze ha assolto, perché il fatto non sussiste, Rodolfo Fiesoli nel cosiddetto "Fiesoli bis", un procedimento che lo vede accusato di violenze sessuali simili a quelle del processo principale, ma ai danni di un solo minore che frequentava saltuariamente la comunita' di Vicchio. In primo grado, Fiesoli era stato condannato a 8 anni col rito abbreviato. Nell'altro processo, ovvero quello principale, Fiesoli è stato condannato a 14 anni e 10 mesi in un nuovo processo d'appello. Attualmente è libero in attesa del giudizio della Cassazione. Ora Rodolfo Fiesoli vive ad Aulla, in una residenza per anziani. Durante una delle sue passeggiate sarebbe stato avvistato da Gorlandi. “L’ho visto un giorno al bar”, racconta al quotidiano La Verità il coordinatore dei giovani di Forza Italia della Toscana. “Si è avvicinato ad alcuni ragazzini, ho sentito che raccontava di essere uno scrittore, che scriveva libri bellissimi. Mi sono alzato e ho chiesto che cosa stesse facendo, e allora si è allontanato”. “Si è avvicinato solo, non sapevo chi fosse”, ha raccontato un ragazzo sempre a La Verità. “Mi ha parlato per circa 10 minuti mentre le mie colleghe si erano assentate. I discorsi che faceva mi parevano parecchio strani. Si è presentato come psicologo e scrittore”. Noi de Le Iene, nell’inchiesta di Pablo Trincia, già nel 2013 abbiamo cominciato a occuparci della terribile vicenda del Forteto. Siamo partiti proprio dalle testimonianze degli ospiti della comunità agricola, all’epoca dei fatti tutti minorenni. Bambini che venivano affidati a quella struttura dal Tribunale dei minori poiché con situazioni familiari difficili. A Pablo Trincia hanno raccontato i veri e propri lavaggi del cervello a cui erano sottoposti, come potete vedere nel video qui sopra. “A 13 anni sono arrivato al Forteto perché mio padre era stato accusato di abusi sessuali”, racconta Paolo, uno dei ragazzi della comunità, nel primo dei tre servizi dedicati a questo caso. “Rodolfo Fiesoli mi diceva: ‘Vieni in camera mia, si discute’. Mi diede un bacio a stampo”. Ma “il profeta”, racconta Paolo, non si limita a questo. “Dopo il bacio comincia a toccare. Mi prendeva la mano, se la metteva sui pantaloni e faceva su e giù. Mi toccava i pantaloni e mi ha messo un dito nel sedere”. “Sono arrivato al Forteto a 14 anni e sono stato abusato dal Fiesoli. Erano rapporti completi”, ha raccontato un altro dei ragazzi cresciuti nella comunità. A cui si aggiunge la testimonianza di Marika: “Ebbi un rapporto orale completo con Fiesoli, da quella volta non riuscì più a guardarlo come mio padre affidatario”. Si attendono le valutazioni della Cassazione.
Svela alla preside "Il nonno mi violentava" ma lei si dimentica di fare la denuncia. L’ex dirigente dello Steiner ha tenuto per un anno in un cassetto lo sfogo dell’allieva, andrà a processo per omissione d’atti d’ufficio. Ottavia Giustetti l'8 settembre 2019 su La Repubblica. «Il nonno mi ha violentata da quando ero piccola » ha scritto su un foglietto e l’ha consegnato, firmato, all’insegnante di lettere. Custodiva il penoso segreto da sei anni quando, finalmente libera dalla convivenza con quell’uomo, si è decisa a confessare le sue sofferenze. Fin da quando era una bambina di otto anni era stata costretta a subire le violenze del compagno della nonna. Violenze sessuali e attenzioni morbose per intere estati quando i genitori l’affidavano a loro per le vacanze; fatti che ha avuto il coraggio di denunciare solo quando la nonna e il compagno si sono lasciati. Dopodiché è accaduto l’incredibile: tutto è stato “ dimenticato” per un anno. L’insegnante ha parlato immediatamente con la preside e i genitori; ha consegnato alla dirigente scolastica il biglietto, ma la preside apparentemente senza motivo l’ha chiuso in un cassetto dove è rimasto per un anno intero. Nessuna denuncia, nessun intervento della magistratura, la ragazza ha partecipato a qualche incontro con la psicologa della scuola ma la macchina giudiziaria nei confronti dell’uomo non si è mai messa in moto. Fino a quando i genitori, che avevano condiviso con la scuola la drammatica rivelazione, non si sono allarmati e, chiedendo aggiornamenti, sono rimasti esterrefatti: solo in quel momento hanno saputo che il biglietto della bambina era in cassaforte da un anno e la scuola non aveva mai fatto denuncia. « Eravamo convinti che la preside si fosse attivata con una denuncia formale, come era suo compito » hanno raccontato a quel punto all’avvocato Frediano Sanneris che ora li assiste nel processo. « E invece no, abbiamo dovuto raccogliere di nuovo, con grande difficoltà, il ricordo di nostra figlia che ci ha riferito di aver subito abusi da parte del compagno della nonna sin dalle elementari e fino alla seconda media » . Era il 14 maggio 2018. Un nuovo scandalo silenzioso travolse l’Istituto Albe Steiner dove la ragazza studiava, e già tristemente noto per il pestaggio del ragazzo disabile filmato dai ragazzi in classe e messo in rete. Perché a quel punto il pubblico ministero che indagava sulle violenze, Fabiola D’Errico, ha messo sotto inchiesta anche la preside Cristiana Casaburo per omissione d’atti d’ufficio. E il provveditorato agli studi ha immediatamente acconsentito al trasferimento come lei stessa aveva chiesto. Ora lei guida un istituto artistico di un’altra regione ed in attesa del processo che inizierà a Torino il 23 gennaio 2020. In un primo momento anche la nonna era stata indagata per concorso in violenza sessuale, ma poi le accuse nei suoi confronti sono state archiviate perché il pubblico ministero ha verificato che nulla sapeva la donna di quanto accadeva in quella casa di vacanza del compagno, dove portava la nipote anche per lunghi periodi e dove l’uomo, secondo la confessione della ragazza, la molestava continuamente e la costringeva ad atti sessuali quando non aveva ancora dieci anni.
La sera al buio davanti alla tv mentre la nonna dormiva, la mattina al risveglio prima che lei si alzasse, all’aperto mentre la bambina lo aiutava nei lavori in giardino. La ricostruzione lucida e consapevole è scritta nero su bianco dalla vittima ancora minorenne ma decisa a ottenere giustizia. E consegnata, questa volta dai genitori ai magistrati, dopo aver dovuto ripercorrere insieme alla ragazza quei drammatici ricordi. Anna (il nome è di fantasia) «sta completando gli studi superiori — hanno detto i genitori — ma è intenzionata a ottenere l’accertamento dei fatti » e insieme alla madre e al padre si è costituita parte civile.
TIKTOK. CHI È? UN PEDOFILO! Lodovico Poletto per “la Stampa” il 30 agosto 2019. E video sia, su Tik Tok. Con i ragazzini che ballano e le lolite che ancheggiano in perizoma. Largo alla fantasia e - come dicono quelli del sito - «alla creatività». Ai video con le battute e agli sketch di vita da adolescenti e di vita da adulti che l' adolescenza non l' hanno mai finita. Ai contest di ballo sfrenati, agli ammiccamenti, e pure al pubblico ludibrio, talvolta consapevole e sempre devastante. Inseguendo l' unica cosa che conta davvero e in nome della quale si sacrifica tutto: i paganissimi «like»: più ne hai e più sei popolare. E più sei popolare e più sei figo. Largo alla fantasia, sì. Anche infilando nei video dei bambini - non quattordicenni - ma bambini-bambini co-attori nei «tubes» di mamme e papà religiosamente fedeli al nuovo mondo: Facebook è morto, è nato TikTok. O meglio, visto dallo schermo di uno smartphone, Facebook e il signor Zuckerberg sono finiti nelle caverne della preistoria dei social. Il nuovo - finché dura - arriva dalla Cina ed è un mondo che agita i sonni dei genitori e fa impazzire i ragazzi. E bussa sugli app store: TikTok. Ecco, raccontare oggi che cos' è questa app con 600 milioni di utenti tra Usa, Europa e Cina è entrare in una realtà che non ti aspetti. Perché è disponibile in 150 mercati e in 75 lingue; all' inizio del 2018 è stata una delle applicazioni più usate al mondo. Nella prima metà del 2018 è stata la più scaricata da Apple store a livello globale. Su Facebook trovi le fotografie del cibo, scopri l' edonismo nelle foto delle vacanze a Minorca o nel viaggio organizzato a Skopelos. Incroci le visioni politiche del vicino di casa, che discetta di governi e di Europa mentre sta pitturando di bianco le pareti del bagno. Roba vecchia. Su TikTok no. Ci sono già i figli del vicino che ballano in salotto. Tubes, si chiamano così i video, che hanno durata brevissima: da 15 secondi a un minuto. E trovi la figlia del professore di lettere che - con il fidanzatino e in shorts stracorti - regala imperdibili perle di saggezza discotecara. Trovi la bambina di 12 anni che tenta di ballare. E sembra ancora più piccola della sua età, ed è impacciata nelle magliette della Ovs mentre tenta di muoversi sulle note di «Young Manny». È Tik ToK, appunto, App cinese che da luglio è finita nel mirino del garante della privacy del Regno Unito. Lo racconta il Guardian, e non è l' unico caso al mondo. A febbraio TikTok ha accettato di pagare 5 milioni e rotti di dollari in accordo con la Federal Trade Commission degli Stati Uniti per aver raccolto illegalmente informazioni personali dai bambini. «Roi des Rats», youtuber notissimo in Francia, ha lanciato strali contro la nuova moda. E c' è chi dice che crea dipendenza. Disimpegna. Invita a non pensare attraverso un ballo, un ammiccamento, un video curioso dal Pakistan. Dalla Cina replicano che tutto questo non è vero. O se lo è,è solo in minima parte, come su tutti i social. E raccontano che in Italia anche un programma come Zelig è presente sulla app. Il motivo? Tra milioni di video potrebbero celarsi i nuovi comici, i nuovi fenomeni da tv, appunto. E ci sono anche alcuni calciatori. O personaggi comunque famosi. Gente che «fa tendenza». E dicendo questo si smonta la tesi che il nuovo social è «soltanto» il regno dei ragazzini. Vero: non ci sono soltanto adolescenti. Ma resta il fatto che è la app dei minorenni e puoi iniziare ad usarla già quattro anni prima di prendere la patente. Già mentre stai finendo le scuole medie. Ma, se sei più piccolo, al momento dell' iscrizione cambi la data di nascita e va bene lo stesso: tanto la app non è l' ufficio anagrafe. Non puoi mentire invece sulla faccia, sul fisico, sulla voce. Sei giovane, formosa e metti gli shorts, al mare il tanga, e hai la maglietta che lascia intuire il seno e hai labbra grandi? Hai fan, like e una quantità di gente che ti scrive in privato. Sei un po' troppo in carne? I venti secondi di video del quattordicenne (?) italiano e decisamente obeso che si lancia in piscina ha 256 commenti. E molti tutt' altro che simpatici. «Ma è un maschio o è una femmina?» «Hai visto che costume? Ma dove lo ha comprato?» «Stai a casa». È un continuo. Alternato a commenti di chi prova difenderlo, o invita a smettere con il linciaggio e gli insulti, con il risultato di rilanciare sempre commenti sui difetti fisici. Non basta: TikTok, e finito al centro di polemiche per cyberbullismo. «È meglio mia nonna in carrozzella» scrive tal Vincenzo a tal Eli che dice di essere del 2002, ma se guardi le sue foto la vedi col vestito della prima comunione nel giardino di casa. Confermando l' opinione di chi dice che qui si incentiva «una visione delle donne piegata su stereotipi sessuali. Inoculandola nel cervello dei minori». E mentre adulti e sociologi commentano, la app spopola. Dalla Cina spiegano che sul tema sicurezza si fa molto, che ci si può difendere da intrusioni non volute, bloccare commenti inibendo a monte l' uso di certe parole. Insomma: si lavora sulla sicurezza perché il social vale miliardi. E il nuovo mondo non può permettersi di esser battuto da bulli e molestatori. Facebook è il passato. Twitter non è per tutti. Snapchat non piace più. Resta TikTok, l' ultima «community» di chi vuol mettersi in mostra.
· Codice Rosso. Violenza sulle donne. Due donne e due misure.
Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 21 novembre 2019. «Le donne, spesso, non hanno la forza di raccontare. Ma i corpi e le lesioni parlano per loro, rivelano vertigini di orrore quotidiano. Per questo ho deciso di mostrare la violenza domestica come la vediamo noi al pronto soccorso: ossa rotte, nasi spaccati, occhi pesti, mani fratturate, polsi slogati, gambe rotte, coltellate, bruciature, morsi, segni di strangolamento, ferite da torture con pezzi di vetro. O addirittura un pugnale nella schiena. Lo scenario di una guerra nascosta nelle mura di casa che i numeri non riescono a raccontare ». Maria Grazia Vantadori, 59 anni, è una coraggiosa chirurga dell' ospedale San Carlo di Milano che ha deciso di esporre "l' invisibile" delle sue pazienti. Ossia le loro radiografie (anonime) che raccontano le sevizie subite da mariti, ex mariti, compagni, fidanzati. Una mostra estrema e tragica, organizzata per la Giornata contro al violenza sulle donne del 25 novembre, insieme alla Fondazione Pangea, che sarà inaugurata oggi nell'atrio dell' ospedale San Carlo. Qui dove Maria Grazia Vantadori non soltanto fa la chirurga da 26 anni («mi raccomando - dice - chirurga non chirurgo») ma è la referente del Casd, centro ascolto soccorso donna. «In tutti questi anni di prima linea, ho visto centinaia e centinaia di radiografie di donne con lesioni di ogni tipo, anche gravissime. Anche di fronte all'evidenza - dice Vantadori - molte continuavano a negare che gli autori di quelle sevizie fossero i loro mariti e familiari. Per paura, vergogna, timore di perdere i figli. Pur nel rischio di essere uccise». Una negazione della violenza domestica drammatica, che però i corpi martoriati invece rivelano. Fino all' estremo di una donna arrivata al San Carlo con un pugnale conficcato nella schiena. «Sì, quella donna è sopravvissuta, anzi una sopravvissuta. Perché la sfida del nostro centro - dice Vantadori - è non solo soccorrere, ma anche aiutare le pazienti a uscire da quella schiavitù. Chi le accoglie deve saper decodificare i loro silenzi, comprendere quelle le lesioni incompatibili con quanto le donne narrano». Segni di strangolamento sul collo, insomma, sono ben difficili da giustificare con una caduta sulle scale, ma possono essere invece, proprio per la parte del corpo aggredita, dice Vantadori, «la pericolosa anticamera del femminicidio ». Quindi il secondo passaggio, dopo il pronto soccorso, è quello del centro di ascolto dell' ospedale stesso, dove le donne trovano un percorso: verso una casa rifugio, verso una separazione, verso un sostegno psicologico. Una mostra dura, innovativa, ma emblematica, che ha messo insieme l' ospedale San Carlo di Milano, l'associazione Pangea e Reama, un network di mutuo aiuto tra associazioni e soggetti per il contrasto alla violenza sulle donne. Perché è soltanto trovando una rete che ci si può affrancare da prigioni come quelle che raccontano (o tacciono) le donne che arrivano nei pronto soccorso. Spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea: «Con la rete Reama abbiamo voluto creare intorno alle donne un circuito in grado di supportarle, ma anche chiedere la reale applicazione della Convenzione di Instanbul». La violenza sulle donne, ha ricordato Matteo Stocco, direttore dell' azienda socio sanitaria Santi Paolo e Carlo «è una grave violazione dei diritti umani». Ricorda Vantadori: «Ho visto donne dell' alta società massacrate dai loro mariti e immigrate poverissime con le ossa rotte. La violenza domestica non ha censo né razza, colpisce tutte. Molte grazie all' accesso pronto soccorso si sono poi salvate, alcune, purtroppo no. Ed è a loro che penso».
Pacca sul culo e stupri rituali. Augusto Bassi il 22 novembre 2019 su Il Giornale. «Aveva toccato il sedere ad una conoscente, un’amica che frequentava con lui un centro di Musica in città. Lei però non ha gradito e lo ha denunciato. Ha ritenuto quel gesto, quella mano posata in modo irrispettoso sul suo sedere, quell’approccio per lei eccessivo una vera violenza tanto fare nome e cognome di quel coetaneo che, a suo dire, era andato oltre. Ieri la Corte d’Appello ha confermato la condanna di primo grado a un anno e due mesi di reclusione», si legge su l’Adige.it, per il sollucchero di Laura, Cristina, Teodolinda e delle tante femministe implacabili, in perenne campagna militare contro il maschio testosteronico e molestatore. Nel mentre, su una pagina di Lettera Donna che avevo salvato leggo che migliaia di ragazze africane sono vittima di stupro come arma di guerra. Il primo Paese nella black list è il Congo. L’Onu ha denunciato oltre 3mila casi nel 2018. Stupri, schiavitù sessuale, prostituzione, gravidanza e aborto forzati, sterilizzazione forzata «non sono una fatalità», chiarisce giovevolmente l’Onu, «dunque possono e devono essere evitate». Se già la precisazione delle Nazioni Unite andrebbe qualificata e quindi perseguita come crimine contro l’umanità, vi sono orrori ancor più strazianti: «Ciò che è successo qui, dal 2013 al 2016, è un fatto che dovrebbe scioccare il mondo; dovrebbe togliere il fiato a tutti: 44 bambine, dai 2 agli 11 anni, sono state prelevate di notte, condotte nella foresta e poi ripetutamente violentate da uomini armati», raccontava l’Espresso già qualche tempo fa. «Il territorio è pieno di gruppi ribelli e gli autori dell’atrocità risultano essere stati dei miliziani del deputato provinciale Frédéric Batumike, che ora è in carcere con i suoi 74 uomini ed è in attesa di essere processato per violenza sessuale e crimini contro l’umanità. La ragione? Probabilmente una credenza magica. Le indagini fanno supporre che sia stato uno stregone a dire a questi uomini di violentare delle vergini, perché così facendo avrebbero ottenuto protezione dai proiettili in battaglia e trovato delle vene d’oro, là dove fosse stato versato il sangue delle bambine. Inoltre, in molti credono che il rapporto con una donna illibata sia una cura contro l’hiv». Oggi passeggiavo nei pressi del Ponte delle Sirenette del Tettamanzi, fra i sentieri di Parco Sempione, quando un uomo mi si avvicina con fare confidenziale e mi chiede se voglio droga. Gli piace il mio cane, non molto ricambiato. Ci parlo. Mi dice di chiamarsi Serge e di venire dal Congo, ma perde in fretta interesse e si allontana per pedinare due turiste tedesche. Che meraviglioso toboga di storie e destini il diritto di asilo! Quando avremo accolto, fra i tanti spacciatori per bene, anche un po’ di ex miliziani violentatori di vergini, apprendisti stregoni, maniaci della profilassi, femministi militanti del continente africano e offerto loro il permesso di soggiorno per motivi umanitari, faremo spiegare dalle nostre terzomondiste signore al loro boschereccio testosterone che in Trentino-Alto Adige per una pacca sul culo si finisce in galera.
Violenza, dallo Stato meno di un euro per ogni donna maltrattata. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Fausta Chiesa. L’Istat ha pubblicato la prima indagine: nel 2017 si sono rivolte ai Centri antiviolenza 43.467 donne. La denuncia dell’associazione Di.Re: «Pochi fondi». «Nel 2017 i fondi pubblici per i centri antiviolenza sono stati 12 milioni di euro, che - se divisi per il numero delle donne accolte secondo l’Istat - fa meno di un euro al giorno, 76 centesimi per la precisione». Il calcolo è di Mariangela Zanni, consigliera di «D.i.Re» (Donne in Rete contro la violenza) ed è stato possibile grazie ai dati emersi dalla prima indagine dell’Istat sui 281 Centri antiviolenza (Cav) realizzata in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità, il Consiglio nazionale per le ricerche e le Regioni e pubblicata il 28 ottobre. «Una cifra ridicola - prosegue Zanni - che spiega il dato Istat sul massiccio ricorso al volontariato da parte dei centri antiviolenza, nonostante essi siano un tassello imprescindibile del Piano nazionale antiviolenza». Nel 2017 si sono rivolte ai Centri antiviolenza 43.467 donne, ovvero 15,5 ogni 10mila, il 67,2 per cento delle quali ha iniziato un percorso di uscita da una vita di soprusi e maltrattamenti. Ogni Centro ha accolto in media 172 donne (il 25,7% dei Centri ha avuto un’utenza inferiore a 40 donne, il 6,7% superiore a 500) e lavora con un numero medio di 115 donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. «La variabilità territoriale - scrive l’Istat - è elevatissima: 22,5 per 10mila le donne accolte dai Centri del Nordest, 18,8 per 10mila nel Centro. Tassi di accoglienza più elevati si riscontrano in Emilia Romagna, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Provincia Autonoma di Bolzano, Abruzzo, Toscana e Umbria. Anche per le donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza, il Nord-est presenta tassi più elevati (16,6 contro 10,7 per 10mila donne della media nazionale). La capacità di supportare le donne dipende poi molto dal radicamento sul territorio dei Centri antiviolenza: maggiore sono gli anni di apertura, maggiore è il numero di donne che vi si recano». Per l’Istituto di statistica, l’offerta delle strutture che si occupano di aiutare le vittime di violenza e la loro prole è ancora insufficiente. La legge di ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 individua come obiettivo quello di avere un Cav ogni diecimila abitanti. Al 31 dicembre 2017 sono risultati attivi nel nostro Paese 281 centri antiviolenza, pari a 0,05 centri per 10mila abitanti. «Considerando il dato calcolato sulle vittime che hanno subito violenza fisica o sessuale negli ultimi 5 anni , l’indicatore di copertura dei centri su 10mila vittime è pari a 1, con un minimo nel Lazio (0,2) e un massimo in Valle d’Aosta (2,3)» scrive l’Istat, che definisce «ancora insufficiente l’offerta dei Centri antiviolenza». «Il quadro che emerge dalla rilevazione sui centri antiviolenza pubblicata da Istat e relativa al 2017 - ha commentato Lella Palladino, presidente di D.i.Re - conferma le criticità che la rete da sempre e continuamente mette in evidenza. I centri antiviolenza sono troppo pochi, con interi territori scoperti, personale solo parzialmente retribuito, risorse assolutamente al di sotto del bisogno». Eppure i centri esistenti svolgono un ottimo lavoro, come scrive sempre l’Istat: «Ottima la reperibilità offerta dalle strutture, aperte in media 5,1 giorni a settimana per circa 7 ore al giorno. La quasi totalità ha attivato diverse modalità per esserlo in modo continuativo, dal numero verde alla segreteria telefonica. L’89,7% dei centri assicura ascolto cinque o più giorni a settimana, e solo il 2% non ha adottato soluzioni di continuità h 24, ma comunque aderisce al servizio di chiamate urgenti allo 1522. Molti, inoltre, i servizi offerti in risposta all’esigenza di personalizzazione dei percorsi per superare abusi e sopraffazioni subite».
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 7 novembre 2019. Da accusatrice ad accusata, da vittima di revenge porn ad autrice di pornovendette. Il caso di Ilaria Di Roberto, una 29enne di Cori, piccolo centro in provincia di Latina, passata negli ultimi due mesi da sconosciuta aspirante scrittrice a simbolo nazionale del cyberbullismo, da ieri si è complicato enormemente. Dopo che la ragazza ha denunciato a più riprese di subire da tempo attacchi pesantissimi tramite internet e soprattutto tramite i social network, con tanto di fotomontaggi in cui viene mostrata in pose oscene, oltre a raggiri da parte di quella che lei definisce una cybersetta, ora è lei accusata di aver fatto tormentare due giovani, inserendo i numeri di telefono di quest' ultimi su un sito porno per omosessuali. Una vicenda per cui ieri mattina la polizia postale di Latina ha perquisito la casa della 29enne, che è stata denunciata e su cui sta compiendo approfondimenti il sostituto procuratore di Latina, Valentina Giammaria. Ilaria Di Roberto occupa da settimane con le sue denunce le pagine dei quotidiani, partecipa a trasmissioni radio e tv, dal salotto Rai de " I fatti vostri" a quello di " Pomeriggio Cinque", fino a " Storie Italiane". Ha denunciato la realizzazione di falsi profili social a sfondo sessuale, che l' hanno fatta diventare vittima di revenge porn, e di essere stata truffata da una cybersetta, che l' avrebbe anche costretta a tatuarsi il loro simbolo e a firmare una cambiale dopo una seduti di ipnosi telefonica. Un inferno. Ha auspicato che dopo la sua denuncia venisse fatta giustizia, specificando di temere per la sua vita. Una vittima ritenuta attendibile dalle stesse istituzioni. Tanto che domani è previsto un intervento della giovane a un seminario sul bullismo e il cyberbullismo organizzato dalla Curia vescovile e dalla Provincia di Latina, a cui interverranno politici ed esperti. Un appuntamento per il quale a Di Roberto sono state affidate le conclusioni come autrice del libro Anima, « tratto dalla sua storia vera, vittima di bullismo, cyberbullismo e cyberstalking». Alla stessa polizia postale sono però arrivate le denunce di due giovani, che dopo aver avuto dei rapporti con Di Roberto si sarebbero trovati il loro nome e il loro numero di telefono su un sito porno, venendo tempestati di telefonate di uomini che chiedevano loro prestazioni. Aperta un' indagine, sarebbe già emerso che al sito pornografico, con sede all' estero, i numeri di quei giovani sarebbero stati dati proprio dalla 29enne tramite il suo telefonino. E ieri mattina per quella che era la vittima per eccellenza del revenge porn sono arrivate perquisizione e denuncia su una pornovendetta ancora tutta da chiarire.
Ragazza di 19 anni denuncia di essere stata stuprata, poi ritratta. Ora è sotto processo. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. Dovrebbe essere all’università la ragazzina britannica che lo scorso luglio, durante una vacanza a Cipro, aveva denunciato di essere stata violentata da una dozzina di ragazzi israeliani in un hotel di Ayia Napa che avevano filmato e diffuso la scena come nel peggiore «revenge porn». Invece la teenager, che ha appena compiuto 19 anni, è in attesa del processo che la vede imputata per falsa denuncia. Sì perché la giovane, dopo essere stata sottoposta a un lungo interrogatorio della polizia, ha ritrattato tutto. E i dodici israeliani tra i 16 e i 18 anni erano tornati in patria accolti come eroi mentre lei è stata arrestata e ha passato quasi due mesi in carcere. Come nella miniserie tv americana Unbelievable, che si basa su una vicenda vera, alla fine sotto accusa ci finisce lei, la presunta vittima che però ora denuncia di essere stata sottoposta a pressioni psicologiche per ritrattare. Sicuramente il caso di violenza sessuale rappresentava un danno economico per Cipro che attrae un milione trecentomila turisti britannici e 230mila israeliani ogni anno. Dopo la denuncia diverse giovani britanniche erano state richiamate in patria dai genitori in ansia per la loro incolumità. Così nei primi giorni di agosto la presunta vittima era stata convocata al posto di polizia e sottoposta a diverse ore di interrogatorio: «Mi dissero che se non avessi firmato la dichiarazione in cui ritrattavo tutto, avrebbero arrestato i miei amici» ha raccontato durante l’udienza in tribunale qualche giorno fa. La ragazza ha anche detto di non aver avuto la possibilità di un avere al suo fianco un avvocato e nemmeno un interprete. Per Michael Polak di Justice Abroad, l’organzzazione internazionale creata per aiutare coloro che cercano di farsi strada attraverso i sistemi giudiziari stranieri, con tutti gli ostacoli che presentano, ci sono diverse anomalie: «La polizia non fatto rilievi nella stanza d’albergo dove è avvenuto il presunto stupro né ha organizzato un riconoscimento dei presunti violentatori. Dai cellulari dei ragazzi israeliani non sono stati scaricati i messaggi e questo è scioccante, perché è una delle prime cose che ci sia aspetta siano fatte. Inoltre non c’è alcun video dell’interrogatorio cui è stata sottoposta la ragazza». «Ogni volta che la ragazza entra in tribunale viene stuprata nuovamente a causa dell’attenzione mediatica che il caso suscita» ha detto Elena Karaoli, della Women Lobby di Cipro. Ad influenzare l’esito della vicenda, secondo Susana Pavlou, direttrice dell’Istituto Mediterraneo per gli studi di genere a Nicosia, devono essere state le forti relazioni diplomatiche tra Israele e Cipro. «I giovani israeliani sono tornati in patria senza neanche una tirata d’orecchie nonostante avessero messo in circolazione i video in cui si vedeva la ragazza avere rapporti sessuali con loro». Il processo riprenderà il primo novembre quando sarà ascoltato uno psicologo britannico che certificherà come la ragazza soffra di un disturbo da trauma. Probabilmente la giovane non tornerà a casa prima di Natale.
Tenta di sgozzare la compagna, 11 anni fa uccise la fidanzata. A salvare la donna l’intervento di alcuni passanti. L’uomo era in permesso di lavoro fuori dal carcere. Il Dubbio il 19 ottobre 2019. Ha tentato di sgozzare la compagna che lo voleva lasciare dopo che aveva scoperto che l’uomo, un tunisino 36enne, era detenuto nel carcere delle Vallette di Torino per aver ucciso nel 2008 a Bergamo con due coltellate una ragazza 21enne, Alessandra M., all’epoca sua fidanzata. L’uomo, che per quell’omicidio era stato condannato a 12 anni, aveva il permesso di assentarsi dal carcere per motivi lavorativi poiché prestava servizio cameriere in un bistrot e doveva rientrare in carcere alle 2. La vittima, una donna torinese di 44 anni che facendo alcune ricerche aveva scoperto i motivi per cui il suo compagno si trovava detenuto, aveva annunciato all’uomo di voler interrompere la relazione. Sabato sera intorno all’una, scesi da un mezzo pubblico poco distante da casa della donna, alla periferia del capoluogo piemontese, i due stavano discutendo quando all’improvviso il 36enne ha aggredito la compagna di schiena e l’ha ripetutamente colpita con una bottiglia di vetro, provocandole gravi ferite al volto, tanto che dovrà essere sottoposta a un intervento di ricostruzione maxillofacciale. A notare l’aggressione alcuni passanti che sono intervenuti chiedendo l’aiuto di una volante che stava transitando nella zona: dopo aver prestato i primi soccorsi alla vittima, gli agenti hanno rintracciato poco distante l’aggressore che, nel tentativo di fuggire, è caduto riportando alcune escoriazioni. Ora è piantonato in ospedale con l’accusa di tentato omicidio. A raccontare l’accaduto ai poliziotti è stata la stessa donna che, nonostante fosse gravemente ferita, ha detto che a colpirla era stato il compagno, aggiungendo che a salvarle la vita è stata la grande sciarpa che indossava, che aveva impedito che venissero colpiti organi vitali. (Fonte: Adnkronos)
Carlotta Rocci per “la Repubblica” il 20 ottobre 2019. Mohamed Safi, 36 anni, aveva già ucciso una donna e per questo era stato condannato a 12 anni di carcere da scontare a Torino. Concetta, 42 anni, però non lo sapeva quando lo ha conosciuto, non aveva mai sentito il nome di Alessandra Mainolfi, amante di Mohamed che all' epoca era sposato, uccisa a Bergamo con due coltellate al petto, il 9 giugno 2008 perché, come lei, aveva deciso di lasciarlo. Lo ha scoperto per caso, trovando su internet il nome e la storia dell' uomo con cui aveva una relazione da metà aprile. «Mi chiedevo perché di giorno non fosse raggiungibile e perché avesse sempre orari strani», ha spiegato alla polizia. Poi ha scoperto che quelli erano gli orari disposti dal carcere per permettere al detenuto di svolgere la sua attività lavorativa fuori dal penitenziario in un bistrò alla periferia di Torino. È allora che ha avuto paura e ha deciso di troncare la relazione ma ieri notte lui ha cercato di ucciderla. Ha provato a sgozzarla con un coccio di bottiglia trovato in strada. «Mi ha salvato la sciarpa o sarei morta», ha detto la donna, ma niente le ha protetto il volto completamente sfigurato dai colpi di Mohamed che l' ha aggredita a due passi da casa, in corso Giulio Cesare. È l' una di notte e lui dovrebbe essere già sulla via di ritorno verso il carcere dove deve rientrare entro le 2 e invece la coppia è sul tram numero 4, il più lungo della città che però non porta al penitenziario. Lui l'aggredisce appena scendono. Una volante del commissariato Barriera di Milano diretto dal vicequestore Alice Rolando arresta l' uomo per tentato omicidio pochi minuti dopo, con i vestiti completamente imbrattati di sangue, mentre cerca di scappare. Concetta viene operata, il vetro le ha reciso il nervo facciale: «Una brutta lesione dal punto di vista estetico e funzionale», spiega Giorgio Merlino, primario del reparto di chirurgia estetica del Maria Vittoria che le ha ricostruito il nervo. In ospedale ci sono i parenti di Concetta, i figli e i genitori. «Non sapevamo nemmeno che quell' uomo esistesse, è un incubo, un fulmine a ciel sereno», dice il padre. C'è tanto dolore ma soprattutto rabbia verso chi ha provato a togliere a Concetta la possibilità di sorridere e verso una giustizia che «fa schifo e non ci protegge». Mohamed godeva della possibilità di lavorare dentro al carcere dal 2015,e dal 2017, su proposta del direttore con il benestare del magistrato di sorveglianza, era stato assegnato al lavoro esterno come cameriere. Aveva un' ora e mezza di tempo per raggiungere il bistrò e altrettanto tempo per tornare in cella con i mezzi pubblici. Da un anno e mezzo si muoveva in autonomia senza che nessuno lo accompagnasse. Tutte le carte che riguardano il detenuto sono state acquisite dalla procura e il guardasigilli Antonio Bonafede ha annunciato l' invio degli ispettori in carcere per controllare se l' uomo avesse tutti i requisiti per godere della possibilità di lavorare, un percorso che serve per il reinserimento sociale dei detenuti in vista della fine della pena e che normalmente - spiega Marco Ferrero, responsabile di Pausa Caffé, la cooperativa che aveva accolto Mohamed - abbattono il rischio di recidiva dei reati». I datori di lavoro del killer di Bergamo, sconvolti dall' accaduto, ieri non hanno aperto il ristorante. L'aggressione a Concetta solleva, intanto, le polemiche dei sindacati di polizia e penitenziaria che denunciano un «eccessivo permessivismo» nella concessione di margini di libertà ai detenuti. Tre donne, la sindaca di Torino Chiara Appendino, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando e la cantante Fiorella Mannoia tornano a parlare di emergenza in fatto di violenza sulle donne.
«Prima ti ammazzo, e poi mi ammazzo io»: aveva ucciso la ex, tenta di sgozzare la compagna. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. Torino - «Prima ti ammazzo, e poi mi ammazzo io». Dopo aver afferrato una bottiglia di vetro e aver sfigurato il volto dell’ex amante, Mohamed Safi ha tentato di sgozzarla. Non ci è riuscito soltanto perché lei, riversa a terra in una pozza di sangue, aveva una sciarpa spessa. «Non riusciva a togliermela, solo per questo ho evitato il peggio», ha detto la donna, tramortita, alla polizia, intervenuta a salvarla in corso Giulio Cesare, a Torino, verso la mezzanotte di venerdì. Quel che Concetta, torinese di 43 anni, aveva scoperto poco prima dell’ultima — e quasi fatale — lite con Safi, è che quell’uomo, bello e sempre sorridente, non era soltanto un tunisino di 36 anni che faceva il cameriere, ma un assassino. Una persona violenta, che nel 2008 a Bergamo aveva ucciso una fanciulla di 21 anni di cui s’era invaghito, Alessandra Mainolfi. Safi era stato condannato a 12 anni. In virtù della «buona condotta», nel 2015 aveva iniziato a lavorare nel panificio del carcere di Alessandria. Nel maggio del 2017, il grande salto: un lavoro vero, fuori dalla galera, per la cooperativa Pausa café. Al Palagiustizia Safi lo conoscevano tutti, fino al giugno scorso. Faceva i caffè a magistrati, giudici, avvocati. Dopo era stato trasferito in un bar di Grugliasco. «L’ho conosciuto ad aprile, su una chat», ha raccontato Concetta agli agenti del commissariato Barriera di Milano. «Non mi aveva detto di essere un detenuto, e nemmeno di aver ammazzato una donna, sono stata io a scoprirlo», ha rivelato la donna, separata e con due figli. «Mi ero insospettita — ha detto la 43enne — perché non poteva mai fermarsi a dormire con me, così navigando su Internet, ho scoperto il suo passato». Quando Concetta annuncia a Safi che la loro relazione è finita, lui non si rassegna. Venerdì sera, pare dopo il lavoro, Safi vede Concetta in un bar di via Sansovino. Dovrebbe essere il famoso «ultimo saluto». E finisce in tragedia, come ogni volta, perché Safi non lascia andare Concetta, ma la segue sul tram. «Sono scesa in via Lauro Rossi e lui era dietro di me, in via Verres mi ha aggredita e mi sono ritrovata faccia a terra», è il ricordo di lei. Concetta urla, attira i passanti e la volante che in quel momento passa di lì. L’arresto del tunisino è immediato. La vittima viene operata dall’equipe di chirurgia plastica all’ospedale Maria Vittoria: ha il nervo facciale distrutto. Anche Safi resta ferito, nel colpire la donna, e sbatte la testa cadendo a terra. Verrà piantonato al repartino delle Molinette. «Era un lavoratore modello, un ottimo barista», afferma Marco Ferrero, presidente della cooperativa di recupero sociale Pausa café. Safi ora risponde di tentato omicidio aggravato. Era in carcere da 11 anni: gli mancava un anno per finire di scontare la pena per l’omicidio di Alessandra Mainolfi. La sorella Valentina vive ancora a Pradalunga, vicino a Bergamo. Ieri ha preferito non esprimersi. «Soffre ancora», spiega una parente. Il tunisino adesso non rischia solo la condanna per avere aggredito Concetta. Ieri il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, ha sollecitato l’ispettorato del ministero della Giustizia a compiere accertamenti riguardo all’utilizzo dei permessi. Non è chiaro infatti come Safi potesse incontrare la sua amante, visto che, nell’orario in cui era fuori dal carcere — tra le 15 e le 2 — era tenuto a lavorare.
Da Ansa il 9 settembre 2019. Ferma un'auto di notte per strada chiedendo aiuto per la moglie, ma è una scusa per fermare una giovane donna e violentarla per ore. La polizia dopo 12 ore lo ha identificato e fermato. E' la ricostruzione della brutale aggressione avvenuta la scorsa settimana nel Ragusano per cui è indagato un 26enne di Vittoria. Ad accusarlo la testimonianza della vittima che lo riconosce in foto e immagini di telecamere di videosorveglianza. L'uomo ha minacciato la donna di morte: "so tutto di te, se parli ammazzo te e la tua famiglia". Il 26enne nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina. L'aggressione è avvenuta la notte del 2 settembre scorso. La vittima stava rientrando a casa quando per strada ha visto un uomo che chiedeva aiuto. Lui si è avvicinato e le ha detto che la moglie si era sentita male e che aveva bisogno di chiamare i soccorsi. In realtà l'uomo con la moglie, ricostruirà dopo la polizia, aveva litigato. E svela subito le sue intenzioni minacciando di uccidere la giovane donna con una grossa pietra. Lui si è messo alla guida dell'auto e ha portato la sua vittima vicino al cimitero di un paese del Ragusano dove le ha rubato la borsa e letto ad alta voce le generalità della donna, minacciando di morte lei e la sua famiglia. Subito dopo ha abusato di lei in auto. Poi l'ha portata su una spiaggia del Ragusano dove si è lamentato della moglie e le ha raccontato della lite che aveva avuto con lei poco prima. Dopo l'ha riportata nuovamente vicino al cimitero e ha abusato nuovamente di lei. Infine si è fatto lasciare vicino casa, ma prima di scendere dall'auto è tornato a minacciare la donna di morte. La giovane donna ha cercato aiuto cercando i suoi amici, che avevano però i cellulari spenti. Come una sua cara amica alla quale manda un messaggio vocale ricostruendo le tre ore di violenza subìta. Infine si è recata in ospedale, dove i medici hanno chiamato la polizia che ha avviato le indagini, che hanno portato al fermo eseguito dalla squadra mobile. Il Gip di Ragusa ha convalidato il fermo per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina ed emesso nei suoi confronti un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Durante l'interrogatorio di garanzia l'indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. L'uomo è stato individuato da personale della squadra mobile della Questura di Ragusa anche dalla visione di immagini di telecamere di sicurezza. Ad indicarlo la vittima tra le foto che le ha mostrato la polizia perché nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina.
«Mi aiuti, mia moglie sta male». Ferma una ragazza e la violenta per ore. Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Corriere.it. Ferma un’auto di notte per strada chiedendo aiuto per la moglie, ma è una scusa per fermare una giovane donna e violentarla per ore. La polizia dopo 12 ore lo ha identificato e fermato. È la ricostruzione della brutale aggressione avvenuta la scorsa settimana nel Ragusano per cui è indagato un 26enne di Vittoria. Ad accusarlo la testimonianza della vittima che lo riconosce in foto e immagini di telecamere di videosorveglianza. L’uomo ha minacciato la donna di morte: «So tutto di te, se parli ammazzo te e la tua famiglia». Il 26enne nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina. L’aggressione è avvenuta la notte del 2 settembre scorso. La vittima stava rientrando a casa quando per strada ha visto un uomo che chiedeva aiuto. Lui si è avvicinato e le ha detto che la moglie si era sentita male e che aveva bisogno di chiamare i soccorsi. In realtà l’uomo con la moglie, ricostruirà dopo la polizia, aveva litigato. E svela subito le sue intenzioni minacciando di uccidere la giovane donna con una grossa pietra. Lui si è messo alla guida dell’auto e ha portato la sua vittima vicino al cimitero di un paese del Ragusano dove le ha rubato la borsa e letto ad alta voce le generalità della donna, minacciando di morte lei e la sua famiglia. Subito dopo ha abusato di lei in auto. Poi l’ha portata su una spiaggia del Ragusano dove si è lamentato della moglie e le ha raccontato della lite che aveva avuto con lei poco prima. Dopo l’ha riportata nuovamente vicino al cimitero e ha abusato nuovamente di lei. Infine si è fatto lasciare vicino casa, ma prima di scendere dall’auto è tornato a minacciare la donna di morte. La giovane donna ha cercato aiuto cercando i suoi amici, che hanno però i cellulari spenti. Come una sua cara amica alla quale manda un messaggio vocale ricostruendo le tre ore di violenza subita. Infine si è recata in ospedale, dove i medici hanno chiamato la polizia che ha avviato le indagini, che hanno portato al fermo eseguito dalla squadra mobile. Il Gip di Ragusa ha convalidato il fermo per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina ed emesso nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Durante l’interrogatorio di garanzia l’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. L’uomo è stato individuato da personale della squadra mobile della Questura di Ragusa anche dalla visione di immagini di telecamere di sicurezza. Ad indicarlo la vittima tra le foto che le ha mostrato la polizia perché nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina.
Dalla pagina Instagram di Carmelo Abbate il 9 settembre 2019: Lui è Sergio. Ha 26 anni. Vive a Vittoria, in provincia di Ragusa. Ha una moglie e 2 figli. Lui è uno che prende tutto come viene, perché ha scoperto che programmare questa vita non conviene. È il suo manifesto. Sergio cerca una prostituta tra gli annunci di Bakeka. È il 2018. Le dà appuntamento a Ragusa. La carica sullo scooter e la porta a Vittoria. Si ferma in una zona isolata. La minaccia, le ruba i soldi e la violenta. Lei riesce a fuggire. Va dalla polizia e lo denuncia. Sergio viene arrestato e processato per sequestro di persona, rapina e violenza sessuale. Ha precedenti per furti in abitazioni e spaccio. È il maggio del 2018. Viene condannato a 2 anni e mezzo di carcere. Fa 4 giorni di galera. Giorni. Gli concedono gli arresti domiciliari. Ci rimane fino al febbraio del 2019, quando i giudici gli aprono le porte di casa. Sergio è libero di andare in giro a prendere la vita come viene, con il solo obbligo di dimora. È il 2 settembre. Lei è una giovane donna di Vittoria. Sta rientrando a casa dalla sua festa di compleanno. È sola in auto, dietro ha i regali e un pezzo di torta per i genitori. Per strada c’è un uomo. Chiede aiuto. Dice che la moglie ha avuto un malore. Ha bisogno di chiamare i soccorsi. La donna prende il telefono. Lui glielo strappa dalle mani. Infila il braccio nel finestrino e apre lo sportello. La minaccia con una pietra. La ucciderà se non fa quello che vuole. Lei è terrorizzata. Obbedisce. Lui sale. Guida fino al cimitero di Vittoria. Le ruba 250 euro. Legge la sua carta d’identità. Ora sa tutto su di lei. Minaccia la sua famiglia. La stupra. Una, due volte. Rimette in moto. Guida fino a Marina di Ragusa. La fa scendere in spiaggia. Si lamenta della moglie. Poi la riporta a Vittoria. La violenta di nuovo. La fa guidare fino a una piazzetta. Le dice che la ucciderà se non tiene la bocca chiusa. Se ne va, ripreso da una telecamera. Lei chiama i genitori. La portano in ospedale. Chiamano la polizia. Le mostrano delle foto. Sergio Palumbo viene arrestato. La polizia di Ragusa non esclude che abbia commesso altre violenze, e invita eventuali vittime a denunciare.
Codice rosso, ingorgo negli uffici. Appello di 10 magistrati. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Boom di denunce. I pm di Milano scrivono al procuratore Greco: «Gravi disagi». Aumentano gli arretrati. In nove mesi +41% di pendenze. Il «codice rosso», nome-slogan della legge che dal 9 agosto impone una trattazione prioritaria dei casi di violenza di genere, stressa i ranghi già in affanno della Procura e manda in fibrillazione organizzativa (sui disequilibri nei carichi di lavoro tra vari pool) il V dipartimento titolare della materia. Dove tutti e dieci i pm scrivono al procuratore Francesco Greco (e per conoscenza al loro procuratore aggiunto Letizia Mannella) una lettera dai toni inconsueti, «…considerato che già il 23 luglio le veniva rappresentata dal procuratore aggiunto e da tutti i pm la situazione di grave disagio», e «considerato che tali disfunzioni erano già state rilevate e a Lei rappresentate anche nel corso di precedenti riunioni». Perciò i 10 pm, mettendo le mani avanti rispetto al +41% di pendenze in 9 mesi (1.100 fascicoli in più di arretrato), allegano le statistiche sugli 8 pool. Esse mostrano ad esempio che in agosto il V ha «incamerato il doppio dei fascicoli del IV» (truffe, reati informatici e tutela dei consumatori) «e il triplo di quelli del VII» (furti, rapine, estorsioni, omicidi); per non parlare dei numeri dieci volte più smilzi del III pool «Affari internazionali» (unico in Italia). E sulla scorta di questi numeri i pm fanno 8 richieste: dall’aumento dell’organico all’esonero da taluni fascicoli, fino allo spostamento di parte dei casi di «codice rosso» sui pm di turno, o all’assegnazione a pioggia a tutti i pm del 10% dei maltrattamenti e stalking. In una riunione successiva alla lettera il procuratore Greco non ne ha gradito i toni, ha invitato i pm a non assumere mentalità impiegatizie in reciproci rimproveri statistici, ha affermato che i numeri non sarebbero del tutto esatti, e comunque ha difeso la propria scelta organizzativa di investire molto nella materia economico-finanziaria da sempre frontiera dell’ufficio milanese, da due anni affidata (con taglio più transnazionale) a 6 pm dell’aggiunto Fabio De Pasquale. E questo anche a dispetto dei numeri molto più bassi di fascicoli di corruzione internazionale o riciclaggio, pur al netto delle richieste di collaborazione dall’estero (non contenute nei numeri della lettera). Del resto è sempre arduo comparare lavori che assorbono molte energie e tempo in maniera differente: nel V pool spesso con l’urgenza di dover chiedere arresti per proteggere le donne in pericolo, nel III pool spesso con la difficoltà di coltivare i rapporti «diplomatici» con autorità straniere senza le cui rogatorie si è ciechi. Se ne riparlerà nell’assemblea generale della Procura, annunciata da Greco. Intanto un temporaneo punto di incontro sarà probabilmente un provvedimento con il quale il procuratore disporrà che per 6 mesi i pm del V pool siano esonerati dall’assegnazione dei procedimenti ordinari.
Tutti i limiti del "codice Rosso". La recente normativa contro le violenze in famiglia ha grosse carenze come dimostrano i recenti fatti di cronaca. Daniela Missaglia il 6 settembre 2019 su Panorama. Francesco Greco, capo della Procura di Milano, parlando di un recente caso culminato con l’omicidio di una donna già vittima di maltrattamenti da parte del marito, ha amaramente chiosato: “Nessuno vuole contestare il codice rosso, dico che sta diventando un problema a livello pratico, il problema è come gestirlo. Da quando è entrato in vigore il codice rosso, ci sono 30 allarmi al giorno, pari al numero di casi che vengono immediatamente segnalati in Procura dalle forze dell'ordine, e questo ci impedisce di concentrarci sui casi più gravi". A far da sfondo a questo amaro sfogo la triste fine di Adriana Signorelli, uccisa con cinque coltellate nella notte a cavallo fra il 31 agosto ed il 1° settembre dal marito, Aurelio Galluccio, già protagonista di plurime minacce ed atti molto violenti nei suoi confronti, terrore non solo della donna ma anche di tutti i vicini della stessa, avendo tentato di dar fuoco al palazzo. Il paradosso è che la donna aveva recentemente denunciato un'ennesima aggressione da parte dell'uomo, attivando quindi il "Codice Rosso", procedura prevista dalla nuova legge a tutela delle vittime di maltrattamenti in famiglia, stalking e violenze sessuali. Adriana Signorelli era stata anche sentita dalla Polizia Giudiziaria che - informando prontamente la Procura ed in attesa di provvedimenti - le aveva consigliato prudenzialmente di cambiare casa. Come se i problemi si potessero risolvere dalla "coda" e non all’origine. La riflessione che s’impone abbraccia due temi. Da un lato quello dell’impotenza o quanto meno dei limiti degli strumenti per prevenire una vera e propria ecatombe, le violenze in famiglia, tanto che un omicidio su due, in Italia, viene commesso in tale ambito. Dall’altro quello dell’impianto normativo, sempre più sovrabbondante che, come ha commentato il Procuratore capo, Francesco Greco, rischia di rendere più complicata la concreta tutela delle vittime. I due temi si intrecciano e si sovrappongono con il risultato che i crimini familiari aumentano, anziché regredire ed è uno stillicidio quotidiano. Ben vengano, dunque, leggi come il “Codice Rosso” per procedure sempre più snelle, punizioni severe, attivazioni immediate della Procura, ma il rischio è di innestare un motore da Formula Uno su un’utilitaria, credendo possa così vincere il Gran Premio di Monza. E’ un dato di fatto che le nostre Forze dell’Ordine, di certo competenti e preparate, così come i Magistrati, siano in numero limitato ed oberati di lavoro cosicchè, giocoforza, risulta oggi impossibile selezionare i casi davvero urgenti. Al riguardo, peraltro, mi domando da sempre perché anziché allontanare la vittima dall’abitazione, magari con i figli al seguito, non si prelevi al volo il violento mettendolo, lui si, in comunità con un serio e rigido programma di supporto psicologico. Si potrebbe obiettare che nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario. Giusto, ma allora si stabilisca che, in caso di diniego al percorso psicologico di recupero, l’aggressore venga trattenuto nelle patrie galere o in comunità protette, per il doppio della pena, facendo lavori di pubblica utilità. Fantascienza? No, non credo. Sarebbe molto più semplice ed economico invertire il criterio dell’allontanamento. In questo modo, tra l’altro, si prenderebbero due piccioni con una fava: l’attuale meravigliosa costellazione di ONLUS e cooperative sociali (invito tutti i lettori ad andare a vedere le infinite ragnatele societarie delle comunità e relativi bilanci) che ricevono soldi e appannaggi pubblici milionari, potrebbero essere impiegate a tale scopo. Con buona pace della Commissione Bilancio che benedirebbe una legge che inverta la rotta degli allontanamenti, con un considerevole risparmio di tutti noi contribuenti. Violenti trasformati in lavoratori modello con attività non retribuita a favore della collettività, per un minimo di 8 ore ogni giorno, e rieducati all’interno di strutture protette, fatte apposta per loro. Perché su un punto non concordo con l’autorevole pensiero del dott. Francesco Greco: il femminicidio non nasce da una “follia umana” ma è un fenomeno che cova a lungo in una mente deviata, accecata dalla rabbia e dalla possessività. Paolo Crepet parla di feudalismo affettivo di uomini che pensano alla moglie come “roba mia” e dunque ne possono fare quello che vogliono. Uomini che prima di compiere l’atto finale non possono non aver lanciato dei segnali. Ed è dunque su quei segnali che dobbiamo agire in prevenzione. Nel modo più adeguato e senza cadere nella trappola di leggi dal nome di una serie Netflix, di vago sapore propagandistico, ma di nessun impatto pratico se non quello di intasare anziché agevolare la soluzione dei casi gravi.
Violenza domestica: troppe leggi e male applicate. La storia di Amina è uno spaccato dell'assurdità della Giustizia italiana tra un numero assurdo di leggi in contrasto tra loro. Daniela Missaglia il 27 luglio 2019 su Panorama. Aggiungere leggi su leggi serve?
Fu Dio, secondo la dottrina, a stabilire le prime rudimentali regole imponendole nel giardino dell’Eden ad Adamo ed Eva che, fatalmente, le violarono. Oggi ogni Stato sovrano è retto da reticolati di norme più o meno complesse tant’è che Abramo Lincoln disse: “tre cose formano una nazione: la sua terra, il suo popolo, e le sue leggi”. Eppure la legge, se disapplicata, non serve a nulla, diventa un vuoto simulacro scritto sui tomi. Sono dunque convinta che solo il preciso raccordo e coordinamento fra gli organi ed i poteri dello Stato preposti a ridisegnarle, affinarle, applicarle, eseguirle, possa rendere migliore una nazione e la vita concreta dei cittadini.
Ma è proprio qui il punto dolente. Da un lato la magistratura esercita il proprio ruolo con discrezionalità eccessiva, dall’altro il potere legislativo prolifera norme spesso incoerenti e senza raccordo con le precedenti, dall’altro, ancora, le Forze dell’Ordine vivono la difficoltà di veder frustrati i propri sforzi e non trovano adeguato supporto né dal potere giudiziario né da quello esecutivo. Esempio illuminante è ciò che succede con la violenza domestica, ambito in cui norme vecchie e nuove stanno facendo da cerchio intorno ad un fenomeno sociale grave ed ingravescente, con conseguente rischio di fallire l’obiettivo di arginarlo. La difficoltà potrebbe essere superata rovesciando la prassi di confinare in comunità donne e bambini vittime di violenza domestica. Ragionando al contrario non sarebbe più giusto rinchiudere il violento in apposite comunità, magari impiegandolo in lavori socialmente utili e lasciare nelle loro case le vittime? Perché costringere chi ha già subito violenza a cambiare le proprie abitudini di vita andando in comunità, sottostando ad altre non meno terribili vicissitudini fatte di colloqui, relazioni dei servizi sociali e tribunali per i minorenni che inevitabilmente verrebbero coinvolti? Anche a livello economico, mi sembra proprio che il ragionamento al contrario non potrebbe che funzionare.
Amina, per esempio, è l’ultima donna che ho aiutato in questo modo. Sposata con un connazionale violento e padrone che picchiava lei ed i figli ad ogni piè sospinto: bastava una camicia bianca fra i colorati, una cena non gradita, una telefonata che dava adito a pretestuose scenate di gelosia. Per anni Amina ha conservato per sé, sul viso e sul corpo, i segni di questa barbarie, vuoi per paura, vuoi per una cultura d’origine remissiva, vuoi per sfiducia, anche perché, la prima ed unica volta che si era recata alla vicina stazione di Polizia, il caso era stato gestito come un normale dissidio fra coniugi e Amina aveva percepito un chiaro ridimensionamento dell’accaduto. Un giorno però è il figlio più piccolo, vedendo la madre frustata a sangue e strangolata dal padre, a chiamare le Forze dell’Ordine che le consigliano di recarsi al Pronto Soccorso. I sanitari, ormai preparati a questa piaga, la mettono in contatto con un Centro Antiviolenza che si fa parte diligente di informare la magistratura ed i Servizi Sociali territoriali i quali, come di norma, la mettono in lista d’attesa, con i figli, per entrare in una comunità protetta, sradicandola dall’ambiente domestico. Il tutto mentre il Pubblico Ministero svolge le indagini ma, in assenza di flagranza, non può emettere provvedimenti cautelari immediati nei confronti dell’orco. Per strano possa sembrare, è bastato presentare un ordine di protezione alla sezione specializzata di famiglia del Tribunale di Milano e il Giudice, ha disposto l’allontanamento coatto, attraverso le Forze dell’Ordine, del marito violento e l’intimazione al medesimo di non avvicinamento.
Morale? Le leggi servono solo se applicate in modo coordinato ed intelligente, altrimenti si rivelano solo "spot" controproducenti che attivano iter inutili e farraginosi. Perché Amina ed i suoi figli avrebbero dovuto riparare in una comunità perdendo l’habitat di vita in favore di chi, con le sue violenze, l’aveva messa in tale condizione? A che serve l’attivazione disordinata di Servizi Sociali, PM, Tribunale per i Minorenni se ciò che offrono a donne come Amina è una tutela palliativa che, nel solco di tempi lunghi della giustizia, lascia un potenziale carnefice nella propria casa? A che serve, oggi, la permanenza stessa dei Tribunali per i Minorenni sotto-organico, in un contesto che ha evidenziato la cattiva gestione della giustizia minorile attraverso giudici onorari, servizi sociali, sindaci? Certi errori, per essere sicuri di non caderci più, bisogna estirparli alla radice attraverso una radicale riforma del diritto di famiglia, non tanto dal punto di vista normativo - le leggi ci sono - ma dell’apparato atto a definire le crisi: sezioni specializzate, iper-specializzate, con magistrati ad hoc appositamente formati e competenti, in ogni Tribunale, abolizione dei giudici minorili e coordinamento molto più stretto con le i giudici penali, le Forze dell’Ordine, i centri anti-violenza, i presidi ospedalieri, liste di avvocati d’ufficio iscritti in un apposito albo con competenze peculiari di diritto di famiglia. E possibilmente i violenti, quelli sì, nelle comunità: c’è così tanto bisogno di manovalanza. Loro devono rimediare, riparare, impegnarsi, non solo psicologicamente, ma facendo fatica fisica e lavori pesanti, che ormai non vuole fare più nessuno, che li ridimensionino nel loro potente ego che nasconde solo fragilità e meschinità. Così si salva Amina e tutte coloro che vivono e vivranno la sua situazione, con buona pace della Commissione bilancio che anziché stanziare ulteriori fondi per supportare le nuove leggi anti violenza ne trarrebbe solo beneficio.
“ADESSO VAI A CASA E STAI ZITTA, TANTO NON TI CREDERÀ NESSUNO”. Valentina Errante e Maria Letizia Riganelli per “il Messaggero” il 30 aprile 2019. Una manciata di minuti in più e quei video sarebbero spariti dalla memoria dei telefoni. Stavano per cancellare le tracce dello scempio e della brutale violenza, quando, all' alba del 12 aprile, gli investigatori si sono presentati da Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci. La mobile e la Digos di Viterbo, guidate da Fabio Zampaglione e Fabrizio Moschino, hanno bussato alla porta di casa dei due esponenti di Casapound alla ricerca di prove che li inchiodassero. E in pochi minuti si sono ritrovati a guardare le immagini dell' orrore: uno stupro durato almeno tre ore. I due protagonisti si alternavano, riprendendosi a vicenda. Licci, quelle immagini, le aveva già rimosse, ma sul telefonino del consigliere comunale di Vallerano, il piccolo comune del viterbese dove Chiricozzi era stato eletto con Casapound, i file erano ancora presenti. E adesso sono quei video a inchiodare i due indagati, confermando la denunce della vittima. Entrambi devono rispondere di violenza di gruppo, aggravata dalle condizioni di inferiorità della vittima, e lesioni aggravate. Non hanno battuto ciglio quando ieri gli agenti si sono presentati. Chiricozzi avrebbe ostentato la sua sicurezza, di certo nessun pentimento. Arrogante anche di fronte alle manette. I due ragazzi, 19 e 21 anni, l' 11 aprile avevano pianificato la serata. Parlano al telefono e decidono che è la giornata giusta per un giro in centro a Viterbo. Prima di uscire da casa il selfie d'ordinanza, postato su Instragram, al grido di #vestitimale, #comportatimale. Chiricozzi, oltre alle chiavi della macchina, prende anche quelle di Old Manners, il locale e sede di Casapound, a piazza Sallupara. Un circolo a uso esclusivo delle tartarughe del viterbese e del circondario. L'11 aprile il pub degli estremisti neri è chiuso. Quindi a completa disposizione dei due. La nottata parte. In centro si gira per locali. E tra un bar e un pub, Chiricozzi e Lizzi incontrano una ragazza. Lei è più grande, ha 36 anni. Le offrono da bere in un locale e poi la invitano al loro pub. «Abbiamo le chiavi, vieni con noi berremo gratis». La ragazza si lascia convincere, è già brilla quando arrivano a piazza Sallupara. Chiavi in mano, i tre entrano nel circolo e si chiudono la porta alle spalle. Stanno ancora bevendo quando la 36enne, comincia a subire gli approcci sessuali di uno dei due, li respinge, prova a fuggire, ma viene stesa a terra con un pugno. La colpiscono ripetutamente. Calci e altri pugni. La donna perde i sensi. A questo punto accendono i telefoni e riprendono la violenza. A turno i due, per ore, seviziano e violentano la vittima. Si incitano a vicenda. Furia, depravazione e onnipotenza si scatenano fino alle prime ore del giorno dopo. Quando i due, soddisfatti del venerdì sera, raccolgono la donna come uno straccio e la depositano davanti alla sua abitazione. «Adesso vai a casa e stai zitta, nessuno ti crederà». La trentenne però non sale a casa, trova la forza di andare al pronto soccorso. Qui viene visitata e immediatamente parte la denuncia. I dettagli sono orribili. Per la donna la prognosi è di sette giorni. La polizia interviene immediatamente, raccoglie le testimonianze della vittima, che racconta quello che ricorda. Le sue parole sono confuse, perché per ore è rimasta priva di conoscenza. Non sa se ha gridato, se ha pianto. Ma sa che i suoi aguzzini erano due. E in due l' hanno portata al pub di Casapound. La Mobile avvisa i colleghi della Digos. Sono quasi tutti schedati, Chiricozzi è sottoposto a Daspo e imputato per i calci e i pugni a un ragazzino che, sui social, aveva ironizzato su Casapound. Il riconoscimento, attraverso le foto, avviene in pochi minuti. L' informativa urgentissima arriva in procura. Due ore dopo, gli agenti si presentano in casa dei due indagati per una formale perquisizione. Vengono sequestrati i telefoni. E qui gli inquirenti scoprono i video della violenza. «È stata inaudita - sottolineano-. La donna è stata abusata più volte prima da uno e poi dall' altro per alcune ore, fino a quando non è stata abbandonata sotto casa». La misura cautelare in carcere è scattata. La polizia all' alba ha trascinato i due indagati, difesi dagli avvocati Giovanni Labate e Marco Valerio Mazzatosta, in carcere. Oggi, durante interrogatorio di garanzia in carcere, potrebbero anche raccontare la loro versione della storia o avvalersi della facoltà di non rispondere. «E' stata un' indagine afferma il procuratore capo Paolo Auriemma messa in atto con estrema puntualità e accuratezza. La tempestività, prima che i video venissero cancellati, è stata fondamentale perché non c' è stato niente di casuale».
DALLE CROCI CELTICHE AL DASPO ALLO STADIO IL CONSIGLIERE COMUNALE CHE ELOGIAVA HITLER. Fabrizio Caccia per il “Corriere della sera” il 30 aprile 2019. Via del Colle, un giardino curato, i limoni nei vasi che splendono al sole dopo il temporale. Sul cartello stradale blu del senso alternato, proprio davanti al cancello di casa, c'è un adesivo nero con la croce celtica: «Acca Larenzia». Sul contatore dell' acqua, la «tartaruga» di CasaPound. Siamo arrivati. «Attento, sa, io sono la mamma dello stupratore, stia lontano, potrebbe essere pericoloso...», dice la signora Silvia, la mamma di Francesco Chiricozzi, che fa l'insegnante e prova ad esorcizzare lo choc enorme per il figlio arrestato per violenza sessuale. Anche papà Lorenzo, imprenditore agricolo, ora lo difende a spada tratta: «Lo scriva pure, Francesco è caduto in una trappola». La casa è a cento metri dalla sezione di CasaPound. Francesco Chiricozzi, 19 anni, consigliere comunale di Vallerano, è stato eletto alle ultime amministrative del 10 giugno scorso: suoi 70 dei 311 voti complessivi presi dal movimento di destra. «Si dimetterà domani (oggi, ndr )», assicura il capogruppo Jacopo Polidori: tre anni fa Polidori fu denunciato insieme a Francesco, allora minorenne, per un pestaggio ai danni di un ragazzo del Comune di Vignanello che aveva osato sui social sfottere Mussolini e criticare le loro lotte contro lo ius soli e l'arrivo di tre nigeriani nello Sprar. Polidori, un giovane con la barba, ora è barricato in casa in contrada Pieve: «Da Roma abbiamo avuto l'ordine di non parlare». Non parlano, i ragazzi di CasaPound. Il capo della Digos di Viterbo, Fabio Zampaglione, li conosce però uno a uno, perché la loro sede centrale si trova davanti al palazzo della Questura. I militanti della provincia sono in tutto un centinaio e Chiricozzi, insieme agli altri, veniva spesso a Viterbo alle riunioni convocate dal leader carismatico, il professor Claudio Taglia, primario del reparto di Chirurgia maxillo facciale all'ospedale Belcolle. Davanti al locale di Viterbo dove la notte del 12 aprile si è consumato lo stupro, il pub «Old Manners» di piazza Sallupara, affiliato allo Csen (Centro sportivo educativo nazionale), ci sono molti adesivi del Blocco Studentesco («Quelli col sangue di Enea») e degli ultrà di destra della Curva Nord della Viterbese. Chiricozzi li frequentava entrambi: ma proprio per le sue «old manners», le sue vecchie maniere forti, è stato sfiduciato dal Blocco (cioè i «nipotini» di CasaPound, ben radicati ormai nei licei italiani) e poi ha dovuto anche dire addio allo stadio, per un Daspo che si beccò tentando di introdurre un bengala ad Arezzo. Riccardo Licci, 21 anni, il suo complice viterbese, è figlio di un assicuratore: anche i suoi genitori sono «gente perbene», dicono in Questura. Ma i genitori, spesso, non sanno niente dei figli. «Elegante e arrogante...w Hitler»; «Belli, compatti e fascisti», così scriveva su Instagram Chiricozzi, che postava orgoglioso i suoi selfie seduto su un pullman accanto a una ragazza di colore con l'orripilante didascalia «Trova l' intruso...». Solo qualche mese fa pubblicò sui social un manifesto fascista con la scritta «Difendila!» e l'immagine di un uomo straniero mentre abusa di una donna bianca. E adesso è accusato di aver fatto scempio proprio di un'italiana e di aver filmato tutto senza pietà, compreso il momento in cui lui alza il braccio destro alla ragazza, già stesa per terra da un pugno, per constatare se lei sia ancora in grado di difendersi. Ma il braccio ricade come un corpo morto. E da lì inizia lo stupro. Se non gli avessero sequestrato il cellulare la sera stessa del 12, quell' immonda sequenza sarebbe finita probabilmente in qualche chat di nuovi camerati. Il sindaco di Vallerano, Adelio Gregori, del Pd, non ci vuole ancora credere: «Tra i banchi - dice - i tre consiglieri di CasaPound, Polidori, Chiricozzi e Pierpaolo Armenti, si son sempre comportati correttamente». Poi però gli viene in mente una cosa: «Un giorno comparvero delle scritte fasciste in una scuola, così in consiglio decidemmo di votare una mozione. I tre di CasaPound votarono tutti contro». Compatti e fascisti.
Per non stuprare l'onestà. La violenza compiuta da due giovani legati a CasaPound si è trasformato in stupro "politico" più grave degli altri. Maurizio Belpietro il 13 maggio 2019 su Panorama. Faccio una premessa, prima che qualcuno provi a equivocare. Uno stupro è uno stupro e non ha scusanti. Dunque dovrebbe essere punito con il massimo della pena, ma allo stato dei fatti spesso è punito con il minimo. In pratica rischia di più chi maneggia soldi illecitamente, commettendo il reato di riciclaggio, che chi, usando la forza, violenta una donna o un minore, abusandone. Detto ciò, mi pare evidente che i due giovani accusati di aver stuprato una ragazza all’interno di un circolo di CasaPound, se ritenuti colpevoli, debbano rimanere in carcere per anni, senza che venga concesso loro alcuno sconto. La legge prevede che chi violenta una persona possa essere condannato a dieci anni di carcere e dieci anni devono essere, non cinque o sei, che poi all’atto pratico diventano quattro o cinque se il detenuto si comporta bene e sono ulteriormente ridotti perché in cella l’anno è più corto di quello che devono affrontare i comuni mortali quando sono condannati ad andare in pensione a 67 anni. Premesso tutto ciò e sgombrato il campo da indulti, amnistie e perdoni vari, resta un tema, ossia perché uno stupro di destra debba suscitare più scandalo di uno di sinistra. La scorsa settimana ho partecipato a un dibattito televisivo su Rete 4 dove l’argomento era sì lo stupro di Viterbo, ma soprattutto lo stupro fascista. In studio c’era un senatore di Liberi e Uguali, Francesco Laforgia, il quale ha proposto lo scioglimento di CasaPound e di altri movimenti di destra, sostenendo che la violenza, e dunque anche lo stupro, provengono da lì, da quella cultura. Tesi rilanciata anche da una signora, che preso il microfono ha arringato gli ospiti, dicendo: «Io li conosco quelli lì», sott’inteso, i fascisti, «so come trattano le donne». Insomma, il caso, da giudiziario che era, è diventato politico. Lo stupro è fascista e i fascisti sono stupratori, perché nel loro Dna c’è la forza fisica, la sopraffazione, in particolare dell’uomo sulla donna. Sarà, ma mentre in studio c’era chi berciava di questi argomenti, a me tornava in mente una brutta storia accaduta anni fa a Parma. Lo scenario era quello di un centro sociale, ossia di un edificio occupato dalla cosiddetta sinistra antagonista, che si era presa uno spazio pubblico scaricandone i costi sul comune, vale a dire sulla collettività. I locali erano la sede di una presunta Rete antifascista, che a settembre del 2010 decise di celebrare la cacciata delle squadracce di Italo Balbo dal quartiere. Per l’occasione alcuni antifascisti invitarono una ragazza e poi, a turno, la violentarono, filmando lo stupro. Nel palazzo quel giorno non c’erano solo la vittima e gli stupratori, ma anche altre persone, che assistettero alla violenza. Però nessuno disse nulla, soprattutto nessuno intervenne per fermare lo stupro nei confronti di una donna che con una qualche droga era stata resa incapace di reagire. Il silenzio, anzi l’omertà fu detto durante il processo, durò parecchio e solo indagando su un possibile attentato a una sede di un movimento di destra le forze dell’ordine ne vennero a conoscenza. La vittima, forse per paura o forse per vergogna, non denunciò subito e quando lo fece dalla maggior parte dei compagni non fu creduta. Fu uno stupro di gruppo. La donna trasformata in oggetto nelle mani di una banda di autonominatisi antifascisti. Una violenza premeditata, con il branco a difendere i violentatori. Le peggiori furono le donne, disse la vittima. Compagne che difendevano i compagni, contro la spia che li aveva denunciati e aveva fatto entrare gli sbirri nel centro sociale. Una storia triste, anzi: da voltastomaco. Eppure nessuno chiese lo scioglimento del centro sociale, la chiusura della Rete antifascista. No, non ci furono neppure aperture dei tg o dei giornali. I talk show ignorarono la faccenda, declassandola a un fatto di cronaca locale. Una ragazza attirata in una trappola, nulla di più. Mentre parlavano nello studio televisivo e l’onorevole di sinistra chiedeva la chiusura delle sedi di CasaPound e quello di CasaPound denunciava la strumentalizzazione, io pensavo alla trappola. Ossia alla violenza contro una donna. Una violenza che non è né di destra né di sinistra, ma è una violenza. E pensando alla trappola che era scattata alle spalle di queste ragazze, pensavo anche a quella che scatta ogni giorno alle spalle dei lettori e degli ascoltatori, intrappolati in polemiche inutili e stupide, dove ogni giorno lo stupro è usato per stuprare l’onestà e anche il buon senso e far credere a chi legge o ascolta che solo una parte abbia il monopolio della violenza, quando è evidente che criminali, ladri e stupratori sono equamente ripartiti. A destra e a sinistra.
Pamela Mastropietro e le vittime di serie B. Si parla tanto di violenza sulle donne poi però come nel caso della giovane stuprata ed uccisa da uno spacciatore nigeriano, si difendono più i carnefici che le vittime. Maurizio Belpietro il 23 dicembre 2019 su Panorama. Chissà perché i loro nomi non compaiono mai nel lungo elenco di vittime pubblicato dai giornali. Anche il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sono andato a cercarli. Ma pure nell’occasione di una ricorrenza voluta per ricordare gli omicidi di sesso femminile né Pamela Mastropietro né Desirée Mariottini, due ragazze assassinate nel peggiore dei modi, sono state ritenute degne di essere menzionate nella Spoon river delle martiri. Eppure era il loro giorno, il giorno dedicato ai femminicidi. Ciò nonostante il circo Barnum dell’informazione ha preferito lasciare che le loro storie rimanessero confinate nel mondo delle tenebre, dimenticandole. Come se associare quelle due vite spezzate al destino tragico di donne ammazzate dai compagni fosse una profanazione. Anzi, quasi se si giudicasse ingiusto mettere sullo stesso piano l’assassinio delle due da parte di spacciatori ed extracomunitari con quelli commessi da mariti e fidanzati. Nell’intervista che troverete in questo numero di Panorama, la madre di Pamela, la diciottenne drogata, stuprata, uccisa e fatta a pezzi due anni fa, a Macerata, da un pusher nigeriano, racconta il suo dolore. Non soltanto per l’assassinio di una figlia, massacrata in modo atroce, quasi fosse carne da macello, ma per l’indifferenza che la sua morte sembra aver suscitato in molti ambienti, politici e non solo. Le frasi sono urticanti. Perché la madre della giovane andata incontro a una fine tremenda testimonia come ci siano vittime di serie A e altre di serie B. Anzi, Alessandra Verni dice senza mezzi termini che c’è chi ha pietà del carnefice e non della ragazza che è stata uccisa e scarnificata. Pamela era quella che definiremmo una tossica. Una ragazzina fragile, che a un certo punto della sua vita si era persa, iniziando a fare uso di droghe a causa di una patologia psichiatrica borderline. La madre, una donna che con il proprio lavoro l’aveva cresciuta, certo non immaginava che proprio a pochi chilometri dalla comunità terapeutica che avrebbe dovuto aiutarla a disintossicarsi, Pamela avrebbe incontrato la morte. Pamela aveva bisogno di drogarsi e per ottenere la dose era disposta a tutto. «Era confusa, sicuramente non nel pieno delle sue facoltà mentali». Così, chi l’ha incontrata, a chi quella ragazzina si è rivolta, ha approfittato di lei. In parole povere ne ha abusato. Una corsa in taxi in cambio di un rapporto sessuale. Un passaggio in macchina in cambio di un’altra violenza. Tutto ciò per arrivare al traguardo, al luogo dello spaccio e della morte. È stato a casa di Innocent Oseghale che Pamela ha incontrato il suo carnefice. La droga, lo stupro, l’omicidio, la distruzione del suo corpo fino a farne un mucchietto di organi da chiudere dentro i trolley. Il pusher nigeriano non doveva essere in Italia. Era già stato condannato per spaccio, ma continuava a vendere droga e c’era perfino chi lo aiutava considerandolo un povero rifugiato. Prima il centro di accoglienza, poi l’appartamento, che - dice il fratello della madre di Pamela, l’avvocato che ha seguito passo passo il processo all’assassino della nipote - era pagato anche con i soldi della parrocchia. Sì, perché lo spacciatore, oltre a mettersi in tasca migliaia di euro distribuendo dosi a ragazzi disperati, intascava anche i soldi della carità. Oh, certo, il parroco poteva non sapere che il tizio che stava finanziando non era una pecorella smarrita, ma un lupo. Certo, poteva non sapere che era un avvelenatore di anime e non un buon pastore. E tuttavia, ciò che racconta Alessandra Verni è ancora più sconvolgente. Perché anche adesso che una Corte d’assise ha riconosciuto Oseghale responsabile di un omicidio atroce, condannandolo all’ergastolo, c’è chi ha pietà di lui e lo aiuta. È all’assassino che arrivano i pacchi della Caritas, mentre alla famiglia della vittima non giunge neppure una parola di conforto, né dall’amministrazione comunale che pure coccolava gli immigrati, né da quella Chiesa che dovrebbe aiutare chi soffre. La mamma di Pamela è certamente una donna che soffre, così come la mamma di Desirée. Due ragazze perse nelle angosce dell’adolescenza, andate incontro a un identico destino. Drogate, stuprate, lasciate morire. Ma anche due ragazze dimenticate in fretta, quasi fosse colpa loro se hanno incontrato una morte atroce. I giornali scrivono spesso di donne ammazzate, della violenza su mogli e fidanzate. A uccidere sono quasi sempre italianissimi assassini e dunque se ne può parlare e discutere liberamente. Pamela e Desirée invece sono morte per mano di immigrati. Quelle risorse che tanto piacciono a qualcuno. Risorse lasciate libere di spacciare con il permesso di soggiorno e spesso con l’aureola del perseguitato. Carnefici trattati come angeli. Così si finisce per avere più pietà per loro che per le loro vittime.
"La Chiesa ha aiutato l'assassino di mia figlia..." Esclusiva Panorama. Parla la mamma di Pamela Mastropietro, la 18 enne stuprata ed uccisa da un pusher nigeriano a Macerata. Emanuela Fiorentino il 23 dicembre 2019 su Panorama. «Mamma, non pensare al corpo. Mi è venuta in sogno con queste parole e allora io, dopo tre mesi di solitudine, ho riaperto la porta. È successo anche il 4 marzo, alla vigilia del processo, quando ho compiuto 40 anni. Lei mi parla». Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, è una donna bella, piccola e armoniosa, con degli occhi grigi che fanno paura al pensiero di ciò che hanno visto. La voce è un filo, ma dentro ci trovi tutte le sfumature del dolore. Il processo si è concluso con l’ergastolo e l’isolamento per Innocent Oseghale, il nigeriano tagliatore di corpi, colpevole di aver stuprato una diciottenne in fuga da se stessa, di averla uccisa a coltellate e poi smembrata come si fa con gli animali da macello. Lo scopo era di liberarsene facendola entrare in due valigie. Alessandra, parrucchiera, ha vissuto questo film dell’orrore senza alcun sostegno psicologico, senza un Tavor, una pillola per dormire o per trovare una parentesi alla disperazione. Stringe la croce: «Io prego, mi affido alla Madonna. A mia figlia avevo regalato la Madonnina miracolosa che teneva al collo quando l’hanno ammazzata. Anche lei credeva, soprattutto negli angeli». E nelle fate. Accanto all’albero di Natale con le luci rosa, alle foto e alle candele, nella cameretta di via Saluzzo a Roma, zona piazza dell’Alberone, c’è un cartello inequivocabile: «Fate piano, qui vive una fata». Fatina Pamela si è addentrata nella favola, il 29 gennaio di due anni fa, ma ha incontrato il lupo cattivo. Anzi, un branco di lupi. I primi due, il tassista e un altro uomo di mezza età che le hanno dato un passaggio da Corridonia a Macerata, hanno approfittato del suo corpo lungo il percorso. Era confusa, sicuramente non nel pieno delle sue facoltà mentali, ma in questo caso la giustizia non ha chiesto conti da pagare. L’ultimo lupo, Innocent, l’ha braccata fino a farne un mucchietto di organi da buttare. «Quando ho dato alla luce lei, la mia unica figlia» dice Alessandra «stavo per morire e sono andata di là. Ho visto tutto, quello che dicono è vero: c’era una grande luce bianca che dava gioia. In fondo a una fila di persone vestite di nero, io aspettavo con il camice del parto. Ma sono tornata indietro...». E appena Pamela è stata in grado di capire, glielo ha raccontato. Ora che è Natale, Alessandra, oltre all’albero in cameretta, ne ha fatto uno al cimitero del Verano, con la renna di peluche che porta le candele. E sulla tomba c’è la foto scattata a Pamela il 25 dicembre di due anni fa, quando erano tutti a Macerata: lei, mamma e papà (da cui Alessandra è separata) alla Pars di Corridonia, comunità terapeutica vicina agli insegnamenti di don Giussani. «Quel giorno stava bene, ma quando siamo ripartiti ha cominciato a vomitare e ci hanno chiamato». Insomma, tutto è precipitato. La mamma pensa «a ritroso». Perché il calvario, per lei e sua figlia, è iniziato prima, con la via crucis dal Cto del San Giovanni di Roma, in psichiatria, alle cliniche private indicate dal Sert fino a Corridonia, l’ultima «casa». Un percorso fatto di fughe, crisi, con assistenti sociali e psicologi che frettolosi entravano e uscivano dalla scena. Negli occhi di Alessandra si legge: mi hanno lasciata sola con una cosa più grande di me. Ma non era che l’inizio. Questo è il secondo Natale senza Pamela, che ha curiosamente conservato su una mensola della cameretta, in un vasetto di vetro, quel che resta del proprio cordone ombelicale. «L’anno scorso ho passato la vigilia a camminare da sola fino a piazza del Popolo, quest’anno ricamminerò da sola». Il dolore di una mamma è sempre uguale, non cambia: «Un pensiero fisso, quando faccio i capelli alle signore sento le canzoni che le colleghe hanno messo per me in una compilation… Elisa, Fabrizio Moro, e vado avanti». Dal salotto un po’ buio, con un enorme presepe che copre quasi una parete, torniamo in cameretta. «L’ho fatta riverniciare mentre lei stava in comunità, volevo farle una sorpresa per quando sarebbe tornata per le sue prime votazioni. È arrivata dentro la bara». Accarezzandola con le parole perché non poteva farlo quel giorno, Alessandra rivede la sua Pamela all’obitorio. «Il necroforo ci disse di non toccarla, altrimenti si sarebbe sfaldata». Mettere il vestito al cadavere era stato molto complicato. «Hanno cercato di ricomporre l’incomponibile, da fuori si vedevano poche cose, molti pezzi erano sotto, dentro la bara, nascosti dagli indumenti» racconta Marco Valerio, fratello di Alessandra, lo zio-avvocato impegnato da due anni nella battaglia legale più difficile e dolorosa della sua vita. Ha in mano il fascicolo processuale con le foto dei trolley così come li hanno trovati. Soffermarsi un attimo su quelle pagine è come guardare il male assoluto. La testa decapitata, i capelli biondi strappati e messi di fianco, la pelle tolta dal tronco e ripiegata come un vestito, di lato. E poi gli arti scuoiati, le ossa tagliate. Intatto solo il viso di Pamela, ma anche le mani e i piedi con le unghie rosa ben curate, come le aveva insegnato la mamma. «C’era il vescovo Nazzareno Marconi quel giorno all’obitorio» riprende Alessandra. «Fece una preghiera veloce e mi disse: lei deve dimenticare in silenzio. Non so perché me lo abbia chiesto, forse la morte di mia figlia stava facendo troppo rumore». Alessandra stringe la croce. Ha un piccolo brillantino sul naso, due rughe profonde ai lati della bocca, i capelli platino. Al collo, oltre alla croce, un cuore d’argento con dentro due fotine della figlia. Difficile sfuggire a quegli occhi, lei non li abbassa mai. Perché non piangi, come fai a sopravvivere, dimmi chi ti ha dimenticato, vorrei chiederle. E si intuisce che la lista è lunga. La rete di protezione, purtroppo, non ha funzionato. «Anche il Papa» comincia «avrebbe potuto dire una parola, ricordare Pamela in qualche modo, ma...». Ma non è stato solo il Santo padre, a tre chilometri in linea d’aria da dove siamo ora, a farla sentire, se fosse possibile, ancora più sola. «Durante il processo, un testimone, compagno di cella di Oseghale, ha raccontato che la Caritas portava in carcere cibo e vestiti per lui, l’assassino di mia figlia. La Caritas con me non si è fatta mai viva, neanche con una telefonata». Che Oseghale fosse vicino alla Chiesa era noto. «In uno dei suoi interrogatori» spiega l’avvocato Verni «è lui stesso a rivelare che qualche affitto glielo aveva pagato la parrocchia. Erano 450 euro al mese, non pochi per un’abitazione a Macerata, e non credo che fosse ignota la sua attività di spacciatore. Se fosse vero, e se la casa fosse quella di via Spalato, un parroco coscienzioso avrebbe dovuto ammonirlo: ti sei preso un posto nel centro residenziale, trovatene un altro meno pretenzioso. E soprattutto, cercati un lavoro lecito». «Partecipava ai gruppi di preghiera e nella stanza dove ha ucciso mia figlia c’erano santini e candele» racconta la mamma. Eppure, come tutti sanno, Oseghale non doveva essere a Macerata e neppure in Italia. Era stato condannato per spaccio nel giugno 2017. «Sentenza paradossale» commenta lo zio-avvocato: «Al giudizio abbreviato il pm chiede 2 anni e 8 mesi, il giudice condanna Oseghale a 4 mesi e sospende la pena convinto dell’effetto dissuasivo a compiere altri reati. Tre righe dopo, sempre il giudice scrive che, riconosciuta la pericolosità sociale del soggetto, se ne dispone l’espulsione immediata dallo Stato italiano appena espiata la condanna». E poi? «Poi la condanna si intreccia con i ricorsi fatti da Oseghale contro il rigetto dell’istanza di protezione internazionale. Commissione territoriale, Tribunale e Corte d’appello. Poteva ricorrere in Cassazione, ma non l’ha fatto e la sentenza è passata in giudicato. Il giorno dopo il suo arresto per l’omicidio di Pamela, cioè il primo febbraio 2018, la questura chiede proprio alla Corte d’appello di trasmettere con urgenza la sentenza che dopo diversi mesi, evidentemente, non era stata inoltrata a chi di dovere». Insomma Oseghale, tra uno spaccio e una preghiera, è rimasto qui. Mamma Alessandra adesso mi chiede perché. Di chi è la colpa, chi ha mosso le fila dell’inganno, quale business può mai mettere in pericolo la vita di chi accoglie uno straniero. In Corte d’assise, ha incrociato il volto dell’imputato. O meglio, gli ha puntato addosso i suoi occhi grigi, come armi pronte a fare fuoco, ma lui ha abbassato lo sguardo. Quali parole le sono rimaste dentro? «Preferisco dirgliele direttamente un giorno, senza intermediari. A lui e a quegli altri, perché non era solo, e io lo so. Hanno fatto ricadere tutto su un’unica persona per non fare uscire il marcio che c’è dietro e ora l’isolamento lo protegge. In una cella comune lo sgozzerebbero». Rabbia, pena, disprezzo, che cosa si può provare per un uomo così? Gli occhi si accendono: «Tu che cosa senti per il diavolo?». Di certo quel giorno, quando ha provato a parlargli, in aula l’hanno subito zittita. Ma c’è tempo, la strada è lunga, anche se meno affollata. All’inizio tutti intorno: il capo della Lega Matteo Salvini ha ascoltato la sua storia, guardato le foto di Pamela. Altrettanto ha fatto Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che l’ha portata con sé a Porta a Porta. La sindaca grillina Virginia Raggi ha liberato un loculo al cimitero, il sindaco Pd di Macerata, Romano Carancini, le ha espresso tutta la sua vicinanza. «Ma poi è sparito» racconta Alessandra. «Quando c’è stata la fiaccolata, il 6 febbraio dell’anno scorso, non si è presentato e mi ha chiamato per dire: cerchi di capire, ci sono le elezioni…». E ancora, Paolo Diop (responsabile immigrazione per Fratelli d’Italia, ndr) è andato a scusarsi con la famiglia, «ma la comunità nigeriana non ha neppure tentato di costituirsi parte civile». Destra, sinistra, bianchi, neri. «La storia di mia figlia non ha colore, io stessa non l’ho mai educata alla diversità, noi non siamo contro l’accoglienza, ma chi spaccia rovina anche i figli di chi difende i clandestini ». Però, a parte qualche parroco romano e qualche politico, la solidarietà si è consumata col passare dei giorni. Alessandra, leggings neri e stivaletti di pelo, corre a prendere la lettera che il 5 luglio 2018 gli mandò il Comune di Macerata. Legge con foga: «Gentilissima signora Verni…». Firmato: il presidente del consiglio comunale Luciano Pantanetti. Le chiedevano se si poteva mettere una targa in ricordo di Pamela nel giardino davanti alla palazzina dell’orrore, in via Spalato 124, se lei avesse qualcosa in contrario. «Io sono stata contenta e ho risposto subito, ma poi non ho saputo più nulla». Nessuna targa, vicino alla casa di Oseghale c’è solo un albero con foto, fiori e palloncini che Alessandra cura con l’aiuto di alcuni maceratesi di buon cuore. Ha saputo, però, che qualcun altro avrebbe voluto rimuovere l’albero, e già che c’era anche il ricordo. «C’è chi spinge per dimenticare in fretta, chi pensa che quello di Pamela sia un brutto marchio per la città. E dire che a Casette Verdini, la Pro loco ha fatto mettere una stele nel punto in cui hanno ritrovato i trolley. Anche quella volta, il vescovo non fu gentile. Disse un Padrenostro e non aspettò neppure che venisse scoperta la lapide. Ci ha fatto sapere che doveva fare altre celebrazioni. Noi arrivavamo da Roma ed eravamo in ritardo esattamente di tre minuti». Lo zio-avvocato è sempre vicino ad Alessandra e ai suoi mille dubbi. Perché non hanno sentito tutti i condomini? Perché nella tana del lupo hanno lasciato una scatola di Pamela con dentro i suoi prodotti di bellezza? Non potevano rilevare le impronte di chi sicuramente aveva spostato quella scatola? Perché non hanno messo una microspia nella cella di Oseghale? Perché un carabiniere ci ha consigliato di non denunciare la comunità e poi, al processo, ha abbracciato lo psichiatra della Pars? Gli occhi di una madre vedono oltre, ma possono vedere anche quello che non c’è. E l’ombra della mafia nigeriana si insinua in tanti tasselli mancanti di questa storia spezzata, proprio come il corpo di Pamela. «Ci siamo concentrati sul processo penale e non sulla comunità» spiega l’avvocato. «Mi auguravo che il procuratore aprisse un’inchiesta d’ufficio nel momento in cui il tossicologo, analizzando i capelli di Pamela, rilevava un uso pregresso di stupefacenti, addirittura nei due mesi prima della morte, e lei era già lì. O quando, più volte, abbiamo spiegato la grave patologia psichiatrica da cui era affetta mia nipote. Ma noi andremo avanti...». Alessandra apre il libro nero dei suoi pensieri. Racconta che in quella comunità ci sono stati alcuni tentati suicidi, uno dei quali sventato dalla stessa Pamela, che ha soccorso nella doccia una coetanea con le vene tagliate. Parla del ragazzo morto per overdose in una struttura vicina, sempre della Pars, e anche degli ospiti che, una volta terminato il percorso di recupero, diventano «controllori» senza essere in grado, in qualche caso, di controllare se stessi. Nella sua testa ci sono tanti buchi neri: le telecamere spente quando Pamela si allontanava dalla comunità, l’adulto che le stava troppo addosso durante il recupero. «Fratelli d’Italia e Lega hanno fatto un’interrogazione regionale per chiedere se la Pars fosse stata oggetto di ispezioni e accertamenti, visto che percepisce fondi pubblici. Ma non c’è stata ancora risposta». Bisogna capire bene, capire ancora, ripete Alessandra. E ti viene voglia di abbracciarla. Sembra uno scricciolo lasciato fuori mentre nevica, e invece è una forza della natura. Ha perso tutto, anche il sostegno di quelli che prima le avevano promesso eterno affetto. E si chiede, come tutte le madri, che cosa ci sia di sbagliato in lei, quali errori abbia commesso. «Mi rimprovero ogni cosa, di averla fatta andare là anche se non dipendeva da noi, di non averla legata a me e al letto, come si faceva una volta, per combattere insieme contro la droga e i suoi demoni». Ma lei c’è ancora e, da sola, le dà la forza della luce bianca: «Mamma, non pensare al corpo...».
Pietro Senaldi: se gli stupratori sono di destra vanno sul giornale, se sono immigrati vanno a casa. Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da Libero Quotidiano. Ieri una brutta vicenda di cronaca si è guadagnata l'apertura di molti autorevoli quotidiani. Altri l'hanno messa con grande evidenza in prima pagina. Noi di Libero, e pochi altri, non l'abbiamo fatto. Si tratta dello stupro di una donna da parte di due militanti ventenni di CasaPound, uno dei quali consigliere comunale in un paese del Viterbese. L'aggressione è stata lunga ed efferata e i due scemi, che sono stati immediatamente espulsi dal partito neofascista, l'hanno pure ripresa con il telefonino. In Italia ci sono circa 11 denunce di violenza al giorno e si calcola che più di seicentomila donne le abbiano subite; altrettante sono le vittime di tentato stupro. Numeri impressionanti, ciononostante siamo quasi un Paese modello in Occidente. La Svezia, la Norvegia, la Finlandia, nazioni che non perdono occasione per darci lezione su come si trattano le signore registrano 7-8 volte i nostri stupri in rapporto alla popolazione. Pure Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sono molto peggio di noi. Malgrado nel campo siamo una nazione più virtuosa di altre che si ritengono più civili, progressiste e democratiche, è palese che, se i giornali dessero conto di tutte le violenze commesse sulle donne in Italia, non si occuperebbero che di quello. Pertanto viene operata una scelta. È stata data grande enfasi allo stupro di due studentesse americane avvenuto un anno e mezzo fa a Firenze a opera di due carabinieri in quanto le donne erano state abusate da chi avrebbe dovuto proteggerle e poiché è un episodio più che eccezionale per l' Arma, contro la quale si scagliarono impietosamente sinistra e femministe. Per rimettere le cose a posto noi titolammo «Non bastano due pecore nere per fare neri i carabinieri», ma in tv, a L' Agorà, vi fu chi mi accusò di razzismo per questo. Leggi anche: Giancarlo Giorgetti: "Matteo Salvini e l'editore di Casapound? Non mi sembra faccia propaganda nazista" Altra vicenda assurta agli onori delle cronache fu lo stupro di una turista polacca, sorpresa in spiaggia con il fidanzato, da parte di una banda di giovanissimi extracomunitari, alcuni dei quali minorenni. Pubblicammo i verbali dei carabinieri, crudi, e ci beccammo una censura dall' Ordine, benché non avessimo fatto il nome della donna né ella fosse altrimenti identificabile. Forse a qualcuno è spiaciuto che indugiassimo sulle gesta degli stupratori d' importazione. Abbiamo dato meno spazio alla storia di Viterbo perché ci è sembrata, nella sua drammaticità, più ordinaria: due ragazzi rimorchiano una signora, la portano, consenziente, in un loro luogo, e se ne approfittano. Non sono stati i soli. Sul corpo martoriato della donna sono saltati in gruppo parecchi esponenti politici della sinistra, approfittandone per chiedere la chiusura di CasaPound e per criticare Matteo Salvini, giudicato «troppo morbido verso questa organizzazione che si basa sulla xenofobia e sulla sopraffazione». Sono gli stessi che quando lo stupratore è un immigrato, la qual cosa capita in proporzione con una frequenza superiore di circa 8-10 volte, si voltano dall' altra parte o se la prendono con la mancata integrazione, come accaduto nel caso di Pamela Mastropietro, violentata e fatta a pezzi da due spacciatori pregiudicati transitati per i centri d' accoglienza. O che si sono guardati bene dal chiedere la chiusura del Pd quando è stato condannato a 14 anni di carcere per tre violenze il responsabile dei Dem nel quartiere romano del Torrino. Per noi lo stupro non è di destra né di sinistra, è solo un reato al quale ci accostiamo con laico sdegno. Per chi ci fa politica sopra, onorevoli o giornali che siano, non è così. Se il violentatore è di destra, va in prima pagina, con tanto di particolari scabrosi in evidenza, se è un immigrato, a meno che non agisca di machete, non si riporta la notizia, in modo che possa andare a casa indisturbato. Ovviamente anche il governo ha concionato sulla vicenda di Viterbo, troppo ghiotta per non essere riciclata mediaticamente. Ma anche qui Lega e Cinquestelle, pur nell' unanime condanna, sono riusciti a litigare. Salvini ha chiesto carcere e castrazione chimica, anche se questa in Italia non c' è e, se ci tiene, più che invocarla dovrebbe introdurla. Di Maio ha detto che non se ne parla, ma ha mandato avanti una donna, la ministra Trenta, che mentre apriva ai corridoi umanitari dalla Libia forieri di centinaia di potenziali stupratori, accusava Salvini di sfruttare la paura delle donne a fini elettorali, come se i violentatori per agire avessero bisogno dell'incoraggiamento del ministro dell' Interno. Strani soggetti questi grillini, garantisti con gli stupratori inchiodati da filmati ma giustizialisti con il sottosegretario e alleato Siri. Ne hanno chiesto ripetutamente la testa perché indagato solo sulla base di una intercettazione nella quale una persona in affari con un individuo sospettato di avere relazioni con la mafia accenna, senza nominarlo, a un proposta di legge, bocciata, che il politico leghista avrebbe avanzato per favorirla in cambio di denaro del quale non c' è traccia. Pietro Senaldi
Filippo Facci 3 Maggio 2019 su Libero Quotidiano, brutale verità: in piazza per le donne solo se gli stupratori sono di CasaPound. Oltre 2300 stupri annui in Italia (probabilmente di più, perché molti non vengono denunciati) ma per fare una manifestazione contro gli stupri prendono spunto da quello ormai acclarato (ci sono i video) fatto da un consigliere comunale del noto comune di Vallerano (2600 abitanti, provincia di Viterbo) e da un suo amico. Come mai? È proprio un mistero. Non si capisce, e non ci sono indizi per capirlo: sappiamo che lo stupro in questione fa schifo come altri e sappiamo che uno dei due accusati era stato eletto consigliere per CasaPound e che l' altro ne era militante, per quanto, ora, espulsi dal partito. Fortuna che abbiamo la palla di vetro e nostro nonno era Nostradamus, ergo già sappiamo come andrà a finire la manifestazione: slogan contro CasaPound, proposta di mettere fuorilegge il partito (come il Msi negli anni Settanta), slogan contro il fascismo, slogan contro Matteo Salvini, slogan generici nella speranza che succeda qualche casino e sabato sera ci sia qualcosa da raccontare, insomma, confidiamo in un bel temporale. Tocca pure sorbirsi l' ipocrisia spettacolare degli organizzatori, la «Rete degli Studenti Medi di Viterbo», secondo i quali occorre «fermarsi a riflettere e sensibilizzare la cittadinanza per reagire a quello che è accaduto», e questo contro «ogni forma di violenza, non solo quella di genere». Ma certo, ecco una gran voglia, d' un tratto, di opporsi a ogni forma di violenza: anche quella negli stadi, quella nel Burkina Faso, quella dei cervi in amore, di passaggio quella di due trascurabili (loro, non il reato) deficienti di destra che hanno violentato un' altra di destra, questo in un Paese dove, per essere di destra, basta non essere di sinistra.
Studenti medi - E allora, sabato alle 17, tutti in piazza della Rocca per una manifestazione antiviolenza dove non di rado s' infilano inbucati che finiscono solo per provocarla, la violenza: salvo incolpare la polizia fascista. E attenzione, perché i geni della «Rete degli studenti Medi» hanno raggiunto l' Everest dell' ipocrisia dicendo pure che il corteo è contro «la violenza come strumento politico, cosa che in passato abbiamo denunciato rispetto a CasaPound». Ah, ma allora lo dicono. Nominano direttamente CasaPound: non fanno neanche finta. Ma non serviva: le posizioni degli «studenti medi» di Viterbo erano già note a tutti gli italiani. Quelli medi, almeno. Ma gli studenti medi (chissà quelli inferiori) vorrebbero salire oltre l' Everest: perché aggiungono che «la manifestazione non vuole essere divisiva» (e chi mai può averlo pensato?) giacché «sarà una manifestazione contro la violenza, non contro CasaPound», dice il presunto leader di questi studenti medi, che non nominiamo per preservarlo da un sicuro Tso per schizofrenia. Anche perché poi aggiunge: «I vertici nazionali di CasaPound si sono dissociati e hanno condannato il gesto», ma «i vertici locali non si può dire che si siano dissociati». È vero, non si sono dissociati. Probabilmente neanche la loro madre si è dissociata, e neanche il loro avvocato.
Il comune - La vera notizia comunque è che l' Everest è piuttosto affollato, quest' anno. In vetta all' ipocrisia ecco giungere infatti anche il Comune di Vallerano (Viterbo) che parteciperà alla manifestazione per la stessa ragione che 9 volte su 10 fa partecipare i piccoli comuni a questo genere di manifestazioni: perché, tra due imbarazzi, non partecipare li avrebbe messi in quello peggiore. Notare che l' accusato Francesco Chiricozzi, consigliere comunale, non si è ancora dimesso dalla carica: formalmente è ancora un amministratore locale, quindi a manifestare contro di lui, in un certo senso, ci sarà anche lui. Ma non solo. «Stupro di Viterbo e CasaPound: Salvini condanna ma l' ideologia è la stessa»: il titolo molto intelligente è dei premi Nobel di «Articolo 21». Il clima è questo. Lo stesso dove ancora si spara la balla delle cifre: «Gli stupratori migranti sono in realtà il 15,1 per cento degli autori di violenza maschile sulle donne in Italia, dove 9 donne su 10 vengono uccise da italiani». Ragionamenti degni di una qualsiasi Michela Murgia. Anche perché per numeri assoluti gli italiani saranno pure al primo posto, ma per ogni stupro italiano, per dire, se ne contano 11 marocchini, oppure cinque romeni, oppure 25 nigeriani. Siamo certi che la manifestazione di sabato ne terrà debitamente conto. Filippo Facci
Violentata e offesa: poi quel processo in Tv cambiò gli italiani. Giulia Merlo il 30 Aprile 2019 su Il Dubbio. Quarant'anni fa la rai raccontò la storia di Fiorella, abusata da 4 uomini. L’avvocata Lagostena Bassi tuonò: «non vi chiediamo una condanna esemplare, non c’interessa. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa». Nei processi per stupro la vittima si trasforma in imputata, perché una donna onesta non può subire violenza sessuale. Era la morale comune in Italia, nel 1978, e lo stesso valeva anche in tutto il resto del mondo occidentale: a testimoniarlo, le donne riunite alla Casa delle donne di Roma, dove si svolgeva il convegno internazionale “Violenza contro le donne”. Emerse con forza il fatto che una donna, se chiamava davanti a un giudice colui o coloro che le avevano usato violenza sessuale, diventava lei stessa oggetto del processo con domande sulla sua vita personale, sulla sua sfera intima, sui suoi comportamenti e sulla sua rettitudine morale. Una realtà, questa, nascosta dietro le porte chiuse dei tribunali e tra le carte dei processi, ma scritta sulla pelle delle vittime. A rompere il silenzio, il 26 aprile 1979, fu un documentario trasmesso in seconda serata su Rai 2: “Processo per stupro”. Prodotto da sei giovani donne registe e programmiste della Rai, la pellicola dura 63 minuti e riprende lo svolgimento in tutte le sue parti di un processo per stupro, svoltosi nel 1978 presso il tribunale di Latina. Gli imputati sono quattro uomini sulla quarantina, la parte lesa una ragazza di 18 anni di nome Fiorella, che conosceva uno di loro e che li denuncia per violenza carnale di gruppo. Come lei stessa racconterà, Fiorella era una lavoratrice in nero in cerca di un impiego. Per questo, aveva accettato l’invito dell’imputato che lei conosceva, Rocco Vallone, in una villa di Nettuno per discutere la possibilità di venire assunta come segretaria presso una ditta. Invece, in quella villa venne sequestrata e violentata per un intero pomeriggio da Vallone e da altri tre. La ragazza li denunciò e, al momento dell’arresto, gli imputati ammisero i fatti per poi ritrattarli interamente durante l’interrogatorio. Durante l’istruttoria, invece, dichiararono che il rapporto sessuale era effettivamente avvenuto, ma dietro il compenso di 200 mila lire, che non era stato poi pagato perché i quattro non erano rimasti soddisfatti dalla prestazione. Si apre così, “Processo per stupro”: parlando di soldi. I tre imputati ( uno si era reso latitante), infatti, depositarono in aula due milioni di lire, attraverso gli avvocati difensori, con l’intento di risarcire il danno. Fiorella, che aveva chiesto una lira come risarcimento simbolico, non li accettò. Come era stato detto nel convegno femminista di un anno prima, davanti alle telecamere della Rai andò in scena non un processo contro gli imputati, ma un interrogatorio contro la vittima. Lentamente ma in modo sempre più chiaro di domanda in domanda, emerse la linea difensiva: una donna per bene non poteva essere violentata, se ci fosse stata una violenza avrebbero dovuto esserci dei segni mentre Fiorella non presentava lividi da percosse, dunque voleva dire che era consenziente. E, in ogni caso, se violenza era stata, a provocarla era stato l’atteggiamento sconveniente da parte della ragazza. Sul ban- co dei testimoni, furono chiamati a sfilare amici e conoscenti degli imputati, i quali dichiararono che Fiorella, anche se era fidanzata, si intratteneva liberamente al bar con altri uomini. Alla madre della vittima, venne chiesto come mai aveva permesso alla figlia di andare ad un appuntamento con un uomo che non le aveva presentato. A Fiorella, gli avvocati difensori chiesero di ripercorrere in dettaglio la violenza e si soffermarono in particolare sulla domanda “se c’era stata fellatio cum eiaculatione in ore”, chiedendo dettagli specifici sulle modalità. In un’ora di documentario, l’Italia del 1979 assistette al processo non contro gli imputati di una violenza sessuale di gruppo, ma contro la donna. A dirlo, fu la stessa avvocata che difendeva Fiorella. Tina Lagostena Bassi, nella sua arringa, esordì parlando al giudice: «Credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo. Per donne intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa». Lagostena Bassi puntò il dito contro un modo di condurre i processi per violenza sessuale, raccontando come «questo è l’ennesimo processo che io faccio, ed è come al solito la solita difesa che io sento. Io mi auguro di avere la forza di sentirli. Non sempre ce l’ho, lo confesso, la forza di sentirli, e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati— e qui parlo come avvocato— si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale». Poi, spiega che cosa intende: «Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori «Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!» ”. Questo, invece, è esattamente ciò che è successo nel processo in cui Fiorella è la parte lesa: “Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza”. E poi l’amara conclusione: “Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia”. Il processo di Latina diede ragione a Lagostena Bassi: gli avvocati difensori degli imputati, nelle loro arringhe difensive spiegarono che bisognava guardare i fatti: «Una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza. Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi. È lei che prende, è lei che è parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!”, disse l’avvocato Giorgio Zeppieri. Ancora, «Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo”, accusò l’avvocato Angelo Palmieri: “Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?» Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato”. La conclusione, dunque, è una sola: “Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente». Il documentario termina con la sentenza: tre imputati condannati a un anno e otto mesi di reclusione, il quarto a due anni e quattro mesi. Tutti beneficiarono della libertà condizionale e il risarcimento del danno venne calcolato in due milioni di lire. Le stesse che avevano offerto gli imputati. Con “Processo per stupro”, però, si squarciò il velo di omertà sul pregiudizio sociale che accompagnava ogni processo per violenza sessuale. Il documentario venne visto da 3 milioni di persone e la Rai venne riempita di richieste di replica. Alla seconda messa in onda, nell’ottobre dello stesso anno e in prima serata, lo guardarono 9 milioni di spettatori. Più lenta ad adeguarsi fu la legislazione: solo nel 1981 il codice penale venne modificato, abrogando l’articolo 544 che ammetteva il “matrimonio riparatore”, che permetteva di estinguere il reato di violenza carnale, anche su minorenne, attraverso il matrimonio con la persona offesa. Addirittura, l’ordinamento italiano attese fino al 1996 per restituire alle donne vittime di violenza il titolo di persone. Fino a quell’anno, infatti, il reato di violenza sessuale era rubricato nel Codice Rocco nella sezione dei “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” e non in quella dei crimini contro la persona. In sostanza, fino alla fine degli anni Novanta, a stretta lettura di codice, lo stupro non era considerato una lesione contro la donna, ma contro la pubblica morale. La stessa, che nel 1979 riteneva che solo donne di facili costumi potessero subire violenza.
Quegli uomini che odiano le donne forse si possono recuperare. Damiano Aliprandi il 30 Aprile 2019 su Il Dubbio. Pronti i finanziamenti regionali per le associazioni e i centri antiviolenza. In Italia sono nati dei centri di ascolto che tentano di contrastare il fenomeno della violenza partendo dalla riabilitazione dei colpevoli. Recuperare gli uomini che maltrattano le donne si può. Dopo essere stato avviato in via sperimentale, il progetto della Regione Piemonte per cercare di riabilitare gli autori di violenza contro le donne diventa strutturale: entro il 31 maggio gli enti locali, le organizzazioni titolari dei Centri antiviolenza iscritti all’apposito albo regionale, tutti coloro che sono impegnati nella promozione e realizzazione di interventi e attività a favore degli autori della violenza potranno presentare domanda per accedere a finanziamenti che ammontano complessivamente a 100.000 euro. L’assessora regionale ai Diritti sostiene che si intende rendere questi uomini non più un pericolo per le donne che hanno maltrattato, dato che quando escono dal carcere vanno spesso a cercare di nuovo le proprie vittime, diventano stalker, minacciano o si accaniscono verso di loro nei modi più violenti. Fino ad oggi le associazioni specializzate in questo tipo di interventi hanno preso in carico 280 uomini con l’obiettivo di restituire alla società persone non più pericolose ma in grado di gestire la loro aggressività. Alcuni esempi: 60 detenuti nel carcere di Torino, 45 in quello di Vercelli e 15 in quello di Biella con condanna definitiva a sfondo sessuale beneficiano di un programma specifico; le otto associazioni che si sono occupate di portare avanti questo lavoro fuori dal penitenziario (Cerchio degli uomini, Consorzio socio- assistenziale cuneese, Spam- Paviol, Consorzio socio- assistenziale Ossola, Medea, Gruppo Abele, Elios Coop e Punto a capo) hanno in carico 162 persone. Di queste, sette su dieci sono italiane e in sette casi su dieci si tratta di mariti o conviventi delle vittime.
I numeri. Secondo gli ultimi dati Istat Il 31,5% delle 16- 70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855 mila) da partner attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex partner. La maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%). In particolare, per il 41,7% è stata la causa principale per interrompere la relazione, per il 26,8% è stato un elemento importante della decisione. Il 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di uomini non partner: il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute. In particolare, il 6,3% da conoscenti, il 3% da amici, il 2,6% da parenti e il 2,5% da colleghi di lavoro. Le donne subiscono minacce (12,3%), sono spintonate o strattonate (11,5%), sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%). Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%). Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex. Gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali (76,8% fra tutte le violenze commesse da sconosciuti). Sempre secondo l’Istat Le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%) e ucraine (33,2%) subiscono più violenze. Le donne straniere, contrariamente alle italiane, subiscono soprattutto violenze (fisiche o sessuali) da partner o ex partner (20,4% contro 12,9%) e meno da altri uomini (18,2% contro 25,3%). Le donne straniere che hanno subìto violenze da un ex partner sono il 27,9%, ma per il 46,6% di queste, la relazione è finita prima dell’arrivo in Italia.
Non solo prigione, ma recupero. Gli uomini che odiano le donne, però, si possono e si devono recuperare, per questo in Italia sono nati dei centri di ascolto che tentano di contrastare il fenomeno della violenza sulle donne partendo dalla riabilitazione dei colpevoli, offrendo loro una serie di colloqui individuali e, in seguito, la partecipazione a gruppi di confronto, condotti da operatori sanitari. Il primo centro di ascolto degli uomini matrattanti (Cam) nasce a Firenze nel 2009 ed è appunto il primo centro italiano ad occuparsi della presa in carico di uomini autori di violenza nelle relazioni affettive attraverso percorsi volti all’assunzione di responsabilità del comportamento agito al fine di garantire maggiore sicurezza a donne e bambini. Lavora in stretta collaborazione con Servizi/ Enti/ Istituzioni territoriali. Fa parte della rete nazionale Relive (Relazioni Libere dalle violenze) e della rete europea Wwp En (Work With Perpetrators) dei programmi per autori. La tipologia di uomini che arrivano nei contesti Cam volontariamente hanno un livello culturale e sociale molto vario. Nel contesto carcerario, invece, sono molti di più gli uomini che hanno un livello sociale e culturale basso e che hanno scarsa dimestichezza con il loro mondo emotivo. La rabbia, ad esempio, è presente nelle interazioni non sempre in modo sentito e gestibile, più spesso in modo esplosivo o, al contrario, represso, non sempre gli uomini sono in grado di riconoscerla o di vedere oltre quell’emozione. Quasi tutti i detenuti contestano, se non in toto almeno in buona parte, la condanna ricevuta negando, minimizzando, non riconoscendo il reato. Anche quando ammettono di aver fatto qualcosa, la condanna è vissuta come sproporzionata, esagerata e si sentono delle vittime. Il senso di ingiustizia legato a quanto stanno scontando è difficile da abbassare. La vittima del loro comportamento, ai loro occhi, è rimasta impunita, c’è la convinzione che abbia contribuito attivamente a che si creasse la situazione in cui si è consumato il reato. Questo senso di ingiustizia viene rinforzato dalla condizione carceraria. Dentro il carcere, uomini e donne vivono delle situazioni di privazione e limiti che li vittimizza con il risultato che l’essere realmente vittima ostacola il considerarsi autore. Un carcere impone, per sua natura, dei limiti e delle privazioni, rispetto alla libertà personale, ma spesso si verificano livelli di coercizione, di violenza, di burocrazia che niente hanno a che fare con il mantenere comunque sempre prioritario un assetto istituzionale umano e rieducativo. Per questo motivo alcuni Cam sono entrati in carcere, soprattutto quello fiorentino, creando nel limite del possibile delle sezioni di studio e di ascolto. Ma non tutte le carceri sono aperte a questo tipo di recupero, per questo la strada è ancora in salita.
Vittorino Andreoli: “Non è bullismo, è violenza. Castrazione chimica? Un’imbecillità. Qui si castra la democrazia”. Il neuropsichiatra ad HuffPost: "Credevo ci fossero i medici per curare la malattia del Paese, ora non intravedo possibilità di cura. Ho fiducia nei giovani ma siamo in pericolo. Luciana Matarese il 04/05/2019 su Huffingtonpost.it.
Professore Andreoli, l’impressione che arriva dalla cronaca è che in Italia sia ormai diffuso un bullismo trasversale, tutti bullizzano tutti. Stiamo diventando un Paese di bulli?
«Non mi piacciono i termini “bulli” e “bullismo”, che dilagano pur non avendo fondamento né antropologico né scientifico. Qui non si tratta di bullismo, termine inventato dai giornalisti per riferirsi prevalentemente a comportamenti che riguardano i giovani.
Di cosa si tratta, allora?
«Di violenza, caratteristica umana, biologica, che non essendoci più freni inibitori e in assenza di regole, principi, esempi, diventa comportamento dominante».
Vittorino Andreoli spinge la riflessione oltre il racconto che ci arriva dalla cronaca. Per il celebre neuropsichiatra veronese, 79 anni, tra i più autorevoli esponenti della psichiatria mondiale, membro della New York Academy of Sciences e autore di saggi, romanzi e raccolte di poesie, lo stupro di Viterbo, il pestaggio a morte dell’anziano di Manduria, ma anche l’aggressione della mamma di Lodi alla professoressa per la sospensione della figlia - per citare tre casi di cronaca negli ultimi giorni - sono l’effetto di una crisi più ampia, di una degenerazione del vivere civile che riguarda anche l’esercizio del potere. E rischia di affondare la nostra democrazia. L’analisi è spietata, il j’accuse pesantissimo.
Dilaga la violenza, dunque, professore.
«È un fatto diffuso - pensi anche alle violenze tra persone anziane - e di grosse dimensioni, che va spiegato tenendo sì presenti i comportamenti di chi compie l’atto violento specifico, ma mai dimenticando che essi sono derivati ed espressione di una grande crisi di civiltà. L’uomo che incontriamo è sempre meno razionale, sempre più pulsionale».
Che significa?
«Parlando dello sviluppo della civiltà, Giambattista Vico spiegava come via via, nel corso dei secoli, si è passati dalla barbarie alla società della ragione, chiarendo che è la parte più umana - la ragione ma pure il rispetto degli affetti - che riesce a dominare gli istinti. Senza questi freni siamo barbari. Ecco, attualmente viviamo una fase di regressione verso la barbarie. Le sembra che oggi si applichi la ragione?».
No.
«La mia era una domanda pleonastica. Questa regressione ci riporta al punto inverso del percorso di cui parlava Vico.
Da cosa dipende secondo lei?
«Mancano le regole, gli esempi. Non ci sono più le leggi, che, diceva Platone, devono servire perché ci si rispetti tutti. La legge oggi è diventata una modalità per fare quello che si vuole giustificandosi. Non valgono più regole, parole che erano a fondamento del vivere civile».
A cosa si riferisce?
«Alla coerenza, per esempio, oggi considerata un segno di scarsa capacità di adattamento alla società. Nel nostro Paese c’è chi sta esaltando il valore dell’incoerenza. Ancora, da quanto tempo non si sente più usare la parola “ladro”, che è uno che si adatta? Ormai c’è una perdita di ragione generalizzata, una prevalenza di istinti e pulsioni non più inibiti. Mi piace una donna? La pulsione da soddisfare è possederla. Mi piace un telefonino che non posso acquistare? Lo rubo. Non è un caso che per avere successo bisogna essere idioti. Per non dire del potere».
No, dica pure.
«Il potere è in mano ai cretini, la cultura è considerata inutile, il sapere non conta. Conta il potere come verbo, faccio perché posso non perché è utile. Il potere è la più grande malattia sociale che esiste. Di fronte a certe imbecillità non si può stare zitti».
Di quali imbecillità parla?
«Pensi alla stupidità di tirare fuori la castrazione chimica per stupratori e pedofili. Con questo andamento ci avviciniamo all’homo stupidus stupidus, altro che homo sapiens sapiens».
All’homo stupidus stupidus ha intitolato un suo celebre saggio. Ci siamo arrivati?
«Guardi, io non offendo nessuno, piuttosto faccio diagnosi. “Stupidus” ha la stessa radice di “stupor”, “stupore” e io sono stupito che un Paese come il nostro, con la sua illustre civiltà, si stia riducendo alla barbarie. Purtroppo lo stupido non sa cos’è l’intelligente e pensa di esserlo, mentre l’intelligente qualche volta ha il dubbio di essere stupido».
La proposta della castrazione chimica è stata rilanciata dopo i fatti di Viterbo.
«Quando si parla di castrazione chimica penso ad Alan Turing, il grande matematico britannico che riuscì a decodificare i messaggi criptati che durante il secondo conflitto mondiale si scambiavano le potenze dell’Asse, contribuendo in modo determinante alla vittoria degli Alleati. Ebbene, a guerra finita, Turing, perché omosessuale fu emarginato e incarcerato e, sottoposto a castrazione chimica, si suicidò. Solo un imbecille che non conosce la storia può riproporre una tale stupidità. Ignorando l’elemento fondamentale della questione».
Quale?
«Ciò che attrae una persona violenta o un pedofilo non è l’atto sessuale quanto il fatto di poter dominare la vittima, ricorrendo alla sopraffazione. È possibile che ci sia qualcuno convinto che la castrazione chimica eliminerà la violenza? Non è il testosterone, è la mente, è il fatto che senza la ragione, gli affetti, i principi a fare da freno, diventiamo crudeli. Il problema è tutto quello che questa regressione ci sta portando via, per cui assistiamo a spettacoli indegni: ruba chi accusava gli altri di farlo, si delegittima la magistratura, si insufflano paure».
È un atto d’accusa ai nostri politici, a quanti ci governano?
«Non so se i destinatari sono gli attuali o ci sono di mezzo anche quelli che ci hanno governato sei o otto mesi fa. Mi importa di più far capire che stiamo regredendo e molto velocemente. La conquista di civiltà non è un fatto biologico, non è che abbiamo i geni della civiltà. È un fatto che riguarda l’essere umano, la sua parte umana. E, per come stanno andando le cose, rischiamo di perdere le conquiste guadagnate con fatica nei secoli, nel giro di due generazioni».
Nel 2013 lei dichiarava “L’Italia è un malato di mente grave”. Sei anni dopo a che punto è la notte?
«La situazione è gravissima, mi creda. Penso a Camus, al medico che ne “La peste”, nonostante non abbia mezzi, non si ferma davanti al dilagare dell’epidemia, continua a curare i malati e alla fine la malattia passa. Sei anni fa credevo ci fossero i medici per curare la malattia del Paese, adesso non intravedo possibilità di cura».
Chi erano i medici che non ci sono più?
«Le regole sociali, gli esempi, l’umanesimo. Il potere è degenerato. Anche nei periodi più duri della nostra democrazia c’era chi, una volta eletto, si impegnava ad aiutare tutti gli italiani».
Oggi invece?
«È la prima volta che ci sono i partiti, ma non c’è il Governo. E chi governa dice: “Ci sono io, faccio io, questo non mi piace, lo caccio”. Magari se chi sostiene cose del genere leggesse la Costituzione capirebbe che ci sono anche delle prerogative precise del Capo dello Stato. Ancora, di fronte all’emergenza sull’educazione dei giovani, non si può rispondere dicendo: “Non è nel contratto di governo”. Qui ci stiamo giocando la democrazia».
È davvero così grave la situazione?
«Assolutamente. Gli italiani non credono più nel fondamento della democrazia, che è il voto. È inaudito che l’espressione della preferenza di una persona, come purtroppo vediamo accadere nel nostro Paese, venga addirittura monetizzata, venduta. È un segno chiaro che la democrazia è in pericolo. Anzi è in agonia. Bisogna stare attenti».
Lei quindi vede il rischio di una deriva democratica?
«Certo. La nostra democrazia non è mai stata perfetta, ma a differenza di quanto accadeva in passato, oggi non ci si sforza più di renderla compiuta. E il fascismo, un fatto storico definito, non si può neanche nominare. Qui si sta castrando la democrazia, altro che castrazione chimica».
Intanto nel Paese dilaga la paura, altro sentimento al quale lei ha dedicato anni di studi e diversi saggi.
«Oggi in Italia tra i sentimenti più diffusi non c’è la paura, che può essere anche positiva quando ci permette di percepire i rischi, quanto piuttosto la paura della paura. Ci inducono paure, frutto non di esperienza diretta ma veicolate attraverso i mezzi di comunicazione, per mostrarci di sapere risolvere determinate questioni mentre in realtà non sanno farlo».
Si riferisce ai migranti?
«Certo, ma anche all’idea che stiamo morendo tutti di fame, all’importanza del Pil, alle conseguenze che possono derivare dai vaccini. Quando manca la cultura si può dire di tutto. Ci stanno spaventando perché il potere diventa forte se spaventa. È tutto regolato dal “dito su-mi piace, dito giù-non mi piace”».
Anche lei demonizza la cultura digitale, internet e i social network?
«Il digitale è una delle più grandi scoperte della modernità, internet è uno strumento straordinario che ha consentito al sapere di fare grandi passi avanti, ma nella vita quotidiana buttarsi dentro i social - vere e proprie fughe dai sentimenti, dalle relazioni - assorbiti da video, post, commenti, rischia di far smarrire l’umanità. I figli dimenticano i padri e i padri i figli».
Nel suo ultimo libro “Il rumore delle parole”, il protagonista, un anziano che ha trovato nella rete il modo di addomesticare l’abbandono, “alla fine capisce che la cosa migliore è suonare il campanello del vicino e vedere cosa può fare per loro”. Vale solo per gli anziani?
«Vale per tutti».
La situazione è degenerata, professore. Esiste una strada per invertire la rotta?
«Ho ancora fiducia nei giovani. Ce ne sono di bravissimi, che si impegnano, animati da grande passione. Penso anche a quei bambini che diffondono messaggi positivi, speriamo non li strumentalizzino. Ma siamo in grande pericolo. Voglio credere nei giovani, ecco perché non utilizzo il termine bullismo, creato per riferirsi prevalentemente a loro. Affido le mie speranze non al potere, ma ai giovani che non ce l’hanno».
La maggioranza degli italiani vuole la castrazione chimica. Il sondaggio di Swg: "Il 58% degli italiani è favorevole all’introduzione di una legge che preveda la castrazione chimica per i pedofili e gli stupratori recidivi". Aurora Vigne, Sabato 04/05/2019 su Il Giornale. Secondo quanto emerge da un sondaggio, gli italiani sono favorevoli alla castrazione chimica. "Il 58% degli italiani è favorevole all’introduzione di una legge che preveda la castrazione chimica per i pedofili e gli stupratori recidivi". Il sondaggio di Swg, come riporta il Corriere, è stato commissionato dalla Lega. Solo "il 28% degli italiani", invece, sarebbe contrario all’introduzione del provvedimento. Mentre "il 14%" degli intervistati non sa come rispondere. Il tema della castrazione chimica è stato rilanciato in queste settimane dal vicepremier Matteo Salvini dopo lo stupro di una donna di 36 a Viterbo da parte di tre ragazzi (tra cui un esponente di Casapound). "Nessuna tolleranza per pedofili e stupratori: la galera non basta, ci vuole anche una cura. Chiamatela castrazione chimica o blocco androgenico, la sostanza è che chiederemo l'immediata discussione alla Camera della nostra proposta di legge, ferma da troppo tempo, per intervenire su questi soggetti. Chiunque essi siano, bianchi o neri, giovani o anziani, vanno puniti e curati", aveva spiegato il leader della Lega. Proprio in queste ore, Salvini ha detto che porterà avanti la battaglia per il provvedimento a costo di andare contro gli interessi del M5S. "Se anche qualcuno dei Cinque Stelle dice che la legge sulla castrazione chimica per stupratori e pedofili non gli piace, non m'importa. Nessuno deve mettere le mani su donne e bambini per il resto dei suoi giorni", ha detto il ministro dell'Interno durante uno dei comizi elettorali del suo tour in Toscana, invitando i cittadini a firmare la proposta di legge della Lega. "Da un anno siamo al governo e quelli del Pd ogni giorno mi spiegano cosa fare. Ma perchè non lo avete fatto voi?, rispondo. In un anno abbiamo approvato la legge sulla legittima difesa. Se mi capitasse di trovare qualcuno alle tre di notte mentre dormono i miei figli, non gli offro cappuccino e brioche, ma non lo faccio uscire su due piedi da casa mia".
COME FUNZIONA LA CASTRAZIONE CHIMICA? Cristiana Nadotti per “la Repubblica” il 3 maggio 2019. Partirà nel fine settimana la raccolta di firme, annunciata dal vicepremier leghista Matteo Salvini, a sostegno della proposta di legge per introdurre la castrazione chimica (oltre al carcere) per curare pedofili e stupratori. La terapia farmacologica, con cui si iniettano agli uomini ormoni per inibire il desiderio sessuale, è praticata in molti Paesi europei se chi vi sottopone è consenziente. Il trattamento è reversibile, ma gli effetti secondari non sono esclusi. In più, chi lavora da anni con condannati e imputati per violenze e stupri nutre dubbi che un farmaco, da solo, eviti recidive. Paolo Giulini, criminologo clinico del Centro italiano per la promozione della mediazione, che dal 2003 ottiene risultati eccellenti in carcere e fuori contro la reiterazione dei crimini, osserva: «Si invoca la castrazione chimica come un sovrappiù punitivo, dando soltanto una risposta emotiva allo sdegno delle persone. Per evitare che pedofili e violenti reiterino il crimine serve invece un trattamento multidisciplinare, supportato da una adeguata attività di valutazione psicodiagnostica». Giulini non esclude, nell' ambito dei progetti seguiti di poter integrare in modo sperimentale le terapie con trattamenti farmacologici. Spiega come funzionano i farmaci Vincenzo Mirone, ordinario di Urologia presso l' Università Federico II di Napoli: «Gli antiandrogeni sono farmaci che inibiscono gli ormoni sessuali maschili, usati come cura di alcuni tumori. Nei giovani possono creare danni importanti e ci possono essere effetti sulla fertilità, ma in genere la loro azione termina se viene sospesa la somministrazione». Laura Emiletti, psicologa del Cipm, sottolinea: « Quando si parla di violenza, anche quella sessuale, si parla sempre di una complessità. La cosiddetta castrazione chimica non è efficace e risolutiva poiché agisce sulla sola componente fisiologica. La maggior parte degli autori di reati sessuali non ha un problema nel controllare gli impulsi e, sempre nella maggior parte dei casi, la dimensione della sessualità non è prevalente, è solo un mezzo per mettere in atto dinamiche di controllo, potere, e prevaricazione. L' unico intervento davvero efficace nella prevenzione della recidiva è un trattamento clinico- criminologico integrato, come dimostrano da anni studi e ricerche ».
COME FUNZIONA
1 Per ridurre il desiderio sessuale nell' uomo si iniettano periodicamente ormoni (antiandrogeni) che abbassano il livello di testosterone. Sospeso il trattamento, l' effetto termina.
2 In Europa la usano tredici Paesi, con il consenso dell' interessato. Tra le nazioni che la adottano Svezia, Germania, Finlandia, Francia, e in via sperimentale, in Gran Bretagna.
DUE NONNE E DUE MISURE. Vittorio Feltri umilia Macron e Brigitte: "Il ragazzino di Prato ha ingravidato la prof, e lui...", scrive il 25 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Il ragazzino di Prato che ha ingravidato l’insegnante di inglese ancora al centro di uno scandalo , e pensare che Macron invece è diventato presidente della Francia. Due nonne e due misure". Vittorio Feltri commenta la vicenda della 35enne di Prato con la consueta ironia. La donna è indagata per violenza sessuale su un suo allievo 14enne. La docente è rimasta incinta e nei mesi scorsi è nato un bambino. Gli accertamenti della squadra mobile e della Procura di Prato sono scattati dopo la querela presentata dai genitori del ragazzo, che conosceva l'insegnante perché gli dava ripetizioni private. All'epoca dei fatti, il ragazzo aveva 13 anni. Diverso destino quello del presidente francese Emmanuel Macron e di sua moglie Brigitte. Il presidente francese l'aveva conosciuta quando lui faceva il liceo, aveva 16 anni. Lei, ne aveva 24 in più. E sono felicemente sposati.
Trento, denuncia palpeggiamenti: assolta dopo l’accusa di calunnia. Pubblicato venerdì, 29 marzo 2019 su Corriere.it. Durante una lezione di ginnastica al quinto anno delle superiori viene palpeggiata dal suo insegnante ma nessuno le crede e, alla fine, è sottoposta ad un processo per calunnia e falsa testimonianza con una richiesta di pena di 2 anni e 6 mesi, oltre al pagamento di 30mila euro di danni. Soltanto dopo sette anni, sette anni di inferno per la giovane trentina che all’epoca dei fatti studiava fuori provincia, la giustizia le dà finalmente ragione e la assolve dalle contestazioni. Un bel sospiro di sollievo quello tirato mercoledì 27 marzo dalla giovane, difesa dall’avvocato Claudio Tasin, che per anni era passata dalla posizione di vittima a quella di carnefice, una brutta sensazione per lei e per la sua famiglia, che hanno dovuto vedere la assoluzione del professore di educazione fisica. Oltre al danno anche la beffa. «Giustizia è fatta, finalmente è venuta fuori la verità», dichiara soddisfatto Tasin. Ora la giovane può proseguire nella sua vita con più serenità. I fatti risalgono al 2012. In una normale giornata di lezione, durante l’ora di ginnastica la giovane accusa un malessere e si reca nello spogliatoio. Poco dopo viene raggiunta dal suo professore, 52 anni all’epoca che, anziché aiutarla, la palpeggia al seno, come lei stessa ha poi dichiarato: «Ha spostato la mano dal collo al seno sinistro». Subito dopo, ancora scossa, la giovane denuncia l’accaduto, prima ad una compagna di classe, poi alla direzione dell’istituto. In un primo momento viene creduta, viene descritta come «provata, in lacrime», con «un atteggiamento di chiusura per quello che era successo». Parte così un provvedimento interno alla scuola e viene istituito un processo, durante il quale però non viene sostenuta da tutti i testimoni. Il professore così viene assolto e lei accusata di calunnia e falsa testimonianza. Da quel 2012 a martedì scorso, sette anni di passione, finiti con la sua assoluzione.
Violenza sulle donne: vi spiego perché sono contraria all’aumento delle pene, scrive Tiziana Maiolo il 31 Marzo 2019 su Il Dubbio. La presenza di tante donne, donne forti, in Parlamento è importante e di grande conforto non solo per tutto quanto il mondo femminile, ma anche e soprattutto per la difesa dei diritti individuali. Nessuno come un soggetto che ha subìto storica sottomissione sa specchiarsi negli occhi e nella vita distrutta di una donna che ha subìto violenza. Ma essere in così tante in Parlamento vuol dire anche saper trovare la capacità di andare oltre la protesta, e darsi e dare gli strumenti per combattere fenomeni degenerativi delle relazioni umane come lo stupro e il “femminicidio”. Sorvegliare e punire. Conoscere e deliberare. “Codice rosso”, la proposta di legge che si sta discutendo in questi giorni alla Camera dei deputati, è un segmento di un percorso che viene da lontano e che necessitava di un adeguamento ai tempi, ai mutati rapporti tra i sessi, all’ingresso turbinoso delle tecnologie e dei social, che rendono subito tutto trasparente e pubblico. Gli stupratori ormai compiono due delitti, la violenza fisica e poi la distruzione della persona con la pubblicità data alle immagini del fatto. Fino a portare la donna al suicidio, come è purtroppo accaduto. Giusto quindi deliberare ancora e ancora e ancora. Le donne lo stanno facendo. Ma la difesa dei diritti rischia troppo spesso di limitare la propria attività all’inasprimento delle pene. Il che, come la storia ci insegna ogni giorno, non ha mai fatto desistere nessuno dal ripetere lo stesso reato. Ancora e ancora e ancora. Pure le donne parlamentari non si arrendono. Ho un ricordo personale che ancora mi turba, dopo tanti anni. Quel giorno del 1996, quando da Presidente della commissione giustizia della Camera ero riuscita, grazie anche alla sapienza della mia collega e avvocato Tina Lagostena Bassi, a mettere all’ordine del giorno e infine arrivare all’approvazione della legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale in reato contro la persona e le sue libertà. Un evento storico che unì tutte le donne del Parlamento e che fu mal digerito dai nostri colleghi, che mostravano insofferenza ai nostri discorsi e addirittura al momento della votazione si defilavano uscendo alla chetichella dall’aula. Pur di portare a casa il risultato fummo costrette a ricorrere all’astuzia femminile. Presi la parola dichiarando che avremmo voluto votare subito, consegnando i nostri testi scritti e rinunciando agli interventi orali. Fu a quel punto che la subcultura maschilista toccò il suo fondo, quando una voce dagli ultimi banchi gridò, in mezzo agli sghignazzi: “Ma chi ve l’ha chiesto l’intervento orale?”. Incredibile ma vero, ancora nel 1996, in piena “seconda repubblica”. Quel che colpisce anche oggi è il fatto che siano di nuovo ( e solo) le donne a dover legiferare su una violenza quotidiana che arriva spesso all’omicidio ( femminicidio) e che mostra ogni giorno come il corpo della donna sia sempre al centro della necessità di affermazione del maschio. Si va dal barbarico “o sei mia o di nessun altro” fino al vanaglorioso “quella lì ci sta”. Se è vero che sono una minoranza gli uomini che non sanno controllarsi, è altrettanto vero che il fardello politico dell’occuparsene rimane ancora e sempre sulle spalle delle donne. Significativa la bellissima foto di ieri delle deputate di opposizione che occupavano simbolicamente i banchi del governo per la mancata approvazione dell’indispensabile norma sul “revenge porn”, lo sputtanamento in internet dell’intimità di una donna. Su quegli scranni non c’era un uomo. Timidezza? Disinteresse? O nella mente qualche frase volgare come quella del mio collega di tanti anni fa? La conseguenza di questa appartenenza quasi corporativa del tema a un solo genere ha conseguenze negative anche sul piano del legiferare. Stimolo per un attimo ancora il ricordo di quel 1996. Nessuno sa che io quella legge stavo per non votarla, pur avendola voluta con tanta forza. Il fatto è che vivevo la contraddizione di aver fatto approvare una norma che aveva dovuto bilanciare la conquista di un diritto – se mi tocchi hai violato la mia libertà, non la morale corrente – con un forte inasprimento delle pene, in alcuni casi, come nella violenza di gruppo, una lesione di alcuni diritti individuali. Non ci avevo dormito la notte. Poi ho votato una legge che non mi piaceva. Non mi piace del tutto neanche “Codice rosso” nella parte della quantificazione delle pene. E mi domando se almeno una delle parlamentari ( c’è qualche vecchia amica, come Stefania Prestigiacomo e Valentina Aprea e Jole Santelli ) che la settimana prossima voteranno la legge sappia bene che cosa vuol dire privare della libertà per 24 anni qualcuno che ha avuto comportamenti gravissimi pur senza aver ucciso o compiuto stragi. È la contraddizione di noi donne, che spesso vogliamo vendetta proprio perché, noi o le nostre sorelle di genere, ne abbiamo sopportato tante. Per tutto ciò io oggi penso che sarebbe il momento degli uomini. Le scrivano loro le leggi che puniscono i loro simili. Sono sicura che lo farebbero con maggiore distacco, quindi meglio. Perché non è giusto chiedere sempre alla vittime come si debbano punire i loro carnefici.
"IO, STUPRATA NELL'ASCENSORE. IL MIO CORPO, COSÌ SPORCO, ERA SCARTO E OGGETTO”. Da corriere.it il 30 marzo 2019. «Dopo che il corpo era diventato scarto e oggetto, ho provato una sorta di distacco da esso. Il mio corpo, sede della mia anima, così sporco». Sente di non essere creduta C., la 24enne di Portici (Napoli) che da giorni sostiene, con forza, di essere stata vittima di violenze, la sera dello scorso 5 marzo, per mano di tre giovani della vicina San Giorgio a Cremano, due dei quali scarcerati dai giudici del Tribunale del Riesame di Napoli nel giro di sei giorni l’uno dall’altro, scatenando un vespaio di polemiche. Dopo 15 giorni trascorsi in casa, nello studio del suo legale Maurizio Capozzo, la ragazza ha scritto una lettera con la quale ha inteso ricordare quei tragici momenti e manifestare apertamente i suoi sentimenti e il suo dolore: «Mi sembrava di essere avvolta dalla nebbia mentre mi trascinavo su quella panchina dopo quelli che saranno stati 7 o 8 minuti», scrive ancora la ragazza di suo pugno nella lettera. «Mi sono seduta e non l’ho avvertito più (il suo corpo, ndr). Ho cominciato ad odiarlo e poi a provare una profonda compassione per il mio essere. Compassione che ancora oggi mi accompagna, unita ad una sensazione di rabbia impotente, unita al rammarico, allo sdegno, allo sporco, al rifiuto e poi all’accettazione di un corpo che fatico a riconoscere perché calpestato nella sua purezza». Dopo tante parole di dolore affiora uno spiraglio di speranza, un pensiero rivolto al futuro: «Mi piacerebbe essere a capo di un’associazione che si occupa della prevenzione, della tutela e della salvaguardia delle donne, ragazze, bambine a rischio - scrive ancora la ragazza -, perché donare se stessi e il proprio vissuto per gli altri è l’unico modo per accettarlo». La giovane venne trovata in lacrime su una panchina della stazione della Circumvesuviana della stazione di San Giorgio a Cremano. A un ragazzo, che le si era avvicinato, disse che poco prima era stata violentata da tre giovani, nell’ascensore della stazione. I tre vennero individuati e arrestati, con l’accusa di violenza sessuale di gruppo. Decisive per identificarli le immagini della videosorveglianza. Dopo le due scarcerazioni decise dal giudice, rimane in cella il terzo giovane, 19enne. Il Riesame fisserà l’udienza all’inizio della prossima settimana.
''ORA HO PAURA DI UNA VENDETTA''. Dario Del Porto per Repubblica il 31 marzo 2019. Crede ancora nella giustizia ma teme una vendetta. I magistrati hanno scarcerato «due dei miei carnefici. Ora ho paura. Quel giorno sono caduta in una trappola. Più ancora della violenza che ho subito, mi ha fatto male quello che è successo dopo. Quando ti accorgi che non c’è giustizia, che non hai tutela, allora il dolore diventa insopportabile», dice a Repubblica la ragazza di 24 anni stuprata nell’ascensore della stazione della Circumvesuviana a San Giorgio a Cremano. Quando torna con la mente a quelle scene affiorano le lacrime. Ma si fa forza, e grida alle altre donne vittime di violenza: «Non abbiate paura di denunciare». E agli uomini che compiono abusi dice: «Fermatevi, usate la forza della ragione, non l’istinto». Tra le mani ha un libro, Cent’anni di solitudine. Non è sola, in realtà. Sono tutti intorno a lei, familiari, amici. Ma per allontanare l’orrore di quel pomeriggio si rifugia nella Macondo di Gabriel Garcia Marquez o ascolta i versi meravigliosi di Fabrizio De André che canta «il bosco era scuro, l’erba già verde, lì venne Sally con un tamburello».
Come sta?
«In ripresa. Da un paio di giorni la situazione è cambiata».
C’era qualcuno, nella stazione, che avrebbe potuto aiutarla?
«No, non c’era nessuno. Ero sola con i miei tre carnefici, in quell’ascensore. Forse però, a pensarci bene, un momento c’è stato, in cui avrebbero potuto aiutarmi...».
Quando?
«Per un istante si sono aperte le porte e uno di loro mi è venuto incontro, abbracciandomi, perché avevo i pantaloni abbassati. Ecco, se le persone si fossero soffermate un attimo a osservare la scena, forse si sarebbero rese conto che ero completamente inerme. E avrebbero potuto fare qualcosa».
Pensa che sia stato un errore denunciare?
«No. Però è un peccato che, pur essendoci tutte queste prove, non sia stato preso in considerazione quello che ho detto».
Ora i giudici hanno scarcerato due degli indagati.
«E io temo che possano vendicarsi, non si aspettavano che li avrei denunciati. Non abitiamo distanti, potrei facilmente incrociarli di nuovo».
Perché sono stati rimessi in libertà, secondo lei?
«Credo che i magistrati siano stati ingannati dal mio atteggiamento iniziale di benevolenza verso quei ragazzi. Si vede dai filmati, ma io non l’ho mai nascosto. Si sono avvicinati chiedendomi scusa per avermi seguita fino a casa giorni prima e io gli ho creduto».
Crede ancora nella giustizia, alla luce delle recenti decisioni del tribunale del Riesame?
«Sì, ci credo. Credo nel lavoro che stanno facendo i miei avvocati. E conservo la speranza, perché senza speranza è come se non ci fosse vita».
Cosa pensa di fare adesso? Come vede la sua vita negli anni a venire? Pensa che questa ferita, almeno in parte, potrà risanarsi?
«Ho il desiderio di fare qualcosa per le persone in difficoltà. Questo è il pensiero che ricorre con maggiore forza da quando è successo tutto. Aiutare donne, bambine, ragazze. Nella mia mente si sta facendo strada l’idea di costituire un’associazione per tutti i soggetti a rischio, in particolar modo per le donne».
Lei ha detto che per lasciarsi tutto alle spalle intende andare via dalla sua città. È così?
«Adesso non ci penso più. Spesso dal male si può ricavare il bene, me lo hanno insegnato i miei avvocati. Credo che, per poter promuovere un cambiamento radicale, sia preferibile lavorare su questo territorio, dove più di una volta sono rimasta vittima di violenze sessuali».
Si riferisce al primo tentativo di abusi di cui ha parlato, avvenuto tre settimane prima dell’episodio della Circumvesuviana?
«No. Già a 14 anni ero rimasta vittima di una tentata violenza. Alle donne che subiscono abusi dico che devono trovare la forza di denunciare, di credere nella giustizia, di coltivare la speranza e la fede. Se non in Dio, nell’uomo, perché ci sono uomini e donne pieni di valori, che sono pronti ad aiutarci e a starci vicino nei momenti di difficoltà e di profonda crisi interiore».
E agli uomini che ne abusano, invece, cosa direbbe?
«A chi ha fede, ricorderei che siamo stati generati per essere fratelli ed essere trattati alla pari. Agli uomini che, invece, non credono in Dio, direi di non far valere i propri istinti, né la coercizione fisica e mentale, ma la forza della parola e quella della ragione».
LA VERITA’, VI PREGO, SUL PRESUNTO STUPRO ALLA STAZIONE DELLA CIRCUMVESUVIANA. Viviana Lanza per "il Messaggero" il 29 marzo 2019. La decisione dei giudici è arrivata dopo una lunga camera di consiglio, il provvedimento è stato eseguito quando era già notte. Antonio Cozzolino, diciannove anni, uno dei ragazzi coinvolti nell' inchiesta sulla violenza in un ascensore della stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano, ha così potuto lasciare il carcere. Accolta l' istanza dell' avvocato Antonio De Santis: i giudici hanno annullato la misura cautelare che da quasi tre settimane teneva in cella il giovane per la violenza sessuale denunciata da una studentessa di Portici. Nei giorni scorsi anche un amico di Cozzolino, Alessandro Sbrescia, il diciottenne difeso dagli avvocati Edoardo Izzo e Giuseppina Rendina, era stato rimesso in libertà. Ed entrambe le scarcerazioni hanno suscitato, come più immediata e diffusa reazione dell' opinione pubblica, un grande stupore lasciando aperto un interrogativo: perché? Per conoscere il ragionamento dei giudici bisognerà attendere il deposito delle motivazioni. La posizione di Cozzolino è stata valutata dai giudici della settima sezione del Tribunale del Riesame (presidente Antonio Pepe, a latere i giudici Vito Maria Giorgio Purcaro e Sabrina Calabrese). Dinanzi al Riesame, accusa e difesa hanno sostenuto le proprie tesi e gran parte del confronto giudiziario si è basato sull' esistenza dei gravi indizi e sul dato relativo alla volontà della vittima: i tre ragazzi hanno parlato di rapporti consenzienti, la studentessa invece di violenza dopo essere entrata in ascensore con quei ragazzi (due li conosceva già), invitata ad andare insieme a fumare.
LE INDAGINI. Il caso non è ancora chiuso. A giorni sarà valutata la posizione di Antonio Borrelli che, difeso dall' avvocato Massimo Natale, è il terzo dei giovani coinvolti in questa brutta storia. Intanto proseguono le indagini di polizia e procura per chiarire una serie di aspetti che farebbero da contorno allo stupro denunciato. E su telefoni cellulari e testimonianze sono in corso accertamenti. La ricostruzione dei fatti si basa inoltre sui video delle telecamere di videosorveglianza presenti all' interno della stazione della Circum, che hanno ripreso i quattro giovani in momenti immediatamente precedenti e successivi a quanto accaduto fra le quattro pareti dell' ascensore. Il gip, firmando gli arresti, aveva ritenuto credibile il racconto della ventiquattrenne, che è assistita dall' avvocato Maurizio Capozzo. Il referto medico ha confermato la presenza sul corpo della vittima di segni di uno stato «post-traumatico», «compatibile con la violenza sessuale». Chi ha assistito la ragazza subito dopo i fatti ha raccontato le sue lacrime e lo stato di shock. Attraverso il suo legale, l' avvocato Maurizio Capozzo, la giovane di Portici ha espresso tutto il suo dolore: «Se avessi saputo tutto questo non avrei denunciato. Sono stata interrogata per ore dalla polizia, dai magistrati e dagli psicologi. Ho cercato di dare il massimo contributo, e a che è servito? Sono delusa e amareggiata, soprattutto perché non riesco a comprendere come sia possibile prendere una decisione del genere, che mi fa solo pensare che non sono stata creduta nel mio racconto».
LE REAZIONI. Al post apparso sul profilo Facebook del vicepremier Luigi Di Maio che ha usato il termine «vergogna» a proposito della decisione del Riesame, la giunta distrettuale di Napoli dell' Associazione nazionale magistrati ha prontamente replicato. «Ribadiamo con forza che la decisione del Tribunale del Riesame non può essere presentata come una conferma dell' assunto secondo cui la magistratura è responsabile, per un suo immotivato atteggiamento buonista, del verificarsi di gravi episodi di criminalità. In questo modo si finisce per lanciare un anatema non contro la magistratura, ma contro la stessa idea di giustizia». «Additare la magistratura come responsabile dei mali della società - si legge nella nota - significa commettere un imperdonabile misfatto, quello di manipolare la realtà».
Napoli, i giudici: non fu stupro nella stazione Circumvesuviana. Libero anche il terzo giovane indagato. Per il Riesame la ragazza ha mentito, scrivono Dario Del Porto e Conchita Sannino il 4 aprile 2019 su La Repubblica. Per i giudici non fu stupro la presunta violenza nell'ascensore della stazione della Circumvesuviana. Il tribunale del Riesame ha così scarcerato anche il terzo indagato, Raffaele Borrelli. Nei giorni scorsi erano tornati in libertà Alessandro Sbrescia e Antonio Cozzolino. I giudici hanno contestualmente depositato le motivazioni delle loro decisioni. Dalle pagine del Tribunale si desume che, per i giudici, la ragazza non ha detto la verità, ma ha mentito; anche a causa delle patologie di cui soffre. Da qui la convinzione dei giudici di ritenere insussistenti gli indizi a carica dei tre giovani. La decisione sulle tre scarcerazioni è stata assunta dai collegi composti (in distinte riprese) dai giudici Antonio Pepe, Vito Purcaro, Maria Vittoria Foschini e Sabrina Calabrese. A minare la credibilità del racconto della ragazza, per i giudici del Riesame, "assumono fondamentale rilevanza" le videoriprese delle telecamere della Circumvesuviana. Quel martedì insomma, stando alle motivazioni del collegio, nella fase terminale del presunto stupro, i magistrati visionano le immagini e colgono una situazione "connotata da esteriore tranquillità". Anche quando i tre ricompaiono, una volta fuori dell'ascensore, "i due indagati escono insieme alla ragazza perfettamente ricomposta nel vestiario, con il cellulare in mano e la borsa a tracolla in condizioni di apparente tranquillità".
Non solo: scrivono ancora i giudici che "l'atteggiamento della giovane, soprattutto nei momenti successivi a quella che è stata denunciata come un'efferata violenta sessuale di gruppo , appare a chiunque esamini il filmato in totale contrasto con un'esperienza di elevata traumaticità e drammaticità vissuta pochi attimi prima. Finendo per screditare anche l'eventualità di un dissenso sopravvenuto nel corso del rapporto". Ciò non toglie che, mezz'ora dopo, come confermano gli stessi magistrati, "la ragazza scoppió in una crisi di pianto".
Ecco cosa hanno stabilito i giudici del Riesame, che hanno liberato nelle ultime ore i tre giovani accusati di aver violentato una ragazza nella stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano. Per i magistrati la vittima ha mentito, ripetutamente, su fatti e circostanze. Negli atti depositati c’è anche il diario clinico della vittima, in cura in una struttura locale. Rosaria Capacchione su Fanpage il 4 aprile 2019. Sul corpo di una donna. Una giovane donna intelligente e colta ma gravemente ammalata, vittima di incubi ossessivi che la tormentano sin dall’infanzia ma non di tre stupratori. Sul corpo di una donna è nato un caso giudiziario e mediatico in cui lei stessa si è nutrita, ampliando e dilatando i racconti e i dettagli, smentendosi e contraddicendosi più volte: nella stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano, negli uffici di polizia, in ospedale, davanti alle telecamere e ai taccuini dei cronisti. Un crescendo, figlio anche di una catena incredibile di superficialità, che qualcuno, chi sapeva della sua malattia, avrebbe potuto e dovuto fermare, ben conscio del fatto che era solo questione di ore ma che la verità sarebbe venuta a galla. Quelle ore sono scadute oggi, con l’ultima scarcerazione e il contestuale deposito delle motivazioni, nella disponibilità dell'ufficio di Procura (che potrà impugnare il provvedimento in Cassazione) e che gli avvocati potranno conoscere solo domani mattina. Ma dall'andamento della discussione nelle tre udienze, dall'esame fatto dai legali di tutti i documenti depositati, dalle indiscrezioni trapelate in queste ore sulla complessa patologia di cui soffre la ragazza, non è difficile immaginare quali siano le ragioni esposte dai giudici del Riesame di Napoli (ottava sezione, tre distinti collegi di cui hanno fatto parte i giudici Vito Purcaro, Sabrina Calabrese, Maria Vittoria Foschini, Antonio Pepe) che hanno deciso la liberazione di Antonio Cozzolino, Raffaele Borrelli e Alessandro Sbrescia (difesi dagli avvocati Eduardo Izzo, Antonio De Santis e Massimo Natale) accusati di aver violentato, il 5 marzo scorso, una ragazza nell’ascensore della stazione di San Giorgio a Cremano della circumvesuviana. Distinti provvedimenti ma una sola conclusione: la vittima ha mentito, ripetutamente, su fatti e circostanze, sulla dinamica dell’aggressione, sulle modalità della pregressa conoscenza con i tre giovani, sulla sua stessa personalità. Ha mentito sempre perché questa è la conseguenza della sua malattia, un gravissimo disturbo della personalità, istrionica e bipolare, che la colloca tra i “bugiardi patologici”, i mitomani. Ha mentito non per dolo, non per colpa, non per vendetta, ma per oscure ragioni che agitano le sue notti insonni e che tre anni di psicanalisi non hanno ancora scoperto. E per questo i giudici hanno ritenuto che dalle indagini sino a ora compiute siano emersi elementi di tale portata da farla ritenere inattendibile sia intrinsecamente, sia estrinsecamente. A smentire, o almeno snaturare, le sue dichiarazioni, principale fonte di prova, alcuni fatti già esistenti al momento dell’adozione del provvedimento cautelare, ma non rilevati, altri acquisiti successivamente al fermo e non valutati dagli uffici investigativi. Inattendibilità che allo stato rende impossibile, alla luce della giurisprudenza di merito e di legittimità, la previsione di sostenibilità in giudizio delle accuse. Negli atti depositati, tutti in possesso dei difensori e di cui i giudici non avrebbero potuto in alcun modo non tenere in considerazione, il diario clinico della ragazza, in cura presso il Dipartimento di salute mentale dell’Asl Napoli – Torre del Greco – San Giorgio a Cremano. Tre anni di annotazioni, diagnosi, prescrizioni di farmaci. L’anoressia è sullo sfondo, come la volontà di scrivere un memoriale sulla sua vita. Il resto è da capogiro ma non insolito per chi soffre degli stessi disturbi psichiatrici. Compresi gli eccessi sessuali, da lei ricercati come forma di riconoscimento pubblico ma vissuti come una colpa, al punto da tenerne il conto e di parlarne sempre nei suoi colloqui terapeutici. Comprese le bugie, che lei stessa definisce patologiche. Compresa l’ostinata ricerca di attenzione o compassione per evitare, avrebbe dichiarato, che gli altri potessero pensare che fosse guarita. Intelligente forse più della media, reattiva, alla costante ricerca di “normalità”, nove mesi fa aveva anche accettato il ricovero in una struttura specializza, in Emilia Romagna, dove ha soggiornato per quattro mesi. Senza significativi miglioramenti. Ulteriori dettagli sanitari, necessari ai giudici, sono superflui, un’inutile e morbosa intrusione nella sua vita. Vale la pena di ricordare, invece, quanto è smentito da telecamere e testimoni. Nei video, oltre mezz'ora di immagini, si vede la ragazza abbracciata per lungo tempo con Sbrescia, sia quando fumano uno spinello, sia quando lei chiama l’ascensore e vi entra con lui. Si vedono l’ingresso degli altri due, frammenti di rapporto sessuale, l’uscita di tutti con la ragazza vestita e calma, la borsa a tracolla, e poi il saluto. Agli atti, inoltre, la testimonianza della sorella in merito al presunto tentativo di stupro di un mese prima. I ragazzi, ha detto, l’avevano accompagnata a casa, fermandosi a ridere e scherzare nell’atrio. E la perizia medica depositata dagli esperti del Centro Dafne – Codice Rosa, che avevano preso in carico la ragazza dopo la denuncia di stupro? Come rilevato durante la discussione difensiva, e come evidentemente i giudici hanno ritenuto condividendo la tesi, sarebbe privo di validità scientifica, confondendo le valutazioni sanitarie con quelle riservate all’autorità giudiziaria. Con conclusioni apparse e prive di qualunque riferimento alla documentazione sanitaria del Dipartimento di salute mentale. Quindi, parziali e inaffidabili. Inutilizzabili in un qualunque processo.
Stupro a Napoli, tutti scarcerati. «La ragazza mente, è inattendibile». Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Corriere.it. «Inattendibile». È così che i giudici del tribunale del Riesame di Napoli definiscono la ventiquattrenne che la sera del 5 marzo scorso denunciò di essere stata violentata da tre ragazzi in un ascensore della stazione della Circumvesuviana. Ed è per questo che hanno rimesso uno a uno in libertà i tre arrestati con l’accusa di stupro. Nei giorni scorsi erano usciti prima il diciottenne Alessandro Sbrescia e poi il diciannovenne Antonio Cozzolino. Ieri l’ultima scarcerazione, quella di Raffaele Borrelli — 19 anni anche lui — e il deposito delle motivazioni che spiegano che cosa ha indotto i giudici del Riesame a valutare in maniera diametralmente opposta rispetto alla Procura, ma soprattutto al gip, gli stessi elementi raccolti durante le indagini e gli stessi atti che costituiscono il fascicolo processuale. Nell’accogliere i ricorsi dei tre indagati, il Riesame, però, non ha soltanto valutato la ricostruzione — basata su testimonianze, immagini delle telecamere di sorveglianza e referti medici — di ciò che avvenne quel pomeriggio nella stazione della Circumvesuviana. Nelle motivazioni ci sono anche ampi riferimenti allo stato di salute mentale della ventiquattrenne, che da tempo sta seguendo un percorso psicoterapeutico presso una struttura pubblica. Anche in questa direzione sono stati svolti accertamenti e raccolte testimonianze durante le indagini, ma la lettura data da Procura e gip, a sostegno della tesi dello stupro, viene completamente ribaltata in fase di riesame. Nell’incartamento a disposizione dei giudici c’è il diario clinico della ragazza, ed è da lì che il tribunale del Riesame trae gli elementi per ritenere la ventiquattrenne una «bugiarda patologica», come in alcuni colloqui con gli specialisti si definisce lei stessa, anche se chi la tiene in cura, ascoltato come teste dagli investigatori, non avrebbe confermato che questa autopercezione sia suffragata da una diagnosi clinica. Nella motivazioni i magistrati danno anche risalto ad alcune frasi tratte dalle sedute di psicoterapia a cui la ragazza si sottopone. «Ho bisogno di attenzione o compassione perché altrimenti credono che io stia meglio», e la sua denuncia di stupro viene così interpretata come una richiesta di attenzione. Sulla dinamica dei fatti, così come riferita dalla 24enne (che appresa la notizia dell’ultima scarcerazione si dice «distrutta fisicamente e moralmente»), poi i giudici si soffermano a lungo, smontando uno per uno i passaggi della sua ricostruzione per arrivare alla determinazione che quella sera del 5 marzo Sbrescia, Borrelli e Cozzolino non violentarono la donna, pur avendo tutti rapporti sessuali con lei all’interno dell’ascensore. «Dalla visione delle immagini — si legge nelle motivazioni — emerge che la (…) non venne attratta con l’inganno dagli indagati in una trappola, ma aderì liberamente alla proposta dello Sbrescia e insieme a lui entrò nell’ascensore. Non sono visibili manifestazioni non verbali di dissenso, né segni di pressione da parte dell’indagato». Stessa interpretazione innocentista i giudici danno alle immagini che raccontano cosa avvenne dopo quello che secondo la donna fu uno stupro e secondo i ragazzi un rapporto consensuale. «Di maggiore, se non decisiva, importanza — si legge ancora nelle motivazioni — è la scena che raffigura la fase terminale della vicenda, in cui il contegno tenuto dalla (…) e dagli indagati non è per nulla conforme all’ipotesi di una bestiale violenza di gruppo (espressione quest’ultima usata dal gip nell’ordinanza di custodia cautelare, ndr). Cozzolino, Borrelli e la loro accusatrice escono insieme dall’ascensore, si incamminano ancora insieme verso il sovrappasso, finché uno dei giovani rivolge un segno di saluto alla (…) che si allontana con calma verso i binari dove soltanto mezz’ora dopo verrà vista in preda a una crisi di pianto».
Sul giallo dello stupro alla Circumvesuviana serve un giudice freddo e garantista, scrive Tiziana Maiolo il 7 Aprile 2019 su Il Dubbio. Una cosa è sicura: non ha certo passato minuti di piacere la ragazza che in un ascensore della circumvesuviana di Napoli ha visto il proprio corpo passare di mano in mano come un pezzo di carne per soddisfare il desiderio di tre ragazzi arrapati. Il fatto che per lei quelli non siano stati comunque momenti piacevoli ( per nessuna donna lo sarebbero stati) non significa però necessariamente che la ragazza sia stata presa con la forza. Ma solo se per forza si intende parlare di calci e pugni o la minaccia di un coltello alla gola per costringere una donna a subire un rapporto sessuale senza consenso. Perché ci sono molti modi di usare violenza e ci sono condizioni soggettive di tutte le persone in campo da esaminare. Il primo tempo di questa vicenda ha per protagonista una ragazza che piange abbandonata sulla panca di una stazione di métro e qualcuno che la assiste e l’accompagna a denunciare lo stupro da parte di tre diciottenni che lei conosce e che vengono individuati e arrestati. Sia il pubblico ministero che il giudice per le indagini preliminari concordano, sulla base delle dichiarazioni della ragazza e della relazione del ginecologo che l’ha visitata, che ci sia stata violenza. Viene disposta custodia cautelare in carcere per i tre. Ma il secondo tempo, che mostra il volto dei giudici del tribunale del riesame, ribalta lo scenario con altrettanta sicurezza: i rapporti sessuali non furono subìti, la ragazza era consenziente. I tre, uno dopo l’altro, vengono scarcerati. I provvedimenti dei giudici paiono incomprensibili, almeno finché non vengono rese pubbliche le motivazioni. Nel frattempo la ragazza rilascia un’intervista, a viso coperto, alla conduttrice della trasmissione di La7 Myrta Merlino. Una voce spenta che snocciola con inquietante passività parole che non vorremmo aver sentito, con quelle mani tremanti che non vorremmo aver visto: coito orale, poi richiesta di rapporto anale, infine penetrazione vaginale. Prima un ragazzo, poi l’altro, poi l’altro ancora. Poi lei che dice: per favore basta, non ce la faccio più. Il tribunale del riesame indossa la toga, non può indossare i sentimenti. E’ giusto così. Quindi esamina le telecamere della stazione, vede che lei e loro entrano insieme in quel maledetto ascensore e che dopo un po’ ne escono insieme e si salutano. Manca solo un passaggio di denaro perché si compia il quadro di una prestazione professionale. Ma emerge anche “per tabulas” ( ma sarebbero bastate quelle mani tremanti e quella voce di persona ormai morta dentro per capirlo ) la fragilità di questa ragazza, con la sua anoressia e un faticoso percorso analitico in atto. E’ una bugiarda, lo dice anche lei allo psicoterapeuta, si sancisce. Sono elementi importanti dal punto di vista processuale, perché in questo tipo di inchiesta l’elemento centrale è quello del consenso di tutte le parti in causa. Ma consenso a che cosa? E fino a che punto? Non dimentichiamo che siamo nella fase delle indagini preliminari e che stiamo parlando di custodia cautelare in carcere di tre diciottenni, i cui diritti vanno tutelati tanto quanto quelli della ragazza che li ha denunciati. Il consenso a entrare nell’ascensore probabilmente c’è stato. Quanto a ciò che è successo dopo, è tutto da discutere. E se si fosse trattato di “dissenso sopravvenuto”? Esiste notevole giurisprudenza, anche sui rapporti tra coniugi, che sancisce come il consenso vada rinnovato minuto dopo minuto perché sia considerato tale. Inoltre, se si arriverà al processo ( e probabilmente sarà così ), i giudici non potranno non tener conto della condizione psicologica della ragazza. Non ci vuole molto a distruggere del tutto una fragilità così palese. Quindi il concetto di violenza potrebbe essere rivisto. Quello che non possiamo chiedere al magistrato è un giudizio morale sull’accaduto. Non ci stancheremo mai di dire che la miglior garanzia per una giustizia giusta è la sua freddezza. Cioè l’applicazione rigorosa della norma, senza interpretazioni moralistiche. Troppo spesso il giudice si fa storiografo e sociologo e psicologo. E questo non ci piace. Ma spesso non ci piacciono neppure certi commenti, certi giudizi sui comportamenti che sentiamo in sede politica o giornalistica. Il primo problema è che purtroppo sembra che la questione della violenza sessuale riguardi solo le donne. Lo abbiamo visto in Parlamento nei giorni scorsi quando si approvava la nuova legge sul “codice rosso” con un dibattito tra donne, proteste di donne, felicità di donne dopo l’approvazione. Non sembra essere un problema di tutti. Invece il punto centrale non è la sessualità femminile, ma quella maschile. Come possono tre ragazzi giovani, magari “bravi ragazzi”, ritenere che il corpo della donna sia sempre disponibile, un pezzo di carne da palleggiarsi, un insieme di orifizi da penetrare come se tutto ciò non appartenesse a una persona? A una persona che si chiama donna e che come tale va rispettata come e anche si più che se fosse un uomo? Su questo dovrebbero riflettere i padri ma soprattutto le madri ( come donne ) dei figli maschi, ancora vittime degli stereotipi ancora dominanti nel nostro Paese. Ma attenzione anche a non trasformare queste riflessioni nella richiesta di aumento delle pene e rinuncia a tutti quei benefici di legge che sono consentiti per la gran parte dei reati, come sento dire da qualche parlamentare ( donna ), nell’illusione, che tutti sappiamo essere vana, che l’inasprimento della sanzione faccia diminuire i reati. Mai come in questi giorni, in seguito a una serie di omicidi di donne commessi da ex mariti o fidanzati, e ora con la vicenda della ragazza napoletana, si sono sentite espressioni come “fine pena mai”, “castrazione chimica” e “sbattiamoli in galera e buttiamo via la chiave”. Se non vogliamo ascoltare altri argomenti, ricordiamoci almeno della sorte toccata a Robespierre, prima di mozzare le teste. Perché quando cadono le regole dello Stato di diritto, poi cadono per tutti.
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 5
aprile 2019. Caro Dago, leggo stamane il bel “Buongiorno” di Mattia Feltri sulla
prima pagina della “Stampa” e subito mi viene in mente che la questione era
stata risolta in un magnifico testo di Robert Musil di quasi un secolo fa. Lì
dove lo scrittore austriaco tratteggiava i lineamenti del “cretino” a lui
contemporaneo, e dunque del cretino immarcescibile ed eterno. Un tratto
peculiare di questo personaggio, scriveva Musil, è che quando mettono sotto
accusa un suo amico lui si imbestialisce e dice peste e corna dei magistrati;
quando mettono sotto accusa un suo nemico, lui subito li elogia e ne decanta i
meriti professionali. Mattia ha scritto della vicenda di questi tre ragazzi
inizialmente accusati di avere stuprato una fanciulla e che adesso i magistrati
del Tribunale del Riesame hanno liberato uno dopo l’altro perché ritengono che i
capi di accusa contro di loro appaiono deboli o inesistenti. Naturalmente non so
nulla della questione, semplicemente prendo atto del lavoro e della decisione di
quei magistrati. Sto zitto, zittissimo, prendo atto del lavoro di professionisti
competenti. E questo mentre schiamazzano quelli che – pur non sapendo come me
niente di niente – gridano alla lesa maestà, al fatto che dei magistrati non
abbiano creduto alla parola di una donna, che la “vittima” è divenuta “vittima”
una seconda volta. Stupidaggini, dichiarazioni prive di senso, enunciati
retorici, fastidioso rumore di fondo di una società fondata sul “sentito dire”.
Il processo ha tutte le occasioni perché il tema in questione venga pesato e
ripesato. L’accusa farà appello contro i magistrati che hanno preso quella
decisione. Per ciascuna delle parti in causa ci sarà modo di far valere i propri
diritti, il diritto di chi accusa, il diritto di chi difende. Noi dobbiamo
starcene zitti e vedere che cosa ne verrà fuori. Né le parole dell’accusa né
quelle della difesa hanno una supremazia originaria e di partenza, nemmeno la
vulgata che la donna è sempre una vittima. Lo è tantissime volte, non
necessariamente tutte. Un discorso che vale anche per quei casi recenti in cui
la richiesta dell’accusa contro un “femminicida” (30 anni di cella) è stata
attenuata dalla sentenza (16 anni di cella) in base alle caratteristiche
specifiche e dell’omicidio e dell’omicida. Ma che altro deve fare un magistrato
se non valutare le caratteristiche specifiche del caso che gli viene sottoposto?
Ma qual è la dignità intellettuale di donne che protestano contro questa
sentenza perché ai loro occhi è come se la morte di una donna fosse svalutata?
Ma che c’entra? C’entra che quel caso lì è andato a quella maniera lì – atroce
maniera ovviamente – e che la pena deve essere commisurata a quella maniera. Né
16 anni di cella sono esattamente un panino al prosciutto. A meno non di non
ragionare come hanno ragionato per decenni gli americani, ossia che una morte
domanda un’altra morte. Tu togli la vita, io ti tolgo la vita. Altro che
l’inezia di 30 anni di cella.
"Sembra un maschio, non è stupro". La sentenza shock delle tre giudici.
"Lo conferma anche la foto". La Cassazione annulla il verdetto e ordina di
rifare il processo: vizi di legittimità, scrive Maria Elena Vincenzi il 10 marzo
2019 su La Repubblica. Troppo mascolina. Poco avvenente. E quindi è poco
credibile che sia stata stuprata, più probabile che si sia inventata tutto. È un
ragionamento che già indignerebbe se ascoltato in un bar, ma che letto in una
sentenza fa un effetto ancora peggiore. Per di più se a firmarla sono tre
giudici donne. Che scelgono, così, di assolvere in appello due giovani
condannati in primo grado a cinque e tre anni per violenza sessuale. E nelle
motivazioni scrivono che all'imputato principale "la ragazza neppure piaceva,
tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il
nominativo "Vikingo" con allusione a una personalità tutt'altro che femminile
quanto piuttosto mascolina". Poi la chiosa: "Come la fotografia presente nel
fascicolo processuale appare confermare". Il verdetto è stato annullato con
rinvio dalla Cassazione come richiesto dal procuratore generale che ne ha
evidenziate alcune incongruenze e vizi di legittimità. Per cui il processo di
appello dovrà ora essere rifatto. Ma intanto la sentenza bocciata ha fatto
saltare sulla sedia più di magistrato della Suprema Corte. Perché leggendone il
testo sembra che a influire sulla decisione delle tre magistrate sia stato
proprio l'aspetto fisico della donna. Un passo indietro. Ancona, marzo 2015. Una
ragazza di origini peruviane, 22 anni (la chiameremo Nina, nome di fantasia) si
presenta in ospedale con la madre dicendo di avere subito una violenza sessuale
alcuni giorni prima da parte di un coetaneo, mentre un amico di lui faceva da
palo. Il gruppetto frequentava la scuola serale, dopo le lezioni i tre avevano
deciso di bere una birra insieme. Le birre diventano parecchie, la giovane e uno
dei due compagni si appartano più volte, hanno rapporti sessuali. Per gli
imputati erano consensuali, per la parte offesa a un certo punto hanno smesso di
esserlo, sia per l'eccesso di alcol sia per una esplicita manifestazione di
dissenso. I medici riscontrano lesioni, compatibili con una violenza sessuale, e
un'elevata quantità di benzodiazepine nel sangue che la vittima non ricorda di
aver mai assunto. Dopo le indagini, si apre il processo di primo grado che il 6
luglio 2016 condanna uno dei due, quello che ha avuto i rapporti con Nina, a
cinque anni, e il suo amico che ha fatto da palo a tre. Gli imputati ricorrono e
il 23 novembre 2017 la Corte d'Appello dà loro ragione. Li assolve perché non
ritiene credibile la ricostruzione della parte offesa. Fino a qui, nulla di
strano: normale dinamica processuale. Quello che non fa parte della dinamica
processuale, prima anomalia, è che la parte offesa venga definita dalle giudici
della Corte d'Appello di Ancona, nelle motivazioni, come "la scaltra peruviana".
Non bastasse questo, le tre componenti del collegio si lasciano andare a
commenti e valutazioni fisiche forse dimenticando che il loro ruolo è sì quello
del giudice, ma penale, e non di un concorso di bellezza. Tanto da arrivare a
scrivere nelle conclusioni della sentenza che "in definitiva, non è possibile
escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata "goliardica",
trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a
provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne
registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di
"Nina Vikingo", con allusione a una personalità tutt'altro che femminile, quanto
piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare
confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di
sfida". Insomma, gli imputati devono essere assolti, così avevano stabilito le
tre giudici marchigiane. Perché Nina, secondo loro, non poteva essere
desiderata: sembrava un maschio.
"Lei sembra un maschio...". E per i giudici non è stupro. Una sentenza della Corte d'Appello di Ancona fa discutere. Nelle motivazioni considerazioni sull'aspetto fisico della presunta vittima, scrive Luca Romano, Domenica 10/03/2019, su Il Giornale. Una sentenza shock. "Sembra un maschio, non è stupro". È quanto emerge dalle carte di una sentenza per un presunto stupro su una ragazza di origine peruviane che risale al marzo del 2015. La ragazza tornando a casa aveva raccontato alla madre di essere stata violentata. Immediatamente si reca in ospedale. I medici riscontrano lesioni compatibili con la violenza sessuale e così scatta l'indagine. La 22enne racconta di aver passato una serata con alcuni compagni della scuola serale. Poi l'abuso da parte di due ragazzi. Uno faceva da palo mentre l'altro l'avrebbe violentava. La prima sentenza, quella di primo grado, arriva il 6 luglio del 2016. I due ragazzi vengono condannati rispettivamente a 5 e a 3 anni. La faccenda però si ribalta in Appello con l'assoluzione dei due imputati. I giudici infatti non ritengono credibile la ricostruzione della peruviana. E da qui scatta il rinvio in Cassazione. Ma tra le carte della sentenza di Apello, come riporta Repubblica, c'è qualcosa di strano. I giudici infatti si lasciano andare a commenti piuttosto forti sulla ragazza che hanno immediatamente messo in allarme anche le toghe della Suprema Corte. Nelle motivazioni della sentenza si legge: "In definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata "goliardica", trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di "Nina Vikingo", con allusione a una personalità tutt'altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida". Parole fin troppo chiare quelle dei giudici della Corte d'Appello di Ancona. A quanto pare ad influire sulla decisione delle tre magistrate potrebbe essere stato l'aspetto della vittima definita troppo "mascolina". Adesso toccherà alla Cassazione stabilire come sono andate davvero le cose...
«Troppo mascolina»: il ministero manda gli ispettori ad Ancona. La sentenza: «non c’è stato stupro, quella donna non è credibile». Il collegio umilia la 24enne: gli amici accusati dalla «scaltra peruviana» non desideravano un rapporto con lei in quanto «poco femminile», al punto da essere salvata sul cellulare come «Vikingo», scrive Simona Musco il 12 Marzo 2019 su Il Dubbio. Su un fatto sono tutti d’accordo, accusa e difesa: la terminologia usata dalle tre giudici della Corte d’Appello di Ancona per motivare l’assoluzione di due 24enni peruviani accusati di aver stuprato un’amica è umiliante. Lo dice al Dubbio uno dei difensori dei giovani, Gabriele Galeazzi, e lo dice anche il procuratore generale Sergio Sottani, che parla di «ulteriore violenza per le vittime». Al punto che ieri il ministero della Giustizia ha deciso di inviare ad Ancona degli ispettori, con lo scopo di svolgere accertamenti tra gli uffici di via Carducci, dove ieri le femministe della rete Rebel Network hanno protestato con un flash mob. La vicenda, resa nota da Repubblica, ha fatto discutere per i passaggi in cui il collegio ha evidenziato la personalità «tutt’altro che femminile» e «piuttosto mascolina» della donna, cosa che «la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare». Termini, superflui e «inappropriati» anche secondo Galeazzi, al punto, forse, di «condizionare» i giudici della Cassazione, che hanno deciso l’annullamento con rinvio della sentenza. «Dal mio punto di vista – afferma – sono state fatte delle valutazioni più personali che giuridiche e ciò può aver influito sulla Cassazione. Confido, però, che la sentenza di assoluzione venga confermata». Non sono stati i tratti «mascolini» a spingere il collegio ad assolvere i due 24enni peruviani, condannati in primo grado a 5 e 3 anni. La ragazza, infatti, non è stata ritenuta attendibile, ma nella sentenza viene tirato in ballo anche il suo aspetto fisico. Secondo le giudici, la donna avrebbe inventato «buona parte del racconto», forse «per giustificarsi agli occhi della madre», che vedendola rientrare a notte fonda, ubriaca e sporca di sangue l’aveva punita prendendola a schiaffi. In ospedale la donna avrebbe parlato di un rapporto «iniziato prima in modo consensuale» e poi proseguito nonostante aver manifestato la volontà di interromperlo «per l’improvviso dolore provato». Nei giorni successivi, inoltre, le analisi evidenziavano la presenza massiccia di Benzodiazepina, un potente psicofarmaco che l’avrebbe stordita e che, scrivono i giudici inciampando di nuovo in un linguaggio poco felice, «forniva alla scaltra peruviana una prova da sfruttare». Durante il processo la 24enne ha negato di aver voluto il rapporto, «smentendo quanto riferito ai medici», così come di aver assunto medicinali, anche quelli indicati «nel modulo del consenso informato» dalla ragazza. Circostanze, scrivono le giudici, che non sono «indice di buona fede». E da qui la conclusione feroce: «non è possibile escludere che sia stata proprio» la 24enne «a organizzare la nottata “goliardica”», per poi iniziare a provocare uno dei ragazzi, «al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo”», inducendolo ad avere rapporti «per una sorta di sfida» e che la ragazza «non ha inteso interrompere neppure quando ha avvertito che qualcosa non andava». La situazione si è complicata per l’emorragia e, tornata a casa, la donna «deve aver assunto dei medicinali in modo massiccio pur di placare i dolori». Conclusioni che sconcertano la legale della 24enne, Cinzia Molinaro. «Quando tornò a casa non era in grado di ricordare quasi nulla – ha commentato – Aveva riportato gravi ferite, per le quali è stata operata e delle quali non si era neanche accorta; era in uno stato di torpore che le permetteva di ricordare solo flash: disse di non essere in grado di dire se avesse iniziato il rapporto in maniera consenziente ma che a un certo punto era stata molto male, aveva detto basta senza che il ragazzo si fermasse».
MENARE LA PROPRIA MOGLIE OGNI TANTO NON È REATO (SE SI È DEPRESSI). Elisabetta Reguitti per Il Fatto Quotidiano il 15 giugno 2019. Menare una tantum la compagna non è reato. Un uomo di 60 anni di Pavia è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti contro la moglie. Bisogna attendere per leggere le motivazioni ma intanto la notizia è che il tribunale di Pavia ha scagionato l’uomo sulla base delle considerazioni dello psichiatra che aveva rilevato come il marito – al momento dei fatti – era in preda a uno stato depressivo dovuto alla separazione matrimoniale. E’ il quotidiano Il Giorno di Pavia a dare la notizia. All’uomo era stato contestato il reato previsto all’articolo 572 del codice penale e all’articolo 582, maltrattamenti e lesioni. La donna aveva sporto denuncia e l’uomo era stato incriminato e portato a processo. La coppia viveva a Pavia con i due figli. Una separazione matrimoniale spesso è un evento traumatico per chi la deve affrontare. Un dolore personale oltre che della stessa coppia. Ma personalmente ritengo che questa decisione sia una mancanza di rispetto. Qualsiasi donna abbia avuto modo di provare su se stessa l’aggressività di un uomo sa che non è fisicamente possibile reagire. Un uomo ha più forza fisica di una donna sempre e comunque. Ritengo anche non esista al mondo nessun motivo che giustifichi aggressività e violenza su un’altra persona. Sono certa che quell’uomo fosse disperato, non nutro dubbi sul fatto che fosse potuto crollare in un profondo stato depressivo. Soprattutto se ha amato tanto quella stessa donna sulla quale però ha sfogato la sua disperazione, forse anche la sua rabbia. Nel corso del procedimento giudiziario ha avuto grande peso il parere di un perito, un medico psichiatra, che aveva stabilito come al momento dei fatti l’imputato non fosse capace di intendere e di volere, “perché in quel periodo si trovava in uno stato depressivo e di forte stress causato dal difficile momento dovuto alla separazione dalla coniuge”. Antonio Savio legale del marito ha dichiarato come “Non sia stata applicata nessuna misura di sicurezza perché il mio assistito è stato dichiarato non socialmente pericoloso, in quanto lo stato depressivo era strettamente legato solo a quel periodo. Il perito è stato attento a valutare la situazione umana”. Sempre a proposito di situazioni umane è bene forse ricordare che secondo il numero verde attivato dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio – sulla violenza di genere -, nei solo mesi di dicembre, gennaio e febbraio, in media sono arrivate 100 chiamate al giorno. Secondo gli ultimi dati Istat al 2014), in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e 70 anni (6,7 milioni) nella sua vita ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% vittima di violenza fisica, il 21% sessuale, il 5,4% ha fatto i conti con forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
Uccise la moglie, «era mosso da delusione». Condannato a 16 anni. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Il pm aveva chiesto una pena di 30 anni per un uomo che aveva ucciso la compagna: la colpì con diverse coltellate al petto dopo aver scoperto che non aveva mantenuto la promessa di lasciare l’amante. Il giudice, per questo, ha concesso le attenuanti generiche e lo ha condannato a 16 anni. Accade a Genova. Nella motivazione della sentenza si legge che l’uomo ha colpito perché mosso «da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento» secondo quanto scrive Il Secolo XIX. Javier Napoleon Pareja Gamboa, un operaio ecuadoriano di 52 anni, aveva ucciso la moglie Jenny Angela Coello Reyes, di 46 anni, nell’aprile scorso nel loro appartamento a Rivarolo. La pena è stata ridotta in parte per il riconoscimento delle attenuanti e in parte per lo sconto previsto dal rito abbreviato. A oggi, scrive la testata, procura e difensori non hanno presentato ricorsi.
Genova, uccise la compagna: condannato con l'attenuante della "delusione". Il legale: "Torna il delitto d'onore". Il pm aveva chiesto 30 anni, il giudice applica gli sconti di pena per l'attenuante e il rito abbreviato e lo condanna a 16 anni: "Era disperato", scrive Marco Lignana il 13 marzo 2019 su La Repubblica. Sentenza shock a Genova su una donna uccisa dal marito pochi giorni dopo quella della Corte d'Appello di Bologna sulla "tempesta emotiva" come attenuante. Il pm aveva chiesto una pena di 30 anni per un uomo che aveva ucciso la compagna: la colpì con diverse coltellate al petto dopo aver scoperto che non aveva mantenuto la promessa di lasciare l'amante. Il giudice, per questo, ha concesso le attenuanti generiche e ha condannato l'uxoricida a 16 anni. Accade a Genova. Nella motivazione della sentenza si legge che l'uomo ha colpito perché mosso "da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento". Nella motivazione da una parte ci sono i rimandi a "una pena severa perché nulla può giustificare l'uccisione di un essere umano", ma in altri passaggi si evidenzia che l'uomo ha colpito perché mosso "da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, ha agito sotto la spinta di uno stato d'animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile". E ancora: "Non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a se stesso, per l'incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto contraddittorio che lo ha illuso e disilluso allo stesso tempo". Le attenuanti, combinate con lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato con cui è stato celebrato il processo, hanno portato alla pena di 16 anni, rispetto ai 30 chiesti dal pubblico ministero Gabriella Marino L'omicida è Javier Napoleon Pareja Gamboa, ecuadoriano di 52 anni. La vittima, una connazionale dell'assassino, si chiamava Jenny Angela Coello Reyes, 46 anni. L'omicidio avvenne nell'aprile del 2018 nel loro appartamento di via Fillak, a Rivarolo. Durissimo il commento dell'avvocato della parte civile: "Con questa motivazione è stato riesumato il delitto d'onore - dice Giuseppe Maria Gallo che assiste i familiari di Jenny Angela Coello Reyes - . Ormai assistiamo a un orientamento più culturale che giuridico, gli omicidi a sfondo passionale sono inseriti in un circuito di tempesta emotiva. Ma quali omicidi di questo tipo non avvengono in uno stato emotivo di questo genere - argomenta Gallo - ?. E' tautologico". "Questa sentenza di Genova anticipa quella di Bologna", prosegue l'avvocato parlando del caso: la condanna infatti è stata emessa a dicembre scorso, prima della pronuncia diventata ormai nota della Corte d'Appello di Bologna che fa riferimento alla 'tempesta emotiva', come circostanza attenuante nei confronti di un 57 enne condannato per l'omicidio della compagna. "Indubbiamente - aggiunge ancora l'avvocato - sono state date circostanze attenuanti generiche ed è in questo che consisterebbe la 'tempesta emotiva' che il giudice genovese non definisce così ma è quella che ha prodotto l'abbattimento della pena insieme al rito abbreviato". Mentre i familiari e parti civili di fatto non possono impugnare la sentenza, ad oggi non sono arrivati ricorsi dalla procura. "Le nostre richieste economiche come parte civile sono state accolte - sottolinea Gallo - ma l'imputato non potrà risarcire neanche un euro. Sono accolte ma virtualmente. In più ci tolgono linfa per produrre un appello perché l'accoglimento integrale ci preclude la possibilità di impugnare non avendo titolo giuridico per farlo". "Ho sollecitato anche il pm ad appellarsi a questa sentenza - conclude il legale - Il termine scade il 21 marzo ma il pm stesso, su istanza della difesa, ha già comunicato che non impugnerà". "La legge sul codice rosso è un punto di svolta importante. Un via libera celere ed all'unanimità su questo testo dimostrerà quanto alta sia l'attenzione sul tema". Lo dice il ministro della giustizia Alfonso Bonafede riferendosi, con i cronisti in Transatlantico, alla sentenza di Genova. "Da ministro della Giustizia non commento le sentenze e rispetto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Sul codice rosso c'è un impegno concreto", ribadisce. "Nessuna attenuante andrebbe riconosciuta nei femminicidi. Preoccupa l'orientamento di alcuni Tribunali che hanno dato pene ridotte riconoscendo motivi emotivi in chi ha ucciso". Lo afferma Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell'Arci, commentando la sentenza del Tribunale di Genova che ha ridotto la condanna all'uomo che uccise la sua compagna. "Riconoscere - prosegue - condizioni quali la gelosia, la delusione, sottolinea la visione che nelle coppie la donna non è libera di scegliere di lasciare un uomo. E se lo fa in qualche modo viene giustificata l'estrema reazione dell'uomo. Il numero di femminicidi in Italia è rimasto pressoché invariato nonostante gli omicidi in assoluto siano diminuiti. L'emergenza è che si sta affermando un modello più culturale che giudiziario che nei rapporti tra uomo e donna fa sì che l'uomo si senta legittimato a uccidere quando qualcosa va storto. Purtroppo - conclude - simili sentenze alimentano questo schema che condanna tutte le donne".
«Angela era ambigua»: concesse le attenuanti al marito che l’ha uccisa. Il 52enne Pareja, condannato a 16 anni di carcere per omicidio, «ha agito come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio», scrive Simona Musco il 14 Marzo 2019 su Il Dubbio. A tratti a subire il processo sembra essere la vittima. Cioè Angela Reyes Coello, 46 anni, uccisa lo scorso anno nella sua casa in via Fillak, a Certosa (Ge), dal marito, Javier Napoleon Pareja Gamboa, operaio di 52 anni. Per lui, a dicembre dello scorso anno, è arrivata una condanna a 16 anni in abbreviato, a fronte di una richiesta, da parte dell’accusa, di 30 anni. Ma a far discutere, ancora una volta, sono le parole utilizzate dal giudice, Silvia Carpanini, nel concedere le attenuanti all’autore del delitto. Perché «l’impulso che ha portato Pareja a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un sentimento molto forte ed improvviso». Non è stata «la spinta della gelosia» ad armarlo, dopo un violento litigio con la moglie, ma «un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, il tutto acuito dai fumi dell’alcol, dalla stanchezza per il lungo viaggio e dal comportamento sempre più ambiguo di Angela». Insomma, un po’ è stata colpa sua. Perché non può sostenersi «che Pareja abbia dato semplicemente sfogo a una sua innata propensione alla violenza, certamente ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile». C’è da comprenderlo, dunque, perché quell’estremo gesto è stata la reazione al comportamento della moglie fedifraga, «del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo, l’ha indotto a uscire dal volontario isolamento in cui si era ritirato proprio per lasciare spazio alle sue scelte, con la promessa di un futuro insieme, ma tutto questo invano». Eppure, ammette la giudice, «non può parlarsi di provocazione». A svelare la storia è stato il Secolo XIX, che ieri ha pubblicato alcuni stralci della sentenza. Una decisione, commenta il legale della famiglia della vittima, Giuseppe Maria Gallo, che riporta al concetto di delitto d’onore. «Si tratta di una sentenza dura – commenta al Dubbio – anche perché non possiamo impugnare questa decisione, avendo ottenuto quanto avevamo chiesto: il risarcimento dei danni alla famiglia, che, comunque, non lo vedrà mai, essendo l’imputato nullatenente. Ho chiesto al pm – anche lei donna – di fare appello per una pena più equa, ma ha respinto formalmente la mia richiesta in quanto la sentenza, dice, è ben motivata». È toccato al legale, dunque, informare la famiglia sull’esito del processo. «Per loro è difficile capire – sottolinea – anche perché si insinua in questo alveo questo concetto della tempesta emotiva, questa apoteosi del nulla. È chiaro che il motivo scatenante di un omicidio di tipo passionale è quello, mi sembra tautologico. Non si può motivare in questi termini la scelta di infliggere quella pena. Forse il legislatore dovrebbe interrogarsi perché qui si producono effetti assimilabili al quelli del vecchio delitto d’onore. Questa situazione rischia di determinare un effetto boomerang, abbassa l’asticella al punto che l’idea di compiere un omicidio potrà essere valutata diversamente sapendo che ci si potrà schermare dietro questo tipo di concetti». La storia è quella di un rapporto tormentato, fatto di tradimenti da parte della donna, alcol e liti. L’uomo rientra a Genova dall’Ecuador la sera prima del delitto, dopo essere stato via per alcuni mesi proprio per via di una situazione diventata ormai insostenibile. Angela lo ha convinto a rientrare, pur senza aver davvero cambiato vita, secondo la ricostruzione avallata dalla giudice. Che rispetto a quanto avvenuto il giorno del delitto non fa che fidarsi principalmente della versione fornita da Pareja. «Appena giunto dall’Ecuador per ricongiungersi alla moglie si rende subito conto che la donna non è cambiata: beve ancora molto e la relazione» con l’altro uomo «non è affatto cessata. I due sono in casa, discutono, bevono e ancora discutono e, in un impeto d’ira, l’imputato afferra un groppo coltello in cucina e colpisce Angela con un unico fendente che perfora il polmone e ne determina in pochissimi minuti la morte». Pareja, prima di accorgersi della morte della moglie, va via di casa e viene ritrovato soltanto due giorni dopo, in stato confusionale e sporco di sangue. Confessa subito, cercando di convincere gli investigatori del fatto che la moglie «tenesse con le mani il coltello, quasi a volerlo attirare contro di sé, incitando il marito a colpirla». Una ricostruzione poco verosimile, scrive il giudice. Che però crede al resto. Agli insulti, ad esempio, quando lei gli avrebbe urlato di non essere abbastanza uomo da colpirla o gli avrebbe detto «di fare schifo». E poco incide, sulla decisione, il fatto che «Pareja sia un uomo di indole aggressiva, che tende a reagire in modo violento ai torti subiti». L’uomo è tornato in Italia «convinto dalle insistenze della moglie e non può che confidare che sia cambiata, pronta a ricominciare una nuova fase della loro vita coniugale. Ma Angela scrive il giudice – non è affatto cambiata e l’imputato se ne rende conto subito». Non è decisa, prima gli dichiara amore e poi disprezzo, facendo «impazzire il marito». Ed è d’altronde credibile che la donna, «completamente ubriaca, contraddittoria e incoerente come sempre» abbia provocato Pareja mettendo in dubbio la sua capacità di dimostrarsi uomo. Certo, ammette il giudice, «la scena non ha testimoni ma è indiscutibile che i toni della discussione si siano molto accesi e che la donna completamente ubriaca possa aver fatto o detto qualcosa». Nessun omicidio, salvo che per legittima difesa, è giustificabile, afferma infine il gup. Ma Pareja, che non ha premeditato il delitto e ha esaurito la sua disperazione con un unico colpo – mortale -, «non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio». Insomma, per colpa di Angela.
M. Ind. per “la Stampa” il 14 marzo 2019. «Ci sono omicidi e omicidi, anche un killer può in qualche modo fare pena. E pure a mio marito, che a volte mi chiede come sono possibili certe sentenze, spiego che le regole del diritto sono una cosa, le emozioni dell'opinione pubblica un'altra». Silvia Carpanini è il giudice del caso di Genova e accetta di spiegare il verdetto, seduta nel suo ufficio in tribunale.
Lei definisce «non incomprensibile» il comportamento di un uomo che ha ucciso una donna a coltellate. Non è inaccettabile come attenuante?
«Tutti commentano le sentenze e ne hanno la facoltà, in pochi conoscono sul serio i processi nei dettagli. Ribadisco: ci sono delitti che sono "meglio", altri che sono "peggio"».
E questo era «meglio»?
«L'imputato aveva già lasciato quella donna, era tornato in Sudamerica esasperato dal fatto che lei avesse una vita extraconiugale, diciamo, intensa, per lui umiliante. La ex lo ha supplicato di riprovarci, gli ha pagato il biglietto dell'aereo, hanno cenato e bevuto insieme poco dopo essersi riabbracciati. E poi è stato chiaro che, persino la notte precedente, l'amante aveva dormito con lei, proprio nella casa dove il marito stava rientrando, sebbene in precedenza gli avesse fornito tutt' altro tipo di rassicurazione».
È sufficiente per giustificare un massacro?
«No, tant'è che Javier Gamboa ha preso sedici anni, e mi pare che proprio nella sentenza sia rimarcata più volte la gravità del suo gesto. Semmai, quel che ha patito è sufficiente per compensare le aggravanti».
Contro il pronunciamento c'è una levata di scudi trasversale: Matteo Salvini, Mara Carfagna, la sinistra.
«Con tutto il rispetto per il lavoro dei giornalisti, tendo a non leggere i commenti alle sentenze, in particolare alle mie».
Come si fa a spiegare una scelta del genere a chi non è un giurista?
«Sarebbe bello se nessuna delle parti coinvolte in un processo avesse mai contraccolpi psicologici, ma può capitare e chi sceglie di fare il giudice lo mette in conto, sa che arriveranno momenti controversi. È il nostro lavoro: l'indignazione delle vittime è comprensibile, un po' meno l'enfasi strumentale degli avvocati, che lavorano ai fianchi sollevando certi polveroni. E ripeto: anche un assassino può fare pena».
Il killer quindi le faceva pena?
«Ha vagato per un paio di notti, si è lasciato catturare: per certi aspetti sì, faceva pena. Non ha premeditato per giorni il suo raid, non ha infierito con trenta coltellate come mi è capitato di vedere in altre occasioni molto più truculente».
Prima Bologna con l'attenuante della «tempesta emotiva», oggi Genova. Si re-interpretano in chiave più garantista i femminicidi?
«Ma figuriamoci. A parte che, giuro, non conosco il caso di Bologna, ricordiamoci che è doveroso per un magistrato valutare ogni dettaglio a monte d' un crimine. La legge prevede massimi e minimi di pena, altrimenti per un omicidio faremmo sentenze fotocopia: ergastolo o trent' anni, a prescindere dalla storia. Sarebbe più giusto?».
Quest'uomo ha straziato per gelosia una donna disarmata.
«Sì, ma insisto sul fatto che non tutti i casi sono identici: se un automobilista investe una famiglia sulle strisce, in pieno giorno, ubriaco, ha la stessa responsabilità di quello che guidava sobrio, di notte, in una strada senza illuminazione? E guardate che la mia è stata una decisione condivisa».
Cioè?
«Mi sono confrontata con il capo dell'ufficio (Franca Borzone, ndr) e abbiamo convenuto in pieno sull'impostazione e la compensazione attenuanti/aggravanti».
Le era già capitato di finire nel mirino di media e politica?
(Carpanini nel 2012 scontò la condanna a un giornalista accusato di violenza sessuale poiché la vittima, sua ex, lo aveva cercato «in piena notte andando a casa sua»). «Io ricordo solo due casi: l'assoluzione di alcuni 'ndranghetisti, e lì era una sottile questione teorica. E l'assoluzione dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro per i depistaggi sul caso Diaz e il G8. Lo ha manlevato pure la Cassazione. E comunque ogni processo ha una storia a sé».
Giusi Fasano per “il Corriere della Sera” il 14 marzo 2019. «Ho preso una decisione ponderata e l'ho motivata con una sentenza. Si tratta del libero convincimento di un giudice, non c' è niente di cui discutere e men che meno c' è da polemizzare. Ciascuno è libero di dire quel che ritiene, ovviamente, ma di certo io in questa polemica non ci voglio entrare». È sera e la voce di Silvia Carpanini arriva dalla sua casa di Genova, la città dove lavora come presidente aggiunto della sezione Gip.
Le motivazioni della sua sentenza stanno sollevando un polverone, lo sa vero?
«Guardi, non intendo giustificare quello che ho scritto. Basta leggere per capire che siamo dentro i confini del diritto, e per me è questo che conta. Del resto esistono strumenti precisi per esprimere contrarietà a una sentenza: se il pubblico ministero non è d' accordo può impugnarla».
Il ministro Salvini si è detto «senza parole» e dice che «chi ammazza così deve marcire in galera».
«Con tutto il rispetto, Salvini può pensarla come meglio crede. È evidente che io la penso diversamente. La gente è libera di criticare, fare, anche ritenere discutibile la mia decisione, per carità. Ma vale sempre e per tutti il fatto che bisognerebbe conoscere bene i casi prima di criticare...».
Lei ha concesso le attenuanti generiche all'assassino perché la sua è stata una «reazione al comportamento della donna» che lo avrebbe «illuso e disilluso».
«Scusi. Questo signore se n'era andato volontariamente in Ecuador proprio per lasciare spazio alle scelte della moglie. Lei lo fa tornare promettendogli un futuro e lui scopre invece che praticamente c'era l'amante in casa. Tutto nel giro di poche ore. Era un caso in cui non erano mai state contestate né la premeditazione né i futili motivi. Niente può giustificare un omicidio, è chiaro. Ma c' è omicidio e omicidio, c' è dolo e dolo».
Qui di che dolo parliamo?
«Ho ritenuto che si trattasse di dolo d' impeto e ritengo di aver motivato nel dettaglio la mia decisione. Punto. Sto già andando oltre: non è una difesa della mia scelta perché non c' è nulla da difendere. E poi dov' è scritto?».
Cosa?
«Non è scritto da nessuna parte che le attenuanti generiche non si debbano dare per i casi di omicidio. Devono essere date in relazione alle circostanze del reato e io ho semplicemente applicato norme che il codice prevede e l'ho fatto in modo argomentato.
Non tutti gli omicidi prendono 30 anni di pena».
Le attenuanti facevano la differenza per determinare la pena, però.
«È vero. E infatti sono state al centro della discussione».
Quando ha depositato la sentenza?
«Prima di Natale. Stamattina (ieri, ndr) quando mi hanno chiesto di quel caso e mi hanno detto che se ne discuteva sono cascata dalla luna».
Dopo Bologna e l'ormai famosa «tempesta emotiva» una sentenza come la sua non passa inosservata. Lei ha letto del caso bolognese?
«Solo qualche titolo e non intendo commentare».
Si è parlato allora e si parla adesso di ritorno al delitto d' onore.
«Non c' entra assolutamente niente. Comunque: tutta questa polemica non mi sconvolge, non è la prima e non sarà l'ultima. Quel che per me è certo è che un processo non debba essere esemplare».
SE A VIOLENTARE È UNA DONNA NON È STUPRO, scrive Francesco Borgonovo per “la Verità” il 13 marzo 2019. Può darsi che la questione sia vagamente brutale, ma provate a rifletterci un secondo: che cosa sarebbe successo se la professoressa di Prato fosse stata un professore? La vicenda di cronaca è nota. Una donna di 35 anni - sposata e con un figlio di 7 anni - dava ripetizioni a un minorenne. La signora era una «amica di famiglia», ma invece di aiutare il ragazzino a imparare l'inglese aveva rapporti sessuali con lui, lo tempestava di messaggi d' amore e di gelosia. Di più: la relazione sessuale è sfociata in una gravidanza, e infatti la donna è diventata di nuovo mamma di un bambino che ora ha 5 mesi. Il padre, lo ha rivelato l'esame del Dna, è proprio lo studente a cui dava ripetizioni. Un adolescente che aveva 13 anni quando la tresca proibita è iniziata e ora ne ha compiuti 14. I media italiani, da giorni, trattano tutta questa vicenda come una storiella pruriginosa, boccaccesca. Come una curiosità morbosetta tipica della provincia. Sulla trentacinquenne non abbiamo letto editoriali furenti, commenti indignati, tirate moralistiche. Eppure la legge italiana parla chiaro. L' età del consenso è fissata a 14 anni. E già è un limite sorprendente. In altri Paesi, di solito considerati più «liberali», le soglie sono più alte: in Svezia l'età del consenso è 15, in Finlandia, Belgio, Olanda e Gran Bretagna è 16 anni. In Italia, al di sotto dei 14 anni, c' è reato anche se il minorenne è consenziente. Le pene vanno dai 5 ai 10 anni di reclusione. Certo, una eventuale condanna può essere ridotta di due terzi a seconda del rapporto che esiste tra il maggiorenne e il minorenne. Bisogna considerare se sia affettivo a meno, quali siano le condizioni fisiche e psicologiche del minore, quale sia il «grado di coartazione esercitato sulla vittima», eccetera. In ogni caso, parliamo di un reato, e anche piuttosto grave. Una forma di violenza che una donna di 35 anni ha esercitato su un minorenne, che per altro le era stato affidato da amici. Come mai, allora, non siamo sommersi da una pioggia di indignazione? Ripetiamo la domanda: che sarebbe accaduto se un uomo di 35 anni avesse avuto rapporti con una sua allieva tredicenne? Di sicuro avremmo visto fior di trasmissioni televisive sul tema. Avremmo sentito parlare della violenza connaturata al maschio, si sarebbe discusso per l'ennesima volta delle molestie di cui le donne sono vittime. Di sicuro, qualcuno sarebbe giunto a invocare la castrazione chimica. Però, nel caso di Prato, a commettere un reato è stata una donna. E allora tutto diventa meno grave, meno sgradevole, meno sconvolgente. La violenza non è più una violenza, ma una vicenda curiosa, che turba ma nemmeno troppo. Perché, si sa, l'uomo - a qualunque età - è comunque un assatanato, il rapporto gli fa piacere comunque, anche se è minorenne. Se la vittima è un maschio, non è una vittima.
Quando la magistratura è femmina…È tutta questione di… architettura cerebrale, scrive l’11 marzo 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. Questa volta è necessario che vi inviti a visionare più riferimenti ipertestuali, che sono andato a cercare, per verificare che la notizia non fosse falsa. E troverete anche un tono che non mi appartiene, ma devo in qualche modo comunicare tutto il mio sdegno. Non mi sembrava possibile, mentre leggevo. Eppure no, mi sbagliavo. Andate anche voi a vedere. Su Il Giornale, Il Secolo d’Italia, La Repubblica e infine TG Com 24. Quindi, quando viene violentata una donna che sembra un maschio, il suo organo sessuale assume un carattere maschile e plausibile di violenza. In questo caso, è probabile un fraintendimento dei violentatori che, come sappiamo tutti, sono persone cognitivamente responsabili, leali e attenti alle apparenze e alle sensibilità femminili. E questa è la mia prima considerazione. Penso sia anche la Vostra, visto che la notizia appare ovunque, in rete, oltre che nelle testate che Vi ho indicato. La seconda considerazione, conseguente alla prima, riguarda il mio pensiero su come viene valutato il genere sessuale di una donna, in questi casi. In sostanza, se una donna è una virago, i maschi attorno a lei hanno il diritto di provare a violentarla, perché l’apparenza inganna. Come dire che, la violenza verso i maschi apparenti (e che sono in realtà femmine) è permessa. Quindi, cari maschietti violentati da altri maschietti (pratica che accade regolarmente nelle nostre carceri e non solo…) state sereni: nemmeno per voi è stupro, perché, in quanto maschi, potete suscitare desideri sessuali legittimi in chi vi dovesse scambiare per femmine. Il concetto mi sembra questo. Direi, davvero interessante, specialmente quando è proposto al femminile. Attendiamo la fine della vicenda, ovviamente, perché abbiamo tre gradi di giudizio in questa nazione, e abbiamo letto in questi giorni che è possibile uccidere in preda ad una tempesta emotiva. E la mia ultima considerazione è la seguente: stiamo più attenti al livello cognitivo delle persone che prepariamo ad assumere ruoli decisivi nella società italiana, specialmente quando si tratta di coloro che hanno in mano le nostre vite, come avvocati, commercialisti, medici, insegnanti e magistrati. Gli altri possono anche essere “poveri cristi”, andranno in politica, ma queste categorie dovrebbero essere sensibilmente intelligenti.
Quella intelligenza che in genere si accompagna alla vergogna, e quella vergogna che in genere si prova quando si pensa, prima di scrivere, a quello che si scrive.
Islam, la moglie musulmana: "Per il Corano non è stupro, la donna è proprietà". Il video che indigna il mondo, scrive l'11 marzo 2019 Libero Quotidiano. Sta facendo il giro del mondo il video di un’irachena, moglie di un jihadista, che giustifica gli stupri commessi ai danni delle donne yazidi. "Non si tratta di stupro, visto che loro sono di nostra proprietà, per l'Islam sono schiave. Chi sono io per mettere in dubbio il libro sacro?". L’attenuante dunque verrebbe proprio dal Corano, in particolare da alcuni versetti. Peccato però che lei il testo sacro non l’abbia mai letto, come ammette nei minuti successivi del video. Gli yazidi sono considerati dai fondamentalisti islamici degli "adoratori del diavolo" perché le loro pratiche si rifanno ad antichi culti mediorientali. Dunque le loro donne sono state rapite e usate come schiave costrette a soddisfare gli appetiti sessuali degli jihadisti. Follia su follia dunque.
Nonnismo e stalking in caserma, ma il reato non c’è. Il procuratore militare: non ci sono regole chiare per perseguire “le prevaricazioni con finalità sessuali”. Perché i codici sono stati scritti prima che le donne entrassero nelle forze armate. E anche sulle missioni all’estero è il caos legislativo, scrive Gianluca Di Feo l'1 marzo 2019 su La Repubblica. Il nonnismo in caserma? Se ne parla da sempre, ma nessuno si è mai preoccupato di qualificarlo come reato. E nel frattempo è diventato più complesso e insidioso. “Poiché oggi è presente nelle forze armate anche la componente femminile, gli atti di prevaricazione e di violenza che costituiscono il nonnismo spesso si connettono e si associano con una finalità di carattere sessuale”. Il procuratore generale Marco De Paolis non risparmia nessuna delle ombre che riguardano la giustizia militare. Regolamenti dimenticati quando è finita la leva obbligatoria, mentre gli uomini e le donne in divisa si sono trovati ad affrontare realtà sempre più difficili. Bisogna applicare le norme pensate per le reclute indisciplinate ai professionisti che vivono sotto attacco in Afghanistan o alla sfera telematica delle cyberwar. Per questo il procuratore De Paolis scrive nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario che “appare indispensabile disciplinare specificamente le situazioni di mobbing, di stalking e di abusi sessuali all’interno delle forze armate, attraverso una disciplina specifica che tenga conto delle peculiarità di status dei soggetti attivi e passivi e di contesto entro cui i fatti si verificano. Per non parlare poi dei reati informatici, la cui mancata previsione in ambito militare crea non pochi problemi interpretativi”. Il vuoto legislativo nelle forze armate riguarda soprattutto la condizione femminile. “Si ricorderà in proposito – sottolinea il magistrato -, qualche anno fa, la vicenda della caserma Clementi di Ascoli Piceno, ove una indagine della Procura Militare di Roma – scaturita dal noto caso “Parolisi” (l’omicidio della moglie di un sottufficiale istruttore, ndr) - mise in luce sconcertanti episodi di “nonnismo” collegati alla sfera sessuale, di cui erano vittime numerose allieve. In quel contesto, emerse con particolare evidenza la lacuna normativa su queste situazioni; lacuna che – appunto – permane”. In queste trincee senza regole moderne, il fronte più caldo sono le missioni all’estero. Operazioni di pace che comportano azioni di guerra. Nel 2002 quando è partita la prima spedizione in Afghanistan si è frettolosamente messo mano al codice penale militare con alcune modifiche provvisorie. Poi nel 2010 è stata scritta una riforma organica, rimasta però nei cassetti. “In questi anni – evidenzia il procuratore - sono state parecchie le situazioni di incertezza interpretativa sulla competenza sui reati commessi all’estero. Incertezza che non giova non solo (e anzitutto) ai soggetti indagati coinvolti e alla efficacia dell’accertamento giudiziario; ma che – dato il rilevante spessore degli interessi in gioco a livello internazionale - potrebbe anche riflettersi negativamente sull’immagine stessa del Paese”. C’è una difficoltà per i magistrati militari – che sono giudici civili – anche nella gestione delle indagini: bisogna condurre inchieste in prima linea anche Iraq, Libano, Somalia, Niger senza sapere neppure a quale corpo affidarle. Perché non ci sono neanche regole chiare su chi debba investigare oltre frontiera. In tutto, e soprattutto nel caso delle missioni, c’è poi l’ambiguità su chi debba operare: i normali magistrati o quelli militari? In decine e decine di situazioni c’è una duplicazione di procedimenti e processi, con esiti devastanti e una confusione di fondo. Secondo il procuratore il 70 per cento dei reati “militari” finiscono davanti ai tribunali ordinari. “Tutti ricorderanno, ad esempio, il caso dei fucilieri di Marina in India, in ordine a cui il problema della giurisdizione (ordinaria o militare) si pose concretamente; così come si è posto (e si pone attualmente) anche in molti altri rilevanti e delicati casi, conosciuti o non dalla stampa. Sarebbe l’ora di trovare una positiva e definitiva soluzione, sia per i soggetti interessati e sia per i comandanti militari (ufficiali di polizia giudiziaria militare) che operano con difficoltà su queste situazioni all’estero”. C’è un altro aspetto, che sta particolarmente a cuore a De Paolis. Le indagini sui crimini della Seconda Guerra Mondiale. E’ stato lui come pubblico ministero a riaprire “l’armadio della vergogna” dove erano stati sepolti per mezzo secolo i fascicoli sugli eccidi nazisti. Con risultati superiori a ogni aspettativa. Il procuratore ha identificato e rintracciato i responsabili ancora in vita dei massacri compiuti dagli occupanti tedeschi: “Dal 1999 al 2013 è stato possibile celebrare i processi per le più sanguinose stragi naziste di civili e di militari italiani prigionieri di guerra (per tutti: le stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto Monte Sole; gli eccidi di Cefalonia e tante altre). Questi processi hanno prodotto 60 condanne all’ergastolo in primo grado, nessuna delle quali – per vari motivi - è stata eseguita dalla Germania e dall’Austria”. E’ incredibile: un’impunità che ha varcato il millennio, senza nessuna indignazione. Senza nemmeno dare seguito ai mandati di cattura: “Dal gennaio del 2008 ben 31 mandati di arresto europei emessi dai tribunali militari italiani non sono stati eseguiti”. Una copertura totale agli aguzzini che rasero al suolo paesi e uccisero decine di persone inermi. Con una beffa feroce, che nega persino i risarcimenti ai familiari delle vittime “per i quali i tribunali militari italiani, fin dal lontano 2006 sancirono la condanna dello Stato estero – nella specie, la Repubblica Federale di Germania – a risarcire in solido con gli imputati i danni. Dopo il contenzioso internazionale terminato con la pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja del 3 febbraio 2012 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 238/2014, nessun concreto passo in avanti è stato fatto”. Insomma c’è un’altra giustizia che ha bisogno di riforme e di certezze. Per garantire il rispetto della legge, a tutela di tutte le vittime: quelle del presente e quelle del passato.
Consigliare alcune domande rivolte a chi? A chi si ammanta di ideologia nel suo operare?
I minori spesso sono vittime di innumerevoli reati:
a scopo economico: accattonaggio, prostituzione minorile, usati per lo spaccio di droga, espianto dei loro organi umani;
a scopo di soddisfazione sessuale: pedofilia;
A scopo di riti religiosi: satanismo.
Tratto dal saggio d’inchiesta di Antonio Giangrande “Abusopolitania” su Google libri in ebook o “Abusopoli” su Amazon in ebook ed in book: “Per quanto riguarda i crimini più efferati, uno studio del Centro Aurora di Bologna (Centro Nazionale per i bambini scomparsi e sessualmente abusati) ha evidenziato che in Italia dal 2004 al 2007 sono scomparsi 3.399 minori, non ritrovati nel periodo considerato. Lo stesso studio, coadiuvato dalle denunce del Procuratore Nazionale Antimafia, Pier Luigi Vigna, suggerisce che i mercati illeciti principali per questi bambini e ragazzi sono essenzialmente tre:
Pedofilia
Traffico di organi
Satanismo
È indispensabile però mettere in conto il fatto che molto spesso è estremamente difficile sia verificare sia smentire le accuse di pedofilia. Altri autori, quindi, giungono a conclusioni diametralmente opposte. Secondo Fabrizio Tonello: "meno di cento bambini viene rapito ogni anno e quasi nessuno di questi rapimenti ha a che fare con crimini a sfondo sessuale". Anche il grande numero di accuse di pedofilia sarebbe spesso dovuto a isteria collettiva. Sono documentati numerosi casi di falsi abusi su minore che hanno portato a condanne di innocenti o ad assoluzioni solo dopo anni di indagini e processi.” (…) “Gli abusi possono inoltre avvenire all’interno della propria famiglia o al di fuori di questa, essere legati a legami affettivi specifici o al racket della prostituzione minorile o addirittura legati a culti satanici. Possono avere connotazioni omosessuali e non”.
L’attenzione dei deviati si concentra per lo più sui minori non italiani, i quali non hanno qualcuno che li curi e si accorga della loro scomparsa, quindi sempre dallo stesso libro si estrapola il brano: “Nel 2016 in Italia sono scomparsi 27.995 minori stranieri non accompagnati, il 45% in più dell'anno prima. Da soli rappresentano l'80% dei casi di scomparsa verificatisi in Italia. Nel 2016 in Italia sono scomparsi 27.995 minori stranieri non accompagnati. L’anno prima erano 21.881 i minori stranieri arrivati soli in Italia e poi irreperibili: l’aumento sfiora il 45%. I dati sono stati diffusi ieri mattina dal Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, Vittorio Piscitelli, che ha presentato al Viminale la sua relazione semestrale sul fenomeno, relativa al secondo semestre del 2016: il numero delle persone straniere scomparse e da rintracciare nel nostro Paese erano al 31 dicembre 2016 34.891 (+22,81% rispetto al primo semestre).”
Ed ancora. Tratto dal saggio d’inchiesta di Antonio Giangrande “Profugopoli” distribuito sui canali internazionali come sopra: “Africa take away. Cresce il fenomeno in Africa: i migranti sono costretti a vendere i propri reni per saldare il debito quando non possono pagare gli scafisti. Clienti in tutto il mondo (anche italiani) pagano fino a 200mila dollari.”
Quindi la domanda da fare è: che fine hanno fatto i minori che sono sbarcati in tutti questi anni?
Ancona, Bologna Genova: tre sentenze che fanno discutere e il silenzio del Csm. Come purtroppo spesso accade in questo periodo, alla violenza verbale delle polemiche che si sono sviluppate ha fatto riscontro l’estrema superficialità di molti interventi, scrive Astolfo Di Amato il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio. L’incalzare della cronaca ha già sospinto tra le cose passate le tre decisioni di Ancona, di Bologna e di Genova, che hanno riguardato procedimenti penali, conclusisi in modo ritenuto troppo mite per gli imputati, uomini, e che vedevano vittime tre donne. Un processo era per stupro e gli altri due per omicidio. Nel primo la motivazione ha escluso lo stupro anche facendo riferimento all’aspetto fisico della vittima, negli altri due è stata inflitta una pena di 16 anni di reclusione in considerazione della “tempesta emotiva”, che avrebbe segnato la condizione dell’imputato al momento dell’omicidio. Come purtroppo spesso accade in questo periodo, alla violenza verbale delle polemiche che si sono sviluppate ha fatto riscontro la estrema superficialità di molti interventi. Questi possono sostanzialmente essere ricondotti a due fondamentali e contrapposte linee di pensiero: la violenza sulle donne, retaggio di una cultura arcaica ed incivile, merita il massimo della punizione senza se e senza ma; anche nel caso di violenza sulle donne i fatti devono essere accertati con rigore e la pena va graduata in relazione alla gravità di quello specifico fatto. Vi sono, peraltro, due temi che hanno fatto da cornice al dibattito, pur rimanendo sullo sfondo, e che meritano di essere considerati con maggiore attenzione. Il primo riguarda il ruolo del Giudice nella società ed è stato sollevato da una magistrata, Paola Di Nicola. La quale, anche intervistata, ha sottolineato che ciò che il Giudice scrive in una sentenza acquista un valore assoluto, finendo con l’imporre una visione culturale e delineando un potere simbolico, attraverso la consacrazione di un assetto culturale, che rafforza gli stereotipi, rendendoli la regola pronunciata in nome dello stato. Perciò le decisioni che ridimensionano la gravità della violenza sulle donne finiscono con il rafforzare quella cultura e quegli stereotipi, da cui nasce quella violenza. In questa prospettiva, dunque, il Giudice svolge, attraverso le sue decisioni, un ruolo di promozione culturale. Ruolo che, quindi, diventa determinante nel valutare le questioni su cui deve esercitare il proprio magistero. Si tratta, certamente, di un intervento che si segnala per la raffinatezza intellettuale che lo contraddistingue, ma che pone due problemi. Se il ruolo del giudice che viene ipotizzato sia compatibile con l’assetto costituzionale e con la figura di un giudice professionale. Quale sia la cultura, tra le tante, che il giudice avrebbe il potere ed il dovere di portare avanti e se la scelta, piuttosto, non spetti al legislatore. Alla difficoltà di dare a questi due interrogativi una risposta coerente con la tesi esposta, si deve aggiungere una considerazione. La scelta culturale affidata al giudice può mai risolversi in una dissolvenza delle specificità del caso concreto portato alla sua attenzione, nel momento in cui egli fosse chiamato ad enunciare una regola di carattere generale, dal valore simbolico e sempre ciecamente esemplare? E se vittima della violenza nella coppia fosse un uomo con un passato di prevaricazione? Si tratta di dubbi che non possono non riguardare anche una tale posizione rispetto ai processi che hanno ad oggetto la violenza sulle donne. Il secondo argomento che va considerato è il rapporto tra politically correct ed autonomia ed indipendenza della magistratura. Le tre decisioni menzionate hanno scatenato una esecrazione collettiva dei giudici che le hanno emesse, ben più pesante da sostenere delle accuse che talune parti politiche hanno talvolta mosso alle iniziative della magistratura. La diffusa esecrazione è stata tale da togliere ogni sorpresa al fatto che: il ministro di grazia e giustizia abbia disposto l’invio degli ispettori presso uno degli uffici giudiziari interessati (per fare cosa? acquisire la motivazione?); il procuratore generale presso la Corte di Cassazione abbia espresso valutazioni di carattere disciplinare in ordine alla motivazione delle decisioni; il presidente del consiglio abbia censurato le decisioni in modo duro e semplicistico. Di regola, quando le critiche alla decisione di un giudice sconfinano nella aggressione sul piano morale, la magistratura associata ed il Csm reagiscono in modo compatto a tutela della autonomia ed indipendenza della magistratura. In questo caso solo sporadici interventi. Il politically correct è il limite alla autonomia ed indipendenza dei giudici italiani?
Processo per violenza sessuale bloccato: a Belluno non riescono a tradurre il dialetto casertano. Chiamato un "traduttore", ma gli servono 90 giorni di tempo, scrive il 28 febbraio 2019 La Repubblica. Processo fermo: nessuno capisce cosa dice l'imputato. I giudici del Tribunale collegiale di Belluno, dopo quasi tre mesi, non riescono a trovare un “interprete” di casertano stretto. E un processo per violenza sessuale, vittima la compagna dell'imputato, è al palo. L’ "interprete" dovrebbe trascrivere 26 ore di registrazioni di insulti, aggressioni accompagnate da frasi idiomatiche e parolacce, tutte indirizzate dall’imputato, A.C., 37enne casertano, contro la ex compagna. La consulente della Procura ne ha trascritte una parte, ma è di Salerno e ha dovuto abbandonare l'impresa, non riuscendo a sciogliere le espressioni in casertano stretto. In questi giorni però è arrivato al comando dei carabinieri di Belluno un appuntato di Caserta, i giudici sperano in una svolta. Il carabiniere, appena arrivato, è stato portato in aula. Ha giurato di fronte ai giudici e si è preso 90 giorni per tradurre le registrazioni. "Il traduttore salernitano non capisce il casertano... e il processo è da rifare", questo il titolo del Gazzettino, il primo a dare la notizia, con un articolo della cronista di giudiziaria, Olivia Bonetti, che ha ricostruito punto per punto tutto l'iter del processo bloccato.
Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” l'1 marzo 2019. In Italia può succedere così, che se sei di un certo specifico paese, e parli con uno di un posto vicino ma non proprio di quel campanile lì, senti delle frasi e non capisci niente: ti perdi una vocale, finisci in un groviglio di consonati, i suoni non si distinguono più e le parole diventano un gomitolo dopo che c' ha giocato il gatto. Quando càpita al ristorante, di fluttuare su una lingua sconosciuta, il peggio che può accadere è ritrovarti nel piatto una caponata quando pensavi di aver ordinato una parmigiana, ma quando avviene durante un processo non è altrettanto divertente. A Belluno, al confine con l'Austria, al Tribunale collegiale, da tre mesi non riescono a trovare qualcuno che sappia decifrare i suoni del casertano stretto. E un processo nei confronti di un uomo originario di Caserta ma residente a Belluno, per maltrattamenti e violenza sessuale contro la compagna, è paralizzato. All' ombra delle Dolomiti si sono impegnati a cercare un traduttore, e l'hanno pure trovato, una consulente della Procura che però è riuscita a mettere insieme solo qualche frase qua e là, niente di utile per un processo. Perché? È campana, di Salerno, e quei settanta chilometri di distanza che separano la sua città da Caserta valgono quanto gli ottomila per arrivare a Pechino. Il dialetto casertano le è incomprensibile. Il suo lavoro infatti, sarebbe di trascrivere 26 ore di registrazione: insulti, aggressioni verbali, frasi idiomatiche, una badilata di parolacce, tutte vomitate contro la donna vittima di violenze da parte dell'imputato (A.C., 37 anni). Secondo quanto riporta il Gazzettino, però, in fondo al tunnel di questa impasse si è vista finalmente una luce: al comando dei carabinieri di Belluno è appena arrivato un nuovo appuntato, proprio da Caserta. Un giubilo che neanche l'accoglienza a Gesù nella domenica delle palme: il militare è stato immediatamente prelevato e portato in aula perché si mettesse il più presto possibile a svelare il significato di quell' impenetrabile idioma. Il giovane ha quindi giurato di fronte ai giudici e gli sono stati concessi 90 giorni per tradurre, quella giornata di registrazioni. Visto quanti sono i dialetti italiani, ovviamente questa non è la prima volta che si verifica un simile intoppo: nel 2017, il tribunale di Macerata si era messo alla ricerca di un perito per interpretare il dialetto napoletano. C' era in corso un processo per spaccio e nessuno degli imputati, tutti partenopei, conosceva l'italiano. Venne selezionato un avvocato, Andrea di Buono, originario di Napoli: «Indirettamente c' è stato un riconoscimento anche giuridico del Napoletano», disse l'avvocato. Anche letterario: all' università di Barcellona, è da 15 anni che esiste un corso di laurea in lingua partenopea. Ma a Ostia, nel 2015, successe molto peggio: durante un'udienza contro Carmine Spada, cugino dei Casamonica, gli interpreti si dileguarono. Per paura di ritorsioni, nessuno voleva tradurre i dialoghi in lingua romanì del clan Spada. O meglio, i dialoghi captati attraverso intercettazioni, appositamente fatti in lingua, venivano tradotti ma gli interpreti si rifiutavano di presentarsi in aula al momento di dover confermare quanto emergeva dal loro lavoro. Il processo rimase arenato per mesi e il presidente del Tribunale di Roma fu costretto a chiedere aiuto all' allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando. «I colleghi di tutta Italia hanno lo stesso problema», scrisse nell' appello il presidente, «Basterebbe un'estensione della legge riservata ai collaboratori sotto copertura per garantire anonimato a questi interpreti».
· Stupri che non lo erano…
Da quotidiano.net il 9 dicembre 2019. Di una storia spesso esistono due versioni, opposte. E' il caso di un ragazzino di 13 anni con gravi problemi psichici che - stando alla denuncia dell'attrice Maria Grazia Cucinotta - è stato allontanato da casa, insieme a tutta la sua famiglia - i genitori e la sorellina di 8 anni - con un provvedimento del Gip di Messina perché disturbava i vicini. All'Ansa l'attrice ha raccontato il caso e ha fatto appello ai magistrati perché ci ripensino. Peccato che la Procura fornisca una versione del tutto diversa. A tambur battente, i giudici precisano che non è il ragazzino disabile a essere stato allontanato da casa ma i suoi genitori, che sono indagati per stalking nei confronti dei vicini.
La denuncia di Maria Grazia Cucinotta. Stando alla Cucinotta, che da tempo ha preso a cuore la vicenda, "il ragazzino è affetto da Adhd, una grave sindrome psichica. È una storia paradossale". L'attrice sottolinea che: "il provvedimento emesso dal Gip di Messina è stato adottato perché una coppia di vicini, dicendosi esasperata dal comportamento del ragazzo, ha presentato denuncia". Addirittura, ricostruisce ancora l'attrice, "Il giudice ha deciso di applicare il braccialetto elettronico ai genitori del giovane, per dissuaderli dall'avvicinarsi all'abitazione". La misura cautelare nei confronti dei genitori del ragazzo disabile è stata disposta dal Gip circa una settimana fa. La famiglia, attraverso l'avvocato Nino Favazzo, ha presentato ricorso al Tribunale della libertà che ha fissato l'udienza per il prossimo lunedì. "Disponendo l'allontanamento dei genitori per un raggio di 500 metri dal condominio - spiega l'avvocato Favazzo - di fatto si impedisce alla famiglia di occupare l'appartamento", che si trova in un palazzetto di quattro piani, tutti abitati. "La Procura - conclude il legale - ha chiesto la custodia cautelare in carcere per i genitori del disabile, il Gip ha deciso per l'allontanamento".
La Procura: genitori indagati per stalking. "Nessun provvedimento di allontanamento è stato disposto nei confronti di soggetti minori di età. Il gip di Messina ha emesso un provvedimento di divieto di avvicinamento a carico di una coppia perché gravemente indiziata del reato di stalking nei confronti di alcuni vicini di casa". E' quanto si legge in una nota della procura di Messina che smentisce che il provvedimento di allontanamento da casa disposto nei confronti di due messinesi, genitori di un bambino disabile, sia dipeso dalla malattia del minore. "Nessun riferimento riguardava presunte disabilità del minorenne figlio della coppia indagata - prosegue la nota - Le condotte persecutorie consistite in insulti, pedinamenti, lanci di oggetti, frapposizione di ostacoli che impedivano l'accesso a casa delle vittime, sono imputate solo ai genitori e sono state ritenute gravi perché ripetute nel tempo in modo ossessivo".
Che cos'è l'Adhd. Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività o Adhd (dall'inglese attention deficit hyperactivity disorder), è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da problematiche nel mantenere l'attenzione, eccessiva attività e/o difficoltà nel controllare il proprio comportamento (impulsività) che non appare adeguato all'età della persona. I sintomi appaiono in genere prima dei 12 anni, durano almeno 6 mesi e causano problemi in almeno due contesti (ad esempio a casa, a scuola, al lavoro, negli hobby eccetera). Sulla base dei criteri del manuale diagnostico DSM-5 si possono distinguere tre manifestazioni di Ashd: con disattenzione predominante, con iperattività/impulsività predominanti e Adhd combinato. Il deficit di attenzione può quindi presentarsi in tre forme distinte che spesso hanno caratteristiche anche molto diverse tra loro. Ad esempio in chi presenta la variante con predominanza di disattenzione che ha pochi sintomi, o nessuno, di iperattività, irrequietezza e impulsività, l'Adhd potrebbe anche non notarsi. È possibile che col passare degli anni la diagnosi evolva e passi da una manifestazione all'altra. Inoltre almeno la metà delle persone con Adhd in età infantile e adolescenziale continua a soffrirne in età adulta: il 2-5% degli adulti presenta tale condizione. I bambini che presentano un Adhd con caratteristiche di iperattività tendono a mostrare sintomi meno marcati, ad esempio irrequietezza interna, tensione, nervosismo, durante l’adolescenza e l’età adulta o a non mostrare più questi sintomi continuando però spesso ad avere sintomi inattentivi e/o di impulsività.
LA “MANO MORTA” È VIOLENZA SESSUALE. Da lastampa.it il 25 ottobre 2019. Confermata la condanna per un uomo che ha molestato una signora, toccandole il fondoschiena. Per i Giudici non vi sono dubbi sulla lettura dell’episodio: il palpeggiamento è stato invasivo dell’intimità della donna. Scatta la condanna. La "mano morta" sul fondoschiena di una donna vale una condanna per violenza sessuale. A ribadirlo in modo chiaro è la Cassazione, sottolineando la gravità del comportamento tenuto da un uomo che ha pensato bene di ‘approcciare’ in modo per nulla elegante una signora, che dal canto suo, una volta subito il palpeggiamento, ha reagito con vigore – «gliene ho dette di tutti i colori», ha raccontato – e ha poi sporto denuncia (Cassazione sez. III Penale, sentenza n. 38606/2019).
Contatto. Decisiva la ricostruzione dell’episodio. Fondamentale il racconto della vittima, la quale ha spiegato che l’uomo sotto processo «le ha messo una mano sul fondoschiena». Nessun dubbio, quindi, sulla gravità del comportamento in discussione, poiché, osservano i Giudici, «il toccamento di quella specifica zona erogena è stato improvviso ed inaspettato, invasivo dell’intimità della donna e animato da chiari impulsi sessuali» percepiti dalla vittima che «protestò energicamente (“gliene ho dette di tutti i colori”)» con l’uomo. Evidente, quindi, la consumazione del reato di «violenza sessuale», spiegano i giudici della Cassazione, poiché, come detto, «vi fu lascivo contatto con la zona erogena del fondoschiena della donna». Tale dato è decisivo, poiché «è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata o che la vittima sia riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che quest’ultimo consegua» o meno «la soddisfazione erotica». Tirando le somme, anche il palpeggiamento del sedere è catalogabile come «violenza sessuale», poiché «l’elemento della violenza può estrinsecarsi anche nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi».
Milano, accusato di stupro passa un anno in carcere. Ma al processo la donna ritratta tutto: assolto. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. Ha passato più di un anno in carcere accusato di violenza sessuale e giovedì, dopo un colpo di scena con la presunta vittima che è crollata in aula dicendo di non essere mai stata stuprata, è stato assolto dalla quinta sezione penale di Milano e scarcerato. Protagonista della vicenda un peruviano di 30 anni per il quale la procura aveva chiesto una condanna a 7 anni di reclusione.
L’uomo era finito in carcere nell’indagine del pm Monia Di Marco il 17 ottobre del 2018, accusato di stupro di gruppo (la posizione di un altro peruviano è stata stralciata perché mai trovato) nei confronti di una connazionale 40enne che aveva sporto denuncia: nella sua versione la violenza era avvenuta 10 giorni prima in un parco in zona Lorenteggio, a Milano. L’uomo è rimasto in carcere durante le indagini e il processo. I giudici, poiché il quadro dell’accusa non era chiaro e su richiesta della difesa, hanno convocato, dopo la requisitoria e l’arringa, una donna mai sentita nell’inchiesta e che era presente quella sera al parco, molto frequentato dalla comunità peruviana. E proprio quella testimone ha raccontato tutt’altra storia, la stessa versione, tra l’altro, da sempre ribadita dall’imputato, già dopo l’arresto, e dai testimoni della difesa. Dalla nuova testimonianza è arrivato, dunque, il colpo di scena in aula: quella sera non c’era stata alcuna violenza, ma solo una rissa tra la presunta vittima, l’imputato e un’altra donna per contrasti precedenti. Davanti ai giudici, poi, è stata chiamata, sempre giovedì, sul banco dei testimoni anche la presunta vittima dello stupro che alla fine è crollata e, dopo una serie di domande del presidente del collegio Ambrogio Moccia, ha dovuto ritrattare, negando di essere stata violentata. I giudici, sulla base dei nuovi sviluppi nel dibattimento, hanno assolto l’imputato, disponendo l’immediata scarcerazione. Secondo la ricostruzione della difesa, che aveva prodotto anche alcune chat tra imputato e presunta vittima, i due erano amici in passato e poi lui l’aveva denunciata per un’aggressione che avrebbe subito da lei e da alcuni amici della donna. E proprio questa denuncia sarebbe stato il motivo della rissa al parco, poi trasformata dalla peruviana in una denuncia per violenza sessuale e, in più, anche della rapina della sua borsa.
Milano, un anno in carcere per stupro ma la vittima si era inventata tutto: peruviano assolto. Il 30enne stava per essere condannato a sette anni, quando il giudice ha voluto ascoltare un'altra testimone e la presunta vittima, che è crollata in aula e ha ammesso che la sua versione era fasulla. Lavinia Greci, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. Prima è stato accusato di violenza sessuale, poi ha passato oltre un anno all'interno di un penitenziario. Ma ieri, al tribunale di Milano la presunta vittima, ascoltata nuovamente dai giudici, durante l'interrogatorio in aula, alla fine, ha detto la verità: lì ha amesso che quello che aveva denunciato, semplicemente, non era vero e ha confermato di non essere mai stata stuprata. Al centro della vicenda c'è un uomo di 30 anni di origini peruviane che, in queste ore, è stato assolto dalla quinta sezione penale del capoluogo lombardo ed è stato scarcerato.
La (finta) denuncia. Secondo quanto riportato da Tgcom24, la donna aveva architettato una vendetta nei confronti dell'uomo, finito in carcere nell'indagine condotta dal pubblico ministero Monia Di Marco, che aveva emesso un'ordinanza di custodia cautelare il 17 ottobre 2018. In base alle prime ricostruzioni, il 30enne era stato accusato di stupro di gruppo (insieme a un altro connazionale, la cui posizione è stata stralciata perché non è mai stato trovato) ai danni di una connazionale di 40 anni che aveva denunciato il fatto. La donna, infatti, alle forze dell'ordine aveva detto che la violenza sessuale si era consumata dieci giorni prima in un parco in zona Lorenteggio, a Milano.
L'uomo in carcere. Così il 30enne era rimasto in carcere durante tutto il periodo delle indagini e il processo, che poi è arrivato alle conclusioni con le richieste delle parti e con la Procura che aveva chiesto per lui una condanna a sette anni. I giudici, però, poiché la dinamica del racconto e della vicenda non era parsa del tutto chiara, anche su richiesta della difesa dell'uomo, hanno deciso di convocoare, dopo la requisitoria e l'arringa, una donna mai sentita nell'inchiesta ma che, però, si trovava nel parco della presunta aggressione.
La testionianza fondamentale. La testimone, ascoltata in sede processuale, ha dichiarato una versione completamente diversa rispetto a quella della 40enne, la stessa che il 30enne ha sempre ribadito dopo il fermo. Da quella deposizione è stata ribaltata la versione: quella sera non ci sarebbe stato nessuno stupro ma solo una rissa tra la presunta vittima, l'imputato e un'altra donna, probabilmente per contrasti precedenti.
Il piano della presunta vittima. Così la 40enne, rispondendo alle domande del presidente del collegio, Ambrogio Moccia, ha dovuto confermare la nuova versione e ha ritrattato il suo racconto, negando la violenza sessuale. Le parti, quindi, hanno di nuovo preso la parola per le replice e la Procura ha ribadito la richiesta di condanna per il peruviano. I giudici, invece, sulla base dei nuovi sviluppi della vicenda hanno assolto il 30enne. Secondo la ricostruzione della difesa, che aveva prodotto anche alcune chat tra imputato e presunta vittima, i due erano amici in passato fino a quando il 30enne l'aveva denunciata per un'aggressione. Alla base della vendetta della 40enne ci sarebbe stato questo.
Joel, un anno in carcere da innocente: «Ho perso tutto, il lavoro e mio figlio». Valentina Stella il 3 Novembre 2019 su Il Dubbio. Arrestato per violenza sessuale e rapina, resta in cella per dodici mesi, poi al processo: la donna che lo ha accusato ritratta. Joel è un ragazzo peruviano di trent’anni; ne aveva undici quando è arrivato in Italia per costruirsi una vita migliore. Ma un anno fa il destino lo mette duramente alla prova: viene arrestato per violenza sessuale e rapina. Resta in cella per dodici mesi nel carcere milanese di San Vittore. Poi il colpo di scena al processo: la donna che lo ha accusato ritratta. ‘ Mi sono inventata tutto’ dirà, e per Joel sarà di nuovo libertà. Ma quanto gli è costato tutto questo? Ha deciso di raccontarlo in esclusiva al Dubbio a pochi giorni dalla sentenza di assoluzione. Nel racconto ci accompagna anche il suo legale di fiducia, l’avvocato Paolo Pappalardo. Partiamo dai fatti: il 9 ottobre 2018 una donna peruviana di circa quarant’anni si presenta in un commissariato milanese per esporre denuncia per stupro e rapina. Racconterà di essere stata violata nelle parti intime, presa a pugni e calci e derubata della borsa in un parco del capoluogo milanese. Ad aggredirla sarebbero stati due semisconosciuti per lei, ossia Joel e un suo amico. A condurre le indagini il pm Monia Di Marco che con ordinanza di custodia cautelare del 17 ottobre porta in carcere Joel accusato di stupro di gruppo ( la posizione di un altro peruviano è stata stralciata perché mai trovato). ‘ Quando sono entrato in carcere per la prima volta ero incredulo, non capivo cosa stesse succedendo. Io sapevo di essere innocente ma nessuno mi credeva. Col passare dei giorni ha preso il sopravvento un forte pessimismo per la mia sorte. A sostenermi c’era però il mio avvocato ma per me era tutto assurdo, mi vedevo come al mattatoio circondato da altri detenuti sofferenti per la loro situazione. Oggi giorno lì pensi che la tua vita sia finita’. E una vita serena Joel l’aveva prima di quel tragico episodio: "avevo un lavoro da quasi dieci anni e l’ho perso; quando sono entrato in carcere mio figlio aveva pochi mesi, ora ha oltre un anno e io non ho potuto vivere le fasi della sua prima crescita. Ho perso anche la sua custodia. Mia madre e i mie fratelli erano da poco venuti in Italia e dipendevano da me. L’ultima legnata è stata persino la perdita del miei documenti per il soggiorno". Ma Joel non si è perso d’animo e in carcere, pur stando nel reparto dei protetti essendo accusato di un crimine a sfondo sessuale, si è dato da fare: "lì dentro o ti riempi di pasticche per dormire per evitare gli attacchi di panico o cerchi qualcosa per far passare il tempo, per voler bene al posto in cui ti trovi; io ho imparato a cucinare, cosa che prima non mi piaceva affatto, e ho lavorato in biblioteca". Intanto le investigazioni si concludono e ci sia avvia al processo come ci racconta l’avvocato Pappalardo: "durante le indagini preliminari e nell’interrogatorio di convalida abbiamo portato a conoscenza della Procura fatti che almeno avrebbero potuto mettere in dubbio la versione della querelante, come una passata denuncia fatta dal mio assistito nei confronti della donna per tentato omicidio, precedenti conversazioni su Facebook tra i due proprio su questo, e l’impossibilità della presenza del co-indagato in Italia la notte dell’aggressione perché espulso già due anni fa, come confermato da sua madre. Purtroppo nulla è stato preso in considerazione e il mio assistito è finito in carcere e tutte le istanze di revoca del carcere sono state rigettate". Durante la fase dibattimentale la versione della donna comincia a vacillare, grazie proprio alla prove documentali presentate dalla difesa. Poi il colpo di scena. Siccome il quadro di quanto accaduto non era chiaro, il presidente del collegio, il giudice Ambrogio Moccia, chiama, anche su richiesta della difesa, a testimoniare l’amica della querelante che era con lei quella notte al parco e che stranamente non era stata inserita nella lista dei testimoni della presunta vittima. E proprio quella testimone ha raccontato tutta un’altra storia, ossia la stessa versione da sempre ribadita dall’imputato, già dopo l’arresto, e dai testi della difesa. Davanti ai giudici, poi, è stata chiamata di nuovo la presunta vittima dello stupro che alla fine è crollata a seguito delle domande insistenti del presidente Moccia, che ha messo in evidenza le contraddizioni del suo racconto. Alla fine la donna ha ritrattato tutto. Dalla nuova testimonianza è emersa dunque la verità su quella notte: la donna è sì stata aggredita in quel parco ma non dai due uomini, bensì da un’altra donna, per contrasti precedenti. Le parti in aula hanno preso di nuovo la parola per le repliche ma altro colpo di scena la Procura ( non c’era il pm titolare del fascicolo) ribadisce la richiesta di condanna per il peruviano. I giudici, invece, sulla base dei nuovi sviluppi nel dibattimento, hanno assolto Joel, disponendone l’immediata scarcerazione. "In quel momento ho pianto – ci racconta Joel – e ho pensato subito a cosa avrei fatto appena uscito. In realtà ancora adesso mi sento spaesato, svuotato. Mi viene voglia di stare a casa da solo, mi è rimasta addosso la sensazione di chiuso della cella. La cosa certa è che dovrò trovare un nuovo lavoro ma qui in Italia, la mia vita è sempre qui, nonostante quanto mi sia successo". L’avvocato ci spiega quali saranno i prossimi passi: "siamo in attesa delle motivazioni. Il pm nella propria richiesta ha determinato anche la trasmissione degli atti alla Procura per falsa testimonianza della accusatrice. Valuteremo se procedere con una denuncia di calunnia nei suoi confronti. Ma sicuramente intraprenderemo la strada per il risarcimento per ingiusta detenzione. E poi dovremmo far riavere la custodia del figlio a Joel e rifare i suoi documenti". In ultimo chiediamo all’avvocato se non abbia percepito un pregiudizio nei confronti dell’indagato, considerato il clima che stiamo vivendo in questo momento, quello per cui la donna è sempre vittima e la sua parola non va messa in discussione? "Credo che ci sia stato del pregiudizio nel modo di trattare la vicenda da parte degli inquirenti. È stata data subito piena credibilità alla donna, mentre al mio assistito non è mai stato concesso il beneficio del dubbio, nonostante la prova documentale da noi fornita. Si sarebbero dovute approfondire le indagini e invece nulla è stato fatto". Joel ci saluta rivolgendo un pensiero al giudice Moccia: "voglio ringraziarlo per quello che ha fatto, avevo fede in lui perché il mio avvocato mi aveva detto che è una persona molto scrupolosa e intuitiva. Ero nella sue mani e mi ha salvato. Tutti mi avevano già condannato ma lui ha sollevato il dubbio". Questa storia ci ricorda qualcosa, se per un momento abbiamo smarrito la via del dubbio appunto e del buon senso: in questo momento in carcere ci sono circa 10000 detenuti in attesa di primo giudizio, molti di loro, forse la maggioranza, saranno poi assolti. Non è vero dunque, come la vulgata pensa, che se vai in carcere sei per forza colpevole. E non è vero che la vittima donna ha sempre ragione mentre l’accusato uomo è sempre un predatore.
Filippo Facci per ''Libero Quotidiano'' il 26 ottobre 2019. La sintesi è questa: lui è stato in galera per oltre un anno con l' accusa di stupro, per rinchiuderlo era bastata l' accusa di una connazionale peruviana che si era inventata tutto, il pubblico ministero aveva chiesto sette anni di carcere e aveva indagato così bene che l' interrogatorio alla testimone chiave (mai sentita dall' accusa) ha dovuto farlo in extremis il giudice del dibattimento, che poi ha anche interrogato la connazionale peruviana (la vittima) che infine ha confessato, e ha detto: mi sono inventata tutto; notare che il pubblico ministero che aveva chiesto la condanna, nel giorno in cui la falsa vittima è crollata e ha confessato, non era neppure presente in aula e si era fatta sostituire, dopodiché la sostituta, forse imbarazzata, ha chiesto ugualmente una condanna a sette anni nonostante la confessione. Risultato: lui assolto e scarcerato, questo grazie al giudice e nonostante il pubblico ministero. Morale: noi gli pagheremo l' ingiusta detenzione, il giudice ha fatto le verifiche che doveva fare il pm, il pm non si capisce che cosa abbia fatto se non incarcerare un innocente in base alla sola parola di una mitomane, e chiedere poi, indirettamente, che fosse condannato anche dopo che era stata dimostrata la sua innocenza. Dopodiché facciamo i nomi dei giudici, anche se in genere tendiamo a evitarli per non sovraesporre una professione sin troppo delicata che corrisponde al giudicare, disporre della libertà personale altrui, rubare un anno di vita che non tornerà, marchiare per sempre la vita di una persona. il nome Il pubblico ministero si chiama Monia Di Marco, che in passato - unica notizia trovata in rete - aveva firmato un appello in difesa di Laura Boldrini in cui esprimeva «profonda indignazione e grande preoccupazione per le offese volgari e sessiste ricevute da donne che rivestono cariche istituzionali anche di massima importanza». Siamo certi che questo pm saprà fornire delle spiegazioni - che ovviamente non è tenuta a fornire - senza le quali il suo comportamento parrebbe inspiegabile. Il giudice invece ha una certa esperienza e si chiama Ambrogio Moccia: se non fosse stato per lui la vita di un uomo sarebbe stata sequestrata per sette anni con un marchio infamante. Ma raccontiamola da capo: magari l' abbiamo capita male. Nell' ottobre 2018 una peruviana di 40 anni sporge denuncia e racconta che una decina di giorni prima era stata violentata in un parco della zona Lorenteggio dove spesso si riuniscono gruppi di peruviani; il pubblico ministero manda ad arrestare l' uomo il 17 ottobre del 2018 con l' accusa di stupro di gruppo: ma la posizione di un altro peruviano sarà stralciata perché non sarà mai trovato. Non sappiamo quali indagini (e di che qualità) siano state fatte nel frattempo, sta di fatto che l' uomo viene lasciato in carcere per tutto il tempo e anche per tutta la durata del processo. La difesa nega tutto, spiega che la presunta vittima e il presunto stupratore si conoscevano bene e produce anche alcune chat tra i due, ma poi lui aveva denunciato lei per un' aggressione e da questa denuncia era scaturita una rissa tra lui, lei e alcuni amici di lei. Dopodiché era spuntata la denuncia della peruviana per violenza sessuale e, di passaggio, furto della sua borsa. Ripetiamo: non conosciamo molti dettagli, sta di fatto che il processo giunge alla requisitoria dell' accusa e all' arringa della difesa (con lui dentro) ma il quadro generale non sembra chiaro per niente: ed è qui che i giudici (Moccia-Messina-Papagno) su richiesta della difesa decidono di convocare una testimone che era presente quella sera al parco e che tuttavia l' accusa non aveva neppure mai convocato. Morale: la testimone racconta tutta un' altra storia che combacia con la versione che l' accusato aveva dato subito dopo l' arresto: ma quale stupro, c' era stata solo una mezza rissa tra lui, lei e un' altra donna per via di alcune storie vecchie. Colpo di scena, destinato ad accrescersi più tardi, quando viene chiamata sul banco dei testimoni anche la presunta vittima dello stupro: la quale, in aula - non sottoposta, cioè, a particolare pressione - crolla e confessa dopo una serie di domande del presidente del collegio, Ambrogio Moccia. La vittima non è una vittima e ammette di non esser mai stata violentata. A questo punto le parti richiedono la parola per le repliche, ma la Procura (non la pm Monia Di Marco, che non c' era) chiede lo stesso la condanna a sette anni. No comment. I giudici assolvono l' imputato disponendo che sia scarcerato subito. Amici come prima, fine della storia. Anzi no. Qualcuno ci spieghi, per favore. La pm Monia Di Marco ci spieghi.
L'orrore di Mirandola cosa ci insegna. Oggi come allora la cronaca racconta di bambini che vivono nella violenza. Dove i servizi sociali falliscono. Maurizio Belpietro il 17 giugno 2019 su Panorama. Ero da poco diventato direttore del Giornale quando Stefano Zurlo, un giovane collega che avevo contribuito ad assumere e che avevo strappato a un probabile licenziamento da una rivista di cucina, mi portò la storia di intere famiglie accusate di riti satanici e di violenze su decine di minori. La vicenda appariva incredibile, anche perché nei fatti erano coinvolti mamme, papà, insegnanti e perfino un prete. Tutti pedofili, tutti cultori di riti esoterici che si celebravano di notte nei cimiteri dell’Emilia, tra Massa Finalese e Mirandola, una Bassa padana dove secondo le accuse si compivano sacrifici umani a cui i bambini erano costretti ad assistere. Confesso che sin da subito a me sembrò un brutto horror, scritto da improbabili sceneggiatori. I fatti erano talmente assurdi da risultare ben poco credibili. Ma che io - e soprattutto Zurlo - giudicassimo inverosimili i racconti, poco importava. Una pletora di assistenti sociali e magistrati li reputava assolutamente certi. Così diversi genitori finirono in carcere e i loro figli furono prima affidati a una comunità di recupero e poi ad altri papà e mamme. In tutto, a essere strappati alla loro famiglia naturale, furono 16 bambini. Una madre si suicidò gettandosi dal quinto piano, due morirono in carcere, mentre un indagato fu colpito da infarto dopo la sentenza di condanna. Il prete, don Giorgio Govoni, invece morì di crepacuore prima di essere assolto. Una delle donne indagate, essendo incinta, fuggì all’estero, cercando di sottrarsi a una Giustizia che le voleva strappare il figlio che avrebbe avuto. Ricordo ancora la straziante intervista che concesse a Zurlo, il quale la raggiunse nel luogo in cui aveva trovato rifugio. A essere state accusate furono tutte famiglie cattoliche, profondamente religiose, e forse proprio per questo finirono nel mirino dei custodi della morale e delle regole. E nonostante non avessero nulla da nascondere e men che meno reati di cui vergognarsi, come da subito si poteva comprendere, nessuno - tranne un parlamentare dell’Udc, Carlo Giovanardi - si prese la briga di difenderle. Anzi, furono messe al bando, condannate alla vergogna e alla fuga, con addosso il marchio infamante della pedofilia. Ormai sono passati anni da quella storia e dopo che intere famiglie sono state distrutte, dopo che troppe vite sono state cancellate, è arrivata l’assoluzione e di recente l’inchiesta di un giornalista di Repubblica che ha messo insieme le testimonianze. Vite rovinate da un gigantesco errore giudiziario, anzi da un veleno (è questo il titolo del volume-inchiesta) che ha corroso e intossicato la vita di una piccola comunità, strappando i figli ai loro genitori: un danno e una violenza che mai nessuna sentenza potrà annullare.
Se vi ho raccontato la vicenda capitata vent’anni fa tra Finale e Mirandola non è però per rievocare fatti del passato, ma solo per pormi un interrogativo. Spesso capita di leggere di bambini sottratti ai genitori perché maltrattati e dunque mandati in altre famiglie per essere aiutati e amati. Naturalmente è giusto che lo Stato intervenga a tutela dei minori. A questo servono i servizi sociali: a proteggere le persone in difficoltà, in particolare i bambini. E però, mentre sono potuti accadere fatti come quelli che ho appena descritto, ossia figli strappati ingiustamente ai propri genitori, c’è una strage silenziosa di cui ci accorgiamo solo davanti ai piccoli cadaveri. A pagina 48 di Panorama troverete un’inchiesta di Maurizio Tortorella dedicata a cuccioli che non ci sono più. Seviziati, massacrati a pugni e calci, strangolati perché disturbano i genitori quando questi dormono oppure fanno sesso. A ucciderli spesso è il padre, con la complicità della madre. I loro nomi, le loro storie, i loro volti sorridenti mi hanno colpito: uccisi a due anni da un papà strafatto di droga e da una mamma che assiste indifferente alla tortura. Ecco, guardando le immagini che corredano l’articolo mi sono chiesto: ma l’esercito di assistenti sociali che dava la caccia ai pedofili in Emilia dov’è? Siamo riusciti a strappare i figli a genitori innocenti, rovinando famiglie per bene, e non riusciamo a difendere bambini di due anni da questo orrore? Gli assassini sono tutti borderline, vivono di espedienti e di violenza, in famiglie sfasciate e rabberciate, anime alla deriva che però, siccome non vanno in chiesa e non appartengono ad alcuna comunità, nessuno ferma. Così sono state lasciate libere di picchiare a morte bimbi che avevano la sola colpa di richiedere attenzione. Ecco, per quelle piccole vittime ho tanta pietà. Ma ho pietà anche per una Giustizia che arresta chi non ha colpa, senza poi riuscire a fermare la strage degli innocenti. Possibile che nessuno abbia mai visto i volti tumefatti, le ferite, i capelli strappati di quei bambini prima che finissero sul tavolo del medico legale. Ecco, la storia di Mirandola e quella che raccontiamo delle vittime di violenza, sono due facce delle stessa medaglia. Due facce dello stesso fallimento.
Coppia assolta dopo 14 anni dall’accusa di stupro della figlia. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 da Stefania Moretti su Corriere.it. Ha aspettato per quasi 14 anni il giorno in cui qualcuno le dicesse: «Non è vero che hai violentato tua figlia». Quel giorno è stato l’11 giugno 2019: assolti perché il fatto non sussiste, lei e l’ex compagno. Dall’accusa infamante di aver abusato di una bimba che, nel 2006, aveva solo 6 anni. Anna, 47enne viterbese, è frastornata. Non è il suo vero nome: chiede l’anonimato per proteggere la figlia da un’identificazione anche indiretta. «Dopo 13 anni e mezzo è ora di chiudere questa storia per sempre - dice -. Ce la vogliamo lasciare tutti alle spalle». Dall’11 giugno è un po’ più facile: la Corte d’Appello di Roma ha scagionato lei e l’ex ribaltando completamente la sentenza di primo grado che li condannava a 5 anni per violenza sessuale su minore. La bambina, oggi 19enne, è figlia di Anna; per l’ex era come se lo fosse. «Lo chiamava papà, vivevamo insieme da quando lei era molto piccola e abbiamo continuato a farlo, finché la nostra vita non è cambiata per sempre». La storia di Anna è fatta di date che non si cancellano; quella da cui inizia il calvario è il 28 gennaio 2006: i carabinieri bussano alla porta, è sera, lei sta preparando la cena. «Ho lasciato tutto com’era: la cipolla sulla padella, la tavola apparecchiata, io in pigiama. Ci hanno detto di seguirli in caserma senza spiegarci. Ho chiesto di aspettare che mia madre venisse a prendere la bambina: «No no, anche lei viene con noi». E così ci hanno arrestato in tre: io, il mio compagno e mia figlia. Che non piangeva nemmeno: ci guardava e non capiva». Da un momento all’altro non l’hanno più vista: i grandi in stanze separate a formalizzare l’arresto; la piccola in un’altra ala della caserma, poi al pronto soccorso, poi in casa famiglia, poi affidata alla nonna, ma col divieto di vedere madre e patrigno. Un distacco durato tre anni. «La cosa più brutta non è stata il carcere: ho fatto 37 giorni in isolamento tra Civitavecchia e Rebibbia, incidevo piccole tacche sul muro per contare i giorni e le ore. Poi ci sono stati gli 11 mesi ai domiciliari. Ma nulla mi è pesato come perdere tre anni con mia figlia: l’avevo lasciata a 6 anni, l’ho ripresa a 9. Non è stato facile recuperare, anche se eravamo felici di esserci ritrovate. Ci hanno distrutto un pezzo di vita che non ritorna». Sospesi tutti gli incontri con la bambina, non potevano vederla neanche con gli assistenti sociali. «Dovevo telefonare a mia madre per sapere dove sarebbero andate durante la giornata e capire quali luoghi dovevo evitare. Se avessi incrociato per caso mia figlia avrei avuto l’istinto di correrle incontro, invece dovevo scappare. E se lei mi avesse vista? Come glielo spieghi a una bambina che sua madre deve starle lontana?».
La grande accusatrice era la badante di una vicina di casa: sente la bambina piangere dalla camera da letto della coppia, i genitori che la inseguono, lei che si lamenta e «frasi inequivocabilmente significative», scrivono i giudici di primo grado, che fanno pensare ad abusi sessuali. Quindi sporge denuncia. In casa della coppia vengono piazzate microspie: «L’operatore - si legge negli atti – registrava solo le immagini che riteneva importanti, facendo partire e stoppare con un click la registrazione». Per il tribunale di Viterbo la prova è nella denuncia della vicina di casa e in alcune immagini, tratte dalle intercettazioni ambientali: fotogrammi con l’imputato seminudo prima di andare a fare la doccia, la bambina sul letto, lui che la prende per le gambe e sembra divaricarle. Sarebbe bastato poco per fare chiarezza, protestano gli avvocati Claudia Polacchi, Giuliano Migliorati e Alessandro Vitale nel loro ricorso in appello: «Se solo il tribunale avesse acconsentito alla richiesta, più volte reiterata, di visionare il filmato nella sua interezza avrebbe potuto (e dovuto) vedere che l’imputato si limitava a spingere la bambina per i piedi per farle fare capriole all’indietro. Il tutto per una frazione di secondo». Quando, in caserma, le parlano di pedofilia e violenza sessuale su minore, Anna perde il controllo. La figlia, intanto, viene visitata dai medici: non un segno, non una ferita. Mentre su quella sentenza di primo grado, che gli avvocati definiscono una «caccia alle streghe», si arriva perfino a negare che la piccola abbia fatto una visita ginecologica. Ascoltata in incidente probatorio, la bambina non parlerà mai di violenze sessuali. Per lo psicologo Ugo Sabatello l’abuso è stato «istituzionale»: nel senso che la bambina, all’epoca depressa, soffriva per l’allontanamento dai genitori. Tredici anni e mezzo dopo la figlia di Anna è cresciuta: è vicina al diploma e vive con la mamma. Anna e il compagno si sono lasciati. Tante cose sono cambiate: «Mia madre, la nonna a cui mia figlia era stata affidata, si è ammalata di tumore ed è morta. Non ha potuto assistere alla mia assoluzione, né vedere la fine di questo incubo». Non è detto sia l’ultimo atto: la procura generale della Corte d’appello può impugnare la sentenza in Cassazione. «Siamo fiduciosi – dice l’avvocato Polacchi -: la Corte conosce perfettamente il fascicolo e questo ci fa sperare che le motivazioni di questa sentenza coraggiosa, di assoluzione piena, saranno dettagliate e precise. Noi siamo stati convinti fin dall’inizio della loro innocenza: pensavamo non si sarebbe mai arrivati a una condanna, neppure in primo grado. La vicenda di Anna e del suo ex fa riflettere: nella loro situazione potrebbe trovarsi chiunque». Dopo la sentenza le lacrime di gioia, di Anna e degli avvocati. «La prima cosa che ho fatto è stata chiamare mia figlia, che era come sollevata di potersi liberare di una scocciatura: «Oh! - mi ha detto con un sospiro - finalmente ricominciamo!».
False accuse di molestie: condannata la paladina del MeToo francese. La fondatrice del MeToo d’Oltralpe, pur contestando la sentenza, ha assicurato che la sua battaglia a difesa delle donne abusate andrà avanti. Gerry Freda, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. Sandra Muller, paladina del MeToo francese, è stata di recente condannata in patria per avere diffamato l’imprenditore televisivo Eric Brion, da lei falsamente accusato di molestie. Un tribunale di Parigi, riporta il quotidiano britannico The Daily Telegraph, ha infatti rigettato la tesi della femminista, secondo cui l’uomo, durante un festival svoltosi a Cannes nel 2012, l’avrebbe umiliata indirizzandole commenti sessuali espliciti. La giornalista aveva iniziato nell’ottobre del 2017 a rinfacciare al magnate, ex direttore del canale tv Equidia, il presunto abuso perpetrato ai danni della prima e aveva contestualmente pubblicato su Twitter, sotto l’hashtag #balancetonporc (denuncia il tuo maiale), le parole audaci che costui le avrebbe rivolto durante l’approccio incriminato. In base al recente verdetto che ha condannato la fondatrice del MeToo francese, questa avrebbe bollato come molestie sessuali un comportamento di Brion che non corrispondeva affatto a una coercizione fisica o a una mania persecutoria. Sempre ad avviso dei giudici parigini, inoltre, la Muller, rivolgendo ripetuti attacchi tramite social verso l’imprenditore, avrebbe oltrepassato i limiti della libertà di espressione danneggiando la reputazione di quest’ultimo. Una volta riconosciuta la falsità della tesi della presunta vittima di abusi, i magistrati hanno inflitto alla giornalista una sanzione di 15mila euro a titolo di indennizzo per i danni morali arrecati all’imputato a suon di accuse diffamatorie. La Muller dovrà inoltre pagare altri 5mila euro di spese legali e dovrà cancellare i suoi tweet in cui veniva tirato in ballo Brion, oltre a provvedere a pubblicare il dispositivo della sentenza sui suoi profili social e su due testate francesi. Soddisfazione per l’esito del processo è stata subito espressa dagli avvocati del magnate tv, che hanno smontato punto per punto l’impianto accusatorio della paladina del MeToo e che hanno più volte biasimato costei per avere“rovinato la carriera” all’imprenditore. Durante il dibattimento, il team legale di Brion aveva ripetutamente richiamato l’attenzione dei giudici sul fatto che, nel 2012 a Cannes, il loro assistito non avrebbe tentato alcuna violenza nei confronti della Muller, in quanto avrebbe semplicemente esercitato allora un innocuo “diritto al flirt”. L’imputato, nel corso del procedimento, aveva comunque ammesso di avere pronunciato in quel frangente commenti inappropriati all’indirizzo della donna, che sarebbero stati però fino a oggi deliberatamente travisati dalla giornalista, decisa a dipingere l’ex direttore di Equidia come l’Harvey Weinstein d’Oltralpe. L’esponente femminista, all’indomani della sentenza emessa dal tribunale di Parigi, ha reagito, al contrario degli avvocati di Brion, esternando sconcerto e rabbia e bollando la condanna comminatale come “incomprensibile”, “fuori dal tempo” ed emblematica di un “clima di regressione”. La Muller ha poi denunciato il fatto che l’esito sfavorevole del processo da lei intentato contro il magnate “rischia di demotivare le donne che hanno rivelato le violenze vissute e di creare enormi difficoltà alle vittime che vorrebbero raccontare ciò che hanno subito”. Nonostante la sconfitta riportata sul piano giudiziario, la giornalista ha assicurato che la sua battaglia a favore di coloro che sono state abusate andrà avanti: “La paura non deve vincere e io continuerò a combattere, giorno dopo giorno”.
LA PELLE PER LE PALLE. Giampiero De Chiara per “Libero quotidiano” il 31 luglio 2019. Dopo Kevin Spacey e Ronaldo un altro vip vede cadere nei suoi confronti l' accusa di violenza sessuale. È il caso di Neymar che, sulla falsariga di quello che è successo alla star hollywoodiana e all' attaccante della Juventus, vince la sua battaglia legale contro una modella brasiliana. Sul calciatore, stella del Paris Saint Germain, la polizia brasiliana non proseguirà nelle indagini «non esistendo elementi sufficienti per una accusa formale di violenza o aggressione». Le forze dell' ordine chiederanno inoltre alla procura «l' archiviazione viste le diverse incongruenze nella versione fornita da Najila Trindade», questo il nome dell' accusatrice. La donna aveva accusato il campione verdeoro di averla violentata in una camera di albergo a Parigi lo scorso 15 maggio. rapporto consenziente Neymar, tra i calciatori più forti al mondo con uno stipendio annuale netto di 28,3 milioni, ha sempre negato ogni accusa, spiegando che era stato un rapporto consenziente. Lo stesso calciatore aveva diffuso ai media la notizia dell' accusa nei suoi confronti, rendendo inoltre pubblici alcuni estratti dei messaggi che aveva scambiato con la ragazza, conosciuta attraverso Instagram. Nel corso delle indagini poi la modella è stata anche denunciata per diffamazione dalla polizia, per aver insinuato che le forze dell' ordine fossero corrotte. Il caso però non è ancora chiuso: i procuratori di San Paolo hanno 15 giorni per fare una propria valutazione sugli elementi disponibili, dopodiché dovrà essere un giudice a stabilire se archiviarlo o meno. Ma se dessimo retta a quello che diceva Agatha Christie («una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze fanno un indizio, tre coincidenze fanno una prova»), si potrebbe pensare che qualcuno abbia deciso di approfittare della situazione. Chi per fama e chi anche per incassare un bel po' di soldi. Soltanto nel 2019 ci sono stati i precedenti di Ronaldo e Kevin Spacey, finiti nel calderone della giustizia e poi assolti. Nella vicenda di Cr7 c' è anche la befffa di aver pagato la sua accusatrice per scongiurare il clamore, avvenuto poi lo stesso, di una denuncia. Ma gli inquirenti statunitensi (il fatto era avvenuto in un albergo di Las Vegas nel 2009) alla fine hanno lasciato cadere tutte le accuse per «mancanza di prove certe sulla base delle informazioni per documentare uno stupro oltre ogni ragionevole dubbio». Nei mesi scorsi infatti il settimanale tedesco Der Spiegel aveva resa noto una scrittura privata in cui la ragazza si impegnava a non rivelare l' accaduto, dietro il pagamento di 375mila dollari. Nel caso di Kevin Spacey invece sono state le foto e i messaggi cancellati dal cellulare dal giovane accusatore dell' attore statunitense, a far assolvere il premio Oscar. Giustizia Usa Sia nel caso di Ronaldo che in quello dell' ex protagonista di House of Cards è stata la giustizia Usa a giudicare, mai tenera con chi è accusato di certi crimini. Ma la caccia al vip sia cinematografica che sportiva non è certo una novità. In molti casi spesso però le accuse sono cadute nel vuoto. Come per Kobe Bryant, uno dei più grandi talenti dell' Nba, accusato da una donna di averla violentata in un hotel. Anche in questo la giustizia americana ha fatto il suo corso e ha creduto all' atleta. Nel cinema c' è il caso Woody Allen che si porta dietro da oltre 25 anni l' accusa, per cui è stato assolto, di aver abusato della figlia adottiva di 7 anni. O anche la vicenda che ha riguardato Gary Oldman, accusato dalla moglie, di picchiarla. L'attore premio Oscar quest'anno per L'ora più buia (dove interpreta Churchill) è stato assolto da ogni reato anche grazie alla testimonianza del figlio che ha scritto una lettera proprio in difesa del famoso padre.
Presunte molestie all’ex segretaria, gli accusatori di Carlo Sangalli indagati per estorsione. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Gli inquirenti: «Vittima di una trama per farlo dimettere». Un preciso «piano criminoso» con una «strategia ricattatoria» dalla «matrice» doppia: estorcere soldi al presidente di Confcommercio e costringerlo alle dimissioni. Esploso un anno fa dopo le accuse di molestie sessuali fatte contro Carlo Sangalli dalla sua ex segretaria, il caso si ribalta clamorosamente contro di lei e Francesco Rivolta, l’ex direttore generale della potente organizzazione. Entrambi sono indagati per estorsione aggravata dalla Procura di Roma che ha ottenuto il sequestro dei 216 mila euro donati alla donna con atto notarile da Sangalli, che dal 2006 è alla guida della Confederazione che raccoglie più di 700 mila imprese. È un esposto firmato da Sangalli a dare il via all’inchiesta del sostituto procuratore Margherita Pinto, coordinata dall’aggiunto Lucia Lotti. Il 2 novembre scorso il Corriere aveva rivelato l’esistenza di una lettera del giugno precedente in cui tre vice presidenti accusavano Sangalli di questioni «etico morali» con riferimento velato alle notizie sulle molestie sessuali nel mondo del cinema Usa che in quel periodo campeggiavano sui giornali. Sangalli aveva reagito alla missiva dicendo che non si sarebbe dimesso, di non sapere a cosa si riferissero e di non aver mai molestato nessuno. Dietro la vicenda emersero le accuse della ex segretaria Giovanna Venturini per molestie subite nel 2012 (ma mai denunciate e quindi mai investigate) e una donazione di 216 mila euro fattale da Sangalli a gennaio 2018. Sangalli, assistito dall’avvocato Domenico Aiello, denuncia «di essere stato vittima di una trama estorsiva ordita» da Venturini e Rivolta, il quale gli avrebbe inviato una serie di sms, che in parte cancellò per paura che potessero essere letti dai familiari e dai collaboratori. Nel sequestro ordinato a fine luglio dal gip Elisabetta Pierazzi si legge che «la minaccia di rivelare l’esistenza di una relazione extraconiugale e di rendere dichiarazioni circa molestie sessuali subite sul posto di lavoro dal presidente di Confcommercio appare idonea a coartare la volontà» dello stesso Sangalli, come è accaduto, sottolinea. Rivolta, accusa Sangalli, «si poneva come intermediario per evitare uno scandalo che avrebbe a suo dire coinvolto anche Confcommercio e chiedeva di pagare per il silenzio della donna e di rassegnare le dimissioni». Interrogato dal pm a dicembre Sangalli dice di essere stato preda di un «grande sconforto» al punto da aver «meditato il suicidio» nonostante non avesse mai fatto nulla di disdicevole e di aver ceduto inizialmente alle «richieste» di denaro proprio per timore. Decise di non dimettersi nel momento in cui si rese conto «della assurdità della situazione», anche quando Rivolta gli prospettò che il «risentimento della Venturini» cresceva. La quale, precisa a verbale, non gli aveva mai contestato nulla direttamente, tanto che «davanti al notaio era apparsa serena e alla fine l’aveva anche ringraziato». Fu allora che Sangalli incaricò un detective di indagare su Rivolta e Venturini, scoprendo, sostiene, che tra loro c’era una relazione (entrambi hanno smentito) e che il ruolo di Rivolta «non era quello dell’intermediario disinteressato». Ma perché il dg avrebbe dovuto tramare contro di lui? Il presidente è convinto che fosse per un diverbio in cui, nel settembre 2017, lo aveva accusato di «atteggiamenti invadenti». Ipotesi concreta, secondo il giudice, perché è proprio in quel periodo che si manifesta «come una bomba a orologeria» la volontà di denuncia della Venturini, riferita però da Rivolta che «insinua subdolamente nell’animo di Sangalli la paura». A far ritenere al gip che ci siano elementi concreti sulla «sussistenza del reato» sono anche le indagini dei Carabinieri che «confermano pienamente e ben oltre il limite del fumus la fondatezza della denuncia», «la credibilità della persona offesa», la «strategia ricattatoria» e l’ambizione di Rivolta che voleva «le dimissioni del presidente» perché «temeva di essere allontanato da Confcommercio», cosa che è avvenuta a ottobre del 2018. Rivolta ha sempre sostenuto che fu Sangalli, preoccupato «per la sua immagine e la sua reputazione», a chiedergli di fare da mediatore con la signora Venturini che, da parte sua, voleva essere tutelata e «scongiurare uno scandalo». E fu sempre Sangalli a decidere di pagare con un accordo che prevedeva anche le sue dimissioni. Per quanto riguarda il proprio licenziamento, ha detto che fu una ritorsione e una vendetta dopo che aveva chiesto di chiarire questioni legate a vicende assicurative interne a Confcommercio. Venturini ha detto di essersi dovuta difendere dalle attenzioni di Sangalli che considerava come un padre. Ha chiesto a luglio di essere interrogata dal pm Pinto. «Ho depositato un’istanza di presentazione spontanea immediatamente dopo aver avuto conoscenza dell’esistenza del procedimento», dichiara il legale della signora, l’avvocato Paolo Gallinelli, il quale ha anche chiesto al Tribunale del riesame la revoca del sequestro (udienza il 21 ottobre) e ha depositato atti che chiudono la causa avviata dalla signora Venturini davanti al giudice del lavoro contro Confcommercio. A firmarli per l’organizzazione è un procuratore speciale di Sangalli.
STUPRI CHE NON LO ERANO… AGAIN! Da corrieredellosport.it Kathryn Mayorga avrebbe ritirato nel mese scorso le accuse di stupro nei confronti di Cristiano Ronaldo. A darne notizia è Bloomberg, che però non spiega se sia stato raggiunto un accordo tra le due parti o sia stata un’iniziativa autonoma della vittima. I legali delle due parti, Leslie Stovall e Peter Christiansen, non hanno voluto commentare l’accaduto. La Mayorga aveva presentato la denuncia lo scorso 27 settembre quando dichiarò di essere stata violentata da CR7 nel 2009 nella suite di un hotel di Las Vegas dopo averlo conosciuto in discoteca. Il fuoriclasse della Juventus ha sempre negato la vicenda. Adesso arriva una notizia che potrebbe chiudere il caso una volta per tutte.
Neymar, cadono le accuse di stupro contro il calciatore brasiliano. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 su Corriere.it. Per Neymar potrebbe essere finito un incubo. Come riporta il sito di Sport, quotidiano spagnolo, nella giornata di ieri il brasiliano, corteggiato dal Barcellona che spera di riportarlo in Catalogna dopo l’addio del 2017, ha ottenuto una vittoria quasi definitiva sul caso delle accuse di violenza sessuale mosse dalla modella Najila Trindade. Juliana Lopes Bussacos, capo della sesta Commissione per la difesa delle donne a San Paolo, ha concluso le indagini sulle accuse di stupro e aggressione di Neymar alla modella. La polizia civile non ha riscontrato alcun crimine nel comportamento del giocatore e ha deciso di non perseguirlo. Adesso il pubblico ministero ha tempo 15 giorni per confermare l’archiviazione o chiedere un supplemento di indagini, che erano state prolungare di un mese per vederci chiaro senza tralasciare nulla. In questo mese di inchiesta, la Procura ha chiesto anche i fascicoli di altre indagini, quella per estorsione, legato al presunto furto che avrebbe subito Najila Trindade (il famoso video di alcuni minuti sul quale la modella puntava per accusare il brasiliano, ma poi sparito secondo la versione della donna), e quella legata alla divulgazione di immagini private. Neymar non vede l’ora di mettere la parola fine su questa vicenda per pensare solo al possibile trasferimento al Barcellona.
Da La Stampa il 4 giugno 2019. Nuovo colpo di scena nel caso Neymar: lo studio legale incaricato in un primo tempo dalla ragazza brasiliana che accusa il campione brasiliano rivela di aver rinunciato al suo mandato perché la richiesta iniziale era di una denuncia «per aggressione, non per stupro». La donna, secondo la Fernandes Abreu Advogados, avrebbe riferito ai legali «che il rapporto avuto con Neymar Jr. era stato consensuale, ma che durante l’atto il giocatore era diventato violento» e l’aveva di fatto aggredita. La rescissione del mandato, ha spiegato al Jornal Nacional l’avvocato José Edgard da Cunha Bueno Filho, è dovuta anche a una divergenza sulla linea legale da seguire. «Ero contro ogni azione eclatante», le sue parole. Gli ormai ex legali della donna, secondo quanto racconta Globoesporte, avevano avuto un incontro con i rappresentanti di Neymar lo scorso mercoledì: in quell’occasione era stata respinta ogni ipotesi di transazione giudiziaria in ambito civile. «Purtroppo Neymar ha minimizzato l’incidente». Poi, il 31 maggio l’accusatrice ha dato incarico ad altri legali, e l’accusa nella denuncia presentata è risultata di stupro. Ma secondo lo studio Fernandes Abreu, la donna rischierebbe ora un’accusa per diffamazione: i rapporti medici dell’ospedale parlano di segni di aggressione, non di violenza sessuale. Sabato il nazionale verdeoro ha pubblicato un video di sette minuti su Instagram, negando con veemenza di aver violentato la donna. Intanto il caso Neymar continua a scuotere la nazionale brasiliana, in ritiro per la Copa America. Il ct Tite ha rivelato di aver avuto due colloqui col giocatore in questi giorni; il primo per annunciargli che la fascia di capitano passava a Dani Alves, la seconda domenica sulla denuncia di violenza. Il giocatore avrebbe pianto, discolpandosi e chiedendo di poter continuare a lavorare con la Selecao per recuperare serenità.
Da La Stampa il 5 giugno 2019. L’inchiesta per stupro e violenza sessuale contro l’attore Gerard Depardieu, aperta dopo una denuncia presentata nell’agosto 2018, è stata archiviata oggi. Secondo la Procura, «le numerose indagini svolte nell’ambito di questa procedura non hanno permesso di caratterizzare i reati denunciati in tutti i loro elementi costitutivi». A denunciare l’attore, il 27 agosto 2018 a Aix-en-Provence, era stata una giovane attrice e ballerina di una ventina d’anni. La posizione di Depardieu era quella di avere preso la ragazza sotto la sua ala, fornendole consigli per la sua carriera emergente, mentre la donna sosteneva di essere stata abusata a margine di un provino informale per un’opera teatrale.
Cristiano Ronaldo, cadono le accuse sul presunto stupro. Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Corriere.it. Cristiano Ronaldo non dovrà difendersi dall’accusa di aver stuprato una donna nel 2009 a Las Vegas. Lo annunciano gli stessi investigatori della Corte del Nevada che, dopo aver ripercorso la vicenda iniziata il 13 gennaio del 2009 con la denuncia da parte della modella Kathryn Mayorga, che inizialmente rifiutò di fare il nome dell’attaccante portoghese, con l’accordo civile raggiunto tra le parti nel 2010, e con la riapertura del caso lo scorso agosto, e concludono: «Basandosi sulla revisione delle informazioni presentate (la scorsa estate, ndt), le accuse di aggressione sessuale contro Cristiano Ronaldo non possono essere provate oltre un ragionevole dubbio. Di conseguenza, nessuna accusa sarà proseguita».
Da gazzetta.it il 23 luglio 2019. Cristiano Ronaldo esce dallo scandalo del presunto stupro avvenuto in un hotel di Las Vegas nell’estate del 2009 ai danni di un’ex modella del Nevada, Kathryn Mayorga. Tutte le accuse nei suoi confronti sono cadute e non ci sarà nessuna causa penale ai suoi danni. La notizia è stata resa nota dalla procura di Las Vegas, che in un comunicato ha parlato di “mancanza di prove certe sulla base delle informazioni fin qui ricevute per documentare uno stupro oltre ogni ragionevole dubbio”. Il caso era deflagrato nei mesi scorsi, quando “Der Spiegel” aveva tirato fuori alcuni documenti, ottenuti attraverso il sito Football Leaks, tra cui un accordo riservato stipulato nel 2009 da Ronaldo con la Mayorga per non rivelare l’accaduto dietro pagamento di 375.000 dollari. Secondo la ricostruzione della Mayorga, all’epoca modella 25enne, sarebbe stata violentata dal calciatore in una stanza d’albergo a Las Vegas, dove il portoghese era in vacanza prima del suo passaggio dallo United al Real Madrid. Ronaldo si è sempre proclamato innocente: “Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. Mi rifiuto di alimentare lo spettacolo mediatico creato da persone che cercano pubblicità a mie spese”. E gli inquirenti gli hanno dato ragione.
Ronaldo non sarà processato per stupro: "Accuse non dimostrabili oltre ogni dubbio". L'annuncio del procuratore titolare del fascicolo sulla presunta violenza alla modella Katrhryn Mayorga, nel 2009. La Repubblica il 22 luglio 2019. Cristiano Ronaldo non sarà incriminato e processato per stupro. Sono state le parole del procuratore titolare del fascicolo, Steve Wolfson, a spiegare che "sulla base della revisione delle informazioni presentate, le accuse di abuso sessuale contro Cristiano Ronaldo non possono essere dimostrate oltre ogni ragionevole dubbio". E per questo, "non saranno contestati capi d'accusa al calciatore". Con ogni probabilità, l'ultimo atto della vicenda che da dieci anni ha gettato sul fuoriclasse della Juventus l'ombra di un'accusa pesantissima. Quella della modella Kathryn Mayorga, che nel 2009 passò a Los Angeles una notte insieme a CR7: era l'estate del suo trasferimento al Real, quella della definitiva consacrazione nell'Olimpo del calcio. Dopo quella notte trascorsa nella suite di Ronaldo, però, la ragazza si presentò alla Polizia di Las Vegas denunciando uno stupro, pur senza rivelare il nome del responsabile. Soltanto nel 2018 però la vicenda è emersa in modo deflagrante, con le rivelazioni del settimanale tedesco Der Spiegel. Meno di un anno dopo i fatti, i legali della ragazza firmarono, con quelli del fuoriclasse, un accordo di riservatezza strettissimo: secondo lo Spiegel, in cambio del silenzio la giovane aveva ricevuto 375 mila dollari dal fuoriclasse. Unica condizione, una lettera che i legali del calciatore avrebbero dovuto consegnargli, e che invece omisero di dare a Ronaldo. Una lettera con accuse forti ("Vorrei dire al mondo chi sei davvero", una delle frasi). Il giocatore ha sempre rifiutato le accuse, definendole ripetutamente "fake news" e ripetendo - anche in alcune missive con i propri legali rivelate nel caso Football Leaks - che lei fosse consenziente. La stessa ragazza le invece poi confermate in una denuncia alla polizia del Nevada e in un'intervista ("Dissi ripetutamente di no") inequivocabile. A gennaio la polizia arrivò a chiedere il prelievo di un campione di Dna di CR7, a cui aveva fatto seguito la precisazione del suo avvocato: "Ronaldo ha sempre sostenuto che quanto accaduto a Las Vegas nel 2009 fu un incontro consensuale, per cui non sorprende che ci fosse presenza di Dna". Una difesa preventiva. A giugno il colpo di scena, o almeno tale era parso: circolò la notizia che Mayorga avesse ritirato la denuncia per stupro. Indiscrezione però durata lo spazio di una giornata, prima della smentita del suo avvocato: "La denuncia ritirata l'abbiamo presentata negli stessi identici termini a un tribunale federale a causa delle norme diverse riferite ai cittadini stranieri. Fondamentalmente abbiamo cambiato sede, ma le richieste rimangono". Almeno fino a oggi, quando il procuratore Wolfson ha messo la parola fine alla vicenda.
Petronella picchia sulla Signora di CR7. Ma la polizia chiude il caso per stupro. Il portoghese non sarà processato. La ex Ekroth: «Vietato parlarne». Riccardo Signori, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. C' è una bella ragazza svedese, Petronella (Hilda) Ekroth, una 29enne bionda che poteva fare l'attrice o la modella, altro che calciatrice in mutande e maglietta, che sta movimentando il mondo Juve. Sul caso CR7 ha montato il suo atto di accusa al club bianconero dove ha giocato nell'ultima stagione, prima di tornare in patria nel Djurgarden. Anche se ieri la procura di Las Vegas ha fatto cadere tutte le accuse nei confronti dell'asso portoghese sul presunto stupro avvenuto in un hotel nell'estate del 2009 ai danni dell'ex modella Kathryn Mayorga. «Assenza di prove chiare sulla base delle informazioni ricevute», così il comunicato del distretto della contea di Clark. Ronaldo si era sempre detto innocente e i fatti gli hanno dato ragione. La Petronella succitata fa tanto assonanza con la Petronilla dei fumetti che inseguiva Arcibaldo, il marito ubriaco, con il mattarello in mano. E davanti ad un giornalista dell'Expressen, da stopper si è tramutata in centravanti di sfondamento sui metodi di casa bianconera. Tanti si rifaranno al MeToo che ha cominciato a far moda e non la smette più. Ma qui pare soprattutto la divagazione psico-sociale di qualcuno che dovrebbe andare a lavorare in azienda o in fabbrica per capire che c'è di peggio del «dovevamo mantenere un basso profilo e lavorare per i valori del club». Riassumiamo: Petronilla accusa la Juve per queste ragioni. Caso Ronaldo: «Ci hanno vietato di parlarne. Siamo state zitte non lo abbiamo menzionato. Mi sono chiusa in me stessa perché ho sentito che le mie opinioni non contavano». Ambiente: «Mi è sembrato un po' come fossi in una prigione. Non potevo fare tutto ciò che volevo». Straniere: «Non credo le calciatrici straniere fossero trattate come le italiane. Certe volte mi sono chiesta se fossi a Candid Camera. Poi mi sono abituata». Facile dirlo una volta lasciata Torino, più difficile puntare il dito stando in mezzo a tale tormenta di ingiustizie sociali. Poi ha provato a fare marcia indietro, ma troppo tardi. La Juve ne esce ammaccata in qualche aspetto. Anche se Barbara Bonansea, attaccante bianconera e azzurra, ha subito rinfacciato: «Allora anche la tua gioia era finta». Era intuibile che il caso Ronaldo, vista l'importanza economico-affaristica del soggetto, andasse trattato con i guanti. L'ordine del silenzio va un po' oltre. Maneggiare CR7 con cura è stato il primo comandamento imposto pure a Sarri. Meno credibile il distinguo tra italiane e straniere. Fin dai tempi di Boniperti l'ordine di scuderia chiede disciplina, silenzi e tutti a lavorare. Un po' ambiente di soldatini come diceva Cassano, ma neppure un covo di arcigni nazionalisti maschilisti al potere. «No woman, no cry», donna non piangere diceva Bob Marley.
Anna Lombardi per La Repubblica il 5 luglio 2019. William Little, il giovane cameriere che aveva denunciato l’attore Kevin Spacey per averlo sessualmente molestato la notte del 7 Luglio 2016 nel locale dove lavorava, il Club Car di Nuntucket, ritira ogni accusa. Rinunciando di fatto – e per sempre – a rivalersi su di lui in un tribunale civile. Nei confronti del protagonista di House of Cards, che era già caduto in disgrazia più di un anno fa a causa delle tante altre accuse di molestie da parte di colleghi uomini che però non sono mai state formalizzate in tribunale, resta ancora in piedi un’indagine penale. Che però potrebbe a sua volta concludersi a breve con il ritiro della denuncia. A spingere il ragazzo a fare un passo indietro, è stata quasi certamente l’aggressiva richiesta, avanzata da Alan Jackson, l’avvocato di Los Angeles che rappresenta l'attore, di visionare ogni tipo di corrispondenza fra la famiglia di Little e il loro legale, quel Mitchell Garabedian, celebre per aver imbastito la causa contro i preti cattolici accusati di molestie, raccontata dal film da Oscar Spotlight, dove a vestire i suoi panni c'era Stanley Tucci. Secondo Jackson, la famiglia avrebbe denunciato l'attore per "motivi meramente economici". Mentre Garabedian avrebbe fatto condurre un'investigazione privata sul caso, senza poi mai depositare i risultati in tribunale. Intanto una serie di messaggi trovati sul cellulare di Little sarebbero risultati sospetti: cancellati o addirittura editati. Il giovane – che all’epoca dei fatti aveva solo 18 anni ma ha ammesso di aver detto a Spacey di averne 23, cioè l’età legale per bere alcolici - ha sempre sostenuto di aver raccontato in diretta alla sua fidanzata di allora quel che stava accadendo, e che l’attore si lamentava del fatto che stesse continuamente al telefono. Ma la ragazza ha sempre negato che in quei messaggi William avesse mai parlato di molestie, come invece risulta dai testi depositati ai giudici. E le accuse di molestie sono state smentite anche dalle numerose persone presenti nel locale, che hanno dichiarato in massa di non aver notato niente di anomalo quella sera. A denunciare Spacey, d’altronde, era stata per prima la madre di Little, l’ex conduttrice tv Ruth Unruh. Era stata lei a raccontare nel corso di una drammatica conferenza stampa che il figlio aveva approcciato l’attore sperando in un selfie: ed era poi fuggito dopo essere stato palpeggiato nelle parti intime. Il ragazzo quella notte sarebbe stato completamente ubriaco, spinto dall’attore a bere almeno 5 birre e 3 whisky. E per quello si sarebbe ritrovato con le mani di Spacey nei pantaloni, stretto fra il muro e un pianoforte a coprirne le azioni per almeno tre minuti. "Non è un tempo lungo per una situazione cui non si acconsente?" aveva attaccato l’avvocato di Spacey fin dall’inizio. "Mio figlio non immaginava certo di essere davanti a un predatore sessuale" aveva reagito a distanza la madre. Probabilmente, cosa è veramente successo quella sera non lo sapremo mai. Ma certo da questa storia di selfie, sesso e ricatti, nessuno esce bene: quasi come in una puntata di House of Cards.
Kevin Spacey, cadono le accuse di molestie sessuali e aggressione. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. I procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione contro il premio Oscar Kevin Spacey, nota star di «House of Card», che era stato denunciato da William Little, un cameriere diciottenne di un bar di Nuntucket. Quest'ultimo aveva invocato il quinto emendamento — che consente di non testimoniare contro se stessi — dopo aver detto di non aver cancellato nulla dal cellulare che conteneva messaggi legati all'incontro con l'attore. Quindi aveva ritirato la denuncia. I fatti sarebbero risaliti al 2016 quando il giovane avrebbe accettato di farsi comprare delle bevande dalla star di Hollywood, facendosi poi accompagnare a casa. Le molestie sarebbero avvenute lungo il tragitto e sarebbero state riprese dalla presunta vittima sul cellulare. L'accusa di Nantucket è stata l'unica contro Spacey a portare a un procedimento penale: nella maggior parte dei casi, i presunti atti erano troppo vecchi per essere perseguiti o non avevano raggiunto il livello di un reato. In una dichiarazione giurata dello scorso dicembre, il cinquantanovenne divo di «House of Cards», che rischiava sino a 5 anni, si era dichiarato non colpevole, mantenendo questa linea per tutto il dibattimento. Il suo avvocato aveva nel frattempo messo in dubbio la credibilità dell'accusatore, sostenendo che aveva cancellato diversi messaggi e fotografie scambiate con Spacey che avrebbero dimostrato l'innocenza dell'attore. Per questo aveva chiesto al giudice una copia «completa e non alterata» dei dati del telefono del cameriere, che però non è mai stata presentata dato che il cellulare è sparito. Il giovane aveva già messo a verbale che non aveva cancellato nulla, ma quando è stato riconvocato ha invocato il quinto emendamento, quello che consente di non testimoniare contro se stessi. Le accuse contro Spacey sono venute alla luce dopo le rivelazioni sul comportamento del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein , che hanno portato alla nascita del movimento di protesta #Metoo. Da quando nell'ottobre 2017 Spacey è finito al centro dello scandalo, oltre 30 uomini lo hanno accusato. In maggio è stato interrogato in Usa anche dalla Metropolitan Police, la polizia britannica responsabile per l'area della Grande Londra — dove l'attore è stato direttore al The Old Vic theatre tra il 2004 e il 2015 — in merito a presunti abusi sessuali nel Regno Unito: si tratta di sei accuse nel periodo dal 1996 al 2013.
Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” il 19 giugno 2019. Kevin Spacey: meno uno. Cadono le prime accuse penali al premio Oscar, quelle per molestie sessuali e aggressione in Massachusetts: "Indisponibilità del teste che sporge denuncia", sicché l' attore, sessant' anni il prossimo 26 luglio, può tirare un sospiro di sollievo. Ne serviranno molti altri, ma forse chi ben comincia è a metà dall' essere scagionato. Il Frank Underwood di House of Cards era alla sbarra per i presunti abusi ai danni di un cameriere del Club Bar di Nantucket: secondo l' accusa, il 7 luglio 2016 avrebbe fatto ubriacare e quindi aggredito il figlio diciottenne - ma proclamatosi ventitreenne - della reporter di Boston Heather Unruh, che ha poi sporto denuncia. Spacey rischiava cinque anni di prigione, e sarebbe stato registrato anche quale sex offender. Invece no, caso chiuso, e le avvisaglie c' erano tutte. Due settimane fa, il giovane aveva ritirato la denuncia civile intentata a giugno per "disagio psichico e danni emotivi". A detta del suo avvocato Mitchell Garabedian, la revoca non sarebbe il risultato di un accordo extragiudiziale. Se dopo la chiusura del fronte penale i legali del protagonista de I soliti sospetti tacciono, Garabedian si trincera dietro "il mio cliente e la sua famiglia hanno mostrato un enorme coraggio in circostanze difficili", e più non dimandare. Nello scioglimento trova spazio un telefonino: gli avvocati di Spacey avevano ottenuto che la presunta vittima non potesse modificare né cancellare i dati del proprio smartphone, giacché in un video di Snapchat inviato dal ragazzo alla fidanzata si sarebbe vista una mano - di Spacey, secondo l' accusa - palpare una zona vestita. Per la difesa, al contrario, il telefono avrebbe custodito le prove, messaggi e foto, dell' innocenza dell' attore. Comunque sia, la richiesta copia "completa e non alterata" dei dati non era mai stata consegnata, e a un certo punto lo smartphone - aveva asserito Garabedian - era stato addirittura perso. La capitolazione era dietro l' angolo: passibile di aver distrutto delle prove, il ragazzo si è appellato al Quinto Emendamento per evitare di auto-accusarsi, ritirandosi de facto dal poter testimoniare contro Spacey. Abbandonando la prima udienza dello scorso 7 gennaio, l' attore era stato omaggiato dell' urlo solitario di un fan, "Underwood 2020!": la candidatura alle elezioni americane rimane improbabile, ma mai dire mai. Nel frattempo, la via crucis iniziata nell' ottobre del 2017, allorché Anthony Rapp accusò il più celebre collega di averlo molestato - all' età di quattordici anni - nel 1986, ha conosciuto una stazione importante in maggio: Scotland Yard, la polizia metropolitana londinese, ha interrogato Spacey su suolo americano. L'attore si è sottoposto volontariamente alle domande del Complex Case Team, che sta indagando su sei abusi sessuali che lo vedrebbero coinvolto: dal 2003 al 2015 Spacey è stato direttore dell' Old Vic Theater nella capitale britannica, i fattacci risalirebbero al periodo 1996 - 2013. Nessuna accusa è stata a oggi formalizzata. Vale ricordare che nel settembre del 2018 il procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles aveva rinunciato a perseguirlo per la supposta violenza ai danni di un uomo a West Hollywood nel 1992. I casi che lo riguardano sono una trentina, ma per ora vince lui; postando sui social il video Let me be Frank la vigilia dello scorso Natale, Spacey l' aveva promesso: "Se non ho pagato per quello che ho fatto, di sicuro non pagherò per quello che non ho fatto". Mutatis mutandis, ci sono novità importanti anche per Harvey Weinstein, il primo pezzo da novanta dello scandalo da cui è scaturito il movimento #MeToo. Atteso in aula il prossimo 7 settembre, il produttore accusato da 80 donne - due fin qui l' hanno portato sul banco degli imputati, per stupro e sesso orale praticato senza consenso - ha compiuto un passo sul versante civile, proponendo un accordo tombale da quaranta milioni alle proprie vittime, i dirigenti del suo studio e l' ufficio del procuratore generale di New York. In attesa che un giudice si esprima definitivamente, non mancano le voci di dissenso, né un documentario per tenere desta l' opposizione al mogul: Untouchable, diretto da Ursula Macfarlane e dal prossimo 2 settembre su Hulu, dà ascolto a Rosanna Arquette, Paz de la Huerta, Zelda Perkins e mette in guardia, giacché "era il sistema che lo permetteva".
Guia Soncini per “la Repubblica” il 19 giugno 2019. Se pensate che basterà il non luogo a procedere per ridarci Kevin Spacey, siete troppo ottimisti. Il procuratore del Massachusetts che avrebbe dovuto perseguirlo in un caso di molestie, dopo che la presunta vittima ha candidamente ammesso d' aver manipolato le prove, ha dichiarato che le accuse verranno lasciate cadere; ma questo, lo sa chiunque abbia sfogliato un giornale nei quasi due anni di MeToo, non conta niente. Ad azzerare la carriera di Spacey non è stata quest' accusa portata in tribunale, ma una detta in un' intervista: nell' ottobre 2017, un attore racconta che trent' anni prima, lui quattordicenne, Spacey l' ha molestato. Il principio base del MeToo è stato da subito che qualunque testimonianza dicesse senz' altro il vero e qualunque accusa, senza bisogno d' essere provata, bastasse a privarti della carriera. (Il MeToo è faccenda interna al mondo dello spettacolo, i cui mestieri sono evidentemente percepiti come privilegi: nessuno pretenderebbe mai la chiusura d' una panetteria perché il fornaio ha molestato la cassiera). Fu così che un hashtag uccise Frank Underwood, il Riccardo III postmoderno che teneva su coi suoi soli monologhi House of Cards , una serie per il resto scombinatissima. Alle persone sensibili toccò fingere contentezza - ora la protagonista assoluta sarà Robin Wright, largo alle donne - ma la stagione conclusiva di House of Cards consisteva in una brava attrice che vagava dentro una serie scombinata. Lo sostituirono in Tutti i soldi del mondo , il film di Ridley Scott sul rapimento Getty, ma non poterono far altro che chiudere in un cassetto Gore . Il film sulla vita di Gore Vidal era pronto, ma Spacey l'appestato ne era protagonista assoluto: mica si poteva interamente rigirare (e poi facendolo interpretare a chi?). Ora potrebbero farcelo finalmente vedere, ma non lo faranno. Il perché l' ha spiegato Louis CK, un altro paria che - dopo che quattro signore hanno detto a un giornale che si era masturbato davanti a loro avendo domandato e ottenuto permesso, ma loro avevano acconsentito senza essere davvero convinte - ha aspettato un anno e mezzo prima di tornare a fare monologhi comici. L'altra sera era a Milano, in un teatro da mille posti («Non so se sapete che facevo i palasport», ha detto l' uomo che quattr' anni fa faceva tre tutto esaurito al Madison Square Garden - ventimila posti - e ora va in tour in Polonia); qualcuno del pubblico gli ha chiesto se fosse prevista una nuova stagione della serie di cui era autore e protagonista, Louie . «Non credo proprio, visto che non posso più lavorare in America. Ci vorrebbero due milionari che decidono di buttare i loro soldi producendola». Quella fuori dai tribunali è una condanna a vita: CK lo sa, lo sa anche Spacey. Però Woody Allen - di cui il MeToo dice che è un molestatore, dopo che i tribunali l' hanno assolto - ha appena fatto una regia d' opera alla Scala, e a settembre in Italia vedremo il suo film. Forse Netflix potrebbe cedere Gore a una distribuzione cinematografica italiana: potremmo diventare territorio d' accoglienza per quelli la cui esistenza è stata cancellata da quell' orwelliano Ministero della Verità che è Hollywood.
Kevin a – 1: ma è incenerito dalla fornace mediatica. Angela Azzaro il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. Cadute le accuse di molestie nel Massachusetts. Restano altri 29 accusatori contro, ma l’opinione pubblica ha già deciso è colpevole e deve sparire per sempre.
Kevin a – 1. Lo hanno fatto fuori da tutto. Cancellato. E non per modo di dire, per metafora. Lo hanno cancellato davvero per esempio dal film di Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo. Dopo le accuse di molestie, hanno rigirato le scene che avevano lui come protagonista. Stessa scelta per i produttori di House of cards di cui era stato il grande mattatore e che nell’ultima stagione lo hanno fatto sparire, decretando così anche il proprio insuccesso. In tutto ha ricevuto 30 denunce e l’altro ieri è arrivata la prima decisione: i procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione dopo che il giovane che lo aveva accusato ha ritirato la denuncia.
Sentenza mediatica. Kevin Spacey si è sempre dichiarato innocente e continua la sua battaglia davanti ai giudici dei diversi tribunali nei quali è chiamato a difendersi. Ma parliamoci chiaro: il grande attore ha davvero qualche speranza di uscirne vivo? Sì, vivo, perché per molti è già morto. Non si tratta neanche più di stabilire se sia colpevole o innocente, questo spetta infatti ai giudici non al sistema mediatico. Una parte della comunità internazionale ha già decretato la sua fine. E a poco serve l’intervento del sistema giustizia. La drastica decisione è stata presa e ha il valore di una sentenza definitiva. La stessa sorte è toccata a un altro grande regista e attore come Woody Allen: da quando è finito nel mirino del “metoo”, è diventato un appestato e nessuno vuol più produrre i suoi film o pubblicare i suoi libri.
Gogna pubblica. Il processo mediatico scaturito dal movimento del “metoo” ha preso il sopravvento sulle legittime denunce contro un sistema che resta maschilista. Invece di combattere nei tribunali quando ci sono le denunce o sul piano culturale ovunque sia possibile, si è scelta la scorciatoia della gogna pubblica. Il meccanismo è quello del capro espiatorio, di qualcuno che viene preso di mira e sacrificato in nome della presunta salvezza collettiva. È un meccanismo barbaro che nulla ha a che fare con lo stato di diritto e con la costruzione della libertà femminile. Kevin Spacey se ha sbagliato pagherà, ma la pena mediatica che gli è stata inflitta fin da subito è la peggiore possibile anche perché non finisce mai.
L’avvertimento della Atwood. Ha sempre più ragione la grande scrittrice Margaret Atwood, la geniale autrice del Racconto dell’ancella, quando avvertiva, davanti al “metoo”, dei rischi che si correvano rinunciando a far valere la presunzione di innocenza. Diceva: se crolla lo stato di diritto, sarà peggio per tutti, in primis per le donne. La caccia alle streghe che ha messo al tappeto un grande attore come Spacey può capitare a tutti e a tutte. Per questo va contrastata. Non solo perché nessuno merita il trattamento che ha subito lui, ma perché in mezzo ci finiscono principi fondamentali. In Italia abbiamo avuto il caso di Fausto Brizzi: le accuse nei suoi confronti sono state archiviate. Ma anche per lui la pena mediatica è mai finita?
· La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.
La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto. È boom delle false denunce per ottenere denaro. Ma adesso un'azienda ha inventato il rimedio. Roberto Pellegrino, Venerdì 17/05/2019, su Il Giornale. Santiago F., dopo la tremenda esperienza che l'ha costretto a un accordo extragiudiziale in denaro con una ragazza che frequentava da due giorni, dice che avrebbe preferito prendersi una malattia infettiva al posto di ricevere una falsa denuncia per stupro. Ora, su consiglio dell'avvocato, chiede alle potenziali partner di firmare un documento di consenso se a un incontro segue un rapporto intimo, così da essere scagionato da qualsiasi accusa di violenza sessuale. È un fenomeno che avviene spesso negli ultimi anni nelle grandi città argentine. Non sono serviti gli ammonimenti delle autorità che tentano di prevenire un malcostume sessuale che colpisce gli uomini tra i venti e i cinquanta anni: divorziati e pensionati molto benestanti sono i più flagellati. Conoscono una ragazza giovane, attraente e spigliata. Lei mette le mani avanti dicendo che non deve bere perché altrimenti perde ogni freno inibitorio e non vuole, ma in Argentina, uscire di sera, significa ubriacarsi. E tanto. In questo caso lo scopo della giovane non è divertirsi con un uomo più maturo, ma farsi portare a letto per consumare un veloce rapporto sessuale, in modo, poi da denunciarlo per essere stata costretta e abusata. Uno stupro, in pratica falso. La denuncia è accolta, anche con la testimonianza delle amiche che dicono che era palese che lei rifiutasse le sue avance e i drink molto alcolici che lui le offriva generoso. Nel verbale si legge che lui, con la scusa di riaccompagnarla a casa, aiutandola perché era ubriaca, non potendo guidare, l'ha portata da lui e ne ha abusato, nonostante i suoi tentativi di respingerlo. Le ragazze più audaci e spregiudicate, assumono anche un particolare calmante, detto la droga del giorno dopo, che cancella i ricordi delle ultime sette ore. È un oppiaceo chimico molto usato dai veri stupratori, basta un esame delle urine per riconoscerne la presenza e, se vi è traccia, la ragazza ha, molto probabilmente, subito uno stupro. O ne ha assunto una dose minima che le ha permesso una veglia cosciente, per incastrare al mattino l'uomo, minacciandolo di chiamare la polizia, mentre poi chiama l'amico, avvocato e complice. Il falso stupro è una piaga sociale che va aumentando nei tribunali di Buenos Aires, Rosario e Cordoba. Mentire costa penalmente una semplice multa con denuncia, mentre la condanna a stupro vale dai sei ai quindici anni di galera. «Quelli che firmano subito l'assegno senza dare troppe spiegazioni sono i mariti fedifraghi. Temono poi di ricevere la lettera del divorzio con richiesta di danni ben più consistenti», spiega il consulente legale Luciano Nicolas Rusconi. «Il piano per incastrare un cinquantenne benestante sfiora la perfezione, è diabolico, costruito con molta attenzione. Un mio assistito si stupiva che una ragazza così bella e giovane gli rivolgesse tutte quelle attenzioni, flirtando già dopo pochi minuti che si erano conosciuti al banco di un bar. Si accertano se sei sposato, se lavori, se hai una casa al mare e che tipo d'auto». E nella maggior parte dei casi, le presunte stuprate, non informano nemmeno la polizia, non denunciano per non attivare il meccanismo giuridico che potrebbe danneggiarle. «La polizia, si sa, fa molte domande», spiega l'avvocato Rusconi, «Un bravo difensore potrebbe facilmente contraddirle e sbugiardare il loro piano per farsi qualche soldo, meglio 10, 15mila euro subito e non se ne parla più». Una vera estorsione legalizzata che potrebbe avere i giorni contati. L'azienda argentina Tulipan sta lanciando «il profilattico del consenso» perché il suo involucro si apre soltanto con l'utilizzo di quattro mani, quindi di due persone, che consensualmente stanno per consumare un rapporto sessuale e premendo assieme due pulsantini scelgono di rispettarsi. E sul lattice c'è la scritta «sì, acconsento». «È un successo quasi pari al Viagra», spiegano i direttori creativi di Bbdo, Joaquin Campins e Christian Rosli, «Aggiungiamo qualcosa in più al piacere sicuro, attestiamo che ogni rapporto sessuale, pure quello di una volta e via, il piacere è possibile solo se prima esprimi il tuo consenso». La fama del Consent pack è arrivata anche negli Stati Uniti, riscuotendo un successo enorme: le maggiori multinazionali di profilattici vorrebbero acquisirne il brevetto, poiché a parte prevenire gravidanze non volute e malattie sessuali, l'invenzione rivoluziona i rapporti tra i due sessi. Al topic #PlacerConsentido su Twitter da settimane ognuno esprime la sua opinione, anche se la maggior parte non l'ha provato, data la scarsa distribuzione. Il profilattico per ora è in edizione limitata, una scatola da sei costa 20 euro, anche se spesso, per motivi di marketing, è regalato nei bar e agli eventi di moda di Buenos Aires e delle principali città sudamericane. Presto, però secondo quanto informa la Tulipan, si potrà acquistare con l'e-commerce. E oltre ai dati terrificanti sui presunti stupri, un sondaggio dell'Ahf argentina (associazione nazionale di informazione e prevenzione dell'Hiv) fa rabbrividire: su un campione di 30mila persone interrogate, soltanto il 14,5% degli uomini argentini ha ammesso di usare regolarmente il profilattico. Un segno che virus e denunce non spaventano più di tanto il maschio argentino del XXII secolo.
· Uomini. Quando le vittime sono loro.
False accuse di abusi al papà. E i giudici affidano i bimbi all'ex moglie gay. Accusato ingiustamente di abusi sulla figlia dalla ex moglie omosessuale: il caso viene archiviato ma i giudici assegnano i bimbi alla donna. Il papà: "Per loro era una cosa normale che vivessero con una coppia gay". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Marco non riesce a trattenere le lacrime quando ripercorre le fasi della separazione. Viene da una famiglia all’antica, i suoi genitori hanno superato le nozze d’oro riuscendo a ricucire con pazienza ogni dissidio. “Ho creduto – dice a denti stretti – che sarebbe stato lo stesso anche per me”. Quando ha scoperto che sua moglie lo tradiva con una ragazza di vent’anni non poteva certo immaginare che quello choc sarebbe stato solo l’inizio di un incubo che va avanti ancora oggi. Sono passati quattro anni quel giorno. Da un giorno all’altro i figli della coppia, Luca e Sara, di 3 e 7 anni, si trovano catapultati in un’altra dimensione. Marco continua a stargli accanto il più possibile, li va a prendere a scuola e sta con loro mentre la mamma lavora. Anche perché gli equilibri nel nuovo nucleo familiare in cui si ritrovano a vivere i bimbi sono sempre più precari. La situazione precipita l’estate successiva con Sara che torna dalle vacanze sconvolta: "La compagna della madre l’aveva schiaffeggiata - ricorda Marco - e lei non voleva più tornare a casa da loro”. “Ho parlato con la mia ex, le ho spiegato la situazione e lei – racconta – invece di mettersi in discussione mi ha denunciato per sequestro di minore”. Le argomentazioni del padre convincono la Procura che archivia le accuse e dopo poco i due avviano le pratiche per la separazione. Ma nonostante i precedenti, per giudici e servizi sociali i figli devono restare con la madre e la sua compagna. “In tribunale non era consentito parlare dell’omosessualità della mia ex, era un argomento da tener fuori, insomma – rivela il genitore – la ritenevano una cosa normale e non avevano problemi a tollerare che i bambini vivessero con una coppia gay piuttosto che con me, che sono il padre e avevo una situazione sentimentale e lavorativa stabile”. Marco, infatti, da qualche tempo si vede con Cristina, reduce anche lei da una separazione e mamma di due bimbi. Quando il giudice stabilisce l’affido condiviso con tempi paritari e mantenimento diretto, l’ex di Marco si vendica denunciando sia lui che la sua nuova compagna per abusi sessuali su Sara, che nel frattempo è diventata una ragazzina di undici anni. La notizia gli viene comunicata dagli assistenti sociali via telefono. Il contraccolpo psicologico è fortissimo: "Mi ha accusato di aver baciato mia figlia con la lingua e di averla molestata, mentre la mia compagna è stata accusata di aver toccato in più di un’occasione la piccola nelle parti intime prima di andare a dormire". Accuse infamanti che decadono quando Sara, che viene ritenuta dai giudici idonea a testimoniare, nel corso dell’incidente probatorio racconta che nessuno dei due le ha mai fatto nulla del genere. Nega, tentenna, non sa nemmeno spiegare nello specifico di cosa si parla. Il caso viene archiviato, ma i bambini restano con la donna e la sua compagna anche se dall’inchiesta emergono particolari inquietanti. Nel corso delle indagini, un consulente forense incaricato di analizzare i cellulari delle parti scopre che Sara ha effettuato decine di accessi a siti internet vietati ai minori. La ragazzina consulta quasi quotidianamente contenuti pornografici a sfondo lesbico. Il papà è atterrito. È convinto che la “sessualizzazione precoce” di sua figlia sia dovuta alla convivenza con la coppia. “Sicuramente è stata in qualche modo plagiata da sua madre e dalla compagna, o comunque la quotidianità con loro l’ha scioccata fino a questo punto”, commenta il padre dell'adolescente. I suoi figli non li vede più dal settembre del 2018. “L’anno perso con i miei figli - riflette ad alta voce - non me lo ridarà nessuno, le cicatrici sono indelebili". "Ai giudici però - aggiunge - chiedo giustizia, perché i miei bambini possano essere ripagati delle sofferenze che hanno subito".
Uomini. Quando le vittime sono loro. Un fenomeno misconosciuto ma in aumento. E che rimane un tabù, scrive Maria Sorbi, Mercoledì 13/02/2019, su Il Giornale. Li fanno sentire dei completi falliti a furia di lavaggi del cervello logoranti. Li umiliano, li minacciano di portare via i figli e di ridurli sul lastrico. Sono le donne che odiano gli uomini. Molto più di caratteri impossibili e di liti in famiglia. Anche le loro sono molestie, distruttive quanto quelle fisiche, e punibili per legge.
"Mia moglie? Dopo le nozze si è trasformata". I casi in cui è l'uomo a vestire i panni della vittima sono sempre di più: finora quelli accertati sono 3,7 milioni, di cui 1,3 milioni negli ultimi tre anni. Le denunce per maltrattamento sono piano piano in aumento anche se è dura che un uomo ammetta di aver subito abusi e vessazioni. Il sottobosco è ancora vasto e al momento i numeri non aiutano a dare una fotografia a contorni definiti della situazione. «Soprattutto perché - spiega l'avvocato cassazionista Veronica Coppola del centro antiviolenza Ankyra, dedicato principalmente agli uomini - molti intentano una causa contro la moglie o la compagna ma a metà percorso hanno un ripensamento e bloccano tutto. Preferiscono trovare un accordo e stoppare il procedimento». E di conseguenza le loro storie non finiscono nelle statistiche ufficiali degli uomini vittima di violenza. Restano in un limbo difficile da interpretare e ancora difficile da accettare socialmente.
Le false denunce. Una delle «violenze» più gravi di cui rimangono vittima gli uomini sono le false denunce, escamotage utilizzato dalle mogli soprattutto in fase di separazione: basta che le signore si presentino di fronte alle forze dell'ordine raccontando di essere state picchiate, spinte o prese a sberle per mettere nei guai la controparte anche quando non ha mai alzato un dito. Non a caso, a fronte di 55mila denunce presentate da donne contro gli uomini, le condanne effettive sono state poco più di 5mila. Idem per i reati di stalking: nel 2016 su 15.700 casi denunciati, solo la metà sono finiti a processo e solo 1.600 persone sono state effettivamente condannate. E proprio nelle pieghe di questi numeri si nasconde anche una buona quota di mosse studiate a tavolino, frutto di totale fantasia. «Abbiamo affrontato molti casi del genere - spiega la sociologa Patrizia Montalenti di Ankyra - e spesso capita che le donne fingano di avere subìto violenza. Probabilmente nelle loro famiglie di origine hanno imparato a convivere con padri che picchiavano le madri, hanno una certa famigliarità con la violenza e per questo non esitano a fare denuncia su fatti mai accaduti. Costringere i compagni a difendersi da un reato penale significa metterli in una condizione di debolezza perché rischiano di trovarsi imbrigliati in una legge che, diciamolo, tutela maggiormente le donne». Le false denunce sono un guaio anche per la giustizia: intasano i calendari delle udienze nei tribunali e rallentano l'iter dei casi veri. Secondo Davide Stasi, autore del blog «Stalker sarai tu», il problema delle denunce fasulle sta nascosto nell'eccesso di soggettività tollerato dalla legge anti stalking: «È una legge scritta di pancia - sostiene -. Anche un mazzo di rose rosse non gradito dalla vittima può essere considerato stalking. Questo per dire che il provvedimento è molto strumentalizzabile e viene usato spesso come arma di vendetta dopo un tradimento o una lite durante le cause di separazione». Da qui la richiesta dei centri antiviolenza di non trascurare l'emergenza sommersa degli uomini molestati: sarà pur vero che i numeri sono molto più bassi rispetto a quelli delle violenze contro le donne, ma non per questo il problema va trascurato. Anzi, il disagio è lo specchietto di un equilibrio che sta cambiando e di una nuova fragilità, quella del «sesso forte». A Roma è appena stata fondata l'associazione L'Altra Parte: uno staff di avvocati dà consulenza per vedere, caso per caso, se ci sono gli estremi per una denuncia per violenza domestica o no. «E poi vogliamo iniziare un'opera di sensibilizzazione nei confronti della magistratura - spiega la presidente Magdalena Giannavola, avvocato penalista - Spesso ci siamo trovati di fronte a un muro quando in ballo c'erano denunce contro gli uomini. C'è ancora molto sessismo a senso unico dietro alle sentenze. L'uomo vittima non è tutelato quanto la donna».
«Ti tolgo i figli». L'arma del «ti tolgo i figli e non li vedrai mai più» resta in ricatto più grosso. Ma non si pensi che il sesso debole non sia capace di mettere in atto abusi sessuali o maltrattamenti fisici: al centro di accoglienza per uomini maltrattati si sono presentate vittime con il lobo dell'orecchio tagliato, con segni permanenti di morsicate dopo scenate di gelosia, oppure presi a calci e minacciati con i coltelli della cucina. Molte le storie di stalkeraggio, i pedinamenti, il furto delle password dei social da parte delle mogli per la pubblicazione di contenuti diffamanti o semplicemente per spiare le loro chat private. Ci sono casi di uomini che si sono visti mettere contro i figli, che sono stati spolpati economicamente e talmente deboli e avviliti da avere perso il posto di lavoro, convinti dalle compagne di essere dei totali falliti. Altri raccontano di rapporti sessuali cercati con insistenza dalle partner e brutalmente interrotti a metà, di lamentele pubbliche con gli amici per le scarse prestazioni sessuali. Oppure ci sono uomini costretti a rapporti sessuali sul posto di lavoro dal loro capo donna. A raccogliere i loro sfoghi prima e le loro denunce poi è uno staff di professionisti, psicologi, medici e avvocati che piano piano sono in grado di fornire alle vittime gli strumenti morali per ripartire e riprendere in mano la propria vita. «Solo in quest'ultimo mese abbiamo ricevuto dieci persone - racconta la coordinatrice del centro - e in media le telefonate sono 200 l'anno, provenienti da tutta Italia».
Il nuovo tabù. Si tratta di uomini che hanno un buon livello di istruzione - generalmente diploma o laurea - un'età fra i 30 e i 50 anni e che spesso non parlano del loro incubo nemmeno con gli amici, per un senso di vergogna che li fa tacere fino a quando non arrivano all'esasperazione più totale. Tra i casi affrontati, ci sono anche storie di genitori maltrattati dai figli trentenni che non se ne vanno di casa ma li spremono come un bancomat senza fondo, umiliandoli e usando le mani se osano smettere di dare soldi. Agli sportelli arrivano anche ragazzi omosessuali aggrediti dal compagno per gelosia, rivalità in amore e incomprensioni. In media la denuncia arriva dopo mesi di violenze subite. Oltre alle violenze domestiche, vengono raccolte parecchie testimonianze di violenze sessuali in luoghi pubblici, dai mezzi pubblici ai pub e alle università. In base ai dati Istat, 435mila uomini dichiarano di avere subito, prima dei 18 anni, palpeggiamenti nelle parti intime o sono stati costretti a toccare qualcuno contro il loro volere. Il 62% delle vittime dice anche di non avere mai parlato con nessuno di quegli episodi. Per questo diventa più facile rivolgersi ai volontari di un centro anziché sfogarsi con un amico o, peggio ancora, denunciare in questura l'abuso. La strada da fare per infrangere i tabù è ancora moltissima. Il punto di partenza sta nel riconoscimento della violenza contro gli uomini. Riconoscimento che viene anche sancito nel testo della convenzione di Istanbul, ratificata in Italia nel 2014. Il provvedimento firmato dal Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne parla anche di violenza domestica e si riferisce palesemente a «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare - o tra attuali o precedenti coniugi o partner - indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». E quando si parla di «autore di violenza» non si esclude che possa essere una donna. «Non vogliamo iniziare una guerra tra chi difende le donne e chi gli uomini - spiegano i volontari delle associazioni - ma è giusto riconoscere pari diritti a entrambe le categorie, a prescindere dal sesso. Si tratta in ogni caso di vittime».
· Il commercio delle adozioni.
Il commercio delle adozioni. Costi proibiti, attese infinite, onlus e pagamenti oscuri, scrive Panorama. Inchiesta sul mondo delle adozioni, nel lato oscuro della bontà. Per mettere su famiglia, Fabio, un manager genovese, ha investito più di 50 mila euro: tanto gli sono costati i due figli adottati in Russia qualche anno fa. Per dare un fratellino alla sua primogenita, Marco, un operaio del milanese, ne ha dovuti tirar fuori quasi 40 mila: messi da parte mese dopo mese, rinuncia dopo rinuncia, attesa dopo attesa. Poi con la moglie è volato fino in Armenia, per abbracciare quel piccolo di un anno: con i capelli scuri e gli occhi color carbone. Come due cirenei, Fabio e Marco sono solo due delle migliaia di genitori che portano sulle spalle il peso delle adozioni internazionali: esborsi inimmaginabili, montagne procedurali, tempi godotiani. Salassi e lungaggini sono l’esemplificazione di un sistema che negli ultimi anni, complice la svogliatezza governativa, s’è inceppato. In Italia nel 2010 le adozioni internazionali erano state 4.130. Mentre l’anno scorso si sono fermate a 1.394: il minimo storico. Le famiglie in attesa, intanto, sono 3.706. Meno bambini, e sempre più cari. Un imbuto intasato pure da pochi controlli e regole lasche. Perfino il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, infallibile termometro degli umori popolari, ne ha parlato in un’intervista a Panorama qualche settimana fa: «Io, grazie al buon Dio, ho avuto due figli. Ma ho amici che aspettano da quattro anni. È una cosa barbara. Se ti va bene, poi, devi spendere almeno 40 mila euro». Partiamo però dall’inizio. Gli aspiranti genitori intanto devono ottenere dal tribunale dei minori l’idoneità ad adottare: un decreto che, dopo gli incontri con psicologi e assistenti sociali, arriva in media nel giro di un anno. A quel punto, bisogna fidarsi. Anzi, affidarsi: a uno dei 52 enti autorizzati dalla Commissione adozioni internazionali (Cai), l’autorità pubblica che sovrintende il funzionamento per conto di Palazzo Chigi. Sono onlus e associazioni attive nella cooperazione internazionale. La prassi prevede, innanzitutto, la firma del contratto: di mezzo, non di scopo. L’ente, insomma, s’impegna a trovare un bambino, ma non garantisce il lieto fine. Prima, però, gli ardimentosi sono messi di fronte agli impegnativi oneri economici di cui dovranno caricarsi. Una parte viene versata per i servizi in Italia: gestione della pratica, corsi di formazione, incontri vari. Poi ci sono i costi per l’estero: tasse adottive, parcelle di avvocati, mediatori e traduttori locali, contanti per qualche ruota da ungere. Con l’avanzare della procedura, i pagamenti vanno avanti: implacabili. Sui siti di onlus e associazioni si trovano tabelle, divise per Paese, dal sapore merceologico. Si apprende così che un’adozione in Cina, Russia o Kazakistan può arrivare a costare perfino 25 mila euro. A cui vanno aggiunte le sostanziose spese per i lunghi viaggi e i soggiorni all’estero. Oltre a imponderabili varie ed eventuali. Per un totale che, in alcuni casi, sfiora i 40 mila euro. Così perfino le banche si sono gettate nella mischia, proponendo mutui e prestiti vantaggiosi. Come AdottAmi, della Bnl: «Un aiuto concreto per agevolare l’adozione internazionale». O Adopto, il mutuo delle Casse rurali trentine. Oppure Adobimbo, della Banca popolare di Bari. Monya Ferritti, presidente del Care, un coordinamento che raduna 33 associazioni familiari, conferma: «L’adozione è diventata sempre più una cosa da ricchi. Dieci anni fa, negli stessi Paesi, si spendeva molto meno». Ferritti è anche uno dei commissari della Cai. Ma non lesina critiche. «È intollerabile che lo Stato non sostenga economicamente le famiglie. Chi ha un reddito medio è costretto a enormi sacrifici. Oppure a rinunciare. Il sistema va completamente rivisto. A partire dal contratto firmato con l’ente, che può sempre nascondere delle gabole. Un tema delicatissimo come questo non deve essere materia da codice civile». Malumori generalizzati. Luca Chiaramella, presidente di Polaris, associazione del Lodigiano che raccoglie 200 famiglie adottive, ammette: «C’è molta sfiducia. Oltre ai tempi d’attesa medi di tre anni, un’adozione ormai costa dai 20 mila ai 40 mila euro. E in molti casi le spese sono fumose. Molti sono costretti a partire con migliaia di euro infilati nelle mutande e nei calzini, da rifilare sul posto a consulenti e avvocati. Chi gli garantisce, poi, che quei soldi non saranno usati per corrompere un giudice o un funzionario?». Odioso e condiviso dilemma. «Qualcuno si comporta in modo poco trasparente» denuncia Marco Griffini, presidente dell’Associazione amici dei bambini, uno degli enti più importanti in Italia. «E dove entrano in gioco i contanti, tutto è possibile: dalla corruzione al riciclaggio. Ma ci sono le linee guida della commissione: i pagamenti devono essere trasparenti e tracciabili. E devono trovare riscontro nei bilanci degli enti autorizzati, meglio se certificati da una società di revisione. Il settore delle adozioni internazionali esige controlli: continui e diffusi». Decine di famiglie denunciano altre opacità. A Panorama hanno raccontato le loro storie, chiedendo però l’anonimato. Storie che si assomigliano. Tutti sono partiti dall’Italia: con la foto dell’agognato bambino in mano. Ma, arrivati a destinazione, la loro felicità s’è infranta davanti a cartelle cliniche allarmanti, sguardi spenti e malattie irreversibili. Anna e suo marito scoprono, dopo aver inviato la cartella clinica dalla Russia all’Italia, che il loro neonato è sieropositivo: rinunciano al mandato, perdendo quasi 20 mila euro. Vittoria, in un orfanatrofio vicino Dakar, in Senegal, conosce il suo futuro figlio. Ma il suo piccolo corpo malnutrito pende a destra, quasi bloccato. Con il compagno, lo porta da un medico del luogo. Il responso li gela: probabilmente non camminerà mai. Anche loro declinano: intanto hanno speso quasi 14 mila euro. A Giulia e il marito, invece, assegnano un bambino congolese di 7 mesi. Prima ancora di partire per l’Africa, scoprono però che non è adottabile. E sta per morire a causa di una malformazione cardiaca. Giulia, pressata dal marito, firma la rinuncia all’abbinamento. Ha già pagato 15 mila euro: «Dei soldi però non m’importa» spiega. «Da quel momento sono morta dentro. Due anni dopo, ho avuto il cancro. Ma preferirei mille volte avere un altro tumore che perdere un figlio che sentivo già mio». Altre adozioni finiscono tra tribunali e avvocati. Molte famiglie deluse hanno teso l’arco giudiziario. Per scagliare dardi contro gli enti e la Cai. Sono ormai decine le cause intentate. A Savona è appena cominciato il processo contro Airone, una onlus di Albenga. Nelle aule del tribunale ligure, un postmoderno scheletro di forma triangolare, da qualche settimana si avvicendano sul banco dei testimoni le coppie dell’affaire Kirghizistan. I vertici della onlus e i suoi referenti stranieri sono indagati per associazione a delinquere finalizzata alla commissione di truffe. Ventuno famiglie, che avevano già versato più di 10 mila euro, erano partite dall’Italia nell’estate 2012, sicure di poter tornare a casa con i loro figli. Invece, arrivate a Biškek, la capitale kirghiza, scoprono che nessun bambino salirà sull’aereo. «Perfino i processi in cui veniva dichiarata l’adottabilità erano una messinscena: giudici figuranti, tribunali fasulli, sentenze false» racconta uno dei genitori, Fabio Selini. Che sullo scandalo in Kirghizistan ha scritto e portato in scena un monologo teatrale, Immagina: «Per raccontare cosa ci è successo, soprattutto a chi si sta avvicinando all’adozione. E dare alle persone comuni l’opportunità di conoscere e indignarsi». Nell’attesa di una sentenza a Savona, Maurizio Falena e Gabriella Lepre, una delle coppie coinvolte, ha portato Airone e la Cai davanti al Tribunale civile di Roma. Che il 30 novembre 2017 ha condannato l’ente e la commissione a un risarcimento record: 193 mila euro. Nel dispositivo, il giudice Assunta Canonaco, riassume: «Una procedura adottiva mal gestita, portata avanti illecitamente in violazione della normativa italiana ed estera». Quanto alle colpe della Cai: non ha sospeso le procedure, non ha informato le famiglie coinvolte e «ha revocato l’autorizzazione all’ente solo nel marzo 2013, dopo oltre un anno, consentendo quindi all’Airone di continuare a operare nel paese in danno degli attori». Pierfrancesco Torrisi, l’avvocato della coniugi romani, rivela: «È stata la prima sentenza in Italia che ha punito la Cai per omessa vigilanza. E tanti, adesso, cominciano a chiedere risarcimenti». Un’altra corposa inchiesta penale è in mano, invece, alla procura di Torino. Che, in seguito alla denuncia di alcuni genitori, ha indagato per truffa i vertici dell’associazione Enzo B. A breve i magistrati potrebbero chiudere le indagini preliminari. E anche in questo caso, i pm stanno verificando eventuali omissioni da parte della commissione governativa. Si torna ancora lì. Eppure l’adozione internazionale è uno di quei temi che la politica non ha mai smesso di evocare. L’ex premier Matteo Renzi, nella Leopolda del 2011, l’aveva addirittura elevata a novantunesima proposta per cambiare l’Italia: «Più controlli sugli enti autorizzati anche da parte della magistratura, comprese le verifiche sui costi sostenuti. In modo da ridurre gli attuali, e pesanti oneri economici». Alle primarie del Pd, un anno dopo, aveva alzato il tiro: «Oggi una coppia che vuole adottare un bambino deve pagare tangenti a realtà internazionali». Nominato Presidente del consiglio a febbraio 2014, Renzi diventa, come da regolamento, presidente della Cai. A differenza dei suoi predecessori, che avevano conferito la delega ai ministri della Famiglia, mantiene l’incarico per un paio di mesi. Sua vice è un magistrato ed ex senatrice del Pd, Silvia Della Monica, che ad aprile 2014 viene promossa presidente della Cai. Carica che mantiene fino a maggio del 2016: quando al suo posto è nominata Maria Elena Boschi. Già due anni prima, però, l’allora ministro delle Riforme, era già stata ufficiosa madrina delle adozioni internazionali: seppur per qualche giorno. A maggio del 2014, tra i flash impazziti dei fotografi, riporta in Italia 31 bambini congolesi: destinati a genitori italiani, ma bloccati dal governo africano. Un exploit diplomatico e mediatico, reso iconico dalla treccina fatta al ministro da una bimba, rimasto però isolato. Durante gli anni del governo Renzi, la Cai è stata accusata di immobilismo da tutto l’arco parlamentare. «La commissione non è stata convocata per due anni» dice il senatore leghista Simone Pillon, all’epoca consigliere Cai. «Le adozioni sono crollate e non si sono stretti accordi con nuovi Paesi. Il sistema è andato in cortocircuito. Uno stallo che continuiamo a pagare». La gestione dell’epoca renziana non s’è guadagnata però solo gli strali politici. Il 12 settembre 2017 alla Cai s’insedia una nuova vicepresidente: Laura Laera, già presidente del Tribunale dei minori di Firenze, trasformato in un modello di efficienza. Il resoconto della prima riunione del nuovo corso è un atto d’accusa contro l’ancien régime: «Si è fornita ampia documentazione a tutti i commissari attestante numerose irregolarità» si legge. E ancora: «Si è rilevato tra l’altro, in diversi casi, la mancata corrispondenza tra numeri di protocollo e i documenti, nonché l’assenza di numerosi allegati». Infine: «Da diversi anni non vengono effettuati controlli sugli enti». E dal 2012 al 2017 sono stati perfino bloccati i rimborsi per le spese adottive: un contributo dovuto per coprire parte dei costi all’estero. Solo a maggio del 2018, l’atteso annuncio: finalmente quei soldi arriveranno alle famiglie. Con cinque anni di ritardo, però. E saranno molti meno di quelli promessi. Ma per i cirenei dell’adozione, alla fine, questo è solo un buffetto.
Susanna Picone per Fanpage il 4 febbraio 2019. Ivana Gaveglio, sindaco di Carmagnola (Torino), ha parlato di “una storia da spezzare il cuore” per commentare la notizia trapelata domenica del bambino di otto anni trovato nei dintorni della città mentre camminava da solo lungo una strada provinciale. L’episodio risale al 23 dicembre scorso e i vigili hanno rintracciato la madre del bambino, una trentottenne rom bosniaca che vive in un campo nomadi a Chieri (Torino). Una donna che ha confermato la versione di suo figlio: non vuole averlo con sé nella roulotte che condivide col nuovo compagno per cui a suo dire il bambino deve vivere con i nonni paterni. Il padre biologico del piccolo, che risulta vivere in Campania, è al momento irreperibile. Il bambino ora è in una casa protetta e sta bene – Ivana Gaveglio, eletta a Carmagnola per il centrodestra, ha spiegato come sta vivendo il piccolo dal giorno del ritrovamento da parte dei vigili. “Il bambino – ha detto il sindaco – ora è in una casa protetta. È diventato un po' la mascotte di tutti e, in particolare, della polizia municipale. Si è interessata la Caritas e c'è stata una gara a procurargli abiti e cose di prima necessità. Lui sta bene, è tranquillo, è tenerissimo. Ma il suo percorso di vita è in salita. L'importante – ha aggiunto ancora il sindaco – sarà dotarlo degli strumenti per affrontarlo”. “La mamma non mi vuole più” – Quando è stato trovato nei dintorni di Carmagnola il piccolo protagonista di questa brutta storia camminava lungo una strada provinciale con addosso soltanto un maglioncino di lana. “La mamma non mi vuole più, così sto cercando i miei parenti”, aveva detto ai vigili che gli chiedevano cosa stesse facendo da solo al freddo. Saranno i servizi sociali di Torino, coordinati dal tribunale dei Minori, a occuparsi del bambino. Nel frattempo i genitori sono stati denunciati per abbandono di minore.
(ANSA) - Camminava lungo una strada provinciale con addosso soltanto un maglioncino di lana, e quando i vigili gli hanno chiesto cosa stesse facendo ha risposto che "la mamma non mi vuole più, così sto cercando i miei parenti". E' successo nei dintorni di Carmagnola (Torino). Il piccolo protagonista di questa vicenda è un bimbo di 8 anni, che ora è stato affidato a una comunità. Il tribunale per i minori di Torino si occuperà del caso. La polizia municipale di Carmagnola ha rintracciato la mamma del bambino, una trentottenne rom bosniaca che vive in un campo nomadi a Chieri (Torino), a circa 25 km di distanza. La donna ha confermato di non volere accogliere il figlio nella roulotte, che condivide con un nuovo compagno, e ha spiegato che il bimbo vive da tempo con i nonni. Gli agenti stanno verificando le sue affermazioni. Nel frattempo hanno presentato una denuncia per abbandono di minore.
Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” il 4 febbraio 2019. In Italia, il popolo delle persone scomparse nel nulla è una invisibile città grande come Cuneo. Delle 229.687 sparite dal 1974 a fine 2018, 171.974 sono state ritrovate, ma delle rimanenti 57.713 si sono perse le tracce. Questi dati sono stati diffusi qualche giorno fa, nella ventesima relazione semestrale pubblicata dall' ufficio del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse. Di questa folla improvvisamente sprofondata nell'oblio, 14.504 sono i maggiorenni (5.928 italiani e 8.576 stranieri), 41.655 i minorenni (2.412 italiani e 39.243 stranieri) e 1.554 i maggiori di 65 anni (1.311 italiani e 243 stranieri). I maschi sono 44.830 (6.338 italiani e 38.492 stranieri), le femmine 12.870 (3.309 italiane e 9.561 straniere). Sulla profilazione degli scomparsi c'è un problema di confusione: «L'ottanta per cento degli scomparsi di quest'anno è composto di stranieri giunti sulle nostre coste», spiega l'avvocato Antonio Maria La Scala, presidente di Penelope onlus, associazione nazionale che riunisce le famiglie e gli amici delle persone scomparse («Siamo l'associazione più triste d'Italia», commenta l'avvocato, «parliamo solo di morti, dispersi, feriti»). «Sono persone che rimangono in Italia, nei centri di accoglienza, per tre o quattro mesi, poi si allontanano per raggiungere i familiari in altri Paesi dell'Unione Europea. Unire le persone scomparse italiane nel corso degli anni con quelle straniere, che rientrano invece nelle dinamiche problemi legati ai flussi migratori, è fuorviante e comporta la dispersione degli sforzi delle forze dell'ordine: sono due casistiche completamente diverse», allerta La Scala. Sulla stessa linea il commissario straordinario Mario Papa: «Sarebbe auspicabile, come più volte rappresentato dall' Ufficio, che i migranti siano scorporati e considerati a parte per contribuire a dare alla opinione pubblica un quadro esatto del fenomeno». Se un dato positivo c'è - la tendenza all' aumento dei ritrovamenti, il 74,4 per cento, contro il 57,8 per cento dell'anno scorso - all' appello mancano però ancora 2.412 bambini e 3.336 donne: «All'inizio vengono tutti considerati casi di allontanamento volontario», racconta La Scala, «Ci sono donne che escono di casa abbandonando i figli, gli effetti personali, e scompaiono. Detto così, sembrerebbe che in Italia le donne siano tutte matte: ma, ovviamente, nella maggior parte dei casi si tratta di femminicidi con occultamento di cadavere». Su che cosa si può lavorare di più? «Noi ci siamo impegnati per rendere esecutiva la banca dati del Dna, grazie alla legge 85 del giugno 2009 (diventata esecutiva però solo nel 2016): ora è possibile incrociare il profilo genetico di resti cadaverici ritrovati, con le denunce di scomparsa compatibili con il soggetto in questione per riuscire a sapere l'identità dello scomparso», spiega ancora La Scala. «L'articolo 7 prevede la possibilità di prelievi genetici su cadaveri e resti per consentire il confronto con i profili genetici dei consanguinei delle persone scomparse». Dal 2016, inoltre, vengono prelevati tutti i Dna dei detenuti nelle carceri italiane. «Ma soprattutto è importante che i casi non vengano catalogati come allontanamento volontario: ciò induce l'investigatore e il pubblico ministero a essere più morbidi nelle indagini», conclude La Scala, «Mentre l'immediatezza delle ricerche è fondamentale, le prime 48 ore sono determinanti. Altrimenti, cinghiali e animali selvatici fanno il resto».
· Boy Scout, esplode lo scandalo abusi.
Boy Scout, esplode lo scandalo abusi: «12mila vittime di molestie negli Usa». Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Corriere.it. Esplode lo scandalo abusi tra i Boy scout statunitensi. A rivelarne la portata è stata Janet Warren, docente all'Università della Virginia, durante la sua testimonianza in un processo per molestie su minori in una compagnia teatrale per bambini a Minneapolis, in Minnesota. Quasi 8mila Boy Scout d'America sono stati accusati di abusi sessuali su minori dal 1944, e in seguito cacciati dall'organizzazione. Dal 1944 al 2016, secondo i dati riportati dai media americani, 7.819 leader e volontari avrebbero abusato sessualmente di 12.254 vittime. Numeri che si trasformano in una nuova minaccia finanziaria per l'organizzazione, dopo che vari Stati hanno approvato o stanno approvando nuove finestre legali che consentiranno a vittime di vecchia data di fare causa. E ora l’organizzazione potrebbe essere costretta a chiedere la bancarotta, come riporta tra gli altri il Boston Globe. «Una bancarotta dell'associazione — ha chiarito l'avvocato Mike Pfau, che difende più di trecento vittime nello stato di New York — potrebbe essere la più grande della storia legata ad abusi sessuali». L'avvocato Jeff Anderson, che difende le vittime nel processo, ha pubblicato sul sito del suo studio i nomi dei 180 nomi di volontari accusati di pedofilia nello stato di New York, e ha invitato le vittime a denunciare. «Siamo profondamente addolorati — ha spiegato l'associazione con un comunicato — e ci scusiamo sinceramente con chiunque abbia subito abusi durante il periodo dello scouting. Niente può essere più importante della sicurezza e protezione dei bambini». Fondata nel 1910, l'associazione dei Boy Scouts of America ha attualmente circa 2,4 milioni di membri: «Siamo oltraggiati dal fatto che ci sono stati periodi in cui delle persone hanno approfittato dei nostri programmi per abusare di bambini innocenti», hanno aggiunto.
COME TI ABUSA IL BOY SCOUT. Da Il Messaggero 24 aprile 2019. Esplode lo scandalo abusi nei boy scout statunitensi. A rivelarne la portata è stata l'esperta Janet Warren, docente all'University of Virginia, durante la sua testimonianza in un processo per molestie su minori in una compagnia teatrale per bambini a Minneapolis, in Minnesota. Quasi 8.000 boy scout d'America sono stati accusati di abusi sessuali su minori dal 1944, e per questo sono stati cacciati dall'organizzazione. Dal 1944 al 2016, secondo i dati riportati dai media americani, 7.819 leader e volontari avrebbero abusato sessualmente di 12.254 vittime. Una nuova minaccia finanziaria pende quindi sull'esistenza dei Boy scout d'America, forse la più rischiosa nei loro 109 anni di storia: una nuova valanga di denunce per molestie sessuali, dopo che vari Stati hanno approvato o stanno approvando nuove finestre legali che consentiranno a vittime di vecchia data di fare causa. Gli avvocati stanno già andando a caccia dei clienti con una aggressiva campagna su internet. L'organizzazione potrebbe essere costretta a chiedere la bancarotta.
TI INSEGNO A MONTARE… UNA TENDA. Anna Guaita per “il Messaggero” il 25 aprile 2019. Un' altra delle più rispettate e amate associazioni americane viene travolta da uno scandalo di molestie sessuali. Dopo le denunce contro la Chiesa Cattolica, anche l' associazione dei Boy Scouts of America deve rispondere dell' accusa di non aver agito in modo pronto e trasparente in difesa dei bambini. Lo scandalo, come quello dei sacerdoti cattolici, è in realtà scoppiato anni fa, ma nelle ultime settimane è riesploso con maggior vigore e questa volta non sembra facile da insabbiare. I numeri da soli fanno paura, con oltre 12 mila bambini molestati fra il 1944 e il 2016. Già nel 2010, quando vennero a galla le prime accuse, la Bsa ha dovuto risarcire decine di vittime, con una spesa di oltre 18 milioni di dollari. Ma lo stillicidio non è finito, e le denunce continuano a venire. Per di più aumenta il numero di Stati che sta estendendo i termini temporali entro i quali si possono perseguire i reati a sfondo sessuale, allontanando la possibilità che cadano in prescrizione. Davanti alla possibilità di denunce di casi vecchi di anni, se non decenni, lo scorso dicembre la Bsa ha cominciato a esplorare la possibilità di dichiarare bancarotta e chiedere l' amministrazione controllata. Ciò la renderebbe immune da nuove cause per danni. La rivelazione ha messo sul piede di guerra vari studi di avvocati, che hanno esteso un invito nazionale a farsi avanti a tutti coloro che siano stati molestati e finora non ne avessero parlato. E solo nelle ultime settimane altri 200 individui si sono aggiunti alle liste già esistenti, e il nome di altri 150 sospetti pedofili mai prima citati sono stati rivelati. Come è successo nello scandalo della Chiesa Cattolica, il problema che più turba è il fatto che l' organizzazione stessa avesse conoscenza di quel che avveniva e tenesse dei segretissimi perversion files, le cartelle della perversione, in cui attraverso gli anni venivano riportati gli incidenti, i nomi dei presunti colpevoli, delle vittime, i fatti accaduti. I sospetti pedofili venivano allontanati, e definiti inelegible (non ammissibili). Ma gli atti che si credeva avessero compiuto non venivano resi pubblici, nè riferiti alla polizia. L' accusa delle vittime, così come degli avvocati che le difendono, è che la Bsa ha sì purgato se stessa, ma ha di fatto lasciato in libertà possibili pedofili che potrebbero aver continuato a molestare bambini altrove. Alcune delle vittime che si sono fatte avanti adesso chiedono scusa per non aver avuto il coraggio di parlare prima. James Kretschmer, di 56 anni, e Kendall Kimber di 60, raccontano di aver provato «vergogna e paura» per decenni, ma di aver deciso di farsi avanti per evitare che quel che hanno sofferto da bambini succeda ad altri piccoli oggi: «Temo che ci siano migliaia di bambini che non avrebbero dovuto subire le stesse cose se la gente si fosse ribellata prima e avesse detto che no, non si sarebbero tollerate questi atti» ha detto Kretshmer. L' esistenza delle «cartelle della perversione» è stata rivelata dopo l' inizio dello scandalo nel 2010. Ma è stata la stessa organizzazione dei Boy Scout a assumere una esperta di psichiatria, la professoressa Janet Warren, perché le studiasse e ne facesse un sunto. La docente dell' University of Virginia ha lavorato su documenti che cominciavano dagli anni Quaranta, ed è giunta alla conclusione che nei decenni c' erano stati 7.819 individui «coinvolti nell' atto di molestare sessualmente un bambino». Sulla base delle sue conclusioni, gli avvocati chiedono che le cartelle vengano rese pubbliche e i nomi rivelati. La Boy Scouts of America si difende: «Non abbiamo mai consapevolmente permesso a un criminale di lavorare con i giovani». E ribadisce: «Per noi niente è più importante della sicurezza e della protezione dei bambini. Siamo indignati che ci siano stati momenti in cui le persone hanno approfittato dei nostri programmi per abusare di bambini innocenti».
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Dura Lex, Sed Lex?
Dura Lex, Sed Lex - “La Legge è dura, ma è legge” - è un invito, generalmente attribuito a Socrate, a rispettare la legge anche nei casi in cui sia gravosa, ossia più rigida e rigorosa.
Il Brocardo risalirebbe ad Ulpiano ed era già presente nel Digesto in riferimento ad una legge rigorosa che regolava l’affrancamento degli schiavi.
Questo motto risale al periodo di introduzione delle leggi scritte. Fino ad allora le leggi venivano tramandate oralmente con libero arbitrio dei giudici che detenevano il potere di riferire la traduzione orale.
Il senso del motto sarebbe: sebbene la legge sia dura, è pur sempre una legge scritta che vale per tutti.
Ma se la legge non è giusta, merita di essere rispettata ed applicata?
Seconda una diffusa interpretazione giustizialista, in virtù di un più elevato beneficio della Comunità, la legge va rispettata, anche se gravosa.
Secondo altra interpretazione rivoluzionaria e garantista, poiché la legge è legge, se essa non è giusta, non vi è alcuna Giustizia, e quindi non va rispettata.
In questo senso l’esempio di Socrate che muore per dimostrare la mostruosità di una legge ingiusta e come tale da combattere ed avversare perfino con la propria morte.
Il monologo inedito. Nel nome di Caino, Camilleri incontra il garantista Sciascia. Sergio D'Elia 22 Novembre 2019 su Il Riformista. Mi piace pensare che l’Autodifesa di Caino da parte di Andrea Camilleri, resa pubblica – che coincidenza! – nei giorni in cui ricorre il trentennale dalla morte di un altro grande siciliano, Leonardo Sciascia, sia anche una sorta di conversione del padre nobile dell’Antimafia nel segno e nel senso che lo scrittore di Racalmuto invocava quale deterrente al terrore mafioso, cioè l’alternativa del Diritto e dei Diritti Umani contro la terribilità dei processi e delle pene speciali. «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto», scriveva Sciascia negli anni più bui della guerra scatenata dalla mafia, indicando la via maestra per combatterla e sconfiggerla. Insieme a Marco Pannella e al Partito Radicale, Sciascia ha continuato a difendere i basilari principi costituzionali e democratici, i valori di giustizia e libertà su cui si fonda lo Stato; non li ha mai sacrificati alla ragion di Stato, sottomessi a una logica dell’emergenza senza fine, che alimenta e si alimenta sempre di norme, procedimenti e regimi speciali. L’Autodifesa di Caino da parte di Camilleri è clamorosa perché arriva, pur in finale di partita, da chi nella sua vita si è accompagnato a quei militanti della giustizia senza libertà che sono stati i girotondini, impegnati sempre a fare giustizia più che a rendere giustizia, a porre marchi di infamia sugli autori del male più che sul male stesso. Dal Caino di Camilleri emerge invece una parabola edificante dell’antica e terribile vicenda del fratello che uccide il fratello, vicenda dall’esito imprevedibile e, a ben vedere, molto più civile e significativo, rispetto alla storia moderna dei delitti e delle pene, alla civiltà contemporanea delle soluzioni patibolari che sono ancora in voga: non solo il carcere, che è tempo e luogo privativo della libertà, ma addirittura il “carcere duro” del 41 bis e, nel carcere duro, quello ancora più duro, che sono le aree riservate del 41 bis, privative non solo della libertà, ma anche della vita, della dignità e della sicurezza della persona e, a ben vedere, anche della umanità della nostra società. Il Caino difeso da Camilleri, da radice del male diviene artefice di riscatto: elevato al rango umano, Caino è affrancato dalla pena di infamia che impone sul condannato un marchio che sentenzia: tu sei il tuo delitto, tu non cambierai mai. Fosse uscito questo Monologo nei giorni della sentenza della Corte Costituzionale contro il “fine pena mai”, sarebbe stato il civile controcanto al coro giustizialista dei fautori della pena infinita per i condannati a essere “mafiosi per sempre”. Riportando il famoso passo della Genesi al suo senso originario, Camilleri ci richiama al principio della Storia e dell’umanità, quando eravamo più civili, più umani, più giusti di oggi. Con l’Autodifesa di Caino ritorniamo all’Antico Testamento, alla letteralità del passo della Genesi: «il Signore pose su Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato». «Nessuno tocchi Caino», scrive Camilleri nel suo Monologo. Nessun marchio d’infamia, nessuna pena, nessun patibolo, nessuna violenza, nessuna sofferenza. L’errante è “condannato” ad errare, ad andare ramingo per terre sconosciute e, per ciò, divenne “costruttore di città”. Nessuna prigione, non pene alternative, ma alternative alla pena. Caino-costruttore-di-città, questa fu l’alternativa, attualissima, concreta. Abbiamo bisogno – diceva Aldo Moro – «non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale». Dopo l’abolizione della pena di morte e della pena fino alla morte, è questa la nuova frontiera, il senso della lotta di “Nessuno tocchi Caino”. Occorre rompere quella “catena perpetua”, l’ergastolo mentale che ci costringe a pensare ancora che alla violenza e al dolore del delitto debbano necessariamente corrispondere una violenza e un dolore eguali e contrari, quelli inflitti dal giudizio e dal castigo propri del diritto penale. La risposta al male, alla violenza, all’odio, al dolore, sta nel bene, nella nonviolenza, nell’amore, nel piacere di riparare quel che si è rotto, riconciliare quel che si è separato, unire quel che si è diviso, ricucire quel che si è strappato, ricostruire quel che si è distrutto… «Allora capii che finalmente ero arrivato alla fine del mio lungo errare e lì, proprio attorno a quel cerchio di pietre, avrei raccolto la prima comunità di umani e che sempre lì avrei fatto sorgere la città che nel lungo peregrinare m’ero ripromesso di costruire». Questa è la parabola felice della storia di Caino, come la racconta Andrea Camilleri.
Se la giustizia è “servizio” nella lezione di Sciascia. Iuri Maria Prado il 28 Settembre 2019 su Il Dubbio. L’idea che il magistrato “sia” giustizia, piuttosto che un funzionario che la amministra, è diffusa e comanda tante volte l’atteggiamento di chi è incaricato di accusarci e giudicarci. “Spero venga letto con serenità”. Così Leonardo Sciascia chiudeva la prefazione a un libro (A futura memoria) composto a raccolta di alcuni suoi scritti in argomento di giustizia. Sciascia probabilmente si augurava che la poca serenità con cui furono letti i suoi scritti giornalistici sulla giustizia italiana cedesse passo a un atteggiamento diverso – e non si dice di favore, ma almeno più sereno, appunto nell’occasione di quella iniziativa editoriale di riproposizione di quei suoi interventi su giornali e riviste. Ed è altrettanto probabile che quell’augurio Sciascia formulasse, per così dire, con intima riserva: e in profundo con la triste certezza che non sarebbe stato così, e cioè che il tempo pur passato non avesse ottuso le punte di irritazione, di risentimento che già si erano rivolte contro la pubblicazione originaria di quei suoi scritti. Ancora dopo trent’anni è lo stesso. E non su Sciascia e verso Sciascia, ma su chiunque e verso chiunque si provi a discutere delle questioni di giustizia rivendicando il diritto del cittadino di tenere sott’occhio il lavoro dei magistrati: e di giudicarlo. Il diritto dei cittadini di considerare l’amministrazione della giustizia un servizio, come tale esposto al giudizio civile di chi ne usufruisce e lo subisce: e lo paga. Un servizio: non una missione apostolare. E di considerare chi deve prestare quel servizio un funzionario: non un sacerdote. Chi rivendica questi diritti – et pour cause – passa per bestemmiatore. E si potrà anche dire che a volte la critica a questo o quel comportamento del magistrato è poco serena, dunque contaminata dalla stessa temperie per cui si segnala la reazione. Si potrà anche dire, cioè, che la mancanza di serenità contrassegna tutto il dibattito in argomento. Ma c’è una differenza. E cioè che i destinatari di un’applicazione impropria della violenza giudiziaria hanno tutto il diritto di lamentarsene e di denunciarla anche poco serenamente. Perché non sono in posizione di parità; e chi è soggetto alla pretesa punitiva dello Stato, chi è indagato, chi è processato, soffre per ciò solo una condizione di oppressione che gli attribuisce tutto il diritto di essere poco sereno, e di poco serenamente dolersi se il suo coinvolgimento nell’affare è indebito. È chiaro che tutto questo non significa in nessun modo contestare al magistrato il potere di giudicare, o che non debbano essere osservati i suoi provvedimenti. Il suo potere di emetterli e il nostro obbligo di rispettarli sono intangibili. Ma quel suo potere e questo nostro obbligo non trasformano una sentenza sbagliata in una buona. Salvo credere che sia buona non per quel che dice ma per il solo fatto che è stata emessa o, peggio, che ad emetterla è stato chi non può sbagliare o, peggio ancora, chi, se pure sbaglia, non deve risponderne in nessun modo. L’idea che il magistrato “sia” giustizia, in modo consustanziale e insostituibilmente, piuttosto che un funzionario che la amministra, è disgraziatamente diffusa e comanda purtroppo tante volte l’atteggiamento di chi è incaricato di accusarci e giudicarci.
DURA LEX SED LEX? Andrea Giambartolomei per “il Fatto quotidiano” il 20 settembre 2019. Almeno quattro anni di carcere per due bottiglie di liquori e qualche spintone. Un giudice ha correttamente applicato la legge, ma si è posto il dubbio se la pena fosse proporzionata. E ha deciso di investire della questione la Corte costituzionale. Tutto nasce dal processo a un torinese, R.T., italiano, arrestato il 24 aprile dopo un furto in un supermercato. Il giudice, resosi conto dell' entità della pena, si è domandato se la sanzione forse troppo "brutale e irragionevole", non violasse alcuni articoli della Costituzione. Per questa ragione il 9 maggio il giudice Paolo Gallo del Tribunale di Torino ha sollevato delle questioni di legittimità costituzionale sul reato di "rapina impropria", cioè quella commessa da chi ruba e poi minaccia o compie gesti violenti per scappare. Sulla colpevolezza dell' uomo non ci sono dubbi. È stato filmato dal circuito di video-sorveglianza mentre prendeva le bottiglie dal reparto degli alcolici nascondendole sotto il giaccone. Avvicinato dall' addetta che aveva visto tutto, l'uomo ha proseguito indifferente verso l'uscita, ma qui si è trovato di fronte a un uomo - un nigeriano - che ha tentato di fermarlo. Lui l'ha affrontato e "con spintoni e strattonamenti" è riuscito "a divincolarsi e darsi alla fuga". Poi è stato bloccato dai vigilantes del supermercato. R.T. è finito in manette accusato di "rapina impropria". "Alla stregua dei verbali sopra riportati i fatti si sono verificati in maniera pienamente conforme al paradigma normativo dell' art. 628, comma 2 codice penale", si legge nell' ordinanza. Tuttavia il giudice fa notare alcuni aspetti critici della norma. Innanzitutto ipotizza una violazione dell' articolo 3 della Costituzione, secondo cui "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge" per come il reato di rapina impropria mette in rapporto l' aggressione al patrimonio e quella alla persona. Il giudice sottolinea la differenza tra la rapina propria in cui si minaccia o si compie un gesto violento prima di rubare, e quella impropria, come in questo caso. Chi compie quest'ultima inizialmente scarta la violenza, ma la compie come reazione: "Demarca - scrive il giudice - una diversa e meno grave struttura oggettiva del reato e un diverso atteggiamento soggettivo quanto a intensità del dolo e capacità a delinquere". Sembrerebbe quindi meno grave del primo. Il magistrato si sofferma poi su un altro aspetto che sarebbe in contraddizione con l' articolo 25 comma 2 della Carta, secondo il quale "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Il "fatto commesso" andrebbe messo in relazione al "principio di offensività" che "implica la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi e, a monte, la necessità di distinguere, in sede di redazione delle norme penali incriminatrici, i vari fenomeni delittuosi per le loro oggettive caratteristiche di lesività o pericolosità". Chi ha scritto quel comma del codice penale potrebbe aver sbagliato non soppesando alcune caratteristiche del reato improprio: "Qualunque sottrazione, quando sia immediatamente seguita da violenza o minaccia, ancorché lievi, è reputata dal legislatore meritevole di almeno quattro anni di reclusione", mentre per casi simili, come il furto, sono previste pene più lievi. "Non v' è più differenza, ad esempio, se la violenza segue al furto di una costosa autovettura commesso con effrazione sulla pubblica via, ovvero segue al furto semplice di due bottiglie di liquore in un supermercato", nota il magistrato secondo il quale questa norma è una "disposizione 'rozza'" che sacrifica tutto "sull' altare della esemplarità sanzionatoria". Infine, violazione più vistosa, quella dell' articolo 27, che, nel secondo comma, stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato": "Una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata - osserva il magistrato -, dall' altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice" perché "gli apparirà solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato, suscitatrice di ulteriori istinti antisociali". Per questo secondo il giudice "l'inflizione di quattro anni di reclusione più multa per la sottrazione di due bottiglie di liquore seguite da qualche strattone non può essere considerata una risposta sanzionatoria proporzionata". La parola, ora, va ai giudici della Corte.
· Ponzio Pilato paradigma del giudice codardo.
Giudici, perché non vi ribellate alla prigione? Iuri Maria Prado 22 Novembre 2019 su Il Riformista. Non è colpa dei magistrati se le leggi sono ingiuste, e non è colpa dei magistrati se i loro ordini di arresto e le loro sentenze rinchiudono le persone in un luogo infame. Perché questo è il carcere: un luogo infame, di sopraffazione, di abbrutimento, di violenza. Un luogo di morte, frequentemente. L’atto di giustizia che irroga la pena del carcere non determina unicamente la privazione della libertà, perché a questa privazione si aggiunge quel carico di afflizione supplementare: il vivere in spazi malsani e sovraffollati, l’esposizione al sopruso, la negazione di diritti che la nostra società garantisce già agli animali. Condannare al carcere significa condannare a tutto questo. E appunto: non è colpa del magistrato se ci sono comminazioni che una politica diversa potrebbe abrogare, così come non è colpa sua se esse si realizzano sulla pelle dei condannati in quella forma incivile. Ma una cosa nessuno, e dunque nemmeno il magistrato, può dire: che non sia vero o che non si sappia che la realtà del carcere è perlopiù quella. Ci si potrebbe domandare come faccia a prendere sonno serenamente chi sa che la propria decisione di giustizia infierisce con tanta violenza sulla vita di una persona, condannandola non solo alla mancanza della libertà ma all’immondizia di quella segregazione. Ci sarà ben qualcuno cui tutto questo ripugna, no? Ci sarà ben qualcuno preso dall’angoscia, dal rimorso, dalla rivolta, davanti alla certezza che il suo provvedimento affiderà chi ne è vittima a quel dispositivo di degradazione. E allora come mai non sentiamo mai da nessuno venire questo lamento? Tanto spesso si rivendica in favore dei magistrati, e tanto spesso alcuni di loro rivendicano, il diritto di opinione su qualsiasi faccenda di giustizia, un diritto che si esercita ormai su ettari di interviste e quotidianamente nel corso di applauditissime trasmissioni televisive. Ma da quelle tribune non viene mai quel lamento, quella protesta. Mai che si dica: siamo obbligati ad applicare la legge del carcere, ma non ci piace, ci fa orrore, e desidereremmo tanto che i nostri provvedimenti non arrecassero tanta ingiusta sofferenza. Perché non lo dicono? Perché non adoperano il diritto di opinione, che pure rivendicano ed esercitano senza sosta, per far sapere ai cittadini e a chi fa le leggi che loro non ne possono più di dover mandare la gente in quel carnaio? Eppure li abbiamo visti e sentiti, in più occasioni, manifestare la loro indignazione verso leggi a loro giudizio sbagliate. In quelle occasioni si è trattato di comportamenti sostanzialmente sediziosi ed eversivi, mentre qui sarebbe tutt’altro perché la situazione del carcere, nonché ingiusta, è anche illegale. E denunciarla facendo sapere che è intollerabile essere costretti a mandarci la gente, spesso anche prima del processo, rappresenterebbe un omaggio di legalità oltre che un segno di vigore civile. Non compete ai magistrati il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Ma il miglioramento potrebbe venire se i magistrati usassero la loro influenza (diciamolo: il loro potere) per reclamare una amministrazione della giustizia meno ingiusta.
Ponzio Pilato paradigma del giudice codardo. Vincenzo Vitale il 13 Settembre 2019 su Il Dubbio. Dall’episodio di Barabba Hans Kelsen ha tratto il suo argomento contro la democrazia: la maggioranza aritmetica non dà garanzie di potersi orientare alla verità a scapito della minoranza. Il procedimento penale intentato dai sommi Sacerdoti e dai membri del Sinedrio a carico di Gesù non è soltanto un fatto storicamente significativo, ma rappresenta certamente il paradigma di ogni processo che, scavalcando in modo evidente le ragioni del diritto, voglia a tutti i costi giungere ad un fine prefissato: la condanna. Gesù non doveva essere processato, ma condannato; e il processo si presentava come un fastidioso passaggio che sarebbe stato meglio evitare. Ma non si poteva giungere a tanto perché sarebbe stato osare troppo. Questo processo è infatti soltanto la messa in opera di un meccanismo persecutorio, come è facile constatare a partire dal fatto che ancor prima che esso abbia inizio sappiamo tutto: che cioè Gesù è del tutto innocente – anzi, Egli è l’” innocente” per definizione; che i suoi accusatori non intendono giudicarlo, ma condannarlo; che la condanna è inevitabile. Insomma, l’esatto contrario di ciò che deve registrarsi in un normale processo di diritto. Qui siamo sicuri che le forme della procedura serviranno soltanto ad ottenere une decisione ingiusta. Gesù va tolto di mezzo ad ogni costo, trattandosi di un personaggio molto scomodo, che le canta a tutti senza giri di parole e che ha il coraggio di dire addirittura la verità: farisei, sadducei, sacerdoti, scribi, tutti sono contro di Lui, di Lui che, come dicono le scritture, «ha fatto bene tutte le cose». Che Gesù sia innocente ed esente da ogni colpa non solo lo sanno bene i suoi accusatori, ma anche i suoi giudici. I suoi accusatori, infatti, nel corso del processo- farsa davanti al Sinedrio, cercano testimoni che parlino contro di Lui, che possano suffragare le accuse: invano. I testimoni, tutti e senza eccezioni, non hanno nulla da dire contro di lui e perciò sono inservibili. Ecco allora l’astuzia degli accusatori, funzionale a superare il problema, altrimenti irresolubile, della mancanza di testimoni d’accusa. Gli si chiede se davvero Gesù sia il figlio di Dio e alla Sua risposta Caifa, stracciandosi le vesti, grida che non hanno più bisogno di testimoni, perché Egli ha bestemmiato alla presenza di tutti e tutti hanno udito. Gesù perciò commette quello che i Sacerdoti considerano un illecito – quale la bestemmia – soltanto dopo essere stato arrestato, in presenza di tutti, e non prima.
Gesù perciò merita la morte. Ma non potendo i Sacerdoti irrogare tale pena, in quanto sottomessi alla dominazione romana, son costretti a rivolgersi a Pilato. Pilato rappresenta, come è noto, il paradigma del giudice ingiusto. Perché? Innanzitutto, perché Pilato sa benissimo che Gesù innocente. Infatti, a più riprese tenta di sottrarlo al giudizio, tenta di salvarlo. Allo scopo di appagare, almeno in parte, la furia degli accusatori, e pur riconoscendone la completa innocenza, fa fustigare Gesù, che viene anche percosso, irriso, abbandonato da tutti. Proclama apertamente che non trova nessuna colpa in Lui, ma non basta: la folla ruggisce. Allora, Pilato ha un colpo di genio: sicuro del fatto suo, chiede alla folla se preferisce sia liberato Gesù, di tutto innocente, o Barabba, di gravi delitti colpevole? E qui, Hans Kelsen, come è noto, ha ricamato il suo argomento contro la democrazia: una maggioranza schiacciante urla convinta che Pilato deve liberare Barabba e non Gesù. Il vizio endemico o, se si vuole, il peccato originale del metodo democratico: quello di non poter ovviamente garantire che il 51% abbia davvero ragione e il 49% davvero torto. La maggioranza aritmetica non dà garanzie di potersi orientare alla verità a scapito della minoranza. Platone già lo osservava: non è detto che i più – solo per essere appunto i più – abbiano ragione. Pilato non conosce ovviamente Kelsen e forse ha appena letto qualcosa di Platone, ma sa bene che le cose stanno proprio così e cioè che la liberazione di Barabba, invece di quella di Gesù, è una infamia. Così Pilato annaspa, tentenna, forse pensa addirittura di mettersi contro il volere della folla. Ma poi interviene un sentimento nuovo a condizionarlo pesantemente: la paura. Infatti, i notabili israeliti gli fanno notare che Gesù si è detto Re e che ciò è pericoloso per Roma e il suo impero. Chi si dice Re è contro Roma, per definizione. E Pilato lascerebbe che ciò accada impunemente? E non teme per sé? Per la sua carriera? Per la sua immagine pubblica? Non avendo il necessario coraggio, Pilato cede, rinnegando se stesso e, lavandosene le mani, destina Gesù alla croce, alla morte di croce. Pilato insomma consuma una ingiustizia che egli sa esser tale, come mai dovrebbe fare un giudice. Antepone la paura al coraggio della decisione secondo giustizia, come mai dovrebbe fare un giudice. Libera un assassino invece di un innocente, coma mai dovrebbe fare un giudice.
Condanna un innocente a morte, sapendolo innocente, come mai dovrebbe fare un giudice. Insomma, si pone agli antipodi del vero giudice. Ma la più grave colpa di Pilato, ingiusto giudice, consiste nell’aver chiesto a Gesù, «che cosa è la verità?», senza attendersi risposta. Forse perché la domanda era sbagliata. Pilato avrebbe dovuto chiedere non che cosa, ma «chi è la verità?». L’aveva davanti a sé. E non la vedeva.
· Se le forme del diritto possono essere asservite al delitto.
La lezione di Dürrenmatt, la giustizia troppo umana non è la verità. Eraldo Affinati il 15 Dicembre 2019 su Il Riformista. Quando scriviamo giustizia dobbiamo usare la maiuscola o la minuscola? Questa domanda, antica e moderna, resta sempre cruciale: la maschera giuridica viene di volta in volta usata come grimaldello per distruggere l’avversario di turno o quale trama tesa a ricostruire le vicende della storia contemporanea. Ma non ci vuole un filosofo del diritto per scindere il lavoro che si svolge nei tribunali da quello che avviene all’interno della coscienza di ognuno. Senza nemmeno aprire, perché ci porterebbe troppo lontano, il libro sacro delle devozioni. Cosa rappresentano le carte processuali, al di là della loro possibile strumentalizzazione? In ultima analisi e nel migliore dei casi indicano la buona intenzione umana tesa al superamento dei conflitti. A ben riflettere: un modo commovente di sistemare le cose. Chi cerchi la verità, credendo sia possibile lasciarsi alle spalle la mediazione e il compromesso, forse dovrebbe dirigersi verso l’altro mondo a cui lo spinge la saggezza popolare. Tale visione amara e sconsolata guidò la poetica di Friedrich Dürrenmatt, scomparso a Neuchâtel nel 1990. In particolare La promessa, riedito da Adelphi in una nuova traduzione di Donata Berra (pp.162, 15 euro) esprime, come meglio non si potrebbe, lo scetticismo e il disincanto del grande scrittore svizzero che, non senza malizia, sottotitolò questo libro, pubblicato nel 1958, Requiem per il romanzo poliziesco. Il nucleo tematico prende lo spunto da uno dei più brillanti investigatori di Zurigo, Matthäi. Personaggio indimenticabile di caparbia volontà propositiva. Chi, come lui, non si arrende all’evidenza e vuole scoprire i segreti più reconditi, è destinato a fare una brutta fine. L’esperto poliziotto aveva capito che non era stato l’ambulante von Gunten a uccidere la piccola Gritli Moser, bensì un uomo rimasto sconosciuto: la bambina lo aveva persino disegnato sul quaderno. Tuttavia, soprattutto quando l’accusato si era impiccato, nessuno aveva creduto alle fantasie di Matthäi. Gli stessi suoi colleghi lo avevano messo da parte alla maniera di un arnese inservibile. Il vecchio commissario, per mantenere la promessa fatta ai genitori della povera vittima, secondo cui prima o poi sarebbe riuscito ad arrestare il responsabile, aveva continuato le indagini da solo, arrivando al punto di comprare una stazione di benzina, stabilirsi lì e fingere di essere un semplice pensionato. Il tempo trascorse. Nel tentativo di attirare l’omicida nella trappola, il cocciuto agente non si fece scrupolo di usare come esca un’altra bambina. Il suo progetto si stava realizzando ma un incidente stradale causò la morte del vero colpevole e tutto restò nell’ombra. L’immagine finale di Matthäifarneticante, in preda al delirio senile, chiude il magnifico film che nel 2001 Sean Penn ricavò da quest’opera. È stata l’ultima straordinaria interpretazione di Jack Nicholson. In realtà le pagine conclusive del romanzo rivelano l’identità dell’assassino seriale, un mentecatto protetto dall’anziana moglie, finita anche lei all’ospizio. È come se lo scrittore, narrando l’estrema quasi inconsapevole confessione dell’anziana svanita, ci consegnasse lo scrutinio fallimentare di ogni tentativo di fare luce e chiarezza nel fondo oscuro dell’animo umano. Con tutta la nostra buona volontà, non arriveremo mai a chiudere la pratica. Resterà sempre un assurdo col quale fare i conti, una ferita da accettare, l’enigma irrisolvibile. Sembra quasi che Friedrich Dürrenmatt inizi a ragionare là dove Luigi Pirandello aveva terminato.
Ancora oggi, rileggendo questo testo di stringata efficacia, si apprezza la magnifica resa degli ambienti provinciali elvetici, chiusi nella difesa della loro presunta autonomia: in questo senso la figura dell’anziano detective, la cui perspicacia non serve più a nulla, illustra con splendida persuasione stilistica l’inganno a cui sarebbero destinati tutti coloro che volessero ricavare dai propri sistemi logici un’interpretazione plausibile di ciò che accade: “La nostra ragione getta una luce insufficiente sul mondo”.
Svaligiarono 150 case ma la Cassazione li scarcera: «Ci sono errori nelle motivazioni». Pubblicato sabato, 21 settembre 2019 da Corriere.it. Per l’assenza di un’adeguata motivazione sulle esigenze cautelari, nell’ordinanza che li portò in prigione, la quarta sezione penale della corte di Cassazione ha scarcerato due cittadini albanesi, arrestati nell’aprile scorso dai carabinieri con l’accusa di aver svaligiato circa 150 abitazioni, tra colpi fatti e tentati. Avrebbero preso parte a una banda in azione per mesi tra Asti, Torino e Cuneo, che aveva il vizio di fotografare le vittime, nel sonno. Una sorta di souvenir dei colpi. Mesi di indagini della compagnia di Pinerolo azzerate dalla decisione dei giudici, che hanno «annullato senza rinvio» le ordinanze emesse a suo tempo dal gip e, successivamente, dal tribunale del Riesame. La Cassazione ha infatti accolto il ricorso presentato dal difensore dei due, l’avvocato Antonio Genovese, disponendo «l’immediata liberazione» degli indagati (ne restano in carcere altri quattro). Del resto, che non tutto filasse liscio nella motivazione l’aveva annotato lo stesso Riesame, analizzando il provvedimento del gip: «Al quanto sintetica, priva effettivamente di un’analisi delle singole personalità degli indagati, per come almeno emergenti dalle indagini, e legate solo alle caratteristiche dei fatti in via più generale». Nonostante ciò, i giudici non annullarono l’ordinanza, ma passarono alla sua integrazione: sostanzialmente, rimediando alla forma stringata del gip. Una scelta che va contro la giurisprudenza della Cassazione, alla luce delle modifiche introdotte dalla legge numero 47 del 2015 (articolo 11): «Il tribunale del Riesame — spiega la sentenza numero 6.230 del 2015 — provvede all’annullamento del provvedimento impugnato sia nel caso di motivazione inesistente, cui va equiparata quella di motivazione meramente apparente che si risolva in mere clausole di stile, sia in caso di motivazione non autonoma rispetto alla richiesta del pubblico ministero». La banda, composta da sei persone, si era specializzata nella vecchia «tecnica del succhiello»: con un attrezzo da falegname, i ladri bucavano gli infissi della finestra e facevano scattare la maniglia con una pinza. Colpivano a tappeto, muovendosi a piedi tra un obiettivo e l’altro, scegliendo soprattutto abitazioni isolate. Finché non erano arrivati i carabinieri.
«Dipendenti ripresi a rubare gasolio». Ma per i giudici i filmati non bastano. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Il Tribunale di Milano assolve 11 lavoratori nell’azienda trasporti: «Ci sono sospetti, ma mancano le prove». La «Var» non basta all’«arbitro» in Tribunale per fischiare il fallo di mano (acchiappa-gasolio di frodo) tra le taniche del deposito dei bus della municipalizzata milanese dei trasporti Atm: e anche se 6 anni fa la «prova tv» dei carabinieri aveva filmato 11 lavoratori maneggiare taniche bianche prima vuote e poi in apparenza riempite, la sentenza del Tribunale di Milano osserva che, «al di là del peccato originario di una confessione di colpevolezza inserita nel rapporto informativo redatto da un addetto della vigilanza Atm» ma non utilizzabile in giudizio, «nessuno ha visto l’aspirazione del gasolio da parte di alcuno, né ha verificato se le taniche fossero piene o vuote». Sicché gli imputati di furto aggravato e ricettazione vengono assolti «perché il fatto non sussiste»: assoluzione che, per chi di loro era stato pure licenziato, propizia anche una ricollocazione lavorativa in altri contesti. Nel 2013, quando il sistema di controllo montato dall’Atm nel maxideposito di via Novara aveva rilevato un consumo anomalo di carburante, il responsabile del deposito aveva informato i superiori che un addetto alle pulizie gli aveva sussurrato in via confidenziale l’esistenza di furti notturni di gasolio. L’Atm sporgeva allora denuncia, e i carabinieri, coordinati dal pm Maria Teresa Latella, dal 13 al 24 luglio 2013 piazzavano nel deposito 4 telecamere nascoste sopra le pompe di rifornimento dei bus. Le immagini mostravano 3 dipendenti Atm e 8 lavoratori della cooperativa in subappalto, che, oltre a pulire e rifornire i bus, avvicinavano però anche taniche bianche alla pistola erogatrice gasolio. Ma questa sola movimentazione di taniche bianche da parte dei lavoratori, si domanda la sentenza della X sezione, può essere sufficiente per affermare la responsabilità penale? In aula i difensori Alessandra Bigliani e Valentina Nanula avevano chiesto ai testi d’accusa in base a cosa ritenessero che nelle taniche ci fosse gasolio, ma la risposta («per deduzione: per quale motivo dovevano trasportare acqua?») non pare significativa alla giudice. Certo «può apparire inverosimile la giustificazione» di alcuni imputati «del perché tenessero una tanica all’interno dei loro veicoli», e cioé asseritamente per rifornire le idropulitrici con cui lavoravano: il contratto di subappalto con Atm lo vietava in teoria, perché prevedeva che la coop dovesse provvedere da sola al carburante delle idropulitrici, ma tutti facevano da sempre così e alla luce del sole, sicché per il Tribunale «nessuna responsabilità può essere addossata ai dipendenti della coop che per anni hanno eseguito la stessa mansione senza che nessuno facesse osservazioni sul loro modo di lavorare». Un teste conferma di aver visto il tramestío di taniche, «ma trovandosi a 10 metri di distanza non é in grado di sapere se al loro interno vi fosse liquido per lavare i bus o gasolio». Un altro teste dice di aver fatto delle foto con il cellulare, ma la sentenza nota che «non sono mai state depositate nell’istruttoria», così come «la presenza di un panno sporco di gasolio adagiato nel bagagliaio» é particolare non inserito negli atti. «Purtroppo — conclude la giudice onoraria Samuela Fusari — le indagini avrebbero meritato ulteriori approfondimenti, al fine di trasformare dei sospetti in indizi precisi, gravi e concordanti». Come? «Sentendo ad esempio il dipendente che avrebbe denunciato la sottrazione del gasolio al responsabile del deposito». O integrando le immagini tv con appostamenti, cioé «verificando, tramite servizi di osservazione, quale fine avessero fatto le taniche di gasolio ritrovate sopra i bus fermi per riparazione».
Se le forme del diritto possono essere asservite al delitto. Vincenzo Vitale il 14 Agosto 2019 su Il Dubbio. Il genio di Cechov nella novella “in tribunale” fa un’analisi spietata di come si possa gestire male un processo. La maestria del genio si vede nella sintesi, non nell’analisi. Questo breve racconto di Cechov, di pochissime paginette, né è un probante esempio. Esso lascia nell’orizzonte del non detto quanto basta a generare nel lettore un’attesa di sapere quanto gli viene già consegnato attraverso il silenzio. Anche in questo caso, la vicenda è molto semplice.
Il vecchio contadino Nikolai Charlamov, ultracinquantenne, viene accusato di uxoricidio e viene perciò condotto in Tribunale. L’ambientazione è di notevole significato. Il Tribunale è un edificio simile ad una caserma, triste, desolato. La descrizione di Cechov ci consente perfino di avvertirne gli umori, gli odori di muffa e di stantio, di vecchiume, che si fanno leggere come segni di inutilità condivisa. Infatti, nell’aula fredda e lugubre, tutti sembrano esserci senza esserci. I giudici sonnecchiano annoiati, il pubblico guarda il soffitto e le ragnatele in attesa che lo spettacolo abbia inizio, il cancelliere vorrebbe già essere a casa, il pubblico ministero legge – non a caso – “Caino” di Byron, l’avvocato nominato d’ufficio sa già che si rimetterà alla clemenza della Corte. I processi si susseguono stancamente, l’uno dopo l’altro, nella indifferenza di tutti, nella completa indolenza degli stessi imputati, contagiati dall’atmosfera generale di insipienza e noncuranza.
Alla fine, proprio perché non se ne può fare a meno, si dà luogo al processo per uxoricidio. E siccome il rito lo prevede – sempre con tangibile indifferenza – il Presidente pone delle domande all’imputato, il quale appare comunque molto sorpreso di trovarsi su quel banco, il che ci fa capire subito che probabilmente deve trattarsi di una persona innocente. Tralasciando altri particolari, la domanda determinante viene posta circa la supposta arma del delitto, un’ascia di pertinenza del contadino. Questi tuttavia si mostra ancora più sorpreso di questa domanda, dal momento che – risponde – tale ascia era stata da lui prestata al figlio Prochor, che voleva portarla con se nel corso di una gita nel bosco con amici: da quel momento egli non ha più visto quell’ascia. All’improvviso, uno dei soldati che tenevano per la catena il contadino, avvinto al suo banco di imputato, facendosi largo fra il pubblico, fugge a gambe levate: un altro soldato giungerà a sostituirlo. Perché fugge? Perchè costui era il figlio di Charlamov, Prochor, il vero colpevole che, dopo aver usato l’ascia del padre per uccidere la madre, aveva maliziosamente operato per far incolpare il padre di un simile orribile delitto, per condurlo così alla pena di morte. Perciò, egli, comprendendo di esser stato quasi smascherato, fugge velocemente.
Si badi. Tutto questo Cechov non lo dice affatto, non lo esplicita, lasciando invece che sia il lettore ad arguirlo – con sufficiente certezza – dalla conclusione del racconto: una superba arte della narrazione. Racconto, insomma, molto formativo per il giurista, di fondamentale importanza da almeno due punti di vista complementari.
Per un verso, l’insieme della ambientazione suggerisce come non si debba mai amministrare la giustizia nei Tribunali. Ci dovrebbe essere sapienza e si trova insipienza; prudenza e si trova imprudenza; attenzione e si trova disattenzione; scrupolo e si trova superficialità; interesse e si trova indifferenza. Da qui, istruttoria lacunosa, testimoni mai sentiti, verbali mai redatti… la strada maestra, insomma, per condurre alla forca un innocente, che neppure comprende cosa gli stia accadendo. Per altro verso, l’orrore puro rappresentato da una manovra terribilmente ordita da Prochor che, non solo uccide la madre, ma tenta di sbarazzarsi del padre facendolo incolpare di uxoricidio. Una perfetta strumentalizzazione degli apparati giudiziari messa in atto dal vero assassino, un matricida diretto e un parricida indiretto, per mezzo del Tribunale. Per dimostrare insomma che si può consumare orribili delitti anche avvalendosi di quei medesimi apparati giudiziari che invece dovrebbero servire a perseguirli. Ovviamente, confidando, come in questo caso, nel lassismo e nella negligente indifferenza di giudici, avvocati, pubblici ministeri, investigatori.
Prochor non riesce a raggiungere il suo esecrabile scopo solo per una specie di caso fortuito, dal momento che il padre, per rispondere ad una domanda che poteva anche non esser posta, aveva tirato in ballo proprio lui, il figlio. Sarebbe bastato poco, pochissimo, sarebbe bastato non porre quella domanda – cioè dove fosse finita l’ascia quale arma del delitto – perché il piano di Prochor andasse a segno, conducendo il padre alla forca, dopo aver già ucciso la madre. Ecco dunque che siamo messi tutti sull’avviso: le forme del diritto – anche quelle procedurali – possono anche essere asservite al delitto, addirittura al più efferato dei crimini. Perciò non basta farsi scudo delle forme giuridiche, per cavarne una sorta di rassicurazione personale e sociale sulla dose di giustizia che esse sono in grado di assicurare, perché a volte può trattarsi di una dose del tutto nulla o, addirittura e al contrario, della consumazione di un altro delitto.
Ci pensino coloro che, spregiudicatamente, mettono in gioco le forme processuali nell’ambito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, quasi asservendole ai suoi intendimenti. O coloro che ritengono che il Tribunale dei Minori sia adatto a coprire delle forme processuali che presiede qualunque assurda pretesa di psicologi o assistenti sociali. Il rischio è che si consumino crimini terribili e peggiori. Come è accaduto.
Opera buffa e amara verità: quando l’accusa diventa persecuzione della vittima. "Procedura penale" di Dino Buzzati è un libretto d’opera musicato da Luciano Chailly. Vincenzo Vitale il 7 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nel salotto buono dell’aristocrazia milanese, la padrona di casa offre un tè ai suoi ospiti, preoccupandosi solamente di aggiungere o il latte o il limone, preferenza personale che non riusciva mai a rammentare. Il tempo trascorre come sempre nel solco di simili futilità. Ma all’improvviso, uno degli ospiti, dopo aver comunicato che giorni prima era stato commesso un efferato omicidio a Roma, chiede con fare inquisitoriale alla padrona di casa dove mai lei si trovasse il giorno del delitto: forse a Roma? La donna, interpellata con tale malizia e sorpresa dalla domanda inattesa, si sente in imbarazzo, fino a quando ricorda che proprio quel giorno si era portata a trovare una parente in altra città e trionfante esibisce il biglietto del treno quale alibi certissimo della sua assenza da Roma. Sembra tutto a posto, quando, con rapidità fulminea, la luce si abbassa, gli ospiti appaiono rivestiti di toghe nere come spietati pubblici ministeri e a suo carico cominciano a fioccare le più assurde accuse: aver ucciso un bambino innocente, un prete illibato, un vecchio malato ecc. La donna, accusata di tali e tanti orribili delitti e sprovvista di altri alibi, si sente perduta, in quanto non le è possibile difesa alcuna. Teme perciò di esser condannata. Infatti, viene condannata alla più atroce delle pene che, a differenza di quanto si pensa, non è la pena di morte, ma il suo contrario: è la pena di vivere, più precisamente di vivere per sempre in quella sorta di perpetuo incubo in cui consiste il moltiplicarsi delle accuse più assurde e più gravi e dalle quali è impossibile difendersi. Tuttavia, non appena pronunciata la condanna, la scena cambia repentinamente, mostrando di nuovo gli ospiti comodamente seduti in poltrona a sorseggiare il tè, mentre la padrona di casa offre il limone o il latte. Tutto come prima, insomma, anche se – ovviamente – nulla come prima.
Questa, per sommi capi, la vicenda narrata da Dino Buzzati in questo suo libretto d’opera musicato da Luciano Chailly – padre dell’odierno direttore scaligero – ed edito da Ricordi. Come si vede, una esemplare narrazione in stile buzzatiano, uno stile semplice – e per que- sto assai difficile da sostenere – denso di ambiguità e, come spesso accade nella sua pagina, intriso di misteriosi incubi. Questi hanno molto da insegnare al giurista. In prima battuta, l’insegnamento più necessario: e cioè che l’accusa, per esser davvero tale in senso giuridico, deve essere necessariamente circostanziata e mai fumosa, illogica, fantasiosa. Infatti, se l’accusa fosse – come nel testo buzzatiano – fumosa, replicante, tentacolare, insomma non circostanziata nei suoi elementi di fatto e di diritto, sarebbe impossibile difendersi. Da qui, infatti, l’incubo ossessivo: quello di esser accusati – come la padrona di casa dell’aristocratico salotto milanese – di gravissimi delitti, ma senza poter offrire alcuna giustificazione in senso contrario, atta a dimostrare la non pertinenza dell’accusa, la sua infondatezza. E d’altra parte se l’accusa è essa stessa assurda e fantasiosa, la difesa sarà oggettivamente impossibile: ci troveremmo davanti ad una pseudoaccusa che vanifica ogni difesa. Per questo i vecchi giuristi ripetevano che se fossimo accusati di aver rubato la torre di Pisa, per prima cosa faremmo bene a fuggire, procrastinando ogni possibile difesa. Si badi. Il “memento” di Buzzati, lungi dall’esser un semplice espediente letterario, si lascia invece cogliere – oggi più che mai – quale motivo di reale preoccupazione per le sorti del diritto e, con esso, della libertà personale delle persone coinvolte in vicende che a volte son dipinte come oscure ma che, alla resa dei conti, o sono chiarissime oppure addirittura del tutto inesistenti. Chi scrive da anni denuncia peraltro come a volte – presso i Tribunali italiani – il capo d’accusa sia formulato in modo approssimativo, impreciso e come perciò si mostri, per dir così, “ballerino”, non rimanendone sufficientemente chiari i confini e la portata giuridica. Da qui, gravi difficoltà per la difesa, a volte insormontabili, perché ne è improbo il compito. E dunque il giurista è avvertito di questo grave pericolo, tanto quanto basta per evitarlo, sempre che ovviamente sia curioso di perdersi negli incubi di Buzzati. Non basta. La magistrale narrazione ci mostra ancora come l’accusa sia sempre in procinto di essere lanciata, sia una possibilità umana che le compagini sociali adoperano allo scopo di pacificare le coscienze, di arginare il risentimento sociale. Si tratta del ben noto meccanismo messo in luce da Girard, noto come quello del “capro espiatorio”. In virtù sua, accusare un soggetto attraverso incolpazioni assurde e cerebrine equivale a sacrificarlo in qualità di colpevole di ogni disagio sociale e perciò, alla fine, a salvare la società. Ecco allora che il compito del giurista è quello di demistificare l’accusa, di farla scorgere per quella che a volte essa effettivamente è: null’altro che una persecuzione di una vittima. Individuata l’accusa come persecuzione, il meccanismo vittimario del capro espiatorio implode su se stesso e dilegua. Il giurista, dunque, come colui che è chiamato a custodire l’efficacia di questo compito di demistificazione delle persecuzioni, senza il quale ogni vivere civile sarebbe impossibile. Buzzati ce lo ricorda. E i giuristi di oggi se lo ricordano?
Giustizia narrata, un processo kafkiano al contrario. Vincenzo Vitale il 27 Agosto 2019 su Il Dubbio. “L’uomo che voleva essere colpevole” il romanzo del danese Henrik Stangerup. Lo Stato onnipresente e onnisciente tutto disciplina e tutto organizza, tutto sorveglia e tutto prevede. Si può ammazzare la moglie deliberatamente senza essere puniti per questo? Può accadere nell’universo immaginario ( ma fino a un certo punto ) di Henrik Stangerup, uno dei più raffinati scrittori della letteratura scandinava. Si tratta di una letteratura forse poco conosciuta, ma di primissimo piano nel panorama letterario internazionale: basti pensare che ad essa appartiene il testo della scenografia de “Il settimo sigillo”, dovuto ad Ingmar Bergman, uno dei massimi capolavori della filmografia mondiale di tutti i tempi. La trama, in breve. Torben, scrittore dalla vena inaridita, vive con la moglie in un universo che potremmo definire “concentrazionario”, che richiama alla mente il “1984” di Orwell. Lo Stato onnipresente e onnisciente tutto disciplina e tutto organizza, tutto sorveglia e tutto prevede. Perfino per generare un figlio, occorre una espressa autorizzazione degli organi competenti, i quali decideranno in modo insindacabile se e chi sarà reputato degno di divenire genitore, pena sanzioni molto severe: chi, dopo aver superato gli opportuni test, non otterrà il “certificato di procreazione” non sarà autorizzato a procreare. Torben, dotato della sensibilità propria di uno scrittore, soffre moltissimo questa situazione antiumana perché profondamente liberticida e per questo motivo, lui e la moglie Edith si sono sempre schierati – sia pure in modo cauto per non incorrere nella severità delle sanzioni – contro il regime. Si giunge al punto di vietare le fiabe di Andersen, considerate antisociali perché troppo capaci di esaltare il genio del singolo; mentre quelle, celeberrime, dei fratelli Grimm vengono depurate dagli elementi considerati socialmente inutili o addirittura nocivi. Insomma, una situazione umanamente insostenibile. Tuttavia, inaspettatamente, Edith, stanca di opporsi al sistema, sembra cedere…. Ed è allora che Torben – sentendosi tradito – preso da una furia violenta, la uccide, probabilmente per evitare una completa resa di lei al sistema sociale e statale. Subito dopo, ovviamente, rendendosi conto del grave fatto commesso, ne soffre la colpa e chiama lui stesso gli Assistenti, chiedendo di essere arrestato e punito. Ma, sorprendentemente, gli Assistenti si rifiutano di arrestarlo e processarlo, affermando che di colpa e colpevolezza non è più lecito parlare, dovendo il fatto increscioso accaduto ascriversi ad un doloroso errore nel sistema sociale, che evidentemente nascondeva una falla, una lacuna. E dunque bisogna aggiustare il sistema, ma senza ovviamente punire nessuno, perché nessuno può essere considerato colpevole di nulla, per quanto grave sia il fatto di cui si tratta. Torben si stupisce ovviamente del fatto di non potere essere né arrestato né processato né punito e chiede perciò ripetutamente di essere giudicato e dichiarato colpevole dell’omicidio di Edith. Invano. Si gioca qui tutta la vicenda della libertà umana. Torben sa bene infatti che soltanto attraverso il riconoscimento della sua colpevolezza, potrà essere affermata la sua libertà di essere umano; altrimenti, se ci limiterà ad aggiustare il sistema sociale, ritenendolo lacunoso, insieme alla sua colpevolezza, sarà la sua libertà ad essere per sempre seppellita: ed insieme alla sua libertà, la sua stessa dignità di essere razionale e responsabile. E proprio questo gli risulta intollerabile, ma è proprio su questo paradosso che si sviluppa tutta la linea narrativa del racconto: l’omicida reo confesso che chiede di essere riconosciuto colpevole del delitto e perciò di essere processato e punito, mentre il sistema sociale ostinatamente nega ogni sua colpevolezza, perché ciò serve a negare la sua libertà e la sua dignità, rendendolo un semplice ingranaggio di una lunga catena e, come tale, privo di volontà e responsabilità. Il racconto ha molto da dire circa l’epoca in cui viviamo, non sembrando possa essere relegato nella stantia categoria del futuribile politico e sociale. Non si tratta più di futuribile: già oggi viviamo una situazione complessiva che, dal punto di vista politico e giuridico, per alcuni versi è immediatamente riferibile a quella descritta da Stangerup. Gli spazi di libertà si sono drasticamente ridotti. Tutti coloro che muovono le leve del potere possono sapere tutto di ciascuno di noi e a nostra insaputa: cosa abbiamo acquistato al supermercato; quali abiti vestiamo; quanto e quale carburante usiamo per la nostra auto; cosa mangiamo al ristorante; quale sia la nostra pizza preferita; dove trascorriamo le vacanze e con chi; cosa diciamo al telefono e con chi parliamo e per quanto tempo… Ciascuno di noi viene martellato ogni ora del giorno da inviti, offerte, premi, pubblicità varia, sia in televisione, sia telefonicamente, sia attraverso messaggi… La cosa che dovrebbe più preoccupare il giurista e che invece sembra non interessarlo per nulla è dunque quella posta nel cuore del racconto : la libertà, la cui faccia nascosta è la colpevolezza. Se infatti viene negata la colpa, viene negata anche la libertà di colui che deliberatamente abbia assunto un certo comportamento. Il giurista di oggi – sia il legislatore, sia il giudice, sia l’avvocato o il docente – preda di una vera ossessione per il tecnicismo fabbrile, è portato a credere che della colpevolezza e della libertà si possa fare ciò che sia più opportuno, secondo le circostanze e senza limiti. Ebbene, così non è. Basti pensare a come e quanto la legislazione premiale abbia inciso sulla dinamica profonda del diritto penale, facendolo tralignare pericolosamente in altro da se, proprio attraverso la messa a disposizione della colpevolezza – cioè della libertà – dei collaboratori di giustizia, che di volta in volta vengono esentati dalla pena oppure se la vedono ridotta in modo consistente senza altro motivo che non sia l’appropriazione della loro libertà e responsabilità da parte di un sistema somigliante a quello descritto da Stangerup. Odo già le geremiadi dei benpensanti che, stracciandosi le vesti come Caifa quando Cristo si disse figlio di Dio, grideranno che dei collaboratori di giustizia abbiamo invece bisogno assoluto per combattere la mafia e le altre associazioni criminali. Benissimo. Ma a quale prezzo? Chi non l’avesse capito – soprattutto fra i giuristi – legga, se non ancora mentalmente imbolsito dalle anodine lezioncine scolastiche che si tengono in alcune Università e su diversi giornali ( ma in realtà gravide di furore ideologico), queste pagine. E mediti sulla crudele disumanità del mondo che in parte è già arrivato e in parte ancora ne verrebbe: perché solo chi viene riconosciuto libero e responsabile è degno di definirsi come essere umano.
· Illuminismo e Garantismo. Da Cesare Beccaria a Giuliano Vassalli: Dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.
La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.
L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso. scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.
Il “codice Vassalli” il migliore figlio del riformismo garantista. Renato Luparini il 25 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Giuliano trovò Moro al suo fianco sui principi fondamentali del processo penale che sono l’opposto dell’inquisizione imperante. Il ricordo fatto da Ugo Intini su “Il Dubbio” di Giuliano Vassalli ha il pregio di averne delineato la figura intrecciando il suo lavoro di avvocato e giurista con la sua passione politica. Il Codice di Procedura Penale che Vassalli tenne a battesimo come Ministro non è solo l’unico codice emanato in età repubblicana , ma come Intini ricorda, è il frutto dell’esperienza della prigionia politica, della lotta per la libertà e delle culture politiche che hanno ricostruito l’Italia. I continui interventi sul suo testo, spesso ispirati ad una logica aliena e contraria alla sua ispirazione, non sono solo un attacco al garantismo, ma alla concezione liberale, umanitaria e personalistica che ha fondato la Costituzione. Non è sorprendente che il codice di procedura penale non sia conosciuto nella prassi come “Il codice Vassalli”, così come invece il suo predecessore era conosciuto come “Il codice Rocco”. I nemici del sistema accusatorio hanno occultato la paternità del nuovo rito per non rivelarne le origini democratiche , in contrapposizione con quelle autoritarie del vecchio codice. Quasi che le regole con cui lo Stato limita e coarta la libertà dei cittadini siano norme tecniche , del tutto indifferenti alle impostazioni filosofiche del legislatore. Contro questa idea, che pure nella prima fase dell’Età Repubblicana ebbe molti seguaci e che vide in Giovanni Leone ( che della grande scuola napoletana di Rocco e Manzini era erede) il suo principale alfiere, Vassalli lottò trovando un alleato in Aldo Moro, cui notoriamente si deve larga parte del richiamo nei principi fondamentali della Costituzione al processo penale. E non è un caso che Vassalli e il PSI spinsero a trattare per salvare Moro durante la sua prigionia in nome del primato, che è la base del pensiero moroteo, del primato della persona sulla Ragion di Stato . La “vulgata “odierna identifica Moro nell’architetto del “compromesso storico” e dell’accordo con il PCI, in virtù della sua militanza nell’ala sinistra della DC. E’ una ricostruzione politica parziale fino alla scorrettezza . Il grande interlocutore di Moro non furono mai i comunisti, di cui comprendeva la radicale inconciliabilità con la democrazia liberale , ma il PSI con il quale sempre volle concludere un’alleanza strategica , fin dai tempi dei primi governi del centrosinistra, dove ebbe come vice premier un grande giurista napoletano , il socialista Francesco De Martino. Proprio l’alleanza organica del PSI di De Martino con il PCI indusse Moro ( che nella DC si caratterizzò sempre per posizioni moderate e non fu mai esponente della sinistra di base) a non lasciare i socialisti in balia di uno schieramento tipo “Fronte Popolare” che avrebbe non solo spaccato l’Italia degli anni di piombo , ma reso minoritario e ininfluente il riformismo . Craxi e De Mita , con la loro alleanza competitiva negli anni 80 sono stati i veri eredi del pensiero politico di Moro e il “Codice Vassalli” che di quella stagione è stato il miglior frutto ne è la chiara espressione. La “damnatio memoriae” della Prima Repubblica ha prodotto la svalutazione della portata politica del codice “Vassalli” e l’interessato discredito del suo impianto concettuale, definito nella migliore delle ipotesi astratto e contrario alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Il populismo giudiziario e la invocazione continua del carcere vengono da lontano, non sono una invasione barbarica in un Paese dove l’immaginario collettivo delineato dagli sceneggiati televisivi non è fatto di avvocati ma di marescialli e commissari ( e se va bene preti detective). Per combattere l’inquisizione permanente occorre dare alle garanzie e al processo penale italiano la loro dignità storica e politica e allo stesso tempo riconoscere i meriti del riformismo italiano del secondo dopoguerra. Cominciamo a chiamare le cose con il loro nome : il codice di procedura penale porti il nome di Vassalli.
Vassalli, il partigiano che riformò la Giustizia. C’è l’uomo, poi lo Stato. Con Craxi era per la trattativa con le Br. Il Pci non gliela perdonò e fu escluso per due volte dalla corsa al colle. Ma fu generoso quando toccò a Pertin. Non amava che nella magistratura vi fossero paladini di battaglie. Ugo Intini il 22 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Ricorre il decennale della morte di Giuliano Vassalli, uno dei più grandi penalisti e giuristi del secolo scorso. Generazioni di cronisti hanno seguito i clamorosi processi di cui è stato protagonista. Generazioni di giovani hanno studiato sui suoi testi e seguito le sue lezioni nelle tante università dove è stato cattedratico. Lo ricordo per un omaggio doveroso, ma anche perché la sua storia personale aiuta a capire un’epoca. E’ stato uno straordinario professionista, ma anche un eroe della Resistenza, dirigente di partito e uomo di Stato. Oggi si usa contrapporre la “società civile” alla “classe” o “casta politica”. Tuttavia per Vassalli, come per tanti altri, non solo la contrapposizione, ma anche la distinzione non esisteva: è infatti difficile dire se fosse un professore prestato alla politica o viceversa. Certamente, nella vita di Vassalli, gli ideali politici sono venuti prima ( anche temporalmente) e lo hanno condotto nella Roma occupata dai nazisti del 1943- 44 a avventure leggendarie. Socialista, a 28 anni era il comandante delle Brigate Matteotti nella zona centro. Quando il vice segretario del partito Pertini e Saragat vennero arrestati, Nenni era angosciato. I tedeschi non li conoscevano, ma prima o poi li avrebbero individuati come dei capi e uccisi. Chiamò Vassalli e gli chiese di liberarli. Con complicità all’interno del carcere e con documenti falsi, si riuscì a organizzare la loro fuga rocambolesca da Regina Coeli. Ma poco dopo anche Vassalli fu catturato e portato nella centrale delle SS di via Tasso. Lo torturarono e massacrarono di botte al punto tale che veniva spostato avvolto con una coperta, perché il suo aspetto faceva orrore. Fu liberato per l’intervento personale di Pio XII sul comandante delle SS in Italia generale Wolff, che trattava segretamente con il Vaticano tramite Virginia Agnelli ( la madre di Gianni): una nobildonna legata alla Resistenza ( come la mamma di Carlo Ripa di Meana, Fulvia Schanzer). Il cugino di Giuliano, Fabrizio, fu invece fucilato al forte di Bravetta. Vassalli, nell’Italia liberata, ha sempre fatto, oltre che il professore e l’avvocato, l’uomo politico. Ha seguito Saragat nella scissione a palazzo Barberini del 1947. E’ ritornato al partito socialista nel 1956, dopo la rottura con Mosca causata dalla repressione in Ungheria. Poi ha seguito prima Nenni e poi Craxi: sempre un socialista “autonomista”, dunque. A quei tempi, si votava e si sceglieva davvero liberamente: per essere eletti, bisognava avere i voti. Voti che non si conquistavano né per titoli accademici, né per volontà dei capi partito. Per Vassalli è stata dura. Ha trovato con fatica le preferenze per essere eletto consigliere comunale a Roma ( 1962- 66). Ce l’ha fatta a essere eletto deputato ( 1968- 72), ma una volta sola. Nel 1983, Craxi lo ha piazzato in un collegio sicuro del Lazio: è stato così eletto senatore e capogruppo al Senato ( sino al 1987). Poi non è più riuscito. Subito dopo la mancata elezione, il presidente della Repubblica Cossiga voleva nominarlo alla Corte Costituzionale ( della quale sarebbe diventato presidente nel 1999). Ma Craxi gli chiese di aspettare, perché voleva tenerlo disponibile per il ministero della Giustizia, dove infatti lo portò nel 1989. Lì Vassalli fece il nuovo codice di procedura penale, aiutato dal suo grande amico Gian Domenico Pisapia ( repubblicano, cattedratico a Milano, il più grande esperto della materia, padre del futuro sindaco Giuliano). Non avrebbe mai immaginato che molti magistrati avrebbero interpretato il suo codice a modo loro e che il pool di Mani Pulite avrebbe usato il carcere preventivo come strumento per estorcere confessioni. Lo amareggiarono anche le polemiche furibonde per la legge che fece approvare nel 1990 contro l’uso della droga. Fu dipinto ( proprio lui!) come forcaiolo e repressivo. A distanza di tanti anni, non saprei giudicare nel merito. Ma certamente la volontà era allora quella di dare un segnale chiaro sul fatto che la droga rappresenta una minaccia mortale, da combattere senza ambiguità e distinguo. Ricordo che se ne discusse molto anche con Craxi e che il punto di partenza fu un incontro a New York con il giovane prosecutor Rudolph Giuliani. Ci descrisse a lungo cosa succedeva per la droga in America e come lui la stesse combattendo con quella “tolleranza zero” che lo avrebbe reso popolare e portato a diventare sindaco. Giuliani è invecchiato male ( come si vede dalle sue avventure con Trump), ma allora ci impressionò, così come ci colpirono le esperienze terribili che ci raccontava Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano. Nel 1978, durante la prigionia di Moro, Vassalli fu l’unico tra i “grandi vecchi” ad appoggiare apertamente gli sforzi di Craxi per aprire una via di trattativa con i brigatisti e per liberarlo. Pur con grande rispetto, diceva che i nostri capi storici, per età e formazione, erano “giacobini”: vedevano cioè la politica e lo Stato come un fine ultimo ( il più elevato). Lui pensava invece ( e con lui i cattolici come Baget Bozzo) che lo Stato fosse un mezzo. E infatti ha osservato: «Moro scriveva dal carcere quegli argomenti che, se libero, avrebbe cercato di far valere a favore di altri. In tutto il suo pensiero domina infatti l’idea del carattere subordinato dello Stato alla realtà dell’uomo. La persona nella sua singolarità rappresenta il principio e il fine dell’esperienza giuridica». Vassalli mal sopportava la cosiddetta “interpretazione evolutiva” delle leggi. L’idea cioè che l’interpretazione delle norme potesse essere forzata per adattarle alla evoluzione della società e agli obiettivi da raggiungere. Non amava i magistrati che si fanno paladini di battaglie ( anche nobili). Citando un famoso esponente della Corte Suprema americana, diceva: «I magistrati non perseguono cause, i magistrati giudicano cause». Anche con questo spirito, Craxi e i socialisti si contrapposero al protagonismo e al giustizialismo di una parte della magistratura. Ma questo scontro ha radici molto più antiche. Lo stesso Nenni scriveva cose che sembrano adattarsi perfettamente alle polemiche di oggi ( pensiamo allo scandalo del CSM). Annotava nel 1964: «L’indipendenza della magistratura va assumendo forme che fanno di quest’ultima il solo vero potere, un potere insindacabile, incontrollabile e a volte irresponsabile». E nel 1974 aggiungeva: «L’abbiamo voluto indipendente e ha finito per abusare del potere che esercita. Per di più, è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti”. Invecchiando, Vassalli non era diventato cinico, ma manifestava quello che si potrebbe definire un «pragmatismo rassegnato» . Faceva quello che poteva e doveva, ma “rassegnato” – appunto – ad accettare che i risultati sarebbero stati inferiori alle necessità. Avevo una venerazione per lui e lui l’aveva per l’Avanti! del quale ero direttore. Raccontava che in quel terribile 1943- 44, a Roma, i compagni lo diffondevano clandestinamente. Vezio Crisafulli, che sarebbe diventato un famoso costituzionalista e giudice dell’Alta Corte, portava gli articoli da stampare in una tipografia nascosta a Monte Mario. Direttore era Saragat. Capo redattore era Eugenio Colorni, che con Altiero Spinelli scrisse il “Manifesto” europeista di Ventotene e che sarebbe diventato famoso come lui se non fosse morto troppo presto: riconosciuto in strada da una pattuglia di fascisti, fu falciato con una raffica di mitra pochi giorni prima dell’arrivo a Roma della Quinta Armata. Se gli chiedevo un articolo, Vassalli me lo mandava immediatamente, chiamandomi “direttore”. Su di lui, ho nella memoria quattro flash. Primo. Quando nel 1983 fui candidato capolista per la Camera in Liguria ( al posto di Pertini) mi preoccupavo per i voti di preferenza e Vassalli venne in mio soccorso a Genova, dove aveva insegnato per anni. Era ancora ricordato come un mitico cattedratico di diritto penale e in città esisteva una cordata di professori socialisti: Mario Bessone ( che sarebbe diventato membro del CSM), Fernanda Contri ( giudice costituzionale), Beppe Pericu ( futuro sindaco), Guido Alpa. Lo vedo ancora oggi mentre mi presentava ai suoi allievi diventati famosi e influenti. Secondo flash. Craxi lo considerava un mito ( forse influenzato dal papà Vittorio, come lui avvocato e esponente della Resistenza). Tentò perciò due volte di farlo eleggere presidente della Repubblica: nel 1978 ( quando riuscì Pertini) e nel 1992 ( invece di Scalfaro). Nel, 1978 ce l’avrebbe fatta se non si fossero opposti i comunisti, che non gli perdonavano la posizione “trattativista” nel caso Moro. Craxi ripiegò su Pertini e fummo felici ugualmente. E qui viene il flash. Come direttore dell’Avanti!, cercavo quel giorno un fondo autorevole al volo. Ci volle coraggio per telefonare a Vassalli, che poche ore prima sembrava il candidato vincente. Ma mi disse subito di sì. In un lungo articolo, scrisse tra l’altro: «Per noi giovani socialisti di allora, l’elezione del nostro Sandro è come il coronamento di un sogno. Dal primo giorno in cui ci incontrammo, nell’agosto del 1943, a Roma, dove Sandro era arrivato dal confino, egli fu per noi giovani il nostro uomo, il nostro capo naturale». Ed ecco il terzo flash. Nel novembre 2007, nel palazzo della Provincia, in piazza Venezia, andammo insieme a visitare una mostra su Nenni. Camminava piano, sorreggendosi con un bastone. Davanti alla vetrina con i documenti sulla guerra di Spagna, rimase inchiodato con le lacrime agli occhi. Fissava una vecchia foto di Mario Angeloni, volontario repubblicano morto in combattimento. “Era il fratello di mia mamma – mi disse – ed è per la sua morte che sono diventato un militante antifascista». Il quarto e ultimo flash riguarda il suo tramonto. È morto a 94 anni: sempre lucido, ma depresso. Viveva da solo con un vecchio cameriere nella bella villa liberty di famiglia, in un giardino sul Lungotevere dei Vallati, a cento metri dal ministero della Giustizia di via Arenula. Stava nella penombra con le persiane chiuse. Aveva parlato e scritto troppo, non se la sentiva più nemmeno di fare interviste. Ma vedeva ancora volentieri i vecchi compagni come me. Che chiamava esattamente così: “Compagni”. Come fanno i militanti della sinistra ancora oggi in tutto il mondo. Secondo una tradizione il cui significato emotivo profondo era stato spiegato ai primi del ‘ 900 con un articolo ancora sull’Avanti! da un “compagno” che di emozioni si intendeva: Edmondo De Amicis.
Flick: «La riforma Vassalli fu epocale, ma non tutti la capirono». Giulia Merlo il 22 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Dieci anni fa la morte di Giuliano Vassalli il padre del nuovo codice di procedura penale. Flick: «Fu un grande ministro ed ebbe l’umiltà di rompere con il passato per guidare il paese nel passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio». Di Giuliano Vassalli, l’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick è stato prima allievo nelle vesti di avvocato e apprendista in quelle di professore, poi successore al ministero della Giustizia e infine ne ha preso il posto come giudice della Corte Costituzionale. Un percorso quasi parallelo lungo una vita, che ha permesso a Flick di leggere in filigrana anche la riforma cui Vassalli ha dato il nome e che traghettò il processo penale italiano nel sistema accusatorio».
Professore, cosa le insegnò il Vassalli avvocato?
«Fui con lui in uno dei processi più importanti che patrocinò, il processo Lockheed, il primo e unico processo che si svolse per reati ministeriali davanti alla Corte Costituzionale. Di lui avvocato ricordo soprattutto la rigida linea di moralità: da lui imparai soprattutto un certo modo di intendere e svolgere la professione, provando e non accusando. La stessa che, da professore, lo portò a studiare in particolare il rapporto tra Costituzione e diritto penale e, da giudice costituzionale, gli fece approfondire il ruolo della difesa nel processo e l’aderenza del diritto di difesa ai valori della Carta. Un percorso esemplare: dalla resistenza da cui è nata alla Costituzione, alla difesa intransigente di quest’ultima a palazzo della Consulta».
Da ministro del governo Prodi, lei prese in mano Via Arenula proprio dopo qualche anno della sua riforma del codice di procedura penale.
«In quegli anni il mio rapporto con lui fu sempre molto stretto e mi ispirai parecchio alle sue indicazioni, sempre lucide e puntuali. Nel mio mandato, tuttavia, mi occupai soprattutto di migliorare le condizioni strutturali dell’amministrazione della giustizia: dalle condizioni delle aule all’assunzione di personale, fino all’eliminazione delle sedi superflue. Mi dedicai più all’organizzazione della giustizia che alla riforma del processo».
Non pensò mai alla necessità di una ulteriore riforma, intorno alla quale esistevano perplessità?
«Sì, nei miei incubi notturni. Anche perchè era necessario dare tempo al nuovo codice per trovare un punto di equilibrio. Inoltre, esistevano troppe tensioni politiche e troppe singole istanze di modifica disorganiche per anche solo pensare di fare una nuova riforma generale dopo così poco tempo. D’altra parte la stessa legge delega per il codice prevedeva un triennio di possibili interventi di riforma».
Come valuta, a distanza di trent’anni, la riforma Vassalli?
«Le rispondo in questo modo: Vassalli fu un grande ministro, che ebbe la capacità e l’umiltà di predisporre uno strumento tecnico che consentisse di rompere con il conservatorismo del passato e di condurre il paese nel passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio, che doveva offrire maggiori garanzie non formalistiche all’imputato. La riforma fu una profezia bella e nuova, ma non venne del tutto capita e dunque nei lavori di aggiustamento emersero come funghi alcune distorsioni».
Distorsioni di che genere?
«Modifiche disorganiche, che hanno prodotto un maldestro matrimonio tra diritto sostanziale e diritto processuale: nonostante la riforma del codice di procedura penale, il codice di diritto penale sostanziale è rimasto inalterato provocando una forte discrasia tra il momento strumentale del processo e quello sostanziale del diritto. Per questo è impossibile dare un giudizio positivo o negativo della riforma, ma si possono solo analizzare i punti di problematicità che hanno sconvolto il quadro pensato da Vassalli».
Proviamo ad elencare questi punti problematici.
«Il primo sono le modifiche non organiche, introdotte senza un quadro globale di sistema. Questi interventi hanno dissestato il codice, perchè sono stati guidati dalle esigenze politiche e contingenti del momento e sono nati con un errore di fondo: hanno pensato il processo in funzione dei delitti e il diritto in funzione del processo. Le faccio un esempio attuale: l’aumento delle pene per alcuni reati, in modo da poterli far rientrare tra quelli intercettabili. Oppure l’aumento stratosferico delle pene per impedire che un reato venga prescritto, come fa la Spazzacorrotti. O, ancora, l’aumento delle pene per dare un segnale “emblematico” che per altro rimarrà privo di effetti. Questo modo di procedere, negli anni, ha trasformato il codice in un vestito di Arlecchino».
Cosa altro?
«La Corte Costituzionale inizialmente è intervenuta in modo felpato, poi ha iniziato ad usare l’accetta. In particolare, anch’essa ha seguito una linea non del tutto coerente; ad esempio ha trasformato le norme a tutela della terzietà del giudice in un mosaico non ben coordinato. In tutto questo non ha aiutato nemmeno l’irruzione del cosiddetto “multilevel”, ovvero i provvedimenti delle corti sovranazionali, come la Cedu e la Corte di giustizia europea. Entrambe, a mio avviso, sono intervenute nel sistema penale italiano in modo un po’ prevenuto. Per esempio, con le pesanti richieste di modifica della disciplina in materia di ergastolo ostativo».
Come mai questa diffidenza nei confronti dell’Italia?
«Io credo che noi paghiamo la nostra tradizione più formalista. Se per altri paesi europei il principio di legalità si fonda sull’interpretazione della norma da parte del giudice, nell’ordinamento italiano il principio di legalità si fonda sulla fonte della norma, dunque sulla legge. Questo rende più complicato e più formale, per noi, il rapporto tra il momento processuale e quello di diritto sostanziale».
Col senno di poi, tuttavia, l’esigenza da cui nacque il codice Vassalli era corretta?
«Sì, perchè esisteva la necessità di superare il sistema inquisitorio, in cui tutto era deciso dal giudice e la difesa rimaneva a guardare, sparando dopo le sue cartucce contro quanto era già maturato nell’istruttoria del giudice e del pm ( si pensi alle polemiche per estendere le garanzie di difesa dall’istruzione formale a quella sommaria). Nel processo accusatorio, invece, le parti lavorano e combattono con pari strumenti, da posizioni contrapposte. Oggi, tuttavia, si può notare una conseguenza non voluta di questa riforma».
Quale sarebbe?
«Oggi in Italia il sistema rischia di diventare carcerocentrico, con un diritto penale del nemico: si capovolge l’impostazione tradizionale del processo, in cui prima avviene l’accertamento di un fatto di reato, da valutare nella sua riconducibilità a una norma giuridica; poi c’è la fase di esecuzione della pena, che ha al centro la persona. La Spazzacorrotti fa esattamente il contrario: la fase di accertamento avviene nei confronti della persona, giudicando il corrotto e non il fatto corruttivo. Il fatto, invece, emerge nella fase dell’esecuzione, in cui per certi reati è prevista la non accessibilità alle misure alternative se il condannato non coopera».
Allo stato attuale della giustizia penale, esiste la necessità di una nuova riforma epocale?
«Un check- up è sempre necessario e opportuno perchè i segni di disfunzione sono molti, come la durata del processo. Lascerei però da parte l’enfasi: meglio volare basso ma in modo sistematico, invece che sognare voli pindarici e poi fare la fine di Icaro».
· La magistratura in Italia: Ordine o Potere?
Quello giudiziario non è più un ordine ma un potere autonomo, che va regolato. I costituenti, non avevano previsto una evoluzione dell’ordine giudiziario in questo senso, ma il legislatore nel dopo guerra ha aiutato in tutti modi questa tendenza. Giuseppe Gargani il 18 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La settimana scorsa il Senato ha dato vita ad un mini dibattito su un tema che avrebbe avuto bisogno di ben altro approfondimento e attenzione: si è avuto la pretesa di discutere del rapporto tra politica e giustizia e del rapporto tra i poteri dello Stato in pochi minuti e con pochi interventi ma tutti incentrati sul finanziamento ai partiti e alle fondazioni per l’esclusivo interesse di uno dei relatori il sen. Renzi. L’appello del sen. Zanda di non fare un dibattito sui titoli di “coda“, ma di discutere dello stato della nostra democrazia, delle condizioni del Parlamento e del ruolo dei partiti non è stato ascoltato. Il mini sbrigativo dibattito si è soffermato sull’ingerenza della magistratura nelle cose della politica e questo è servito soprattutto al sen. Renzi, che aveva interesse a trovare una tribuna autorevole come l’aula del Senato, per protestare contro le iniziative ben note della procura di Firenze. Il dibattito al Senato perciò è stato patetico perché improvvisato, senza chiare finalità, senza una ragione istituzionale che giustificasse l’impegno di un’Aula così solenne. Il sistema giustizia e il ruolo del magistrato nella società moderna sono i problemi della democrazia e ognuno dovrebbe averne un profondo convincimento per affrontare un tema così difficile. E allora proviamo a spiegare. Il problema del rapporto tra i poteri e in particolare il rapporto con la magistratura non si inquadra nella sua reale dimensione se non si fa una analisi a fondo sulle responsabilità che hanno determinato questa situazione e soprattutto sulle responsabilità dei protagonisti della politica. Le colpe della situazione critica che attraversiamo da tempo sono della politica prima che della magistratura perché la politica in effetti è stata miope e reticente e si è piegata sempre alle richieste della magistratura che ha avuto come unico obiettivo il rafforzamento della sua autonomia, più che della sua indipendenza. I costituenti, non avevano previsto una evoluzione dell’ordine giudiziario in questo senso, ma il legislatore nel dopo guerra ha aiutato in tutti modi questa tendenza. Negli anni ‘ 70, ha consentito la “progressione in Cassazione” che consente appunto a tutti magistrati una promozione automatica fino ai vertici della Cassazione a prescindere dalle funzioni esercitate. Mi opposi strenuamente insieme on. Cossiga e a pochi altri, ma la DC cedette e il Parlamento approvò. Questo ha consentito una funzione della magistratura oltre quella stabilita dall’ordinamento e una irresponsabilità del “potere” giudiziario. Negli anni successivi la magistratura ha avuto una evoluzione interna con la formazione di correnti soprattutto collegate alla sinistra che hanno contestato il ruolo del giudice come esecutore della legge e esaltato, il ruolo di interprete coraggioso e ardito delle leggi, per fare affermare la figura del giudice di “lotta“. Il legislatore ha dunque assegnato compiti che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale e ciò ha consentito decisioni che hanno avuto e hanno carattere politico. Questo il programma della sinistra giudiziaria che con l’accordo e il supporto del PCI ha poi fatto crescere il fenomeno di Tangentopoli che ha oscurato la politica e contestato il suo primato. Questa in sintesi la storia dei rapporti anomali che hanno condizionato la democrazia, che non possiamo dimenticare per un dibattito serio. Aggiungo che negli anni ‘ 90 il Parlamento subissato dalle indagini giudiziarie ha espiato il suo senso di colpa eliminando la necessaria e sacrosante immunità: alla Camera con appena cinque voti contrari di pochi, come me, “resistenti”. Il legislatore insomma ha delegato alla magistratura soluzioni prettamente politiche. La legge contro la corruzione che prevede pene maggiori per i reati di corruzione come se il codice non avesse norme che sanzionano correttamente e in maniera proporzionale il reato di corruzione; le “manette agli evasori“ che si invocano con maggiore pervicacia per la volontà di non risolvere il problema ma per illudere il cittadino invocando appunto una legge; la legge che é un autentico capolavoro in questo senso è il reato di “traffico di influenze” che non ha una fattispecie tipica e lascia il magistrato arbitro di interpretare: perché alla fine il giudice deve pur sempre interpretare?! Orbene tutti quelli che hanno votato queste leggi, non hanno titolo per protestare perché hanno seguito la moda del giustizialismo: aggiungo che la eliminazione della prescrizione dal 1 gennaio prossimo darà definitivamente una delega in bianco al potere giudiziario. Questa analisi non consente al sen. Matteo Renzi di invocare il primato della politica, che per colpe antiche ma soprattutto recenti è stato vituperato e contestato. Renzi, ha esaltato per la decadenza di Berlusconi dal Senato in base ad una legge perversa; ha consentito in ossequio a un giustizialismo qualunquistico le dimissioni di ministri per banali questioni para giudiziarie; ha proposto una legge per il taglio dei vitalizi e ha approvato il taglio dei parlamentari, tutti interventi questi ultimi che delegittimano il Parlamento. Tutto questo ha intaccato la “rappresentanza democratica“. Dunque se il sen. Renzi è convinto delle idee che ha esposto avrebbe dovuto inserire, nella sua proposta di Costituzione sottoposta a referendum, una modifica degli articoli che riguardano la magistratura, per dare vita finalmente ad una riforma valida ed efficace: forse avrebbe potuto finanche vincere il referendum! Gli articoli 104 e seguenti della Costituzione non sono più attuali perché la magistratura ha assunto un ruolo diverso e quindi non è più un “ordine” autonomo ma è un “potere” che quindi va regolato e disciplinato, e questo è il compito che da anni il legislatore dovrebbe svolgere. Renzi si è occupato delle ferie dei magistrati o del limite dell’età pensionabile!… e quindi non ha titolo per disquisire. La conseguenza è che quando un legislatore miope ha abolito il finanziamento pubblico, ha implicitamente stabilito che i partiti non avevano e non hanno più la funzione che la Costituzione assegna loro: come fa Renzi a non rendersi conto di questo!? Per ultimo rilevo che nel mini dibattito al Senato non è stato dignitoso sul piano istituzionale la citazione di Moro e Craxi, due statisti che non possono essere confusi con lo squallore attuale. La loro scomparsa ha determinato le crisi ricorrenti e la perdita della credibilità politica che dunque ha perduto il suo primato.
L’Anm chiude con una mozione “difensiva”: «Basta attacchi dai politici». Il Dubbio l'1 Dicembre 2019. Nel documento approvato alla fine della tre giorni congressuale di Genova, l’Associazione ribadisce il proprio favore alla prescrizione interrotta dopo il primo grado (ma solo in caso di condanna), alza un muro contro le critiche mosse ai giudici in nome del popolo giustizialista e mette al bando «l’odio sulle mailing list». È un ritorno a una magistratura più quieta, appartata, tutta rivolta al grado zero di una funzione esercitata «nel rispetto della legge e dei principi dettati dalla Costituzione». Nessun particolare richiamo a orizzonti ambiziosi per la giustizia, solo la ferma difesa dai tentativi «dolersi di iniziative o decisioni giudiziarie» da parte di esponenti politici, che iscrivono magari ordinanze e atti di un magistrato «nella categoria dell’attacco». La tre giorni congressuale dell’Anm a Genova si conclude così, con una mozione soprattutto “difensiva”, con pochi altri messaggi trasmessi al legislatore, come la richiesta di «confronto» sul sistema per eleggere i togati al Csm e la rivendicazione di una linea senza «ripensamenti» sulla «prescrizione», da interrompere «con la sentenza di condanna di primo grado».
Una mozione “difensiva”, anche sulla riforma penale. Il momento difficile per le toghe si traduce dunque anche in una scelta un po’ remissiva, in appelli per una «partecipazione alla vita associativa» che ammettono anche il distacco della “base” dalle correnti. Il segnale, sofferto, arriva al termine di una serie di dibattiti aperti venerdì dalla relazione del presidente Luca Poiniz e svolti con intensità ma anche alcune contraddizioni al Teatro “Carlo Felice” del capoluogo ligure. Centinaia di magistrati in platea, decine sul palco a confrontarsi con avvocati, esponenti politici, rappresentanti dell’accademia. In una delle ultime tavole rotonde, il segretario dell’Associazione Giuliano Caputo ha chiesto «un confronto effettivo, una interlocuzione» sulla riforma elettorale del Csm, dopo aver accolto in modo positivo l’esclusione del «sorteggio». Nella mozione, approvata per acclamazione dai delegati, il passaggio sulla prescrizione è accompagnato da un generico riferimento a «ogni altra iniziativa per una strutturale riforma del processo penale, in ogni caso, indispensabile» che la politica avrà il compito di adottare.
«Basta attacchi sferrati in nome dell’opinione pubblica». La parte più forte del documento è quella che ritorna sull’allarme per gli attacchi ai «singoli magistrati», che mettono in discussione un ordine «caposaldo della tenuta degli equilibri democratici del Paese. Purtroppo si continua a registrare la ricorrente tentazione da parte di esponenti politici di dolersi di iniziative o decisioni giudiziarie», recita testualmente la mozione, «iscrivendole, in modo allusivo o anche espresso, nella categoria degli attacchi politici o criticando le decisioni perché ritenute non conformi all’indirizzo politico del Governo o, addirittura, sentimento ella maggioranza dell’opinione pubblica». Ma non accettare che giudici e pm agiscono solo nel rispetto della legge e dei «principi dettati dalla Costituzione e delle fonti sovranazionali» significa «mettere pericolosamente in discussione l’assetto di una democrazia liberale, significa giocare in modo disinvolto con le garanzie i tutti i cittadini».
Il Csm non un «comitato per le carriere». Un passaggio è dedicato al caso Palamara, che spinge l’Anm ha ribadire «a fronte dei gravi fatti emersi» la «centralità dell’etica della funzione giudiziaria» e a riaffermare «come prioritaria esigenza l’adempimento dei doveri di correttezza, trasparenza e decoro nell’esercizio della giurisdizione, in tutti gli organi di governo autonomo e nell’impegno associativo». Il Csm è «un insostituibile organo di garanzia» e non il «comitato incaricato di riconoscere o negare le aspettative di carriera dei singoli».
Sì alla «partecipazione» associativa, basta «odio» sulle «mailng list». Fino a quell’estremo appello, alla necessità di «incentivare tutte le necessarie iniziative per favorire partecipazione, impegno comune e condivisione» per «rilanciare il ruolo del magistrato». Mentre «la pretesa di affermare la propria visione individuale si traduce, nei nostri tempi, in sgangherate urla, in anatemi e discorsi d’odio declamati attraverso i social network o le mailing list» e «si trasforma nell’effimera soddisfazione di demolire tutto ciò che non va, nella narcisistica rivendicazione della propria purezza e superiorità morale. Ma finisce lì, lascia per terra le macerie, senza fornire alcun contributo costruttivo». Un messaggio rivolto a una parte dei magistrati ormai fuori dalle correnti, ma evidentemente attivi nello scambio di idee. Forse la vera insidia, in un momento così difficile, per l’Anm.
Non ho nessun rispetto per la magistratura...Anm detta la resa: politici, basta autonomia. Piero Sansonetti 30 Novembre 2019 su Il Riformista. Il presidente dell’Anm, Luca Poniz, ieri ha aperto il congresso dell’associazione dei magistrati, che si tiene a Genova, sostenendo i principi essenziali che oggi guidano la magistratura d’assalto, e che la tengono abbastanza lontana dalle idee di fondo dello Stato di diritto. Tra qualche riga vediamo quali sono questi principi dell’Anm. Poi, Poniz, in un’intervista rilasciata a un paio di radio, se l’è presa con quelli che prima dicono di aver rispetto per la magistratura e poi la criticano. Ha osservato: «Non ho mai sentito nessuno dire “Io non ho rispetto per la magistratura”. Però – ha aggiunto – è una frase che non vale niente se dopo averla pronunciata si continua, come avviene spesso, a criticarla in modo aspro». Poniz è convinto, evidentemente, che rispetto significhi sottomissione. Resa. Non solo Poniz: questa dell’obbligo di sottomissione è una corrente di pensiero molto forte tra i magistrati. Comunque, secondo me, un po’ Poniz ha ragione: perché ripetere quella frase stupida? Io, per esempio, non ho proprio nessun rispetto per la magistratura. Lo dico chiaramente: penso che la magistratura nell’ultimo quarto di secolo abbia prodotto dei danni incalcolabili all’Italia, abbia preteso di sostituirsi alla politica e all’economia (e abbia annientato la politica e l’economia), di piegare al suo comando tutti i poteri democratici e di imporre l’idea secondo la quale in una società ordinata c’è un solo potere che controlla e guida tutti gli altri, e che questo potere si chiama magistratura. L’idea di un potere unico non è nuovissima. È l’idea fondamentale di tutte le concezioni autoritarie di sinistra e destra. Quali sono i principi esposti, con molta grinta, da Poniz?
Primo: i magistrati non si fanno intimidire da nessuno.
Secondo: la magistratura non ha bisogno di riforme, la magistratura si autoriforma, non ha bisogno che la sua crisi sia affrontata dalla società, la sua crisi se la autogoverna. Uno degli slogan di questo congresso è: “Crisi dell’autogoverno e autogoverno della crisi”. Cioè l’affermazione dell’autosufficienza e dell’insindacabilità della magistratura. Che poi sono alcuni degli elementi essenziali di una costruzione autoritaria.
Terzo principio: tocca alla magistratura controllare il potere. Ma la magistratura non è un potere? Sì, un potere che ha l’incarico di controllare gli altri poteri per affermare il Diritto. Quale diritto? La magistratura – sottintende Poniz – è essa stessa il diritto. Non esiste diritto fuori della magistratura.
Quarto principio, la magistratura ha il dovere di difendere se stessa e i suoi esponenti dagli attacchi esterni. Gli attacchi esterni non sono accettabili e non saranno mai accettati. Se i cittadini vogliono fare delle denunce contro la magistratura «possono fare le denunce che vogliono: faranno il loro corso».
Dicendo ciò Poniz spiega ai cittadini che sarà la magistratura stessa a decidere su di sé, e a stabilire la propria innocenza o la propria colpevolezza. C’è una vecchia e un po’ ermetica canzone di Fabrizio de André che a un certo punto dice così: Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato? Tra l’altro il congresso è stato dedicato proprio a de André. Con una scelta spericolata o forse, appunto, autocratica. De André è risaputamente l’artista italiano più lontano dalla magistratura. Per lui la magistratura, e anche la legge, erano il male. De André era anarchico ed era nemico della legalità e dei tribunali fino all’ossessione (ve la ricordate quella canzone geniale e un po’ volgare sul giudice boia violentato da uno scimpanzè?). Perché prenderlo a simbolo? Forse proprio per dare l’impressione dello strapotere: io posso creare e distruggere. Se dico che De André era amico dei magistrati, De André diventa amico dei magistrati. Perché lo dico io. Bisognerebbe commentare uno a uno questi principi riassunti da Poniz. Limitiamoci ad alcuni. Primo: in genere non sono gli imputati, che rischiano la galera, a intimidire i giudici che decidono la loro galera. Succede di norma il contrario. Accusare gli imputati di intimidazione, oltre a essere una intimidazione è la quintessenza dell’arroganza. Quasi imperiale. Solo gli imperatori possono permettersela, neanche i re.
E poi c’è la questione dell’impunità. Cioè, dell’impunità dei magistrati. Ieri abbiamo posto il problema, oggi lo ripetiamo. Nell’inchiesta Open quasi sicuramente non c’è nessun reato a carico degli indiziati. Però certamente c’è un reato, ed è la fuga di notizie. L’elenco dei perquisiti (anzi, dei perquisendi) è stato dato ad alcuni giornali amici. È vietato dalla legge. Tutti gli indizi portano a dire che il colpevole è nella Procura di Firenze. Se c’è un reato – grave – e ci sono indizi gravi, perché non si apre un’indagine? (spetterebbe alla Procura di Genova, che ha competenze su Firenze). E poi, perché non interviene il Csm visto che sicuramente è stato violato il regolamento? E poi, ancora, perché il ministro non dispone un’indagine? Perché? Perché si vuole dare l’impressione di un assalto a tutto campo, condotto senza regole e che non lascia vie d’uscita. La magistratura e i giornali hanno circondato la politica, l’hanno avvertita che colpiranno duro e infischiandosene delle leggi, hanno dimostrato di avere una copertura assoluta (procure compatte, Csm piegato, Ministro ossequiente) e chiedono la resa della politica. Come abbiamo scritto in prima pagina: arrendetevi o vi spianiamo. Ci sarà qualcuno che non si arrende? C’è una possibilità di resistenza? Vedremo.
P.S. In magistratura ci sono diverse migliaia di magistrati serissimi e che rispettano le leggi e lo stato di diritto. Per loro grande rispetto. Il rispetto per loro sarebbe ancora più grande se si ribellassero a quel migliaio di loro colleghi che oggi tengono in pugno la magistratura. E che spingono le persone serie a dire: nessun rispetto per la magistratura. Si ribelleranno, prima o poi?
Magistratura, tra “ordine” e “potere”. Enzo Palumbo su Rivoluzione Liberale il 9 Agosto 2013. Le ultime vicende giudiziarie, di cui son piene le cronache, hanno fatto tornare di attualità una leggenda metropolitana che periodicamente riaffiora sullo scenario politico, tutte le volte in cui si registra uno scontro tra una parte della politica ed una qualche decisione giudiziaria. Ed ogni volta, c’è sempre qualcuno che, facendo un’affrettata lettura della Costituzione, si premura di ricordarci che la magistratura non è un “potere” dello Stato ma soltanto un “ordine”, sia pure “autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, come testualmente recita l’art. 104 della Costituzione. Non credo di svelare alcun mistero, specie a chi di Costituzione s’intende, se affermo che nei 139 articoli e nelle 18 disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione, la parola “potere” risulta scritta soltanto due volte: la prima, per l’appunto, all’art. 104, I comma, e la seconda all’art. 117, 4°comma, per come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3-2001, e, in quest’ultimo caso, in una accezione assolutamente estranea al dibattito in corso, riguardando solo il “potere sostitutivo” dello Stato rispetto al mancato esercizio della potestà legislativa delle regioni e delle provincie autonome. Se ne può agevolmente dedurre che il testo licenziato dall’Assemblea Costituente non ha definito come “potere” né quello legislativo (la rubrica del titolo I della parte II, si intitola “Il Parlamento”), né quello esecutivo (la rubrica del titolo II si intitola “Il Governo”). Per cui, se si seguisse la leggenda metropolitana ricorrente, se ne dovrebbe assurdamente ricavare che neppure il Parlamento sarebbe la sede del “potere” legislativo, o il Governo la sede del “potere” esecutivo, e che quindi nel disegno della nostra Costituzione non esisterebbe alcun potere istituzionalmente definito come tale. Chiaramente così non è, e nessuno osa affermarlo, onde si può concludere che i nostri costituenti, pur avendo spesso utilizzato, durante i lavori preparatori, il termine “potere” con riferimento a tutte le tre fondamentali funzioni dello Stato, avevano finito per ritenere quell’espressione come assolutamente presupposta ed implicita nella capacità di ciascun organo di esplicare la rispettiva potestà decisoria: il Parlamento, quanto alla confezione delle leggi, il Governo, quanto allo loro esecuzione, e la Magistratura (o meglio il singolo magistrato), quanto alla loro interpretazione ed applicazione al caso concreto. E che le cose stiano effettivamente così risulta proprio da quell’unica norma costituzionale che evoca i poteri dello Stato, e cioè proprio l’art. 104, 1° comma, quando precisa che “la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, con un’espressione che non avrebbe alcun senso se anche la Magistratura non fosse essa stessa un “potere”, come il Parlamento ed il Governo. Per i nostri costituenti era un dato culturale assolutamente scontato che la Costituzione dell’Italia repubblicana dovesse muoversi nel solco della classica tripartizione , che ha sempre contraddistinto i fondamentali poteri dello Stato, anticamente concentrati nella persona del sovrano e via via sempre più differenziati quanto al loro esercizio e comunque mai più assoluti: quello legislativo vincolato a monte dalla volontà popolare ed a valle dal giudice delle leggi (la Corte Costituzionale), quello esecutivo vincolato dal rapporto di fiducia col Parlamento, e quello giudiziario vincolato dall’osservanza della Legge e sorvegliato dall’iniziativa disciplinare del ministro della giustizia e del procuratore generale, e quindi in termini tali che nessuno dei poteri, mai, potesse ritenersi, in via di principio, come decisore finale e sovraordinato ad ogni altro.
Il che rappresenta la traduzione costituzionale del liberalismo, che è per l’appunto la dottrina della limitazione del potere, di ogni potere, sempre. Quanto all’utilizzo della parola “ordine”, utilizzata dai Costituenti, basterà un piccolo excursus storico per constatare che di null’altro si tratta che di una trasmigrazione tralaticia dallo Statuto Albertino, che i costituenti preferirono mantenere nella nuova Carta, sia per ragioni lessicali (così evitando la ripetizione dello stesso lemma nella stessa frase), sia per l’elementare constatazione che la magistratura, a differenza degli altri due poteri, non agisce mai come un corpo organico ed unitario, ma è portatrice di un “potere diffuso”, in cui ciascun giudice esercita nel caso concreto la sua funzione di “jus dicere”, essendo soggetto soltanto alla legge e con le specialissime guarentigie costituzionalmente previste: pubblico concorso per l’accesso, inamovibilità territoriale e funzionale, riserva di legge per ogni provvedimento in materia, gestione delle carriere e responsabilità disciplinare affidata al CSM, diretta disponibilità della polizia giudiziaria. Altra cosa, ovviamente, è l’esigenza di definire in termini di maggiore bilanciamento ed efficienza i problemi che nel tempo sono emersi e che, oggi come ieri, suggeriscono di affrontare una profonda riforma dei codici di rito e dell’ordinamento giudiziario, specie su temi fondamentali come la celerità dei procedimenti, la conclamata terzietà di tutti i magistrati, la separazione delle carriere di giudicanti ed inquirenti, i meccanismi della loro responsabilità civile e disciplinare; tutti temi che, se davvero si volesse, sarebbe possibile affrontare qui ed oggi, anche a Costituzione invariata, invece di inseguire futuribili ed improbabili riforme costituzionali
Ma questo è un altro discorso, tanto più necessario ed urgente proprio perché quello dei giudici è un vero potere, e deve quindi essere adeguatamente regolato e bilanciato cogli altri, alla luce delle criticità che l’esperienza ha fatto emergere e nell’ottica di una visione liberale che è, per l’appunto, quella della limitazione di ogni potere.
La magistratura in Italia: Ordine o Potere? Considerazioni giuridico-costituzionali di un giovane avvocato. Quanto della famosa separazione tra i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo, giudiziario) operata da Montesquieu – e alla base delle moderne democrazie – è stata accolta nella nostra Costituzione ? E, soprattutto, cosa accade quando si è in presenza di una “cronica” debolezza del potere esecutivo e legislativo? Questo articolo è a cura dell’Avvocato Giuseppe Palma del Foro di Brindisi su Fan Page il 15 febbraio 2013. Appassionato di storia e di diritto, ha sinora pubblicato numerose opere di saggistica a carattere storico – giuridico.
La magistratura in Italia: Ordine o Potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Se il pensiero del filosofo francese poteva andar bene in un periodo in cui tutti e tre i poteri erano concentrati – nell’ottica del dispotismo assoluto – nelle mani del re, nel corso dei due secoli successivi la situazione ha avuto uno sviluppo differente. A mio modesto parere, la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere – in senso stretto – dello Stato, infatti per poter parlare tecnicamente di potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). Per rendere maggiormente masticabile questo meccanismo, è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli scudieri – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di potere. Se si legge il Titolo Quarto della Carta costituzionale è scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost. : <<La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…>>. Fatti chiaramente salvi i principi di autonomia e indipendenza contro i quali nessuno mai si sognerebbe di scrivere neppure un rigo, osservi il lettore che la Costituzione parla – addirittura in maniera esplicita– solo di Ordine, guardandosi bene dall’usare il termine potere. Se fino alla fine degli anni Ottanta questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo. E mi riferisco, ad esempio, a quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista e giacobina racchiusa nelle parole <<resistere, resistere, resistere…>>! Alla “faccia” della Costituzione e del principio della separazione dei poteri! Non me ne voglia nessuno, ma quando si ha intenzione di difendere la Costituzione bisogna sempre farlo in buona fede e con imparzialità, e non solo quando risulta utile al fine di tutelare gli interessi corporativi di una categoria. Mai la Magistratura deve sentirsi legittimata a sostituirsi alla politica; anche di fronte a periodi di debolezza di quest’ultima, la Magistratura non deve mai indossare una veste che non sia quella che le ha ricamato su misura la Costituzione e, allo stesso tempo, mai la politica deve utilizzare la giustizia per i propri scopi. Atteggiamenti differenti hanno prodotto e continueranno a produrre gravissimi danni allo Stato di Diritto ed ai principi di libertà e democrazia. A tal proposito, se non ricordo male nel 2010, vidi sulla prima pagina dei giornali alcuni magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. Ne rimasi basito! Se si vuole difendere la Costituzione, e lo si vuole fare per davvero, la si deve prima rispettare… anche a costo di perdere determinate posizioni privilegiate. Riprendendo per un attimo quanto ho scritto pocanzi su quel gruppetto di magistrati che circa vent’anni fa andò in televisione per contrastare alcune legittime e sovrane decisioni del potere legislativo e di quello esecutivo, non ricordo di aver visto all’epoca giudici togati talmente affezionati alla Costituzione – come invece lo sono adesso – a tal punto da tenerne una copia tra le braccia con l’intento di difenderla…E che dire, per esempio, di alcune sentenze della Corte di Cassazione?! Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse. Tutte queste deformazioni, se vogliamo continuare a vivere in uno Stato di Diritto, devono al più presto cessare! Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma allora perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura si sono formate delle vere e proprie correnti? Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? Per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie? Perché assistiamo a tutto questo? Preferisco che sia il lettore, nella meravigliosa solitudine del proprio libero pensiero, a darsi una risposta. Al momento mi è sufficiente trovare consolazione nel sapere che esiste una maggioranza di magistrati – e vi posso garantire che sono tantissimi – che svolgono onestamente il loro lavoro con professionalità, preparazione e serietà, senza alcuna mira o ambizione che non sia quella nobile e disinteressata di essere al fianco di tutti gli operatori del diritto – seppur ciascuno nel rispetto del proprio ruolo – per garantire ai cittadini l’unica cosa che conta per davvero: la Giustizia! Avv. Giuseppe Palma
· Le Toghe Show.
Csm: «Le toghe siano moderate nei rapporti con i media». Palazzo dei Marescialli ha chiesto la tutela della presunzione di non colpevolezza e il diritto dell’imputato a non apprendere notizie dalla stampa. Giovanni M. Jacobazzi il 24 Dicembre 2019 su Il Dubbio. È ormai endemico il fenomeno delle distorsioni giuridiche sul processo penale per una informazione giudiziaria legata “a doppio filo” alle impostazioni dell’accusa. Di contro, è sempre meno frequente la cronaca giudiziaria intesa come cronaca del processo: da tempo, infatti, esiste una cronaca giudiziaria fatta di “copia e incolla” delle informazioni degli atti di indagine. Il primo effetto è il condizionamento dei soggetti processuali ( giudici, testimoni, parti) dovuto ad una percezione distorta dell’indagine: l’eventuale esito assolutorio del processo rischia di essere percepito come uno “spreco” di attività processuale, o una “denegata giustizia”, da parte di chi si è formato un convincimento colpevolista, quando non “giustizialista”. Ma non solo. Il giudice, laddove decidesse in modo difforme dal comune sentire generato dal predetto convincimento, potrebbe correre il rischio di essere delegittimato e di subire violenti attacchi. Diverse sentenze della Corte EDU si sono espresse, anche di recente, a favore di un bilanciamento tra libertà di stampa e diritto all’informazione, da una lato, e diritto alla riservatezza delle persone coinvolte in vicende giudiziarie e al buon andamento della giustizia, dall’altro. Strasburgo, nonostante l’art. 10 CEDU tuteli la libertà d’espressione, ha confermato la sanzione per il giornalista che ha divulgato notizie coperte dal segreto istruttorio, sottolineando l’importanza della buona amministrazione della giustizia, il diritto ad un processo equo, il rispetto della vita privata dei soggetti interessati. La Corte ha anche ritenuto sussistere un dovere dello Stato di adottare misure organizzative e di formazione del personale per prevenire l’illegittima pubblicazione di informazioni riservate. In tale contesto, vale la pena ricordare che il Csm, con delibera del 2018, ha approvato le “Linee- guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, con lo scopo di garantire la massima “trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria” e la creazione di prassi uniformi per una “comunicazione efficace e deontologicamente irreprensibile, imparziale, equilibrata e obiettiva”, anche attraverso l’elaborazione di strategie comunicative ( conferenze stampa, comunicati, utilizzo del web) e la realizzazione di uffici stampa. Alla stesura ha partecipato un gruppo di lavoro, presieduto dall’ex presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, composto da giornalisti, scrittori e magistrati. Sono state svolte anche audizioni del Cnf, dell’Ordine nazionale dei giornalisti, della Fnsi e dell’Anm. «L’informazione giudiziaria non confligge con il carattere riservato, talora segreto della funzione, aumentando la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello Stato di diritto, rafforzando l’indipendenza della magistratura, e più in generale l’autorevolezza delle Istituzioni», si legge in premessa. Numerose le indicazioni sovranazionali; fra queste, la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri del 2010, secondo cui: «I procedimenti giudiziari sono questioni di pubblico interesse. Il diritto all’informazione deve essere esercitato tenendo conto delle limitazioni imposte dall’indipendenza della magistratura. I giudici devono dar prova di moderazione nei loro rapporti con i media». La delibera si divide in due parti: una generale ed una specifica per i diversi Uffici ( giudicanti, requirenti, di merito, di legittimità). Fulcro della comunicazione giudiziaria è l’oggettivo interesse pubblico ( controversie di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico- scientifico). Fra i punti cardine: scongiurare discriminazioni fra giornalisti e testate, evitare canali informativi privilegiati con esponenti dei media, non personalizzare le informazioni esprimendo opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi. Corollario è il rispetto della sfera privata e familiare degli individui coinvolti, della dignità dell’imputato, degli estranei. Imprescindibile, il rispetto del giusto processo, la tutela della presunzione di non colpevolezza, la centralità del giudicato rispetto ad altri snodi processuali ( es. le indagini preliminari), il diritto dell’imputato a non apprendere dalla stampa quanto deve essergli comunicato in via formale. Il procuratore, responsabile della comunicazione esterna, è tenuto al rispetto delle decisioni giudiziarie, che può “contrastare” non pubblicamente ma nelle sedi processuali. Divieto assoluto, infine, di “amplificare impropriamente i meriti dell’Ufficio e dei servizi di polizia giudiziaria”.
Pm "protagonisti", l’ex magistrato Spataro accusa: “Basta indagini spettacolo”. Redazione de Il Riformista il 24 Dicembre 2019. “Simili eccessi comunicativi traggono spesso origine dal desiderio di acquisire titoli utili per fare carriera”. È una condanna netta quella che fa Armando Spataro, ex magistrato ed ex procuratore della Repubblica a Milano e Torino, delle foto comparse online di due agenti della polizia locale di Opera (Milano), con alle loro spalle un uomo dietro le sbarre. A pubblicarle, contro le normative del codice di procedura penale in difesa della privacy delle persone private della libertà personale, era stata la pagina Facebook dal Corpo della polizia locale di Opera, oscurando con un tratto bianco il volto dell’uomo in stato di fermo.
LA STOCCATA AI PM – Per l’ex magistrato la foto è l’occasione, in una lettera inviata a La Repubblica, per avanzare severe critiche ad un certo modo di fare della magistratura. Spataro si allinea così al titolo de Il Riformista su Nicola Gratteri “Giustizia? E’ solo show”, dopo l’inchiesta che ha portato ad oltre 300 arresti per ‘Ndrangheta in Calabria. “Non è apprezzabile la pratica di certe teatrali conferenze stampa – scrive Spataro – in cui alcuni pubblici ministeri, inclusi quelli che sognano di rivoltare le regioni in cui operano (quasi che il compito dei magistrati sia quello di moralizzare il Paese), presentano sistematicamente le proprie indagini con proclami del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord” (ignorando processi celebrati più di venti anni fa).
LE INTERVISTE SHOW – Spataro ne ha anche per certe interviste che “costituiscono spesso occasione per l’ampliamento degli spazi propri delle conferenze stampa: consentono ai magistrati, ad esempio, la costruzione di verità alternative rispetto a quelle accertate o da accertare nei dibattimenti. Proliferano misteri senza fini e indimostrate responsabilità di un antistato diffuso e indecifrabile: un noto pm ha dichiarato che Messina Denaro (il boss latitante e capo della mafia siciliana, ndr) non viene preso perché conosce troppi segreti”.
LA RICETTA DI SPATARO – Per l’ex procuratore di Milano e Torino la soluzione è chiara: “Le corrette modalità di comunicazione impongono, oltre che equilibrio e sobrietà, la massima spersonalizzazione delle notizie necessarie. Le conferenze stampa vanno risalvate alle occasioni di storica o particolare necessità, senza dimenticare che il rispetto del giusto processo e dei diritti dell’uomo è raccomandato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.
· La riforma infetta della Giustizia.
Caro Bonafede, la tua riforma è una ferita allo Stato di diritto. Francesco Urraro 27 Novembre 2019 su Il Riformista. Lo stop alla prescrizione in vigore dal primo gennaio per effetto della legge anticorruzione dove fu inserito un emendamento ad hoc, implica qualche urgente riflessione: non sono infatti pochi né irrilevanti i possibili vulnus allo Stato di diritto conseguenti all’applicazione della riforma. Innanzitutto, occorre rilevare che sull’annunciata riforma insiste un’ombra di non poco rilievo: sussistono infatti nella proposta profili di incostituzionalità, mentre la sua concreta applicazione potrebbe dar vita a pesanti contraccolpi tali da poter compromettere le diverse funzioni della pena che sono sottese alla ragione estintiva del decorso del tempo. A essere messa in discussione è in primis la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Fermare la prescrizione equivale infatti a considerare l’imputato, anche in caso di assoluzione, sottoposto a un procedimento privo di termini temporali. Il diritto di difesa ex art 24 Cost. risulterebbe inoltre compresso e deteriorato da distanze temporali lunghissime che renderebbero di fatto impossibile una ricostruzione esatta del fatto contestato. Parimenti, la funzione rieducativa ex art 27 Cost. Terzo comma, potrebbe risultare vanificata dal lasso di tempo intercorso in relazione al compimento del fatto. Ed appare sin troppo evidente, quanto allarmante, l’effetto distorsivo principale prodotto da una riforma che scalfisce un altro principio costituzionale. Lo stop alla prescrizione determinerebbe di fatto un procedimento sine die, che comporterebbe così l’irragionevole durata del processo in violazione di quanto previsto espressamente dall’articolo 111 della Costituzione. Tra l’altro la riforma Bonafede prevede che il tempo della prescrizione si blocchi a partire dalla sentenza di primo grado senza distinguere tra condanna o assoluzione, per cui in entrambi i casi l’appello proposto da chi è stato condannato oppure dal pm in caso di assoluzione dell’imputato, potrà svolgersi senza limiti di tempo anche per molti anni dopo. Come detto da tempo, per scongiurare tali effetti abnormi, sarebbe necessaria, ovviamente, una preliminare riforma ordinamentale. In questo senso è da accogliere con favore l’opportunità di estendere il patteggiamento, in combinato con altre innovazioni qui di seguito suggerite. In primo luogo, è necessario il potenziamento dei riti alternativi, l’ampliamento del giudizio abbreviato condizionato (quello che avviene con acquisizione della prova nuova rispetto a quella raccolta in fase di indagine), il rafforzamento della udienza preliminare e il consolidamento dei poteri decisori del giudice. Tutte misure che avrebbero effetti deflattivi sui processi e che comporterebbero una riduzione dei tempi degli stessi, a condizione che si decida di investire seriamente sul sistema giustizia. Si pone infatti davanti a noi il grande tema delle risorse: occorrono investimenti nel settore Giustizia per fare fronte ai sottodimensionamenti dei magistrati e degli amministrativi, ma anche fondi per provvedere alla manutenzione degli uffici giudiziari che oggi è centralizzata. Va notato peraltro che nell’amministrazione prossima della giustizia avranno un nuovo ruolo, sempre più centrale, i diversi processi telematici che pure meritano investimenti e formazione adeguata, se si vuole che funzionino al meglio a tutto vantaggio dei cittadini. La Corte costituzionale con una importante sentenza (la numero 115 del 2018) ha chiaramente rappresentato che la prescrizione debba essere considerata un istituto di natura sostanziale: essa deve dunque rispettare il principio di legalità e determinatezza e come tale è necessariamente immanente nel sistema. In buona sostanza, la prescrizione è insomma il sintomo di una malattia, non la causa. Se è vero che in Italia i tempi dei processi sono abnormi, bisogna intervenire sulla loro durata senza eliminare un istituto antico di civiltà giuridica.
Quel pericolo dell’ingiustizia sempre in agguato. Vincenzo Vitale il 17 Agosto 2019 su Il Dubbio. Un viaggio nella coscienza e i tormenti del protagonista: “Gli occhi dell’eterno fratello” di Stefan Zweig. Un magistrale racconto di Stefan Zweig, che si dovrebbe proporre a tutti gli studenti di giurisprudenza quale chiave privilegiata di meditazione per ogni giurista, nel processo di formazione della propria coscienza professionale, ma che, proprio per questo motivo, non lo sarà mai. La pubblicazione di oggi è allora una sorta di tentativo di riesumazione del racconto, a favore dei giuristi che si ricordino di avere una coscienza, e non sono molti. La trama, in breve.
Nel regno del Re Rajputa, il Birwagha, vive un uomo integro e stimato di nome Virata. Quale comandante supremo dell’esercito, sconfigge il nemico che voleva impossessarsi del regno, ma subito dopo la battaglia, si rende conto, con orrore, di aver ucciso a fil di spada addirittura il proprio fratello, i cui occhi lo fisseranno per sempre dalla lontananza della morte. Così, Virata non riesce più a svolgere quel compito e chiede al Re di esserne esentato. Il Re a malincuore lo destina al compito di giudice supremo del regno. Virata si impegna con ogni attenzione e prudenza nel ruolo di giudice supremo, meritandosi la stima di tutti. Ma un giorno, dopo aver condannato un giovane, responsabile di vari omicidi, alla prigionia in una profonda grotta, colpito dalle parole da questo pronunciate dopo la condanna ( “solo chi ha sofferto può misurare la sofferenza…”), si fa rinchiudere per un mese nella medesima grotta. Virata capisce così che non potrà mai più condannare altri uomini alla stessa sofferenza e perciò chiede al Re di essere esentato dal compito, ottenendo quanto nei suoi desideri. Virata si limita perciò ad amministrare i propri beni e la propria famiglia, ma in poco tempo la sua saggezza e la sua correttezza travalicano i confini del regno e perciò da ogni dove giungono persone di ogni classe sociale a chiedere il suo illuminato consiglio per ogni tipo di delicata questione. Ma dopo una banale discussione con i figli che gli rimproverano di godere comunque dei servigi dei servi, trattati come fossero cose, egli capisce che essi hanno ragione: abbandona così la casa, rifugiandosi nella foresta inaccessibile e vivendo di acqua di fonte e dei frutti della natura. Ma anche qui, il suo desiderio di purificare la sua coscienza non va a buon fine. Infatti, una donna gli rivela che il marito, vinto da profonda ammirazione per lui, aveva abbandonato, volendone imitare la vita, la propria famiglia per rifugiarsi nei boschi. Per questo motivo i figli, privati del sostentamento fornito dal lavoro del padre, erano morti di stenti. Virata capisce allora che anche vivendo da asceta non aveva potuto evitate di condizionare la vita degli altri, causando il loro danno e usando loro, sia pure in modo indiretto, violenza. Si fa assegnare allora al più umile dei compiti, quello di guardiano del canile del Re. Quando muore, da tutti dimenticato, gli è compagno solo il guaire dei cani.
Cosa può indicare questo racconto al giurista? Non poche cose. Innanzitutto, che anche seguendo alla perfezione e con sommo scrupolo le regole processuali, è sempre in agguato il pericolo di commettere ingiustizia, occorrendo invece, allo scopo di realizzare la giustizia, qualcosa d’altro che si trova fuori dalle regole e dai processi. Questo qualcosa altro non è che un senso di giustizia personale che possa consentire a chi sia chiamato – come lo era stato Virata – a rendere giustizia, ripartendo i torti dalle ragioni, di farlo con una sufficiente equanimità. In altre parole, il giudice deve aver cura, prima di rendere giustizia, di esser lui stesso, per quanto possibile agli esseri umani, “giusto”. A differenza del sacerdote che, anche se indegno, potrà amministrare i sacramenti validamente – perché il loro effetto non dipende dal celebrante ma proviene da Dio – il giudice, se indegno, non dispenserà che indegnità. Antica riflessione platonica questa, ma troppo spesso dimenticata ed occorre perciò che venga debitamente ricordata. Insomma, l’esperienza umana di Virata non è che una lunga e dolorosa sequenza di tentativi esistenziali tutti rivolti ad evitare che ne derivi un condizionamento violento sulla vita degli altri: sia che si faccia il guerriero, sia il giudice, sia il saggio eremita. Ecco perché, ogni giurista, e soprattutto il giudice deve aver cura in sommo grado di sensibilizzarsi alla delicatezza della propria funzione; deve essere in particolare consapevole che ogni giudizio di diritto è destinato a vivere una terribile contraddizione: da un lato, la necessità di giudicare i comportamenti umani, dall’altro, la impossibilità di giudicare, evangelicamente segnata dal “nolite iudicare”. Per superare questa terribile e paralizzante contraddizione, al giurista non resta che nutrire la propria coscienza di come il giudizio che egli è chiamato a formulare non può che essere sempre parziale, imperfetto, limitato, come ben mostra di sapere e di soffrire Virata ( si pensi qui, a titolo di esempio, a coloro che vorrebbero abolire il grado di appello, quasi il primo grado di giudizio fosse il regno della verità assoluta…). Ne viene che il giudice- giurista dovrà comportarsi in modo conseguente, tessendo il proprio giudizio di quel “timore e tremore”, senza il quale egli rischia di usare violenza sui propri simili. La più temibile delle violenze: quella consumata attraverso le forme del diritto.
La giustizia fascista? Stupida e crudele come una scatola vuota…Vincenzo Vitale il 20 Agosto 2019 su Il Dubbio. Rileggendo “Porte Aperte” capolavoro di Leonardo Sciascia. Il racconto di Leonardo Sciascia che qui si presenta costituisce di sicuro uno dei vertici della sua narrativa, non solo per la magistrale stringatezza della prosa – levigata e nello stesso tempo graffiante – ma anche per la sagacia della rappresentazione. Per saggiare la raffinatissima qualità della scrittura sciasciana – o, se si vuole, del suo pensiero, che è la stessa cosa – basti notare come, a differenza di quanto accade nella pagina di altri autori – premiatissimi dall’industria editoriale – quale Antonio Scurati, il nome di Mussolini non sia citato neppure una volta: eppure, l’ideologia fascista e le “porte aperte” che essa propiziava costituiscono la trama evidente attorno alla quale viene tessuto tutto il racconto. Le vicende narrate fanno capo ad un efferato omicidio commesso in un piccolo centro siciliano durante il ventennio e si aprono con una scena memorabile, quella del Procuratore della Repubblica che – parlando con il giudice chiamato a decidere sulla colpevolezza dell’accusato, già arrestato – gli indirizza questo pensiero : “Lei sa come la penso !”. Chiosa lo scrittore racalmutese con impareggiabile e sottilissima ironia: “Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa; se la pensa; se pensa”. Due righe soltanto per denunciare la totale assenza di pensiero in quella scatola vuota – di cui le dittature hanno sempre bisogno, notava Karl Kraus – che è la testa del Procuratore. Costui non pensa perché si limita a far proprio il pensiero del regime, il quale vuole fermamente che l’ordine sia ristabilito con la condanna degli accusati di efferati delitti, come quello narrato in queste pagine, alla pena di morte, reintrodotta dal codice penale dovuto ad Alfredo Rocco. In sostanza, mentre il Procuratore abdica alla fatica del pensiero, il giudice, che lo scrittore qualifica subito con un aggettivo che lo accompagnerà per tutte le pagine, vale a dire “piccolo” – proprio per distinguerlo dal Procuratore che invece è grande, gigantesco, da far paura – pensa davvero; e siccome pensa, non può che essere decisamente contrario alla pena di morte, al suo principio, alla sua efferatezza. Tutto il racconto si dipana dunque su questa linea di contrapposizione fra, da un lato, il regime, il volere dei gerarchi, la pressione della stampa, quella del Procuratore e degli alti gradi della Magistratura e, dall’altro, il “piccolo” giudice, che troverà un inaspettato ausilio in uno dei giurati della giuria popolare, un contadino non molto acculturato, ma dotato di “tenace concetto”, vale a dire della capacità di mettere in campo la propria sensibilità umana e giuridica contro quella aberrazione che è la pena di morte. Alla fine del processo, la sentenza, pur di condanna, non sarà alla pena capitale. E se ciò cementerà un rapporto strettissimo fra il “piccolo” giudice e il giurato popolare, li esporrà fatalmente a possibili ritorsioni, che peraltro essi son pronti a pagare di persona, pur di non abdicare alla loro coscienza ed alle sue esigenze.
Un apologo di sapore moraleggiante, dunque? Decisamente, no. Si tratta invece di molto di più. Si tratta di una narrazione compiutamente letteraria quanto compiutamente filosofica, anche perché “in apicibus” – come gli scolastici predicavano del bene e del bello – l’una dimensione si converte nell’altra e viceversa. E’ compiutamente letteraria perché la scrittura, sorvegliatissima e di solare evidenza, cuce la trama di un rapporto umano, delicatissimo e decisivo, non su basi puramente estetiche, ma profondamente vissute e perfino laceranti nella coscienza dei due protagonisti, il “piccolo” giudice e il giurato. E’ compiutamente filosofica, perché la riflessione contro la pena di morte raggiunge la forza di un assoluto, non attraverso l’impeto di una pulsione o l’occulto farsi strada di un sentimento, ma attraverso la luce della ragione, la quale la respinge per semplici ed ineludibili esigenze di giustizia. Si tratta perciò di un racconto che dovrebbe mettersi al centro degli studi di giurisprudenza per sollecitare i futuri giuristi nel senso che ora enuncerò, invece di propiziarne la noia, meditando sull’ennesima massima della Cassazione, astrusa quanto autoreferenziale perché dimentica della vita reale. Cosa può imparare allora il giurista da questo esemplare racconto?
Primo. A pensare con la propria testa, cosa non facile, soprattutto oggi, epoca nella quale cercare di farlo sembra quasi un delitto lesa maestà, in un mondo sempre più omologato e omologante. Il Procuratore non pensa. Il “piccolo” giudice pensa. E anche il giurato.
Secondo. A riportare le norme, dai codici e dalle leggi, alla vita reale. E a far sì che le norme e le leggi siano per la vita e non la vita per le norme e per le leggi. Il Procuratore non lo sospetta neppure. Il “piccolo” giudice si muove in questa direzione. E anche il giurato.
Terzo. A nutrirsi del necessario coraggio per andare contro corrente, anche rischiando in prima persona. Il Procuratore non è che un vigliacco asservito al regime. Il “piccolo” giudice si nutre di questo coraggio, pur nella paura che lo rode: il coraggio convive con la paura, altrimenti scolora in incoscienza. Anche il giurato si nutre del medesimo coraggio, venato di paura.
Quarto. A saper dire dunque di no, a tutti coloro che vorrebbero si dicesse di si. Il Procuratore, infatti, dice di si. Il “piccolo” giudice dice di no. E anche il giurato.
Si potrebbe continuare a lungo, ma è opportuno fermarsi qui. Non senza aver rammentato a chi legge che una definizione che Salvatore Satta forniva del giurista era proprio questa: giurista è colui che dice di no. Sciascia lo sapeva. Molti laureati in giurisprudenza di oggi lo ignorano. Che dunque leggano!
UN TESTO SCRITTO DA TRAVAGLIO? Carlo Nordio contro Alfonso Bonafede: "Riforma della giustizia obbrobrio, ai pm un potere mai visto". Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. "Siamo di fronte a una riforma della giustizia che consegna ai magistrati un potere unico al mondo, un potere insindacabile, un potere che sconfina nell'arbitrio. Ma è anche una riforma che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, lo ritengo un obbrobrio. La prescrizione non è il luogo dell'impunità ma è la risposta al fallimento della giustizia". Carlo Nordio, magistrato oggi in pensione, parla apertamente - in un'intervista a Il Giornale - di tutti i dubbi su quella che è la riforma della Giustizia presentata dal grillino Alfonso Bonafede. "Innanzitutto non mi sembra si possa parlare di riforma, ma di parariforma, di riformina. Questa finirà indubbiamente per allungare i processi all'infinito. Nonostante la riforma fissi un termine per quanto riguarda la durata dell'indagine, non prevede che siano termini tassativi. Prevede solo sanzioni disciplinari per i magistrati che non chiudono i processi in termini ragionevoli, e questo non servirà a nulla". Non solo, la paura più grande per Nordio è il potere che i procuratori potrebbero ottenere: "Immensi. A loro sarà consentito di decidere quali reati debbano essere trattati per primi. Il rischio è avere nel Paese una giustizia disomogenea. Ogni procura seguirà un suo criterio". E così si rischia di avere arbitri senza arbitrio: "In realtà arbitrio senza arbitri - commenta -. Oggi, un magistrato, ha già ampi poteri discrezionali. Domani, con la riforma, aumenteranno. Quello affidato ai pm, sarebbe l'unico potere al mondo senza responsabilità correlate. Un rimedio esiste. Fare stabilire al Parlamento, che è eletto, quali indagini debbano avere priorità. Un catalogo fatto dal parlamento che se ne assume la responsabilità ma non un procuratore".
"La riforma della Giustizia di Bonafede è acqua infetta": così i colpevoli non finiranno mai in carcere. Renato Farina il 2 Agosto 2019 su Libero Quotidiano. Questa riforma della giustizia non s'ha da fare. Sarà pure in Bonafede ma resta una figlia di Trojan. Essa ha infatti per principio non citato, perché non bisogna nominare l' Onnipotente invano, proprio il divino Trojan, quel dispositivo che viene spedito dentro un telefono dopo di che funziona come un microfono aperto che tutto registra. Quella riforma sgorga da lì, dall' aver consegnato e dall' insistere nel lasciare nelle mani di una magistratura questa pistola inceneratrice di colpevoli e innocenti. Salvini l'ha bocciata, quella bozza di riforma, dicendo che essa manca di nerbo, non risolve niente dal punto di vista degli italiani: «È acqua». Manca un aggettivo. Lo aggiungo: è acqua infetta, propaga la peste di un voyeurismo potenzialmente ricattatorio nelle viscere della vita. È acqua tossica, che il M5S e i suoi procuratori di riferimento ci vogliono far bere dopo averla pescata col secchio dal pozzo avvelenato in cui giace la carogna della giustizia italiana. Esageriamo? Neanche di un filo. Se non si regolamentano le intercettazioni, e se non si elimina o almeno non si rende eccezionale (tipo sicurezza nazionale e mafia) l'uso del Trojan, qualsiasi riforma diventa finta. È il caso nostro. Nella pantomima è previsto persino che il Csm e l'Anm, il sindacato dei magistrati, protestino per il metodo di elezione del loro organo di autogoverno, e per i tempi troppo ristretti loro concessi per arrivare a concludere i processi: sei anni! In realtà troppissimi per l' uomo comune, ma i magistrati li ritengono termini irragionevoli. Dopo di che le toghe ritardatarie potrebbero essere soggette non a sanzioni (figuriamoci) ma a generici provvedimenti disciplinari (che paura). Nessuna nullità, solo un richiamuccio. Ebbene costoro digrignano i denti. In realtà, trattasi di sceneggiata per far credere che sono incazzati. In realtà il ddl del pentastellato Alfonso Bonafede è una finzione per il consolidamento dello strapotere dell' ordine giudiziario, cui si lascia a disposizione un missile a testata nucleare multipla. Il tutto in vista di un' alleanza tra toghe e M5S, che in questo periodo godono di periclitanti consensi. Logico che la Lega si opponga. Il ministro Giulia Bongiorno aveva fatto presente al Guardasigilli tutte le obiezioni che rendono il progetto indigeribile. Non ne è stata accolta neppure una. Ci aspettiamo una ribellione che non equivalga a future micro-concessioni. Salvini ci pare determinato a cambiare i pistoni di un motore che non funziona e a cambiare parecchi piloti. Vediamo, oltre alla santificazione di Santa Intercettazione Universale, altri punti orribili di questa deforma più che riforma.
I tempi della giustizia restano infiniti per Bonafede. Infatti è confermata l' abrogazione di fatto della prescrizione, i cui termini dal 2020 scadranno dopo il primo grado di giudizio. In pratica significa che i colpevoli non andranno mai in galera, e gli innocenti finiranno per vedersi triturati per 25-30 anni dalla macchina della giustizia, finché morte non li separi.
I termini della custodia cautelare e la sua applicazione anche per reati dove non c' è pericolo sociale restano intatti, mentre non viene toccato l' istituto della sospensione della pena, che grazie ad attenuanti generiche, consentono a stupratori e spacciatori di essere liberi di nuocere dopo un giorno di carcere (Salvini ha citato il caso di Osio al Serio messo in luce da Libero). I criteri di ingresso in magistratura restano concorsi talvolta dubbi, dopo di che è fatta, carriera senza fine. Occorrerebbe una preparazione di tipo sacerdotale, con una selezione progressiva. Le promozioni dei magistrati dovrebbero seguire il criterio del merito oggettivo. Bonafede lascia intatti i meccanismi attuali. Le Procure sono lasciate libere nella loro discrezionalità nel perseguire questa o quella fattispecie criminale. Bonafede tutela l'ipocrisa dell'obbligatorietà dell' azione penale. Nessuna separazione delle carriere, e neppure l' istituzione di due organi disciplinari diversi. Giudice e pm non saranno mai terzi l'uno rispetto all' altro.
Le poltrone benissimo retribuite del Csm aumentano da 26 a 30. Complimenti. Scusate se insisto. Questa riforma è una figlia di Trojan, e se la formula evoca maternità ignobili, amen. Chiarisco. La concessione ai pm di utilizzare questo marchingegno equivalente all' Occhio e all'Orecchio assoluto era stata inserita nello spazza-corrotti ad opera del M5S, inopinatamente accettato dalla Lega, ed esprime l'idea della purezza al di sopra di ogni sospetto e controllo della magistratura, alla quale, in nome della sua presunta immacolata virtù, tutto è consentito. Con il Trojan può entrare nella vita del prossimo fino alle midolla. Non solo degli indagati, ma di chiunque ad essi si accosti per qualsivoglia ragione. Moglie, mariti, figli, amanti, preti, amici, nemici, camerieri, nipoti. Gli esiti sono di una pervasività equivalente alla radioattività di una centrale di Chernobyl in movimento. Che l' indagato sia afferrato da radiazioni infernali può lasciare indifferenti: cavolacci suoi. La questione è che quando si sposta chiunque entra nel suo raggio è preso all' amo da tecnici informatici e da procuratori. Diventa una specie di premio imprevisto nella lotteria del guardonaggio. Rende insicura l' esistenza quotidiana. Che i discorsi seri o faceti finiscano sui giornali o siano trasformati in reati con la tecnica della rete a strascico interessa sì, ma non è questo il punto. A ciò si potrebbe ovviare, ci abbiamo del resto fatto il callo. Fa paura piuttosto che esistano persone vestite come tutti noi, con la faccia da pirla come me e te, ma che sanno tutto di noi a prescindere dai riflessi penali. Diventando così memorie autorizzate delle vite degli altri, compresi gli armadi, e con tentazioni da cui neanche le toghe lavate con il Dixan sono impermeabili. Mi sbaglio, o i tassi di corruzione negli uffici dei Tribunali si scoprono sempre più vicini a quelli di ogni altro ambito pubblico? Perseguire i reati ha i suoi costi, ma non può essere la rinuncia al limite del buon senso. Quella massa di dati sarebbe un deposito di scorie atomiche che una volta prodotte sappiamo per esperienza che diventano indistruttibili, eterne come la capacità della razza umana di fare il male. Al diavolo questa brutta riforma. Ormai la mamma sappiamo che mestiere faceva e fa. Renato Farina
SILENZIO, PARLA COPPI. Annalisa Chirico per ''Il Foglio'' il 2 Agosto 2019. “Nei tribunali c’è un tale degrado che mi è passata la voglia di andarci”, il professor Franco Coppi appare tormentato, e non lo nasconde. La chiacchierata su vita e morte del diritto attraversa il principio e la fine di un'esistenza, la sua.
“Volevo fare il pittore ma non avevo dentro il sacro fuoco del pittore. Neppure quello dell'avvocato, a dire il vero. Dicono che non si dovrebbe vivere di rimpianti, che al termine di un ciclo sei quello che dovevi essere. Una qualche provvidenzialità immanente nelle cose deve pur esserci. Poi però io mi fermo a pensare, e il pensiero è tormento. Penso a ciò che non sono riuscito a fare, che mi sarebbe piaciuto fare, ai posti che non ho visto, agli incarichi che non ho accettato. Sebbene oggi non abbia più alcun senso, continuo a ripensare me stesso. Ci si prepara anche così a morire”.
“Degrado” è una parola forte, professore.
“Aspetti formali e sostanziali contribuiscono allo stato attuale. Nelle corti di assise capita di imbattersi in giurati con la maglietta da mare e la fascia tricolore, in magistrati con la toga buttata addosso a un paio di blu jeans e la camicia aperta fino all'ombelico. Non pretendo che si torni ai tempi in cui ti guardavano storto se ti presentavi in Cassazione con l'abito spezzato ma gli eccessi attuali sono inaccettabili: la forma è manifestazione di rispetto verso il ruolo che si esercita nelle aule giudiziarie”.
I guasti della giustizia però non sono una mera questione di abbigliamento.
“Non mi ritengo l'ultimo arrivato, ho accumulato un po’ di esperienza, eppure da qualche tempo capita con frequenza sempre maggiore di trovarsi di fronte a sentenze inaspettate e inaspettabili. Certi episodi sono talmente inverosimili che temo di non essere creduto”.
Noi le crediamo.
“E’ accaduto che, poco prima di un'udienza, un magistrato mi abbia confidato candidamente di essersi già formato un'opinione sul caso guardando gli spettacoli televisivi. Me l’ha detto senza avvertire la gravità di un'affermazione che per me è valsa come una pugnalata nel fegato”.
Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha presentato un ddl che fissa in sei mesi il termine perentorio per la conclusione delle indagini preliminari.
“Mi lasci dire, in premessa, che nella vita non ci s’improvvisa. Da anni sento parlare di come riformare la giustizia: una materia così rilevante e complessa andrebbe affidata a persone dotate della competenza necessaria. A mio giudizio, porre limiti temporali alle varie fasi del processo è in sé sbagliato: se per una perizia tossicologica s'impiegano tre mesi abbondanti, come si fa a stare nei sei? Ho sentito lo stesso ministro presentare come obiettivo auspicabile il processo lungo nove anni nei tre gradi di giudizio. Un'idea commovente”.
In che senso?
“Come si può pensare che nove anni siano un tempo trascurabile nella vita di una persona? Nove anni sono un'enormità, una cosa mostruosa! Anziché fissare termini drastici, bisognerebbe indurre il magistrato a correre di più. L'attuale codice invece sembra favorire le lungaggini. Si consideri il dibattimento: sotto il mito della verginità del giudice e della formazione della prova si è camuffata una perdita di tempo incredibile. Chiunque assista a un'udienza si accorge che essa serve esclusivamente a trasferire ciò che tutti sanno, ad eccezione del giudice, dai verbali investigativi del pm a quelli del dibattimento. Se fosse vero che il giudice, una volta a conoscenza degli atti, si preforma un giudizio immutabile, con il vecchio Codice Rocco avremmo dovuto avere soltanto condanne. All'epoca invece le sentenze di assoluzione fioccavano. Oggi si pretende che chi ha redatto un verbale si rechi in aula, a distanza di tre anni, per riferire se il capo della vittima fosse reclinato sul volante o riverso sul sedile, elementi e fatti già pacificamente acquisiti agli atti. E’ un meccanismo caotico, fonte di perdite di tempo inenarrabili”.
La riforma Vassalli del 1989 è uno spartiacque: lei vorrebbe tornare indietro?
“Continuo a ritenere che il codice Rocco desse maggiori garanzie dell’attuale. Il giudice istruttore, al momento del rinvio a giudizio, consegnava al giudice del tribunale un'ipotesi di lavoro. Va da sé che parliamo di magistrati perbene, avvocati preparati e pm dotati: in presenza di un giudice pazzo o di un difensore corrotto, non c'è codice che tenga. Con il vecchio rito i processi si risolvevano in un paio di udienze perché il giudice era nelle condizioni di poter acquisire, mediante la lettura degli atti, una conoscenza approfondita del caso. Oggi assistiamo al paradosso di corti di assise che rinviano a un anno, un tempo spropositato per il penale. Alle facoltà di legge s'insegna, sin dalle prime lezioni, che la caratteristica fondamentale del procedimento penale è la concentrazione: grazie a ritmi incalzanti il giudice non perde la memoria dell'accaduto e le parti sono effettivamente coinvolte nel produrre i rispettivi contributi in termini serrati. L’organizzazione del lavoro negli uffici giudiziari va razionalizzata, così è quasi farsesca”.
Nel progetto Bonafede testé menzionato si elimina la figura del procuratore aggiunto, fino ad oggi individuato dal Csm, per sostituirlo con il “magistrato coordinatore” nominato dal procuratore capo.
“La sostanza non muta cambiando nomi ed etichette. Il coordinatore assorbirà il mestiere dell'aggiunto, con il rischio di un maggiore accentramento di potere: il procuratore capo, se è illuminato, fa la fortuna di una procura; se è debole o sensibile alle lusinghe, è causa del disastro”.
Intanto, sempre grazie al governo in carica, dal primo gennaio 2020 la prescrizione si blocca dopo il primo grado di giudizio.
“E' la prova più evidente del fallimento della giustizia. Si è costretti ad abolire la prescrizione perché ci si rende conto che non si è in grado di celebrare il processo in tempi ragionevoli. Domando: quando saranno fissati i procedimenti in grado di appello o in Cassazione? Secondo quali criteri? A quali sarà data la precedenza? E' giusto tenere per anni un cittadino nella totale incertezza circa la sua sorte? Non va poi dimenticato che insieme ai condannati, ai quali può far comodo il trascorrere del tempo, esistono le persone assolte: stando alle nuove norme, la spada di Damocle di un processo infinito continuerebbe a pendere sulla loro testa. Ci si dimentica poi delle vittime: quanto tempo dovrà attendere la moglie di un operaio, morto cadendo da una impalcatura, per ottenere il risarcimento del danno?”.
Il guardasigilli sogna un Csm eletto con un mix di votazione e sorteggio, un meccanismo arzigogolato foriero di un paradosso: i candidati meno votati potrebbero essere quelli eletti.
“Io resto contrario al sorteggio: se è indiscriminato rischia di far eleggere un magistrato fresco di concorso; se invece s’introducono criteri e paletti, legati per esempio all'anzianità di servizio, diventa un sorteggio pilotato e discriminatorio”.
Il correntismo però non fa bene alla giustizia. “La formazione delle correnti è inevitabile. Il tema non mi ha mai appassionato, a me piace mettere la toga sulle spalle”. Lei coltiva buone relazioni con tutti.
“Non ho amici magistrati, non li frequento ma uso cordialità, certo. Quando sono in aula ho davanti a me il pm, un avversario, e non mi domando a quale corrente appartenga”.
Lo scandalo Csm, squadernato sui giornali, ha svelato il segreto di Pulcinella: toghe e politici negoziano le nomine.
“La vicenda non mi ha stupito, mi sembra piuttosto emblematica del momento buio che sta attraversando la giustizia in Italia. Io però una soluzione l'avrei”.
Quale?
“Se al Csm venisse lasciata la sola funzione disciplinare e il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi fosse affidato a un organo diverso, non ci sarebbe più la corsa a farsi eleggere. Il compito di nominare procuratori capi, aggiunti e presidenti di sezione potrebbe essere assegnato a un collegio di giudici costituzionali, integrati con il primo presidente della Cassazione e con il procuratore generale, insomma con figure avanti nella carriera e perciò meno sensibili a pressioni esterne”.
Silvio Berlusconi e Matteo Renzi avrebbero sostenuto la sua candidatura a Palazzo de' marescialli. Lei ha sempre rifiutato.
“Io mi limito alle cose che so fare”.
Le fu proposto anche il ruolo di giudice costituzionale.
“Il compianto Loris d'Ambrosio, all'epoca consigliere giuridico del presidente Giorgio Napolitano, mi raggiunse in ufficio per illustrarmi questa possibilità. Mi presi la pausa estiva per pensarci, alla fine declinai”.
C'è un ministro della Giustizia che rimpiange?
“Il democristiano Guido Gonella fu un buon ministro”.
A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, professore. E' passato un po' di tempo.
“Tra i recenti, checché se ne dica, il leghista Roberto Castelli non mi è dispiaciuto”. Gonella era giornalista, Castelli ingegnere. “Un buon guardasigilli non dev'essere per forza un giurista. Oggi ci sono diversi laureati in legge, mi pare, manifestamente incompetenti”.
Lei è disilluso dalla politica.
“Mi vengono i brividi quando ascolto il discorso tenuto dall'allora presidente del Consiglio Alcide de Gasperi alla conferenza di pace a Parigi nell'agosto del 1946. Ogni epoca ha i suoi uomini. Al giorno d’oggi, va di moda una politica urlata, io penso invece che dialogando a voce bassa ci si controlla di più e si dice qualche fesseria in meno”.
Lei appare sempre così misurato, equilibrato, quasi serafico.
“Chi strepita deve nascondere la debolezza dei propri argomenti”.
Lei è un moderato?
“Non direi, io adoro gli eccessi, mi piace chi ha il coraggio di rompere una tradizione, il conformismo fa comodo a tutti”.
Tornando alla politica, il vicepremier Matteo Salvini ha arruolato la donna che difese con lei Andreotti. Giulia Bongiorno, ministro di ferro.
“Lei è una professionista con le carte in regola, chissà dove arriverà”.
A proposito della sua nostalgia per il rito inquisitorio: se i tribunali sono “gabbie di matti”, il copyright è il suo, come si può auspicare il ritorno a un sistema dove un unico soggetto raccoglie le prove e decide il rinvio a giudizio?
“Queste etichette, inquisitorio e accusatorio, lasciano il tempo che trovano, io mi concentrerei sulle regole effettivamente applicate. Istituti come patteggiamento e rito abbreviato si sarebbero potuti innestare anche sul ceppo del vecchio codice, che prevedeva ormai la presenza del difensore già in sede d’interrogatorio dell'imputato. Con il vecchio codice io non ho avuto sentenze ingiuste per colpa del codice, ma magari perché il giudice non aveva studiato la causa o io non ero stato abbastanza bravo da far valere le ragioni del cliente”.
Il rito accusatorio, secondo il codice in vigore, è tuttora incompiuto.
“Si può definire davvero accusatorio il procedimento in cui le domande all'imputato e ai testimoni vengono formulate avendo sotto gli occhi le dichiarazioni rese in fase istruttoria, e al minimo scostamento si fanno partire le contestazioni al solo scopo di mettere in dubbio l'attendibilità e la credibilità del testimone? E' accusatorio il processo in cui s'indulge a credere in ciò che è stato detto in fase istruttoria davanti al pm piuttosto che alle affermazioni raccolte nel dibattimento davanti al giudice?”.
La parità tra accusa e difesa è un miraggio.
“La parità è un'utopia, non esisterà mai, se non altro per la disponibilità di mezzi a vantaggio dell'accusa che, per ragioni anche economiche e pratiche, sono preclusi all'imputato. Tuttavia questo è il bello del processo penale: che gusto c'è a battagliare ad armi pari? È molto meglio avere a che fare con un avversario più forte, per superarlo”.
Lei, professor Coppi, è il più grande avvocato d'Italia: c'è il suo nome nel caso Andreotti, nello scandalo Lockheed, nel golpe Borghese, nelle difese di grandi gruppi industriali e in quelle di Niccolò Pollari, Antonio Fazio, Gianni De Gennaro, Franzo Grande Stevens...La gente fa a gara per farsi difendere da lei.
“Da qualcuno deve farsi difendere”.
Non faccia il modesto.
“Forse il mestiere dell'avvocato è talmente banale da riuscire anche a una persona che non lo ama particolarmente. Lanciare un razzo nello spazio è più complicato”.
Lei, in fin dei conti, voleva fare il pittore.
“Smisi il giorno della laurea in legge. In verità, se avessi avuto il sacro fuoco della pittura, non avrei mai interrotto. Forse la mia era piuttosto un'illusione giovanile”. Lei è riuscito a far assolvere Berlusconi per le cene eleganti. Ha capito, alla fine, se erano davvero tali?
“Di sicuro erano divertenti. Se mi avessero invitato, ci sarei andato”.
Niccolò Ghedini soffriva un po' il suo protagonismo.
“Non è vero, è stato lui a chiedermi di associarmi nella difesa”.
Il senatore le ha regalato un golden retriever che lei ha ribattezzato affettuosamente Rocky, di cognome Ghedini.
“Non vedo perché il cane, la mia passione di questi anni, non debba avere un nome. E' un omaggio a Ghedini, non certo una presa in giro”.
Nel cielo stellato della sua brillante carriera compare un buco nero, privo di avi illustri.
“Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre”.
Entrambe scontano una condanna all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi.
“Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d'accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”.
La Corte di Strasburgo, da voi adita, ha giudicato il caso ammissibile.
“Attendiamo di conoscere l'esito, i tempi non sono brevi. Poi non ci resterà che sperare nella revisione del processo”.
Perché lei ha fallito? A questa domanda l'avvocato mi chiede la cortesia di stoppare la registrazione. Pausa. Dopo qualche minuto, riprendiamo.
“Talvolta un magistrato si forma una convinzione e non è più capace di rinunciarvi, così ogni elemento viene interpretato e costruito in funzione del preconcetto in un circolo interminabile di distorsioni logiche”.
La corte d'assise è la sua passione.
“Sono un avvocato di vecchia scuola: reati societari e tributari possono essere interessantissimi ma un bell'omicidio rimane un bell'omicidio. Lì si manifesta il problema della prova che richiede analisi psicologiche ed esame dei testi; lì si dispiega il vero processo con lo scontro tra le tesi di accusa e difesa; lì si cerca di costruire, quasi a colpo di pollice, come se si dovesse plasmare una creta, questa verità che affonda le radici nell'uomo e nelle sfaccettature del suo animo”.
L’umano pendolare tra l’angelico e il demoniaco.
“L'imputato di corte d'assise lo devi dapprima capire e comprendere, poi lo devi far capire e comprendere al giudice”.
Ha mai difeso un omicida pur essendo consapevole della sua colpevolezza?
“In questi processi raramente l'imputato si confessa con il difensore né il difensore, per svolgere il proprio mandato, ha bisogno di sapere se egli sia colpevole o innocente. Tu lo difendi da un'accusa, punto. Il tuo dovere è trovare nel processo ogni elemento favorevole, anche perché un processo non sempre lo vinci con l'assoluzione: ottenere le attenuanti generiche, a volte, è un gran successo”.
Il processo è un po' di logica e un po' di buon senso, parole sue.
“Non s'interpretano solo le norme ma anche i fatti, e questi vanno valutati secondo regole d'esperienza. Se cammino per strada e qualcuno mi viene incontro, immagino che voglia festeggiarmi e non prendermi a schiaffi. Il buon senso ti permette di individuare le regole d'esperienza da applicare al singolo caso per interpretarlo correttamente. La logica serve a concatenare gli elementi raccolti secondo un principio razionale e coerente”.
Eppure certe sentenze fanno a pugni con il senso comune.
“Accade sempre più spesso, purtroppo, che certi pronunciamenti risultino incomprensibili all’uomo della strada, e pure a noi avvocati. Il compito del giudice richiede umiltà: se egli pretende di imporre la propria visione della vita e del mondo, applicherà regole d'esperienza sbagliate, non adatte al caso concreto e in contrasto con il vivere quotidiano. I vecchi maestri ammonivano che tra una vittoria in fatto e una in diritto va privilegiata la prima”.
In Italia la pena resta incerta.
“Già Cesare Beccaria insegnava che la pena, per essere efficace, dev'essere certa ed eseguita in tempi prossimi alla consumazione del delitto. Oggi invece prende piede una cultura della pena concepita come castigo. Io ti punisco anche a distanza di quindici anni dal fatto, anche se sei una persona diversa da quella che ha commesso il reato. Non mi scandalizzano gli sconti di pena, del resto l'esperienza carceraria è terribile; mi scandalizza piuttosto una condanna a quindici anni dal fatto perché essa preclude qualunque possibilità di recupero e reinserimento sociale. È castigo e basta”.
Da noi insiste l'idea che l'unica pena possibile sia quella detentiva.
“Il ricorso a sanzioni non carcerarie andrebbe esteso e approfondito. Se a una persona colpevole di omicidio stradale togli la patente a vita, lo colpisci più che tenendolo un anno dietro le sbarre”.
Le sanzioni amministrative, di regola, sono più tempestive ed efficaci.
“Un maggiore impiego di esse avrebbe un effetto deflattivo sul carico dei procedimenti penali pendenti. Il sistema accusatorio, che postula per definizione un numero ridotto di procedimenti, è difficilmente attuabile in un paese dove ogni anno oltre 50mila ricorsi giungono in Cassazione”.
Il magistrato risponde di ciò che fa?
“Il magistrato non può vivere nella preoccupazione di dover pagare l'errore, gli toglierebbe serenità e coraggio. Nel caso di dolo o colpa grave, la sanzione deve essere effettiva. Un tema diverso, tuttavia, si pone con maggiore urgenza, e non ha a che fare con eventuali illeciti: se un giudice vede regolarmente le proprie sentenze riformate in appello e in Cassazione, ne deve rispondere oppure no? E' possibile che non gli si possa dire: guarda, il penale non fa per te, adesso passi a occuparti di cause condominiali. Un minimo di controllo nel corso della carriera andrebbe ripristinato. I capi degli uffici sono tali non solo per presenziare a inaugurazioni e manifestazioni calcistiche: se sono capi, devono saper comandare”.
Di tanto in tanto si torna a parlare di separazione delle carriere.
“A mio giudizio, il problema sta da un’altra parte, e riguarda le modalità di reclutamento dei magistrati e l'assenza di controlli dal giorno successivo al concorso. Se i due percorsi venissero nettamente separati, pm e giudice non sarebbero forse più fratelli come adesso ma resterebbero perlomeno cugini. La riforma non introdurrebbe benefici particolari: ho conosciuto magistrati che sono passati disinvoltamente da una funzione all'altra svolgendo magnificamente entrambi i ruoli”.
· Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.
Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.
Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.
Il nostro Diritto è Neutro.
Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.
E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.
Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.
Un “rischio sindacale” sulle Sezioni unite della Cassazione. Lupo, ex primo presidente della Corte, critica le nuove regole del Csm che incentivano la turnazione dei giudici. Ma riducono la qualità della giustizia. Maurizio Tortorella il 27 novembre 2019 su Panorama. C’è “un’assurdità” che rischia di deteriorare il lavoro, fondamentale, delle Sezioni unite della Corte di cassazione, ovverosia la suprema istanza giudicante italiana. Sette mesi fa, il Consiglio superiore della magistratura ha introdotto un nuovo sistema di “tabelle” che, accelerando la turnazione dei magistrati e abbreviando da otto a sei anni la durata massima della permanenza di un giudice in quella sede, “rischia di far perdere troppo presto magistrati che sono di valore particolarmente elevato e che hanno acquisito una piena esperienza dell’attività delle Sezioni unite”. A denunciare quella che definisce una “assurdità” è, peraltro, un altissimo magistrato: Ernesto Lupo, primo presidente emerito della stessa Cassazione, intervenuto pochi giorni fa alla conferenza sul tema ”L’indipendenza della magistratura oggi”, organizzata dall’Università statale di Milano. Il tema potrà forse sembrare specialistico, o d’interesse ristretto, ma in realtà la denuncia è grave e riguarda tutti: in gioco, infatti, è la qualità stessa della giustizia italiana. E il tema meriterebbe grande attenzione da parte della magistratura associata, dell’avvocatura, della politica. Anche il Csm dovrebbe forse tornare a riflettere sulle sue mosse, perché sottoporre la qualità della giurisprudenza a logiche “sindacali” è un errore cui va posto rimedio. Vediamo di che cosa si tratta. Le Sezioni unite della Cassazione hanno una funzione centrale, nella nostra giurisdizione. Intervengono quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle diverse Sezioni della stessa suprema Corte di cassazione, civili o penali, o quando le questioni proposte sono di speciale importanza, per esempio perché si tratta di un tema che si presenta per la prima volta. A quel punto, il ricorso viene assegnato proprio alle Sezioni unite, per ogni specifico tema composte da otto consiglieri e presiedute dal primo presidente della Cassazione. Le sentenze delle Sezioni unite, insomma, sono la più alta espressione giurisprudenziale: imprimono alla giustizia civile e penale un orientamento definitivo, da cui le singole Sezioni difficilmente possono esprimere giudizi difformi. Per questo l’ex presidente Lupo ha duramente criticato le nuove tabelle, relative al triennio 2017-2019, approvate dal Consiglio superiore della magistratura con una delibera del 10 aprile 2019. “La variazione dei collegi nelle diverse udienze delle Sezioni unite” ha denunciato Lupo “dovrebbe essere il più possibile limitata. Al contrario viene incentivata dalle nuove regole”. Secondo le nuove tabelle decise dal Csm in aprile, infatti, accade anche che “i presidenti di sezione o i consiglieri che abbiano preso parte quali componenti a un’udienza delle Sezioni unite civili di regola non possono partecipare alle udienze immediatamente successive, dovendo essere assicurata alternanza e la paritaria partecipazione alle udienze di tutti i componenti della medesima sezione”. La medesima regola vale per le Sezioni unite penali della Cassazione. Ma perché il Csm ha introdotto questa novità? Il motivo ha un’origine “sindacale”. Secondo Lupo, l’origine di quella che definisce “assurdità” è dovuto alla regola, stabilita nel 2015 (e a suo dire peraltro “giustissima”), secondo cui l’appartenenza alle Sezioni unite costituisce un titolo di merito per il successivo conferimento di funzioni direttive. La partecipazione alle Sezioni unite, quindi, è un elemento importante per la “carriera” del magistrato. Ma questo, sostiene Lupo, “induce tutti i consiglieri della Cassazione a voler fare parte delle Sezioni unite, senza distinzione tra il magistrato che ha attitudini per l’attività organizzativa e il magistrato che ha una vocazione più spiccata per lo studio delle questioni giuridiche, qualità essenziale per essere componente delle Sezioni unite”. Insomma, secondo uno dei più alti magistrati italiani, le Sezioni unite della Cassazione rischiano di perdere la loro caratteristica di altissima qualità in nome di una impropria logica “sindacale”. Non sarebbe il caso di evitarlo?
Il Tar della Puglia riammette la plastica in spiaggia. In Abruzzo e Sardegna i giudici dicono invece no. Pubblicato mercoledì, 31 luglio 2019 da Corriere.it. Il divieto della plastica monouso in spiaggia spacca l’Italia: il Tar della Puglia ha bocciato oggi l’ordinanza con la quale la Regione aveva vietato l’utilizzo di questi materiali. E’ il quarto pronunciamento dei tribunali amministrativi sull’argomento: i verdetti si trovano ora in parità: mentre la magistratura amministrativa di Sardegna e Abruzzo aveva confermato lo stop alla plastica, quella della Sicilia e ora quella pugliese hanno riammesso in spiaggia piatti e bicchieri «usa e getta». Il Tar della Puglia ha accolto il ricorso presentato dall’associazione dei produttori di bevande che ritengono il divieto deciso dalla Regione nel marzo scorso (il primo in Italia) illegittimo e in contrasto con la legge sulla concorrenza; era stato anche sollevato un quesito sulle competenze della regione in questo settore. Lo stop alla plastica è previsto infatti da un’unica legge europea ma entrerà in vigore nel 2021. Dello stesso avviso era stato due settimane fa il tar della Sicilia che aveva annullato le ordinanze «plastic free» di alcuni comuni dell’isola (tra i quali Trapani). Verdetto opposto era stato messo lo scorso 15 luglio dal Tar dell’Abruzzo, il quale aveva respinto il ricorso dell’associazione dei produttori di plastica e packaging contro l’ordinanza del comune di Teramo che aveva messo al bando le stoviglie monouso. In quel caso i giudici avevano ritenuto che «non pare sussistere il pericolo di un danno grave e irreparabile alla sfera soggettiva delle ricorrenti». Prima ancora era toccato al tar della Sardegna ribadire la validità dei provvedimenti ambientalisti: tre aziende avevano chiesto l’annullamento dell’ordinanza del sindaco di San Teodoro valido per l’estate 2019.
Formigoni scarcerato, una buona notizia. Ma il Tribunale è andato contro la legge. Avv. Michele Passione il 27 luglio 2019 su Il Dubbio. Con ordinanza del 17 luglio il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto che la pena inflitta dalla Corte di Appello di Milano nei confronti di Roberto Formigoni per corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio venga espiata in regime di detenzione domiciliare, ex articolo 47 ter, comma 01, dell’Ordinamento penitenziario, trattandosi di condannato ultra settantenne. Per chi ama la libertà, ancorché limitata alle mura domestiche, è una buona notizia. Tuttavia, affinché non resti un non detto, occorre fare chiarezza. Sulle pagine di Repubblica Luigi Manconi ha affermato che è possibile, sia pur “faticosamente”, difendere l’indifendibile, “in nome della forza del diritto e dei principi del garantismo”. Ci permettiamo di osservare come non sia affatto faticoso rispettare la Legge, e così anche che non vi sono indifendibili ( neanche quelli definitivamente condannati), per la buona ragione che le regole valgono per tutti; le regole, però. Ha invece ragione Luigi Manconi quando deplora l’argomentazione populista ( quasi un ossimoro) per la quale l’uguaglianza andrebbe praticata al ribasso, e dunque anche il Celeste, come i suoi ( non pochi) coetanei detenuti, avrebbe dovuto scontare la pena per intero in carcere ( o, se si preferisce, marcire in galera – strano, ma in questo caso non si è levata voce dal Viminale). Infine, e questo è ciò che ci preme evidenziare, Manconi sbaglia quando sostiene che il provvedimento milanese è corretto (“legittimo”, certo, ma “previsto dall’ordinamento giuridico”, no). Vediamo perché. Il ragionamento del Tribunale milanese è il seguente: la Legge 3 del 2019 si applica anche se i fatti son stati commessi molti anni prima ma non occorre sollevare questione di legittimità costituzionale ( come fatto da altri Giudici, anche di legittimità), dovendosi valutare se il condannato abbia prestato attività di collaborazione con la Giustizia, o se la stessa debba essere ritenuta impossibile o inesigibile, ai sensi del comma 1 bis dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Una volta accertato questo, l’ostatività verrebbe meno, e dunque l’ex presidente della Regione potrebbe accedere alla misura richiesta, la detenzione domiciliare per ragioni di età, “peraltro l’unica misura alternativa praticabile” ( per il quantum di pena inflitta e da espiare), sostiene il Collegio. Non è così. E infatti, il Tribunale non spiega ( neanche in un obiter) come sia possibile superare l’espressa esclusione apposta alla concessione della misura dal primo comma dell’articolo 47 ter comma 01 Ordinamento penitenziario ( introdotta, assai prima della recente Legge 3/ 2019, dalla Legge ex Cirielli), che per l’appunto ( così come tante disposizioni dell’Ordinamento penitenziario) pone preclusione per i condannati per delitti di cui all’articolo 4 bis ( tra i quali oggi, in virtù stavolta proprio della Legge 3/ 2019, anche l’articolo 319 del Codice penale, il reato attribuito a Formigoni). Era, questo, il tentativo riformatore e apotropaico percorso dalle Commissioni Ministeriali dei cosiddetti Stati generali dell’esecuzione penale ( liberare le misure alternative dalle ostatività e dai tipi di autore), come noto fallito sulla linea di arrivo. L’unica strada percorribile, chiara, corretta, sarebbe stata quella di sollevare questione di legittimità costituzionale, o chiedendo una sentenza ablativa dell’articolo 47 ter comma 01 ( eliminando la preclusione del 4 bis introdotta a suo tempo dalla ex Cirielli), o una sentenza additiva della norma ( che aggiunga ad essa quanto previsto dal comma 1 bis dell’articolo 4 bis, così applicando anche alla detenzione domiciliare il meccanismo della collaborazione impossibile). Poiché risulta “immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il regime carcerario per il soggetto che abbia compiuto i settanta anni” ( Cassazione, Sez. I, 12.2.2001, n. 16183), l’irragionevolezza del divieto e la conseguente violazione dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione ( giacché una incarcerazione irragionevole impedisce l’efficacia rieducativa della pena) avrebbero dovuto essere denunciati, così determinando la pronuncia della Consulta nell’interesse di tutti. Questa, ci pare, la strada da seguire, per conferire ragionevolezza al sistema, per dare parità di condizioni, rivendicandone le ragioni. Ma, come scriveva Fabrizio De Andrè, “si rannicchiano zone d’ombra, prima che il sole le agguanti”.
“In Italia i diritti dei cittadini dipendono dalle sentenze dei giudici”. “Stiamo passando a un sistema di common law”, dice Luciano Violante: “La legge del Parlamento conta sempre meno”. Annalisa Chirico il 19 Marzo 2019 su Il Foglio. L’Italia non è più un sistema di civil law. Detto così, suona perentorio, eppure quando il professore Luciano Violante pronuncia l’impronunciabile, nella sala della Camera di commercio fiorentina i presenti sollevano lo sguardo: ha detto proprio così? Pensavamo che il modello italiano si fondasse sulla codificazione del diritto scritto e sul ruolo preminente della legge nel guidare le decisioni della magistratura, chiamata ad applicare la normativa vigente al caso concreto. Violante invece rompe il tabù. Sotto gli occhi della presidente del tribunale di Firenze Marilena Rizzo e del numero uno della Camera di commercio Leonardo Bassilichi, il presidente emerito della Camera dei deputati spiega che “l’ordinamento italiano sta scivolando gradualmente verso un modello di common law dove al diritto legislativo si sostituisce quello giurisprudenziale: i diritti dei cittadini non dipendono più dalla legge del Parlamento ma dalle sentenze dei giudici”. Com’è noto, il sistema anglosassone si basa segnatamente sulla vincolatività delle sentenze per i casi futuri: in nome del cosiddetto stare decisis, il giudice è vincolato dal precedente giudiziario in una materia analoga. L’ex presidente della Camera denuncia che sempre più spesso “si assiste a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”. La necessità di porre freni alla “tendenziale anarchia attuale”. “La crescente incertezza della legge, problema non solo italiano, deriva dalla sovrapposizione di molteplici fonti legislative che assegnano una responsabilità enorme in capo ai giudici”. In altre parole, la legge del Parlamento conta sempre meno. “Nella giungla di livelli normativi diversi (regionale, nazionale, comunitario, sovranazionale), la risoluzione dei conflitti tra cittadini o tra cittadini e stato è demandata ai magistrati per i quali il precedente non rappresenta un elemento ragionevolmente vincolante. Si assiste perciò a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”. Il rischio è che il valore vincolante del precedente ingabbi la giurisprudenza. “Non s’intende rendere la giurisprudenza immutabile ma porre un limite alla tendenziale anarchia attuale. Venuto meno il ruolo di agenzie educative e corpi intermedi, ogni forma di tensione sociale si traduce in un intervento giudiziario. Mentre si fa strada in tutta Europa la tendenza a ricorrere alla giurisdizione come strumento ordinario di risoluzione dei conflitti, dovremmo ricordare che essa è una risorsa limitata da utilizzare come ultima ratio. Ogni processo costa allo stato, ai cittadini e alle imprese coinvolte. Il ricorso irragionevole alla giurisdizione va disincentivato”. A Firenze, grazie al Patto per la giustizia siglato tra tribunale, Città metropolitana, Camera di commercio e Fondazione Cassa di risparmio, la percentuale di controversie risolte con la mediazione è salita al 53 percento, contro una media nazionale del 12. “Anziché cedere al vizio nazionale dell’autodenigrazione, dovremmo valorizzare e far conoscere le buone prassi. A parità di risorse e norme, esistono divari di produttività tra gli uffici giudiziari, a conferma che l’organizzazione del lavoro dei magistrati richiede una buona dose di capacità imprenditoriale”. A proposito del ruolo crescente dei giudici, all’estero hanno coniato la formula juristocracy. “L’espressione si riferisce alla giurisdizionalizzazione della società, fenomeno di portata globale che va osservato con particolare attenzione in un paese dove il 40 per cento dei procedimenti penali si conclude con proscioglimenti e assoluzioni. Dietro i numeri ci sono vicende umane, persone costrette a pagarsi l’avvocato, magari additate dai conoscenti o sui giornali. Il diritto penale dovrebbe essere limitato alla lesione dei grandi beni costituzionali, negli altri casi la sanzione amministrativa è sufficiente. Dobbiamo combattere l’idea che più pena voglia dire più ordine: in nome di questa illusione repressiva il Codice, modificato a più riprese, e sempre in modo episodico, senza una logica strategica, si è trasformato nella Magna charta della politica. Il Codice deve fissare il discrimine tra lecito e illecito, non tra giusto e sbagliato. La morale sta da un’altra parte”. L’incertezza della legge e della sua interpretazione dà luogo alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, vale a dire alla ritrosia del pubblico ufficiale ad apporre una firma per non incappare in possibili sanzioni. “L’incertezza della norma determina l’incertezza della responsabilità che paralizza macchina amministrativa e iniziativa imprenditoriale. Con l’associazione ‘Italia decide’ abbiamo rivolto un appello al presidente del Consiglio Giuseppe Conte indicando alcune linee di riforma. E’ necessario tipicizzare i casi di responsabilità contabile e le fattispecie penali di abuso d’ufficio e turbativa d’asta; andrebbe inoltre stabilito che non possa integrare colpa grave la condotta del pubblico ufficiale conforme a sentenza della magistratura ordinaria o amministrativa che non sia stata ancora corretta nel grado successivo del procedimento”. Lei sa bene che questa materia non è all’ordine del giorno. “Io non sono più in Parlamento”, chiosa Violante.
Annalisa Chirico. Classe 1986. Dottorato in Teoria politica alla Luiss Guido Carli, apprendistato pannelliano e ossessione garantista. Scrive di giustizia, politica e donne. "Siamo tutti puttane - Contro la dittatura del politicamente corretto" è il titolo del suo bestseller. Sul suo profilo Facebook si legge la seguente frase: "La mente è la mia chiesa, i tacchi il mio paracadute". Presiede Fino a prova contraria - Until proven guilty, il movimento cool per una giustizia giusta ed efficiente.
· Parentopoli giudiziarie e incompatibilità. Le compatibilità elettive: Io son io e tu non sei un cazzo.
Frank Cimini, lettera a “il Foglio” il 26 novembre 2019. A Nunzia D'Elia procuratore aggiunto a Roma si aggiunge Stefano Pesci suo marito con lo stesso incarico. Lo ha deciso con 5 voti su 6 la commissione incarichi direttivi del Csm. Moglie e marito avranno insieme alle loro dipendenze una ventina di pm. Nessuna norma lo vieta ma avrebbero dovuto prevalere criteri di opportunità a sconsigliare la presenza di una coppia di coniugi al vertice di una delle procure più importanti d’Italia. Insomma al Csm dopo l'emergere del mercato delle vacche dell'estate scorsa poi silenziato dai giornaloni che hanno un rapporto organico di complicità, con la magistratura continuano a fare i loro comodi. Mentre alcuni giudici nel motivare custodie in carcere per comuni mortali continuano a dare lezioni di morale. Frank Cimini
Le nomine del Csm. Procura di Roma, moglie e marito nominati ai vertici. Giovanni Altoprati 23 Novembre 2019 su Il Riformista. Tutto regolare, ci mancherebbe altro. «La legge non prevede in questi casi alcuna incompatibilità», dicono con il tono di chi le norme le conosce come l’Ave Maria ai piani alti del Csm, recentemente rinnovato nella composizione dopo lo scandalo di maggio. Ciò però non toglie che qualche dubbio, almeno sotto il profilo dell’opportunità, ai profani delle dinamiche togate sia rimasto. Ed è strano che al Csm, dove tutti sono sempre attenti al rispetto della forma e non solo della sostanza, nessuno si sia minimamente posto il problema. Il caso riguarda moglie e marito che svolgono entrambi il ruolo di procuratore aggiunto nella medesima Procura. Questa settimana, con un plebiscito, cinque voti su sei, la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm ha deliberato la nomina a procuratore aggiunto della Capitale di Stefano Pesci. Ufficio dove, appunto, presta già servizio da anni con il medesimo incarico la sua consorte Nunzia D’Elia. Come detto, per il Csm questa “concentrazione” di potere all’interno del medesimo nucleo familiare non sarebbe vietata dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Teoricamente, quindi, se i coniugi Pesci-D’Elia avessero fratelli o sorelle magistrato, costoro potrebbero tutti lavorare senza problemi alla Procura di Roma. Ma se le norme non vietano il realizzarsi della parentopoli togata, dovrebbe scattare almeno il criterio dell’opportunità di una scelta di questo genere. I coniugi Pesci-D’Elia avranno alle dipendenze circa venti pm. L’opportunità è stata alla base delle dimissioni dei cinque consiglieri che avevano incontrato a maggio i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Nessuna legge vieta a dei togati del Csm di incontrare dei politici. Eppure i cinque vennero costretti alle immediate dimissioni per un comportamento ritenuto “inopportuno”. Per la verità, c’è pure chi disse che erano degli indegni. Ma questo è un altro discorso. Comunque sia, Pesci prenderà il posto lasciato libero da Giuseppe Cascini, eletto nel 2018 al Csm. Cascini e i coniugi Pesci-D’Elia sono tutti esponenti di primo piano di Magistratura democratica, la sinistra giudiziaria. Per ironia della sorte, sul posto di Cascini aveva messo gli occhi Luca Palamara. L’ex presidente dell’Anm che ha dato il via, con la pubblicazione dei suoi colloqui con i politici e i cinque consiglieri, al ribaltone al Csm. Fra i votanti per Pesci procuratore aggiunto si segnala anche Piercamillo Davigo, il dottor Sottile di Mani pulite. L’ospite preferito di Giovanni Floris non ha avuto alcuna difficoltà a dare il via libera alla reunion familiare al vertice della Procura più importante del Paese. Il tutto accade senza che la nomina del numero uno della Procura, il successore di Giuseppe Pignatone, chiamato da Papa Francesco a mettere ordine, come presidente del Tribunale pontificio, al caos che regna all’interno della mura Leonine, sia ancora avvenuta. Sembrava fatta per Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, ma con il cambio degli equilibri al Csm le sue speranze sono ridotte al lumicino. La sua nomina in Commissione è stata stracciata perché oggetto dei conciliaboli di Palamara. Il nuovo procuratore di Roma sarà sicuramente Michele Prestipino, il procuratore aggiunto anziano di piazzale Clodio. In perfetta continuità con Pignatone di cui era uno dei fedelissimi. Chi non ha votato Pesci al Csm è stata Loredana Miccichè, di Magistratura indipendente come Viola. Il suo è stato il gol della bandiera. Dopo il ribaltone, la destra giudiziaria è destinata a non toccare palla per i prossimi anni.
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.
QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.
Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.
Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.
Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.
Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.
Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.
Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.
Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.
E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.
Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.
Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.
VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.
Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino. Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale, scrive Raphael Zanotti il 18/09/2010 su “La Stampa”. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.
TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE L’EXPO - PER GIUSTIFICARE IL SILURAMENTO DI ROBLEDO DAL POOL ANTITANGENTI, BRUTI LIBERATI HA SEGNALATO AL CSM CHE LA NOVELLA MOGLIE DEL PM LAVORA ALL’UFFICIO LEGALE DI EXPO: “C’ERA INCOMPATIBILITÀ”. Per Robledo la storia della moglie sarebbe solo un “pretesto” di Bruti Liberati per dare legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come “esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”…, scrive Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 6 novembre 2014. L’ex capo del pool antitangenti Alfredo Robledo, che indagava sugli appalti collegati a Expo 2015, ha la moglie avvocato amministrativista che lavora all’ufficio legale di Expo 2015: è quanto il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha segnalato ieri al Csm e al Consiglio Giudiziario, alla vigilia dell’odierna assemblea dei pm da lui convocata per «voltare pagina» e «rilanciare l’orgoglio di appartenere alla Procura». Lo fa inviando anche una lettera di risposta richiesta al commissario di Expo 2015 Giuseppe Sala, e aggiungendo che la potenziale incompatibilità nel pool antitangenti tra il pm e la coniuge non esiste invece ora nel nuovo pool («esecuzione delle pene») al quale il procuratore rivendica di aver trasferito Robledo il 3 ottobre. Ma questi ribatte che la storia della moglie sarebbe solo un «pretesto» di Bruti per dare una rinfrescata di legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come «esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto»: ad avviso di Robledo, infatti, non c’è mai stata alcuna possibile incompatibilità neppure quando la moglie faceva l’amministrativista perché — spiega — operava in una nicchia estranea alle indagini, e comunque ora proprio per evitare «pretesti» si è cancellata dall’Ordine degli Avvocati. L’ordinamento giudiziario, per prevenire incompatibilità nel lavoro, impone ai magistrati di segnalare entro 60 giorni (e ai capi di vigilare) relazioni sentimentali con altri magistrati o avvocati del distretto. Robledo non lo fa nei 60 giorni dopo le nozze il 10 luglio 2014 con l’avvocato amministrativista Corinna Di Marino. A Bruti che ne chiede conto, risponde che non ravvisa alcuna incompatibilità. Bruti chiede allora il 23 ottobre «dettagli» sul tipo di lavoro della moglie, e il 31 ottobre Robledo, pur «ribadendo l’insussistenza di incompatibilità», aggiunge che la moglie, avvocato dal 2009, ha svolto la professione forense «esclusivamente nel campo del diritto amministrativo sino a giugno 2013», quando ha smesso e ha chiuso in luglio la partita Iva. Ma «al solo di fine di non lasciare spazio a qualsiasi ulteriore incertezza o pretesto, si è anche cancellata dall’Albo degli Avvocati il 27 ottobre 2014». Intanto Bruti ha interpellato il commissario di Expo, Sala, che il 3 novembre spiega che l’avvocato «nel settembre 2013» rispose a un bando online di Expo «per una posizione di specialista legale amministrativa», fece la preselezione con altri candidati, la superò, svolse i colloqui e infine ebbe il punteggio più alto. Mentre in Expo raccontano che è una professionista stimata e chi l’ha selezionata non sapeva fosse legata a un pm, la lettera di Sala prosegue indicando in 60.000 euro lordi l’anno lo stipendio della moglie di Robledo con contratto co.co.pro. sino a fine 2015 per la stipula dei «contratti commerciali» del Padiglione Italia in Expo. In linea con quanto Robledo scrive sul fatto che la moglie, «in seguito al superamento di concorso pubblico nel settembre 2013, svolge attività di mera consulenza legale interna presso Expo 2015 nella materia specifica della valorizzazione ed esposizione di prodotti tipici d’eccellenza nella filiera agroalimentare ed enogastronomica italiana».
Procuratore Napoli, il figlio legale ostacolo per Cafiero de Raho, scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 Il Mattino. Il suo curriculum è eccellente, così come le sue doti professionali sono riconosciute al Csm da tutti. Ma sulla via che potrebbe portare il capo della procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho alla nomina a procuratore di Napoli c'è un ostacolo che non si sa ancora se possa essere aggirato: un figlio che fa l'avvocato penalista proprio nel capoluogo campano. Una situazione che potrebbe determinare - se effettivamente De Raho venisse preferito al suo diretto concorrente, l'ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo - quella che tecnicamente viene chiamata «incompatibilità parentale», e che è causa di trasferimento ad altra sede per i magistrati. Per questo al Csm c'è chi chiede di affrontare subito questo nodo, prima ancora che, la prossima settimana, la Commissione Direttivi entri nel vivo della discussione sul candidato da proporre al plenum. Anche per Melillo - che con De Raho si contende pure la nomina a procuratore nazionale antimafia - la strada non è in discesa: su di lui restano i dubbi di una parte dei consiglieri di Area (gruppo di riferimento dello stesso magistrato e ago della bilancia in questa difficile partita), che giudicano poco opportuno affidare la guida della procura di Napoli, alle prese con inchieste delicate con implicazioni politiche, come quella su Consip, a chi sino a poco tempo fa ha ricoperto un ruolo di diretta collaborazione con il ministro Orlando. Per quanto riguarda De Raho, il problema del figlio avvocato, Francesco, si era già posto in passato, quando il magistrato era procuratore aggiunto a Napoli. E nel 2009, dopo una lunga istruttoria, il Csm aveva escluso che vi fosse un'incompatibilità ambientale e funzionale. Non c'è «il pericolo di interferenze», stabilirono allora i consiglieri, accertato che Francesco non aveva mai trattato la materia specialistica del padre (all'epoca alla guida della sezione sulle misure di prevenzione della Dda), non aveva con lui nessun rapporto di natura professionale, e che, esercitando a Napoli, non avrebbe potuto occuparsi nemmeno in futuro di criminalità casertana, materia di competenza del genitore. Allora però De Raho era un procuratore aggiunto e dunque coordinava un settore limitato. Per questo il ragionamento seguito all'epoca non potrebbe essere riproposto ora per il ruolo di capo dell'ufficio. E il fatto che tra il magistrato e il figlio non ci siano più rapporti dal 1997, ribadito dal capo della procura di Reggio nell'audizione di dieci giorni fa al Csm, potrebbe non essere decisivo. Anzi, nel 2009, i consiglieri ritennero questo elemento «privo di rilevanza» perché «l'intensità della frequentazione tra i congiunti non è presa in considerazione dalla legge e può mutare nel tempo in maniera del tutto imprevista». La più facile soluzione del rebus sarebbe destinare De Raho al vertice della procura nazionale antimafia e Melillo alla guida di quella campana. Ma un piano del genere richiederebbe l'unità di Area, che ancora non c'è.
Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso.
Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.
Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.
«Cari giornalisti dovete sentire le due campane», scrive Giulia Merlo l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Un giornale scrive il falso, ma il diritto di stampa prevale su quello alla reputazione e dunque il cittadino non ha diritto a veder ristabilita in via immediata (e dunque con un ricorso cautelare) la verità, ma solo dopo un processo di cognizione piena. A contraddire almeno parzialmente questo principio, stabilito da due sentenze delle Sezioni Unite di Cassazione penali del 2015 (29 gennaio 2015 n. 31022e civili del 2016 (18 novembre 2016 n. 23469), è intervenuto il Tribunale civile di Milano. Il caso è quello di due avvocati, indicati da un articolo apparso sul sito de L’Espresso come titolari di conti correnti off shore e come amministratori di società off shore, sulla base del contenuto dei cosiddetti “Paradise Papers” (un fascicolo riservato composto da 13,5 milioni di documenti confidenziali presso la Appleby, uno studio legale che fornisce consulenze internazionali in campo societario e fiscale). I due, dimostrando di non avere conti off shore e di non essere amministratori di società, hanno chiesto in via d’urgenza al tribunale di ordinare la rimozione dei loro nomi dal sito del settimanale. L’ordinanza di primo grado ha dichiarato la richiesta inammissibile proprio sulla base delle sentenze delle Sezioni Unite ma, in sede di reclamo, il tribunale ha parzialmente riformato la decisione. «La vicenda presenta un problema di giustizia sostanziale molto chiaro», ha spiegato l’avvocato Iuri Maria Prado, difensore dei due diffamati, «Se una testata online pubblica una notizia palesemente e provatamente falsa, seguendo l’orientamento della Cassazione il cittadino non ha diritto ad avere una tutela d’urgenza con la rimozione della notizia, ma deve attendere i tempi di un processo ordinario per diffamazione: e questo perché il diritto alla reputazione è considerato da quella giurisprudenza ‘ recessivo’ ( cioè vale meno) rispetto al diritto alla libera manifestazione del pensiero attraverso la stampa». Il Tribunale, dunque, ha stabilito che non è possibile privare la vittima di qualunque tutela di urgenza, anche se questa tutela in via cautelare non può tradursi nè nel sequestro della pubblicazione, nè nell’inibizione alla sua ulteriore diffusione, ma «sono ammissibili rimedi di tipo integrativo e correttivo» o «un “aggiornamento” della notizia». Si tratta di «un piccolo spiraglio aperto dal tribunale di Milano, che scalfisce almeno in parte il poco condivisibile orientamento delle Sezioni Unite», ha riconosciuto l’avvocato Prado. Tuttavia, a fronte di questa apertura sul piano del riconoscimento generale di un diritto, nel caso di specie il Tribunale ha rigettato la richiesta di far pubblicare sul sito de L’Espresso il provvedimento del giudice, Secondo il collegio, infatti, «nel caso di specie sarebbe superfluo, perchè nel corpo dell’articolo è stato inserito il link contenente le lettere di precisazioni e spiegazioni inviate per email alla redazione dai reclamanti». In questo modo, secondo i giudici, «è stato garantito il diritto degli stessi di far conoscere la “loro verità”, informando il lettore dell’esistenza di elementi ulteriori e contrastanti rispetto a quelli contenuti nell’articolo». Proprio in questo, secondo l’avvocato Prado, sta l’elemento di non condivisibilità: «Il fatto che non siano titolari di conti off shore non è la “loro verità” ma “la” verità oggettiva e non controvertibile. Nel caso dei due avvocati la diffamazione non sta nell’espressione di un giudizio, ma nell’attribuzione di un fatto specifico falso». In sostanza, aggiungere ad un articolo online la rettifica dei diretti interessati non ha certo la stessa portata di pubblicare un provvedimento che attesta la verità stabilita da un giudice, sia pure in via d’urgenza. Eppure, anche se l’ordinanza non riconosce pieno diritto alla richiesta di vedere ristabilita la verità da parte delle vittime, riconosce un elemento importante: «il carattere pervasivo e diffusivo» di una notizia pubblicata online «è idoneo a causare danni potenzialmente irreparabili». Per questo, il cittadino non deve attendere il corso di un giudizio a cognizione piena, ma ha diritto ad ottenere una qualche forma di tutela immediata. Un piccolo passo nella direzione di riconoscere che il diritto all’onore e alla reputazione del cittadino non possa essere considerato figlio di un Dio minore rispetto al diritto di stampa. Allargando l’orizzonte della vicenda, infatti, si potrebbe arrivare al paradosso che «per diffondere fake news contando sul fatto che esse possano essere eliminate dalla rete solo al termine di un lungo processo per diffamazione, basterebbe che un ricco magnate apra una testata online e la registri in tribunale indicando un direttore responsabile», ha spiegato Prado. Se contiene notizie false, infatti, un sito ordinario può essere sequestrato, una testata giornalistica online invece no. Dunque, incuneandosi tra le maglie della giurisprudenza, basterebbe un adempimento burocratico per riparare sotto l’ombrello dei diritti costituzionalmente riconosciuti un abuso dei mezzi di informazione.
Scrive Filippo Pansera il 9 marzo 2018 sulla sua Pagina Facebook: "Molte settimane fa, scrivevo di una giudice altolocata (perchè con incarichi direttivi di vertice a Palazzo Piacentini - Messina), che essa avesse una figlia magistrato ed un marito giudice..., in realtà sono stato tratto in inganno da una dei miei avvocati e da un secondo amico mio avvocato. Successivamente, ho scoperto come stanno effettivamente le cose. La dottoressa non ha figli giudici o avvocati, bensì è cognata di una avvocatessa con Studio legale in Messina presso altro collega... arrestato nel 2017... e con trascorsi politici di centro-destra. Dunque, la signora, è incompatibile ex articolo 18 dell'Ordinamento Giudiziario".
Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.
Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.
LE PARENTELE PERICOLOSE
Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.
Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.
Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.
Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.
Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.
Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.
Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.
Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.
La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.
La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.
La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.
GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE
Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.
Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.
Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.
Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.
La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.
Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.
Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.
Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.
Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.
La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.
Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.
CHE COSA SIGNIFICA
Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
· Da pm a giudice: al Csm passano le porte girevoli.
Da pm a giudice: al Csm passano le porte girevoli. Giovanni M. Jacobazzi l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. Via libera del plenum al cambio di funzioni “accelerato”. Inutile tentativo dei consiglieri laici, che avevano chiesto rigore sulle istanze di alcune toghe. Lanzi: «ignorato l’obbligo di seguire prima un corso di qualificazione». «Un cittadino oggi può essere accusato da un pm e domani, magari, vedersi giudicato dallo stesso magistrato diventato giudice», ha dichiarato al plenum del Csm Alessio Lanzi, consigliere laico in quota Forza Italia, stigmatizzando la delibera, approvata a maggioranza, con cui è stato dato il via libera al cambio di funzioni di alcune toghe. «Il Csm ha deciso di farla passare come pratica “urgente” quando invece è una questione che interessa enormemente l’opinione pubblica, a differenza dei flussi tabellari, della pratiche a tutela, del conferimento degli incarichi», ha sottolineato il professore e avvocato milanese, secondo cui «non si può lasciare tanto automatismo in questi passaggi di funzioni, non essendo pratiche di routine». Fra le criticità di questa pratica, Lanzi ha anche evidenziato carenze sotto il profilo del rispetto delle regole: «Il legislatore, per il cambio di funzione, ha previsto tassativamente che serva una partecipazione a un corso di qualificazione professionale e un parere di idoneità da parte del Csm, previo parere del Consiglio giudiziario, acquisite le osservazioni del procuratore generale o del presidente della Corte d’Appello, tutti aspetti che non sono stati contemplati in questa delibera». I laici hanno votato compatti ma, essendo la metà esatta dei togati, la delibera è comunque passata. Con dieci voti a favore, sette contrari e due astenuti: i togati di Autonomia e indipendenza Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Favorevole allo status quo, invece, Piercamillo Davigo, fondatore e leader dello stesso gruppo di “Aei”. «È vero – ha affermato l’ex pm di Mani pulite – che la norma prescrive di fare il corso prima», ma «la prassi costituzionalmente orientata che ha sempre consentito di essere ritenuti idonei al tramutamento di funzioni dopo la domanda di ammissione al corso di riconversione alla Scuola superiore della magistratura è sostenuta dal fatto che un magistrato non può essere penalizzato e discriminato da un’accettazione al corso che dipende dalla mera disponibilità della Scuola». A favore della delibera anche i quattro togati di Area, il raggruppamento progressista della magistratura, secondo i quali «si deve favorire il passaggio di funzioni da giudicanti a requirenti e viceversa. In tale modo infatti si migliora la qualità complessiva della giurisdizione». Sulla stessa linea di Lanzi, invece, anche l’altro laico di Forza Italia, l’avvocato napoletano Michele Cerabona: «Siamo in presenza di provvedimenti in ciclostile. La delibera deve essere conforme alla normativa. Il parere non viene riportato nella delibera e questo non consente di esprimere il giudizio nel merito, non potendosi svolgere alcuna funzione di verifica e di controllo». Prima del voto finale il plenum aveva respinto, con dieci voti contrari e otto favorevoli, la proposta di ritorno della pratica in Commissione avanzata dal consigliere Filippo Donati, laico in quota M5S, e sostenuta anche da Nino di Matteo, unico togato a votare inizialmente a favore insieme ai laici. In sede di discussione, il magistrato del processo Trattativa, ha però tenuto a ricordare come «l’unicità della giurisdizione è un patrimonio da tutelare e non bisogna lasciare spazio ad ombre o strumentalizzazioni».
· Violenza domestica: troppe leggi e male applicate.
La storia di Amina è uno spaccato dell'assurdità della Giustizia italiana tra un numero assurdo di leggi in contrasto tra loro. Daniela Missaglia il 27 luglio 2019 su Panorama. Aggiungere leggi su leggi serve?
Fu Dio, secondo la dottrina, a stabilire le prime rudimentali regole imponendole nel giardino dell’Eden ad Adamo ed Eva che, fatalmente, le violarono. Oggi ogni Stato sovrano è retto da reticolati di norme più o meno complesse tant’è che Abramo Lincoln disse: “tre cose formano una nazione: la sua terra, il suo popolo, e le sue leggi”. Eppure la legge, se disapplicata, non serve a nulla, diventa un vuoto simulacro scritto sui tomi. Sono dunque convinta che solo il preciso raccordo e coordinamento fra gli organi ed i poteri dello Stato preposti a ridisegnarle, affinarle, applicarle, eseguirle, possa rendere migliore una nazione e la vita concreta dei cittadini.
Ma è proprio qui il punto dolente. Da un lato la magistratura esercita il proprio ruolo con discrezionalità eccessiva, dall’altro il potere legislativo prolifera norme spesso incoerenti e senza raccordo con le precedenti, dall’altro, ancora, le Forze dell’Ordine vivono la difficoltà di veder frustrati i propri sforzi e non trovano adeguato supporto né dal potere giudiziario né da quello esecutivo. Esempio illuminante è ciò che succede con la violenza domestica, ambito in cui norme vecchie e nuove stanno facendo da cerchio intorno ad un fenomeno sociale grave ed ingravescente, con conseguente rischio di fallire l’obiettivo di arginarlo. La difficoltà potrebbe essere superata rovesciando la prassi di confinare in comunità donne e bambini vittime di violenza domestica. Ragionando al contrario non sarebbe più giusto rinchiudere il violento in apposite comunità, magari impiegandolo in lavori socialmente utili e lasciare nelle loro case le vittime? Perché costringere chi ha già subito violenza a cambiare le proprie abitudini di vita andando in comunità, sottostando ad altre non meno terribili vicissitudini fatte di colloqui, relazioni dei servizi sociali e tribunali per i minorenni che inevitabilmente verrebbero coinvolti? Anche a livello economico, mi sembra proprio che il ragionamento al contrario non potrebbe che funzionare.
Amina, per esempio, è l’ultima donna che ho aiutato in questo modo. Sposata con un connazionale violento e padrone che picchiava lei ed i figli ad ogni piè sospinto: bastava una camicia bianca fra i colorati, una cena non gradita, una telefonata che dava adito a pretestuose scenate di gelosia. Per anni Amina ha conservato per sé, sul viso e sul corpo, i segni di questa barbarie, vuoi per paura, vuoi per una cultura d’origine remissiva, vuoi per sfiducia, anche perché, la prima ed unica volta che si era recata alla vicina stazione di Polizia, il caso era stato gestito come un normale dissidio fra coniugi e Amina aveva percepito un chiaro ridimensionamento dell’accaduto. Un giorno però è il figlio più piccolo, vedendo la madre frustata a sangue e strangolata dal padre, a chiamare le Forze dell’Ordine che le consigliano di recarsi al Pronto Soccorso. I sanitari, ormai preparati a questa piaga, la mettono in contatto con un Centro Antiviolenza che si fa parte diligente di informare la magistratura ed i Servizi Sociali territoriali i quali, come di norma, la mettono in lista d’attesa, con i figli, per entrare in una comunità protetta, sradicandola dall’ambiente domestico. Il tutto mentre il Pubblico Ministero svolge le indagini ma, in assenza di flagranza, non può emettere provvedimenti cautelari immediati nei confronti dell’orco. Per strano possa sembrare, è bastato presentare un ordine di protezione alla sezione specializzata di famiglia del Tribunale di Milano e il Giudice, ha disposto l’allontanamento coatto, attraverso le Forze dell’Ordine, del marito violento e l’intimazione al medesimo di non avvicinamento.
Morale? Le leggi servono solo se applicate in modo coordinato ed intelligente, altrimenti si rivelano solo "spot" controproducenti che attivano iter inutili e farraginosi. Perché Amina ed i suoi figli avrebbero dovuto riparare in una comunità perdendo l’habitat di vita in favore di chi, con le sue violenze, l’aveva messa in tale condizione? A che serve l’attivazione disordinata di Servizi Sociali, PM, Tribunale per i Minorenni se ciò che offrono a donne come Amina è una tutela palliativa che, nel solco di tempi lunghi della giustizia, lascia un potenziale carnefice nella propria casa? A che serve, oggi, la permanenza stessa dei Tribunali per i Minorenni sotto-organico, in un contesto che ha evidenziato la cattiva gestione della giustizia minorile attraverso giudici onorari, servizi sociali, sindaci? Certi errori, per essere sicuri di non caderci più, bisogna estirparli alla radice attraverso una radicale riforma del diritto di famiglia, non tanto dal punto di vista normativo - le leggi ci sono - ma dell’apparato atto a definire le crisi: sezioni specializzate, iper-specializzate, con magistrati ad hoc appositamente formati e competenti, in ogni Tribunale, abolizione dei giudici minorili e coordinamento molto più stretto con le i giudici penali, le Forze dell’Ordine, i centri anti-violenza, i presidi ospedalieri, liste di avvocati d’ufficio iscritti in un apposito albo con competenze peculiari di diritto di famiglia. E possibilmente i violenti, quelli sì, nelle comunità: c’è così tanto bisogno di manovalanza. Loro devono rimediare, riparare, impegnarsi, non solo psicologicamente, ma facendo fatica fisica e lavori pesanti, che ormai non vuole fare più nessuno, che li ridimensionino nel loro potente ego che nasconde solo fragilità e meschinità. Così si salva Amina e tutte coloro che vivono e vivranno la sua situazione, con buona pace della Commissione bilancio che anziché stanziare ulteriori fondi per supportare le nuove leggi anti violenza ne trarrebbe solo beneficio.
· La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».
La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi». Errico Novi il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. La Suprema corte contro lo stop alle misure alternative. Depositata l’ordinanza con cui la prima sezione ha rimesso la legge “spazza corrotti” alla Consulta.
La Cassazione. Si può con una certa soddisfazione notare come il circuito fra dottrina e Corti superiori funzioni bene. E cioè come vi sia un dibattito giuridico molto dinamico attorno a temi di diritto che la politica tratta a volte con una certa sbrigatività.
Lo si può dire a proposito di un’ordinanza, la numero 1992 del 2019, emessa lo scorso 18 giugno dalla Cassazione e che ieri è stata depositata. Si tratta della decisione che ha rimesso d’ufficio alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della legge “spazza corrotti” per la parte in cui la riforma preclude l’accesso alle misure alternative persino per il peculato. Da ieri sappiamo che le ragioni della scelta compiuta dalla Cassazione sono ancora più sorprendenti, e incoraggianti, di quanto si fosse inteso. Prima di tutto perché hanno a che vedere con la violazione non del principio di irretroattività ma del principio di ragionevolezza, e silurano dunque le nuove norme in assoluto, non solo rispetto alla loro applicabilità ai reati commessi prima che la riforma entrasse in vigore. Inoltre le motivazioni dell’ordinanza si agganciano addirittura alle tesi affermate dall’accademia negli Stati generali dell’esecuzione penale.
L’irragionevolezza. Certo, a essere presa di mira è l’ostatività ex articolo 4 bis estesa a una fattispecie specifica qual è il peculato. Ma la Cassazione afferma la generale necessità di un «fondamento logico e criminologico» delle «scelte legislative» che riguardano la sanzione dei comportamenti illeciti. In sostanza, assimilare i “corrotti” a mafiosi e terroristi è, per la Suprema corte, irragionevole. Vi è quanto meno il sospetto che la “spazza corrotti” violi il principio costituzionale di ragionevolezza ( come aveva già segnalato, con ordinanza analoga, la Corte d’appello di Palermo), ed è per questo che il giudice di legittimità ha deciso di rimettere la questione alla Consulta. Dopo l’udienza con cui proprio un mese fa, la prima sezione, presieduta da Giuseppe Santalucia e con Raffaello Magi relatore, aveva assunto la decisione depositata ieri, si era dato per scontato che l’avesse voluto affermare il principio di irretroattività. L’ordinanza infatti riguarda il caso di un condannato in via definitiva per peculato, Alberto Pascali, che si è visto negare la possibilità di chiedere la messa alla prova ed è stato costretto a valicare la soglia del carcere di Bollate. In particolare, la Cassazione è intervenuta sulla successiva scarcerazione di Pascali, ordinata l’ 8 marzo dalla gip di Como Luisa Lo Gatto, convinta della inapplicabilità della norma che estende l’articolo 4 bis ai reati di corruzione, peculato compreso, anche per le condotte precedenti l’entrata in vigore della “spazza corrotti”. A chiamare in causa la Suprema corte è stata la Procura di Como, che ha impugnato l’ordinanza della gip. Nella decisione depositata ieri dalla Cassazione ci sono aspetti di straordinario interesse. Senz’altro quello della probabile irragionevolezza della “spazza corrotti” nella parte in cui estende il 4 bis a reati come il peculato, e assimila così i “corrotti” a mafiosi e terroristi. Vizio energicamente denunciato nella memoria difensiva predisposta, per Pascali, dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini. «In particolare la condotta di peculato», afferma la Cassazione, «non appare contenere — fermo restando il suo comune disvalore — alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore, trattandosi di condotta realizzata senza uso di violenza o minaccia e difficilmente inquadrabile — sul piano della frequenza statistica — in contesti di criminalità organizzata». In altre parole, non si può trattare il peculato come la mafia.
Il carcere e la riforma. Non è finita qui. Perché nel ritenere irragionevole precludere l’accesso immediato, per i corrotti, a misure alternative come la messa alla prova, la Cassazione “resuscita”, per così dire, la riforma del carcere in realtà mai venuta alla luce. Lo fa con un omaggio ai principi di quella rivoluzione incompiuta, pure contenuti, sotto forma di delega, in una legge entrata in vigore: «Va segnalato come nella scorsa legislatura», ricorda la Cassazione, «siano stati approvati in Parlamento più punti di legge delega — la n. 103 del 2017 ( la riforma penale dell’ex ministro Orlando, ndr) — tendenti alla riconsiderazione complessiva delle preclusioni legali di pericolosità in sede di accesso alle misure alternative, con riaffidamento al giudice del compito di valutare la sussistenza delle condizioni di ammissione». E, aggiunge la prima sezione persino con un certo “coraggio politico”, «il mancato esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa la necessaria riconsiderazione organica del sistema delle presunzioni, tradottasi», appunto, «in legge nel 2017». Nel sospettare l’incostituzionalità dell’estensione al peculato del regime ostativo ex articolo 4 bis, la Cassazione insomma si riconnette alla lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale. Quanto meno rispetto alla necessità di affidare al giudice la valutazione dell’effettiva, persistente pericolosità del soggetto. Una rivoluzione nella rivoluzione. Che non potrà certo far vivere una riforma penitenziaria lasciata morire, ma che almeno può eliminare le parti più irragionevoli della spazza corrotti.
· Diffamazione: questo, sì; questo, no!
Da ilfattoquotidiano.it il 3 novembre 2019. Gli avevano chiesto se Matteo Salvini fosse fascista. Lui aveva risposto: “No, di più. Peggio, dopo aver visto quello che si è visto. Chi è che parla di castrazione? E lui dice no, non possono sbarcare…non sono clandestini sui barconi, c’è della gente…”. E poi “Salvini è un incivile”. Il j’accuse portava la firma del fotografo Oliviero Toscani, che aveva puntato il dito contro l’allora ministro dell’Interno il 2 agosto mentre era ospite alla trasmissione La Zanzara, su Radio24. Per quelle stesse parole era stato denunciato dal segretario della Lega, ma ora il pubblico ministero milanese Stefano Civardi ha chiesto l‘archiviazione. Il Corriere della Sera riporta le motivazioni della richiesta del pubblico ministero: dare all’ex vicepremier del “fascista” e dell’ “incivile” “non è diffamazione ma può essere “scriminato (giustificato, ndr) dall’esercizio del diritto di critica politica” in tutti i casi in cui i due appellativi, “lungi dall’essere un semplice gratuito attacco alla persona di Salvini” intende “biasimare scelte politiche al centro del dibattito pubblico”. Come, in questo caso, la formulazione di “un’aspra critica politica delle scelte compiute dall’allora ministro dell’Interno in materia di immigrazione e reati sessuali”. Il termine “incivile”, inoltre, si riferisce a “un giudizio su scelte politiche in contrasto con il canone di civiltà professato da Toscani”.
Luca De Vito per repubblica.it il 29 ottobre 2019. Aveva scatenato mille polemiche con una diretta Instagram, a luglio di quest'anno, in cui invocava Hitler insultando i partecipanti al Gay Pride di Milano perché la sfilata bloccava il traffico e lei rischiava di non arrivare in tempo in stazione. "Io sto perdendo il treno in mezzo a questa massa di ignoranti, andate tutti a morire, perché non esiste più Hitler? Sarebbe dovuto esistere Hitler. Tu guarda che ammasso di gente ignorante che sta bloccando la strada. Io veramente vorrei capire la polizia dove cazzo è". Stella Manente, influencer da oltre 200mila follower su Instagram, modella e attrice, aveva chiesto scusa, ma solo dopo che la sua storia sul social network aveva fatto il giro della Rete, grazie anche alla segnalazione dei Sentinelli di Milano. Diversi marchi si erano affrettati a precisare di non avere alcuna collaborazione con la modella, assicurando di non condividerne le parole. Sembrava pentita, la modella, si era scusata dicendo che non sapeva cosa fosse il Gay Pride, ma poi aveva querelato chi, sui social, l'aveva presa di mira. Mal gliene incolse: perché oggi il pm Mauro Clerici ha chiesto l'archiviazione per quella querela contro ignoti: "il comportamento della denunciante costituisce palesemente un fatto ingiusto perché invocare ad alta voce "ci vorrebbe Hitler, dov'è Hitler..." nel corso di una manifestazione quale il Gay pride significa evocare e giustificare le persecuzioni naziste contro gli omosessuali", si legge nella richiesta. Insomma, il pm bacchetta Manente e chiede di non procedere nei confronti dei responsabili di quei messaggi sulla base di quanto prescrive l'articolo 599 del codice penale: non è punibile chi compie alcuni gesti dopo essere stato provocato.
Invocò Hitler: per il pm chi reagì con insulti sui social è giustificato. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Gli insulti social sono «giustificati» se la vittima che denuncia gli attacchi aveva aizzato la folla con un richiamo al Nazismo. È quanto ha deciso un pm di Milano che ha chiesto l’archiviazione della querela della modella e influencer Stella Manente. Bloccata nel traffico durante il Gay Pride di Milano Manente aveva invocato Hitler insultando i partecipanti sul suo profilo Instagram, perché a causa del corteo - spiegava sui social - rischiava di perdere il treno. Subissata di proteste e insulti, la giovane si era scusata, ma poi aveva deciso di far denuncia. Denuncia per cui il pm di Milano Mauro Clerici ha chiesto l’archiviazione: «il comportamento della denunciante - si legge - costituisce palesemente un fatto ingiusto perché evocare ad alta voce Hitler nel corso di una manifestazione quale il Gay Pride significa evocare e giustificare le persecuzioni naziste contro gli omosessuali». L’influencer «inoltre ha dato ulteriore seguito dandovi pubblicità su Instagram e pertanto le numerose persone che hanno reagito a tale condotta, contro cui viene presentata denuncia, appaiono giustificate dal disposto di cui all’art. 599 c.p.». Articolo per il quale «Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 (diffamazione, ndr) nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso». Per motivi diversi, qualche giorno fa è stata archiviata anche una denuncia di Chiara Ferragni e Fedez, contro Daniela Martani, ex pasionaria dell’Alitalia che li aveva offesi sui social. In questo caso la procura di Roma ha valutato che i social non sono autorevoli e che quindi «non sono idonei a ledere la reputazione altrui».
Giuseppe Guastella per il “Corriere della sera” il 23 ottobre 2019. Un' offesa sui social network che sono frequentati da milioni di utenti può anche non essere considerato un fatto grave. Ne sanno qualcosa Fedez e Chiara Ferragni dopo che la Procura di Roma ha chiesto l' archiviazione della querela che il rapper aveva presentato contro Daniela Martani, la ex pasionaria dell' Alitalia e concorrente del Grande fratello 2009 che su Twitter aveva definito la coppia del web «idioti palloni gonfiati». Per il pm, i social non sono autorevoli, godono di una «scarsa considerazione e credibilità» e, di conseguenza, «non sono idonei a ledere la reputazione altrui». Insorgono i legali di Fedez: proprio perché un numero enorme di persone li frequenta l'offesa è molto grave. Così c' è il rischio di trasformarli «in una vera e propria zona franca in cui tutto e concesso». Non c'è mai stato un grande feeling tra Fedez-Ferragni e Daniela Martani, almeno stando agli scambi di post. Esattamente un anno fa le ruvidezze culminarono in un attacco dell' ex assistente di volo, che nel 2008 fu l' icona del fronte del no dei dipendenti al piano «Fenice» dell' Alitalia, dovendo poi firmare per non perdere il posto. Moglie e marito avevano appena concluso la festa di compleanno a sorpresa che Chiara Ferragni aveva organizzato per Fedez in un supermercato (che aveva sponsorizzato l' evento) e già si stava sollevando un vespaio di critiche per lo spreco di prodotti alimentari lanciati come proiettili, tanto che poi i due si erano sentiti in dovere di scusarsi pubblicamente. Anche Daniela Martani volle dire la sua e, all' 1,50 del 23 ottobre, poco dopo la festa tra gli scaffali, sentì il bisogno di digitare: «Io ve lo dico da anni che sono due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli animali. Per far parlare di loro non sanno più cosa inventarsi. Fare una festa a casa era troppo normale altrimenti chi glieli mette i like». Martani, che ha preso posizione contro il maltrattamento degli animali, più volte ha criticato via internet la Ferragni perché indossava pellicce naturali. Fedez, al secolo Federico Leonardo Lucia, non ha gradito e, tramite gli avvocati Gabriele Minniti e Andrea Pietrolucci, ha querelato la ex hostess per diffamazione ritenendo che avesse superato «abbondantemente i limiti del diritto di critica» con una condotta che era stata ancor più grave perché fatta su Twitter, che è in grado di raggiungere un quantità enorme di persone. Per la Procura di Roma, invece, le cose non stanno così. Chiedendo al giudice per le indagini preliminari di archiviare il caso, il pm Caterina Sgrò scrive che «sui social accade che un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali», sente «la necessità immediata» di «sfogare la propria rabbia e frustrazione» scrivendo «fuori da qualsiasi controllo» qualunque cosa, anche con «termini scurrili, denigratori, ecc., che in astratto possono integrare il reato di diffamazione, ma che in concreto sono privi di offensività». Perché proprio il «contesto dei social in genere, frequentato dai soggetti più disparati», «priva dell' autorevolezza tipica delle testate giornalistiche o di altre fonti accreditate tutti gli scritti postati su internet» tanto che, a parere della Procura, la «generalità degli utenti non dà peso alle notizie che legge». Le «espressioni denigratorie» che possono offendere una persona «godono di scarsa considerazione e credibilità» e «non sono idonee a ledere la reputazione altrui». Per i legali di Fedez, le cose stanno in modo diametralmente opposto. Nell' opposizione all' archiviazione riportano alcune decisioni della Cassazione per sostenere che «la diffusione di un messaggio diffamatorio» su Facebook o Twitter, proprio perché può raggiungere un numero incalcolabile di utenti, «integra un' ipotesi di diffamazione aggravata». Se così non fosse, «si rischierebbe di trasformare i social network in una vera e propria zona franca in cui tutto è concesso», con il rischio di «imbarbarire i costumi e le abitudini di vita delle persone». La parola al giudice.
Giampiero Mughini per Dagospia il 23 ottobre 2019. Caro Dago, leggo le motivazioni con cui un giudice ha reputato irricevibile la querela dei coniugi Ferragni/Fedez contro l’autrice di un tweet particolarmente offensivo nei loro confronti. Il giudice ha reputato che i tweet siano di per sé robaccia priva di qualsiasi autorità e quindi non tali da poter ledere l’onorabilità altrui. Robaccia e basta, monnezza e basta, espressioni psicopatologiche di gente frustrata che non ha altro modo per sfogare la sua rabbia del vivere. Sacrosanto, non si poteva dire meglio. Solo che a questo punto ne viene cambiata l’intera architettura della comunicazione odierna, dove i tweet hanno un posto centrale, addirittura soverchiante. Gli stessi giornali di carta - e a costo di fare del male a se stessi - ospitano ogni volta con gran rilievo il tweet dell’uno o dell’altro imbecille (anche altolocato) che se la prende volgarmente con tizio o con caio, e giù dissertazioni e analisi del costume e quant’altro. No, è pura monnezza e in una rubrica con questo titolo i giornali se ne dovrebbero occupate. Monnezza, su due colonne. E’ il linguaggio da cui sono tossicodipendenti i seminanalfabeti che non hanno altro modo per costruire una frase con soggetto, predicato, complemento. O di cui sono tossicodipendenti i personaggi anche celebri e di prima linea che pensano sia comunque il modo di far parlare di sé e di offendere un rivale o un concorrente. Monnezza, feccia e nient’altro che feccia. Tu stesso, caro Dago, hai ospitato recentemente sulle tue pagine un paio di tweet che commentavano un mio precedente articolo sul duello Renzi/Salvini da Bruno Vespa, uno dei quali attribuiva il mio scritto alla vecchiaia che ottunde il mio comprendonio, l’altro a un mio disperato tentativo di “ottenere” una qualche prebenda non so esattamente quale e non so esattamente da chi. Erano opinioni libere di cui tener conto, da offrire al pubblico? Io penso di no, penso che fossero monnezza da scaraventare nel cestino alla voce “indifferenziata”. O meglio ancora. La prossima volta, caro Dago, prova a mettermelo di fronte uno di questi twittaroli così esuberanti. Con i mezzi dell’odierna tecnologia non è difficile. Io e lui di fronte, forte ciascuno della sua parola e della sua grammatica intellettuale. Gli pago anche il cachet per la sua prestazione a uno così. 7 euro e 50, quello che la mia colf guadagna in un'ora. Per uno così non è poco, anzi è un vero e proprio reddito di cittadinanza. Ps. Una volta che ero ospite di Peppino Cruciani alla “Zanzara” e lui mi riferì di un tweet pesantemente offensivo nei miei confronti che gli era appena arrivato, io subito gli chiesi di mettermelo di fronte (via telefono) l’autore di quel tweet. Peppino aveva il numero di telefono dello scrivente e si mise a telefonare. A lungo. Invano. La feccia se l’era fatta sotto. Giampiero Mughini
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 5 luglio 2019. È ufficiale: da ieri si può dire che il vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dell' Interno, nonché capo della Lega, al secolo Matteo Salvini, è un Cazzaro Verde. E il merito di questa storica acquisizione si deve, per quanto strano possa apparire, proprio a lui: al Cazzaro Verde. Era stato lui, infatti, a querelare il sottoscritto per diffamazione, contestando davanti al Tribunale di Milano un editoriale satirico del 6 maggio 2018 intitolato appunto "Il Cazzaro Verde", in cui si dimostrava per tabulas la sua essenza di Cazzaro Verde che fa politica a suon di "supercazzole" anziché lavorare. L' articolo riscosse un certo successo fra i lettori, tant' è che produsse una rubrica pressoché quotidiana sul Fatto, in cui, anziché inseguire con commenti e cronache sdegnate la sua incessante attività cazzara e supercazzolara sui social, a cura dell' apposita struttura comunicativa denominata orgogliosamente La Bestia, raccogliamo il meglio del peggio delle sue sparate via Twitter e Facebook su tutto lo scibile subumano: dalle colazioni a base di pane e Nutella agli sbarchi dei migranti, dal festival di Sanremo ai vari dl Sicurezza, dagli insulti a chi lo critica alla Flat tax, dalle recensioni del Grande Fratello Vip e di simili programmi culturali agli altri punti programmatici della Lega (che momentaneamente ci sfuggono). Le querele, si sa, sono armi a doppio taglio: si possono vincere, ma anche perdere; e chi le perde autorizza chi le vince a rivendicare come lecito ciò che chi perde riteneva diffamatorio. È proprio quel che è accaduto al Cazzaro Verde, che ieri s' è visto archiviare la sua denuncia dal gip Luigi Gargiulo, il quale ha accolto la richiesta della Procura di Milano e del mio difensore Caterina Malavenda e respinto il ricorso del suo difensore Claudia Eccher. La Procura riteneva che dare a Salvini del Cazzaro Verde esperto in supercazzole non fosse diffamazione, ma uso legittimo di "espressioni veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira" che "consistono in un' argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolve in un' aggressione gratuita alla sfera morale altrui". Ora il gip va oltre e nota che il Cazzaro Verde, nella sua querela, "non nega mai i fatti oggetto dell' articolo", anzi arriva ad ammettere che "nella vita politica la critica può assumere toni aspri di disapprovazione", pur opinando che "cazzaro verde" e "supercazzola" superino il "requisito della continenza". E invece no, il giudice Gargiulo ritiene che io non sia (ancora) incontinente. Alla luce della giurisprudenza della Cassazione sul diritto di critica e di satira, quelle espressioni possono essere "ineleganti, pungenti, inadeguate", ma non certo diffamatorie in un linguaggio politico ormai "greve e imbarbarito". Anche grazie al Cazzaro Verde, che non è proprio lord Brummel, anche se ha la querela facile (con noi ne ha già perse otto). E qui il giudice piazza un colpo da maestro, citando una frase di Di Maio che accusa la Lega di avallare "la supercazzola" del Tav Torino-Lione; ma soprattutto due dichiarazioni di Salvini: "Il sindaco di Napoli ha fatto tutta una supercazzola sulla prevenzione"; "Il piano B del governo per affrontare l' emergenza immigrazione mi sa tanto di supercazzola". Cos' abbia indotto il Cazzaro Verde a querelare un giornalista perché gli imputa delle supercazzole, quando è lui stesso a imputare delle supercazzole ad altri, resta un mistero. Spiegabile solo con la sua essenza di Cazzaro Verde. Anche perché - ricorda il gip - "il termine 'supercazzola' nel 2015 è persino entrato a far parte del dizionario Zingarelli" (senza offesa per il nostro fiero nemico dei rom). In più, le mie accuse di supercazzolismo sono formulate "a corredo di un ragionamento logico di critica politica", dunque non ho "mai inutilmente e gratuitamente offeso la sfera morale" del Cazzaro Verde, "impiegando invero termini privi di idoneità lesiva, utilizzati in maniera ironica". Tantopiù che, con un altro memorabile autogol, è il Cazzaro Verde medesimo a riconoscere nella sua querela che "cazzaro" è "in uso nel linguaggio giovanile per indicare un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone". Un autoritratto che più somigliante non si poteva, infatti proviene da uno che si conosce bene: "esattamente il profilo tracciato dall' indagato (il sottoscritto, ndr) quando ricordava l' irrealizzabilità delle promesse fatte dal querelante". Conclusione: "Tale definizione non può certo essere considerata lesiva dell' onore e della reputazione" del Cazzaro Verde, "soprattutto in quanto si tratta di un uomo politico che, per sua natura, è sottoposto non solo alla più feroce critica, ma anche alla satira". Ergo "la condotta dell' indagato (sempre io, ndr) risulta scriminata dal legittimo esercizio di critica politica" e "si ritiene di dover aderire alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm, rilevata l' infondatezza della notitia criminis". A noi non rimane che ringraziare il Cazzaro Verde per averci querelati: se non l' avesse fatto, non avremmo mai saputo che dargli del Cazzaro Verde e del supercazzolaro è legittimo e avremmo continuato a chiamarlo così col timore di esagerare. Ora invece lo faremo senza più remore. Anche tutti i giorni, prima e dopo i pasti. E siamo lieti di comunicarlo coram populo, affinché chiunque voglia provare la stessa liberatoria ebbrezza segua il nostro esempio sui social, a cena con gli amici, al bar, sui mezzi pubblici, nelle piazze, negli striscioni da balcone che accolgono il Cazzaro Verde nel suo frenetico giro d' Italia per non lavorare. Da oggi dire che il Cazzaro Verde è un Cazzaro Verde si può: grazie al Cazzaro Verde.
Peter Gomez per il “Fatto quotidiano” il 5 luglio 2019. Dire cazzaro verde a Salvini è consentito. E accusare di voler dire, o fare, una "supercazzola" a un politico, anche. Il gip di Milano, Luigi Gargiulo, ha rigettato la querela che Matteo Salvini ha opposto al Fatto e al suo direttore, Marco Travaglio, ritenendo diffamatorio il titolo di un editoriale, "Il cazzaro verde", appunto, e la paternità di una "supercazzola" riferita all' intenzione di creare un governo di scopo. Il giudice, avvalendosi di un' ampia giurisprudenza, ha motivato la decisione riconoscendo il carattere di satira basata su iperboli e coloriture anche aspre del linguaggio, "modalità espressive funzionali e proporzionate all' opinione" espressa e dunque non punibili. Del resto, precisa il giudice, i fatti oggetto dell' articolo "non sono stati mai negati dal querelante" che ha anche ammesso che nella vita politica la critica, soprattutto se proviene da un "giornalista di avversa linea ideologica", può "assumere toni aspri di disapprovazione". Gli articoli di satira, se rispettano il criterio della continenza, si basano su un linguaggio "essenzialmente simbolico e paradossale" fermo restando "il limite del rispetto dei valori fondamentali", limite che non è stato superato. La sentenza ricorda anche "il complessivo contesto dialettico", cioè il linguaggio della politica "contrassegnato da espressioni forti, aspre, pungenti ed anche suggestive". Si ricordano le frasi di Luigi Di Maio sull' ipotesi di un Tav ridimensionato: "Parliamo di una supercazzola". Oppure lo stesso Salvini: "Il piano B del governo per affrontare l' emergenza immigrazione mi sa tanto di supercazzola". Ma è lo stesso Salvini a ricordare che "cazzaro", nel linguaggio giovanile, "indica un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone". Esattamente il profilo che si proponeva di tracciare l' articolo.
Il Messaggero.it il 5 luglio 2019. Beppe Grillo deve pagare 50mila euro al professore Franco Battaglia. docente universitario di chimica ed editorialista - negazionista del cambiamento climatico e sostenitore dell'energia nucleare - per averlo attaccato con «espressioni offensive» durante un comizio alla vigilia del referendum pro atomo del 2011. Lo ha stabilito la Cassazione che ha annullato per prescrizione la condanna a seimila euro di multa, inflitta al 'padre' dei Cinquestelle, il 10 luglio 2017 dalla Corte di Appello di Ancona. Lo si apprende dalle motivazioni depositate oggi nella sentenza 29489 della suprema Corte e relative all'udienza svoltasi lo scorso 3 aprile alla Quinta sezione penale. In primo grado invece Grillo era stato condannato, dal Tribunale di Ascoli Piceno, a un anno di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore di Battaglia, con concessione della provvisionale da 50 mila euro. In appello, la condanna al carcere era stata sostituita dalla multa mentre veniva confermato l'indennizzo per il prof anche perchè - rilevano gli ermellini - la difesa di Grillo non aveva contestato né l'entità del risarcimento né il suo fondamento con «specifici motivi di ricorso», come richiede la legge. «Non puoi permettere a un ingegnere dei materiali e neanche a un ingegnere nucleare, parlo di Battaglia, consulente delle multinazionali, di andare in televisione e dire così, con nonchalance, che a Cernobyl non è morto nessuno: io ti prendo a calci nel c... e ti sbatto fuori dalla televisione, prendo un avvocato e ti denuncio e ti mando in galera. Quale dialogo, non ne voglio più di dialogo», aveva detto Grillo nella sua polemica a distanza con Battaglia. Le cose sono andate diversamente e si sono concluse con un cospicuo risarcimento, oltre alla condanna di Grillo a pagare anche 2200 euro di spese legali all'avversario costituitosi parte civile. Per la Cassazione, quanto attribuito da Grillo al 'prof' è vero e di interesse pubblico «tuttavia le espressioni usate sono offensive in quanto, pur rispondendo alle frasi pronunciate dal Battaglia, stante l'esigenza di porre l'opinione pubblica a conoscenza di tale censurato orientamento, si sono sostanziate, almeno per una parte in attacchi personali». Al referendum per il ritorno al nucleare gli italiani confermarono la scelta green.
· Credere nella giustizia, e la chiamano Legge.
Raffaele Della Valle: «La magistratura non ha imparato niente dal caso Tortora». Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Marisa Fumagalli su Corriere.it. Non ha perso un capello Raffaele Della Valle. Se non fosse per la spruzzata di bianco, la sua folta capigliatura, tratto fisico inconfondibile, è la stessa di trentasei anni orsono. Quando l’avvocato penalista si trovò ad affrontare al fianco del professor Alberto Dall’Ora un caso giudiziario clamoroso: la difesa di Enzo Tortora, giornalista e popolare presentatore televisivo, arrestato a Roma nel giugno del 1983. Era venerdì 17, inizio del calvario. E ci sono voluti tre anni, perché Tortora, dopo la condanna in primo grado, fosse assolto in Appello e in Cassazione. Tre anni dentro i quali vanno messi i processi, la galera, la rinuncia all’immunità parlamentare. Il giornalista, infatti, venne eletto a Strasburgo con i Radicali, che lo candidarono sulla scia della mobilitazione in suo favore. «Condannato dal Tribunale di Napoli, dichiarato camorrista e spacciatore senza uno straccio di prova – dice Della Valle - A suo carico? Le parole di un branco di delinquenti. Caso di malagiustizia che, purtroppo, non ha insegnato molto. Anzi. Da allora le cose sono perfino peggiorate con una magistratura che, via via, si è politicizzata al massimo. Lo scandalo del Csm di queste settimane? Non mi stupisce». Le parole sono dure ma il tono di voce è pacato. Racconta e ricorda, Della Valle, seduto al tavolo rotondo della saletta di ricevimento del suo studio di Monza. Liberale di formazione, un’esperienza politica e parlamentare in Forza Italia archiviata da tempo, l’avvocato compirà ottant’anni tra pochi mesi. «Cinquantasei di professione, 75 in tribunale», precisa. Cioè? «Ero un bambino quando mio padre, nominato pretore a Monza, si trasferì dal Piemonte in Lombardia. La nostra abitazione si trovava all’interno del Palazzo di Giustizia». Il caso Tortora, dunque. Nel 1987, il conduttore di “Portobello”, riabilitato, ritornò in tv («Dove eravamo rimasti?»). Un anno dopo morì di cancro. Non aveva ancora compiuto sessant’anni. Ma riprendiamo da capo.
Avvocato, com’è stato possibile per la magistratura inquirente prima, e giudicante poi, sostenere un impianto accusatorio così fragile?
«Arroganza, insipienza, superbia. Non voglio aggiungere malafede… Certo, il desiderio di stare in prima pagina. La catena delle accuse comincia con Giovanni Pandico, pluriomicida, “schizoide e paranoico” secondo i medici, in contatto con il presentatore per una storia di centrini inviati a Portobello con la richiesta di metterli all’asta. Andarono smarriti in redazione. Dalla Rai seguì la corrispondenza fra Tortora (che si scusò) e il detenuto. Bastava controllarla per capire subito che non v’erano messaggi trasversali. Cosa che gli inquirenti non fecero. Al contrario, fu l’inizio di una serie di equivoci, se vogliamo chiamarli tali, che misero in trappola Enzo».
E dire che i due pm napoletani dell’inchiesta, Lucio Di Pietro (“il Maradona del diritto”) e Felice Di Persia, godevano di buona fama.
«Già. Sarebbe aumentata prendendo di mezzo il personaggio famoso fra gli ottocento e passa nomi dei presunti camorristi, allora colpiti da ordine di cattura. Fatto sta che, dopo Pandico, altri criminali a caccia di benefici parteciparono alla grande delazione. Tutto preso per buono senza controlli. Le cito un esempio».
Dica.
«Uno degli accusatori di Tortora era Gianni Melluso, detto il bello. Per inciso, passata la bufera, fu l’unico a chiedere perdono “in ginocchio” ai familiari ammettendo che si era inventato tutto.“Resti pure in piedi”, rispose una figlia di Tortora. Non sto a rievocare i reati compiuti e i benefici ottenuti da questo soggetto. Fra le altre falsità, produsse una testimonianza a proposito di una serata in un ristorante del capoluogo lombardo, La Vecchia Milano, alla quale avrebbero partecipato Francis Turatello (il boss della mala), Tortora, lo stesso Melluso, oltre ad alcune dame dell’alta società. Una compagnia che, certo, non poteva sfuggire ai gestori del locale. Sa quale fu il rapporto dei carabinieri incaricati di fare accertamenti? L’esistenza del ristorante. Stop. Insomma, si certificava semplicemente l’indirizzo della Vecchia Milano”».
Nelle cronache dell’epoca e nei ricordi dei cronisti che seguirono il caso Tortora affiorano dettagli sconcertanti. Dall’arresto sotto le telecamere all’hotel Plaza di Roma (Tortora in manette fra la folla urlante) allo stillicidio di improbabili accuse. Fra le altre, quella del nome (sbagliato) nell’agendina di un camorrista.
«Verifiche assai tardive. Mesi per stabilire che la parola scritta non era Tortora bensì Tortona. Questo ed altro».
Poi, finalmente il dubbio.
«Già, il dubbio. Quella frase di Enzo Biagi “e se Tortora fosse innocente?” che, lanciata su un quotidiano, cominciò a diffondersi, a creare crepe nel muro. Incontrai Biagi senza averlo mai conosciuto di persona. Provvidenziale. Ricordo che anche Piero Angela fu molto vicino ad Enzo. Determinante la battaglia dei Radicali, ma Tortora non approfittò dell’elezione al Parlamento europeo. Scelse il carcere rinunciando all’immunità. Infine, giustizia è stata fatta. Ma, come le dicevo, questo caso clamoroso non è servito a correggere taluni vizi della magistratura».
Del resto, i magistrati napoletani non subirono contraccolpi. Vero è che il giudice Giorgio Fontana decise di dimettersi dall’ordine giudiziario per fare l’avvocato.
«Già. I due sostituti procuratori continuarono la loro brillante carriera ».
Avvocato Della Valle, veniamo all’oggi. Che impressione le fa la guerra fra toghe? Magistrati sotto inchiesta, incontri “proibiti”, veleni, nomine pilotate...
«Mi piacerebbe che, oltre alle intercettazioni scottanti, uscissero anche quelle negative… Ma ciò non succede. Le nomine pilotate non sono una novità. È che oggi i rapporti magistratura-politica sono sempre più stretti. E cresce la voglia di potere dei giudici. Uno dei settori più ambiti è l’anti-mafia. Qui, il palcoscenico è assicurato».
La separazione delle carriere?
«Favorevole, ovvio. Ma non basterebbe. Ci vorrebbe, mi passi l’espressione, anche quella dei letti o dei divani».
Che intende dire?
«Siamo sinceri: come in ogni luogo di lavoro, anche negli uffici giudiziari fra colleghi nascono amicizie, complicità, e talvolta si intrecciano storie personali, più o meno segrete. Lei pensa che non si parli anche di fascicoli, inquisiti e imputati?».
Una parola sulla stampa.
«Senza fare di ogni erba un fascio, sia chiaro: alcuni cronisti giudiziari sono succubi dei pm. Con tanti saluti alla difesa».
Magistratura, il marcio che nessuno sa cancellare: anche da Alfonso Bonafede soltanto chiacchiere. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 23 Giugno 2019. Tanto tuonò che non piovve. Ieri il capo dello Stato ha finalmente riunito il Consiglio Superiore della Magistratura, che Mattarella presiede, per fare il punto dopo le dimissioni a raffica dei suoi membri, seguite alla pubblicazione di diverse intercettazioni nelle quali si dimostrava che i massimi rappresentanti delle toghe decidono chi deve guidare le Procure più importanti d' Italia in trattative notturne, sboccate e intimidatorie, con la partecipazione non straordinaria di autorevoli esponenti del Pd. Il presidente si era detto scandalizzato dal bazar, che invece a noi di Libero non ha stupito affatto, non esercitandosi da queste parti il culto dei giudici come creature superiori e prive delle debolezze degli altri comuni mortali. Come ogni potere dello Stato, la magistratura si spartisce le poltrone in base a logiche politiche e di conoscenza e convenienza. La sacralità della giustizia e l' indipendenza delle toghe sono dei principi nobili trasformati in specchietti per gli allocchi, coperte sotto le quali ognuno cerca di farsi gli affari propri, talvolta anche indecenti. Per oggi ci si aspettava la rivoluzione, o almeno ci era stata annunciata. Dalla politica, ma anche dai tribunali, si erano levate molte voci a chiedere riforme, dal sorteggio per l' elezione dei membri del Csm, fino al suo scioglimento, con l' aggiunta della tanto invocata e mai fatta separazione delle carriere tra pm e giudici. Mattarella aveva detto di essere scandalizzato. Al dunque però il presidente si è limitato a una dura ramanzina da padre di famiglia indispettito. Ha fatto capire che la magistratura ormai si è sputtanata, ma non ha ribaltato il tavolo e si è limitato a dire «da oggi si volta pagina, sono choccato».
I SOLITI GUAI. A chi si attendeva qualcosa di concreto sono cascate le braccia. La riforma della magistratura è un po' come la bella di Siviglia, tutti la vogliono e nessuno se la piglia. Tutti la invocano, nessuno la fa. I guai della giustizia sono sempre gli stessi, lentezza, politicizzazione, corporativismo, impunità delle toghe e ciascun italiano li conosce alla perfezione, spesso perché ne è stato vittima, però non ci si azzarda mai a metterci le mani sul serio, non si sa da dove cominciare e, quando qualcuno ci prova, anche poco, viene subito infilzato dalla categoria in toga, che a parole fa ammenda ma non è disposta a rinunciare a nessun privilegio. La vicenda delle dimissioni del Csm, organismo costituzionale di cui solo il 10% degli italiani conosce l' esistenza e che di fatto è l' organo di governo dei giudici, che decide sanzioni, incarichi e promozioni, si è risolta con un riequilibrio politico. I magistrati un po' di sinistra che avevano lasciato sono stati rimpiazzati da colleghi ancora un po' più a sinistra. Delle nomine tramite sorteggio, che hanno riempito pagine di giornali, non si è più parlato. Figurarsi della separazione delle carriere. Mutismo pure sul divieto di tornare in toga per chi ha svolto incarichi politici, auspicato dalla maggior parte dell' opinione pubblica e invocato ieri anche dal vicepremier Salvini. Da divisi e l' un contro l' altro armati come li abbiamo sentiti nelle intercettazioni, i magistrati hanno ritrovato improvvisamente unità, respingendo in blocco l' idea del Guardasigilli Bonafede di farne dipendere la carriera dai risultati. Non vogliamo pagelle, limitano la nostra indipendenza, è stato il refrain. Alla fine, i giudici hanno solo battuto cassa, lamentando carenze d' organico.
UN BORDELLO. Certo, la giustizia è un bordello e rattopparne le falle non è cosa semplice, anche se esimi giuristi e azzeccagarbugli non mancano nel Paese né in Parlamento. E allora viene il sospetto che non solo non si sappia come riformare la giustizia ma che nessuno di coloro che potrebbero farlo, lo vuole. Non lo vogliono i giudici, che dovrebbero rinunciare a privilegi e impunità oltre a smetterla di fare politica con le inchieste. Ma non lo vogliono neppure i politici, che ormai sono screditati e terrorizzati dall' idea di finire indagati, specie dopo la sfilza di norme antigarantiste e autolesioniste che hanno approvato per saziare la piazza manettara e omaggiare chi poteva ammanettarli. Tutto fa pensare che stiamo già voltando pagina e che magistratopoli verrà archiviata con un nulla di fatto, se non un ulteriore crollo di credibilità del sistema. Personalmente non posso dirmi stupito che esponenti del Pd interferissero nella nomina dei Procuratori, che sono poi quelli che decidono quale politico o cittadino indagare. Anzi, questo ha reso chiaro a me, e spero anche a molti altri, come mai i politici di sinistra vengono indagati meno degli altri. Non è questione di superiorità morale, tanto per intendersi. I cultori del diritto sostengono da sempre che l' avviso di garanzia, che pure ha stroncato molte carriere di innocenti, dovrebbe essere a tutela dell' indagato. Io inizio a percepirlo come una presunzione d' innocenza e a dubitare dei politici non indagati. È un paradosso, ma dà l' idea di quanto davvero servirebbe l' invocata rivoluzione della giustizia. Pietro Senaldi
"Valutopoli" delle toghe. Il 99% è promosso alle verifiche interne. Il trucco: l'avanzamento di carriera avviene in base all'autovalutazione dell'interessato. Luca Fazzo, Sabato 22/06/2019, su Il Giornale. I vertici - a partire dal Consiglio superiore della magistratura - trafficoni e collusi con la politica. La base - ovvero i novemila magistrati italiani - seri ed onesti, impegnati solo a lavorare in silenzio. È questa la narrazione che sta passando dello scandalo che ha investito la giustizia italiana grazie all'inchiesta della procura di Perugia sul marcio nel Csm. Quadro in larga parte corretto. Ma che non fa i conti con un male cronico della magistratura tricolore: la scomparsa di qualunque forma di meritocrazia all'interno dell'apparato giudiziario, con il sistema delle carriere trasformato in una gigantesca finzione in cui i giudici sono tutti bravi: come se non esistessero anche tra le toghe, come in ogni categoria umana, i fannulloni e gli incapaci. Che questo appiattimento abbia contribuito a imbarbarire il sistema della rappresentanza istituzionale (cioè il Csm) che sindacale (l'Anm) della magistratura italiana è piuttosto ovvio: se il merito non conta nulla, hanno campo aperto le cordate e le capacità di relazione. E che di appiattimento si debba parlare lo dimostrano le statistiche che proprio sul sito del Csm raccontano come funziona il sistema di avanzamento dei magistrati. Un dato su tutti: negli ultimi dieci anni sono stati «promossi» il 98,22 per cento dei magistrati. Una percentuale siderale, che negli ultimi due anni disponibili (il 2015 e il 2016) ha raggiunto picchi ancora più alti: rispettivamente, il 99,56 e il 99,30 per cento. Quale organismo possa sopravvivere a una simile prassi di promozioni indiscriminate è una domanda inevitabile. D'altronde se dalle aride cifre si passa alla lettura dei pareri che accompagnano questi avanzamenti di carriera a volte si rasenta l'effetto comico. Nei giudizi che i capi degli uffici consegnano in vista degli esami, i magistrati appaiono tutti come laboriosi, efficienti, profondi conoscitori della materia di cui si occupano. Anche quando si tratta di capre conclamate. Come diceva Francesco Saverio Borrelli: «Di alcuni mi domando non come abbiano fatto a entrare in magistratura ma come siano riusciti a laurearsi». Questo sistema che rende todos caballeros d'altronde è figlio della cultura sessantottina che - con qualche anno di anticipo - fece irruzione nella magistratura italiana nel 1966, sopprimendo i concorsi interni e consentendo a tutti i giudici indistintamente di progredire nel grado e nello stipendio unicamente in base all'anzianità. Così i palazzi di giustizia si popolarono di consiglieri di corte d'appello che in realtà continuavano a fare i pretori o a indagare sulle rapinette. Nel 2006 il sistema venne solo apparentemente mutato: sette valutazioni di professionalità successive, una ogni quattro anni, affidate al consiglio giudiziario locale. Sulla carta, un controllo costante della qualità dei magistrati, all'insegna del «va avanti solo chi lo merita». Ma le cose sono andate diversamente. I consigli giudiziari decidono sulla base dell'autovalutazione del diretto interessato (che è sempre positiva), e del parere del suo superiore diretto. Che tiene conto della produttività ma anche della disciplina, del conformismo, della piaggeria, e di altri umani mezzi di sopravvivenza. Così si spiega quella surreale percentuale del 99,30 per cento di promossi. Certo, ci sono anche quelli che non ci riescono, che vengono bocciati. Ma si tratta di poche unità all'anno, di casi estremi come il protagonista della storia qua sotto. Che non vengono promossi, ma continuano a fare i giudici.
"Scambia l'avvocato per l'imputato". Ma quel giudice resta al suo posto. Uno dei pochissimi bocciati agli esami lavora a Catanzaro. Non lo cacciano però nessun capo lo vuole nel suo ufficio. Luca Fazzo, Sabato 22/06/2019, su Il Giornale. «Confusione nella individuazione degli imputati e dei difensori, difficoltà nella comprensione dei capi di imputazione»: può un giudice di tale fatta continuare a fare il giudice? Sì, può. Con buona pace dei cittadini cui toccherà in sorte essere giudicati da lui. La storia di A.C., giovane magistrato in servizio in Calabria, dimostra che effettivamente qualche toga viene bocciata al momento della valutazione periodica. Tre giorni fa il Consiglio superiore della magistratura, accogliendo il parere del consiglio giudiziario di Catanzaro, ha rifiutato ad A.C. la prima valutazione di professionalità. Da ora, fa parte di quello zero virgola percento che non passa l'esame. Ma il profilo del giudice che emerge dalle carte autorizza un certo scetticismo sulle sue performance nelle funzioni che comunque continuerà a svolgere. Aveva cominciato già male: appena vinto il concorso, alla Scuola di formazione aveva scritto un sentenza penale «del tutto incompleta», «priva di riferimenti normativi quanto alla condanna e all'assoluzione». Gli avevano prorogato il tirocinio, durante il quale aveva dimostrato «difficoltà nello svolgimento concreto dell'attività giudiziaria»; «sembrano emergere nella personalità del dottor C. elementi che potrebbero dare luogo a criticità nell'esercizio delle funzioni giudiziarie». Ma il consiglio giudiziario di Napoli aveva dato comunque parere favorevole al suo ingresso in servizio, ritenendo che «taluni profili caratteriali che fino a questo momento gli impediscono di svolgere con disinvoltura il mestiere del decidere (...) potranno probabilmente dissolversi con la maturazione». Così A. C. diventa giudice a tutti gli effetti e viene spedito in Calabria. E qui si scopre che le speranze sulla sua «maturazione» sono andate deluse. Lo inseriscono in collegio con altri giudici, per limitare i danni. Ma un paio di volte, per anzianità, gli tocca presiedere le udienze, ed è un disastro: confonde imputati e avvocati, non capisce quali siano le accuse. «Il dottor C. non è apparso in grado di affrontare le problematiche derivanti dalla gestione di un ruolo monocratico o dalla presidenza di un collegio penale». «La conduzione dell'udienza è stata estremamente lenta e caratterizzata da una evidente insicurezza che ha reso necessario l'intervento in ausilio dei giudici a latere», scrive il consiglio giudiziario di Catanzaro. Stress da udienza pubblica? Forse, ma non solo. Perché nel chiuso delle camere di consiglio le cose non vanno molto meglio. «L'insicurezza del magistrato rallenta le camere di consiglio», si legge. «Le difficoltà professionali si sono evidenziate tutte le volte in cui egli è stato chiamato a dare un contributo critico in camera di consiglio, povero di contenuti sugli aggiornamenti e sulle prassi correnti, eccessivamente astratto e per nulla duttile (...) le difficoltà personali si sono evidenziate in costanti ritardi negli orari di inizio delle udienze». Uno dei suoi capi racconta di aver dovuto «diuturnamente» sollecitare A.C. a depositare provvedimenti e sentenze e alla fine ha chiesto che lo spedissero da un'altra parte «essendosi il medesimo dimostrato incapace di rispettare i ritmi e la disciplina del collegio in un ufficio delicatissimo». A essere in discussione non è la preparazione teorica del magistrato, ma un aspetto forse ancor più cruciale: la capacità di calare le norme del diritto nella concretezza del processo, che si traduce in una «significativa difficoltà nel pronto inquadramento dei fatti», impedendo «un rapido approccio alle concrete problematiche processuali, adeguato all'effettiva rilevanza delle questioni». Non sono mancanze da poco. Non possono portare all'allontanamento di A.C. dalla magistratura, e l'unica sanzione possibile così è il mancato avanzamento di carriera. Ma forse se i concorsi per diventare magistrato fossero fatti diversamente, e insieme alla preparazione accademica valutassero la tenuta psicologica, casi del genere sarebbero più rari.
Il 55% degli italiani non crede nei giudici. Il «carrierismo» e il mea culpa nel Csm. Pubblicato venerdì, 21 giugno 2019 da Nando Pagnoncelli e Virginia Piccolillo su Corriere.it. L e opinioni dei cittadini nei confronti della magistratura sono profondamente cambiate negli ultimi anni: come tutte le istituzioni di garanzia (presidenza della repubblica, esercito, forze dell’ordine) la magistratura ha per lungo tempo beneficiato di una grande fiducia. Il consenso toccò picchi elevati quando, negli Anni di piombo, i terroristi e la mafia uccisero diversi magistrati e successivamente ai tempi di Tangentopoli nella quale i magistrati vennero considerati veri e propri eroi popolari in lotta contro le malefatte dei politici. Negli ultimi 25 anni le vicende giudiziarie che coinvolsero Berlusconi radicalizzarono le posizioni: la magistratura quindi veniva vituperata dai supporter del Cavaliere che la accusavano di essere politicizzata, o esaltata dai suoi detrattori; non a caso negli ultimi anni, segnati dal declino politico di Berlusconi, cambiano i criteri di valutazione sulla magistratura che paiono più influenzati dal funzionamento del sistema giudiziario, afflitto da tempi lunghissimi, e da provvedimenti e sentenze giudicate discutibili. Oggi, a seguito della vicenda Palamara-Csm, il consenso per la magistratura segna una ulteriore contrazione: solo un italiano su tre (35%) dichiara di aver fiducia mentre il 55% non ne ha. L’indice di fiducia, calcolato escludendo coloro che non esprimono un giudizio, si attesta a 39, il valore più basso di sempre, in flessione di 8 punti rispetto allo scorso anno e di ben 30 rispetto al picco più elevato raggiunto nel 2011 quando, all’apice della crisi economica e politica che portarono all’avvento del governo tecnico di Mario Monti gli italiani, disillusi rispetto ai partiti, riponevano le loro speranze nelle istituzioni di garanzia. L’attuale indice di fiducia è molto basso tra gli elettori di tutti i partiti — Lega 26, M5S 33, opposizione di centrodestra 35 — con l’eccezione dei dem (61). L’inchiesta giudiziaria che vede coinvolti alcuni membri del Csm ha avuto un’ampia risonanza ed è stata seguita con attenzione dal 26% dei cittadini a cui si aggiunge il 52% che ne ha sentito parlare, quindi solo il 22% ignora il tema. Tra coloro che conoscono l’inchiesta (il 78%), la stragrande maggioranza (61%) ritiene si tratti di un vero e proprio scandalo che potrà minare l’onorabilità e la credibilità della magistratura mentre un’esigua minoranza (17%) tende a ridimensionare la portata della vicenda. L’atteggiamento, allo stesso tempo severo e allarmato, è molto omogeneo tra i diversi elettorati, a conferma dello sconcerto suscitato. Da ultimo, il sondaggio ha considerato le reazioni alle dimissioni del presidente dell’Anm Pasquale Grasso, sostituito da Luca Poniz. Secondo il 34% di chi ha seguito la vicenda, questo avvicendamento evidenzia il desiderio dei magistrati di reagire, il 25% si mostra scettico, ma la maggioranza relativa (41%) non si è fatta un’opinione. Insomma, l’inchiesta ha messo a nudo profonde divisioni all’interno della magistratura, metodi opachi di assegnazione degli incarichi e una prossimità al mondo politico giudicata riprovevole, perché mina alla base il concetto di autonomia dei giudici. Si profila dunque il rischio assai serio di un danno reputazionale che investe l’intera magistratura compromettendo la sua credibilità. Non stupisce quindi la dura presa di posizione del procuratore di Milano, Francesco Greco, che ha preso le distanze dalla vicenda parlando di «logiche romane che hanno lasciato sconcertati e umiliati». Resta il dubbio che in futuro una qualsiasi inchiesta o sentenza che coinvolga uno o più politici possa essere screditata e considerata dall’opinione pubblica come una indebita competizione, finalizzata unicamente alla gestione del potere. Sarebbe un colpo ferale allo Stato di diritto.
Credere nella giustizia – Ripensandoci. Il 22 febbraio scorso nell’articolo “Credere nella giustizia” mi mostravo scettico verso la risoluta e incorruttibile fede nel potere giudiziario strombettata dai politici Urbi et Orbi. Ripensandoci, per alcuni non era affatto mal riposta. A giudicare dal caso Lotti-Palamara, infatti, ora capisco perché gli affiliati al Partito Democratico nutrivano così tanta fiducia nei magistrati!
Giustizia, e la chiamano Legge. Perché troppe volte i magistrati sembrano dalla parte del colpevole e non del cittadino? Come si fa ad averi fiducia in questa Giustizia? Mario Giordano il 21 giugno 2019 su Panorama. Avete presente quel video del nigeriano che picchia, senza motivo, un portantino nella sala d’aspetto di un ospedale? È successo a Roma, al Policlinico Umberto I. Ebbene quel signore (si fa per dire) di nome Aluke Okecku è un pregiudicato, con precedenti per violenza sessuale, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni gravi. Viene scarcerato il 31 maggio. Siccome ha un ordine di espulsione che gli pende sul capo, i carabinieri lo caricano su un’auto per accompagnarlo in un Cpr, Centro per il rimpatrio. Ma durante il tragitto lui li aggredisce a morsi e pugni. Viene arrestato. In cella fa il matto per tutta la notte. Al mattino lo portano in tribunale, processo per direttissima. Nonostante le richieste del pubblico ministero, il giudice decide di scarcerarlo. Conferma l’arresto, ma dice che «la custodia cautelare non appare adeguata alle sue condizioni». Alle condizioni di chi? Di un pregiudicato che appena uscito dal carcere aggredisce i carabinieri? E dà segni di squilibrio? Niente da fare. Scarcerato. Così il nigeriano esce, va al Policlinico, aggredisce il portantino (come da video), poi scappa, gira indisturbato quattro giorni per la Capitale e aggredisce un’altra ragazza alla stazione Termini. Poi viene nuovamente arrestato. Domanda: scommettiamo che presto tornerà di nuovo libero? È difficile oggi avere fiducia nella magistratura. Il giudice di Roma che ha scarcerato questo brav’uomo di nigeriano, non contento dell’impresa, ha pure chiesto un’indagine sui carabinieri. Magari non sono stati troppo delicati nel caricarlo in auto. Magari non gli hanno steso sotto i piedi un tappeto rosso. Possibile? Un pregiudicato, clandestino, che aggredisce chiunque gli capiti a tiro, viene protetto e lasciato libero dalla nostra giustizia. I carabinieri, invece, finiscono indagati. Ogni giorno, ha raccontato il quotidiano La Verità, sette agenti vengono aggrediti da immigrati fuori controllo. «Alla fine però» si lamentano loro «i magistrati anziché difenderci ci mettono alla sbarra». È difficile oggi avere fiducia nella magistratura. Nelle stesse ore in cui il nigeriano pregiudicato aggrediva il portantino a Roma, un tunisino, anche lui pregiudicato, assai noto nel quartiere, aggrediva e feriva due agenti a Padova. Erano intervenuti per fermarlo mentre seminava il panico tra i passanti. Portato in tribunale, è stato processato per direttissima. È stato subito lasciato libero. Ed era stato lasciato libero anche Giacomo Oldrati, 40 anni, detto il «guru del corallo»: usava la droga (corallo) per stordire le ragazze e violentarle. Arrestato per sequestro di persona, tentato omicidio e violenza sessuale è stato assolto perché «incapace di intendere e di volere». Lui ha ringraziato continuando a fare quello che sa fare: ha seviziato per quattro giorni una ragazza, rinchiudendola in casa. Lei si è salvata fuggendo nuda dal balcone. La notizia ha fatto il giro dei telegiornali. È difficile oggi avere fiducia nella magistratura. Ad Albano Laziale un pregiudicato, con precedenti per droga, minacce, lesioni e abusi su minori, già arrestato e poi liberato a dicembre, ha pensato di celebrare la festa della Repubblica a modo suo. Ha tentato di sequestrare una bambina di 9 anni che girava con la bicicletta al parco. Voleva violentarla. La nonna si è messa a gridare, sono intervenuti dei passanti che l’hanno bloccato. Arrestato, portato davanti al giudice, è stato subito rilasciato. Del resto uno che ha precedenti per abusi sui minori e tenta di violentare un bimba di 9 anni per quale motivo deve restare in cella? Prego, pedofilo, torni libero e ci faccia vedere cosa sa combinare…È difficile oggi avere fiducia nella magistratura. Sono giorni che sentiamo parlare di mercato delle toghe, mercato delle vacche, scambi di favori, riunioni notturne per spartirsi le Procure, trame nascoste, inciuci vergognosi. Abbiamo visto politici (come l’ex ministro Luca Lotti, già braccio destro di Matteo Renzi) metter becco nelle nomine dei giudici che avrebbero dovuto giudicarli. Abbiamo sentito di regali, anelli, viaggi premio e biglietti allo stadio usati come merce di scambio per quella che una volta si chiamava giustizia. E mentre succedeva tutto ciò, ci è toccato raccontare di delinquenti sempre più impuniti che girano a spasso per le nostre città, processati e rilasciati, secondo la legge per carità, ma con grave pregiudizio per la certezza della pena. E per la serenità dei cittadini. I magistrati non ce ne vogliamo. Ma l’impressione inevitabile, in questi giorni, è che essi siano molto più pronti a difendere le loro cadreghe che a difendere i cittadini. E così resta terribilmente difficile aver fiducia in loro.
· Dal Dna il volto dell'assassino.
Dal Dna il volto dell'assassino. Sono ora a disposizione del Ris, il reparto delle investigazioni scientifiche dei Carabinieri, metodi che permettono di risalire dal Dna lasciato sulla scena del crimine all'identikit del presunto assassino. Luca Sciortino il 12 dicembre 2019 su Panorama. Se l’assassino mente, il Dna dice la verità. Decifrarla è stato da sempre un obiettivo difficile da raggiungere, ma oggi la genetica forense è entrata in una fase decisiva. La possibilità di predire le fattezze fisiche del viso e la provenienza etno-geografica di un presunto colpevole sulla base delle tracce del Dna lasciate sul luogo del delitto è ormai concreta. Si stanno sperimentando diversi metodi, tra i quali il cosiddetto “Dna Phenotyping”, che mira a un identikit il più possibile preciso sulla base delle informazioni genetiche, in previsione di una possibile futura applicazione nei kit a disposizione delle forze di polizia di molti Paesi, e in particolare dei reparti del RIS, il reparto di investigazioni dell’Arma dei Carabinieri deputato a svolgere accertamenti tecnico-scientifici. Da molti anni, l’identificazione di un presunto colpevole viene fatta comparando le informazioni ricavate dal materiale genetico trovato sul luogo del delitto con quelle di un possibile sospettato o di soggetti presenti nella Banca Dati Nazionale del DNA. Vi sono infatti nel genoma alcune sequenze ripetute per un numero di volte che varia da individuo a individuo e che possono essere utilizzate per identificare un colpevole.
Anche se questo metodo resterà un punto di riferimento nella ricerca, i suoi limiti sono evidenti: se il presunto colpevole non è già conosciuto dagli investigatori, o se il suo profilo del DNA non è mai stato censito, il metodo della comparazione del Dna è un’arma spuntata. Il Maggiore Filippo Barni, biologo della Sezione di Biologia Forense del Reparto Investigazioni Scientifiche (RIS) di Roma, dice: “Ci sono due importantissimi sviluppi nella ricerca genetica forense che già oggi permettono di facilitare le indagini. Il primo è frutto di una ricerca condotta in collaborazione tra RIS di Roma, il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie "Charles Darwin" della Sapienza Università di Roma e il Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Torino che sarà a breve pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Forensic Science International: Genetics e che, rispetto ai sistemi commerciali attualmente a disposizione, è in grado di migliorare notevolmente l’accuratezza di predizione dell’origine etnica e geografica di un individuo fino ad un livello di oltre il 90%.Per fare un esempio: riusciamo a sapere se una traccia di Dna appartiene a una persona originaria dell’Europa dell’est o del sud o se viene dal nord Africa o se è asiatico». L’individuazione della discendenza etnica e dell’origine geografica con questo metodo si basa sulla cosiddetta “analisi statistica multivariata” che viene effettuata – e questo è un ulteriore grande vantaggio di questo approccio – utilizzando i dati di tipizzazione del DNA comunemente impiegati nella identificazione personale. Si cerca, in particolare, di valutare le differenze tra le strutture genetiche esistenti tra popolazioni “diverse”, cioè che appartengono a differenti etnie ed origini biogeografiche, per poter predire a quale di questi gruppi appartenga un individuo ignoto il cui DNA è stato rilevato sulla scena di un crimine. È evidente che tanto maggiori saranno le differenze genetiche tra popolazioni, quanto più sarà possibile predire la provenienza di un individuo. Popolazioni molto divergenti tra loro in termini genetici (ad es. le popolazioni africane sub-sahariane, le popolazioni asiatiche, etc.) consentiranno una risoluzione ed una attendibilità di classificazione molto migliore rispetto a popolazioni che si sono “geneticamente mescolate” tra di loro oppure differenziate in tempi recenti. «Un secondo importante sviluppo della ricerca genetica forense riguarda il phenotyping, una nuova tecnica che ci consente di predire il colore degli occhi, della pelle e dei capelli» aggiunge il Maggiore Barni che precisa «questa stessa tecnica permetterà a breve di risalire ad altre caratteristiche come la morfologia dei capelli (ricci o lisci), la presenza di calvizie e di lentiggini, la stima dell’altezza, e nei prossimi anni, a caratteristiche cranio-facciali come la forma del viso, del naso e della bocca». Alcune di queste caratteristiche antroposomatiche sono attualmente già analizzabili mediante sistemi di analisi prodotti da diverse aziende straniere, come la Thermo Fisher Scientific o la Illumina, che produrranno presto versioni più evolute. « Il kit che permette l’attribuzione etno-geograficae il colore degli occhi e dei capelli è in nostro possesso da pochissimo e, vista la complessità e l’onerosità di tale approccio, potrà essere usato in casi giudiziari solo dietro esplicita richiesta delle autorità competenti» conclude il Maggiore Barni. Uno dei biologi che ha collaborato allo studio degli scienziati del RIS, Fulvio Cruciani, professore della Sapienza nel Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin”, spiega:« Il punto chiave di queste ricerche risiede nel fatto che gran parte della variazione fenotipica umana è determinata geneticamente. In particolare, la diversità dei caratteri visibili dipende principalmente da polimorfismi per singolo nucleotide, ovvero delle variazioni di una singola unità della catena del Dna. Analizzando specifici polimorfismi del Dna è quindi possibile dedurre i tratti somatici di un ignoto a partire da un qualsiasi reperto forense». Il problema è che la genetica non determina totalmente le caratteristiche fisiche di un individuo, in quanto queste sono modulate anche da fattori ambientali. Per esempio, l’altezza raggiunta in età adulta è influenzata dall’alimentazione, lo stress e altri fattori ambientali. «Quindi la tecnica del phenotyping è molto precisa per quelle caratteristiche, come il colore degli occhi, che non dipendono dall’ambiente e meno precisa per quelle caratteristiche come l’altezza, dove la predizione è complicata sia dal numero elevato di geni coinvolti che dalle influenze ambientali. Il colore dell’iride oggi può essere predetto con un’accuratezza maggiore del 93 per cento, mentre siamo molto lontani dal riuscire a predire anche in modo approssimativo un carattere complesso come l’altezza» conclude Cruciani. Per comprendere quanto queste nuove ricerche potranno essere utili, se accoppiate a quelle di comparazione già in uso, si può citare un episodio avvenuto nella contea inglese del Leicestershire, nel 1983, quando in una zona isolata fu ritrovato il corpo di una giovane donna di nome Lynda Mann. Dalle analisi del liquido seminale ritrovato e analizzato con le tecniche allora disponibili si comprese che poteva appartenere al 10 per cento della popolazione. Il caso rimase irrisolto finché un’altra ragazza coetanea di Lynda fu uccisa e non fu ritrovato lo stesso Dna sul luogo del reato. Nel frattempo un diciassettenne del luogo si dichiarò colpevole, ma la comparazione dei due Dna rivelò che si trattava di un mitomane. A quel punto, data la gravità del caso, le autorità decisero di prelevare un campione di sangue a circa cinquemila uomini residenti nella contea. Purtroppo, nonostante l’enorme dispendio di denaro ed energia, il profilo genetico dell’omicida era diverso da tutti quelli prelevati. Il caso sembrava ormai irrisolto quado nel 1987 ci fu la svolta nelle indagini: un tale si vantò di aver accettato duecento sterline da un amico, Colin Pitchfork, uomo sposato e con figli al di sopra di ogni sospetto, per fornire al suo posto un campione di sangue. Le analisi comparative del Dna identificarono Pitchfork come l’assassino, che fu poi condannato all’ergastolo per duplice omicidio aggravato. Questa storia insegna che, quando le informazioni genetiche del colpevole non possono essere comparate con altre disponibili nella banca dati dei sospetti, solo un colpo di fortuna può talvolta aiutare gli inquirenti. In questi casi, sapere che un individuo ha, per esempio, occhi azzurri, pelle chiara, lentiggini, calvizie, capelli ricci e altezza di uno e novanta, può essere una discriminante importante per concentrare le analisi degli investigatori laddove sia necessario. Metodi della genetica piuttosto simili stanno dando risultati eccellenti nella ricostruzione delle origini evolutive della nostra specie. Qualche anno fa uno studio su Science ha determinato le caratteristiche somatiche di due individui Homo neanderthalensis analizzando un loro gene e ha stabilito che avevano pelle chiara e capelli rossi, caratteristiche molto divergenti dalle nostre. Un ulteriore indizio che non ci siamo evoluti dagli uomini di Neanderthal. Insomma questi ultimi sono solo nostri cugini. Ma ancora più eclatante è il caso di Homo di Denisova, un gruppo di umani vissuto circa 40mila anni fa di cui è stato ricostruito il volto con una tecnica che, sebbene diversa dal phenotyping, pur sempre indaga quali geni sono espressi in un reperto di Dna antico. Queste stesse ricerche testimoniano come sia possibile trovare Dna ancora non deteriorato, quando le condizioni ambientali lo permettono, dopo migliaia di anni permettendo così importanti conclusioni. Un monito per tutti quelli che criticano le ricostruzioni sulla base del Dna nei delitti che hanno recentemente acceso il dibattito sui media. Dai casi del delitto dell’Olgiata fino a quelli di Yara Gambirasio a Chiara Poggi e molti altri, in tutti questi casi sono state inflitte condanne anche sulla base dei tradizionali accertamenti di tipizzazione del DNA. Ma altri delitti aspettano una soluzione. È lecito supporre che nel futuro sarà sempre più difficile sfuggire alla maglia degli inquirenti.
· Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito.
Traffico di influenze illecite, quel reato scivoloso e indefinito. Giulia Merlo il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. La prima vittima eccellente fu la ministra Guidi e a chiederne la testa fu l’allora premier Renzi che oggi “subisce” la stessa sorte. All’origine dell’ipotesi accusatoria dei magistrati fiorentini contro i membri del Cda di Open c’è una delle fattispecie penali più scivolose tra quelle introdotte nel recente passato. Il reato, rubricato all’articolo 346 bis del codice penale come “traffico di influenze illecite”, è stato previsto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, passata alle cronache come legge Severino, dal nome della ministra della Giustizia dell’allora governo Monti. L’articolo punisce chi, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Per esempio, è il caso del cosiddetto “faccendiere” che, sfruttando in modo illecito la sua conoscenza con un pubblico ufficiale, si faccia promettere o dare del denaro da un privato con la promessa di intercedere illecitamente in favore del privato stesso. Si tratta di un reato con natura finalistica, che punta alla tutela anticipatoria dalle attività preparatorie della corruzione, perché punisce l’intermediario prima ancora che si perfezioni un accordo corruttivo. Sin dalla sua introduzione, il reato è stato oggetto di critiche, a causa dell’eccessiva indeterminatezza del confine tra traffico di influenze illecite e attività lecita di lobbying (volta a “influenzare” un politico nelle sue scelte legislative). Non solo. A complicare ulteriormente l’applicazione della fattispecie è il fatto che essa esclude la presenza di corruzione ( in quel caso, il reato di traffico di influenze illecite viene sussunto) e dunque ad essere punita è la promessa, poiché il denaro o l’utilità consegnata al mediatore perché corrompa il funzionario pubblico non deve essere stata effettivamente consegnata e nemmeno promessa. «E’ un reato dalla consistenza criminosa inafferrabile», è stata la definizione data dal professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, Tullio Padovani. La ragione è che la condotta del mediatore, per essere penalmente illecita, deve essere svolta in maniera “indebita”. Tuttavia nel nostro ordinamento manca una legge che chiarisca nel dettaglio cosa sia la mediazione ( compresa la sua variante illegale). Dunque, lascia enormi spazi di discrezionalità al magistrato. Inoltre, un secondo elemento di indeterminatezza è dato dal fatto che, per non sfociare nella fattispecie corruttiva, il denaro fornito al mediatore non deve essere consegnato al pubblico ufficiale. Si tratta dunque di una attività solo preparatoria e la finalità corruttiva da stabilire è di fatto solo nella mente del mediatore, dunque molto difficile da dimostrare. Proprio a causa di questa indefinitezza, il reato di traffico di influenze illecite ha trovato scarso utilizzo. Lo è stato, tuttavia, in alcuni casi giudiziari molto noti perché hanno coinvolto la politica. E’ stato il caso dell’imprenditore Gianluca Gemelli, indagato per traffico di influenze illecite per aver fatto pressione sulla compagna, la ministra Federica Guidi ( poi dimessasi), affiché inserisse nella legge di Stabilità del 2015 un emendamento che sbloccava il progetto petrolifero Tempa Rossa, in cambio di un subappalto. Più recentemente, anche Tiziano Renzi è stato indagato per lo stesso reato, perché un suo ex socio Luigi Dagostino gli aveva chiesto di fissare un appuntamento per il pm Antonio Savasta ( titolare di un’inchiesta su Dagostino per false fatture) con l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti. Nel caso Open, ad essere indagato per traffico di influenze illecite è l’avvocato Alberto Bianchi, vicino a Matteo Renzi ed ex presidente della Fondazione. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe un versamento di denaro a Open di circa 700mila euro, denaro che Bianchi avrebbe incassato dalla holding Toto e che l’avvocato ha giustificato come compenso professionale.
· La condanna degli innocenti. Se il pm sbaglia viene punito: ecco la svolta sulla giustizia.
Rapporto Censis: «Gli italiani hanno paura degli errori giudiziari». Simona Musco il 4 ottobre 2019 su Il Dubbio. Dall’analisi dell’istituto di ricerca emerge anche che per l’avvocatura i redditi sono bassi anche se giovani e donne credono nella professione. Il pessimismo che aveva caratterizzato il primo rapporto Censis sull’avvocatura sembra essere superato. E anche se il reddito medio della professione è in calo, con un livello di variazione che riflette il ciclo economico degli ultimi 20 anni, ci sono piccoli miglioramenti per donne e giovani, tanto da portare il mondo forense ad essere ottimista. Questo è emerso ieri nel corso della presentazione del quarto rapporto sull’avvocatura italiana, realizzato dal Censis per Cassa Forense, presentato da Giorgio De Rita, segretario generale dell’istituto di ricerca e Andrea Toma, che hanno discusso del tema con Nunzio Luciano, presidente della Cassa forense, e con i vertici delle associazioni dell’avvocatura, tra i quali Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, e Giovanni Malinconico, presidente dell’Organismo congressuale forense. Il dibattito è stato aperto da un messaggio del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che nel definire l’avvocatura «un interlocutore privilegiato e irrinunciabile» sui temi centrali di riforma, ha ribadito la volontà di portare a termine il processo avviato dal Cnf per l’inserimento dell’avvocato in Costituzione. La professione forense, ha affermato va «scolpita nella Costituzione, ricevendo così il doveroso riconoscimento». Ma il ministro ha anche espresso preoccupazione per la progressiva riduzione della capacità reddituale degli avvocati. L’avvocato in Costituzione, ha sottolineato Mascherin, prevede due passaggi fondamentali. «Serve una tutela costituzionale della riserva della giurisdizione dell’avvocato – ha sottolineato – inserendo in Costituzione che l’articolo 24 viene effettivamente realizzato attraverso l’avvocato. E poi va sancito il principio di autonomia, libertà e indipendenza, che non è astratto, ma garantisce tutta una serie di normative anche a livello ordinario». Nel 2019, ha sottolineato Luciano, sono stati stanziati oltre 67 milioni di euro che consentiranno di offrire «misure a sostegno della professione». Il rapporto, ha spiegato De Rita, ha coinvolto oltre 10mila professionisti, tra i quali quasi il 30 per cento ha dichiarato un fatturato in crescita nel 2018 rispetto all’anno precedente, mentre il 35,6 per cento ha subito un ridimensionamento. Tra le professioniste la condizione di stabilità o di miglioramento riguarda il 65,9 per cento. Il fatturato è salito soprattutto per gli avvocati che esercitano da meno tempo o più giovani. E per i prossimi due anni, il 31 percento prevede un miglioramento dell’attività, mentre il 42,1 per cento è più prudente, prevedendo stabilità. Sul tema delle tecnologie digitali, per il 62,6 per cento non sarebbe realistico uno scenario di progressiva sostituzione delle funzioni da parte di algoritmi e piattaforme, guardando invece alle opportunità che possono venire dalle tecnologie digitali. «Occorre senso critico – ha sottolineato Malinconico – La tecnologia è in grado di cambiare l’esercizio della giurisdizione. Ma l’intelligenza artificiale non deve sostituire il ruolo di mediazione che il professionista svolge nella società, ma integrare e supportare il suo operato». E in tema di riforme, ha aggiunto, il problema è la tendenza a mettere mano alla giurisdizione sulla base di impulsi di pancia. «Le riforme ha evidenziato – andrebbero fatte su base strutturale». Ma servono soprattutto «investimenti economici», ha evidenziato Mascherin. Per il presidente dell’Aiga, Alberto Vermiglio, l’avvocatura deve inoltre recuperare il proprio dinamismo. «È necessario avere competenze specialistiche». Dall’indagine è emerso inoltre che per sei italiani su dieci il problema principale della giustizia è la durata del processo. Solo per un terzo la prescrizione costituisce un problema, diventando sinonimo di «impunità». Ma la riforma della prescrizione, ha sottolineato Luciano, rischia di allungare ulteriormente i tempi dei processi. «Il rapporto Censis restituisce una realtà composita: a fronte di un progressivo calo di iscrizioni e redditi, si registra un aumento dell’indice di fiducia. Il dato mi fa pensare che abbiamo dunque metabolizzato la difficoltà e stiano imparando a gestirla con consapevolezza», ha commentato il Presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo. Dall’indagine è emersa anche una sorta di autocoscienza degli italiani, che ammettono una scarsa educazione alla civiltà. Che si manifesta con il rancore, dovuto ad una visione della giustizia come sistema che favorisce ricchi, privilegiati e spregiudicati. Ma la paura più grande, per il 57,4 per cento degli intervistati, è il rischio di incorrere in un errore giudiziario o di essere coinvolto in un’indagine pur essendo totalmente estraneo ai fatti ( 42 per cento), in un sistema giustizia percepito come «troppo benevolo» con politici «corrotti». Una percezione falsata, però, dalla risonanza mediatica data agli avvisi di garanzia.
Dal cuore della Sicilia parte la battaglia contro l’ingiusta detenzione. Via al progetto della Camera penale nissena. Simona Musco il 14 Settembre 2019 su Il Dubbio. Parte da Caltanissetta la battaglia contro gli errori giudiziari, con l’apertura del primo sportello in Italia per i “perseguitati” dalla giustizia. Uno sportello che è stato presentato ieri, durante il convegno organizzato dalla Camera penale guidata da Sergio Iacona nel corso del convegno dal titolo “Confronto sul Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo” – al quale era presente anche il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza – e che rappresenta la prima prova pratica delle direttive dell’Osservatorio per l’errore giudiziario istituito dall’Unione delle Camere penali. Chiunque si ritenga vittima di errore giudiziario, dunque, potrà rivolgersi alla Camera penale, che effettuerà un’azione di filtro, vagliando le segnalazioni e prendendo in esame quelle fondate, per poi inoltrarle ad un difensore. Ma la parte più importante dell’iniziativa, spiega Iacona al Dubbio, riguarda la trasmissione dei dati all’osservatorio nazionale, che grazie a questa raccolta sul territorio stilerà un dossier sui gradi di giudizio maggiormente interessati dagli errori, le materie e i motivi per cui si verificano. Una raccolta che farà poi da base per la redazione di proposte per prevenire gli errori giudiziari. Durante il convegno si è parlato di giusto processo, un argomento quasi ignorato dall’opinione pubblica, sempre alla ricerca di un colpevole da sottoporre alla gogna. «La necessità di un manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo nasce proprio dal diffondersi del populismo – spiega Iacona Denunciamo una deriva che dura da più di 20 anni e che ha visto progressivamente una serie di provvedimenti che hanno fatto arretrare le garanzie. E ora siamo particolarmente preoccupati, perché sono molto forti nell’opinione pubblica movimenti e partiti che raccolgono le pulsioni giustizialiste e forcaiole della gente». Si parte, dunque, dall’esperienza quotidiana di una giustizia che ha perso la propria ragione d’essere, un’involuzione, sottolinea il presidente, che si accompagna all’affermarsi di forze politiche «che hanno per noi una concezione della giustizia allarmante». Il problema nasce dunque dall’antico e tragico conflitto tra politica e giustizia. «Una cattiva giustizia nasce dall’arretramento della politica e dalla funzione di supplenza che la magistratura nel corso degli anni ha svolto. Noi guardiamo con preoccupazione al fatto che la separazione dei poteri è diventata sempre più labile – sottolinea – Non è normale che il ministero sia pieno di magistrati distaccati e che il Csm e l’Anm funzionano di concerto come una terza camera. E le proposte di legge, quando vanno verso un maggiore garantismo, vengono avversate». Una prima soluzione può essere un ritorno ad una normazione pienamente parlamentare, evitando il ricorso continuo a decreti legge e decreti legislativi, «che di fatto vanificano i dibattiti parlamentari». E a ciò si dovrebbe aggiungere un maggiore spazio da assegnare, in sede di elaborazione di proposte di legge, «ai pareri dell’avvocatura, che deve avere maggiore spazio in Costituzione», nonché a quelli del mondo accademico. «Oggi, però – aggiunge Iacona – lo strapotere è della magistratura». Ma tra i mali che inquinano la giustizia e la sua percezione ci sono anche i social, che fungono da megafono alla tendenza giustizialista. «Il concetto che ogni opinione è equiparabile alle altre è sbagliata – sottolinea il presidente – I social sono moltiplicatori di odio e luoghi dove si fomentano pulsioni giustizialiste. Ho visto con orrore che anche alcuni avvocati si espongono sul web a commentare fatti di cronaca in maniera non consona». È necessario, dunque, «normare i social» e selezionare la qualità delle notizie, combattendo in maniera istituzionale le fake news. L’altro aspetto della medaglia è l’ingiusta detenzione, da combattere con l’ampliamento delle garanzie della difesa e il potenziamento della cultura della terzietà. «Il giudice deve davvero essere terzo e curare la propria formazione e il proprio aggiornamento. Gli errori non li fanno i pm ma i giudici quando non sono sufficientemente terzi – sottolinea Iacona – Poi bisognerebbe rendere davvero operativo un sistema di riparazione dell’ingiusta detenzione, che in Italia esiste solo a livello ipotetico, perché sono sempre di meno le domande che vengono accolte». In fase di indagine, invece, serve un rafforzamento delle garanzie. «C’è tutta una fase iniziale dalla quale la difesa è esclusa», evidenzia l’avvocato. Che punta anche il dito contro il connubio, spesso esplosivo, tra stampa e magistratura. «Negli anni scorsi c’è stato un cortocircuito mediatico- giudiziario, che in parte continua ancora oggi», sottolinea. Un problema di cultura civica, quindi anche politica, da implementare con iniziative nelle scuole sulla legalità. «Ma devono essere invitati anche gli avvocati – conclude Iacona – perché bisogna spiegare ai ragazzi che, in uno Stato di diritto, la prima esigenza è non condannare un innocente».
La condanna degli innocenti. Un milione e mezzo di persone attende 4 anni per poi essere assolta. L’orrore della non-giustizia illiberale. Alessandro Barbano il 3 Febbraio 2019 su Il Foglio. Immaginate di restare quattro anni sotto inchiesta, e magari di averne trascorsi una parte in carcere o agli arresti domiciliari, di avere perso il lavoro e di aver sconvolto la vostra famiglia e i vostri affetti, e alla fine di questo calvario di essere stati assolti. Poi moltiplicate ciò che avete immaginato accadesse a voi per un milione e mezzo di persone. E avrete la percezione corretta di ciò che avviene in Italia. La notizia l’ha data il presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un imputato ogni tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico. Aggiungete le assoluzioni in appello e in Cassazione, e proiettate, come ha fatto l’alto magistrato, questo dato su scala nazionale per un decennio. Avrete la cifra monstre di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, pur essendo innocenti, che attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che coincide con una persecuzione. Una visione giudiziaria della democrazia, che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile. Ora immaginate che la notizia sia del tutto ignorata dalla stampa e dalle tv italiane, fatta eccezione per il Corriere della Sera, che la riporta in un articolo di Luigi Ferrarella solo a pagina 21, in un’edizione, quella di domenica scorsa, aperta in prima pagina dall’ultimatum della Ue a Maduro e dalla divisione del governo italiano sul destino del regime illiberale venezuelano. E chiedetevi, da ultimo, se non abbiamo, noi italiani e le nostre élite che ci rappresentano e ci raccontano, due occhi e due misure per la libertà. Si dirà: vuoi mettere a confronto una dittatura feroce con una democrazia? Il paragone certamente non regge. Ma proprio perché la nostra civiltà democratica origina oltre due secoli fa nel pensiero di patrioti liberali come Cesare Beccaria, non dovremmo ignorare l’orrore che si nasconde in certi angoli oscuri delle democrazie. Perché di orrore si tratta. Un immenso carico di dolore, privazioni, lutti, ferite tra le famiglie e le generazioni, che si infligge per mano dello Stato. E che produce frustrazione, rabbia, desiderio di vendetta e contribuisce ad avvelenare ancora di più il clima di una comunità già esasperata da un declino economico e civile che si trascina ormai da decenni. La prima cosa da fare è chiedersi perché abbiamo, del nostro paese, un racconto rovesciato. Perché ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi indebiti, inutili e ingiusti superano il cinquanta. Vuol dire che noi tutti, cittadini ed élite, abbiamo fatto nostra una visione giudiziaria della democrazia, che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile. Ma vuol dire anche che questo controllo delegato rappresenta ormai per una parte della magistratura il fine in grado di giustificare qualunque mezzo, in nome di una visione per così dire sostanzialista. Così, se la pubblica accusa istruisce processi che in un caso su due sono diretti contro persone innocenti, la circostanza non suscita particolare turbamento. Di fronte a dati tanto drammatici, una parte dei pm pensa e dice senza pudore che il processo è lo spazio civile necessario ad acclarare l’innocenza del cittadino. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che fuori dal processo siamo tutti presunti colpevoli. Mi viene in mente a tal proposito una singolare risposta di un magistrato della procura di Napoli. Era scattata, qualche anno fa, un’inchiesta denominata Affittopoli, che aveva portato in carcere e agli arresti domiciliari una sessantina di professionisti e amministratori cittadini. Ma dopo un mese di detenzione il Tribunale del Riesame aveva revocato i nove decimi dei provvedimenti cautelari richiesti dalla procura e autorizzati dal gip, sostenendone la pressoché totale infondatezza. Al giornalista che gli chiedeva conto di quella macroscopica smentita, il magistrato rispondeva che si trattava della “normale dialettica tra pubblica accusa e giudici di garanzia”. L’orrore alligna e prospera dietro e dentro simili risposte burocratiche. Perché niente quanto la burocrazia è in grado di operare una scissione tra il piano delle idee e quello della realtà, facendo precipitare le persone coinvolte nel crepaccio aperto da questa frattura. Purtroppo questo approccio non è isolato. Lo dicono i numeri, a volerli ascoltare. Quelli della Corte d’Appello di Milano raccontano di 121 mila fascicoli di indagini preliminari che sono rimasti aperti per oltre due anni e che, secondo l’ultima riforma del processo penale varata dal governo Gentiloni, dovrebbero essere avocati dalla Procura generale. Sennonché la Procura generale non ha i mezzi per surrogare i magistrati inadempienti. E questo può voler dire molte cose, a seconda dell’angolazione con cui si guarda al problema. La prima è che i magistrati sono pochi. Certamente è vero, ed è quasi un miracolo che, come sostiene il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, si raggiunga qualche risultato nelle condizioni date. La seconda è che non è colpa della prescrizione se i processi non si celebrano. Ma piuttosto, come ammette la presidente della corte d’Appello di Milano, Marina Tavassi, “i processi non si fanno per innumerevoli ragioni e, quindi, si prescrivono”. La terza è che in quel crepaccio che si apre tra le regole della legge e la prassi sono cadute almeno 121 mila persone, ma in realtà molte di più, se si considera che alcune inchieste riguardano decine di indagati. Da questa ultima angolazione la questione assume un significato diverso, e forse più ampio. Se anche i magistrati inquirenti fossero incrementati del 20 o del 30 per cento, non resterebbe forse un numero insostenibile di innocenti, condannati insieme con le loro famiglie a un’attesa straziante? La dimensione dell’orrore non è quantitativa, ma qualitativa. Riguarda l’idea che il processo sia una circostanza normale, e non piuttosto eccezionale, della democrazia. Per comprendere quanto questa prospettiva sia deviante si deve parlare con i figli degli indagati e dei processati innocenti, le vittime ultime della giustizia. L’ampiezza del dolore da loro patito dimostra quanto invasivo possa risultare l’esercizio dell’azione penale, in nome di quel popolo assunto di questi tempi come fattore legittimante di ogni regressione civile.
Ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi ingiusti superano il cinquanta. Una giustizia che ascoltasse davvero le persone, di cui il popolo è fatto, rispolvererebbe dagli archivi del Palazzo di giustizia di Roma la circolare che lo stesso procuratore Pignatone inviò due anni fa ai suoi sostituti, ammonendoli affinché l’iscrizione di una persona nel registro degli indagati non fosse un atto automatico, rispetto a una denuncia, né tantomeno un atto sempre dovuto, ma presupponesse l’accertamento di “specifici elementi indizianti”. La circolare non sortì nei fatti alcun un effetto pratico, ma smascherò indirettamente, e forse involontariamente, l’ipocrisia di un sistema per metà accusatorio e per metà inquisitorio, che ha nel ruolo del pm il simbolo della sua contraddizione. Le fa eco due anni dopo la denuncia del presidente del Tribunale di Torino. Quando propone l’abolizione dell’udienza preliminare e l’obbligo per i pm di “esercitare l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee a convincere il giudice della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”, l’alto magistrato non fa che invocare un rimedio inquisitorio che rimetta, in capo alla pubblica accusa, la titolarità e insieme la responsabilità di decidere sul processo dell’indagato. Né Pignatone, né Terzi dimostrano di avere la soluzione in tasca per guarire un sistema così confuso e così illiberale, ma l’inadeguatezza dei rimedi da entrambi suggeriti mostra quanto sia difficile pretendere che il pm sia contemporaneamente parte e terzo, sia capace di avviare tempestivamente l’azione penale in nome della sua obbligatorietà e allo stesso tempo valuti con prudenza e senza pregiudizio gli indizi nei confronti dei possibili soggetti da indagare, cercando poi allo stesso modo le prove a loro carico e a loro discarico. E da ultimo li porti a giudizio solo quando sia certo di poter provare la loro colpevolezza. Significa chiedere alla pubblica accusa più di ciò che un magistrato inquirente, per esperto ed equilibrato che sia, possa dare. Significa, ancora, prendere atto che il filtro di terzietà del gip e dell’udienza preliminare è del tutto insufficiente rispetto alla complessità del dramma processuale, e soprattutto personale, che in quella sede si compie. Che poi è la causa per cui a un esercito di innocenti, già passati attraverso il calvario e, spesso, la gogna di due anni di indagini preliminari, viene inflitta la condanna anticipata e aggiuntiva di un processo lungo oltre ogni ragionevole limite.
Pignatone chiese che l’iscrizione nel registro degli indagati non fosse un atto automatico, ma basata su “specifici elementi indizianti”. Il fatto che alcuni magistrati giudicanti inizino a denunciare quest’orrore è segno che, timidamente, qualcosa si muove nel sonno consueto di un corpo dello Stato abituatosi a delegare a una minoranza militante la sua rappresentanza. Ma per ribaltare il racconto di una giustizia feroce bisognerebbe avere il coraggio di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, limitare l’abuso della custodia cautelare, riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia fondata sul sospetto e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische e, da ultimo, ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando, riducendo i tempi dei processi e aumentando le garanzie della difesa. E’ l’esatto contrario di ciò che si propone di fare il governo gialloverde e la maggioranza che lo sostiene e che ha già approvato, con effetto dal 2020, lo stop alla prescrizione sine die dopo il giudizio di primo grado. Vuol dire negare a quei perseguitati per quattro anni l’unica via d’uscita che restava loro per sottrarsi al calvario. E’ la giustizia dei presunti colpevoli, evocati più volte da magistrati come Pier Camillo Davigo. Si fonda sulla funzione redentrice del pm e sul rafforzamento dei suoi poteri nel processo, sull’aumento delle pene e sulla dilatazione della legislazione speciale. E’ la giustizia capovolta di un paese incattivito, dove perfino la condanna degli innocenti non fa quasi più notizia.
Giustizia, il silenzio degli innocenti (in galera). Ogni anno almeno 150mila italiani sono vittime di errori giudiziari e molti finiscono in prigione. Maurizio Tortorella il 10 luglio 2019 su Panorama. Pensate che l’ultimo scandalo del Consiglio superiore della magistratura offra la piena e vera rappresentazione del disastro della giustizia italiana? Pensate che il verminaio emerso a fine maggio, fatto di nomine di procuratori teleguidate dalle pressioni politiche, di trattative notturne e segrete e di osceni baratti tra le correnti, ritragga la faccia peggiore dei tribunali? Sbagliate di grosso, c’è di peggio. Immaginate di essere stati sotto inchiesta per quattro anni, e di avere trascorso in carcere o agli arresti domiciliari buona parte di quei 1.500 giorni (o 35 mila ore, se preferite, oppure 2 milioni e passa di minuti). Immaginatevi poi l’inevitabile corollario di ogni vicenda giudiziaria: la gogna mediatica, un lavoro che è svanito, magari una famiglia che si è sciolta, spese legali devastanti. E poi, alla fine del vostro calvario, immaginate di venire assolti: un giudice vi riconosce innocenti e vi lascia da soli sul cumulo di macerie in cui s’è trasformata la vostra esistenza. Ora moltiplicate questo paradigma devastante per 150 mila errori giudiziari all’anno: ecco, allora sì che avrete la corretta percezione del disastro della giustizia italiana. La statistica vi sconvolge? Sappiate che la sua fonte è autorevole: Massimo Terzi, presidente del Tribunale di Torino. È lui a raccontare che nel suo ufficio in media «un imputato su tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico». Terzi aggiunge le assoluzioni in Corte d’appello e in Cassazione, e proietta i dati su scala nazionale. Esce così la folle cifra di quei 150 mila innocenti indagati, intercettati, interrogati e sbattuti in cella ogni anno, che poi ne attendono in media quattro per uscire finalmente dall’incubo di un’inchiesta penale. Diceva quel principe del foro che fu Francesco Carnelutti: «Ogni sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario». Ne sa qualcosa Amanda Knox, finita da innocente in uno dei più travagliati processi nella storia italiana, il delitto di Perugia, e assolta in via definitiva nel 2015 dall’accusa di aver assassinato Meredith Kercher. Nel suo viaggio italiano di due settimane fa, Amanda ha rivelato di vivere nella paura di essere accusata ingiustamente: «In carcere ho pensato al suicidio» ha detto, lamentandosi di indagini condotte «senza prove e senza testimonianze». L’espressione «errore giudiziario», però, non piace affatto ai magistrati: si inalberano perché, dicono, se un processo termina con un’assoluzione la giustizia «in realtà ha fatto il suo corso» e, tutto sommato, è andata anche bene. I tecnici del diritto parlano di «ingiusta imputazione». Comunque si chiamino, 150 mila errori sono un disastro. Che il dato di Terzi sia corretto e forse prudente, del resto, lo certifica Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano. Nella scorsa legislatura il senatore Albertini aveva presentato una proposta di legge perché lo Stato coprisse almeno in parte le spese legali dei cittadini riconosciuti innocenti in via definitiva e con formula piena. Malgrado l’adesione di 175 senatori su 315, non si riuscì ad andare oltre l’approvazione della proposta in Commissione giustizia, perché a livello governativo qualcuno ebbe paura che la spesa sarebbe stata eccessiva. Albertini ottenne però una statistica importante: «Con il collega Giacomo Caliendo di Forza Italia» ricorda l’ex sindaco «chiedemmo al ministero della Giustizia di sapere quanti fossero ogni anno gli imputati riconosciuti pienamente estranei agli addebiti: dopo mille insistenze, ci fu risposto che erano 90 mila». Con formula piena, insomma, ogni 12 mesi vengono assolti 90 mila italiani: gli abitanti di una città come La Spezia. «Formula piena» vuol dire che l’imputato «non ha commesso il fatto» o che «il fatto non sussiste», quindi il reato per cui è stato processato non è avvenuto. Insomma, si tratta di una quota di assoluzioni di sicuro piccola, minoritaria. Quindi è probabile che il totale degli innocenti arrestati e processati surclassi la già sorprendente, folle stima del magistrato Terzi. I giudici, si sa, difficilmente ammettono un errore. Figurarsi quanto sia complesso farsi riconoscere da un tribunale di essere stati sbattuti in una cella senza motivo. Eppure anche il rivolo delle ingiuste detenzioni ufficialmente riconosciute dai tribunali italiani è una piccola marea montante. Sono state 653 nel 2016, sono salite a 741 nel 2017, e nei primi nove mesi del 2018 sono state 509. In totale, si tratta di 1.903 casi indennizzati negli ultimi tre anni, con una media annuale di 634. Per l’ingiusta detenzione una tabella fissa gli indennizzi: 270 euro per ogni giorno indebitamente trascorso in cella, 135 euro se ai domiciliari. Gli indennizzi, però, sono in calo: nel 2004 lo Stato aveva versato 56 milioni alle vittime, ma nel 2011 la cifra è scesa a 47, nel 2015 a 37, nel 2018 a 33,4, ma sempre nei soli primi nove mesi. In realtà, dietro al calo si nasconde un’impropria «spending review»: lo Stato fa di tutto per non pagare, anche quando deve. È stato stabilito per esempio che, per quanto possa essere lunga una carcerazione indebita, il risarcimento non può mai eccedere i 516.456 euro. E nell’aprile 2014 una sentenza della Cassazione ha stabilito che se l’indagato in sede d’interrogatorio s’è avvalso della facoltà di non rispondere, per quanto gli sia riconosciuta dalla legge, il fatto basta a bloccare qualsiasi riparazione. «È uno dei motivi» dice Pardo Cellini, l’avvocato fiorentino che detiene il record di risarcimenti da errore giudiziario «per cui ai miei clienti, quando incontrano il magistrato, suggerisco sempre di utilizzare questa formula: “Io sono totalmente estraneo ai fatti di cui mi si accusa, ma mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Qulle poche parole in più possono servire a superare il blocco stabilito dalla Cassazione». Cellini ha imparato a sue spese che lo Stato oppone muri di gomma. L’avvocato è lo storico difensore di Giuseppe Gulotta, il muratore siciliano oggi 61enne la cui vita è stata devastata da un mostruoso errore giudiziario durato 40 anni, 22 dei quali trascorsi ingiustamente in carcere (si veda il box nella pagina accanto). Dopo la revisione del processo, nel 2016 Cellini e Gulotta hanno ottenuto una prima riparazione di 6,5 milioni di euro, la cifra più alta che lo Stato italiano abbia mai sborsato. Ma il processo, a Reggio Calabria, è stato peggio di una battaglia: l’Avvocatura dello Stato si opponeva perché Gulotta «aveva confessato le sue colpe». Il paradosso è che tutti sapevano perfettamente che la confessione era stata estorta nel 1976, all’inizio del caso, grazie a 24 ore di torture inflitte a Gulotta. Il primo giudizio comunque non ha ancora coperto tutti i profili di danno, che in novembre verranno discussi davanti al tribunale di Firenze: la richiesta dell’avvocato Cellini è alta, 63 milioni di euro per danni esistenziali, morali, patrimoniali e biologici. Troppi soldi? Ditelo a chi, innocente, ha vissuto due terzi della sua vita come assassino di due carabinieri. Con un guizzo che profuma di santità, Gulotta ha anche deciso di usare parte dei soldi già incassati per aiutare chi, come lui, è vittima di ingiustizia: «Cercheremo» dice «di provare l’innocenza di persone che stanno pagando per reati che non hanno commesso. Ce ne sono tante in carcere: ora seguiamo il caso di una donna di Lecce, condannata all’ergastolo. A nostro giudizio è innocente». La donna è Lucia Bartolomeo, infermiera, che da 12 anni è detenuta all’ergastolo per l’omicidio del marito, ucciso con un’overdose di eroina. La revisione del processo, che Cellini intende ottenere dalla Corte d’appello di Potenza, vuole dimostrare che perizie e autopsie alla base della condanna sono sbagliate. Fosse così, più che un errore, sarebbe un orrore.
Se il pm sbaglia viene punito: ecco la svolta sulla giustizia. Sorprese dal summit tra M5S e Lega: sanzioni al pm che sfora i nuovi limiti per le indagini. La Lega chiede conseguenze disciplinari anche per il magistrato che fa filtrare le intercettazioni. Errico Novi il 21 giugno 2019 su Il Dubbio. Anni di attesa per dare certezza ai tempi delle indagini, per proteggere in modo accettabile le intercettazioni dal volantinaggio mediatico, per riformare il Csm. Anni inutili, tentativi numerosi, eroici, ma inutili. Tutto si sblocca all’improvviso, anche per un motivo: perché ventisette anni dopo, lo schema di Tangentopoli si capovolge e scaraventa le toghe nel cuneo cupissimo di una piramide rovesciata, come nell’iconografia dell’inferno dantesco. C’è voluta cioè una simil- mani pulite della magistratura per spalancare la diga delle riforme. Come se solo la debolezza provocata dagli scandali consentisse di riformare un certo ordine, o potere, dello Stato. Fatto sta che dal vertice dell’altra notte tenuto sulla giustizia dal premier Conte, dai vice Di Maio e Salvini e dai ministri Bonafede e Bongiorno esce fuori un’inedita batteria di conseguenze disciplinari per pm e giudici che sbagliano. A ben guardare è questo il tratto dominante nella riforma della giustizia che comincia a profilarsi. Il guardasigilli Bonafede ha infatti accolto una sollecitazione della collega Bongiorno — titolare della Pa ma figura imprescindibile, nella Lega, quando si tratta di processi e ordinamento giudiziario: ebbene, la ministra del Carroccio ha ottenuto il sì di massima del M5s sulle sanzioni disciplinari per i pm che non rispettano le soglie temporali delle indagini. Già nella scorsa legislatura, Cnf e Ucpi chiesero che venisse assicurato il rigoroso rispetto dei tempi d’iscrizione degli indagati nell’apposito registro, con l’ipotesi che il capo dell’ufficio fosse vincolato a segnalare le violazioni dei suoi sostituti al titolare dell’azione disciplinare. Poi passò la soluzione ( di ripiego) delle avocazioni, da parte dei pg, dei fascicoli dormienti. Ora, nella parte “penalistica” della legge delega sul processo messa a punto da Bonafede, il magistrato inquirente dovrà rispettare tre limiti di durata massima ( diversi a seconda della gravità del reato) delle indagini preliminari, limiti prorogabili per non più di 6 mesi. Se non trasmettesse l’avviso di chiusura ( o se non chiedesse l’archiviazione) nei tempi stabiliti, il fascicolo sarebbe messo a disposizione della difesa così com’è, novanta giorni dopo, e per il pm tardivo scatterebbero appunto le segnalazioni ( con eccezioni, motivate in modo specifico, solo in casi di estrema complessità). Un quadro allarmante per le toghe che ora, col clima pesante generato dal caso Palamara, non hanno certo la forza di ribellarsi. Non solo. Perché segnalazioni ai titolari dell’azione disciplinare potrebbero essere previste addirittura di fronte alle violazioni degli uffici in materia di intercettazioni. Sorpresa anche questa. Bonafede insiste sul fatto che «i brani con notizie di interesse pubblico devono poter essere conosciute attraverso i giornali». Ma ancora ieri Salvini ha detto che sì, si tratta di «uno strumento utile», ma «le intercettazioni devono essere usate solo se hanno rilievo penale». E ha aggiunto: «Su questo mi pare che anche Bonafede sia d’accordo: il gossip lo vai a leggere sulla stampa scandalistica». Dov’è il punto di equilibrio? In parte lo chiarirà il vertice a via Arenula previsto per oggi con il presidente del Cnf Mascherin e il numero uno dell’Ordine dei giornalisti Verna. Ma si profila un limite alla possibilità di richiamare, negli atti, brani che contengano non informazioni penalmente rilevanti ma solo scambi privatissimi. Senza intervenire dunque con sanzioni ai cronisti ma eventualmente con riverberi disciplinari, anche qui, per il magistrato che scambiasse una richiesta o un’ordinanza cautelare per un articolo da magazine rosa. A queste sorprese si aggiungono altri segnali di caduta in disgrazia dei magistrati. Innanzitutto la legge che punirebbe chi, tra loro, fosse responsabile di ingiuste detenzioni, testo in arrivo nell’aula della Camera dopo il voto unanime in commissione. Altro segnale, voluto con forza dal Movimento 5 Stelle, è la versione togata del taglio dei vitalizi: «Compensi non oltre i 240mila euro per i consiglieri Csm: i cittadini non devono considerarli titolari di un privilegio», spiega sempre il guardasigilli. E mentre le intercettazioni viaggeranno su un ddl delega di Bonafede autonomo da quello sul processo penale e civile, in quest’ultimo confluiranno, come annunciato mercoledì notte, anche la poderosa riforma del Consiglio superiore e le norme che renderanno impossibile il ritorno alla toga per i giudici che entrassero in politica. Qui davvero si conferma l’idea della «svolta epocale» di cui parla il ministro della Giustizia. Non solo le nomine saranno determinate da una griglia «meritocratica», con punteggi ottenuti, per esempio, in base allo «smaltimento dell’arretrato» e, in negativo, con le segnalazioni disciplinari, comprese quelle per le indagini lunghe.
Non solo, perché si riaffaccia con forza l’ipotesi sorteggio per l’elezione dei membri togati. In chiave «mediata», si lascia intendere da via Arenula: ossia con una prima ampia rosa di candidati selezionata in modo random e una successiva vera e propria elezione, comunque organizzata in collegi ristretti e uninominali. Un argine alle correnti, che riprende schemi di leggi proposte in passato in Parlamento ( la più puntuale a opera di Buemi). Fino alla draconiana preclusione ipotizzata dal guardasigilli per i togati uscenti, che non potrebbero assumere incarichi direttivi nel successivo quinquennio. La legge istitutiva del Csm, 61 anni fa, fissò il cuscinetto in “appena” 2 anni, cancellati del tutto a fine 2017. Ora si va oltre il raddoppio. Segno che i tempi, per gli equilibri fra toga e politica, sono proprio cambiati.
L’Aula in coro, da Fi al M5s: ora occhio ai magistrati che arrestano gli innocenti. L’esordio a Montecitorio per la legge sulle ingiuste detenzioni temuta dai pm. Il relatore Zanettin: «nessuno restituirà la famiglia e l’onore a chi finisce in cella per sbaglio». Errico Novi il 25 giugno 2019 su Il Dubbio. Se la legge che impone di informare i titolari dell’azione disciplinare sulle ingiuste detenzioni patite dagli innocenti fosse stata approvata all’unanimità in commissione Giustizia prima del caso Palamara, l’Anm si sarebbe ribellata comunque. Solo che sarebbe stata più dura. Non impaurita, com’è apparsa nel comunicato diffuso venerdì scorso. La legge scritta dal responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa, approdata ieri nell’aula di Montecitorio per la discussione generale, è un altro esempio di come la politica abbia risfoderato le unghie nel rapporto con le toghe. Soprattutto per i toni ascoltati ieri alla Camera: tutte le forze hanno espresso il loro favore sul testo. Anche i cinquestelle. La cui rappresentante, Carla Giuliano, ha attenuato il fendente in modo impercettibile: «È grazie a un nostro emendamento se il meccanismo è stato reso meno automatico: la segnalazione dell’ingiusta detenzione riconosciuta come meritevole di risarcimento avverrà sempre. Ma arriverà al ministro della Giustizia, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di promuovere l’azione disciplinare nei confronti del magistrato», osserva la deputata del M5s. «Grazie alla modifica da noi presentata, la stessa segnalazione viene inviata anche al procuratore generale della Cassazione, che è invece sempre obbligato ad agire disciplinarmente, solo nei casi di violazione di legge». Cambia qualcosa rispetto al testo depositato inizialmente in commissione, non la sostanza dei fatti. E soprattutto non cambia la convergenza unanime della politica su questo pur limitato argine alle manette facili. Sono in sostanziale sintonia l’autore della proposta, ovvero il ricordato Costa, il relatore Pierantonio Zanettin, anche lui di Forza Italia, il leghista Luca Paolini, il dem Alfredo Bazoli, la deputata di Fratelli d’Italia Ylenja Lucaselli e appunto la cinquestelle Giuliano. Tutti intervenuti ieri in Aula. Ciascuno con una diversa inclinazione: tanto per dare l’idea, la deputata del partito di Meloni sdrammatizza con la considerazione che «anche i magistrati sono esseri umani e sbagliano…». Ciascuno intona il coro con un lieve scarto di tonalità, ma l’effetto polifonico è sorprendente. Dopo l’ok unanime in commissione, la discussione generale sembra la premessa per un via libera senza intralci anche da parte deell’Aula. Da una parte la modifiche agli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale sembrano non stravolgere l’ordinamento. L’azione disciplinare continuerà ad essere effettivamente esercitata, per essere chiari, solo se il ministero della Giustizia dovesse concludere che l’ingiusta detenzione è stata inflitta, da parte dei magistrati coinvolti, per negligenza grave e inescusabile. E nel caso del pg di Cassazione, che viceversa ha l’obbligo di procedere sempre, va ricordato appunto che l’ordinanza di risarcimento gli arriverà in modo filtrato, cioè solo quando il giudice che la emette, ossia la Corte d’appello, ravvisa la “grave violazione di legge”. Ma è il clima creato dal caso Palamara che conferisce al provvedimento un’impressione punitiva anche più accentuata del dovuto. Certo, su un aspetto l’Anm deforma del tutto le cose: quando definisce la legge Costa non sbagliata, ma «inutile» giacché l’ordinamento già prevede «efficaci strumenti per l’accertamento di eventuali errori e un rigoroso sistema di responsabilità disciplinare». Rigoroso? Senza la legge che a breve sarà approvata alla Camera, le segnalazioni su pm e gip che fanno ingiustamente arrestare qualcuno ( poi prosciolto) continuerebbero a partire dagli stessi uffici giudiziari in cui i suddetti magistrati lavorano. Sono, per questo, segnalazioni tutt’altro che automatiche o almeno frequenti. A spiegare quale sia il grado di fragilità del sistema è Costa, con un aspetto analogo richiamato sempre ieri alla Camera: «La legge ha di recente previsto che il governo debba trasmettere ogni anno, al Parlamento, una relazione sul monitoraggio delle ingiuste detenzioni: ebbene, il 30 per cento dei presidenti di Tribunale fa attendere il ministero della Giustizia più di 12 mesi, prima di trasmettere i dati, che infatti arrivano alle Camere sempre in ritardo». Della serie: non sempre i giudici sono solerti nel tenere d’occhio gli errori dei colleghi. Quindi la legge ci vuole. «Rende più ordinato il meccanismo di trasmissione delle informazioni», osserva il leghista Paolini. Nel presentare il testo, il relatore Zanettin ricorda anche altre cose. Come il fatto che, con la legge ora in discussione, il diritto a essere risarciti per ingiusta detenzione viene esteso anche a chi finisce in carcere per fermo o per arresto in flagranza, come aveva sollecitato la Corte costituzionale. Ancora oggi il ristoro va solo per le misure cautelari. E sul punto l’Anm non si è certo potuta lamentare. Poi Zanettin aggiunge un pro memoria che andrebbe scolpito nel marmo: «Il risarcimento economico c’è, ma a chi è stato ingiustamente incarcerato nessuno potrà restituire il lavoro, la famiglia e l’onore perduti per quell’errore». Ed è per questo, come conviene il collega azzurro Costa, che «bisogna perseguire i magistrati anche per questi illeciti, non solo perché violano il dovere di reperibilità». Vero. Ma siamo sempre lì: ci voleva una simil- Mani pulite delle toghe perché, sul punto, la politica si scoprisse unanime.
Tortora e Sabani, vittime di una giustizia malata e dei processi mediatici: che non sia un’illusione. Valter Vecellio il 25 giugno 2019 su Il Dubbio. Due tristi anniversari che sarebbe stato doveroso ricordare: sono l’emblema, la concreta metafora di un tumore che corrode, corrompe, uccide.
Il 17 giugno 1983: è il giorno in cui Enzo Tortora viene arrestato. Una delle pagine più nere, oscure e vergognose della storia di questo paese. Una grande storia ignobile. Ora tutti lo dicono: un uomo perbene. Tutti lo riconoscono: vittima di un mostruoso errore giudiziario. Tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei radicali per la giustizia giusta. Quello che pomposamente viene definito “il venerdì nero della camorra”, si traduce in 850 mandati di cattura, e presto si sgonfia: decine le omonimie e gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104. Il resto è storia nota, anche se si fa di tutto per occultarla: candidatura nelle liste radicali per il Parlamento Europeo, elezione; dimissioni per non sottrarsi alla richiesta avanzata dalla magistratura di arresto; impegno totale e totalizzante per la giustizia giusta. Infine il tumore che lo stronca. Ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla sua tomba l’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.
L’altro anniversario: alba del 18 giugno 1996 viene arrestato Gigi Sabani, all’epoca popolarissimo imitatore e conduttore televisivo. Accusa infondata che tuttavia distrugge la sua carriera e mina la sua salute. Sabani non si riprenderà più da quella terribile esperienza. Un infarto lo stronca il 4 settembre 2007. Per queste due vicende terribili, nessuno ha pagato. Nessuno è stato chiamato a rispondere di quello che è stato fatto, e di quello che invece si doveva fare e non si è voluto o saputo fare. Come per Lelio Luttazzi, come per mille e mille altri casi… Ecco: questi anniversari potrebbero essere l’occasione per una riflessione collettiva, per un bagno di umiltà da parte dei magistrati e dei giornalisti che imbastiscono processi mediatici che gridano vendetta; per rendere consapevole l’opinione pubblica che quella giustizia è la vera, grande emergenza del paese; per “inchiodare” la classe politica, quella di governo e quella di opposizione, alle loro responsabilità di pervicaci mancati riformatori.
Non che non si parli di giustizia. Dello scandalo che ha investito il Consiglio Superiore della Magistratura, sono piene le pagine dei giornali, e le tv dedicano alla vicenda servizi su servizi. Ma siamo alla superficie, il male, il “tumore” è molto più esteso e profondo. Non si tratta “solo” dell’elezione e dei criteri di scelta del Csm, anche se la proposta dell’ex procuratore Carlo Nordio ha una sua indubbia pregnanza: aiuterebbe a superare le camarilla e i “mercati” l’elezione per sorteggio: in una “platea” che comprenda oltre i magistrati, rappresentanti dell’Avvocatura e docenti universitari di materie giuridiche. Il problema, tuttavia, sta essenzialmente nel magistrato stesso: non vive con senso “religioso” la sua funzione; al contrario, troppo spesso la concepisce come “potere” da esercitare e spesso sconfinando nell’arbitrio. Andrebbero scolpite nelle facoltà di giurisprudenza le parole di Giovanni Falcone, non a caso dal Csm impiombato, e dai suoi stessi colleghi bocciato quando al Csm si candida. All’indomani del referendum Tortora sulla responsabilità civile dei magistrati (I SI stravincono, poi il Parlamento vara la legge Vassalli che tradisce la volontà popolare), Falcone si chiede: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. (…) La stragrande maggioranza dell’elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati”. Per quel che riguarda la competenza dei giudici e i criteri di selezione: “Bisogna riconoscere che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente; il che riguarda direttamente gli attuali criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l’aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti (…) L’inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il Csm e i Consigli giudiziari, ha prodotto il livellamento dei magistrati verso il basso”. Infine l’Associazione Nazionale Magistrati: “La crisi dell’Anm l’ha resa sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi e sempre meno il luogo di difesa e di affermazione dei valori della giurisdizione nell’ordinamento democratico (…) Le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm”. Correvano gli anni tra il 1982 e il 1992. Sembra oggi…
Carcere ingiusto, la relazione: inutile la legge votata ora. L’ispettorato del Ministero della Giustizia: eventuali abusi dei gip sono già segnalati. Il documento sulle misure cautelari inviato come ogni anno da via Arenula al Parlamento sconfessa la scelta dei deputati m5s. Errico Novi il 28 giugno 2019 su Il Dubbio. Carcere ingiusto. Una doccia gelata. L’ispettorato di via Arenula definisce di fatto inutile la legge sulle ingiuste detenzioni.
Il testo. Testo presentato da un deputato di opposizione, l’azzurro Enrico Costa, ma sostenuto anche dalla maggioranza.
Incluso il Movimento 5 Stelle, partito dello stesso ministro della Giustizia. Secondo gli uffici del governo, che monitorano l’intero sistema delle misure cautelari, ci sarebbe «assenza di correlazione tra il riconoscimento del diritto alla riparazione» nei confronti degli innocenti finiti in galera «e gli illeciti disciplinari dei magistrati».
Ecco. Invece la legge di Costa tende proprio alla possibilità che tale «correlazione» esista. Prevede infatti di ampliare il codice di procedura penale in modo che il ministero dell’Economia comunichi gli avvenuti risarcimenti per il carcere ingiusto ai titolari dell’azione disciplinare, vale a dire allo stesso ministro della Giustizia e al pg della Cassazione.
Le obiezioni di via Arenula. Chi ha ragione? E soprattutto, le obiezioni degli uffici di via Arenula rischiano di essere un monito per i deputati cinquestelle che hanno già votato a favore del ddl Costa in commissione Giustizia? L’episodio rischia di far emergere l’insostenibilità, per il Movimento, di una linea troppo “severa” nei confronti dei magistrati?
I quesiti sono legittimi tanto più se si considera che proprio un esponente del M5s, Bonafede appunto, ha la funzione, come guardasigilli, di sovrintendere all’amministrazione della Giustizia. Competenza che si estende anche ai rapporti con la magistratura, a cominciare proprio dalle ispezioni e, appunto, dal perseguimento di eventuali illeciti.
La posizione dei 5 Stelle. I parlamentari pentastellati, insomma, potrebbero aver compiuto una scelta non facile da sostenere per il loro partito. Sia in commissione Giustizia sia in aula, dove martedì scorso hanno ribadito il loro sostegno al provvedimento firmato da Forza Italia. Il ddl in questione dovrebbe essere approvato in prima lettura a Montecitorio martedì prossimo.
La Relazione. A farne oggetto di evidenti critiche è, in particolare, la “Relazione annuale sulle misure cautelari personali”, inviata pochi giorni fa al Parlamento. Come previsto dalle riforma del 2015 sulla carcerazione preventiva, uno specifico capitolo della relazione è dedicato ai risarcimenti per le ingiuste detenzioni liquidati dallo Stato ( in particolare dal ministero dell’Economia) nell’anno preso in esame. E secondo la relazione appena trasmessa da via Arenula alle Camere, nel 2018 si registra una «lieve flessione» ( rispetto all’anno precedente) dell’ammontare complessivo liquidato, che è di 33 milioni e 373mila euro. La somma è relativa alle 895 ordinanze emesse da via XX Settembre che hanno accolto i ricorsi degli innocenti. Fin qui, si tratta di dati non sconvolgenti.
I passaggi più delicati. A colpire sono altri passaggi. Innanzitutto la già citata tesi secondo cui non c’è «correlazione» tra risarcimenti e presunti illeciti disciplinari dei giudici che avevano ordinato quegli arresti. Ancora, i richiami al carattere quanto meno superfluo delle nuove norme. Chiarissimi quando si sostiene come «le anomalie che possono verificarsi in correlazione con l’ingiusta compressione della libertà personale in fase cautelare» siano «costantemente oggetto di verifica da parte degli uffici ministeriali». I quali, si afferma ancora nella relazione, non hanno bisogno di attendere che vengano pagati i risarcimenti. Le verifiche, si nota, vengono condotte «sia nel corso di ispezioni ordinarie sia a seguito di esposti e segnalazioni delle parti, dei loro difensori e di privati cittadini, che, infine, in esito alle informative dei dirigenti degli uffici». Controlli che intervengono assai prima, dunque, che si arrivi alla liquidazione dei ristori da parte del Mef: il sistema disciplinare, recita ancora il documento di via Arenula, «consente di intercettare e sanzionare condotte censurabili molto prima, e indipendentemente dalla verifica giudiziaria dei presupposti per il riconoscimento della riparazione da ingiusta detenzione». Anche se poi, secondo la relazione, queste «condotte censurabili» si manifesterebbero in tutto fuorché nelle manette facili.
La condotta dei magistrati. Rilievi che potrebbero essere rovesciati, naturalmente. È vero anche che le decisioni sulla condotta dei magistrati sono rimesse alla libera valutazione degli uffici. E che a influire su tale vaglio discrezionale può, inevitabilmente, contribuire anche il fatto che un determinato errore del gip responsabile di un arresto sia costato all’erario decine di migliaia di euro. Resta in ogni caso il conflitto tra le considerazioni dei “tecnici” dell’ispettorato e quelle dei deputati m5s. E il sospetto che, senza il caso Palamara, difficilmente il gruppo pentastellato avrebbe sostenuto una legge sulle “colpe” delle toghe per le manette facili.
· Criminalità, quei 6 miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati.
Criminalità, quei 6 miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati. Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. Lo Stato riesce a incassare soltanto il 3% delle pene pecuniarie perché il meccanismo di riscossione è macchinoso e costoso. Le nuove norme, poi, peggiorano la situazione. La macchina della riscossione si attiva alla fine del percorso giudiziario: da quando viene commesso il fatto alla condanna definitiva passano mediamente 7/8 anni. La pena è stabilita dalla legge ed è uguale per tutti: se il reato prevede 50.000 euro di multa, 50.000 restano, indipendentemente dal fatto che il condannato abbia un reddito o sia un indigente. La procedura è lunga, e ogni passaggio ha lo stesso costo, sia per incassare una multa da 30 euro che da 30.000. Per cercare di migliorare un sistema che arranca da sempre, dal 2010 la quantificazione, l’iscrizione a ruolo e la riscossione dei crediti di giustizia a favore dell’Erario è passata dalle cancellerie dei tribunali nelle mani di Equitalia Giustizia (società al 100% pubblica). A sua volta Equitalia Giustizia invia le cartelle all’Agenzia delle Entrate, che deve procedere alla riscossione con l’invio delle raccomandate. A quel punto, il destinatario della cartella, che magari a suo tempo i soldi per pagare li aveva, se li è spesi, o si è liberato dei suoi beni, mentre chi era nullatenente, tale è rimasto. Per fare le verifiche sul patrimonio e il reddito reale serve l’intervento della Guardia di Finanza con indagini approfondite e dispendiose. Alla fine il 97% non paga, e per recuperare quel 3%, si è speso il doppio. Il caso italiano è così grave da essere entrato nei manuali di diritto. I giuristi della Statale di Milano Emilio Dolcini e Giorgio Marinucci hanno più volte sottolineato: «Le pene pecuniarie non vengono né eseguite, né convertite. Le statistiche evidenziano un grave stato di ineffettività della pena». Eppure sarebbe da promuovere come alternativa alla detenzione per una serie di reati di media entità, visto che il 70% di chi sconta la pena in carcere torna a delinquere, oltre al sovraffollamento delle strutture (10 mila detenuti in più). Missione impossibile, perché di fatto la pena pecuniaria si trasforma in impunità. Su questo tema, il Paese che viene preso a modello dal resto d’Europa, è la Germania, dove la pena pecuniaria supera l’80% del totale delle condanne e il tasso di riscossione si aggira intorno al 90% dei casi. Il tagessatzsystem tedesco ruota intorno a due pilastri: il giudice stabilisce, a seconda del tipo di reato, i giorni di pena da infliggere (si chiamano tassi giornalieri), e in quanti giorni il condannato deve pagare, da un minimo di 90 ad un massimo di 360 giorni. Poi, in proporzione alla capacità reddituale, viene fissata la rata da versare. In sostanza ti chiedo di pagare in base alle tue possibilità, dopodiché se non saldi il conto, rischi il carcere o in alternativa il lavoro di pubblica utilità (non retribuito). Si chiama principio di realtà. In Italia sarebbe inapplicabile sia per profili di incostituzionalità, che per l’inefficienza generale del sistema giudiziario. E quindi come si argina il problema? La legge dice che in caso di mancata riscossione, e dopo aver tentato in tutti i modi di riscuotere la somma (anche attraverso pignoramenti), su richiesta del pm, il magistrato di sorveglianza può convertire la somma in libertà controllata, ovvero «l’insolvente» deve presentarsi una volta al giorno a firmare dai carabinieri, viene sospesa la patente di guida e poco altro. Il criterio: un giorno di libertà controllata ogni 250 euro da versare (per un massimo di 18 mesi). Con la legge di Bilancio 2018 il Governo prende atto che Equitalia Giustizia riscuote ben poco, e cambia le regole. Obbliga chi non paga il dovuto a svolgere lavori socialmente utili? Sarebbe di grande aiuto alla collettività per esempio ripulire gli argini dei fiumi. Nulla di tutto questo, il nuovo articolo del Testo unico in materia di spese di giustizia all’articolo 238 bis dice: «L’ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione, non risulti esperita alcuna attività esecutiva». In sostanza, l’agente di riscossione può anche astenersi dallo svolgere qualunque attività di recupero del credito, e dopo due anni la pratica arriva automaticamente al magistrato di sorveglianza, al quale non resta altro da fare che trasformare il debito con lo Stato in libertà controllata. Vuol dire che se la pena è di 2.500 euro, basta che ti presenti per 10 giorni dai carabinieri a firmare e la cosa finisce lì. Risultato: nei primi dieci mesi del 2019 le somme riscosse sono precipitate dal 3% (dato medio degli ultimi 6 anni) allo 0,3%.Ogni tentativo di modificare il sistema è caduto nel vuoto, a partire dalla proposta di appaltare tutto ad una banca specializzata nel recupero crediti, la quale può, in quanto soggetto privato, selezionare il credito recuperabile da quello irrecuperabile. Un’ipotesi sollevata nel 2013 dal ministero della Giustizia allora guidato da Paola Severino, che aveva costruito la possibilità di affidare a gara pubblica i crediti partendo dalle sentenze passate in giudicato, saltando così tutte le trafile successive. I vantaggi: annullare le spese di recupero a monte e monetizzare subito denaro da reinvestire nel sistema giudiziario (per miglioramenti tecnologici e strutturali, nonché per programmare nuove assunzioni di magistrati e personale amministrativo). Sarebbe stato anche un valido deterrente per tutti quei condannati che trovano la strada per sottrarsi ai propri obblighi grazie all’inefficienza del sistema. C’erano i margini per una verifica sul campo, con un progetto sperimentale che prevedeva una convenzione tra il Tribunale di Milano e Unicredit Credit Management Bank che offriva il 25/30%. Certo per fare questo ci voleva un riforma legislativa, ma il progetto si incagliò nei dipartimenti del Ministero dell’Economia. Le ragioni non sono difficili da intuire: meglio non privarsi di 6 miliardi da mettere in bilancio fra le partite attive, pur sapendo che quei soldi non li incasserai mai. Se lo facesse una società privata finirebbe a processo per falso in bilancio.
· Caste e soldi. Le parcelle esose e la naturale conformità dei Pareri di Conformità dei colleghi dei Consigli dell'Ordine.
Caro avvocato, quanto costi? Da Genitoriseparati.it. Sono un genitore che, in dieci anni di procedimenti giudiziari, pensavo di vedere riconosciuto il mio diritto ad essere padre e ad avere una giustizia economica nel mantenimento dei figli. Ho speso inutilmente cifre con quattro zeri tra parcelle ai legali, CTU, consulenze varie proposte dal mio legale e dai servizi sociali. L’alternativa sarebbe stata quella di rinunciare al mio diritto alla paternità. Ho chiesto aiuto ai miei genitori, ai miei fratelli e ai cognati e così ho potuto sostenere queste spese poiché il mio stipendio, seppure fosse un buon stipendio, era insufficiente. In tutti questi anni ho cambiato tre legali (due matrimonialiste e un giovane professionista) senza vedere riconosciuti i miei diritti di genitore che chiedeva solo di poter fare il padre e stare con i propri figli. A ciascun legale ho sempre chiesto un preventivo di spesa per il procedimento, ma la risposta è stata sempre la stessa: “se lei ha fiducia in me non c’è bisogno di un preventivo. Non posso prevedere l’evoluzione della causa, la sua durata e gli atti da fare e non posso prevederne i costi. Comunque le verrò incontro e mi pagherà mensilmente con piccole rate. Non sono un cane e le darò una mano sui costi”. Per non urtare l’avvocato, trovandoti in una situazione difficile, accetti tutto e non pensi alle somme che poi pretendono da te. Puntualmente la mano mi è stata data ma per chiedere esose parcelle. Un legale mi ha perfino minacciato di farmi il pignoramento dello stipendio se non pagavo subito per un procedimento puntualmente perso, il quale, in caso di inadempienza, sarebbe stato aggravato anche delle ulteriori spese accessorie. I figli, crescendo e valutando il comportamento materno, un bel giorno si sono presentati a casa mia per stare definitivamente con me. Ciò ha comportato un nuovo procedimento poiché la madre non voleva rinunciare a ottocento euro al mese di mantenimento e non voleva mantenere i figli che non vivevano più con lei, non voleva restituirmi la mia casa dove felicemente viveva con il suo amante. Il tribunale non ha potuto fare altro che prendere atto della volontà dei miei figli ed ha stabilito un assegno di mantenimento a carico della madre di euro seicento al mese, oltre alle spese straordinarie al 50%. Preciso che la mia ex-moglie guadagnava, allora, sui tremila euro al mese; ha due appartamenti di sua proprietà, mentre io avevo solo un appartamento dove stava lei con i figli e l’amante e percepivo uno stipendio da statale di 1.600 euro al mese. Giustizia avrebbe voluto che lei mi versasse come assegno di mantenimento per i figli lo stesso importo mensile che io le versavo, pur avendo redditi che erano il doppio dei miei. I figli hanno riacquistato quella loro serenità che nemmeno i servizi sociali avevano preso in considerazione e questo è quello che conta per me. In questo ultimo anno ho incontrato tanti padri separati e sono venuto a conoscenza delle loro dolorose vicende familiari che sono, però, tanto simili fra loro. Ho deciso di fare una riflessione sui costi dei legali, sul fiorente mercato delle separazioni, sull’inutilità dei servizi sociali, sul business sull’evasione fiscale e sull’impossibilità per tanti genitori a far valere i propri diritti perché i legali costano tantissimo e perché le istituzioni sono latitanti su queste problematiche. Prendo in esame solo l’aspetto legale e tengo a precisare che non tutti i legali si comportano allo stesso modo, ma la maggioranza di loro, in barba alla deontologia professionale, hanno un atteggiamento arrogante e vessatorio nei confronti del cliente separato o separando, sia esso uomo che donna, e al mal capitato cittadino non resta che organizzarsi affinché la giustizia sia un diritto per tutti ed affinché finiscano certe baronie professionali. Questo è il senso della riflessione-denuncia che segue. Per la professione che svolgo mi è stato possibile informarmi su quanto scrivo e documentarmi sulle leggi e sulla giurisprudenza vigente.
A. Obbligatorio il preventivo dei costi del procedimento giudiziario. Vi sono dunque tre sistemi di tariffazione:
a) a percentuale sull'esito della causa (patto di quota lite);
b) a forfait (sia come somma unica ma anche come somma annuale);
c) secondo la tariffa forense. In assenza di specifico accordo scritto, nonostante le disposizioni di legge, si continuano ad applicare le tariffe forensi che prevedevano un minimo ed un massimo per ogni attività professionale resa dall'avvocato, a seconda delle circostanze del caso concreto (difficoltà, impegno richiesto, importanza, condizioni patrimoniali dell'assistito, ecc.). Il tribunale, se chiamato a liquidare la vertenza, fa riferimento a tariffe nazionali stabilite per legge.
Le parcelle variano da legale a legale e sono pochissimi sono i professionisti che propongono al cliente un preventivo di spesa per ogni singolo procedimento giudiziario, che sia equo, trasparente e rispettoso di tutti i diritti del cliente stesso, compreso quello del recesso senza penale. Il preventivo dei costi – a seguito del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, "Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività" - è obbligatorio a partire dal 25.1.2012 per tutti coloro che esercitano una professione regolamentata, i quali prima di ricevere l’incarico devono comunicare al cliente tutte le informazioni che riguardano i costi a vario titolo collegati alle singole attività professionali che prevedono di dover svolgere per adempiere l'incarico ricevuto (onorario, bolli, diritti, ecc., viaggi, vitto, alloggio) (vedi allegato) Il preventivo verrà rilasciato in forma scritta solo se richiesto dal cliente. I professionisti dovranno comunicare ai clienti anche i dati della loro assicurazione per danni derivanti da attività professionale, se esistente. Chi non rispetterà tale obbligo, incorrerà in sanzioni disciplinari.
Le proposte di contratto - quasi tutte - contengono clausole capestro per il cliente e senza le dovute precisazioni scritte non deve essere sottoscritto. Vediamone alcune:
1. Il contratto di incarico deve:
a. contenere dettagliatamente tutte le possibili attività da svolgere e i relativi costi, come pure le possibili spese vive;
b. prevedere solo i costi dei singoli interventi (listino prezzi) e solo alla fine verrà compilata, in base alle voci del contratto, la parcella del professionista;
c. deve risultare chiaramente chi seguirà in prima persona il procedimento.
Il cliente non sa, di fatto, quale professionista seguirà il suo procedimento giudiziario poiché il contratto proposto dal legale prevede che “il professionista potrà delegare lo svolgimento della prestazione a terzi collaboratori o sostituti, sotto la sua responsabilità”. Quindi ogni udienza può essere seguita da un legale diverso, il quale, come sovente avviene anche oggi, non sa quasi nulla del procedimento e spesso viene solo informato verbalmente il giorno prima o la mattina stessa dell’udienza. Le sostituzioni vengono fatte, quasi sempre, perché il titolare del procedimento è impegnato, in quel giorno, in altri procedimenti da lui ritenuti più importanti.
2. Liquidazione giudiziaria delle spese legali a carico della controparte. L’avvocato, in caso di liquidazione giudiziale e di rifusione delle spese posta a carico della controparte, pretende che “il cliente gli corrisponda l'importo risultante dal contratto sottoscritto, indipendentemente dalla intervenuta liquidazione giudiziale”, cioè la cifra complessiva dovrà essere quella sottoscritta e non rispetta la liquidazione sancita dal giudice. Ciò fa intendere che:
a. la liquidazione giudiziaria non sia equa e quindi lesiva per il professionista. Infatti, come avviene anche oggi, le liquidazioni del giudice sono sempre di gran lunga inferiori a quelle pretese dal legale;
b. il preventivo e il contratto d’incarico del legale riportano onorari non opportuni per quel procedimento. La fama del legale e del suo studio non giustificano costi che vanno ben oltre i parametri seguiti dal giudice nel liquidare le spese del procedimento.
Il legale, però, fa sottoscrivere nel contratto d’incarico che “qualora l'importo liquidato giudizialmente fosse superiore a quanto pattuito, la differenza sarà riconosciuta a favore del legale (se recuperato dalla controparte)”. L'avvocato, perciò, si fa autorizzare dal cliente a farsi versare direttamente dalla controparte le spese legali poste a carico di quest'ultimo nonché a trattenere in compensazione eventuali somme recuperate dalla controparte sino a soddisfazione del proprio credito”. Cioè a trattenere fino alla copertura delle somme previste dal contratto, oltre quelle stabilite dal giudice, altre somme versate da controparte a risarcimento del cliente. Importante è pretendere che la liquidazione giudiziaria, che sostituisce la somma pattuita nel contratto, e le altre somme a risarcimento del danno vengano sempre versate all’avente diritto e non al suo legale.
3. Conciliazione della controversia. Il legale prevede nel contratto sottoscritto dal cliente “che il cliente verserà, oltre quanto pattuito per l'intera fase processuale in cui avviene la conciliazione, un ulteriore compenso” stabilito all’atto della sottoscrizione del contratto stesso. Il cliente, invece, deve far mettere esplicitamente che in caso di conciliazione verserà solo ed esclusivamente gli importi relativi alle operazioni giudiziarie compiute.
4. Revoca del mandato al legale. I vari contratti proposti prevedono “che al cliente rimane l'obbligo di corrispondere al professionista, oltre alle spese sostenute, il compenso pattuito per l'intera fase processuale in cui il recesso viene esercitato ed il 12,5% dell'intero compenso risultante dalla sommatoria degli importi del presente contratto. Tale penale è stata determinata tenendo conto delle spese generali di organizzazione e gestione dello studio”.
Il legale non riconosce il diritto alla revoca del mandato da parte del cliente insoddisfatto, deluso e che spesso non si ritiene pienamente seguito nei Tribunali o si ritiene danneggiato dall’operato del legale a cui aveva dato l’incarico e che spesso non vede più in studio o nelle aule dei tribunali. Negare - per motivi economici – il diritto di accedere ad altri professionisti costituisce un atto deontologicamente inaccettabile. Non ultimo mettere la clausola che il rinvio di udienza o le lungaggini processuali, inutili e talvolta volute anche dai legali, non verranno pagate dal cliente.
B. Diritto ad impugnare la parcella del legale. L’avvocato invia al cliente una fattura pro forma (un documento senza alcuna valore fiscale), un facsimile della fattura che verrà emessa a pagamento avvenuto o in caso di decreto ingiuntivo, chiamata “notula” nella quale deve essere riportato, in modo dettagliato e documentato, tutta l’attività svolta dal legale, l’elencazione delle spese sostenute e gli acconti dati durante lo svolgimento del procedimento. Spesso questi non vengono riportati poiché non precedentemente fatturati. Il cliente può contestare la notula o fattura pro forma se non rispondente ai requisiti pattuiti al momento della firma dell’incarico o, se mancante il contratto scritto, non rispondente all’effettivo lavoro svolto dal professionista. Il ricorso diretto all’ordine degli avvocati per il parere di conformità non sempre ha buon esito per il cliente che, fra l’altro, deve anche pagare il parere formulato. Il decreto ingiuntivo emesso dal legale nei confronti del proprio cliente che non paga la parcella può essere impugnato e l’avvocato, in sede di giudizio, deve documentare le prestazioni concretamente effettuate. La parcella vistata dall'ordine attesta solo la conformità della parcella alla tariffa legalmente approvata dall’ordine ma non prova, in caso di contestazione del debitore, l'effettiva esecuzione delle prestazioni in essa indicate e deve giustificare l’ammontare degli importi richiesti (Cassazione, sentenza n. 19750-27.9.2011).
C. Gratuito patrocinio o patrocinio a spese dello Stato. E’ un istituto giuridico, a spese dello Stato, che consente a chi è privo di un reddito minimo, di poter beneficiare dell’assistenza legale gratuita in giudizio. L’ammissione al gratuito patrocinio vale per ogni stato e grado del processo e davanti ad ogni giurisdizione (civile, penale, amministrativa e tributaria). L’attuale limite di reddito annuo imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito fissato dal Ministero della Giustizia è di 10.766,33 euro annui (decreto 2 luglio 2012). Ai fini della determinazione del limite di reddito si sommano tutti i redditi imponibili, quelli esenti dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), quelli esenti e quelli assoggettati a ritenuta alla fonte percepiti nell’ultimo anno dall’interessato e dai familiari conviventi. Per il processo penale il limite reddituale è aumentato di €.1.032,91 per ogni familiare a carico. Nei processi in cui gli interessi del richiedente siano in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi, come spesso accade nella fase iniziale della separazione, si considera solo il reddito del richiedente e non dell’intero nucleo familiare. L’istanza per richiedere l’ammissione al gratuito patrocinio, sottoscritta direttamente dall’interessato con firma autenticata dall’avvocato, deve essere presentata, a mezzo raccomandata, dall’interessato o dal suo difensore al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati presso il Tribunale competente per la causa (allegato) . Per il processo penale l’istanza deve essere presentata, con le medesime modalità, all’ufficio del magistrato innanzi al quale pende il processo. Entro dieci giorni l’ordine farà conoscere se il richiedente è stato ammesso al gratuito patrocinio. Al fine di evitare l’inammissibilità, l’istanza deve contenere informazioni sul procedimento, sui redditi e sulle prove testimoniali. Se la domanda viene accolta, a spese dello Stato, il richiedente verrà difeso da un avvocato da lui liberamente scelto da un elenco di avvocati stilato dal Consiglio dell’Ordine competente per territorio, verrà assistito, nei casi previsti dalla legge, da un Ctp (consulente tecnico di parte) e sarà esentato da tutte le spese processuali. Il difensore e il Ctp non potranno chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo. L’Ordine competente che ha accolto l’istanza trasmette copia degli atti in suo possesso (istanza, dichiarazione e/o documentazione, decreto di ammissione) all’Agenzia delle Entrate, per verificare, attraverso le risultanze dell’anagrafe tributaria o tramite la Guardia di Finanza, la veridicità e l’esattezza dell’ammontare dei redditi attestati dall’interessato. Se il richiedente non aveva diritto al beneficio, l’Agenzia richiederà il provvedimento di revoca. In caso di false dichiarazioni o di mancata comunicazione di variazioni di reddito entro gg.30 dalla scadenza dell’anno dalla data della presentazione dell’istanza, il richiedente incorre in condanne penali: reclusione (da 1 a 6 anni e otto mesi) e multa da 309,87 a1.549,37 euro. L’autorità giudiziaria, al termine del processo o all’atto di cessazione dell’incarico, liquiderà con proprio decreto di pagamento, l’onorario e le spese spettanti al difensore ed all’eventuale consulente di parte.
D. consolidata e consistente evasione fiscale. Alcuni legali, nel presentare orientativamente e verbalmente il costo del procedimento prospettano al cliente la possibilità di risparmiare il 25% (4% contributo integrativo cassa forense + 21% Iva) se pagano a nero, omettendo di dire loro che nella somma percepita a nero non pagano Irpef per oltre il 40% e cioè che sono loro gli unici a guadagnarci! Il cliente che si trova in difficoltà economiche spesso “abbocca”, perché paga meno e il pagamento sarà anche dilazionato. Così l’evasione fiscale non ha limiti. Altri, invece, fatturano solo una piccolissima parte dei soldi percepiti, circa il 10%. Questo diffuso modo di fare danneggia lo Stato, noi cittadini e gli avvocati onesti che pagano regolarmente le tasse. Per porvi rimedio basterebbe fare, a livello nazionale, una visita alle cancellerie di tutti i tribunali per riscontrare la documentazione fiscale relativamente a tutta la mole del lavoro svolto.
E. considerazioni finali. I separati prima di firmare preventivi e contratti d’incarico ai legali e agli psicologi devono pretendere in anticipo una copia di ciò che devono firmare e consultarsi sulla obiettiva valenza di quanto viene loro proposto e devono pretendere una elencazione dettagliata delle singole fasi del procedimento con relativi costi e pagare solo il servizio avuto! Controllare i vari preventivi e non dimenticare che un giovane professionista potrebbe essere più puntuale ed aggiornato degli studi affermati nello svolgere l’incarico e, soprattutto, è sempre meno caro. La bravura di un legale si misura dallo spessore giuridico e documentale degli atti scritti presentati, che variano da procedimento a procedimento, e non dai discorsi vaghi e sempre identici o dalla capacità del “taglia ed incolla”. E’ così evidente, talvolta, che certi atti sono stati copiati da altri procedimenti che spesso riportano nomi diversi da quelli del cliente o dei suoi figli. In questi casi sarebbe opportuno fare una dovuta denuncia e l’atto non va pagato! Ma ciò accade anche nelle sentenze dei tribunali dove tante volte compaiono altri nomi e si fa riferimento ad altre circostanze. Si ha l’impressione di essere in presenza di sentenze fatte in serie. Il gratuito patrocinio spesso viene concesso a persone che lavorano, ma risultano prive di reddito, che percepiscono sussidi da enti locali o altre istituzioni ma non vengono dichiarati, si consiglia di richiedere all’agenzia delle entrate e alla guardia di finanza una verifica dei redditi di chi beneficia di tale istituto e con ciò si eviterebbero anche tante denunce “fasulle” che costringono, nonostante ciò, il denunciato a difendersi a proprie spese. Il denunciato è quasi sempre chi non avvede al patrocinio gratuito perché non può detrarre dalla propria dichiarazione dei redditi somme versate come mantenimento dei figli, dell’altro coniuge e come spese straordinarie o come affitto per un nuovo appartamento non potendo, spesso, utilizzare il proprio dato ai figli e alla madre.
La figura dell’avvocato dalle origini alla nostra epoca. Concas Alessandra, Referente Aree Diritto Civile, Commerciale e Fallimentare e Diritto di Famiglia il 25 novembre 2019 su diritto.it. L’avvocato, al femminile avvocata o avvocatessa, è un professionista esperto di diritto che presta assistenza in favore di una parte nel giudizio, svolgendo l’attività di consulente e rappresentante legale, sia giudiziale sia stragiudiziale, per conto del suo cliente. Il nome deriva dal latino advocatus, participio passato di advocare, che significa “chiamare presso”, nel latino imperiale “chiamare a difesa”, e con utilizzo assoluto “assumere un avvocato”.
L’avvocato nell’antica Roma. La professione di avvocato era molto ambita per le implicazioni che aveva in campo politico e molti celebri personaggi, come Quinto Ortensio Ortalo e Marco Tullio Cicerone, si distinsero nelle aule dei tribunali. La lex Cincia del 204 a.C. si occupò delle parcelle degli avvocati, stabilendo che nessun avvocato potesse ricevere doni prima di trattare una causa, forse con lo scopo di evitare che il costo delle prestazioni forensi diventasse eccessivo per i ceti più poveri. Ai tempi di Augusto la lex Cincia de donis et muneribus fu confermata da un senatusconsultus e venne introdotta una sanzione, per l’avvocato, pari a quattro volte la somma ricevuta in dono. La legge fu modificata sotto Claudio, introducendo l’autorizzazione, per l’avvocato, a ricevere 10.000 sesterzi. Se si superava questa somma, l’avvocato avrebbe potuto essere processato per concussione (repetundarum). Ai tempi di Traiano venne stabilito che la somma potesse essere pagata alla fine della causa.
Oltre l’advocatus, secondo il diritto romano, i soggetti dell’ordine forense erano:
Il giureconsulto, Iuriconsultus (colui che è stato consultato in materia di diritto). Era l’esperto del diritto, il giurista, non teneva le orazioni. Era il soggetto dal quale si recavano le parti, il giurista diceva questa frase: “Narrami il fatto e ti darò il diritto” (Da mihi factum dabo tibi ius).
Godevano di un diritto molto importante, lo Ius Publice Respondendi, le soluzioni da loro date ai quesiti che venivano proposti erano considerate fonte di diritto. Ancora oggi con il termine “giureconsulti” o “giuristi” si identificano gli esperti del diritto, ma il termine è passato a indicare in modo principale i professori universitari delle Facoltà universitarie di giurisprudenza. I più famosi nella Roma antica furono Paolo, Gaio, Modestino, Papiniano ed Eneo Domizio Ulpiano.
L’oratore. Era colui che parlava nel processo, ma era necessaria la presenza del cliens (cliente), il titolare del diritto, dato che l’oratore non godeva della rappresentanza processuale. Inoltre l’oratore assisteva il cliente e non lo rappresentava.
Il procuratore. Colui che agisce in nome e per conto di un soggetto, stipulando atti giuridici che vanno a incidere nella sfera giuridica di quel soggetto che gli ha conferito la procura.Questa è una definizione moderna, ma il procuratore era già presente anche a Roma.
L’advocatus. Di solito amico influente dei politici o dei familiari del cliente che si trovavano intorno lui, potendo essere anche più di una persona contemporaneamente.
L’avvocato nell’età moderna. La figura dell’avvocato è disciplinata in modo diverso nei vari stati del mondo. La direttiva dell’Unione Europea n. 98/5/CE del 16 febbraio 1998 ha introdotto la possibilità di cositituire apposite società tra avvocati. In Italia, nel corso degli anni, si è determinata una grande inflazione nel numero di avvocati, a questo proposito Claudio Fancelli, presidente reggente della corte d’Appello di Roma, nel 2008 alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario attribuì alle cause del malessere dell’amministrazione processuale italiana “all’abnorme numero di avvocati” presenti nella città di Roma. In quell’occasione Fancelli dichiarò: “L’abnorme numero di avvocati iscritti all’Ordine forense, a Roma tanti quanti l’intera Francia, può inconsapevolmente determinare il rischio di un incremento del ricorso dei cittadini alla giurisdizione e quindi, stante la carenza strutturale di risorse, un allungamento dei tempi processuali”.
L’esercizio della professione. In quasi ogni paese del mondo per potere esercitare la professione è necessario essere in possesso di un idoneo titolo di studio nonché l’appartenenza obbligatorio a un determinato ordine professionale, con obbligo di relativa iscrizione a un albo professionale. La regolamentazione dell’iscrizione all’albo è diversa da Stato a Stato. L’ordine professionale del quale fa parte è di solito definito “Ordine degli avvocati”, comunemente anche ordine forense, perché ai tempi della Roma antica l’avvocatura era collocata nel Foro Romano. L’ordine forense è custode dell’albo professionale (l’albo degli avvocati) nel quale devono essere iscritti, obbligatoriamente per essere autorizzati ad esercitare la professione stessa. L’avvocato in possesso dei requisiti richiesti dalla legge, svolge la funzione di rappresentare, assistere e difendere una parte in un processo in un tribunale, ma in di solito è competente a fornire assistenza e consulenza legale anche al di fuori di un procedimento giudiziario. Gli avvocati esercitano la loro attività dietro pagamento di un compenso denominato parcella. Molti ordinamenti giuridici, al fine di garantire l’esercizio del diritto alla difesa prevedono la nomina di un avvocato in un processo di un difensore d’ufficio a favore di coloro che non abbiano i mezzi necessari.
La professione di avvocato nel mondo. La disciplina della professione nei vari paesi del mondo e è diversa. Sono diversi gli ordinamenti che prevedono anche la possibilità che la professione possa essere esercitata sia in forma individuale sia associata, con relativa iscrizione all’albo professionale anche delle società tra avvocati, delle quali possono far parte eventualmente anche collaboratori, fermo restando la validità del principio della responsabilità personale del professionista, anche tra quelli che appartengono all’Unione europea. In alcuni paesi il titolo di avvocato ha anche natura onorifica.
La professione di avvocato in Italia. In Italia per potere ottenere il titolo di avvocato è necessario conseguire un diploma di laurea in “giurisprudenza” e svolgere un periodo di praticantato presso uno studio di un altro avvocato, ed è condizione necessaria per potere sostenere un esame per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione. L’avvocatura viene esercitata come libera professione, ed è incompatibile con rapporti di lavoro subordinato, fatta eccezione per i ricercatori e i professori universitari, oltre che per i dipendenti della pubblica amministrazione in servizio esclusivo presso l’ufficio legale dell’ente di servizio, i quali, sono iscritti in un albo speciale e possono esercitare esclusivamente a favore dell’ente per il quale lavorano. L’assistenza in sede di giudizio è obbligatoria, mentre il lavoro di consulenza viene fornito sulla base di un conferimento formale dell’incarico, in modalità scritta.
Avvocati: sono una casta? Mariano Acquaviva su laleggepertutti.it il 13 Novembre 2019. L’avvocatura italiana rappresenta una casta? La classe forense gode di particolari privilegi? Esiste una casta forense in Italia?
Karl Marx scriveva: «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classe». Un pensiero forse un po’ datato, ma che introduce bene il tema di cui vorrei parlarti con questo articolo: l’avvocatura italiana rappresenta una casta? Sicuramente, la figura dell’avvocato è molto cambiata nel corso degli anni: se un tempo all’avvocato ci si rivolgeva come se fosse stato il depositario della legge, oggi si va presso uno studio legale come se ci si recasse da un burocrate o, peggio ancora, da uno scribacchino. Ciò che ho appena detto non vale ovviamente sempre, e soprattutto non vale per tutti: la considerazione che gli italiani hanno dei difensori, però, è di gran lunga peggiorata rispetto al passato. Nonostante ciò, ancora oggi qualcuno si pone questa domanda: gli avvocati sono una casta? Sebbene avrai già compreso quale sia la mia posizione sul punto, ad essere oggettivi ci possono essere degli aspetti che possono indurre a pensare, dall’esterno, che la classe forense costituisca un ordine solido e granitico i cui privilegi sono intoccabili. In realtà, non è così e ti spiegherò perché. Ti consiglio di prenderti qualche minuto da dedicare alla lettura di questo articolo: vedremo insieme se gli avvocati costituiscono ancora una casta.
Perché gli avvocati sono una casta? Cominciamo questo nostro viaggio all’interno della classe forense esaminando dapprima quali sono gli aspetti che possono indurre i cittadini a pensare che l’avvocatura sia una casta, cioè che costituisca una classe sociale protetta e munita di speciali privilegi.
L’avvocato è obbligatorio per legge. Milita a favore dell’idea per cui gli avvocati sono una casta l’obbligo legale di nominare un difensore nel caso in cui si voglia cominciare un giudizio: infatti, ad eccezione di poche ipotesi (ad esempio, cause davanti al giudice di pace di valore inferiore ai 1.100 euro), chi vuole intraprendere un percorso giudiziario deve farlo munendosi di difensore. L’obbligatorietà dell’avvocato è ancora più forte nel giudizio penale: mentre in un processo civile il convenuto potrebbe anche disinteressarsi completamente della causa, la persona imputata di un reato deve obbligatoriamente essere assistito da un difensore, tant’è vero che, se non provvede a nominarne uno di fiducia, il magistrato gliene assegna uno d’ufficio, il quale dovrà comunque essere pagato. In realtà, l’obbligo di avere un avvocato è la naturale conseguenza del diritto alla difesa sancito direttamente in Costituzione. Starai pensando: ma che diritto è se devo pagarlo? Ebbene, sappi che:
l’ordinamento giuridico garantisce il gratuito patrocinio a tutti coloro che possiedono un reddito inferiore ai limiti di legge;
il processo italiano (civile, penale, tributario o amministrativo che sia) è talmente complesso da necessitare per forza dell’intervento di un esperto del settore. Voler affrontare un giudizio da soli è un po’ come volersi sottoporre a un intervento chirurgico decidendo di fare da sé. Dunque, l’obbligo alla difesa tecnica è una garanzia per tutti i cittadini.
La parcella dell’avvocato è tutelata dalla legge. Si potrebbe pensare che gli avvocati sono una casta perché la loro parcella (a volte) è molto esosa e, quando non ne è concordata una, interviene la legge a supplire dettando dei criteri di determinazione. In realtà, la legge lascia libere le parti di pattuire l’onorario che ritengono più conveniente: i parametri legali intervengono a fornire un criterio di riferimento solamente nel caso in cui l’avvocato non abbia fatto firmare alcun preventivo al proprio cliente. Dunque, i parametri ministeriali servono a tutelare l’avvocato nel caso in cui non ci sia stato un accordo scritto tra le parti; in caso contrario, avvocato e cliente possono stabilire la parcella liberamente.
Gli avvocati si proteggono a vicenda. Molti pensano che gli avvocati siano una casta perché tendono a proteggersi tra loro. Cosa significa? Molte volte, i clienti lamentano il fatto che non riescano a trovare un avvocato disposto ad assisterli nelle cause da intraprendere contro altri avvocati, in genere per inadempimenti professionali. Tizio aveva incaricato l’avvocato Caio di recuperargli un vecchio credito. A causa dei ritardi di Caio, il credito finisce in prescrizione. Allora, Tizio va da un altro avvocato, Sempronio, chiedendogli di aiutarlo a fare causa a Caio per il suo inadempimento al mandato. In casi del genere, può succedere che un avvocato sia un po’ restio a citare in giudizio un proprio collega. Bisogna dire che si tratta di episodi non rari, soprattutto nelle piccole città ove i colleghi si conoscono un po’ tutti. Questa scelta non significa necessariamente che, a monte, ci sia un’ideologia di tipo corporativistica: semplicemente, la conoscenza che può esserci tra due avvocati spinge a non farsi causa tra di loro. Si tratta più di una forma di rispetto che di protezione vera e propria. Inoltre, l’affermazione per cui gli avvocati sono una casta perché si proteggono le spalle a vicenda è solo in parte vera: tanti legali sono disposti a screditare i propri colleghi pur di accaparrarsi qualche incarico in più.
Perché gli avvocati non sono una casta? Visti quali sono i principali motivi che potrebbero indurre a pensare che gli avvocati sono una casta, vediamo ora tutte le ragioni per cui l’avvocatura italiana sia ben lontana dall’essere una classe sociale coesa.
Non potrebbe esistere una casta così numerosa. Innanzitutto, bisogna partire da un dato di fatto: l’Italia vanta un numero di avvocati davvero esagerato, superiore ai duecentomila. Il concetto di casta, al contrario, presuppone una classe composta da un numero ristretto di persone, unite tutte da uno scopo comune che è quello di tutelarsi. Purtroppo, solamente chi vive dall’interno la realtà dell’avvocatura italiana sa che, da questo punto di vista, gli avvocati sono ben lontani dall’essere una casta o almeno una classe sociale: all’interno di essa, infatti, esistono troppe disomogeneità, per cui è impossibile che gli avvocati abbiano tutti gli stessi interessi. Se di casta si può parlare, essa esiste solamente tra avvocati di pari importanza, cioè tra colleghi che sono titolari di grandi studi e i cui guadagni non hanno nulla a che vedere con la piccola avvocatura di provincia la quale rappresenta la stragrande maggioranza dei professionisti legali.
Chiunque può diventare avvocato. Inutile negarlo: grazie al numero aperto delle facoltà di giurisprudenza, chiunque può diventare avvocato, se lo vuole. Certo, la strada non è semplice: occorre completare un corso quinquennale di studi; dopodiché, affrontare diciotto mesi di praticantato e, infine, un esame di Stato che si tiene solo una volta all’anno e per i cui risultati occorre attendere non meno di sei mesi. Anche se non è facile, dunque, chiunque abbia il desiderio di divenirlo può essere un avvocato. Una casta, invece, è per definizione composta da un numero chiuso o comunque ristretto di persone. Diverso è, invece, il discorso della “sopravvivenza”: tutti, con un po’ di buona volontà e con sacrificio, possono indossare la toga; il problema è riuscire a conservarla per gli anni a venire. Come ti spiegherò nei prossimi paragrafi, la condizione economica di una buona parte dell’avvocatura italiana è davvero pessima. Il rischio, dunque, è di veder realizzato il proprio sogno solamente per poco tempo.
La condizione economica degli avvocati. Quanto detto sul finire del precedente paragrafo ci offre l’occasione di parlare di un altro aspetto per cui gli avvocati non sono una casta: la situazione economica. Gli avvocati, come tutti gli altri liberi professionisti, vivono un periodo storico di grande contrazione dei guadagni: la crisi economica globale e nazionale, non da ultimo, ha contribuito a restringere la clientela praticamente di tutti i legali. I tempi degli avvocatoni con le loro grasse parcelle è un ricordo lontano e, se ancora oggi qualche avvocato si consente il lusso di presentare un onorario di migliaia e migliaia di euro, rappresenta l’eccezione.
La legge non tutela gli avvocati. Sei sicuro che la legge protegga gli avvocati? La classe forense non solo è tra le più bistrattate in assoluto, ma è anche tra le più vessate: un avvocato deve pagare da sé i propri contributi, le tasse, le spese ordinarie che occorrono per spostarsi da un tribunale all’altro, l’attrezzatura necessaria per gli invii telematici, le bollette del proprio studio, l’assicurazione professionale obbligatoria, l’iscrizione annuale all’ordine di appartenenza, e tante altre spese più o meno fisse. Per non parlare delle volte in cui l’avvocato deve anticipare le spese di giustizia perché il cliente è in ritardo con i pagamenti. In quanto titolare di partita Iva, l’avvocato gode di una scarsissima tutela da parte della legge: non ha le ferie pagate, non gode di permessi di malattia, non può assentarsi da lavoro perché deve assistere i genitori anziani. Insomma: all’avvocato toccano tutti gli inconvenienti tipici della libera professione.
Il gratuito patrocinio penalizza gli avvocati. A dimostrazione del fatto che non esistono leggi che tutelano gli avvocati, ti parlerò brevemente del gratuito patrocinio. Come anticipato, poiché la difesa in giudizio è un obbligo, le persone titolari di un reddito inferiore ai limiti di legge (circa undicimila euro), può chiedere all’avvocato di essere assistito senza alcun esborso. Nel caso di gratuito patrocinio, chi paga l’avvocato? La risposta è semplice: lo Stato. Ma hai idea di quanto tempo lo Stato ci metta a pagare un avvocato? Con la procedura di patrocinio a spese dello Stato, la parcella dell’avvocato verrà pagata:
solamente a fine incarico (il che può significare anche dover attendere un decennio);
ridotta di un terzo rispetto ai parametri ordinari;
con il ritardo tipico delle pubbliche amministrazioni.
Insomma, il gratuito patrocinio, per un avvocato, spesso e volentieri significa dover lavorare davvero gratuitamente.
In definitiva: gli avvocati sono una casta? Tirando le fila di tutte le ragioni schematicamente esposte fino a questo momento, ritengo di non essere nel torto giungendo a questa conclusione: l’avvocatura non è una casta. Non esistono, infatti, favoritismi per gli avvocati, né privilegi da parte della legge. Sfido chiunque stia leggendo questo contributo a trovare una norma di legge che preferisca gli avvocati anziché altri lavoratori. Se è vero che gli avvocati non sono una casta, bisogna però dire che, come in ogni ambito lavorativo, esiste una forma di coesione (piuttosto blanda, invero) tra gli avvocati, coesione dovuta essenzialmente a una forma di rispetto per la professione e per i tanti sacrifici che un legale deve fare per portare avanti il proprio studio tra mille difficoltà, economiche e burocratiche. Insomma: tra avvocati c’è il rispetto che intercorre tra chiunque sia collega di un altro, in qualsiasi settore operi. Troppo poco per poter parlare di casta.
Parcella avvocato: tutto quello che c’è da sapere. Da Redazione di Leggioggi.it 3 aprile 2019. Inizialmente i criteri utilizzati per stabilire l’entità della parcella erano: l’accordo tra le parti, le tariffe e la determinazione giudiziale. La legge Bersani 248 del 2006 ha introdotto forti modifiche al sistema di applicazione delle tariffe, abolendo l’obbligatorietà dei minimi tariffari e rendendo legittima la stipula di un accordo tra professionista e cliente per cui il compenso del primo può essere calcolato in percentuale rispetto al risultato ottenuto dal secondo. Con la legge 27 del 2012 di conversione del Decreto legislativo 1 del 2012 il procedimento adottato nella determinazione del compenso per l’attività professionale degli avvocati ha riscontrato una trasformazione fondamentale. La legge ha cassato completamente le tariffe calcolate per le professioni regolamentate nel sistema ordinistico e l’intero sistema tariffario forense. Per determinare il compenso professionale è necessario procedere con un accordo tra il professionista e il cliente in seguito al quale va quindi stipulato un contratto d’opera professionale. Emerge la fondamentale centralità dell’accordo tra il professionista e il cliente, che abroga modo implicito altre formule di determinazione del compenso come quella degli usi e dell’eventuale ricorso al parere di un’associazione professionale. La legge 247 del 2013 ha ripreso un sistema speciale di determinazione e saldo del compenso per gli avvocati. In merito alla determinazione del compenso si afferma in essa che il compenso dovuto al professionista vada pattuito in forma scritta e al momento del conferimento dell’incarico professionale. Nel 2017 sono stati introdotti altri decreti con la riforma dell’Ordinamento Forense che hanno stabilito nuove tariffe per il calcolo della parcella dell’avvocato. In primo luogo è stata effettuata una netta distinzione tra consulenza e assistenza.
La consulenza è riferita a singoli episodi nei quali l’avvocato offre la propria professionalità a un cittadino per un caso specifico.
L’assistenza prevede invece un’attività continuativa e prolungata nel tempo.
La tabella stabilita dal Cnf definisce le regole da seguire per calcolare la parcella in caso consulenza e di assistenza, conteggiando dettagliatamente le ore dedicate alle diverse attività. In caso di mediazione la parcella dovuta all’avvocato su può calcolare seguendo i parametri che regolano le tariffe per l’attività stragiudiziale o seguendo le nuove tabelle per cui il calcolo del compenso deve tener conto del valore che ha la mediazione dichiarata nell’istanza nella fase di attivazione, di negoziazione e di accordo. L’avvocato percepisce il proprio compenso in base ai passaggi che porta a termine. Nel caso di una mediazione del valore complessivo di 1000 euro, l’avvocato che riuscirà a concludere l’accordo avrà un corrispettivo pari a 360 euro, quello che si arresterà in fase di negoziazione avrà una parcella di 180 euro, quello che sarà presente esclusivamente al primo incontro, un compenso di 60 euro. L’8 marzo 2018, con il decreto ministeriale 37, sono entrate in vigore alcune modifiche ai parametri per la liquidazione dei compensi degli avvocati. Le modifiche interessano i parametri generali per i compensi giudiziali, l’attività penale, l’attività arbitrale, l’assistenza di più soggetti con la stessa posizione processuale, i giudizi dinanzi al Tar, i procedimenti di mediazione e negoziazione assistita, l’attività stragiudiziale e il c.d. avvocato telematico.
Parcella dell’avvocato: quanto conta il parere dell’Ordine? Da Silvia Surano il 25 maggio 2012 su leggioggi.it. In un periodo in cui l’abrogazione delle tariffe professionali è argomento centrale, sono moltissimi gli avvocati in seria difficoltà per la riscossione delle parcelle. In tempo di crisi, infatti, percepire il compenso dovuto dal proprio assistito o dalla parte soccombente non è più il naturale epilogo dello svolgimento dell’attività professionale e sempre più spesso, ci si trova costretti a procedere con l’ingiunzione di pagamento. Nonostante la legge preveda anche un procedimento speciale “agevolato” per la liquidazione delle prestazioni giudiziali civili (art. 29 Legge 13 giugno 1942, n. 794) e, comunque, l’avvocato può sempre scegliere di procedere con decreto ingiuntivo, riuscire ad ottenere il quantum dovuto non è impresa semplice. A conferma di ciò, una recentissima sentenza della Cassazione Civile, n. 7764/2012 depositata il 17 maggio scorso la quale, pur non stravolgendo ma semplicemente riconfermando gli orientamenti giurisprudenziali costanti, sottolinea e ribadisce alcune posizioni in merito alla liquidazione di diritti e onorari del procedimento. Tre i punti chiave della decisione: in primo luogo, la Corte ridimensiona il ruolo del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Se infatti la parcella corredata dal parere di conformità assume il valore di prova privilegiata ed è vincolante per il Giudice chiamato a pronunciare l’ingiunzione, tale valore viene facilmente vanificato dalla semplice opposizione ex art. 645 c.p.c. proposta dal convenuto. In questo caso la parcella, finanche vidimata dal Consiglio dell’Ordine, assume il valore di semplice dichiarazione unilaterale del professionista, con conseguente inversione dell’onere della prova in merito alla effettività della prestazione, all’applicazione delle tariffe e alla rispondenza delle stesse, valutazione tra l’altro lasciata al libero apprezzamento del giudice. Ma c’è di più. In seconda battuta la Corte afferma che la valenza probatoria della parcella corredata dal parere dell’Ordine può essere vanificata in sede di opposizione con una “contestazione anche di carattere generico“, la quale “è idonea e sufficiente ad investire il giudice del potere-dovere di dar corso alla verifica della fondatezza della contestazione e, correlativamente, a far sorgere per il professionista l’onere probatorio in ordine tanto all’attività svolta quanto alla corretta applicazione della pertinente tariffa“. Secondo la Suprema Corte, quindi, il parere del Consiglio dell’Ordine non ha valore di certificazione amministrativa e non esonera il professionista dal provare il fondamento della sua pretesa, anche in assenza di contestazione specifica. Da ultimo, la Suprema Corte sottolinea nuovamente la poca importanza della vidimazione del Consiglio dell’Ordine anche in merito all'applicazione dello scaglione tariffario: l’attestazione, infatti, non fa presumere la veridicità del valore della causa indicato dal professionista, dichiarazione che va verificata e valutata in relazione al grado di accoglimento delle domanda. Richiamando i principi ex art. 6 D.M. 392/1990, la Corte ricorda che nell’ipotesi dell’accoglimento parziale, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, nel giudizio per pagamento somme, il valore della causa va calcolato facendo riferimento “alla somma attribuita alla parte vincitrice, piuttosto che quella domandata. In caso di rigetto della domanda, il valore della controversia è determinato dalla somma richiesta, salvo il potere di compensazione, ipotesi riferita alla liquidazione a favore del convenuto vittorioso“. In conclusione, il professionista che non riesce ad ottenere il compenso, pur decidendo di affidare all’autorità del proprio Ordine di appartenenza la vidimazione della parcella, non è esente dal rischio di vedersi ridotto il compenso e, soprattutto, di dover affrontare le lungaggini di un procedimento ordinario.
Parcelle da capogiro: 32milioni di euro per gli avvocati esterni della Regione. Telerama 23 Maggio 2016. Debiti fuori bilancio e parcelle da capogiro agli avvocati esterni: 22 milioni e 400mila euro (a fronte di 1600 notule) sono in attesa di liquidazione in relazione ad incarichi conferiti fino al 2011. Ma a questi numeri vanno aggiunti i compensi pattuiti per gli incarichi dal 2012 ad oggi, e che al momento sono circa 9 milioni 500mila euro. 32milioni di euro, dunque, come precisato dalla coordinatrice dell’Avvocatura regionale, ascoltata in audizione dalla prima commissione consiliare. Assieme alla dirigente amministrativa Emma Ruffino, ha depositato una relazione sulle questioni sollecitate dal presidente Fabiano Amati e dai commissari del Movimento 5 stelle. Oltre all’ammontare delle parcelle, è tato fornito il numero dei procedimenti giudiziari già liquidati e in via di liquidazione e il relativo esborso finanziario riferito al 2015 (circa 3 milioni e 600mila euro) e al 2016 (circa 1 milione 300mila euro). Le controversie contro la Regione calcolate a partire dal 2006 sono circa 21mila. Del caso si occupò Telerama in tempi non sospetti e portò ad una durissima nota degli avvocati all’allora giunta Vendola. Durante l’audizione, è emersa la necessità di metter mano all’organizzazione dell’Avvocatura: in particolare è stata sollecitata la necessità di implementare l’organico – carente di 10 unità e del dirigente legale – sia per consentire la riduzione del contezioso e il ricorso agli affidamenti esterni, che per consentire maggiore attività consultiva.
Parcelle d' oro e incarichi "in famiglia" i nuovi re delle consulenze alla Regione. Antonio Fraschillà su La Repubblica 20 aprile 2013.
IN PASSATO i principi del foro erano Gaetano Armao e Giovanni Pitruzzella. Oggi all' orizzonte si affacciano volti nuovi, come quelli di Claudio Alongi e Stefano Polizzotto. E studi da anni sul campo, come quelli di Garilli, Galasso e Fortuna. La torta che si dividono è il business milionario nato e cresciuto sotto i governi di Cuffaro e Lombardo con il boom delle società partecipate: quello delle consulenze legalie tributariee degli incarichi per difese in giudizio. Un business che sembra studiato per alimentare gli incarichi esterni: in nessuna delle società è mai stata prevista la presenza di uffici legali, né di uffici appositi per elaborare le buste paga. Creando così all' esterno un giro d' affari a sei zeri che vede studi professionali più o meno noti farla da padrone. E contendersi parcelle anche da oltre un milione all' anno. Se il governatore Rosario Crocetta ha alzato il velo sulla mega-consulenza affidata da Riscossione Sicilia allo studio D' Alcontres, Astone e Sorci nei primi anni Duemila, e chiusa nel 2010 per un costo complessivo di circa 10 milioni, tanti sono stati gli incarichi eccellenti. E oggi il mercato continua a proliferare.
STUDI E PARCELLE D' ORO. La madre di tutte le maxi consulenze è certamente quella assegnata dalla Serit allo studio D' Alcontres, Astone e Sorci. Ma spulciando tra gli incarichi assicurati negli anni scorsi dalle partecipate di Palazzo d' Orleans si trovano altri contratti da capogiro. L' Ast, ad esempio, nel 2006 ha liquidato una parcella da 350 mila euro all' avvocato Alberto Stagno d' Alcontres per pareri riguardo al «passaggio della società da ente pubblico a spa». Siciliacque nel 2007 ha dato due incarichi annuali da 120 mila euro per difese in giudizio sempre ad Alberto Stagno d' Alcontres e Giovanni Pitruzzella. Nel 2009 l' importo è stato dimezzato e Pitruzzella, appena nominato lo scorso anno alla presidenza dell' Antitrust, ha lasciato subito l' incarico e chiuso lo studio professionale. La consulenza è stata quindi affidata all' avvocato Francesco Stallone, in passato socio di Pitruzzella. Tra le controllate della Regione che negli anni hanno assegnato un elevato numero d' incarichi professionali ad avvocati esterni c' è sicuramente l' Ente acquedotti siciliani. Anche se, a dir la verità, spesso non ha pagato le parcelle in toto. Sul tavolo del commissario dell' ente, Dario Bonanno, ci sono richieste di liquidazione parcelle per circa 3 milioni di euro: lo studio dell' ex assessore Gaetano Armao chiede 790 mila euro, quello dell' avvocato Stefano Vinti 250 mila euro e quello di Tullio Fortuna 110 mila. Quest' ultimo per anni ha ricevuto incarichi dalla Beni culturali spa ed è consulente della Servizi ausiliari Sicilia (Sas), che ha incorporato Multiservizi e Biosphera. Nella Beni culturali spa per difese legali fatte dal 2007 al 2009 ha ricevuto un compenso da 60 mila euro anche l' avvocato Sergio Monaco. La Serit ha poi liquidato parcelle da 16 mila euro all' anno allo studio Pinelli-Schifani, fondato dell' ex presidente del Senato, Renato, e poi trasferito al figlio Roberto.
I NUOVI RE DEGLI INCARICHI La Sas, appena nata, è già prolifica in materia di consulenze e d' incarichi. Ad averne ricevuto il maggior numero è certamente l' avvocato Claudio Alongi, già commissario dell' Aran, l' Agenzia per la contrattazione dei dipendenti regionali,e marito del segretario generale di Palazzo d' Orleans, Patrizia Monterosso. Tra il 2012 e il 2013 Alongi ha ricevuto circa 130 incarichi di difesa in giudizio contro dipendenti o interinali: ogni incarico prevede un compenso da minimo tariffario, che sommando totalizzeranno una parcella di oltre 200 mila euro. Alongi è anche consulente della Sas, con contratto firmato il 15 giugno 2012 e a giorni in scadenza: compenso 16 mila euro. Per il riordino delle società confluite nella Sas ha ottenuto un incarico da 19.230 euro (per quattro mesi di lavoro nel 2012) un altro avvocato spesso chiamato a lavorare nelle spa regionali: Alessandro Garilli, ex sottosegretario nel primo governo Prodi, che fino allo scorso dicembre è stato consulente anche della Serit, compenso da 20 mila euro l' anno. Con l' arrivo del governo Crocetta altri volti, vecchi e nuovi, si stanno affacciando tra gli avvocati che ricevono affidamenti dalle spa: Sviluppo Italia Sicilia ha dato quattro incarichi per difesa in giudizio ad Alongi e altri quattro a Stefano Polizzotto, attuale capo della segreteria tecnica di Palazzo d' Orleans. Polizzotto, che siede anche nel cda della Sas, ha ricevuto un quinto incarico per difendere l' Irsap, che ha accorpato tutte le ex Asi. L' Irsap, oggi guidata da Alfonso Cicero, sta affidando poi diversi incarichi ad altri legali: tra questi Nicola Piazza, ex presidente di Sviluppo Italia, e Alfredo Galasso, con importi variano dai 5 ai 7 mila euro. La Seus invece ha come esperti legali, con compenso da 40 mila euro all' anno, Giuseppe Mazzarella e Marco Marazza. previsto lo stop alle consulenze, in materia legale e non, nelle partecipate. Ma oggi sono ancora decine gli incarichi in vigore. Il Parco scientifico ha tra i suoi consulenti Giorgio Sangiorgio (compenso da 16 mila euro), Paolo La Pergola (3 mila) e Giovanni Mottese (3 mila). Sicilia e-Servizi ha Francesco Ioppolo e Antonino Li Volsi (24 mila euro). Sicilia e-Ricerca si rivolge al commercialista Errante Parrino (9 mila euro). Otto i consulenti della Seus, tra cui il presidente dell' Ordine dei commercialisti Fabrizio Escheri (28.800 euro) e Marco Vitale (12.500). Lavoro Sicilia, in liquidazione, haa libro paga una decina di esterni: i principali sono Paola Maria Iracani (20 mila euro) e Alessandro La Marca (14 mila euro). La Sas ha come esperti anche l' avvocato Domenico Di Benedetto (17.500 euro) e l' architetto Domenica Cicero (37 mila euro). La Trinacria onlus ha affidato a un gruppo di studi, tra cui quello di Girolamo Morisco, la compilazione delle buste paga: costo, 500 mila euro all' anno.
Cogne, parcelle mai pagate dai Franzoni: Taormina vuole far pignorare villa del delitto. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it da Cristina Marrone. L’ex legale di Annamaria Franzoni vuole recuperare 275 mila euro dell’onorario mai pagato ma lei si oppone. Decide il tribunale di Aosta. Diciassette anni dopo il delitto di Cogne, quando il 30 gennaio 2002 fu ucciso nel lettone di casa il piccolo Samuele Lorenzi, di appena tre anni, la villetta di frazione Montroz, da allora disabitata, è ora al centro di una disputa giudiziaria. A chi ricorda il teatro mediatico di allora non sfuggirà che l’avvocato Carlo Taormina, subentrato al collega Carlo Federico Grosso per difendere Anna Maria Franzoni dall’accusa di aver ucciso il figlio, da tempo pretende di essere risarcito per il mancato compenso, nonostante la famiglia Franzoni (che poi optò per un terzo legale, Paola Savio) avesse sempre sostenuto che il legale si fosse offerto di assisterla a titolo gratuito. Franzoni, che si è sempre dichiarata innocente, ha scontato 16 anni di carcere ma nel 2017, con sentenza civile, è stata condannata a risarcire il penalista per un mancato compenso di oltre 275 mila euro per averla difesa (Taormina di euro ne aveva chiesti 700 mila). Ora però l’avvocato Carlo Taormina chiede di pignorare la villetta del delitto per recuperare il denaro del mancato pagamento della parcella. Torna così a essere ancora oggetto del contendere quella villetta che tutti gli italiani sopra i 20 anni hanno imparato a conoscere grazie a innumerevoli talk televisivi, articoli di giornali, interviste, approfondimenti. All’epoca dei processi la casa è stata al centro di moltissime perizie e scontri tra esperti di accusa e difesa, aspre battaglie combattute dalle aule di giustizia ai salotti televisivi, ma anche luogo di misteri mai chiariti sulla dinamica del delitto e colpi di scena a ripetizione. La sentenza del tribunale di Bologna che ha accolto le ragioni dell’avvocato Taormina è esecutiva da marzo 2017. Gli onorari da pagare a Taormina furono quantificati in 275 mila euro, che arrivano, nell’atto di precetto, a oltre 470 mila sommati di Iva, interessi e cassa previdenza avvocati. Il 22 ottobre a Franzoni è stato notificato il pignoramento che riguarda quello che a quanto pare sarebbe l’unico bene aggredibile: metà della proprietà immobiliare dove la donna, ora residente sull’Appennino bolognese, era pure tornata per qualche giorno nel novembre del 2018 dopo aver concluso la pena, scontata negli ultimi anni in detenzione domiciliare ma col divieto di tornare nel comune della Val d’Aosta. Annamaria Franzoni fu notata da alcuni vicini di casa e, ancora una volta, si ritornò a parlare di lei e della villa. L’11 novembre Franzoni si è però opposta al pignoramento, iscrivendo a ruolo, ad Aosta, la procedura. In pratica, oltre a un vizio nella notifica dell’atto, si sostiene che la villetta non è pignorabile perché è all’interno di un fondo patrimoniale, costituito a maggio 2009 da Franzoni e dal marito Stefano Lorenzi. Il giudice dell’esecuzione Paolo De Paola di Aosta ha fissato un’udienza l’11 dicembre. In quella data forse si saprà se la villa resterà ai Franzoni o finirà nelle mani del loro ex avvocato.
Cogne, l’avvocato Carlo Taormina chiede il pignoramento della villetta: “Annamaria Franzoni mi deve 450mila euro”. Il legale, a cui è stato riconosciuto il diritto a essere pagato dal Tribunale di Bologna, ha avviato una contesa sulla villetta dove avvenne l'infanticidio per cui la donna ha scontato 16 anni. Il Fatto Quotidiano il 4 dicembre 2019. È una querelle che dura da tempo e che da tempo è finita nelle aule dei Tribunali. Ovvero il mancato pagamento della parcella all’avvocato Carlo Taormina da parte di Annamaria Franzoni, la donna condannata per l’omicidio del figlio Samuele. Il legale, a cui è stato riconosciuto il diritto a essere pagato, ha avviato una contesa sulla villetta di Cogne dove avvenne l’infanticidio. Taormina vuole che sia pignorata, la Franzoni si è opposta e della vicenda, secondo quanto riporta l’Ansa, si occuperà il Tribunale di Aosta. La sfida legale sulla casa di Montroz dove il 30 gennaio 2002 fu ucciso il piccolo Samuele, delitto per cui la madre ha scontato una pena di 16 anni, ha origine nella sentenza civile che ha condannato Franzoni a risarcire il penalista per un mancato compenso di oltre 275mila euro, per la difesa nel giudizio. Torna dunque oggetto di contrapposizione la casa dell’omicidio, all’epoca dei processi al centro di innumerevoli perizie e scontri tra esperti di accusa e difesa, aspre battaglie combattute dalle aule di giustizia ai salotti televisivi, ma anche luogo di misteri mai chiariti sulla dinamica del delitto. La sentenza del tribunale di Bologna che ha accolto le ragioni dell’avvocato Taormina è esecutiva da marzo 2017. Gli onorari da pagare a Taormina furono quantificati in 275mila euro, che arrivano, nell’atto di precetto, a oltre 470mila sommati di Iva, interessi e cassa previdenza avvocati. Il 22 ottobre a Franzoni è stato notificato il pignoramento che riguarda quello che a quanto pare sarebbe l’unico bene aggredibile: metà della proprietà immobiliare dove la donna, ora residente sull’Appennino bolognese, era pure tornata per qualche giorno un anno fa, dopo aver concluso la pena, scontata negli ultimi anni in detenzione domiciliare ma col divieto di tornare nel comune della Val d’Aosta. L’11 novembre Franzoni, assistita dagli avvocati Maria Rindinella e Lorenza Parenti del foro di Bologna, si è opposta al pignoramento, iscrivendo a ruolo, ad Aosta, la procedura. In pratica, oltre a un vizio nella notifica dell’atto, si sostiene che la villetta non è pignorabile perché è all’interno di un fondo patrimoniale, costituito a maggio 2009 da Franzoni e dal marito Stefano Lorenzi. Il giudice dell’esecuzione Paolo De Paola ha fissato un’udienza l’11 dicembre. Taormina, che difese Franzoni fino al processo di appello, è assistito dal figlio Giorgio e dall’avvocato Giuseppina Foderà di Aosta. “Ho fatto una causa civile nei confronti della signora Franzoni perché non mi ha pagato gli onorari, è stata pronunciata una sentenza che è passata in giudicato che mi ha assegnato circa 450mila euro di onorari. Siccome ho fatto richiesta di esecuzione della sentenza e non ho avuto alcuna risposta ho fatto il pignoramento dell’unica cosa che so esistente, cioè la villetta di Cogne – spiega Taormina all’AdnKronos – Il pignoramento lo abbiamo già fatto, la vendita dell’immobile ancora non è stata fissata anche perché può darsi che le parti intervengano, ora vediamo che succede. Siccome non sono stato pagato ho fatto il pignoramento e quello che mi compete lo avrò attraverso l’esecuzione immobiliare”.
Spese legali, un vademecum. Nicola Canestrini il 10 Aprile 2018. Come si determina la parcella dell'avvocato? Ci si può accordare sul compenso? Cosa sono i parametri? C'è un minimo ed un massimo che l'avvocato può richiedere? Il cliente ha diritto al preventivo? Quando si ha diritto al rimborso? Chi perde, paga? A chi spetta la somma che il giudice liquida in sentenza? Chi paga in caso di assoluzione in un processo penale? C'è chi teme le spese legali, non sapendo che l'avvocato - che risponde per eventuali inesattezze nella assistenza ed è obbligato ad avere una assicurazione professionale - si deve attenere a rigidi criteri nella redazione della parcella, redatta secondo l'accordo con il cliente o - se l'accordo manca - nel rispetto dei parametri predeterminati dalla legge . Chi tenta il "fai da te" in controversie giuridiche (o chi preferisce inizialmente andare al risparmio) spesso finisce per spendere molto di più (anche in termini di .. energia), rischiando anche di pregiudicare il risultato finale.
1. IL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO - ASSICURAZIONE CD. TUTELA GIUDIZIARIA. Non si abbia alcun timore di chiarire prima dell'incarico professionale ogni dubbio sui costi, anche per verificare la possibilità di fruire del patrocinio a spese dello Stato o di una assicurazione per le spese legali (cd. tutela giudiziaria).
2. I NUOVI SISTEMI DI TARIFFAZIONE: ACCORDO O PARAMETRI. Al di là delle spese del processo (chiamate anche spese processuali, consistenti in un importo forfetizzato variabile a seconda della procedura oltre ad eventuali esborsi della procedura giudiziale quali perizie, copie, intercettazioni telefoniche, .. a cui si aggiungono anche eventuali ammende per impugnazioni non accolte) il cliente deve affrontare anche le spese dell'avvocato difensore, le cd. spese legali. Nell'antichità l'assistenza legale era gratuita (mandatum = contratto gratuito), potendo essere remunerata a titolo di mera gratitudine (honorarium). Oggi non è più così. Il sistema dei compensi degli avvocati ha peraltro subito negli ultimi anni profondi cambiamenti (in calce i riferimenti normativi e giurisprudenziali più importanti): rimane fermo che l'avvocato non ha alcun l'obbligo di assumere l'incarico, dato che egli è un libero professionista che, in libertà, autonomia e indipendenza esercita la funzione difensiva al fine di garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti. Tornando al modo di determinare il compenso, in sintesi, a partire dal 2006 si è passati nel 2013 da un sistema tariffario determinato dalla legge ad un sistema imperniato sul principio della libera determinazione del compenso; dal 2017 l'avvocato è obbligato a fornire al cliente un preventivo scritto.
(A) L'ACCORDO FRA AVVOCATO E CLIENTE. Fondamento per il rapporto professionale è il rapporto di fiducia tra cliente ed avvocato. Il compenso è lasciato in prima battuta all'accordo fra cliente ed avvocato; l'accordo vale quindi solo fra questi due soggetti e non influenza ad es. le spese liquidate in sentenza dal giudice (che sono liquidate per rimborsare la parte vittoriosa di quanto speso; sarebbe buona norma regolare nell'accordo iniziale anche la sorte dell'eccedenza fra spese concordate fra le parti e spese liquidate in sentenza). Se le spese liquidate a carico della controparte sono invece minori di quelle concordate, la cassazione ha comunque ribadito che "il cliente è tenuto al pagamento degli onorari nei confronti dell'avvocato indipendentemente dalla statuizione del giudice sulle spese giudiziali" (Cassazione civile, Sez. VI, n. 5224/18; qui qualche approfondimento su quel che succede quando il cliente si tiene i soldi liquidati a favore dell'avvocato). Quanto all'accordo sul compenso dell'avvocato, l'articolo 13 della nuova legge professionale forense (legge 247/2012, o "L.P.F.", come modificato dalla legge sulla concorrenza 2017) stabilisce che:
1. il compenso spettante al professionista è pattuito oralmente o (di regola) per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale; oltre al compenso spetta all'avvocato il rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente nonché una somma per il rimborso delle spese forfetarie;
2. la pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione, fermo restando il principio di adeguatezza all'importanza dell'opera ed al decoro della professione ex art. 2233/2 Codice Civile;
3. sono (nuovamente) vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa; rimangono deontologicamente illeciti i patti stipulati tra avvocato e cliente che prevedano compensi sproporzionati all'attività svolta e quelli che prevedano la cessione diretta a favore del patrocinatore di beni e diritti spettanti al cliente (art. 1261 cod. civ., come chiarito dal CNF con parere 19/2007). Quanto al pagamento "a percentuale", è ammesso determinare il compenso del difensore "a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione", ma è vietata la percentuale sull'esito processuale ( cfr. l'approfondimento sul cd. patto di quota lite contenuto nella sentenza 225/13 del Consiglio nazionale forense);
4. l'avvocato è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale (si veda infra sugli oneri accessori sempre dovuti oltre il compenso pattuito). Peraltro, il compenso per l’attività posta in essere deve essere pur sempre proporzionato alla reale consistenza ed all’effettiva valenza della attività professionale espletata (ex plurimis: Cons. Naz. Forense, 3 luglio 2017, n. 79). L’avvocato che quindi chieda compensi eccessivi e anche sproporzionati rispetto alla natura e alla quantità delle prestazioni svolte pone in essere un comportamento deontologicamente scorretto perché lesivo del dovere di correttezza e probità a cui ciascun professionista è tenuto (così, recentemente: Cons. Naz. Forense, 13 luglio 2017, n. 102). E' peraltro previsto il diritto dell'avvocato di rendere la prestazione professionale gratuitamente (es. per motivi etici e sociali): si tratta di un diritto, non di un .. dovere.
E se c'è contestazione? In caso di malintesi tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell'ordine al quale appartiene l'avvocato (ricerca avvocato sul sito del Consiglio Nazionale forense o sulle pagine dei singoli ordini) affinché esperisca un tentativo di conciliazione. In mancanza di accordo il consiglio, su richiesta dell'avvocato, può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell'avvocato in relazione all'opera prestata; peraltro, in caso di accordo scritto l'avvocato potrà richiedere l'emissione di un decreto ingiuntivo o fare ricorso per il procedimento sommario di cognizione "speciale" ex art. 702 bis c.p.c. (si veda Cassazione civile, sez. Unite, sentenza 4485/2018).
(B) IL RIFERIMENTO AI PARAMETRI. Se fra avvocato e cliente l'accordo non viene trovato, e in ogni altro caso di liquidazione giudiziale (accordo non determinato in forma scritta, nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi, per prestazioni previste dalla legge, ..) il nuovo sistema ha previsto il ricorso a parametri; dal 3 aprile 2014 tutte le liquidazioni verranno effettuate secondo quanto previsto dal Decreto del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (in Gazzetta Ufficiale il 2 aprile 2014) rubricato "Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell'art. 13 comma 6 della l.p.f." (così superando il decreto ministeriale 140/2012). Come dettagliatamente spiegato nell' approfondimento dedicato ai parametri introdotti dal DM 55/2014, i parametri considerano non più le singole attività dell'avvocato (telefonate, studio degli atti, udienze, colloqui, ecc.), ma solamente le fasi della procedura: nel penale ad esempio sono previste 5 fasi, cioè quella di studio, quella di introduzione del procedimento, quella istruttoria, la fase decisoria e la fase esecutiva. Per ogni fase viene predeterminato un valore medio di liquidazione, che può essere aumentato o diminuito in misura percentuale a seconda delle circostanze concrete (natura, complessità e gravità del caso, del pregio dell'opera dell'urgenza della prestazione, dell'applicazione di misure cautelari, ..) e del giudice competente (il Giudice di pace ha un valore di liquidazione diminuito, laddove la Corte di Assise prevede importi maggiori; cfr. le tabelle con i nuovi parametri forensi di cui al Decreto del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (in GU 2.4.2014; si consideri peraltro che l'Antitrust ha sanzionato il CNF proprio sui cd.minimi nell'ottobre 2014). La somma così determinata può essere aumentata fino all'80% o diminuita fino al 50% per "le caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della complessità del procedimento, della gravità e del numero delle imputazioni, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, dei contrasti giurisprudenziali, dell'autorità giudiziaria dinanzi cui si svolge la prestazione, della rilevanza patrimoniale, del numero dei documenti da esaminare, della continuità dell'impegno anche in relazione alla frequenza di trasferimenti fuori dal luogo ove svolge la professione in modo prevalente, nonché dell'esito ottenuto avuto anche riguardo alle conseguenze civili e alle condizioni finanziarie del cliente. Si tiene altresì conto del numero di udienze, pubbliche o camerali, diverse da quelle di mero rinvio, e del tempo necessario all'espletamento delle attività medesime " (art. 12). Per fare un esempio, un procedimento di competenza del Tribunale Monocratico (competente per la maggior parte dei reati comuni, quali guida in stato di ebbrezza, furto, spaccio, ..) secondo i nuovi parametri costa per le 4 fasi € 3.420,00 oltre accessori (cfr. infra).
Gli oneri accessori. Al compenso - che quindi sarà (a) pattuito o (b) calcolato secondo i parametri - vanno infatti aggiunti i cd. oneri accessori. Per oneri accessori si intendono:
gli esborsi (cioè le spese vive documentate, come ad es. il costo delle copie),
il contributo per le spese generali (15% secondo l'art. 2 DM 55/2014),
le spese di trasferta (art. 27 D.M. 55/2014: costo del soggiorno + 10% e indennità chilometrica pari ad 1/5 del costo carburante per chilometro percorso),
il contributo previdenziale del 4% (C.N.P.A.) e
l'I.V.A. al 22% (aumentata dal 1 ottobre 2013 ex l.98/2011).
Notula o proforma: cos'è? L'importo dovuto a titolo di spese legali viene quantificato dall'avvocato nella cd. notula (o proforma o preavviso), che è sostanzialmente un sollecito di pagamento, senza rilievo fiscale, per evitare di anticipare le tasse prima del pagamento effettivo. La fattura degli avvocati è dovuta al momento del pagamento (come indicato dall’art.6 comma 3 della legge IVA, cd. competenza per cassa) e non .. a causa finita. Qualora non sia possibile l'immediato rilascio della fattura, ad es. per ragioni organizzative dello studio, il cliente ha diritto ad una quietanza di pagamento, cioè una ricevuta, con importo e data del pagamento (e la fattura seguirà). La trasparenza è un diritto: sarà utile verificare sempre i parametri civili, quelli penali e quelli stragiudiziali, nonché leggere con attenzione - prima di firmarlo - il preventivo che oramai ogni avvocato fornisce per iscritto (se non viene fornito, meglio richiederlo .. sempre per iscritto).
3. IL RIMBORSO DELLE SPESE IN CASO DI VITTORIA / ASSOLUZIONE. Anche ai fini previsti dalla legge sul mercato e la concorrenza 2017, per quanto riguarda gli "ulteriori oneri" ai quali è esposto una persona in un procedimento giudiziario, bisogna distinguere un processo civile da quello penale.
In sintesi: (purtroppo) nel processo civile non sempre chi vince recupera anche (tutte) le spese legali mentre nel processo penale nemmeno chi è stato assolto riesce di regola a recuperare quanto speso per l'avvocato.
A. Il processo civile
Nel processo civile, le spese legali (e quelle giudiziali) vanno anticipate dal cliente, che a determinate condizioni, specie se vittorioso, può farsele rimborsare.
Nelle controversie stragiudiziali, le spese inizialmente sono a carico della controparte, qualora debba sopportare i costi di una eventuale procedura giudiziale. Ad esempio, se è inadempiente o deve risarcire un danno. Qualora però sollevi una eccezione, si rifiuterà anche di pagare la notula dell'avvocato: quando entrambe le parti siano assistite da un avvocato, in caso di accordo ognuno pagherà il proprio. Si noti che in caso di una transazione in una vertenza già iniziata, le parti sono solidalmente responsabili per il pagamento del compenso degli avvocati incaricati (anche quello di controparte!), salvo diverso accordo (previgente art. 68 ed ora art. 13/8 Legge Professionale Forense).
In caso di controversia giudiziale, nel giudizio civile il giudice si pronuncerà anche su chi debba pagare le spese legali.
Il principio fondamentale regolante la materia è quello della soccombenza, disciplinato dall'art. 91 c.p.c., secondo il quale "il giudice con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa" (si dice spesso: chi perde paga). Il principio della soccombenza però viene mitigato nel nostro ordinamento dall'art. 92 c.p.c., che fornisce al giudice il potere - utilizzato più frequentemente di quanto non si creda - di compensare le spese in tutto o in parte qualora ci sia soccombenza reciproca oppure concorrano giusti motivi (praticamente insindacabili). Peraltro, la Corte di Cassazione (sez. VI Civile - 2, ordinanza 12 febbraio - 5 maggio 2015, n. 8918), dovendo giudicare la compensazione disposta per "peculiarità della fattispecie", ha statuito che sussisteva violazione di legge (prima ancora che difetto di motivazione). Infatti l'art. 92, comma 2 c.p.c., nuovo testo, dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione. Nel caso in esame della S.C. la formula adottata dal giudice di merito è stata ritenuta del tutto criptica, perché il riferimento alla "peculiarità della fattispecie" non può che essere letto come un richiamo delle vicende di causa nel loro insieme, non meglio indicate. Essa non consentiva, dunque, il controllo sulla motivazione e sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione, ragioni che la novella legislativa impone che siano "esplicitamente" indicate (Cass., n. 26673 del 2007). Né poteva sostenersi che la motivazione sulla statuizione di compensazione dovrebbe essere desunta dal complesso del provvedimento nel quale quella statuizione è inserita, giacché in tal modo all'esplicita motivazione richiesta dall'art. 92 c.p.c., comma 2, alla valutazione del giudice del merito verrebbe impropriamente a sostituirsi quella del giudice di legittimità, trattandosi, per l'appunto, di un onere di motivazione richiesto come condizione di legittimità della statuizione di compensazione e specificamente gravante sul giudice di merito. La Suprema Corte ha quindi cassato la sentenza, sancendo il seguente principio di diritto: -L'art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione: esigenza della specifica motivazione non è soddisfatta quando la compensazione si basi sulla peculiarità della fattispecie, in quanto tale formula è del tutto criptica e non consente il controllo sulla congruità delle ragioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione".
Attenzione:
:: la parte soccombente verrà eventualmente condannata a pagare solo le spese legali ritenute necessarie, determinate unicamente in base alla tariffa: ciò può comportare che attività ritenuta non giustificata dal giudice ma effettivamente svolta nell'interesse della parte assistita rimanga a carico del cliente;
:: se la controparte condannata al rimborso è nullatenente, chi deve pagare il proprio avvocato è sempre il cliente.
Vi sono peraltro criteri complementari per la regolamentazione delle spese processuali.
a) Il principio di casualità. Quella della soccombenza non è l'unico criterio di regolazione delle spese di giudizio. Esso in taluni casi è contemperato e corretto da altri concorrenti. In primo luogo, rileva quel criterio elaborato dalla dottrina e spesso recepito dalla giurisprudenza, secondo cui il fatto oggettivo della soccombenza può essere integrato e corretto da una valutazione soggettiva, costituita dalla c.d. casualità nel giudizio, cioè da una valutazione dei comportamenti soggettivi delle parti, causativi del giudizio. E così, per esempio, attraverso il criterio della causalità, la rigida ed automatica regola della soccombenza può essere mitigata laddove si possa ritenere che la stessa condotta preprocessuale della parte vincitrice abbia influito a determinare la lite giudiziale o nel caso in cui si riconosca, quantomeno, che non solo il soccombente abbia dato causa al giudizio. E' il caso, ad esempio, di una compagnia di assicurazioni, la quale prima del giudizio offra al danneggiato una certa somma (poniamo £. 15.000.000) a saldo di ogni sua obbligazione risarcitoria, e che questa somma non venga accettata dal danneggiato, ritenendo in maniera palesemente pretestuosa che il danno subito sia di entità più consistente. Si immagini, ora, che il successo giudizio accerti che il danno liquidabile ammonti a 6 - 7 milioni e che la compagnia assicuratrice venga condannata in solido col danneggiante al ristoro dei danno entro tale limite. Certamente vi è la soccombenza della parte convenuta, che verrà condannata al pagamento della somma indicata; ma può affermarsi che l'attore con il suo comportamento preprocessuale non abbia contribuito a "causare" la lite? Certamente, no. In casi simili, è prevista la possibilità di correggere e temperare il rigido criterio della soccombenza con il parametro della casualità.
b) La compensazione per soccombenza reciproca. Oltre alla causalità, vi sono altri criteri per mitigare il rigido parametro della soccombenza e che sono espressamente indicati dall'art. 92 c.p.c., il quale al comma 2 consente al giudice, quando vi sia soccombenza reciproca e quando ricorrano giusti motivi, di disporre che le spese anticipate dalle parti restino tra esse compensate in tutto o in parte.
Si ha soccombenza reciproca quando vengono respinte sia la domanda principale sia quella riconvenzionale ovvero alcune domande proposte dall'attore oppure non vengano accolti alcuni capi dell'unica domanda proposta. E' evidente che in questi casi occorrerà valutare anche la misura della reciproca soccombenza e non procedere sic et sempliciter alla integrale compensazione, nel senso, ad esempio, che se la domanda principale viene accolta integralmente, mentre la riconvenzionale soltanto in minima parte, la totale compensazione potrebbe risultare ingiusta, dal momento che vi è una soccombenza maggiore del convenuto. In queste situazioni può essere utile una compensazione parziale (1/3 - 1/2) con la condanna del soccombente al pagamento della rimanente parte in favore dell'altra parte.
c) La compensazione per giusti motivi. La legge dispone, come abbiamo avuto modo di constatare, che le spese possono essere compensate per "altri giusti motivi" (nel testo novellato "per eccezionali e gravi ragioni"), senza però darne una definizione. E' stata la giurisprudenza, in verità, ad individuare fattispecie più o meno tipizzate di giusti motivi, quali la peculiarità in fatto e in diritto della questione affrontata ad esempio, l'impossibilità prima del giudizio e dell'esito dell'istruttoria di formarsi un'idea chiara sul torto o la ragione); la novità della fattispecie da un punto di vista giurisprudenziale (cioè, fattispecie in ordine alla quale non sussistano precedenti); l'estrema opinabilità della questione controversa; l'esistenza di giurisprudenza in notevole contrasto o l'intervenuto mutamento dell'opinione giurisprudenziale dominante; l'accoglimento della domanda avvenuto soltanto in forza di jus superveniens o di dichiarazione di illegittimità della norma ad opera della Corte Costituzionale; la difficoltà interpretativa di disposizioni di legge o di contratti. E' chiaro che tale elencazione non può essere meramente esemplificativa e che nessuna elencazione tassativa di giusti motivi di compensazione sarà mai possibile (cfr. peraltro Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 2, ordinanza 12 febbraio - 5 maggio 2015, n. 8918, supra richiamata). Infine, la legge prevede la responsabilità aggravata: l'art. 96 c.p.c. dispone che la parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave può essere condannata, su istanza dell'altra parte, al risarcimento dei danni che il giudice liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Perchè il giudice possa disporre la condanna al risarcimento occorre che l'interessato, oltre alla domanda, fornisca la prova del proprio danno e dell'elemento soggettivo della condotta di colui che l'ha cagionato, il che non è agevole come possa sembrare. E' possibile, tuttavia, la liquidazione equitativa del danno se è certo nell'an ma non dimostrabile il quantum.
B. Il processo penale.
Nel procedimento penale l'indagato / imputato dovrà comunque sopportare le spese legali, anche quando è stato assolto. Per dirla con la Corte di Cassazione:
"In tema di danni provocati dalla attività giudiziaria l'ordinamento vigente prevede la riparazione del danno patito:
per custodia cautelare ingiusta, per irragionevole durata del processo e per condanna ingiusta accertata in sede di revisione. NON è invece previsto alcun indennizzo / risarcimento / rimborso per una imputazione ingiusta, ovverosia per una imputazione rivelatasi poi infondata a seguito di sentenza di assoluzione." (sentenza n. 11251/2008).
E' possibile - ma estremamente difficile - il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie dai magistrati, che nonostante la sentenza della Grande Camera della Corte di giustizia (sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo SpA c. Repubblica Italiana) rispondono dei danni solo se hanno agito con dolo o colpa grave, oltre che per diniego di giustizia; si segnala peraltro che la responsabilità civile dei magistrati, con la recente riforma, è disciplinata dalla Legge 18 del 27 febbraio 2015 (in G.U. n. 52 del 04/03/2015), vigente dal 19/03/2015.La suddetta legge introduce disposizioni volte a modificare le norme di cui alla precedente del 13 aprile 1988, al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, non può (giustamente) mai dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. In caso di reati procedibili su istanza di parte (querela), la procedura penale prevede che in caso di assoluzione dell'accusato il querelante possa essere condannato al rimborso delle spese legali (oltre che ad un risarcimento del danno; art. 542 c.p.p.). La norma trova però rara applicazione nella pratica. Nei casi di reati procedibili d'ufficio (su denuncia), non spetta alcun rimborso delle spese (né tantomeno un risarcimento) nemmeno nei confronti del denunciante: è infatti principio unanimemente applicato che nell'ambito di uno Stato di diritto liberaldemocratico, in cui si attribuisce valore civico e sociale all'iniziativa del privato nell'attivare la riposta giudiziaria dinanzi alla violazione della legge penale, nessuna responsabilità neppure civile consegua ad una denuncia penale fuori dall'ipotesi di calunnia, autocalunnia e simulazione di reato (cfr. approfondimento sul "Risarcimento dei danni da accusa ingiusta").
3. L'ingiusta detenzione. A determinate condizioni può essere risarcita però l'ingiusta detenzione (cioè di aver subito una carcerazione per un reato dal quale si è poi stati assolti). A questo riguardo, il precetto normativo (artt. 314, 315 c.p.p.) prevede - per chi non abbia dato causa alla detenzione subita per dolo o colpa grave - un indennizzo che non può eccedere l'importo di euro 516.456; la riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo e perciò viene determinata dal giudice in via equitativa; la relativa domanda deve essere proposta entro due anni dal provvedimento giudiziale. La giurisprudenza individua un canone base per la liquidazione del danno, costituito dal rapporto tra la somma massima posta a disposizione dal legislatore, la durata massima della custodia cautelare e la durata dell'ingiusta detenzione patita. La somma che deriva da tale computo (euro 235,82 per ciascun giorno di detenzione in carcere) può essere ragionevolmente dimezzata (euro 117,91) nel caso di arresti domiciliari, attesa la sua minore afflittività. Tale aritmetico criterio di calcolo costituisce, però, solo una base utile per sottrarre la determinazione dell'indennizzo all'imponderabile soggettivismo del giudice e per conferire qualche uniformità ed oggettività al difficile giudizio di fatto. Il meccanismo in questione individua l'indennizzo in una astratta situazione standard, nella quali i diversi fattori ai danno derivanti dall'ingiusta detenzione si siano concretizzati in modo medio, ordinario. Tale valore può subire rimaneggiamenti verso l'alto o verso il basso sulla base di specifiche contingenze proprie del caso concreto, ferma restando la natura indennitaria e non risarcitoria della corresponsione di cui si parla. Occorre quindi esaminare i fattori documentati, afferenti alla personalità ed alla storia personale dell'imputato, al suo ruolo sociale professionale e sociale, alle conseguenze pregiudizievoli concretamente patite e tutti gli altri di cui sia riscontrata la rilevanza e la connessione eziologia con l'ingiusta detenzione patita. Il calcolo finale ben potrà essere il frutto della ponderazione di documentati fattori di segno contrario. Ai giudici è dunque rimessa una valutazione equitativa, discrezionale. In caso di condanna dell'imputato, alla parte civile, cioè alla vittima del reato, spetta il rimborso delle spese legali sostenute (oltre al risarcimento del danno).
4. I DIPENDENTI PUBBLICI. A certe condizioni (interpretate in maniera molto restrittiva: si veda infra), i dipendenti di amministrazioni statali (ivi compresi agenti ed ufficiali di PS, compreso Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Carabinieri, Guardia di Finanza, ..) possono essere rimborsati delle spese legali sopportate per procedimenti subiti in conseguenza di fatti o atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusisi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità. La Circolare del DAP (Ufficio del Capo del Dipartimento - Ufficio Contenzioso, Sezione II -Tutela Legale - GDAP-0073112-2004-25/02/2004 a firma del Dr Tinebra) costituisce una sorta di "vademecum" sulla normativa vigente, sui documenti occorrenti e sulla relativa istruttoria delle pratiche e viene dunque di seguito riportate testualmente. Al riguardo si ricorda, che le ipotesi di rimborso delle spese di difesa a favore dei dipendenti dell'Amministrazione, sono disciplinate dalle seguenti disposizioni di legge:
1) art.32 L. 152/75 -nei procedimenti a carico di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o dei militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica , la difesa può essere assunta, a richiesta dell'interessato, dall'Avvocatura dello Stato o da libero professionista di fiducia dell'interessato medesimo";
2) art.18 L. 135/97 -le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale ed amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di Amministrazioni Statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle Amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concede anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità";
La disposizione di cui al punto 1, che ha carattere di specialità ed ambito applicativo limitato poiché riguarda i procedimenti (penali) a carico di ufficiali ed agenti per fatti Connessi con l'uso delle armi o altro mezzo di coazione fisica, statuisca che ' le spese di difesa sono a carico del Ministero dell'Interno salva rivalsa se vi è responsabilità dell'imputato per fatto doloso".
Con la normativa di cui al punto 2, che ha carattere generale ed ambito applicativo più ampio poiché relativa a tutti i dipendenti delle Amministrazioni Statali, le spese di difesa sono rimborsate dalle Amministrazioni di appartenenza, le quali, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la restituzione dell'importo nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità.
3) art.40 DPR n. 164/02 ha introdotto una speciale forma di anticipazione delle spese legali; ha, infatti, stabilito che "fermo restando il disposto dell'art. 32 L. 152/75, agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria indagati per fatti inerenti al servizio, che intendono avvalersi di un libero professionista di fiducia, può essere anticipata, a richiesta dell'interessato, la somma di £ 2.500,00 per le spese legali salvo rivalsa se al termine del procedimento viene accertata la responsabilità del dipendente a titolo di dolo".
In relazione alle disposizioni sopra indicate si è rilevato che le istanze non sempre sono corredate di tutta la documentazione necessaria per l'istruttoria. Si precisa pertanto:
A) Anticipo spese legali ex art. 40 DPR 164/02 al fine di valutare la possibilità di applicazione della suddetta normativa, è necessario l'invio di:
istanza dell'interessato prodotta ai sensi dell'art. 40 DPR n.164/02 (anticipo);
nomina dell'Avvocato di fiducia;
progetto di parcella;
luogo e data di nascita, residenza e fotocopia del tesserino del codice fiscale dell'interessato;
numero del c/c bancario o postale ed Istituto bancario presso il quale é acceso il conto dell'interessato e dell'Avvocato di fiducia;
l'importo di cui si chiede l'anticipo;
copia degli atti di maggior rilievo del procedimento, in particolare: informazione di garanzia (invito e/o verbale di interrogatorio o altro atto preliminare del procedimento penale), richiesta e decreto di archiviazione, richiesta di rinvio a giudizio e sentenza con attestazione del passaggio in giudicato;
dettagliato rapporto, da parte del Direttore dell'Istituto o Servizio, sui fatti oggetto del procedimento a carico del dipendente, con formulazione, inoltre, di un sintetico parere in merito alla richiesta ed alla connessione dei fatti con il servizio istituzionale e sullo stato di servizio del dipendente.
Si sottolinea l'importanza che la richiesta sia corredata di tutta la documentazione indicata, onde corrispondere alle esigenze di tempestività dell'istruttoria della pratica connesse con le richieste di anticipo. Si precisa che, ove il procedimento si concluda con pronuncia favorevole al dipendente, la somma anticipata verrà detratta dall'importo complessivo del rimborso delle spese di difesa. Qualora, invece ne fosse accertata la responsabilità a titolo di dolo, si provvederà al recupero della somma. A tal fine, il Direttore dell'Istituto provvederà ad informare tempestivamente questo Ufficio circa l'esito del procedimento a carico del dipendente, nonché di eventuali variazione della sede di servizio dello stesso.
B) Anticipo spese patrocinio legale ex art. 18 L. 135/97 al fine sottoporre l'istanza alla valutazione dell'Avvocatura Generale dello Stato corredata di tutta la documentazione utile, è necessario l'invio di:
istanza dell'interessato prodotta ai sensi dell'art. 18 L. 135/97;
nomina dell'Avvocato di fiducia;
progetto di parcella;
luogo e data di nascita, residenza e fotocopia del tesserino fiscale dell'interessato;
numero del c/c bancario o postale ed Istituto bancario presso il quale è acceso il conto dell'interessato;
copia degli atti di maggior rilievo del procedimento, in particolare: informazione di garanzia (invito e/o verbale di interrogatorio o altro atto preliminare del procedimento penale), richiesta e decreto di archiviazione, richiesta di rinvio a giudizio e sentenza con attestazione del passaggio in giudicato.
C) Rimborso spese legali ex art.32 L. 152/75 (fatti commessi in servizio e relativi all'uso delle armi o altro mezzo di coazione fisica) al fine di sottoporre la pratica al Ministero dell'Interno competente in materia, ferma restando la documentazione di cui al punto A, è necessario inoltre l'invio di:
istanza ai sensi dell'art. 32 L. 152/75;
progetto di parcella rilasciata dal legale che ha patrocinato il dipendente, contenente la specificazione degli onorare delle spese e delle competenze, indicati in modo analitico con riferimento al numero delle singole prestazioni effettuate, secondo gli importi della tariffa professionale.
D) Rimborso delle spese di patrocinio legale ex art. 18 L. 135/97 al fine di sottoporre l'istanza alla valutazione dell'Avvocatura Generale dello Stato corredata di tutta la documentazione utile, è necessario l'invio di:
istanza si sensi dell'art 18 D.L. 67/97;
sentenza di assoluzione o archiviazione dell'Autorità giudiziaria competente;
parcella dell'Avvocato di fiducia regolarmente quietanzata;
luogo, data di nascita, residenza e fotocopia del tesserino fiscale del dipendente;
coordinate bancarie o postali del dipendente.
Come anticipato, l'"inerenza al servizio" viene interpretata in maniera assolutamente restrittiva: la tendenza è quella di escludere per quanto possibile la copertura delle spese da parte delle amministrazioni pubbliche. Tale impostazione restrittiva è purtroppo avvallata anche dalla unanime giurisprudenza che afferma che il diretto interesse dell'Amministrazione a sopportare gli oneri delle spese di difesa del dipendente va riconosciuto solo nei casi in cui l'imputazione riguardi un'attività svolta in diretta connessione con i fini dell'ente e, come tale, ad esso imputabile (cfr. T.A.R. Trentino Alto Adige Bolzano, 13 marzo 2007 , n. 101; T.A.R. Catanzaro, sez. I, 22.12.2004, n. 2463; T.A.R. Milano, sez. I, 27.3.2002, n. 1291; T.A.R. Palermo, sez. I, 27.5.2002, n. 1309). La finalità della norma risulta essere l'esigenza di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all'espletamento del servizio (cfr. T.A.R. Lombardia Milano, Sez. I, 21 giugno 2006, n. 1475) e tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto, oltre che nell'interesse dell'Amministrazione, delle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all'espletamento dei loro compiti istituzionali, con la conseguenza che il requisito essenziale in questione può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell'agire del pubblico dipendente direttamente all'Amministrazione di appartenenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.11.2003, parere n. 332/03; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 20.12.2004, nn. 6497 e 6498). Tale ratio non può, pertanto, operare ove l'attività medesima si sia posta in contraddizione con le finalità tipiche dell'ente di appartenenza (TAR Lazio, Sez. I ter, 26 maggio 2006, n. 3909). Si ritiene altresì, in sostanza, che il fatto o l'oggetto del giudizio deve essere compiuto nell'esercizio delle attribuzioni affidate al dipendente e deve esservi un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere ed il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non ponendo in essere quella determinata condotta (T.A.R. Trentino Alto Adige Bolzano, 13 marzo 2007, n. 101). Si tratta a ben vedere dello stesso criterio che muove la giurisprudenza nel valutare la sussistenza della responsabilità solidale dell'amministrazione nel caso di fatto illecito posto in essere dal dipendente. Così, si è affermato che perché possa affermarsi la responsabilità della p.a. non basta, però, il semplice comportamento lesivo del dipendente; deve sussistere oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, la riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso (Cass. Sez. III, 17 settembre 1997 n. 9260).
Da ultimo:
in caso di contestazioni, il giudice non è vincolato dal parere del Consiglio dell'Ordine;
il diritto dell'avvocato al compenso si prescrive in tre anni (si tratta di prescrizione presuntiva);
a seguito dell'introduzione dell'articolo 14 del decreto “taglia riti”, Dlgs n. 150 del 2011, l'avvocato può proporre l'istanza di liquidazione degli onorari: a) con un ricorso ai sensi dell'articolo 702-bis, c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario “speciale”; b) con il procedimento per decreto ingiuntivo ai sensi degli articoli 633 e segg. cod. proc. civ.. Resta, invece, esclusa la possibilità di introdurre l'azione sia con il rito di cognizione ordinaria e sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico (Corte di cassazione – Sezione uniti - Sentenza 23 febbraio 2018 n. 4485).
Cassazione, la parcella dell'avvocato può superare i massimi tariffari. Viene riconosciuta l'ammissibilità e la validità dei contratti con i clienti, anche nel caso le somme eccedano le tariffe forensi. Federico Amendola, Avvocato Studio legale Bernardini de Pace, il 26 Novembre 2018 su La Repubblica. L'onorario di un avvocato può superare la soglia prevista dalle tabelle ministeriali se stabilito in accordo con il cliente, dal momento che la pattuizione tra le parti prevale su ogni altro criterio di liquidazione dei compensi. È quanto disposto dalla Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25054/2018 del 10 ottobre scorso. La Suprema Corte si è così pronunciata contro una sentenza della Corte d'Appello di Ancona che aveva dichiarato la nullità dell'accordo tra avvocato e assistito, poiché prevedeva la corresponsione di un onorario superiore a quanto stabilito dai massimi tariffari. In base alla pronuncia della Cassazione, invece, viene riconosciuta l'ammissibilità e la validità delle convenzioni aventi ad oggetto i compensi dovuti agli avvocati, anche nel caso eccedano le tariffe forensi. La Suprema Corte, inserendosi nel solco già tracciato da precedenti pronunce a sezioni unite, ha fornito finalmente una corretta e autentica interpretazione dell'articolo 2233 c.c., dedicato ai compensi delle professioni che, come quella legale, sono considerate "prestazioni intellettuali". Come chiarito dai giudici di legittimità, l'articolo in esame stabilisce una gerarchia di criteri, indicando, al primo posto, la convenzione professionista-cliente e, solo in via subordinata, le soglie previste dai tariffari professionali in base all'importanza dell'opera e al decoro del suo prestatore. Dunque "in materia di onorari di avvocato deve ritenersi valida la convenzione tra professionista e cliente che stabilisce la misura degli stessi in misura superiore al massimo tariffario". Il contratto di determinazione dei compensi, scientemente concordato e sottoscritto da entrambe le parti, pertanto ha piena efficacia e non può essere tardivamente contestato dall'assistito. Questa pronuncia può essere letta come tentativo di ovviare a quella tendenza che impone l'uguaglianza degli onorari nella disuguaglianza delle qualità professionali di ciascuno. La standardizzazione dei compensi infatti rischia di mettere sullo stesso livello avvocati che hanno competenze, esperienza, specializzazioni, formazione, prestigio, ben diversi. Tutte caratteristiche, queste, che giustificano e finalmente rendono legittima la diversificazione dei compensi e la loro determinazione anche in misura superiore agli standard fissati.
"Cari" avvocati, i clienti hanno sempre ragione! (Teresa Fiortini 17/06/2013) su studiocataldi.it. Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 26214 del 14 giugno 2013. Una cliente insoddisfatta sia del comportamento scorretto del proprio avvocato ("tanto da poter essere segnalato alla Procura della Repubblica e all' Ordine degli Avvocati") che della parcella "salata" da questi richiesta ha sfogato le sue lamentele in una missiva indirizzata al professionista cui si era rivolta per l'assistenza in una controversia civile. L' avvocato ritenendo le lamentele ingiuriose si è rivolto anche alla Cassazione che ha rigettato il ricorso ritenendo insussistente l'elemento oggettivo dell'offesa all' altrui onore. A sostegno di tale assunto varie pronunzie dei Giudici supremi che dimostrano la necessità di calibrare la valenza e la portata di una espressione in relazione al momento e al contesto sia ambientale che relazionale in cui la stessa viene proferita (v. Cass. 17672/2010). Dunque, gli Ermellini hanno ritenuto che "le censure della ricorrente si pongono come richiesta di diversa ricostruzione dell'occorso, previa evidenziazione degli antefatti tra le parti nell' ambito del procedimento civile nel quale gli animi si erano inacerbiti e che invece il Giudice del merito, con valutazione in punto di fatta, plausibile e sottratta all' ulteriore sindacato delta Cassazione, ha giudicato, per la qualità delle espressioni utilizzate, per la situazione in cui sono state pronunciate, dirette a esprimere mera insoddisfazione per la tutela non ricevuta e, quindi, non lesive del decoro della professionista". Passi la personalissima considerazione (di parte) che in questi tempi di abolizione delle tariffe, reintroduzione della mediazione obbligatoria, (tentativi di) trasformazione dell'obbligazione dell'avvocato da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato (v. Cass. 4781/2013)..e altri segnali atti allo svilimento della categoria forense...c'è rimasto ben poco da lamentarsi!
· Innocente, ma rovinato dalle spese legali.
PATROCINIO A SPESE DELLO STATO. Errico Novi il 21 Novembre 2019 su Il Dubbio. Mascherin a “Porta a porta”: chi assume il patrocinio a spese dello Stato lo fa col cuore. Ieri sera il programma ha riferito anche di un’indagine aperta dalla Procura di Roma su alcuni legali che avrebbero abusato dell’istituto. Nel suo intervento, il presidente del Cnf ha spiegato che «sarebbero puniti in modo durissimo», ma ha aggiunto: «Di solito gli avvocati che tutelano i deboli lo fanno per compensi bassi, con passione prima che con il diritto». Il presidente del Cnf Andrea Mascherin è intervenuto mercoledì sera a “Porta a porta”. In una puntata in cui il programma condotto da Bruno Vespa su Rai Uno si è occupato anche di un’indagine aperta dalla Procura di Roma sull’attività di alcuni studi legali, che avrebbero acquisito un abnorme numero di pratiche per il riconoscimento del diritto d’asilo e che avrebbero avviato una prassi inaccettabile e illegittima: pretendere compensi dai migranti nonostante si tratti, nella quasi totalità dei casi, di persone ammissibili al patrocinio a spese dello Stato. «Quando si verificano casi simili, tra le persone offese ci sono naturalmente gli assistiti, c’è lo Stato, ma c’è anche l’avvocatura», ha ricordato Mascherin. Il quale ha spiegato di augurarsi che «le ipotesi al vaglio della Procura di Roma non siano vere» ma ha poi aggiunto che «qualora risultassero vere, si procederà, sul piano disciplinare, secondo le norme previste dal nostro codice deontologico, che sanziona in modo severissimo non gli avvocati che ricevono, come si presume in questa vicenda, 50 o 1000 euro da persone ammissibili al patrocinio a spese dello Stato, ma chi chiedesse anche un euro soltanto». Il vertice della massima istituzione forense è stato a lungo ascoltato da Vespa e dai due esponenti politici presenti in studio: il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio e il presidente dei deputati leghisti Riccardo Molinari. Nel corso del suo intervento ha avuto anche modo di soffermarsi sul disegno di legge all’esame proprio della commissione Giustizia di Montecitorio che modifica alcune norme relative al patrocinio a spese dello Stato. «Si tratta di una funzione preziosa per la tutela non solo dei diritti dei migranti ma, per esempio, anche delle donne vittime di violenze o dei minori. Spesso vi si dedicano, col cuore prima che col diritto, avvocati giovani: per il loro ufficio non ricevono certo compensi elevati, tutt’altro. Quanto meno», ha ricordato il presidente del Cnf, «con la nuova legge si potrà evitare che i compensi del difensori arrivino addirittura dopo 3 o 4 anni». Nel dibattito con i due parlamentari ospiti in studio, Mascherin ha poi fatto notare come possa essere utile «impedire con specifiche norme casi quali quello che, secondo la Procura di Roma, vedrebbe concentrato un alto numero di fascicoli per richieste di protezione internazionale in pochi, pochissimi studi. Certamente ha la sua importanza anche fare in modo che vi sia una rotazione tra gli avvocati iscritti al registro di chi può esercitare il patrocinio a spese dello Stato». Un registro, ha ricordato Mascherin, «dal quale viene definitivamente cancellato chi dovesse essere riconosciuto responsabile di condotte come quelle ipotizzate dalla Procura di Roma».
Enrico Costa: «Sia lo Stato a pagare le spese per chi è assolto». Errico Novi il 9 Novembre 2019 su Il Dubbio. Il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa accoglie almeno in parte la prospettiva indicata dal Cnf nella proposta di legge per il patrocinio a spese dello Stato. Si tratta di due proposte affini, anche se non perfettamente coincidenti. Da anni il Consiglio nazionale forense propone di rendere detraibili le spese legali, con una specifica rafforzata tutela nel campo penale, in nome della effettività del diritto di difesa. Ora il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa compie un passo importante, che accoglie almeno in parte la prospettiva indicata dall’avvocatura istituzionale. Con una proposta di legge presentata a Montecitorio, il deputato azzurro chiede infatti di delegare il governo a introdurre anche in campo penale il principio della soccombenza previsto nel processo civile. Secondo la logica per cui se è la pretesa punitiva dello Stato a soccombere davanti al giudice, lo Stato stesso deve ristorare l’innocente delle spese legali sostenute. Principio a prima vista incontestabile eppure non ancora tradotto in legge. «Ci aveva provato Gabriele Albertini nella precedente legislatura», spiega Costa al Dubbio, «adesso ho recuperato lo spirito di quella proposta e siamo riusciti ad abbinarne il testo al ddl sul patrocinio a spese dello Stato in commissione Giustizia». Il provvedimento che tutela la difesa dei non abbienti è fortemente voluto dal guardasigilli Bonafede. Si tratta di un dossier accompagnato dal pieno sostegno della maggioranza, e ha tutta l’aria di essere perciò il treno giusto a cui agganciare una proposta come quella di Costa, di grande rilievo ma pur sempre proveniente da una forza di opposizione. Di fatto la partita potrebbe riservare ulteriori sorprese. Perché in origine l’articolato messo a punto dal parlamentare azzurro proponeva una modifica di natura fiscale: rendere detraibili fino a 10.500 euro le spese legali sostenute nel processo penale da chi è dichiarato innocente, in modo che chi soffre la «pena» di un’ingiusta «pretesa punitiva» esercitata dallo Stato possa vedersi almeno in parte sollevato, se non dai patimenti, quanto meno dai costi. A dare più di una chances all’idea dell’ex viceministro è proprio la sensibilità dimostrata dalla maggioranza in tema di equità sociale, anche nell’ambito della giustizia, con la legge sul patrocinio a spese dello Stato. E, come detto, è il Cnf ad avanzare già da alcuni anni un propria proposta in materia di detraibilità delle spese legali. Nell’ipotesi di emendamento alla legge di Bilancio 2018 veicolata dall’avvocatura, infatti, si prevedeva la detraibilità al 19 per cento delle «spese legali sostenute in un procedimento giudiziale ovvero per l’assistenza stragiudiziale, certificate dalla fattura del difensore». Si tratterebbe, si legge nella motivazione che accompagna la proposta del Cnf, della risposta a una «esigenza di equità e di giustizia reale e concreta». Il diritto di difesa, si ricorda, è infatti «garantito a livello costituzionale dall’articolo 24, al pari del diritto alla salute, e ricomprende necessariamente l’assistenza tecnica e professionale prestata dall’Avvocato». In campo penale la detraibilità sarebbe integrale giacché, ricorda il Cnf, in quell’ambito «l’attività difensiva ha un costo che ricade sempre sull’indagato e/ o imputato, sebbene l’assistenza tecnica sia obbligatoria e non gratuita, salvo l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato». Costa si richiama al principio del diritto di difesa ma segue una specifica linea di ragionamento: «Nel processo penale», si legge nella relazione della sua proposta, «al contrario di quanto avviene nel processo civile e in quello amministrativo, il pagamento delle spese legali non segue la regola della soccombenza. Dunque, anche in caso di proscioglimento o assoluzione con le formule ampiamente liberatorie ( perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) le spese legali restano a carico dell’imputato. A nulla vale», fa notare Costa, «che questi sia riuscito a dimostrare la propria assoluta estraneità». In ogni caso Costa converge testualmente sulla proposta dell’avvocatura istituzionale quando prevede la fattura del difensore e la causale come giustificativo. Integra la documentazione richiesta con un «parere di congruità del competente Consiglio dell’Ordine degli avvocati». Si tratterebbe di un sollievo per chi è sottoposto a un’ingiusta accusa, che risponderebbe almeno in parte alla necessità di assicurare in modo sempre più pieno il diritto di difesa, e che forse potrebbe trovare uno scenario politico più attento, rispetto al passato, a un simile principio.
Ho vinto la causa contro il nazista Priebke ma per lo Stato sono io che devo pagare. Valter Vecellio il 5 ottobre 2019 su Il Dubbio. Lettera aperta al ministro della Giustizia sulla vicenda che vide Priebke, in quanto querelante- soccombente, condannato a pagare le spese processuali, ma essendo nullatenente lo Stato le chiede a coloro che sono stati assolti. "Caro Direttore, quella che segue è una sorta di lettera aperta al ministro della Giustizia: vorrei conoscere la sua opinione sulla storia che mi accingo a raccontarti. Una storia che comincia nell’ormai lontano 1996. Il 1 agosto di quell’anno una corte di giustizia italiana, pur riconoscendo le responsabilità dell’ex capitano delle SS Erich Priebke per quel che riguarda l’eccidio alle Fosse Ardeatine, ritiene di dover applicare le attenuanti generiche, e dichiara di «non doversi procedere, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione» ; ne ordina l’immediata scarcerazione. Una sentenza accolta con grande indignazione dai familiari delle vittime, dalla comunità ebraica di Roma, dalla Roma civile e democratica. La pacifica protesta attorno alla sede del tribunale militare, si protrae fio a notte fonda. Interviene il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick, che riesce a trovare una norma che blocca l’iter di scarcerazione, e dispone un nuovo processo. Priebke viene infine condannato all’ergastolo; lo sconta in parte nel carcere militare, poi ai domiciliari, in un appartamento di un cittadino, diciamo così volenteroso, che glielo mette a disposizione. Ai domiciliari Priebke resta fino a quando non sopraggiunge la morte, l’ 11 ottobre 2013. Priebke non dimentica quella manifestazione del 1 agosto 1996: si ritiene vittima di una sorta di sequestro di persona, e – con i suoi legali – individua in Pacifici e in chi ti scrive, gli organizzatori del sequestro. Ci troviamo indagati, finiamo sotto processo. Assolti in primo grado, nel successivo e in Cassazione. Pago di tasca mia l’avvocato che mi ha difeso, non chiedo un centesimo di risarcimento per il danno che la vicenda mi ha procurato: con Priebke non voglio aver nulla a che spartire. Priebke, in quanto querelante- soccombente è condannato a pagare le spese processuali. Per quel che mi riguarda la vicenda finisce. Passano gli anni; nel maggio 2013 mi viene recapitata una busta, con l’ingiunzione a pagare 285 euro per spese processuali. Chiedo chiarimenti; come mai mi si chiede di pagare al posto di chi ha perso, ed è stato condannato? A questo punto il dialogo si fa surreale: «Priebke risulta nullatenente, dunque anche se voi avete vinto la causa, dovete pagare. Lo Stato non può andare in perdita. Però, dopo, se vuole, lei si può rivalere nei confronti di Priebke». Caro direttore, non è questione di alcune centinaia di euro; è questione di principio. In generale, perché non mi sembra molto giusto che chi viene assolto debba far fronte a spese che chi è condannato non paga; nello specifico: un nazista mi perseguita, e alla fine devo pagare al suo posto, pur essendo messo nero su bianco che non sono colpevole di nulla. Sono, politicamente parlando, allievo della scuola di Marco Pannella, radicale da quando indossavo i calzoni corti. Inerme, ma non inerte. Sollevo mediaticamente il caso. Se ne occupano giornali e televisioni. Trascorrono un paio di giorni, colleziono un robusto dossier di reazioni e dichiarazioni indignate e stupite. Infine la notizia: un anonimo benefattore decide di pagare lui, le spese processuali. E’ evidente che qualcuno ha pensato di metterci una toppa in questo modo. Grazie, “anonimo”. Non ci penso più. Storia chiusa? No. Un paio di settimane fa una nuova busta dell’Agenzia delle entrate- riscossione”, con un papiro di carte che non finisce mai; il cui succo è in un bollettino, che mi invita a pagare 291 euro e 21 centesimi entro sessanta giorni dalla notifica: “277.02 controllo tasse e imposte indirette anno 2007; 8.31 onesi di riscossione spettanti a Agenzia delle entrate- Riscossione; 5,88 diritti di notifica spettanti a Agenzia delle entrate- Riscossione”. E “l’anonimo benefattore”? Chissà che fine ha fatto. Ammirevole, non c’è che dire, l’“Agenzia delle entrate- Riscossione”, che implacabile non dimentica: e si torna a farsi viva, sei anni dopo la prima ingiunzione; ventitré anni dopo la notte del presunto sequestro; una dozzina d’anni dopo che tre sentenze “in nome del popolo italiano” hanno certificato che quel sequestro non c’era stato, e che comunque né Riccardo Pacifici né io siamo colpevoli di alcunché. In queste ore in tanti, colleghi e non mi hanno espresso solidarietà e vicinanza, a cominciare dal caro amico Giuseppe Giulietti, presidente della FNSI. M più cara e preziosa di tutte, quella della presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello: «Mi auguro sinceramente che le istruzioni e le autorità sappiano comprendere quanto gravi possono essere gli effetti e le ricadute di questa stortura giudiziaria e riportare nei giusti canali il messaggio che la memoria di una società democratica e civile deve diffondere. Per questa ragione ci siamo offerti di pagare noi le spese, affinché diventi ancora più evidente l’assurdità di questa decisione». Credo che Ruth e la Comunità abbiano pienamente colto la gravità della cosa: credo che si debba riflettere su quanto hanno colto con esattezza: «quanto gravi possono essere gli effetti e le ricadute di questa stortura giudiziaria». Sono in errore se la considero frutto di una burocrazia miope e venata di follia; esagero se considero una beffa, un oltraggio, un insulto, quanto mi è accaduto e accade? Ecco perché, caro direttore, sollecito e attendo, da cittadino e da giornalista, una parola da parte del ministro della Giustizia. Cosa pensa della storia che ho appena esposto? E cosa mi consiglia di fare?"
Innocente ma rovinato dalle spese legali. Lo Stato deve rimborsarlo, serve una legge. Pietro Di Muccio De Quattro. Il Dubbio Settebre 2019. Sulla ruota della giustizia, il cittadino rischia di perdere pure quando vince. Il Governo Renzi nel luglio 2014 istituì l’indirizzo rivoluzione@ governo. it invitando i cittadini a fornirgli idee per la riforma della giustizia. Inviai un’email con tre proposte. Due riguardavano l’habeas corpus con rilascio su cauzione e la difesa diretta. La terza, “il risarcimento per l’assoluzione”, vale a dire che, quando un imputato viene definitivamente assolto, lo Stato deve risarcirlo di tutte le spese sostenute per difendersi. Tale diritto al risarcimento non ha nulla a che vedere con la responsabilità civile del magistrato, ma configura una responsabilità oggettiva dell’amministrazione giudiziaria, perché è moralmente inaccettabile quanto contrario al senso di giustizia che lo Stato, pur sentenziando l’innocenza di un imputato, possa giungere a distruggerlo economicamente obbligandolo ad affrontare spese, cospicue fino all’insostenibilità, per difendersi in giudizio. Uno Stato che concede il gratuito patrocinio a un colpevole mentre impoverisce un innocente. Il 15 luglio 2014 “L’Opinione” pubblicò le tre proposte, mentre il successivo 28 luglio “Il Corriere della Sera” riportò testualmente l’email con la seguente risposta di Sergio Romano: “Il ministro di Giustizia si è detto pronto a raccogliere proposte e commenti. Eccone tre che meritano una riflessione. Ma posso dirle sin d’ora che il rilascio su cauzione sembrerà a molti, soprattutto in questo momento, un favore fatto ai ricchi. Per mettere questa misura all’ordine del giorno occorrerà attendere tempi migliori». Ma la preoccupazione, tutta italiana, di favorire i ricchi è infondata in fatto e in diritto. Nei paesi anglosassoni la cauzione ( bail) è costituzionalmente garantita da secoli ( VIII Emendamento della Costituzione USA e Bill of Rights del Regno Unito). In Gran Bretagna, per esempio, l’ 80% degli accusati viene rimesso in libertà su cauzione. Il giudice ha ampia discrezionalità sia sulla concessione che sull’ammontare della cauzione. In America può essere negata per i reati gravi e gli imputati pericolosi per la società. Dunque, ciò che in Italia vi si oppone davvero è la mentalità avversa alla piena, effettiva, generalizzata vigenza della presunzione d’innocenza solennemente proclamata, alquanto vanamente, dall’art. 27 della nostra Costituzione. Circa due anni dopo, il 3 febbraio 2016, “Panorama” condusse un’inchiesta sulle spese legali, riportando che in trentadue paesi europei sono a carico dello Stato quando l’imputato viene assolto con formula piena. Successivamente, il 16 marzo, lo stesso settimanale dava notizia che il senatore Gabriele Albertini aveva presentato un disegno di legge per introdurre nell’ordinamento italiano il principio della “ingiusta imputazione”. In effetti, il 3 dicembre, primo firmatario Albertini, fu presentato il disegno di legge 2153, che modificava l’art. 530 c. p. p. in materia di rimborso delle spese di giudizio, inserendovi un comma 2- bis così concepito: «Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate. Nel caso di dolo o colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato, può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale». Non solo è sorprendente che l’idea abbia trovato un senatore disposto a patrocinarla con l’iniziativa legislativa. Ancor più lo è che ben 183 senatori l’abbiano firmata alla data del 15 marzo 2016: un’adesione più unica che rara, la quale avrebbe dovuto costituire il miglior viatico per la rapida approvazione. Invece il disegno di legge, che la firma di cotanti senatori faceva considerare già virtualmente approvato, restò miseramente impantanato nelle commissioni, senza vedere mai la luce dell’Assemblea. Il Governo o il caso lo impastoiarono anziché sbrigliarlo. Né risulta ripresentato nella Legislatura in corso. In conclusione, come vincere una causa civile e tuttavia perderci o restare schiacciato dalle spese legali sostenute per resistere, non è giustizia, così essere dichiarato innocente da sentenze definitive e, per farsi assolvere, venir ridotto sul lastrico dallo Stato che ha incriminato e prosciolto, non è giustizia. Insomma, sulla ruota della giustizia, il cittadino perde pure quando vince. Mentre una giustizia rapida, semplice, economica, e per ciò quasi giusta, appare la promessa non sempre sincera d’ogni nuovo governo.
· Intestare fittiziamente beni ai parenti è reato.
figli Rory Cappelli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 18 dicembre 2019. Il Tribunale di Roma ha condannato a 8 anni e 9 mesi di reclusione Gianni Micalusi, detto " Johnny", ex proprietario del ristorante dei vip Assunta Madre di via Giulia, nel centro della Capitale, a pochi passi da piazza Farnese. L'uomo era stato arrestato nel 2017 in seguito a un'inchiesta della Dda coordinata dall'attuale procuratore facente funzioni di Roma Michele Prestipino e dal pm Francesco Minisci. Nell'operazione Nettuno - questo il nome - erano state arrestate altre cinque persone accusate a vario titolo di intestazione fittizia di beni, riciclaggio e autoriciclaggio di denaro di provenienza illecita. La VI sezione del tribunale di Roma ha condannato anche i figli di Micalusi, Francesco e Lorenzo, a 2 anni e mezzo ciascuno, l'imprenditore Vito Genovese a 2 anni, il commercialista Luciano Bozzi a 2 anni e 9 mesi: erano tutti finiti nella stessa inchiesta. Assolto invece Adriano Nicolini, già direttore di una filiale romana della Banca del Fucino. Il giorno dell'arresto, il 9 maggio del 2017, Micalusi avrebbe dovuto inaugurare un ristorante Assunta Madre a Montecarlo, insieme a Flavio Briatore. Ma, appunto, finì in manette. Micalusi, dissero gli inquirenti il giorno dell'arresto, « si è dimostrato capace di costituire numerose e redditizie attività commerciali» grazie a investimenti immobiliari, « avendo cura di intestare i beni a prestanome privi di risorse economiche (i figli, ndr), per evitare di figurare come titolare effettivo, pur mantenendone saldamente la direzione». Oltre al ristorante vennero sequestrate due società di commercio di prodotti ittici, la Metro Fish e il Centro ittico laziale. Sequestrata anche la società Papa Giulio, specializzata nella gestione di esercizi pubblici e di ristorazione. "Johnny" Micalusi era già finito in guai giudiziari diverse volte. Nell'ordinanza di custodia cautelare di due anni fa era infatti scritto che « il 2 luglio 2002 era stata emessa nei suoi confronti una sentenza di condanna per i reati di ricettazione (art. 648 cp), falsità materiale commessa dal privato in autorizzazioni amministrative (art. 482 cp), induzione alla falsità ideologica del pubblico ufficiale». La Finanza di Latina, poi, nel 2007 lo indagò per associazione a delinquere di stampo mafioso, usura e abusiva attività finanziaria. Sempre quell'anno, il 10 maggio venne sequestrata l'Hosteria del pesce di Terracina, anche questo di sua proprietà. In quel sequestro finirono inoltre 5 immobili, 11 autoveicoli, 6 società, 9 polizze assicurative, 15 conti correnti e 11 libretti di depositi a risparmio per un totale di 7 milioni di euro.
· Le ingiustizie dei giudici. Credere nella Giustizia?
Pietro Senaldi a DiMartedì contro la riforma M5s: "Ho più processi di Riina. Le responsabilità dei giudici". Libero Quotidiano l' Dicembre 2019. Contro la riforma della prescrizione ultra manettara voluta da M5s e Alfonso Bonafede. A schierarsi, nello studio di DiMartedì, il programma di Giovanni Floris in onda su La7, è Pietro Senaldi, direttore di Libero, che per argomentare la sua contrarietà al provvedimento tira in ballo la sua esperienza da giornalista: "Penso che in Italia si facciano troppi processi. Per la mia piccola esperienza credo sia colpa dei giudici - premette -. Io sono direttore, c'è questo simpatico istituto della responsabilità oggettiva: sono pluri-indagato, ho più processi di Totò Riina", rimarca. E ancora: "Più volte mi è capitato che il pm chiedesse l'assoluzione e il gip invece mi rinvia a giudizio. O di essere assolto in primo grado e di fare l'appello. Mi chiedo: se un giudice mi ritiene innocente, perché un altro giudice deve sindacare la sentenza? Si allungano i giudizi e il tempo. Alla fine un giudice dice una cosa e l'altro ne dice un'altra. Risultato? Ci smeno sempre io", conclude il direttore.
Asti, il giudice legge la sentenza prima di aver ascoltato la difesa. La condanna a 11 anni dell’imputato viene letta senza aver ascoltato l’avvocato difensore. Quando lui segnala l’inaccettabile anomalia, il presidente del collegio strappa il foglio. Il Dubbio il Dicembre 2019. Il giudice entra in aula e legge la sentenza: 11 anni di reclusione al padre accusato di violenza sessuale sulla figlia. Peccato che la difesa non abbia ancora preso la parola per difendere l’imputato e, dunque, la decisione fosse stata presa prima ancora di ascoltarla. L’imperdonabile errore del giudice è avvenuto al tribunale penale di Asti, in Piemonte, e ha ovviamente scatenato l’ira della camera penale locale. Il giudice, accortosi della gaffe, ha stracciato la sentenza già scritta e si è astenuto, ma la beffa – e soprattutto il sospetto per gli avvocati che alcuni giudici decidano a prescindere dalle loro tesi difensive – resta. A Repubblica Torino, il presidente dei penalisti locali Alberto De Sanctis ha parlato di assurdità: “Al Tribunale di Asti è accaduto l’incredibile. Inizia la discussione finale nel corso della quale prendono la parola il pubblico ministero, il difensore della parte civile e il difensore di uno degli imputati. La discussione in difesa dell’altro imputato viene rinviata ad altra data. Nel corso di quest’ultima udienza accade l’abnorme paradosso. Il Tribunale in composizione collegiale rientra in aula e anziché dare la parola alla difesa per la programmata discussione rimane in piedi e, in nome del popolo italiano, dà lettura del dispositivo della sentenza che condanna entrambi gli imputati”. A rimanere senza parole è stato anche il pubblico ministero e, quando l’avvocato segnala l’anomalia, il presidente si accorge dell’errore e distrugge materialmente il foglio su cui aveva scritto il dispositivo letto, poi invita l’avvocato a concludere. A quel punto il difensore manifesta tutta la sua perplessità, il collegio si ritira in camera di consiglio e, al rientro, dichiara di astenersi (che, sembra, sia stata respinta). A commentare i fatti è anche il presidente del tribunale di Asti, Giancarlo Girolami, che però preferisce non esprimersi ancora: “Sto raccogliendo tutti gli elementi di questa vicenda, che è molto delicata. Al momento non ho ancora terminato di ascoltare tutti i protagonisti che erano in aula”.
Asti, clamorosa gaffe del tribunale: il giudice legge la sentenza prima di sentire la tesi della difesa. La condanna a 11 anni in un processo per violenza sessuale è stata poi stracciata. L'ira della Camera penale del Piemonte. Sarah Martinenghi il 20 dicembre 2019 su La Repubblica. Il tribunale aveva già deciso. Undici anni, da infliggere a un padre, accusato di violenza sessuale nei confronti della figlia. E così, mercoledì, quando la corte è entrata in aula, ha pronunciato la sentenza. Peccato però che la difesa non avesse ancora discusso. Stupore, incredulità. E quando l'avvocato ha fatto presente il fatto, il presidente Roberto Amerio ha stracciato la sentenza, per poi decidere di astenersi. E' una clamorosa gaffe quella denunciata dalla camera penale del Piemonte. "Al Tribunale di Asti è accaduto l’incredibile - spiega l'associazione di avvocati penalisti presieduta da Alberto De Sanctis - A conclusione di un processo avviato per accertare se sussiste il reato di violenza sessuale contestato ai genitori nei confronti della figlia minore, inizia la discussione finale nel corso della quale prendono la parola il pubblico ministero, il difensore della parte civile e il difensore di uno degli imputati. La discussione in difesa dell’altro imputato viene rinviata ad altra data. Nel corso di quest’ultima udienza accade l’abnorme paradosso. Il Tribunale in composizione collegiale rientra in aula e anziché dare la parola alla difesa per la programmata discussione rimane in piedi e, in nome del popolo italiano, dà lettura del dispositivo della sentenza che condanna entrambi gli imputati". Il gelo è calato in aula, il pubblico ministero e i difensori sono rimasti senza parole. "L’avvocato che avrebbe dovuto prendere la parola in difesa del proprio assistito (in quell’istante non più imputato in attesa di giudizio bensì già condannato, per la precisione ad undici anni di reclusione) segnala al Presidente l’”anomalia”. A quel punto il Presidente “straccia” (materialmente) il foglio sul quale era stato scritto il dispositivo appena letto e invita l’avvocato a concludere. A fronte delle perplessità manifestate dal difensore di illustrare e formulare le proprie conclusioni ad un Tribunale che ha già deciso, il collegio si ritira in camera di consiglio e quando rientra in aula dichiara di astenersi". L’astensione del Tribunale sembra sia stata respinta. "Questi fatti - commenta la camera penale del Piemonte - meritano un doveroso e serio approfondimento sotto molteplici profili (verbalizzazione dell’accaduto ad opera del cancelliere d’udienza, condotte poste in essere nel corso di un’udienza pubblica alla quale presenziava un pubblico ministero, etc.) nelle competenti sedi ma sin d’ora ci consegnano la fotografia dello stato della giustizia nel nostro Paese. Non bastava la giustizia "senza tempo": con la riforma epocale dell’istituto della prescrizione il Parlamento dal 1° gennaio 2020 ha deciso che una sentenza di assoluzione o di condanna può intervenire per qualunque tipo di reato quando vuole, senza alcun limite di tempo dal fatto. Con l’episodio accaduto al Tribunale di Asti si esperimenta anche la giustizia "senza avvocato": manifestazione abnorme di un clima che quotidianamente serpeggia negli ambienti giudiziari; il desiderio di sbarazzarsi dell’avvocato inutile “orpello” fastidioso che impedisce e rallenta il magistrato nell’esercizio del suo potere". Il presidente del tribunale di Asti, Giancarlo Girolami, risponde: "Sto raccogliendo tutti gli elementi di questa vicenda, che è molto delicata. Al momento non ho ancora terminato di ascoltare tutti i protagonisti che erano in aula. Non so, quindi, se sia stato commesso un reato, un illecito oppure un errore. Quando avrò terminato la mia indagine potrò esprimermi".
Condannati, trovano in appello lo stesso Pm. Ciriaco M. Viggiano il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. Toh, chi si rivede! Il giudizio di primo grado si è chiuso, quello di appello procede verso la sentenza, ma il pm resta lo stesso. Succede per il processo sui fatti di Bagnoli, l’ex area industriale di Napoli che da trent’anni attende di essere rigenerata. A febbraio 2018 il primo round si chiude col Tribunale che condanna sei imputati accogliendo le tesi del pm Stefania Buda. Pochi mesi più tardi comincia l’appello e chi rappresenta l’accusa? Ancora una volta Buda, nel frattempo trasferita alla Procura generale della Corte d’appello partenopea. Possibile che un imputato venga incriminato dallo stesso pm nel processo di primo grado e in quello di appello? Sì, secondo la legge italiana, sebbene ovvie ragioni logiche, prima ancora che di garantismo e di tutela dei diritti dell’imputato, suggeriscano una diversa soluzione.
La vicenda riguarda la bonifica dell’ex Italsider. O, meglio, la (presunta) mancata bonifica. Già, perché quell’area non sarebbe mai stata risanata nonostante lo stanziamento di cento milioni di euro. Anzi, il rimpallo di responsabilità tra società Bagnoli-Futura, Comune, Arpac e Ministero dell’Ambiente avrebbe determinato uno spreco di denaro pubblico e aggravato l’inquinamento di quella che fino al 1992 fu sede di uno dei maggiori stabilimenti siderurgici nazionali. Eccola, la ricostruzione delineata durante il processo di primo grado da Buda, all’epoca sostituto procuratore di Napoli. Risultato: condanne da due a quattro anni di reclusione per sei persone, accusate a vario titolo di truffa e disastro colposo. Tre anni al notaio Tino Santangelo, ex vicesindaco di Antonio Bassolino, poi presidente di Bagnoli-Futura S.p.A., società a capitale interamente pubblico. L’impianto accusatorio, in appello, non cambia. E come avrebbe potuto, visto che nel ruolo di sostituto procuratore generale c’è lo stesso magistrato che ha agito da pm in primo grado? Nessuna meraviglia, dunque, dinanzi alla conferma delle pene stabilite dal Tribunale che Buda ha invocato nella sua recente requisitoria. Sia chiaro, è tutto in regola: sebbene incardinato nell’ordinamento giudiziario, il pm rappresenta una delle parti del processo. Ed è perfettamente legittimo che il procuratore generale affidi il compito di sostenere l’accusa al sostituto che, tra la conclusione del processo di primo e l’apertura di quello di secondo grado, sia stato trasferito alla Corte d’appello. Proprio questo è avvenuto nel caso di Bagnoli-Futura, con Buda chiamata ancora una volta a svolgere la funzione requirente in quanto già a conoscenza di tutte le sfumature di una vicenda particolarmente complessa. Ma queste ragioni di “economia organizzativa” si conciliano col diritto di difesa? La domanda non è peregrina: è ovvio che un condannato in primo grado si auguri che, in appello, il compito di vagliare la sua posizione spetti a un diverso pm. In caso contrario (e Bagnoli-Futura lo insegna) è inevitabile che il magistrato invochi la conferma delle condanne chieste e ottenute in primo grado. Ecco perché Santangelo, assistito dagli avvocati Massimo Krogh e Giuseppe Fusco, ha per lungo tempo meditato di sollevare l’eccezione di legittimità costituzionale. Ciò che l’ex vicesindaco di Napoli ha coraggiosamente fatto, invece, è rinunciare alla prescrizione: «Sono convinto della mia innocenza, in 47 anni di professione non mi è mai stata mossa alcuna censura. Adesso, a difesa della mia onorabilità, voglio un chiarimento definitivo. Se i giudici mi riterranno nuovamente colpevole, non esiterò a rivolgermi alla Cassazione. Intendo morire da innocente o da condannato, non da prescritto». Secondo la difesa, inoltre, da nessun atto del processo di primo grado risulta che Santangelo abbia perseguito interessi personali. Il pm Buda non l’ha pensata allo stesso modo. Come si regoleranno i giudici della Corte d’appello?
Per il prossimo che dice: “Le sentenze non si commentano”. Iuri Maria Prado il 22 Dicembre 2019 su Il Riformista. Tra le tante sciocchezze che si ripetono in materia di giustizia la più ricorrente è questa: che ci si deve difendere “nel” processo e non “dal” processo. E che chi fa il contrario si rende responsabile di una specie di mascalzonata. A quelli, e sono purtroppo tanti, che come pappagalli ripropongono la canti-lena, qualcuno potrebbe spiegare che difendersi anche “dal” processo, se non è proprio un diritto, almeno può costituire un comportamento comprensibile. Per esempio: se il processo fosse fatto con la tortura, o se fosse celebrato per infliggerla, daremmo ancora di mascalzone al poveretto che tenta di sottrarvisi? L’obiezione è prevedibilissima: “Ma qui da noi la tortura non c’è!”. E invece c’è. C’è nelle nostre leggi e c’è nella realtà della nostra situazione carceraria: quelle e questa inaderenti alla nostra Costituzione; quelle e questa oggetto delle censure della giustizia europea. E allora si capisce che dovrebbe risuonare un po’ meno indiscutibile il monito a difendersi “nel” processo e non “dal” processo. Dovrebbe apparirne l’essenza vera, d’una rimasticatura buona da propinare in televisione e adatta a ricevere l’applauso cretino. Come nel caso dell’altro motivetto, altrettanto inascoltabile, secondo cui “le sentenze non si commentano” (e dove sta scritto?), si tratta di luoghi comuni balordi, cui ci si abbandona per pigrizia o disonestà intellettuale. Ma in realtà questi modi di dire secondo formule stereotipate costituiscono modi di intendere, modi di concepire la giustizia e il diritto. Nella banalità della reiterazione denunciano l’idea di fondo che li produce: e cioè l’idea che gli amministratori di giustizia appartengano a un rango incontaminato e sacro, di modo che chi ne contesta l’azione non si rende più solo colpevole di sfuggire a una norma, ma di sacrilegio. Si può immaginare che queste considerazioni possano prendersi come un invito alla latitanza, come la rivendicazione del diritto di chiunque di proteggersi dalla pretesa punitiva dello Stato, rinnegandola. Chiaramente non è così. Ma il diritto dello Stato di pretendere dai cittadini che essi non si difendano “dal” processo può essere fatto valere a patto che il processo sia di diritto, e a condizione che non infligga ingiustizia e illegalità. E in questo Paese i processi non sempre si svolgono sulla rotaia del diritto, e molto spesso condannano chi ne è vittima a subire ingiustizie inammissibili. Con questo di peggio: che quando pure l’ingiustizia del processo emerge e si manifesta in faccia al pubblico; quando pure risulta che un cittadino è stato sottoposto senza motivo fondato alle attenzioni di giustizia; quando pure, insomma, il processo e la pena lacerano palesemente l’ordinamento civile, ebbene lo Stato fa spallucce e chi ne amministra la giustizia non trova il tempo non si dice di chiedere scusa, ma nemmeno di rammaricarsene. E a chi decide, nonostante tutto, di difendersi solo “nel” processo e non “dal” processo, questo bel Paese non riconosce nemmeno il bel coraggio che ci vuole.
Pignatone. Non era osceno commentare le sentenze? Angela Azzaro il 5 Novembre 2019 su Il Riformista. Giuseppe Pignatone non si arrende. L’ex procuratore capo di Roma e attuale presidente del Tribunale vaticano è intervenuto ieri sul quotidiano di Torino La Stampa contro la sentenza della Cassazione che ha bocciato “mafia capitale”. A dispetto di quanto da lui sostenuto in passato, apprendiamo che le sentenze, anche quando definitive, si possono commentare e fortemente criticare, anche a costo di mettere in discussione il rapporto tra i poteri dello Stato (inquirente e giudicante) e addirittura (in questo caso) tra Stati diversi. Secondo Pignatone infatti, che ora a tutti gli effetti lavora per uno Stato straniero, non è vero che l’inchiesta chiamata “mondo di mezzo” non riguardi un sistema mafioso. «Roma non è una città mafiosa – ha scritto nella lettera inviata al quotidiano torinese – ma è una città in cui operano più associazioni mafiose. Lo abbiamo detto in ogni occasione nei sette anni in cui sono stato il titolare della Procura. Roma non è una città mafiosa perché, a differenza di Palermo, Reggio Calabria e, in modo diverso, di Napoli, non vede la presenza egemone di una delle mafie tradizionali ma vi sono – come affermano le sentenze di numerosi giudici e della stessa Cassazione – diverse associazioni per delinquere di tipo mafioso e numerosi gruppi di soggetti che operano con metodo mafioso. Alcuni di questi sodalizi criminali sono formati da siciliani, calabresi, campani. Altri, invece, da romani, da soggetti provenienti da altre regioni o da stranieri, ma non sono, nei loro ambiti, meno temibili di quelli “tradizionali”. Basta chiedere – scrive ancora – agli abitanti di Ostia o delle altre zone della Capitale o del Lazio che ne subiscono la forza intimidatrice». L’entrata a gamba tesa dell’ex procuratore capo di Roma, colpisce e preoccupa due volte. Innanzitutto nel metodo. Perché un procuratore, peraltro ormai ex, interviene a commentare il lavoro della Cassazione, senza rispettare il lavoro dell’alta Corte. La procura ha avuto tre gradi di giudizio per dimostrare la propria tesi e una volta finito il processo, dovrebbe rispettare il verdetto, qualsiasi esso sia. Colpisce anche nel merito. Perché sembra voler dimostrare a tutti i costi come Buzzi e Carminati siano mafiosi, anche quando i fatti lo smentiscono. Nessuno, tra i commentatori, ha negato che a Roma le mafie siano presenti, altra cosa è sostenerlo per Buzzi e Carminati in mancanza di prove e di fatti. Mafia-capitale è stato uno dei processi mediatici più emblematici di questi anni: l’arresto degli indagati dato in pasto alle telecamere, i titoli a caratteri cubitali sui giornali che sposavano la tesi poi smentita della procura, l’aula bunker allestita per un dibattimento che non viene invece seguito dai giornalisti, perché hanno già deciso sulla colpevolezza degli imputati e poco sono interessati alle ragioni della difesa e alla solidità delle accuse. Poi il processo fatto di colpi di scena: il primo grado che nega l’aggravante mafiosa, l’Appello che la conferma ma abbassa le pene, infine la Cassazione che smentisce totalmente la tesi della procura. Non si è trattato, dice Pignatone polemico su La Stampa, «di una scommessa perduta». Già, non è stata una scommessa perduta, ma un errore sì, anche grave. Perché, come diceva Falcone, se tutto è mafia, niente è mafia. E chi ha apprezzato la sentenza della Cassazione, non lo ha fatto, come accusa l’ex procuratore nella sua lettera alla Stampa, perché gioisce al pensiero che a Roma “ci sia solo corruzione”, ma perché pensa con preoccupazione che l’unico modo per combatterla sia il rispetto del codice penale.
Sentenze oracolo: guai a criticarle. Iuri Maria Prado 17 Novembre 2019 su Il Riformista. “Le sentenze non si commentano”. Quante volte l’abbiamo sentito? Quando una decisione di giustizia irrompe nel dibattito pubblico, l’intimazione rivolta a chi si azzardi a dirne qualcosa è sempre quella: che le sentenze non si commentano. Si tratta chiaramente di un balordo luogo comune, perché il diritto di esprimere opinioni è ancora protetto dalla Costituzione repubblicana e non cessa di esistere giusto perché lo si esercita verso un provvedimento giurisdizionale. Ma perché quell’obiezione cretina fiorisce tanto spesso sulla scena del discorso in materia giudiziaria? È abbastanza semplice e molto preoccupante: perché in profundo si ritiene che una sentenza sia meno il prodotto di un servizio pubblico, come tale esposto all’errore anche grave, che una specie di impassibile giudizio oracolare. Con questo di peggio: che quell’impassibilità si pretende dovuta e garantita non in ragione di ciò che la pronuncia di giustizia contiene ma per il fatto che a emetterla è una specie solo aggiornata di sacerdote. Quel che non si può contestare – perché altrimenti sì che salterebbe tutto – è il potere del giudice di emettere la sentenza, in buona sostanza di fare il suo lavoro: ma il diritto di contestare che il lavoro è stato svolto male c’è pienamente e come tale dovrebbe essere protetto anziché messo in dubbio. Salvo credere, appunto, che il giudice non possa sbagliare o – ed è anche peggio – che se pure sbagliasse sarebbe vietato contestarglielo. E nei due casi discutiamo della pretesa di far salvo da ogni possibilità di critica un semplice documento pubblico, tuttavia reso sacro dal manto di indiscutibilità che avvolge la persona che l’ha confezionato. Con tutti a dimenticarsi del fatto che il potere di giudicare ed emettere sentenze non è stato conferito ai magistrati da qualche dio, ma dalla società degli uomini in nome dei quali quelle sentenze sono scritte. Tutti a dimenticarsene: e cioè non solo quelli che per sé pretendono questa bizzarra forma di totemistica adorazione, ma anche quelli che la praticano e legittimano ripetendo che le sentenze non si commentano. È chiaro poi che criticare una sentenza non può implicare il suggerimento che sia legittimo sottrarvisi. Ma non a questo si allude quando si ripete quel ritornello (che le sentenze non si commentano). Il caso di una sentenza ingiusta, purtroppo, deve essere sofferto da chi ne è vittima e dalla società tutta, costretta a sopportare la possibilità che la giustizia sia amministrata malamente. Ma ci si può chiedere di accettare quella sofferenza e quel dovere di sopportazione fin tanto che una sentenza resta una cosa fatta da un uomo: non più quando si rappresenta come un giudizio superiore verso il quale la critica si trasforma in bestemmia.
Può giudicarmi un giudice che non sa scrivere in italiano? Iuri Maria Prado 9 Novembre 2019 su Il Riformista. «Di tanto il primo giudice ne ha dato debito conto». Non l’ha detto il ministro degli Esteri. Lo ha scritto la corte di appello di Napoli in una sentenza di qualche settimana fa. E si potrebbe fare spallucce davanti a quest’opera di macellazione della nostra lingua, considerando che infine non c’è da stupirsene in un Paese dove il capo del governo si affatica senza risultato a mettere insieme una frase mondata dagli strafalcioni che, per dirla con lui, gli “sgorgano naturali”, o dove il direttore di un importante quotidiano se ne esce con “proseguio”, e su su fino ai comunicati della Presidenza della Repubblica allegramente maculati da sfondoni che manderebbero alla bocciatura già un undicenne. Per quale motivo, dunque, dovremmo pretendere che un giudice sia educato a scrivere anche solo in italiano appena corretto (in buon italiano, figurarsi) quando il più desolante analfabetismo perturba in ogni sede e anche nelle più alte il discorso pubblico? E te lo spiego io, il motivo. Perché così un politico, magari anche dotato di responsabilità di governo, come il responsabile di una testata giornalistica, che dopotutto dovrebbe portar cultura, infine fan solo vergogna quando si esibiscono nel loro rapporto disturbato con la decenza sintattica: mentre un giudice lasciato libero di abbandonarsi all’oscenità di quelle sgrammaticature fa molto peggio. Perché le cose che scrive servono per giudicare le persone. Per arrestare la libertà delle persone. Per aggredire il patrimonio delle persone. E tutto questo non sempre giustamente, visto che le parole di un giudice ben possono formare una sentenza sbagliata anche nel merito, oltre che nell’uso dell’italiano. A chi sia provvisto di tanto potere non dovrebbe essere consentito di scrivere in quel modo: perché un potere che si esprime in quel modo cessa di essere rispettabile, diventa ripugnante e assomiglia a quello del boia, un disgraziato che non ha bisogno di eloquio per tagliare una testa. Ma ho detto male. Impedire di scrivere in quel modo a chi ha quel potere non si può, salvo disporre che se ne torni sui banchi di scuola prima di ricominciare a dare ordini in nome del popolo italiano. Si potrebbe invece impedire a chi scrive in quel modo di assumere quel potere. Affinché una decisione di giustizia – questa cosa grave e implicante, capace di infierire irrimediabilmente su beni delicati – si imponga almeno con pulizia verbale anziché con la brutalità invereconda dell’apoftegma asinesco. Dice: «Ma quanto strepito per un errore di italiano! Sarà un caso isolato, no?». Ora, a parte il fatto che non è per nulla un caso isolato, e anzi nelle carte giudiziarie ce n’è a strafottere di roba simile, domando: vorresti pure che fosse la regola?
Le ingiustizie dei giudici, scrive il 13 marzo 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Il peggior nemico della giustizia, troppo spesso, è chi al contrario dovrebbe far rispettare la legge. Un cortocircuito tutto italiano che riempie quotidianamente le pagine dei giornali e che rimette al centro l’esigenza di una riforma drastica dell’intero sistema giudiziario. Non basterebbe, infatti, spazzar via le depenalizzazioni volute da Matteo Renzi per risolvere un problema che è ormai mastodontico e che ha nomi e cognomi, ovvero quelli di magistrati che firmano sentenze assurde. Come è possibile, per esempio, che un pusher tunisino, beccato con chili di hashish, marijuana, coca ed ecstasy, sia stato subito liberato dopo aver dichiarato che spacciava “per necessità” avendo “perso il lavoro” e non sapendo come sbarcare il lunario? O come è possibile che la Corte di Appello di Ancona non abbia riconosciuto lo stupro di una ragazza perché questa “sembra un maschio”? O come è possibile che ad un assassino sia stata scontata la pena perché, a detta del magistrato, avrebbe “agito come reazione al comportamento” della vittima? Ognuno di questi giudici si difenderà garantendo di aver interpretato al meglio la legge. Ma chi ci difende da certe normative assurde o dal buonismo di certe toghe? Troppo spesso, infatti, le vittime rischiano di pagare (o di morire) due volte. È nei gangli della burocrazia e nei faldoni dei codici che malviventi, delinquenti e balordi trovano un appiglio per farla franca. Proprio come quegli immigrati che avevano richiesto l’asilo in Italia per i motivi più disparati e che nel frattempo facevano parte di un “pericoloso gruppo criminale” che spacciava eroina e cocaina ai ragazzini nei parchi di Pordenone. Come sempre le forze dell’ordine hanno fatto un ottimo lavoro e li hanno assicurati alla giustizia. Ma la giustizia farà la sua parte? Speriamo di sì, ma i dati forniti dal Viminale ci dicono che in media due arrestati su tre tornano subito in strada a spacciare. Lo stesso vale con i ladri. Qualche settimana fa un giudice del Lazio aveva lasciato a piede libero, senza neanche l’obbligo di firma, due balordi che avevano svaligiato un appartamento. Uno dei due aveva persino precedenti ma, visto che non aveva rubato per sette anni, il magistrato non aveva tenuto conto della reiterazione del reato. “Mi chiedo che ci stiamo a fare in mezzo alla strada, a correre, al freddo, ad ammazzarci, a rischiare la pelle…”, si era sfogato un poliziotto parlando col Giornale. Sempre più spesso, gli agenti non procedono nemmeno più con l’arresto quando sanno che a Palazzo di Giustizia il delinquente troverà una toga pronto a rimetterlo in libertà. “Vediamo malviventi, spesso clandestini, lasciati liberi dopo che con tanto sacrificio li abbiamo presi – fanno sapere dal Sap – spesso passano anni per i processi e in tribunale non si presenta nessuno, perché questa gente sparisce”. Quando, poi, si arriva a sentenza, troppo spesso si hanno sorprese che lasciano l’amaro in bocca e l’ira addosso. Come la decisione di risarcire con appena 21mila euro la famiglia di David Raggi, il giovane sgozzato a Terni da Amine Aassoul, marocchino senza permesso di soggiorno e con una fedina penale da far spavento. Briciole che sono un pugno nello stomaco, soprattutto se confrontati con i 135mila euro che l’anziano Ermes Mattielli è stato condannato a risarcire ai due ladri rom a cui aveva sparato quando gli erano entrati in azienda per derubarlo. Per i giudici non fu legittima difesa ma tentato omicidio. Fortunatamente, nelle prossime settimane, la riforma della legittima difesa sarà legge e chi si difende dai balordi non dovrà più sopportare ingiusti calvari giudiziari. È auspicabile, però, che vengano varate nuove normative anche per difenderci da certe toghe buoniste che stanno sempre dalla parte dei criminali umiliando così le vere vittime.
Credere nella giustizia, scrive il 22 febbraio 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. Come tutti voi, credo nella Giustizia. Credo anche nella Verità. Nel buon governo. Nella buona amministrazione. Nel vino nettare degli dei. Nel masticazzo perfetto. Tuttavia, anche ammettendo che virtù e scienza coincidano, siamo in grado di comprendere la distanza qualitativa che esiste fra il Principio – universale, aureo – e gli agenti che ne traducono i precetti in una realtà codificata – particolari, grigiastri. Credere nella Verità non significa credere a tutto ciò che scrivono i giornalisti. Tanto è vero che in genere le due cose si escludono a vicenda. Credere nel buon governo non ci impedisce di criticare l’azione dei governanti, anzi, lo rende necessario per pungolarli verso l’ideale. E così via. Eppure, quando si parla di giustizia – quella che abita negli uffici giudiziari – si crea una sorta di fallace metonimia per cui i giudici incarnerebbero la Giustizia come virtù cardinale, quando tutt’al più possono aspirare a garantirne qualche impercettibile barlume in terra attraverso i difettosi strumenti della legge e del proprio comprendonio. In questi giorni – che si trattasse della Diciotti, di Salvini, dei Renzi o di Formigoni, quindi senza pregiudiziali epidermiche – continuo a leggere e ascoltare refrain di questo tenore: «Nessuno si sottragga alla giustizia!», «Le sentenze si rispettano», «Bisogna credere nei magistrati», «La fiducia nella giustizia è impregiudicata», «Credo nella giustizia», «Che la giustizia faccia il suo corso!», «Non dobbiamo mettere in discussione la giustizia». Io sono più laico, meno osservante. Il giudice – organo e funzionario – è indicativamente come la legge-legislatore, la stampa-giornalista, l’istruzione-docente, l’amministrazione-burocrate, l’ordine pubblico-vigile: può essere saggio oppure sciocco, scrupoloso o superficiale, fine o grossolano, benevolo o malevolo, prenderci oppure cannare. Come ogni altra impresa umana.
L’indipendenza della magistratura – prerequisito a un sano operare – è cosa diversa dalla petizione di principio sulla sua “rispettabilità”. Il rispetto, la deferenza, si conquistano, non si esigono. Da ermeneuta dei fatti non esigo ossequio in quanto giornalista; cerco di meritarlo, sapendo che la base di partenza è sotto il livello di un immigrato clandestino che fugge da una moglie cacacazzi. Mentre al magistrato si elargisce. Ciò deriva da una mera questione di potere: la non giudicabilità del giudice lo rende insindacabile. Nei casi infelici – che esistono in natura e soprattutto in Italia – l’insindacabilità conduce malauguratamente all’impunità… e l’impunità non è mai giusta, perché asconde la colpa o anche solo la cantonata. Ove manchi separazione della carriere e l’esistenza di un organismo esterno che valuti – e nel caso sanzioni – l’operato dei magistrati, si allargherà lo scarto che separa la giustizia dalla virtù. In attesa dunque di una riforma vasta e profonda, restiamo umani e non postuliamo un’esemplarità cosmogonica, un inquietante pantheon di arbitri che non è di questo mondo.
Dire giudice terzo è sacrilegio? Scrive Piero Sansonetti il 13 Marzo 2019 su Il Dubbio. Perché l’Anm si oppone alla separazione delle carriere dei magistrati? Il presidente Minisci dice che la separazione porterebbe alla sottomissione del Pm al potere politico. Non è vero. La separazione sarebbe solo l’attuazione dell’articolo 111 della Costituzione. Perché l’Anm si oppone a un articolo della Costituzione? Il Presidente dell’Anm (l’associazione magistrati) Francesco Minisci ha tuonato l’altro giorno contro la separazione delle carriere, cioè contro il disegno di legge di iniziativa popolare che è arrivato in Parlamento e che propone di distinguere tra la carriera del Pm e quella dei magistrati giudicanti. Il dott. Minisci ha detto che separare le carriere dei magistrati equivale a sottomettere il pubblico ministero, cioè la magistratura inquirente, al potere politico, cancellandone l’indipendenza. Non è così: la proposta di legge della quale si discute prevede esplicitamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che peraltro è prevista dalla Costituzione, e dunque non potrebbe mai essere cancellata con una legge ordinaria. Sotto questo aspetto la Costituzione è perfettamente attuata e rispettata. Quello che oggi è disatteso, della Costituzione, è l’articolo 111, quello che esplicitamente prevede una distinzione tra accusa e giudice. Dice così, al secondo comma (testualmente): “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Non ci sono molte possibilità di interpretazione di questo principio. Si può anche pensare che un giudice che sia collega del Pm sia comunque imparziale, grazie alle sue eccezionali capacità professionali e alla sua grande dirittura morale. Benissimo. (Anche se non è molto ragionevole dire all’imputato: “Fidati, l’arbitro è dell’altra squadra ma è un bravo arbitro”). Quello che comunque è impossibile da sostenere è che un giudice che appartenga alla stessa “scuderia” dell’accusatore possa essere considerato “terzo” rispetto all’imputato. Oggi la terzietà del giudice non esiste. E’ del tutto evidente che l’approvazione di una legge sulla separazione delle carriere sarebbe semplicemente una formalità: e cioè la doverosa attuazione di una norma costituzionale che sin qui è rimasta lettera morta. Approvare una legge sulla separazione vuol dire attuare la Costituzione. Opporsi a questa legge vuol dire opporsi alla Costituzione. Così come è evidente che non ha senso polemizzare con una legge dove è scritto in modo chiarissimo che la magistratura – tutta la magistratura – è e resta indipendente, sostenendo che si tratta di una legge che prevede la sottomissione del Pm al ministro, come avviene in vari altri paesi occidentali. L’indipendenza della magistratura sicuramente non è un dogma dello Stato di diritto, però è prevista dalla Costituzione italiana e sin qui nessuno mai l’ha messa in discussione. Dico di più: se vogliamo con animo scevro da ogni faziosità esaminare la storia della giustizia italiana dell’ultimo quarto di secolo, non troveremo nessuna traccia di un pericolo di sottomissione del Pm alla politica mentre troveremo molte tracce – anzi evidentissime evidenze – del contrario. La politica è stata più e più volte umiliata dalla magistratura, che ha fatto cadere governi, ha stroncato carriere politiche, ha proposto leggi, ha bocciato leggi, ha cacciato leader di partito e ministri, ha ottenuto l’abolizione dell’immunità parlamentare prevista dai padri costituenti, ha chiesto e ottenuto obbedienza e sottomissione e rispetto (rispetto che non ha mai restituito) al potere politico. Il dott Minisci dice: “Attenzione a non confondere la riforma della giustizia con la riforma della magistratura”. Non è chiarissimo cosa intenda dire. Come si potrebbe immaginare una riforma della giustizia che non sfiori la magistratura e il suo funzionamento, francamente mi risulta incomprensibile. Chi è che comanda nel mondo della giustizia, chi è che ordina, che organizza, che giudica? Non è certo il governo, che si tiene il più lontano possibile dall’amministrazione della giustizia, per un numero infinito di ragioni (ma il motivo principale, come si dice nel gergo sportivo, è la sudditanza psicologica, che riguarda tutti, reazionari e liberali, sinistre e destre, populisti e democratici); non è il Parlamento, che si comporta come il governo, intimorito e mansueto; non sono neanche gli avvocati, che spesso vengono posti in condizioni di inferiorità, sia dalla prevalenza della magistratura, e talvolta anche dalla sua arroganza, sia dal fatto che spesso gli avvocati diventano l’oggetto di attacco, o di vero e proprio linciaggio, da parte di settori abbastanza vasti della stampa e – di conseguenza anche dell’opinione pubblica. Chi comanda, oggi, nel mondo della giustizia è la magistratura ed è difficile pensare a una riforma della giustizia che non riformi anche la magistratura. Il problema non è quello di una riforma che imponga un ridimensionamento. Al contrario: ad esempio la separazione delle carriere promuove un ruolo nuovo e più vasto da parte sia della magistratura inquirente sia di quella giudicante. Una maggiore autonomia che viene esaltata proprio dalla reciprocità dell’autonomia tra accusa e giudici. La separazione delle carriere non deprime ma esalta il valore e il significato dell’autonomia. Lo moltiplica. E’ sufficiente a garantire la piena attuazione dell’articolo 111? Non credo. Probabilmente è necessario realizzare anche altre riforme che garantiscano il peso e l’autonomia dell’avvocatura. Non può esistere una giustizia giusta se all’autonomia dell’accusa e a quella della magistratura giudicante non si affianca una piena autonomia dell’avvocatura. La autonomia di tutti è la sola garanzia della parità reale tra accusa e difesa. E questa parità, prevista anch’essa dalla Costituzione, oggi non esiste. Da qualche tempo l’avvocatura italiana, e in particolare il Cnf, ha avanzato una proposta che merita di essere valutata e discussa anche dai magistrati: l’introduzione in Costituzione della figura dell’avvocato, con lo stesso valore e alla stessa altezza della figura del magistrato. Qual è il senso di questa proposta? Esattamente quello di garantire la massima autonomia e indipendenza dell’avvocatura. Perché i magistrati italiani non intervengono su questi temi? Perché quando parlano di giustizia accettano tutto tranne che sia messa in discussione la loro collocazione, il loro potere, i loro privilegi? Non è una domanda aggressiva: è una domanda accorata. Sono convinto che una discussione seria sulla riforma della giustizia che coinvolga avvocati, magistrati, giuristi, politici – possa avvenire solo se si rimuove il blocco corporativo che sin qui ha molto limitato le capacità di analisi, di giudizio e di proposta della magistratura. Credo che siamo tutti d’accordo nel condividere l’orrore per quello che è avvenuto in Iran, dove un’avvocata è stata sbattuta in prigione praticamente per tutta la vita, e sarà frustata. Lì, certo, la mancanza di autonomia della magistratura, e la mancanza di diritti dell’avvocatura, sono gli anelli forti di una catena che cancella ogni parvenza di diritto allo Stato iraniano. Se dio vuole siamo lontani anni luce, qui da noi, da quella civiltà giuridica degradata e morente. Forse se partiamo da questa constatazione possiamo iniziare a discutere su basi ragionevoli: l’indipendenza della magistratura dal potere politico – non solo dal potere politico autoritario e fondamentalista, ma da qualunque potere politico, anche il più democratico – è un’ottima garanzia per lo Stato di diritto. Ma chiedere l’unicità della carriera del magistrato e la rinuncia alla terzietà del giudice come assicurazione alla propria indipendenza è una follia. L’indipendenza non è un privilegio, è un dovere e una garanzia. Può essere difesa solo rinunciando ai privilegi e attuando la Costituzione. P. S. Speriamo che l’assurda situazione dell’avvocata iraniana condannata a 38 anni di prigione e 148 frustate non resti una notizia a margine del nostro dibattito pubblico. E’ un fatto gravissimo, che non può lasciare tranquillo nessun operatore di giustizia, né il mondo politico. Il governo italiano deve intervenire. E sarebbe un segnale molto positivo se almeno in questa battaglia magistratura, avvocatura, politica di governo e di opposizione, trovassero un momento di unità. Non possiamo disinteressarci, considerare l’arresto di quell’avvocata una cosa che riguarda un mondo diverso dal nostro. Riguarda noi, la nostra civiltà, la modernità, la necessità del Diritto.
Da Antigone al presente, tutti i dilemmi del diritto. Intervista a Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale, autrice con Luciano Violante di un libro che indaga sui nodi della giustizia. In chiave culturale, scrive il 12 febbraio 2019 Silvana Mazzocchi su La Repubblica. Esiste la giustizia giusta? Quella ideale, capace di pareggiare tutti i conti e risanare tutti i torti? La risposta è no, ma con riserva. Perché la giustizia non può che essere un indispensabile punto di equilibrio tra diritto, etica e religione, un "compromesso" auspicabile che emancipa dall'istinto vendicativo proprio della natura umana dispensando punizione e conforto. E dunque è necessario accettare di non vedere mai del tutto soddisfatte le aspettative individuali, perfino quando la giustizia è amministrata con le migliori garanzie, sancite soprattutto dalle costituzioni contemporanee. Essendo "la giustizia un'aspirazione di per sé inesauribile". Sul tema, complesso quanto universale, è illuminante Giustizia e Mito (Il Mulino) scritto da Marta Cartabia, professore ordinario di Diritto costituzionale e attualmente Vicepresidente della Corte costituzionale, insieme con Luciano Violante, già magistrato, parlamentare e professore ordinario di Diritto e Procedura penale. Il libro indaga l'universalità di concetti come legge, morale e religione e si occupa di noi, nel presente come nel passato più remoto, affrontando gli enigmi senza tempo del diritto, sempre vivi nella società attuale. E allora ecco Antigone ed Edipo, testimoni dell'eterno conflitto tra coscienza individuale, e ragion di Stato, tra legge morale e legge positiva, tra verità soggettiva e verità oggettiva, tra domanda di giustizia e intransigenza nell'applicare quella vigente. Antigone ed Edipo, portatori di un'idea personale di ciò che è giusto e di una convinzione caparbia che li trascina ineluttabilmente verso la "tragica rovina". "Diritto, religione e morale sono sempre in necessaria relazione fra loro" avverte Marta Cartabia,"ma allo stesso tempo sono irriducibili l'uno alle altre". Lo prova la storia dell'Europa nell'ultimo secolo, quando, senza quella relazione, la legge si è fatta forza assoluta e totalitaria. Così come non è possibile separare totalmente il piano del diritto dal piano della morale. Perché il diritto e la giustizia, come il diritto e la morale, devono sempre essere in rapporto tra loro e sempre devono dialogare. Ed è infine un'altra tragedia, l'Orestea di Eschilo, a metterci di fronte al messaggio primario. Anche quando la giustizia è amministrata in modo illuminato liberandoci dell'istinto vendicativo che alberga in ogni essere umano, le aspettative individuali di giustizia non saranno mai del tutto appagate. Questa giustizia sapiente, però, quella che "punisce e premia", resta comunque la via migliore possibile, ancorché "tortuosa", soprattutto rispetto al biblico "occhio per occhio e all'eterna tentazione del farsi giustizia da sé. Perché la storia dell'umanità dimostra che "reagire al male con il male" porta soltanto vendetta, crudeltà infinita e distruzione.
Perché la giustizia finisce per non essere mai giusta né nei confronti delle vittime, né dei carnefici?
"Questa domanda è molto impegnativa e nessuno può pensare di offrire una risposta definitiva. Proverò comunque a condividere alcuni spunti, senza alcuna pretesa di esaurire la riflessione. Il primo spunto deriva da una considerazione tanto ovvia, quanto dimenticata: la giustizia, al pari delle altre esigenze fondamentali che albergano nel cuore umano - come la bellezza, la verità, l'amore, la felicità - è una mèta sempre da raggiungere. Uno splendido verso di Eugenio Montale, nella poesia "Maestrale", ci ricorda: tutte le immagini portano scritto: "più in là". "Più in là": la giustizia è sempre "oltre", una mèta a cui tendere in continuazione, instancabilmente, operosamente, pazientemente, cercando le forme più adeguate, senza mai smarrire la consapevolezza che la possibilità di colmare pienamente il bisogno di giustizia sfugge alle capacità umane, perché la giustizia è una aspirazione di per sé inesauribile. Se si smarrisce questa consapevolezza del limite e ci lasciamo sopraffare, come ci ricordano i greci, dal peccato di hybris, non smetteremo di essere delusi e insoddisfatti. E sempre più ingiusti. Come segnalato in Giustizia e mito, è quello che ci documentano le due tragedie, Edipo re e Antigone, in cui l'irrigidimento di tutti i protagonisti su una loro idea di giustizia, che pur avviene in modi a ciascuno peculiari, li porta verso la rovina tragica, proprio in nome dell'affermazione "incondivisa" del giusto che sentono di portare in sé. Il secondo spunto è che non bisogna dimenticare che amministrare la giustizia significa usare un potere sulle persone. Per questo la giustizia è un bene da maneggiare con cura. Per illustrare questo aspetto, mi sia permesso di ricorrere a un'altra grande tragedia, le Eumenidi di Eschilo, dove vediamo Atena, la dea della sapienza, che trasforma le Erinni - antiche dee della vendetta, della distruzione, della discordia - in Eumenidi benefattrici, beneficate e bene onorate, dove la reiterazione del suffisso eu nel verso 868 insiste sul bene di cui esse divengono partecipi e portatrici. Ma ci ricorda, inoltre, che anche la giustizia buona e civilizzata conserva il segno dell'antica forza e della vendetta delle Erinni. Le Erinni restano in città: e Atena consiglia di "non espellere dalla città tutto ciò che è pauroso: chi degli uomini infatti è giusto se nulla teme?". Per questo, un'altra sorgente di antica saggezza ricorda: "non voler essere troppo giusto" (Qoelet 7, 16). La Bibbia non intende certo biasimare l'impegno per la giustizia, ma ammonire contro i rischi della superbia: "chi infatti si fa troppo giusto, perciò stesso diventa ingiusto", come si legge nel commento di Sant'Agostino proprio a quel verso."
Rapporto tra etica e giustizia.
"Il rapporto tra legge, religione e morale è il contenuto di uno dei problemi più complessi su cui si interrogano filosofi e teologi di ogni tempo. Non vi è dubbio che quando leggiamo in ogni codice penale che l'omicidio è uno dei più gravi delitti, punito con le sanzioni più severe, non possiamo non sentire l'eco del quinto comandamento: "Non uccidere"! D'altra parte, sappiamo bene, che al di là di un indispensabile nucleo essenziale di valori condivisi, nelle società multietniche e multiculturali imporre con legge un precetto religioso o morale può significare una grave compressione della libertà delle persone e dei gruppi: una imposizione della maggioranza del momento sui gruppi di minoranza. Diritto, religione e morale sono sempre in necessaria relazione fra loro, ma allo stesso tempo sono irriducibili l'uno alle altre. L'esperienza politica del continente europeo nell'ultimo secolo ha assistito alle gravi conseguenze che si generano quando la legge, volendo imporre un assetto di valori, è divenuta forza tirannica e totalitaria, nella forma dello stato etico che è inevitabilmente stato assoluto. Ma lo stesso è accaduto quando, all'opposto, si è tentato di separare totalmente il piano del diritto dal piano della morale, sotto l'influsso del positivismo giuridico: allora la legge ha finito per diventare un puro atto di volontà indifferente al contenuto del comando che essa poneva. E così, per altra strada, la storia d'Europa è di nuovo stata attraversata dall'esperienza di un nuovo stato assoluto di diverso segno. Dopo la tragica epoca dell'ingiustizia della legge con le infami leggi razziali italiane e tedesche degli anni '30 del Novecento si è compreso che il diritto e la giustizia dovevano tornare a dialogare, che il diritto e la morale dovevano gravitare su orbite distinte, ma non del tutto inincidenti."
Regole e trasgressioni. Il fine può giustificare i mezzi?
"Mai. La tentazione, per esempio, di ristabilire la giustizia reagendo al male con il male è un dato costante della storia dell'umanità. "Occhio per occhio": apparentemente questa è la risposta più adeguata al risentimento adirato e indignato che ogni episodio di ingiustizia suscita negli animi. Eppure, altrettanto costante nella storia dell'umanità è la consapevolezza che ripagare il male con il male non può che perpetuare una catena di distruzioni e di malvagità interminabile. Ancora, il divieto di tortura è uno dei pochi principi assoluti della civiltà giuridica europea, anche quando si potrebbe ottenere, con poco sforzo e qualche forzatura, l'arresto dei responsabili di fatti gravi ed efferati. Occorre, invece, un fatto "spiazzante" per rompere la logica retributiva e distruttiva - "te la faccio pagare!" - che ogni episodio di male subito tende ad innescare. Rivolgiamoci ancora una volta alla tragedia, per la sua straordinaria energia di reiterazione (di cui parlava George Steiner), cioè quella straordinaria capacità di narrare storie paradigmatiche, senza tempo e di ogni tempo, e perciò sempre attuali. L'Orestea di Eschilo narra la lunga catena di omicidi, sanguinosi, atroci che affligge la famiglia degli Atridi, a partire da Atreo e Tieste, seguita dalla nascita incestuosa di Egisto, fino al sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre, che a sua volta induce la madre Clitemestra ad assassinare il marito Agamennonne, eroe vittorioso della guerra contro Troia, e poi ancora il figlio Oreste a vendicare l'assassinio del padre con il matricidio. La catena del male provocata dall'antica logica della "giustizia" delle Erinni, fatta di vendetta, ira, istinto, reattività, che sembra destinata a perpetuarsi senza fine, si interrompe grazie all'intervento della dalla dea della sapienza, nata dalla mente di Zeus. Atena introduce un elemento nuovo: istituisce il tribunale e il processo, consapevole di fondare "un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre". Nel processo che si svolge tribunale dominano il logos, la parola, il ragionamento, la persuasione, la prova. Il ragionare prende il posto dell'istinto vendicativo. La pacatezza e la riflessione, quello della reattività. La ricerca delle prove, la verifica dei fatti e della complessità delle circostanze, unitamente all'argomentare e al motivare, quello del mistero. Alla fine, Oreste viene assolto con metà dei voti a favore e metà contro. La bilancia pende a favore della clemenza. L'istinto vendicativo delle Erinni non è appagato dall'assoluzione di Oreste finché, come già anticipato, Atena non le invita a diventare Eumenidi; anche per questo, tutti leggono nell'Orestea la celebrazione di una svolta di civiltà. La giustizia amministrata con sapienza percorre vie lunghe e non di rado tortuose, ma contribuisce al bene di tutti, mentre le scorciatoie sbrigative, di chi fa giustizia da sé, noncurante delle regole, ottiene risultati effimeri: nella mitologia greca, Dike, Eirene, ed Eunomia, rispettivamente giustizia, pace e buon governo, sono le tre sorelle che insieme costituiscono il gruppo delle Ore, chiamate a vegliare sulle vicende dei mortali. Come nell'affresco del buon governo di Lorenzetti a Siena: nel Buongoverno, Giustizia incoronata punisce e premia ispirata da Sapienza e produce Concordia; mentre, nel Malgoverno, Giustizia sta legata ai piedi della Tirannide e le sue bilance sono rotte".
«La burocratizzazione uccide la giustizia». L’intervento di Antonio Lepre, consigliere togato del Csm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 29 gennaio 2019 su Il Dubbio. Uno dei problemi che attanaglia il pianeta giustizia del Paese nel suo complesso è – certamente – il “formalismo giuridico”. L’eccessiva burocratizzazione di ogni procedura ha portato negli anni alla paralisi del sistema e, come immediata conseguenza, alla mancanza di fiducia da parte del cittadino nella magistratura. Il cittadino, e tutte le più recenti statistiche sono concordi al riguardo, si è ormai rassegnato all’idea che sia inutile rivolgersi al proprio giudice per ottenere giustizia. La soluzione dei problemi va trovata altrove. Non in un Tribunale. Ad offrire questa analisi impietosa della macchina giudiziaria italiana è stato Antonio Lepre, consigliere togato del Csm, nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte d’Appello di Bari. Il palazzo di giustizia del capoluogo pugliese, evacuato per rischio crollo la scorsa estate e inizialmente trasferito in una tendopoli di fortuna, è già di per sé la metafora perfetta del funzionamento della giustizia in Italia. E’ lo stesso Lepre a sottolinearlo: «Il Tribunale di Bari è un “non luogo giudiziario” caratterizzato da un settore penale atomizzato in ben otto sedi, sicché mi chiedo come facciano gli avvocati ad affrontare quotidianamente la necessità di andare da un punto all’altro della città per svolgere il proprio lavoro». Di chi sono le responsabilità? Come è stato possibile arrivare fino a questo punto? A rispondere alla domanda è lo stesso Lepre: «Non basta dare la colpa genericamente alla politica o al Ministero della giustizia, atteso che è da oltre venti anni che la situazione degli uffici baresi ( e non solo) è drammatica». Con una precisazione di non poco conto: «Nel Ministero della giustizia i posti direttivi a livello amministrativo- burocratico sono tradizionalmente occupati da magistrati, sicché è doveroso per tutti noi chiederci se non vi sia un problema culturale di fondo». Ed ecco, dunque, arrivare all’approccio “burocratico formalista” ai problemi da parte della magistratura e del Csm. Invece di affrontarli, il Csm ha prodotto moltissime «circolari su circolari, carta su carta, con adempimenti burocratici crescenti di anno in anno», dice il consigliere del Csm. «Nel contempo la questione essenziale delle diffuse pessime condizioni strutturali e di lavoro dei magistrati è stata declassata a mera questione sindacale e quasi snobbata: eppure è evidente che efficienti condizioni di lavoro e strutturali siano la precondizione per l’esercizio stesso della giurisdizione», ha quindi concluso Lepre.
Giustizia, baristi si difendono col coltello dai rapinatori con la pistola? La vergogna, "vanno processati", scrive il 31 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Due cinesi titolari di un sushi bar a Segrate rischiano di finire nei guai per aver reagito a una rapina subita da due italiani armati di revolver e una penna pistola calibro 22. La colpa dei due ristoratori è stata di aver reagito ai colpi esplosi dai due rapinatori: i due hanno impugnato i coltelli, come mostrano le telecamere di sicurezza, e si sono lanciati contro i rapinatori, imbracciando una lotta corpo a corpo rischiosissima. Nella colluttazione uno dei rapinatori ha sparato e colpito uno dei due baristi alla testa, al mento e al fondoschiena. I cinesi hanno risposto con diversi fendenti andati a segno contro i rapinatori. Il gup di Milano Alessandra Cecchelli, riporta il Corriere della sera, ha condannato con rito abbreviato uno dei due rapinatori a 6 anni e 8 mesi, l'altro a 4 anni e 8 mesi, meno di quanto avesse chiesto il pm, per lesioni ai due ristoratori cinesi, risarciti con provvisionale di 5mila e 2mila euro. Nella sentenza però c'è anche la beffa, perché il gup ha trasmesso gli atti al pm perché valuti la possibilità di indagare i due cinesi per lesioni ai rapinatori. In sostanza, secondo il giudice non si sarebbe stata legittima difesa davanti a due criminali entrati armati nel proprio esercizio commerciale.
Bruciarono il clochard per noia, il giudice non li condanna. Verona, all'epoca dei fatti, un anno fa, avevano 13 e 16 anni. La pena è stata sospesa, scrive Enrico Ferro l'1 febbraio 2019 su La Repubblica. Si può uccidere per noia senza trascorrere un giorno in carcere. Si può tormentare fino alla morte chi non ha nulla e uscirne comunque puliti. Nessuna condanna per i ragazzini responsabili della morte di Ahmed Fdil, clochard marocchino di 64 anni di Santa Maria di Zevio (Verona), morto carbonizzato il 13 dicembre del 2017 nell’auto che era anche la sua casa. Si sono presi gioco di lui, l’hanno bruciato vivo ma, al momento del delitto, uno ha 13 anni e quindi non è imputabile, l’altro ne ha 16 e la giudice Maria Teresa Rossi del Tribunale dei Minori di Venezia gli ha concesso la messa in prova per tre anni. Ciò significa comunità, lavori socialmente utili e psicoterapia. «Questo è il valore della vita di mio zio, lo zero assoluto» ha fatto in tempo a gridare il nipote Salah Fdil in tribunale, prima di venire allontanato dall’aula. Il reato contestato era omicidio volontario aggravato dalla minorata capacità di difesa della vittima, perché quella sera Ahmed stava dormendo sul sedile della sua Fiat Bravo avvolto da una coperta. Gli scherzi andavano avanti da tempo. A loro, in fondo, piaceva così. Sapevano che nell’abitacolo di quell’auto si era ridotto a vivere un marocchino senza casa, senza famiglia, senza lavoro, uno che chiedeva l’elemosina al mercato. La loro passione era tormentarlo proprio nelle ore della sera. Il massimo dell’eccitazione lo raggiungevano con i petardi lanciati nella piazzola di sosta dove stazionava regolarmente la vecchia Fiat.
Lui si svegliava di soprassalto, usciva imprecando e loro fuggivano ridendo come matti. Quella sera di poco più di un anno fa il “Baffo” aveva lasciato il finestrino dell’auto un po’ aperto per far passare l’aria. I due ragazzini hanno avuto l’idea di buttarci dentro alcuni fazzoletti di carta incendiati. «Quell’uomo è morto bruciato vivo, non è riuscito a uscire ed è diventato una torcia umana», sintetizza l’avvocata Alessandra Bocchi, del foro di Vicenza, che assiste il nipote della vittima. Un gioco disumano che si trasforma in una trappola mortale. Inizialmente i carabinieri pensarono a un incidente, perché ad Ahmed piaceva bere e anche fumare. Ma dopo qualche giorno, nel paese a poco più di dieci chilometri da Verona, sono iniziate a girare voci sui tormenti patiti dal senzatetto a opera di alcuni ragazzini. La prima segnalazione giunge quasi per caso, nel corso di un banale intervento per un litigio sorto dopo un piccolo incidente stradale. Un ragazzino, anche lui minorenne, sfida i carabinieri: «Voglio vedere se riuscite a trovare chi ha ucciso il “Baffo”, tanto io so tutto». Passano altri giorni e una nuova segnalazione giunge stavolta grazie a un insegnante imbeccato dai suoi studenti. Vengono individuati i due ragazzini, uno di 13 e l’altro di 16 anni che, messi alle strette, iniziano a incolparsi a vicenda. «Gli dicevamo barbone di m… ma l’idea dei fazzoletti non è stata mia», dice il diciassettenne. Viene ricostruita la scena. I due ammettono di essersi appostati per tormentare, ancora una volta, quell’uomo solo e indifeso. Il racconto che il tredicenne fornisce agli investigatori è una storia speculare all’altra ma a responsabilità invertite. Poi ci sono le chat intercettate, altro spaccato desolante di un’adolescenza maledetta. «Hai realizzato il tuo sogno di ammazzare una persona», lo incalza il sedicenne. Ma l’altro nega: «Il mio sogno era ammazzare un gatto». «Decisivo è stato il parere del responsabile dei Servizi sociali, secondo cui l’imputato avrebbe dimostrato pentimento» spiega l’avvocata Bocchi e ancora non si capacita.
Minaccia la madre della vittima, ora il giudice è linciato sui social. Bonafede pronto all’ispezione su Calabria, che in corte d’appello a Roma ha paventato denunce ai familiari del giovane ucciso nel 2015, scrive il 2 Febbraio 2019 Il Dubbio. Alla fine il caso degli attacchi ai giudici si rovescia nel suo opposto. Da allarme per la magistratura, e per l’incolumità di chi opera nelle aule di tribunale, a sgradevolissimo eccesso verbale di un singolo magistrato. È questo il paradosso estremo dell’episodio verificatosi due giorni fa in Corte d’appello a Roma, e che ha visto protagonista in negativo il presidente di sezione Andrea Calabria, chiamato a pronunciarsi sul caso di Marco Vannini, il giovane ucciso nel 2015 da una pistolettata del suocero e dal ritardo dello stesso nel soccorrerlo. Il giudice Calabria ha prefigurato alla madre della vittima il rischio di un «giro a Perugia». Voleva intendere che se avesse continuato a urlare «vergogna» (di fronte alla lettura della sentenza che ha ridotto da 14 a 5 anni la condanna per il suocero di Vannini, Antonio Ciontoli) l’avrebbe denunciata per oltraggio alla Corte. In base all’articolo 11 del codice di procedura penale, sono di competenza dei magistrati di Perugia non solo i reati “commessi da” ma anche quelli “contro” i colleghi della Capitale. Ecco il senso del riferimento, altrimenti incomprensibile, al capoluogo umbro. Alfonso Bonafede ha avviato accertamenti preliminari.
A breve potrebbe decidere di mandare gli ispettori in Corte d’appello a Roma. E incontrerà la madre di Marco Vannini, Marina Conte. D’altra parte la storia è il punto di caduta peggiore di una lunga sequenza in cui i giudici che leggevano pronunce sgradite, perché ritenute troppo lievi o anche troppo pesanti, venivano attaccati duramente dal pubblico in aula. Stavolta è il magistrato ad aver usato toni gravi nei confronti di una madre disperata. Ma ora contro di lui è partito anche il solito linciaggio social, con richiami ad altre, precedenti sentenze ritenute troppo lievi. Il tutto naturalmente con il tipico insistere sulle generalità del giudice, quasi a voler incoraggiare vendette personali nei suoi confronti. È un corto circuito che nessuno riesce più a fermare e che merita attenzione quanto le parole fuori luogo di un magistrato.
Quindi assolvere non è giustizia? Scrive Errico Novi il 12 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Certe frasi sono fuori luogo. Non nel senso che sono sbagliate: “Ti aspetto fuori” è espressione che si immagina di sentire in un altro tipo di aula. A scuola, non in tribunale. Ieri invece l’hanno detto a un giudice. Al magistrato che ha letto la sentenza sulla strage del bus. Ce l’avevano con lui perché aveva assolto l’ad di Autostrade Giovanni Castellucci. Nonostante quel giudice avesse appena condannato altri dirigenti della stessa società. La rabbia dei parenti non va sfiorata neppure con un “però”. È sacrosanta. Eppure dietro quelle invettive è come se ci fosse qualcos’altro, oltre alla rabbia. Altrimenti non si spiega. Non si spiega perché, al termine di un processo in cui i condannati ci sono e visto che qualcuno dunque “pagherà” proprio come chiede il vicepremier Salvini, nei familiari delle 40 vittime prevalga quel tipo di sentimento. È come se dietro ci fosse una coazione a ripetere. Quella che spinge a chiedere il colpevole con la C maiuscola. Il capro espiatorio. E in effetti nella vicenda della sciagura del 2013 Castellucci potrebbe incarnare perfettamente il ruolo. Era stato rinviato a giudizio per omicidio colposo plurimo e disastro colposo a causa dei guard rail del viadotto, sbriciolati nell’impatto con il bus. Fradici, secondo l’accusa. Ma Castellucci è anche il volto con cui Autostrade si è presentata agli italiani dopo il crollo del ponte Morandi. Se chiamati a individuare un responsabile della carneficina di Ferragosto, tanti sceglierebbero lui. Quindi è perfetto per rappresentare il male in qualsiasi altro posto. Anche nell’aula del tribunale di Avellino. Cosa importa che secondo il giudice non ci fossero prove di una sua personale responsabilità? E soprattutto: come accettare che possano esserci anche sentenze di assoluzione? Perché – è questo il punto – all’idea che la giustizia debba accertare i fatti e non consumare vendette non crede quasi più nessuno. È come se ieri davanti a quel giudice monocratico fossero risuonate le tante grida di sdegno scaricate addosso in questi anni a tanti altri magistrati che avevano usato la parola “assolve”. La giustizia dovrebbe essere al suo massimo grado quando arriva a riconoscere innocente un imputato. Dopo averlo sottoposto a indagine, aver ipotizzato reati a suo carico, aver assunto prove in dibattimento e averle valutate. Perché? Semplice: se un pubblico potere, il Tribunale, quindi lo Stato, prima accusa e poi riconosce che l’accusa è infondata, lo fa in nome della propria massima autorevolezza. Uno Stato, e un giudice così, dovrebbero rassicurarci, perché hanno il coraggio di assolvere, appunto. A furia di coltivare l’attesa per condanne vendicative, un giorno finiremo per sentirci insicuri davvero. Non è ai familiari delle vittime di Pozzuoli che lo si deve ricordare. Ma a noi tutti. Che abbiamo trasformato la giustizia in qualcos’altro.
«Giudici liberi di assolvere». Csm: giustizia non è cappio. L’iniziativa nasce da un caso, quello delle minacce al giudice della strage sul bus, che è la goccia capace di far traboccare il vaso. Ma la richiesta di aprire una “pratica a tutela” dell’intera magistratura presentata ieri al Csm da 11 togati ha il senso di una mobilitazione generale, scrive Errico Novi il 17 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Sembra il punto di non ritorno. Il caso delle minacce a Luigi Buono, il giudice della sentenza sulla strage del bus, non è il primo del genere, ma per la magistratura rappresenta il segno di un allarme non più tollerabile: così con un’iniziativa che non ha precedenti per ampiezza di significato ieri 11 togati del Csm (tutti i gruppi tranne Mi) hanno chiesto al comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli l’apertura di una pratica a tutela dell’intera magistratura. Nel documento letto ieri in plenum viene citato naturalmente il caso del giudice monocratico di Avellino, oggetto, venerdì scorso, di «insulti e minacce» subito dopo la lettura del dispositivo sulla strage del viadotto. Si richiamano altre vicende come quelle del processo per Rigopiano e delle assoluzioni pronunciate dal Tribunale di Lucca nei confronti dei contestatori di Salvini. E ancora, si ricorda un altro «attacco alla giurisdizione» quale quello rivolto ai giudici di Monza sul caso dell’imprenditore Sergio Bramini. Ma si tratta di esempi, non delle sole specifiche circostanze sulle quali i consiglieri intendono richiamare l’attenzione. Si tratta solo dei più recenti di «una lunga serie di episodi che compromettono l’indipendente esercizio della funzione giurisdizionale, che la magistratura deve esercitare nel solo rispetto della legge». Il senso è dunque alzare un argine non valicabile rispetto alle aggressioni verbali (per ora) che incombono su ogni giudice orientato ad assolvere, o anche a emettere un’ordinanza cautelare meno restrittiva di quanto l’opinione pubblica si aspetti. A proposito della seconda variabile, basti pensare al gip di Reggio Emilia Giovanni Ghini, contro il quale nell’agosto 2017 fu organizzato addirittura una corteo solo perché aveva osato prevedere una misura attenuata rispetto all’arresto chiesto dai pm per uno straniero accusato, e reo confesso, di abusi sessuali. Viene al pettine il vero nodo della giustizia ridotta a giustizialismo. Il pericolo che la scure dell’intransigenza manettara, spietata fino a qualche anno fa solo con indagati e imputati, finisca per condizionare gli stessi magistrati. Tanto da metterli nella condizione di vivere l’esercizio delle funzioni come un atto temerario. Ed è importante che nel segnalare il livello di gravità raggiunto dalla situazione, i togati facciano riferimento a due cardini dell’ordinamento: come spiega in plenum la consigliera di Area Alessandra Dal Moro, alla quale i colleghi affidano la lettura della richiesta, ad essere messi in discussione sono «valori fondanti dello Stato di diritto, quali il principio di non colpevolezza degli imputati e il diritto di difesa nel processo penale». Richiamo non casuale, quello al pericolo di compromettere il diritto alla difesa in giudizio. Sia perché conferma l’ormai consolidata sintonia, sul tema, fra magistratura e avvocatura, sia perché le aggressioni sui social e i proiettili recapitati negli ultimi anni ai legali di diversi imputati costituiscono l’altra faccia dell’emergenza denunciata ieri al Csm. Dal Moro espone considerazioni condivise, come detto, dagli altri 3 togati di Area, dai 5 consiglieri di Unicost, a cominciare dal capogruppo Luigi Spina, e dai due rappresentanti di Autonomia & Indipendenza Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Non c’è Magistratura indipendente. Scelta legata alla linea che il gruppo associativo si è data rispetto alla dialettica tra toghe e forze politiche: nel documento sottoscritto da tutti gli altri consiglieri magistrati c’è anche un richiamo al fatto che «gli insulti e le minacce» rivolte al giudice monocratico di Avellino erano state «amplificate mediaticamente dalle reazioni successive», riferimento alle dichiarazioni di diversi esponenti politici diffuse subito dopo le contestazioni al giudice, in particolare da Luigi Di Maio. Il vicepremier aveva detto di capire «il grido di dolore delle famiglie delle vittime dopo l’assoluzione dell’ad di Autostrade Castellucci». Vero è che nel seguito del suo post di venerdì scorso Di Maio aveva aggiunto che il suo non era «un attacco ai giudici». Ed è anche vero che, nella richiesta di pratica a tutela presentata ieri, l’attenzione è per gli umori della piazza prima ancora che per le reazioni dei politici. Il pericolo viene da «comportamenti», generalmente intesi, «lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione» tali da «determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria». La pratica, che verrebbe assegnata alla prima commissione presieduta dal laico Alessio Lanzi, potrebbe tradursi in una delibera del Csm a tutela di tutti i magistrati. Ma al di là delle conseguenze formali, l’iniziativa sollecitata ieri in plenum annuncia una presa di posizione netta delle toghe, che può trasformarsi in una mobilitazione permanente con possibili richieste di interventi del legislatore. Una svolta, se si considera la funzione che per anni, in modo distorto, il fronte giustizialista ha attribuito a giudici e pm. Quell’aspettativa patologica si rivela ora un pericolo per la tenuta dell’intero ordinamento giudiziario e dello Stato di diritto, come tante voci annunciavano da tempo pur senza sommarsi in una presa di posizione istituzionale ampia come quella di ieri.
· Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere".
Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere". Per 17 anni il gip milanese Giuseppe Gennari ha mandato imputati a San Vittore. Ieri per la prima volta lo ha visitato, scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, martedì 19/02/2019, su Il Giornale. Come sono le celle, signor giudice? «Dei buchi maleodoranti di varia umanità accatastata». Per diciassette anni, il giudice Giuseppe Gennari ha riempito di ospiti San Vittore: condanne, ordinanze di custodia, il lavoro consueto di un giudice penale. Ma come è fatta una cella non lo sapeva. Del carcere conosceva solo le salette disadorne degli interrogatori. Del mondo più in là, oltre il quinto cancello, aveva una idea vaga. E come lui non lo sanno le centinaia di magistrati che in Italia applicano la legge penale. Conoscono a memoria i codici e la giurisprudenza. Ma non immaginano quanti passi è lunga una cella. Ieri mattina, per la prima volta in vita sua, Gennari entra nei raggi di San Vittore. E quando ne esce, dice una cosa semplice: «Bisognerebbe che tutti i miei colleghi vedessero quello che ho visto io. Quando emetti una condanna hai una idea astratta, documentale del carcere. Non hai la percezione di cosa significhi in concreto non solo vivere una restrizione, ma viverla in queste condizioni terribili». Terzo raggio, quinto, sesto. Il giudice tocca con mano i tentativi di rendere vivibile il carcere, i piani sistemati di fresco, le celle dei lavoranti, la minoranza che almeno può dare un ritmo alle giornate. Ma visita anche i buchi neri. Le celle dove stanno ammassati detenuti al sessantacinque per cento stranieri, protagonisti di un turnover frenetico - tre mesi a testa di permanenza media - che rende arduo qualunque progetto di socialità o di formazione. Il reparto dei «protetti», un carcere dentro il carcere, dove stanno quelli che gli altri detenuti punirebbero: i trans, i violentatori, gli «infami». Incrocia quelli che qui non dovrebbero neanche starci: i malati di mente che la chiusura dei manicomi giudiziari destinava alle residenze assistite, ma le residenze non ci sono per tutti, e così finiscono in prigione. Al giudice appaiono fantasmi raggomitolati sotto le coperte, o in piedi a battersi il petto e a guardare nel vuoto. Alcuni non hanno il materasso, perché lo farebbero a pezzi e lo mangerebbero. «Non ho mai visto scene così neanche nei reparti psichiatrici degli ospedali dove ho pure messo gente agli arresti», dice Gennari. Mille detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti: «Ma la presunzione di innocenza - dice Gennari - non vale per tutti allo stesso modo. Per il colletto bianco è un baluardo insuperabile, per il marocchino catturato alla stazione vale zero...». E i marocchini sono qua, insieme ai gambiani, agli albanesi, ai georgiani, in questa babele di lingue dove spesso nessuno li capisce. Dovrebbero pensarci i cosiddetti mediatori culturali, ma arrivano solo due giorni alla settimana e per una manciata di ore: «Il fatto che non ci sia un trait d'union culturale e linguistico - dice il giudice - è inconcepibile, hai gente che magari è sbarcata tre mesi fa e che non ha neppure gli schemi mentali per capire cos'è una regola, cosa ci si aspetta da loro in questo luogo». Per garantire a tutti i tre metri quadri di spazio vitale imposti dalla Corte dei diritti dell'uomo, ora le celle sono aperte 12 ore al giorno. La costrizione fisica si allenta, ma in compenso arrivano i furti, le piccole risse, le tensioni tra etnie e tra singoli. Gennari si muove fra le celle, ascolta le proteste eterne di chi spiega di essere qui da tre settimane senza venire interrogato, sente addosso gli sguardi di chi un magistrato qua dentro non lo aveva mai visto. Fa impressione, vero signor giudice? «Sì, fa impressione. Anche perché è chiaro che non serve a niente e chi uscirà sarà esattamente come prima. Serve solo a tranquillizzare chi sta fuori: ma è una tranquillità effimera». Se i suoi colleghi lo vedessero condannerebbero meno a cuor leggero? «Vedete, quando facevo il giudice preliminare avevo almeno la percezione che ciò che decidevo accadeva subito: ordinavo un arresto, e una persona finiva in carcere. Invece chi fa le sentenze sa che la sua decisione diventerà definitiva anni dopo, dopo altri gradi di giudizio: questo distacca molto dalla concretezza del verdetto. Ma ogni condanna è un seme gettato, poi tutto va avanti per inerzia. Sì, penso che i miei colleghi dovrebbero vedere. Devi vedere la conseguenza delle tue decisioni. Poi magari le prendi lo stesso, ma con un'altra consapevolezza».
Giustizia ingiusta e manette facili: ogni anno mille innocenti in carcere, scrive Luca Fazzo su Il Giornale, 17 febbraio 2019. La presidente del Senato Casellati: "Vite calpestate, non è più tollerabile". Finora lo dicevano molti avvocati e qualche coraggioso, isolato giudice. Adesso lo dice la seconda carica dello Stato. E il tema della giustizia ingiusta diventa un caso istituzionale. Il presidente del Senato Elisabetta Casellati prende la parola in una cerimonia a Padova e denuncia lo scandalo che giorno dopo giorno si consuma nelle aule di tribunale italiane: i mille cittadini innocenti che ogni anno vengono sbattuti in galera per reati che non hanno commesso. Uno ogni otto ore. Dal 1992, quando Mani Pulite elevò i mandati di cattura a simbolo dell'efficienza giudiziaria, ventiseimila uomini e donne sono finiti in carcere sulla base di prove che non esistevano. "Donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà e la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata", dice la Casellati davanti agli avvocati dell'Unione delle camere penali. È la prima volta che da una carica così alta si sceglie di puntare il dito sulla disinvoltura con cui si utilizzano le manette. "Sono numeri pesanti - ha ammonito la presidente del Senato - che non possono più essere sottovalutati e che ci obbligano a una necessaria riflessione sull'efficacia degli strumenti normativi finora predisposti per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale, preservare il nostro sistema dal rischio di errori suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e le loro famiglie". Sono tragedie, ricorda la Casellati, che non si chiudono con la scarcerazione, perché la vita degli innocenti finiti in carcere non è solo "danneggiata da una cattiva amministrazione della giustizia" ma è "spesso compromessa dalle conseguenze mediatiche di una misura cautelare o di una sentenza di condanna infondate sotto il profilo giuridico ma comunque sufficienti a radicare nella collettività un inestirpabile sentimento di condanna sociale". La sentenza dei talk show è una sentenza senza appello. A sostegno della sua denuncia, la Casellati cita "l'ultima relazione sull'applicazione delle misure cautelari personali elaborata dal ministero della Giustizia". Sono dati che rispecchiano una realtà nota da tempo a chiunque frequenti davvero le aule di giustizia (bisogna ricordare che il presidente del Senato di mestiere fa l'avvocato) ma finora, incredibilmente, considerati tollerabili, come se una simile quota di assoluzioni fosse la fisiologica conseguenza della dialettica tra accusa e difesa. Anche il mese scorso, quando in tutta Italia vennero inaugurati gli anni giudiziari, nelle decine di relazioni degli alti magistrati questa emergenza non veniva citata. Con una sola eccezione: quella di Massimo Terzi, presidente del tribunale di Torino, che si definì "scandalizzato" dal numero di innocenti inghiottiti dal tritacarne giudiziario, "un sistema non conforme ai principi di democrazia". La denuncia di Terzi sembrava caduta nel vuoto. Invece ora la Casellati rilancia l'allarme con tutta la sua autorevolezza. È vero, dice il presidente del Senato, che "nessun ordinamento può dirsi perfetto e immune da errori sul piano processuale", e che "errori possono verificarsi anche indipendentemente dalla sussistenza di profili di responsabilità in capo a chi li commette". I giudici, cioè, possono sbagliare anche in buona fede. Ma proprio per questo la Casellati difende esplicitamente l'attuale struttura della giustizia penale, i tre gradi di giudizio che oggi molti magistrati vorrebbero limitare in nome dell'efficienza: la possibilità dei ricorsi "esprime la necessità di contenere quanto più possibile il verificarsi di tali anomalie e di garantire che il processo possa giungere alla sua conclusione naturale: l'accertamento della verità".
Innocenti in cella: indennizzi per 33 milioni. Ma a molti lo Stato nega il risarcimento, scrivono Filippo Femia e Nicola Pinna su La Stampa, 17 febbraio 2019. Oltre 27mila casi di ingiusta detenzione dal 1992: all'erario sono costati 686 milioni di euro. I penalisti: "Troppi arresti facili, serve più cautela". Finire in carcere senza aver commesso il reato. Gridare la propria innocenza, per mesi, e non essere creduti. Fino a convincersi, in certi casi, di essere colpevoli. Quello che sembra un delirio kafkiano è una realtà attuale. Non in un Paese lontano retto da un governo autoritario, ma in Italia: ogni anno mille persone sono vittime di ingiusta detenzione. Dal 1992 ad oggi 27.308 innocenti sono finiti in cella. Errori che sono costati alle casse dello Stato 682 milioni di euro di indennizzi. Ma il dramma spesso dimenticato è quello di chi non riesce neppure a ottenere un indennizzo. Anche nel 2018 gli errori commessi dai magistrati sono stati parecchi. E sono costati allo Stato anche tanti soldi. Il ministero della Giustizia per la prima volta ha deciso di non divulgare i dati, ma tutti i risarcimenti rientrano nei capitoli di spesa del Ministero dell'economia. E così si scopre che i casi sono stati 896 e che gli indennizzi per ingiusta detenzione hanno superato i 33, 5 milioni. Gli anni peggiori restano ancora il 2011 (con il maggior numero di casi: 1.718) il 2004 (record di indennizzi: 55 milioni) sono lontani, ma il fenomeno sembra avere ancora dimensioni preoccupanti. Da tempo la Onlus "Errorigiudiziari.com" cataloga e archivia le storie di ingiusta detenzione in un database unico in Italia. "Dopo aver conosciuto le vittime, lo sentiamo come un dovere civico - raccontano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi. Ti rendi conto delle conseguenze devastanti sul piano personale, familiare e professionale per il periodo passato ingiustamente dietro le sbarre". C'è persino chi stacca il citofono perché il suono rievoca la notte in cui i carabinieri si sono presentati per l'arresto o chi non può stare in casa con porte chiuse, perché tutto riporta alla mente i passaggi da un braccio all'altro del carcere. Le tabelle che raccolgono i dati delle Corti d'appello sono solo la punta dell'iceberg. Perché il numero totale delle ingiuste detenzioni che si verificano ogni anno sono molti di più. Nelle statistiche ci sono solo nomi e cognomi di chi ha avviato un procedimento contro lo Stato e ottenuto un risarcimento. Ma non includono tutti quelli che hanno una sentenza di assoluzione definitiva in tasca e si sono visti respingere la domanda. Quantificarli non è facile, ma secondo le stime di "Errorigiudiziari.com" un terzo dei procedimenti si arena. Un altro capitolo riguarda chi quella domanda non la inoltra nemmeno. "Ottenere il risarcimento è sempre più difficile perché i giudici riescono a far ricadere la colpa dell'errore sulla vittima - denuncia il presidente dell'Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza. Se uno si è avvalso della facoltà di non rispondere viene accusato di non aver contribuito a chiarire l'errore. Sembra che i giudici si facciano carico dei problemi di bilancio dello Stato per non dover pagare". Ma quali sono le cause principali dell'ingiusta detenzione? "In primo luogo le intercettazioni mal interpretate", sostiene Maimone. Per causare un equivoco basta lo scambio di una consonante in un cognome. "La legge, in teoria, prevede tutte le garanzie per prevenire queste situazioni - spiega il professor Leonardo Filippi, docente di procedura penale all'Università di Cagliari - tutto accade quando si sopravvaluta un indizio o una prova. Gli organi giudiziari spesso si allargano". Eppure, i provvedimenti della Sezione disciplinare del Csm nei confronti dei magistrati che hanno ordinato arresti illegittimi sono rari. E su questo tema il Parlamento dovrà votare la proposta di legge del senatore di Forza Italia, Enrico Costa: "Prevede che le ordinanze con il risarcimento vengano trasmesse al Ministero della Giustizia e al Procuratore generale della Cassazione per valutare l'avvio del procedimento". Il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick dice chele misure cautelari affrettate vengono usate "non come estrema ratio ma come prima forma di intervento". E sembra d'accordo con lui Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, il distretto che guida la classifica per casi di arresti ingiusti. "Questa emergenza sembra quasi non interessare gli addetti ai lavori - ha detto nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - quasi che le vittime costituiscano un dato fisiologico". Il messaggio di Lupacchini sembra rivolto ai colleghi, come una specie di denuncia per "l'inadeguata ponderazione degli elementi di prova". Tradotto: il carcere preventivo va ordinato solo in casi eccezionali.
Come funziona. Lo Stato stabilisce che nei confronti di chi è vittima di un'ingiusta detenzione deve essere versato un indennizzo. A differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi. L'indennizzo per un singolo giorno passato in carcere ammonta a 235,82 euro, mentre per gli arresti domiciliari è la metà: 117,91 euro. Il limite massimo è stato fissato in 516.450,90 euro, pari a sei anni, il numero massimo di giorni che la legge prevede per la custodia cautelare. Per ottenere l'indennizzo, la vittima deve fare richiesta al ministero della Giustizia e attendere il pronunciamento della Corte d'Appello. Oltre all'indennizzo si può poi chiedere un risarcimento per danno biologico, professionale ecc... derivante dall'ingiusta detenzione.
Le mozzarelle di bufala scambiate per droga. Un'odissea durata 7 anni. Francesco Raiola è uscito dal carcere due volte: il 12 settembre del 2011, il giorno in cui la porta della cella gli si è chiusa definitivamente alle spalle, e il 15 novembre del 2018, quando è tornato nella stessa caserma in cui era iniziato il suo lungo incubo. Ora indossa di nuovo la divisa dell'Esercito e lo Stato, oltre ad avergli versato un risarcimento, gli ha dovuto restituire anche quei "requisiti morali" che gli erano costati il congedo illimitato. Per tornare alla luce ci sono voluti sette anni e nel frattempo ci sono stati 21 giorni dietro le sbarre e altri 120 di arresti domiciliari a Scafati. Quando si ritrova nel tunnel giudiziario, Francesco ha 30 anni e presta servizio a Barletta. Dalle sue telefonate con amici e commilitoni, carabinieri e procura deducono che faccia parte di una banda di narcotrafficanti. Le intercettazioni causano l'equivoco. Mentre lui parla di un televisore, gli investigatori pensano sia un messaggio in codice per indicare un carico di droga. Una partita, di quelle di calcio, viene scambiata per un scorta di cocaina e persino l'acquisto di alcune mozzarelle di bufala, "ti porto io quella roba", finisce per appesantire le accuse. Per il magistrato che coordina l'inchiesta su una banda di 70 presunti trafficanti, basta e avanza per ordinare l'arresto. Dalle missioni di pace all'estero all'accusa di essere un narcotrafficante il passo è breve. Ma per ottenere il proscioglimento non c'è neanche bisogno di un processo. L'accusa "perché il fatto non sussiste" cade durante l'udienza preliminare, anche se 4 anni di battaglia hanno lasciato molte tracce. Dopo altri due anni arriva anche il risarcimento per l'ingiusta detenzione (41 mila euro, addirittura il doppio della cifra richiesta), ma la sfida più difficile è quella per il lavoro. Perché all'Esercito non basta un'assoluzione.
"La giustizia è incivile: si processa senza prove". Il capo del tribunale di Torino, Massimo Terzi: "Situazione non conforme ai principi di democrazia", scrive Luca Fazzo, Martedì 29/01/2019, su "Il Giornale". «Non credo di essermi fatto molti amici tra i miei colleghi. Ma ridirei tutto. Perché ho indicato l'unico, vero tema che affligge la giustizia italiana». Massimo Terzi, 62 anni, in magistratura dal 1981, presidente del tribunale di Torino, sabato scorso ha deciso di andare controcorrente. E mentre i suoi colleghi in tutta Italia inauguravano gli anni giudiziari con le solite proteste sulle carenze di mezzi e senza uno straccio di autocritica, lui ha detto che il dramma vero sono i milioni di italiani che in questi anni sono stati mandati sotto processo senza prove, assolti dopo anni di attesa, di angosce e di sacrifici. Così non si può andare avanti, dice «perché non è conforme ai principi di democrazia».
Come l'è venuto in mente?
«Facendo questo mestiere da un po' di anni ho sempre avuto la percezione che questo sistema non rispetta i diritti delle persone. Siccome sono anche un patito di numeri, mi sono procurato le statistiche. E ne sono rimasto scandalizzato. Ogni anno finiscono sotto processo 150mila persone che poi verranno assolte. Significa nei trent'anni dall'entrata in vigore dal nuovo codice questa esperienza è toccata a cinque milioni di italiani. Se non si interviene, nei prossimi trent'anni toccherà la stessa sorte a altri cinque milioni. E cosa facciamo guardiamo a questa prospettiva con nonchalance? Io penso che sia intollerabile».
Cosa si dovrebbe fare?
«Costringere in modo imperativo e stringente, con una modifica di legge, le Procure a portare a processo solo gli imputati la cui colpevolezza è chiara oltre ogni ragionevole dubbio».
Le diranno: il processo serve proprio a capire se ha ragione l'accusa o la difesa. E a decidere alla fine è il libero convincimento del giudice.
«Nella realtà, il libero convincimento del giudice non esiste: nel processo penale le prove ci sono o non ci sono. I casi davvero controversi, quelli in cui la valutazione è soggettiva, sono così pochi da essere statisticamente insignificanti. Il 50 per cento di assolti vuol dire semplicemente che le indagini sono state fatte male, e che la Procura ha portato in aula processi che non stanno in piedi. D'altronde se non ci sono filtri, se le udienze preliminari finiscono quasi tutte col rinvio a giudizio, i pubblici ministeri sono anche poco motivati a fare le indagini come si deve. Aggiungerei una considerazione».
Dica.
«Questo sistema ha generato una montagna di processi che sta soffocando l'apparato giudiziario, con questo trend tra poco si arriverà a un milione di processi e neanche raddoppiando il numero dei giudici si riuscirebbe a smaltirli. Insomma, a rendere inaccettabile il sistema sono tanto i danni che provoca ai cittadini che la sua insostenibilità economica e organizzativa».
E quindi?
«Visto che il governo annuncia un nuovo codice di procedura penale, si abolisca l'udienza preliminare che di fatto non serve a niente. La Procura si prende la responsabilità di mandare direttamente sotto processo gli imputati per cui ha trovato delle prove inoppugnabili. Il processo si fa con rito abbreviato, a meno che non sia l'imputato a chiedere il dibattimento. Si ridurrebbe drasticamente il numero dei processi, e questo permetterebbe di farli meglio e soprattutto più in fretta, rimediando alle lentezze che ci vengono rimproverate dal resto del mondo e che violano il principio costituzionale della ragionevole durata».
L'allarme dai tribunali: 150mila innocenti processati ogni anno. All'apertura dell'anno giudiziario toghe turbate per la nuova prescrizione: ingiusta e inefficace, scrive Luca Fazzo, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale". Le consuete lagnanze sulla mancanza di personale. Gli eterni allarmi sulla corruzione che sale, l'attenzione che scende, i soldi che sono sempre troppo pochi. Da un capo all'altro della Penisola, ieri le cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario nelle ventisei sedi di Corte d'appello hanno riproposto con poche variazioni i temi di ogni anno. Con una sola eccezione, che viene da Torino, e che ha rischiato di perdersi nei milioni di parole che hanno sommerso le cerimonie. Ed è un peccato, perché - sfidando l'impopolarità - un giudice ha sostenuto che il vero scandalo non sono i cancellieri che scarseggiano. Il cuore del problema sono i milioni di cittadini che vengono inquisiti e processati pur essendo innocenti, e che devono attendere anni e anni per vedere riconosciuta la loro estraneità alle accuse. Il giudice controcorrente si chiama Massimo Terzi, è presidente del tribunale di Torino, e si è preso la briga di analizzare i dati della giustizia con i criteri con cui si analizza l'economia: e ha raggiunto la conclusione che «il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirsi, in gergo di rating, titoli spazzatura». I dati, dice Terzi, non consentono altra valutazione: 596.426 processi pendenti davanti a giudici monocratici, quelli dei processi più semplici; altri 27.823 davanti a tribunali collegiali. «Salvo corsie preferenziali, dalla data di ipotetica commissione del reato alla emissione di una sentenza di primo grado, mediamente intercorrono 4/5 anni». Tanti, ma non tantissimi, se l'impatto è colpevole. Il problema è che il sistema inghiotte un numero impressionante di innocenti. Terzi utilizza il dato di Torino (35% di assolti dai tribunali collegiali, 50% dai giudici monocratici), lo proietta su scala nazionale e conclude: «Ogni anno abbiamo 150mila indagati poi imputati che attendono quattro anni dalla notizia di reato per essere assolti. Un milione e mezzo ogni dieci anni. Sulla base di questi dati, dall'entrata in vigore del codice di procedura penale, trent'anni fa, abbiamo processato e assolto 4 milioni e mezzo di imputati». Il rimedio? Serve un «radicale intervento chirurgico» ovvero «che il pm eserciti l'azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna, cioè idonee a convincere il giudice oltre ogni ragionevole dubbio». E, prevenendo le critiche: «Se qualcuno volesse portare argomenti di civiltà giuridica contro tali proposte, lo inviterei a riflettere se è conforme a democrazia che nei prossimi trent'anni si continuino a processare, per poi mandarli assolti già all'esito del processo di primo grado, altri cinque milioni di imputati». Una denuncia quasi esplosiva, che ieri invece cade nel nulla. Siti internet e telegiornali raccontano solo gli altri discorsi inaugurali, riproducibili senza modifiche l'anno passato e l'anno prossimo. Unica variante, la valutazione che dai vertici degli uffici giudiziari viene della riforma della prescrizione, varata tra molte polemiche dal governo 5 Stelle - Lega e destinata a entrare in vigore il prossimo gennaio. Una riforma di cui poche voci isolate come Gemma Cucca, presidente della Corte d'appello di Cagliari, mettono in discussione la civiltà («una sanzione inflitta a distanza di anni è sempre ingiusta») mentre più numerosi sono i magistrati che si limitano a dubitare della concreta efficacia. È il caso di Marina Tavassi, presidente della Corte d'appello di Milano, che segnala come la stragrande maggioranza delle prescrizioni, l'83 per cento del totale, sia dovuta non alla lunghezza dei processi ma a quella delle indagini preliminari: e qui la riforma Bonafede, che stoppa il calcolo dopo la prima sentenza, non è destinata a incidere.
Il pg di Torino Francesco Saluzzo risponde al presidente del Tribunale: “Il pm non può cestinare i processi”, scrive il 29 gennaio 2019 torinoggi.it. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario Massimo Terzi aveva criticato l’operato della Procura. “Il pubblico ministero, in presenza di elementi seri, non può “cestinare” i processi. (…) Non esiste e non può esistere una regola di giudizio valida per tutti: la Procura ha una sua regola di giudizio, i giudici ne hanno altre”. È quanto si legge in una lunga nota firmata dal procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, che ha risposto al presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, dopo le dichiarazioni rilasciate in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Il presidente del Tribunale - scrive Saluzzo - sostiene che oltre il 50% degli imputati per reati di competenza del giudice monocratico (quindi, i fatti meno gravi) vengono assolti nel processo di primo grado. E aggiunge: 'le indagini sono state fatte male e…la Procura ha portato in aula processi che non stanno in piedi'. Premesso che nutro per il collega Terzi una stima grandissima per le sue straordinarie doti di organizzatore e la sua capacità progettuale, debbo dire che anche altre affermazioni del presidente Terzi (più volte riprese in questi giorni) mi hanno suscitato perplessità e stupore ed in ordine ad esse manifesto il mio netto dissenso, interpretando anche il pensiero dei procuratori della Repubblica". "Mi riferisco in particolare - spiega il pg - alla pretesa di 'costringere le Procure a portare a processo solo gli imputati la cui colpevolezza è chiara ogni ragionevole dubbio. Si lancia un messaggio - che, nelle intenzioni del Presidente, voleva anche essere di provocazione - assolutamente fuorviante ed ingeneroso nei confronti delle Procure del mio Distretto e di quella di Torino, in particolare. Non esiste e non può esistere una regola di giudizio valida per tutti". "E pur con tutto il rispetto per i giudici, se alla procura si rimprovera di “mandare a giudizio” processi insufficientemente istruiti (per vero, negli articoli si parla di “male istruiti”), si potrebbe in parallelo dire che le regole di giudizio di taluni giudici appaiono, al pubblico ministero, più “generose” rispetto a quelle di altri giudici. Ma non è questo il punto. Nel processo penale non esistono regole “legali” di giudizio (come talune nel processo civile) ed è, quindi, inesatta l’affermazione del dott. Terzi quando dice che “nella realtà, il libero convincimento del giudice non esiste: nel processo penale le prove o ci sono o non ci sono”. Il principio del libero convincimento (del quale il giudice dà conto con la motivazione) - continua il procuratore - è uno dei cardini di un processo equo e garantito". "Proprio per questo nessuno può conoscere (al di là delle valutazioni sulla “tenuta” del processo che è un dovere per il pubblico ministero) quale sarà l’orientamento del giudice. Ma il problema vero è quello dei numeri. Quel 50% ed oltre! Può essere certamente capitato che, per effetto di vecchi schemi organizzativi della Procura di Torino, si sia ecceduto nell’esercitare l’azione penale. Ma sempre in presenza di una base di verifica sulla esistenza del fatto e della attribuibilità ad un imputato". "Poi il giudice potrà aver ritenuto il fatto sì sussistente ma non corrispondente allo schema del reato; potrà aver ravvisato una causa di giustificazione, di non punibilità, potrà aver ritenuto di “largheggiare” nella valutazione favorevole per dare una corrispondenza più concreta alla offensività ed alla pochezza del fatto". "Il pubblico ministero, in presenza di elementi seri, non può “cestinare” i processi. Le persone offese farebbero opposizione alla richiesta di archiviazione e tanti sono, infatti, i casi di cosiddetta “imputazione coatta”. Il pubblico ministero non ha scelta, manda a giudizio e, nella stragrande maggioranza dei casi, il nuovo giudice assolve, smentendo così il precedente giudice. Ma, in realtà, non si tratta di smentita perché il primo giudice ha solo valutato la sussistenza e la sufficienza degli elementi per rinviare a giudizio (come fa il pubblico ministero) ed il secondo valuta se la quantità di prove (che sono richieste in misura molto maggiore e solida) sia sufficiente per condannare". "Il processo è questo, piaccia o non piaccia. Il giudice è libero. Perché libera è la sua valutazione: ed anche il pubblico ministero, almeno sino ad oggi e nel nostro ordinamento, è libero nelle sue valutazioni. Questo non toglie che si possa migliorare il sistema e lo si è già fatto. La Procura di Torino, in questi ultimi anni, ha archiviato ed archivia molto più della metà dei procedimenti per reati di competenza del giudice monocratico, utilizzando anche lo strumento della tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.). Tutto lavoro che non va al giudice". "Ma gli effetti, anche considerando i tempi assai lunghi del processo di primo grado, si vedranno non prima del 2020-2021. E, nel calcolo del presidente Terzi, non si è tenuto conto di tutte le applicazioni, da parte dei giudici, dello stesso strumento che incide significativamente sul numero complessivo di assoluzioni. Ma il Tribunale di Torino sta celebrando processi per i quali il pubblico ministero non aveva potuto applicare l’art. 131 bis, perché introdotto solo nel 2015. Questo dimostra che i numeri non sono del tutto corretti, perché il numero di per sé non vuol dire nulla. Deve essere scomposto e analizzato". "Le Procure si sono, comunque, attrezzate e hanno imboccato una strada più “virtuosa” ma non sarà questo che risolverà i problemi del funzionamento della macchina giudiziaria”.
Il magistrato accusa: troppi innocenti alla sbarra, scrive Il Dubbio il 30 gennaio 2019. L'intervento del Presidente del Tribunale di Torino Massimo Terzi in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. "Al 30 settembre 2018 risultano pendenti in Italia sui Tribunali nella fase dibattimentale, quasi 600mila procedimenti monocratici e 27mila procedimenti collegiali". Il dato è emerso nel corso dell'intervento del presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ma il presidente del Tribunale, Terzi ha presentato dati ancora più scioccanti: "Ogni anno abbiamo almeno 150 mila indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti non prescritti) all'esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni". E ancora: "Sulla base di questi dati - ha infatti continuato Massimo Terzi dall'entrata in vigore oramai trent'anni fa del codice di procedura penale abbiamo processato ed assolto in primo grado mediamente dopo 4,5 anni quasi 5 milioni di imputati". Si prevede nel 2019 di affrontare la problematica della ragionevole durata del processo penale. Sono molto pessimista sugli esiti perché nonostante i generici allarmi non percepisco vera consapevolezza del livello di criticità; ed in mancanza di vera consapevolezza gli approcci sono velleitari. Per un corretto approccio si deve valutare la febbre dello stato del processo. Lo farò per maggior chiarezza utilizzando il parametro più in voga degli ultimi vent'anni quello delle agenzie di rating: il famoso spread. Mi limito a semplificarvi i dati concreti della parte di cui sono più esperto e cioè la fase dibattimentale del primo grado. Parte che rappresenta comunque il core business intorno al quale ruota il fulcro del processo penale. Da un punto di vista quantitativo i dati nazionali sono. Al 30 settembre 2018 risultano pendenti in Italia sui Tribunali nella fase dibattimentale: procedimenti monocratici n. 596.426. Procedimenti collegiali n. 27.823. Il dato, pur di per sé impressionante, non è in realtà neppure del tutto significativo della drammaticità del trend e della situazione ove non si ponga a mente che i numeri sono questi nonostante le alte percentuali di archiviazione per prescrizione già in sede di indagini preliminari e nonostante gli "accantonamenti" di vario tipo in conseguenza dei criteri di priorità adottati. Sarà il caso di rammentare che i Giudici adibiti al dibattimento penale sono meno di 1500 in tutta Italia. Mi pare pertanto che, con tutta la benevolenza, su questo dato sia corretto fissare lo spread ad oltre 1000 punti base rispetto ad un processo normale. Vediamo quello che si dice l'outlook, la prospettiva. Negli ultimi dieci anni vi è stato un incremento rispettivamente del 35% e del 32%. Con questo trend tra 15 anni saremo vicini al traguardo di un milione di procedimenti monocratici e di cinquantamila procedimenti collegiali. Mi pare indubitabile prevedere un outlook più che negativo. Su queste basi il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirli, in gergo di rating, titoli spazzatura. Analizziamo ora la qualità del dato per verificare quale possa essere intervento efficace. Non avendo a disposizione i dati nazionali faccio riferimento a quelli del Circondario di Torino che non ho dubbi, sia ben chiaro, tendenzialmente potrebbero anche essere migliori di quelli nazionali. Escluse le direttissime, a dibattimento abbiamo avuto nello scorso anno giudiziario il 35% di assoluzioni sui collegiali oltre il 50% di assoluzioni nel rito monocratico non definito con riti alternativi; i riti alternativi conclusi con applicazione pena o condanna in abbreviato nei giudizi incardinati come ordinari sono meno del 10% sulle sopravvenienze. Se questi numeri li proiettiamo in chiave nazionale ogni anno abbiamo almeno 150mila indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti non prescritti) all'esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni. Sulla base di questi dati dall'entrata in vigore oramai trent'anni fa del codice di procedura penale abbiamo processato ed assolto in primo grado mediamente dopo 4,5 anni quasi 5 milioni di imputati. Velleitario quindi pensare di affrontare il cuore della problematica quantitativa con soluzioni quale depenalizzazione, aumento di risorse ovvero aggiustamenti della disciplina del dibattimento; modifiche che avrebbero comunque incidenza non significativa. Vero è che, quando un sistema va in crash non si possono rincorrere medicine palliative, ma è necessario un radicale intervento chirurgico. Il primo intervento che può concretamente prestare un pronto soccorso e quantomeno stabilizzare il trend è l'abolizione tout court dell'udienza preliminare; è di tutti i giorni l'esperienza Kafkiana dei Gup che assolvono in abbreviato il coimputato e sono costretti a fissare a dibattimento l'altro coimputato non richiedente l'abbreviato che poi viene quasi sistematicamente assolto a dibattimento. Se poi minimizzassimo seriamente i reati per i quali giudica il Tribunale a competenza collegiale il pronto soccorso sarebbe ancor più terapeutico. Ma l'unico intervento veramente decisivo, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, è un altro e concerne la necessità che il Pubblico Ministero eserciti l'azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna cioè idonee a convincere il Giudice della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Se poi accompagniamo tale criterio con la trasformazione del rito abbreviato semplice quale rito ordinario mantenendo del tutto libero la facoltà da parte dell'imputato e del suo difensore di chiedere la celebrazione del dibattimento saremmo certi dell'oggettivo rispetto di tale criterio".
· A proposito di Prescrizione.
Da mani pulite a oggi, 27 anni di giustizialismo politico. Franco Dal Mas i 3 Dicembre 2019 su Il Riformista. «Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’ aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Era il 3 luglio 1992 quando dai banchi della Camera Bettino Craxi pronunciò queste parole. Sono passati 27 anni, e nulla o quasi è cambiato. Era una questione politica, che politicamente andava risolta, ma così non è stato. Dai cappi in Parlamento alla discesa in politica di uno dei simboli di Mani Pulite, dai girotondi al populismo giustizialista: un quarto di secolo speso a far tornare i conti e gli equilibri tra poteri. Fallendo e fallando: il sonno della ragione (politica) che genera mostri (giuridici). E così arriviamo all’oggi, con le spettacolari perquisizioni nelle case e negli uffici dei sostenitori della Fondazione Open. Una gogna preventiva messa in atto grazie a veline che come noto non possono che avere una e una sola provenienza. La verità vera è la persistenza del cortocircuito mediatico-giudiziario di cui l’attualità non è che l’ultimo, per adesso, frutto avvelenato. Si narra di un “patto di consultazione” tra i direttori di importanti giornali italiani (alcuni diretti interessati lo confermano, altri lo smentiscono) su cosa pubblicare o non pubblicare a partire dall’arresto di Mario Chiesa, rendendo palese che non era una mera questione giudiziaria, ma politica, anzi di potere. La stampa megafono della muta da caccia della Procura di “Mani pulite”. E non è certo un caso che il capo del pool ebbe a dire: «Quando la gente ci applaude, applaude se stessa». La politica che non crea il consenso, lo ricerca e si limita a inseguirlo non può che produrre l’indisturbato dominio di quest’anomalia. Anche Craxi e Berlusconi, con sfumature diverse, hanno fatto leva sull’antipolitica: il primo interpretando la voce del Paese che chiedeva di sconfiggere la “lentocrazia”, il secondo canalizzando il sentimento antipolitico entro una cornice di dialettica centrodestra/centrosinistra. Oggi viviamo in tempi più bui in cui l’antipolitica che sta al governo e all’opposizione si nutre di un impasto di risentimento e rancore. Il furore giustizialista, unitamente a esigenze securitarie scompostamente declinate e alla cultura del sospetto hanno prodotto un anno e otto mesi di forca: le abnormità dello Spazzacorrotti, lo stop alle riforme delle intercettazioni e del sistema penitenziario (escludendo così l’estensione delle misure alternative alla detenzione), fino ad arrivare alla cancellazione della prescrizione che introduce il “fine processo mai”, minando uno dei pilastri su cui si basa il nostro ordinamento giuridico. Nuove e antiche questioni ancora irrisolte: e 27 anni non sono certo una ragionevole durata, sperando che il cortocircuito mediatico-giudiziario non abbia, nel frattempo, già individuato e deciso chi governerà i prossimi anni.
Creano una giustizia spietata. Il sonno della ragione erige pali incatenati in strade a senso unico. Michele Passione il 4 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Non del nostro amore, verranno a chiederci conto; di cosa è stato, e non è più. Il giudice di cognizione è uomo del passato, quello di sorveglianza del futuro. Il primo guarda al fatto, per come si è verificato, se è accaduto davvero, chi lo ha commesso, quale sanzione meriti; il secondo dovrebbe interessarsi all’Uomo che cambia. Un’accezione ancipite del tempo, che invece si vorrebbe eterno, immobile, marmoreo. Incuranti dei cambiamenti, quando niente e nessuno resta uguale a se stesso. Il tempo è una variabile indipendente dal volere e potere dell’uomo; il tempo è democratico, scorre per tutti ( anche se il fluire del tempo è più pesante per gli anziani, i malati, i detenuti), ma c’è qualcuno che pensa, in malafede, che basti togliere la sabbia dalla clessidra, le lancette all’orologio, per risolvere il problema. Come con la povertà, anche per la prescrizione, scriviamo una bella legge, e il problema è cancellato; nulla sarà più come prima. Restano, invece, tempi di indagini fuori controllo ed extra large, ma basta cambiare il numero dei registri ( 45, 44, 21), e ci teniamo mani libere. Ci teniamo, anche, difetti di notifiche, testi assenti, giudici che cambiano ( ma anche su questo il Governo “sta lavorando”, che se a giudicare è un altro da quello che ha raccolto la prova poco importa, mica crediamo ancora a ‘ ste storie). Le persone aspettano, tutto fa acqua; fuori piove un mondo freddo, ma dal primo gennaio splenderà il sole, ci è stato detto così. A un certo punto verranno a chiederti cosa ricordi, e non ricorderai. Verranno a chiederti conto di quello che hai fatto, perché tu ne risponda, e la pena sarà effettiva, ma non efficace, perché troppo distante da quanto accaduto. Sarà una pena incostituzionale. Forse sarai assolto, ma dovrai stare sospeso, per anni e anni. Impossibile fare progetti, perché magari qualcuno cambierà idea su di te. Se sei stato assolto forse un pm farà appello, e vorrà risentire un testimone, ma lui non si ricorderà come sono andate le cose, dopo tanto tempo. Forse sei stato una vittima, e vorresti una closure che ti aiuti a ricucire lo strappo, oltre al risarcimento del danno patito, “Ci dispiace, abbiamo a cuore i suoi diritti, ed infatti innalziamo le pene, cambiamo le regole, magari l’ascoltiamo in remoto, in tre giorni, ma per questo torni tra qualche anno, non abbiamo fretta”. Il sonno della ragione erige pali incatenati in strade a senso unico, biascica bias spendibili in salotti televisivi, chiude gli occhi sui fatti di questo mondo per raccontarne altri; il pifferaio suona la sua musica, mentre i topi incantati lo seguono fino al fondo del burrone, dal quale non riusciranno a risalire. Un tempo infinito; mentre anche l’ergastolo si apre alla valutazione dell’Uomo, costruiamo maschere senza volto da indossare, per farci trovare pronti, quando verranno a cercarci, senza che importi se questo è l’Uomo del tempo che fu.
Vincenzo Esposito per il “Corriere del Mezzogiorno - Corriere della Sera” il 16 dicembre 2019. Il Consiglio dell' Ordine degli avvocati di Napoli chiede la presentazione di una mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, da parte dei togati parlamentari e, ovviamente le dimissioni immediate del guardasigilli. La presa di posizione arriva dopo le dichiarazioni rese da Bonafede durante la trasmissione Porta a Porta . Il ministro aveva sottolineato che «quando del reato non si riesce a dimostrare il dolo e quindi diventa un reato colposo, i termini di prescrizione sono molto più bassi». Per gli avvocati una «bestemmia» giuridica, un' affermazione fuori luogo che «denota la scarsa preparazione del ministro». Il Consiglio forense di Napoli è il secondo in Italia a chiedere le dimissioni di Bonafede, giovedì la stessa richiesta era arrivata dai togati di Palermo. Secondo gli avvocati le affermazioni fatte dal guardasigilli «sono del tutto errate dal punto di vista giuridico, e sono state poste a sostegno dell' opportunità della sciagurata riforma della prescrizione, considerato che ingenerano pericolosa confusione nell' opinione pubblica e che l' avvocatura nutre il fondato timore che le riforme delle regole processuali e sostanziali in discussione siano basate sulla errata percezione e conoscenza degli istituti giuridici». Il presidente dell' Ordine di Napoli, Antonio Tafuri non va per il sottile: «La delicatezza del tema - insiste - richiede alta competenza e sensibilità giuridica e non il ricorso ad argomentazioni metagiuridiche». Per questa ragione si chiede «la proposizione di mozione di sfiducia nei confronti del ministro della giustizia Alfonso Bonafede». A dare man forte ai togati l' Organismo congressuale forense che ha scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «Quella del ministro è stata una frase incredibile - spiega Giovanni Malinconico, coordinatore dell' Ocf - che suscita moltissime perplessità e sulla quale si potrebbe soprassedere, se in gioco non ci fossero i diritti fondamentali dei cittadini e secoli di civiltà giuridica». Il primo a rispondere alla «mozione» degli avvocati napoletani è stato Edmondo Cirielli, parlamentare campano, avvocato e questore della Camera. «Bonafede si dimetta- ha detto - non è adeguato a fare il ministro. Per il parlamentare di FdI quelle del ministro sono «parole sconcertanti e frasi sconclusionate che dimostrano la sua totale ignoranza giuridica e inadeguatezza nel delicatissimo ruolo ministeriale». Poi ha concluso: «Appoggio pienamente la posizione assunta dall' Organismo Congressuale Forense, che ha chiesto un intervento ad horas del premier Conte, e sostengo convintamente le richieste di dimissioni giunte dai Consigli degli Ordini degli avvocati di Napoli e Palermo». La difesa del ministro è arrivata attraverso il suo profilo Facebook. «Sebbene i temi della giustizia siano tantissimi e tutti concentrati in queste settimane, alcuni addetti ai lavori preferiscono dedicarsi al taglio di 10 secondi di un' intervista serratissima durata 1 ora e 10 minuti per sottolineare l' oggettiva scorrettezza giuridica di una mia frase. L' obiettivo era evidentemente quello di spiegare in maniera semplice ai cittadini le conseguenze (sulla prescrizione) della configurazione di una condotta in termini colposi o dolosi. D' altronde, ci sono da sempre interi processi che viaggiano sul confine tra dolo eventuale e colpa cosciente». Ma per il presidente Tafuri la giustificazione è peggiore del danno fatto perché «reitera argomentazioni infondate e giuridicamente scorrette».
L' Ordine degli avvocati di Palermo chiede dimissioni del ministro Bonafede. Il Corriere del Giorno il 13 Dicembre 2019. Il ministro della giustizia ieri sera a “Prima Porta” è incappato in una grave gaffe sulla differenza tra reato doloso e colposo: oggi il consiglio dell’ordine degli avvocati di Palermo, uno dei più numerosi in termini di iscritti ed importanti a livello nazionale, ha chiesto ufficialmente le sue dimissioni. Non si placano le polemiche sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo la gaffe di ieri durante la puntata di “Porta a Porta” condotta da Bruno Vespa: a chiederle nelle ultime ore non sono stati soltanto gli avversari politici del guardasigilli. La richiesta in tal senso è stata avanzata dall’ Ordine degli Avvocati di Palermo, uno dei più numerosi in termini di iscritti ed importanti a livello nazionale. Come riporta Adnkronos, in una nota, gli avvocati del capoluogo siciliano hanno chiesto un passo indietro “immediato” da parte di Alfonso Bonafede dopo le sue dichiarazioni di ieri sera nella popolare trasmissione . Il riferimento, in particolare, è alla frase rilasciata dal ministro secondo cui “quando il reato non si riesce a dimostrare il dolo e quindi diventa un reato colposo ha termini di prescrizione molto più bassi”. Una affermazione “del tutto errata dal punto di vista tecnico-giuridico” che ha fatto letteralmente infuriare gli avvocati italiani. Secondo l’Ordine degli Avvocati di Palermo la “gaffe” del Ministro è molto grave in quanto le dichiarazioni rilasciate dal ministro “sono del tutto errate dal punto di vista tecnico-giuridico”. Ma gli avvocati palermitani, nel chiedere le dimissioni di Bonafede, non hanno messo in risalto soltanto il problema relativo all’opportunità di un guardasigilli capace di scivolare in elementi basilari della conoscenza del diritto. L’Ordine degli Avvocati di Palermo piuttosto ha puntato il dito sul fatto che la frase incriminata è stata pronunciata nel tentativo, da parte del guardasigilli, di spiegare il senso politico e tecnico dell’annunciata riforma sulla prescrizione: “Dichiarazioni del genere – si legge nella nota – ingenerano pericolosa confusione nell’opinione pubblica e l’avvocatura nutre il fondato timore che le riforme delle regole processuali e sostanziali, in ambito civile e penale, attualmente in discussione, siano basate sulla errata percezione e conoscenza degli istituti giuridici”. La richiesta di dimissioni è stata inviata anche al Consiglio Nazionale Forense, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, spiegando le ragioni sopra espresse. Nella giornata odierna, la gaffe di Bonafede ha avuto risvolti politici non indifferenti, con buona parte delle opposizioni che hanno puntato il dito sullo “scivolone” tecnico del ministro: “Un pessimo esempio per tanti giovani studenti che proprio oggi stanno sostenendo la terza prova dell’esame di avvocato – ha chiosato il senatore Alessandro Gallone di Forza Italia – Se qualcuno di questi ragazzi scrivesse una simile stupidaggine verrebbe giustamente bocciato. Mentre Bonafede è addirittura ministro, rappresentante di una realtà triste, inefficace, dannosa che noi auspichiamo termini quanto prima”. Sul caso è stato registrato anche l’intervento ironico di Vittorio Sgarbi, deputato e critico d’arte: “Il ministro della Giustizia “Malafede” ci ricorda ogni volta che parla – ha scritto Sgarbi – il suo passato nelle balere di Mazara del Vallo con il nome d’arte di “Alfonsino Dj”.
Riforma giustizia, la beata ignoranza di Bonafede che la vuole demolire. Iuri Maria Prado il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. È quel che si dice un salto di qualità. Perché il ministro Bonafede (ministro, santo cielo…) si era bensì esibito in prove plurime di sconsolante inadeguatezza, per esempio sciogliendo le briglie al suo italiano accidentato e mandandolo a far danno su qualsiasi argomento, in coppia sfondona con l’altra vergogna nazionale, l’avvocato del popolo che non c’è verso di tirargli fuori una frase libera da qualche insulto alla decenza grammaticale; o quando si metteva a far gara di travestimento con il ministro dei pieni poteri contro le zingaracce, e vestito da secondino filmava e metteva in musica l’arrivo del condannato da far marcire in galera. Ma questa volta è peggio. Disinibito non più solo nel quotidiano esercizio di esemplare macellazione della nostra lingua, o nel mettersi le penne oscene di quello che fa la ruota davanti alla turba forcaiola e compiaciuto si offre di appagarne la pretesa di sangue, questa volta il signor ministro della Giustizia si è lasciato andare a considerazioni – per dirla con l’Ordine degli avvocati di Palermo, che giustamente gli ha fatto le pulci – «del tutto errate dal punto di vista tecnico-giuridico». È una definizione soffice, e comprensibilmente protocollare, per quanto anteposta a una inflessibile richiesta di dimissioni: perché il ministro Bonafede, che sta apparecchiando una riforma gravemente rivolta a frantumare il poco residuo di civiltà giuridica di questo paese, ha dato prova in questa occasione (l’altra sera, da Bruno Vespa) di non conoscere nemmeno la differenza tra dolo e colpa. Un’ignoranza inescusabile già se a dimostrarla è una matricola un po’ zuccona, ma che rappresenta un’onta insopportabile per l’avvocatura, per la Nazione, per le istituzioni della Repubblica se si celebra nelle dichiarazioni di un parlamentare col potere di governo in materia di giustizia. Non si dice che un ministro debba per forza essere persona di illustre dottrina, ma qui si discute della riprova ennesima di una inettitudine sfrenata, e che pretende di mettere sigilli su cosine da nulla come i diritti delle persone, la libertà degli individui. Roba che dovrebbe aver speranza di non essere amministrata da chi, letteralmente, non sa nemmeno di che cosa parla. Né si può dire che la beata ignoranza di cui fa mostra il ministro Bonafede determini qualche sua incapacità, che cioè quel suo non saper nulla neppure dei principi elementari delle cose sottoposte al suo governo si ponga a ritenzione della sua disinvoltura riformatrice: anzi, quell’assenza di cognizione gli spiana davanti un deserto su cui posare i binari di una giustizia ferrata, coi procuratori della Repubblica officiati a capitreno. E non si sa se tutto questo faccia con dolo o con colpa: ma lo fa, e tanto basta ad alimentare un diritto di denuncia che vorremmo – questo sì – senza prescrizione.
La gaffe di Bonafede: il vero scandalo è il giornalismo devoto alla forca. Gian Domenico Caiazza il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. Nientedimeno, il Ministro Bonafede si dovrebbe dimettere per essere inciampato sul tentativo di spiegare in modo semplificato perché i reati colposi sono meno gravi dei dolosi, e per conseguenza i termini di prescrizione più brevi. Mi permetto di ricordare che alcune tra le peggiori riforme del diritto e del processo penale degli ultimi decenni recano la firma di Ministri che avrebbero avuto titolo e capacità di scrivere dotte monografie sul dolo e sulla colpa. E che sono stati altresì Ministri di Giustizia ingegneri, periti industriali ed altri personaggi all’oscuro di ogni cognizione basilare del diritto, senza che nessuno ne chiedesse perciò le dimissioni (e che magari hanno fatto anche meglio dei colleghi giuristi). Il Ministro Bonafede troverà sempre sulla sua strada i penalisti italiani impegnati con tutte le forze ad impedire, per quanto possibile, che prenda piede la svolta populista e giustizialista che egli intende imprimere – e purtroppo sta imprimendo – al Paese. Siamo stati – da ultimo – una settimana in piazza, con la nostra maratona oratoria per la verità sulla prescrizione, a gridarlo in ogni modo; non ci occupiamo di correggere le bozze dei suoi monologhi. Piuttosto, invece che di insorgere guardando la pagliuzza, cerchiamo di non perdere di vista la trave che abbiamo non nei nostri occhi, ma davanti ai nostri occhi certamente. Lo scandalo è la informazione, è il giornalismo di questo Paese quando si occupa di giustizia penale. La vulgata populista e giustizialista gode, non certo da pochi anni e con rarissime e virtuose eccezioni, di una protezione totale, di un ossequio supino e servile, di una presunzione di infallibilità pressoché fideistica: l’intervista di Vespa a Bonafede si iscrive in questo percorso consolidato dei nostri talk show di informazione. Da Giovanni Floris a Lilli Gruber, da Corrado Formigli a Bruno Vespa, la parola d’ordine sembra essere una sola: di prescrizione ed in generale di giustizia penale parlano solo alcuni magistrati, i giornalisti del Fatto Quotidiano o di Repubblica e il Ministro di Giustizia, tutti e sempre rigorosamente senza contraddittorio. La voce del dottor Davigo è la voce della verità: ciò che egli racconta su come funzioni il processo penale, di quali siano le ragioni del suo collasso, di come funzioni la prescrizione nel nostro ed in altri Paesi, è oro colato. Guai anche solo ad immaginare che possa essergli opposta una opinione contraria, guai a chiedergli conto di numeri e statistiche ufficiali che possano mettere in dubbio la ineccepibilità della sua narrazione. È strabiliante la pervicacia con la quale Floris e Formigli chiamino lui e solo lui a parlare di giustizia penale, di recente soprattutto di prescrizione, più e più volte, e sempre in ascolto devoto, senza una sola obiezione, ma anzi solo tributando continui applausi di consenso e di entusiasmo. È stupefacente la incrollabile fiducia che la Gruber nutre nelle opinioni di Marco Travaglio sul processo penale, al punto da non avere mai, dico mai il riflesso di opporgli qualcuno che non la pensi come lui, fosse anche solo per curiosità. Recentemente quest’ultima ha invitato tre persone nella stessa trasmissione a parlare di prescrizione: Travaglio, Carofiglio e Giannini di Repubblica. Tutti d’accordo a sostegno della riforma Bonafede, erano così annoiati dopo esserselo detto tre volte che poco è mancato cominciassero a parlare di calcio o di cucina, per disperazione. Ecco, occupiamoci della professionalità di costoro, della loro attitudine a studiare essi per i primi i problemi della giustizia penale, i numeri, le statistiche, le principali e divergenti opinioni; occupiamoci di questa inconcepibile, deliberata scelta di affidare ad una sola voce – quella del più becero ed ossessivo populismo giustizialista – l’informazione della pubblica opinione, piuttosto che fare le pulci su come il Ministro Bonafede parli del dolo o della colpa. Dobbiamo immaginare e realizzare iniziative mirate a rendere il più possibile evidente questo scandalo della voce unica, della narrazione unica, della deliberata e scientifica manipolazione della informazione televisiva volta ad alimentare e fortificare sentimenti di indignazione indispensabili per cementare il consenso verso questa ossessione populista e giustizialista che da anni avvelena il nostro Paese e la nostra democrazia. La Maratona Oratoria è stato un primo, fondamentale passo in questa direzione. Questa deve essere la strada del nostro impegno civile, l’obbiettivo verso il quale convogliare ogni nostra energia: non facciamoci distrarre dal folklore.
Ministro Bonafede, chiediamo trasparenza sui dati sulla prescrizione. Gian Domenico Caiazza il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Signor Ministro, lei conosce la fermissima opposizione dei penalisti italiani alla riforma della prescrizione che reca la Sua firma, e noi conosciamo la determinazione con la quale ella respinge ogni invito – anche interno alla Sua maggioranza – almeno di replicare un nuovo rinvio della entrata in vigore di quella norma né più né meno che per le stesse ragioni che la indussero a disporne il primo. Sappiamo anche che tale sua determinazione – e dei parlamentari 5 Stelle – è tale da consentirle di ignorare del tutto ben due appelli, sottoscritti da oltre 150 docenti di diritto penale, di procedura penale e di diritto costituzionale che già lo scorso anno e di nuovo oggi denunciano la gravità delle conseguenze connesse alla entrata in vigore della sua riforma. Prendiamo atto che per la Politica di questo Paese, ormai, l’opinione degli studiosi (del diritto, in questo caso), cioè di coloro sui cui libri e saggi si formano generazioni di magistrati, di avvocati ed ancora di docenti universitari, conta nulla rispetto alle più diffuse formule della comunicazione sui social e nei talk show. Ma almeno la correttezza, completezza e trasparenza delle informazioni in possesso della sua Amministrazione, Signor Ministro, non vorrà negarcela! Il Movimento 5 Stelle ha sempre fatto, se mal non ricordiamo, del tema dell’accesso dei cittadini ai dati in possesso della Pubblica Amministrazione un cavallo di battaglia. Ebbene, in tema di prescrizione i dati diffusi annualmente dall’ufficio Statistica del Ministero di Giustizia sono già molto significativi (60% di prescrizioni maturano prima della udienza preliminare, altro 15% matura prima della sentenza di primo grado), ancorché –anche di questo dobbiamo prendere atto- inutilmente significativi. Ma nulla sappiamo di una pur doverosa disaggregazione di questi dati, che potrebbe da sola fornire una precisa informazione ai cittadini e, prima di essi, ai parlamentari chiamati a scelte decisive in questi giorni: quali sono i reati che si prescrivono, fase per fase? Sappiamo che ogni anno si prescrive grossomodo il 10% del totale complessivo dei procedimenti penali, ma veniamo tenuti all’oscuro di quali siano i reati che si prescrivono, ed in quale percentuale ciascuno di essi. Vi sentiamo ripetere che questa riforma sarà una svolta di civiltà perché abolirà questo odioso strumento di privilegio dei ricchi e dei potenti, che la “fanno franca” dai reati di grave allarme sociale che essi commettono in tal modo impunemente, frustrando le aspettative di Giustizia delle parti offese e di tutti i cittadini. Bene. Abbiamo il diritto di verificare questa affermazione con i numeri, con le statistiche? Noi avvocati penalisti –ed anche i Magistrati, ci creda signor Ministro!- sappiamo perfettamente che la prescrizione è l’istituto più democratico, popolare, interclassista che esista nel nostro codice, e che sono centinaia di migliaia ogni anno (su milioni di procedimenti penali) i cittadini di ogni censo, ceto e professione a beneficiarne, ad onta della storiella dei potenti “impuniti”, utilissima ad alimentare fortune editoriali e politiche ma frutto della più colossale opera di mistificazione alla quale si sia potuti assistere in questi ultimi anni. Ci metta a tacere una volta per tutte, Signor Ministro! Certifichi questa pretesa verità con la forza invincibile delle statistiche che tuttavia solo Lei –il suo Ministero, intendo- possiede. Ordini all’Ufficio Statistica di mettere a disposizione di tutti i Parlamentari, e di tutti i cittadini, i dati –degli ultimi dieci anni, diciamo- che ci consentano di sapere quali siano i reati falcidiati dalla vituperata prescrizione, e dunque a vantaggio di quali soggetti o categorie sociali ed in danno di quali. In poche ore il Suo Ministero è nelle condizioni di fornire questa fondamentale informazione, che consentirà a tutti di formarsi una opinione consapevole e fondata sui fatti, non sulle formule o sugli slogan. Siamo certi che in questa nostra richiesta di trasparenza e di accesso ai dati della Pubblica Amministrazione Lei –che ha voluto presentarsi come il Ministro che apre le stanze delle Istituzioni ai cittadini- non vorrà e non potrà deluderci.
Legge sulla prescrizione, lo Stato non la difenda: è incostituzionale. Stefano Ceccanti il 22 Dicembre 2019 su Il Riformista. Purtroppo la norma incostituzionale sulla prescrizione entrerà in vigore il primo gennaio. Non è uno scenario per niente piacevole, specie per chi come il Pd aveva all’epoca del Governo precedente non solo espresso un dissenso, ma anche presentato una pregiudiziale di costituzionalità. Però la storia non finisce il primo gennaio del 2020. Ovviamente il primo impegno dei parlamentari deve essere quello di una modifica legislativa e logica vorrebbe che il ministro Bonafede accettasse di rimettere in discussione quella grave forzatura, perché in una coalizione non si può pretendere dagli alleati che rinuncino unilateralmente al loro punto di vista. Però, nel frattempo, la realtà si muoverà presto, checché ne dica il ministro, giacché esistono i processi per direttissima e in poche settimane per via incidentale la questione arriverà fatalmente alla Corte. Eviterei invece la strada del referendum abrogativo, che avrebbe tempi più lunghi e, comunque, contro norme incostituzionali non si invoca il referendum, si rimedia in Parlamento o si investe la Corte della decisione. Per questa eventualità, piuttosto prossima, ho predisposto ieri un’interrogazione per la quale ho richiesto l’adesione a tutti i deputati di tutti i gruppi, invitando il Presidente del Consiglio ad evitare di impegnare l’Avvocatura dello Stato in una difesa sbagliata, rispettando il pluralismo interno alla coalizione, fin qui colpevolmente ignorato dal ministro Bonafede. Nell’interrogazione ho ricordato, tra l’altro, che nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale l’Avvocatura dello Stato rappresenta e difende il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale interviene nei giudizi anche su materie che rientrano nella competenza di altri Ministeri; che la legge 9 gennaio 2019, n. 3 prevede all’articolo 1, dal primo gennaio prossimo, la sospensione del corso della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del decreto penale. Una sospensione che, ho sottolineato, vari e qualificati operatori del diritto, nonché molti parlamentari, ritengono violi le garanzie costituzionali a partire dalla ragionevole durata del processo sancita dall’articolo 111 della Costituzione. Pertanto è altamente prevedibile che la Consulta venga investita in via incidentale della questione di costituzionalità relativa ad essa. Ho quindi chiesto al presidente Conte se intenda escludere sin d’ora di attivare l’Avvocatura per difendere dinanzi alla Corte una normativa che presenta gravi criticità rispetto alle garanzie costituzionali.
Prescrizione, il no di Ocf: «Avremo processi a vita». Il Dubbio il 12 dicembre 2019. La campagna dell’organismo forense. «La riforma viola la Costituzione ed equivale a una resa rispetto ai fallimenti del sistema penale», dice il coordinatore Malinconico. Una campagna social molto incisiva per dire no allo stop della prescrizione. Contro la riforma si muove l’Organismo congressuale forense perché «accettarla significa non solo violare la Costituzione, ma ammettere il fallimento del nostro sistema giudiziario», spiega Giovanni Malinconico, coordinatore dell’Ocf. In uno dei post diffusi su Facebook si racconta la storia di Sabrina, commercialista rimasta nove anni sotto inchiesta per riciclaggio, che ha visto la propria vita professionale distrutta da un’indagine per la quale il gup ha poi dichiarato il non luogo a procedere. Una storia vera, per la quale è stato cambiato solo il nome, per tutelare la protagonista ed evitare che al danno del processo si aggiunga quello della gogna mediatica, «in un Paese nel quale, secondo autorevoli esponenti della magistratura, gli assolti sono solo colpevoli che l’hanno fatta franca. È riduttivo pensare infatti solo agli effetti, seppur aberranti, che il maturare della prescrizione produce quando il processo si svolge nei confronti di imputati colpevoli», osserva l’avvocato Malinconico, «ci dobbiamo chiedere cosa accadrebbe agli innocenti costretti a subire gli effetti devastanti di un giudizio destinato a non estinguersi mai. Come avvocati e come Ocf ci opponiamo, ci siamo opposti e continueremo a farlo, a questa riforma. Si intervenga sulla durata dei processi senza compromettere il diritto alla giustizia. Noi staremo sempre dalla parte del diritto e dei diritti di tutti, nessuno escluso. Non possiamo accettare che la demagogia guadagni spazio distruggendo secoli di cultura giuridica fondata su un principio millenario come in dubio pro reo », conclude Malinconico, «meglio un colpevole assolto che un innocente in galera».
La prescrizione è la fine dell’ingiustizia del processo. Iuri Maria Prado il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ma è possibile che su questa storia della prescrizione nessuno dica la cosa più vera e semplice? È questa: che il processo è un’ingiustizia. È un’ingiustizia necessaria, ma è un’ingiustizia. È un sopruso: inevitabile, ma è un sopruso. È infatti necessario che alcuni siano incaricati di giudicare e sanzionare i comportamenti delle persone, ma questa necessità si soddisfa con un dispositivo di violenza che mette l’individuo in istato di soggezione e lo isola, lo indebolisce e insulta la pace della sua vita. E questo è appunto un sopruso, che inevitabilmente bisogna predisporre perché altrimenti la convivenza civile è impossibile: ma la società che lo predispone e quelli che, con il processo, sono chiamati a realizzarlo, dovrebbero risentire con gravità una specie di colpa nell’essere obbligati a tenere in ordine i comportamenti delle persone usando questo pur necessario strumento di sopraffazione. Chi reclama il diritto dello Stato all’infinità del processo non comprende che in quel modo lo Stato eserciterebbe il potere di infliggere ingiustizia infinitamente, così rendendosi responsabile di un delitto ben più grave rispetto a quello che pretende di punire con una sentenza. Lasciare eternamente impuniti i responsabili di azioni illecite non va bene, questo lo capisce chiunque; ma va anche meno bene pensare di risolvere il problema consentendo che siano eternamente punibili, perché in questo modo si rende perpetua l’implicazione della vita degli individui in un meccanismo di afflizione semmai accettabile a patto che funzioni, e cioè che affligga, per poco tempo. Se per evitare che i responsabili di azioni illecite la facciano franca si escogita di renderglielo impossibile armando lo Stato del potere di processarli e punirli sempre e per sempre, allora si accetta che lo Stato persegua il fine di giustizia tramite un’ingiustizia senza fine. E il popolo in nome del quale si fanno i processi e si emettono le sentenze diventa l’incolpevole esecutore di una immensa e irrimediabile oscenità: un’infinita possibilità di violenza contro sé stesso. È necessario e inevitabile che lo Stato si riservi del tempo per processare e condannare. È cioè necessario e inevitabile che lo Stato sia messo nelle condizioni di poter infliggere l’ingiustizia del processo. Ma sia chiaro: la prescrizione è la fine di un’ingiustizia.
Giustizia lumaca, è colpa dei Pm non della Prescrizione. Maurizio Paniz il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Come si fa a non capire che in uno stato civile il primo vero e grande baluardo per la democrazia è costituito dalla giustizia? E come si fa a non capire che nell’ambito del pianeta giustizia il punto cardine attorno al quale ruota ogni ulteriore aspetto è costituito dai tempi brevi e certi? Brevi perché chi è innocente ha diritto di sentirselo dire rapidamente e chi è colpevole deve essere in tempi rapidi costretto a pagare il debito con la comunità ove vive. Certi perché non c’è nulla di peggio che lasciare all’arbitrio di fattori indeterminati e indeterminabili la conclusione di un percorso giudiziale. Sorrido quando mi viene fatto notare che senza lo stop alla prescrizione resterebbero impuniti fatti sicuramente rilevanti sotto il profilo sociale: sono disinformati quelli che citano la strage ferroviaria di Viareggio, tanto per esemplificare, facendo leva sui sentimenti di doveroso rispetto e piena comprensione per i deceduti e i loro congiunti, o addirittura le morti per la vicenda Eternit, per la quale la prescrizione è maturata addirittura prima della decisione di primo grado. Bisognerebbe chiedersi: perché a oggi processi simili a questi o relativi a vicende della stessa portata non si sono conclusi? E la risposta non possono darla certamente gli avvocati, bravi o scadenti che siano, con i loro presunti tentativi di allungamento dell’iter processuale, bensì solo i pubblici ministeri titolari dell’azione penale e i magistrati titolari dei collegi giudicanti. I primi hanno avuto a disposizione – e spesso dispongono anche in attualità di anni e anni per sviluppare il percorso processuale, ma nessuno mai ha controllato o controlla la tempistica dei loro interventi o delle loro inadempienze per non parlare della qualità del loro lavoro. Certo lo Stato è in colpa per non averli sempre dotati di strutture adeguate, di collaboratori preparati, di strumenti tecnici significativi e immediati, ma ciò non elide, in molti casi – forse proprio nella maggioranza dei casi -, il fatto che tutti i frequentatori della trincea quotidiana delle aule di giustizia possono avere ben presenti le responsabilità di chi è chiamato all’altissimo compito di istruire un percorso di indagine o addirittura proprio di giudicare gli imputati. Cosa dire, in realtà, della contemporanea fissazione di decine di dibattimenti con la certezza che verranno celebrati uno per volta e che quindi ci saranno persone (avvocati, testimoni, ecc.) che attenderanno spesso ore e ore, magari poi per sentirsi dire che verranno richiamati perché ormai è troppo tardi per la celebrazione del loro processo? Cosa dire di notifiche disposte senza congruo anticipo con la inequivoca possibilità che non giungano per tempo a destinazione donde il conseguente prevedibile rinvio? Certo tutto questo non è colpa degli avvocati e certo proprio queste sono le più significative ragioni di differimento di un’udienza!
L’odissea della famiglia Ferrante, atti spariti e udienze non fissate. Damiano Aliprandi il 19 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Esposto al Csm del legale dei parenti di Andrea, morto a 17 anni in un incidente. Nonostante quattro solleciti, a distanza di oltre 10 mesi, l’udienza non è stata fissata. Difficoltà nel reperire gli atti necessari, richiesta di archiviazione non notificata e ritardo nella fissazione dell’udienza. Sono i problemi che affliggono i familiari di Andrea Ferrante, 17enne che ha perso la vita a Torre D’Isola ( Pavia) nel luglio del 2018. Era in moto quando fu travolto da un’auto e sbalzato a diversi metri di distanza dal suo ciclomotore. Per la procura di Pavia, che ha chiesto l’archiviazione, «l’evento morte è casualmente riconducibile esclusivamente ad un comportamento imprudente della persona deceduta». Però i familiari non credono a questa tesi. Secondo l’avvocata Chiara Penna, del Foro di Cosenza, legale dei familiari di Andrea, non è credibile che il motociclo sia caduto prima dell’impatto e non è credibile che l’auto procedesse a solamente 40 chilometri orari. «Delle tre l’una – si legge nell’opposizione alla richiesta di archiviazione-. O procedeva così piano da avere il tempo di fermarsi o quanto meno frenare vedendo una moto a terra o procedeva a velocità sostenuta tanto da non poter evitare il motociclo già caduto per terra oppure motociclo e autovettura hanno impattato l’una contro l’altra catapultando il centauro al di là del veicolo». Il primo problema riguarda la richiesta di archiviazione, avanzata nel dicembre del 2018, a cinque mesi di distanza dalla tragedia, ma non notificata ai familiari, che ne sono venuti a conoscenza a fine gennaio del 2019, nonostante il loro interesse fattivo nel procedimento, tanto da nominare un medico legale in sede di conferimento incarico per l’esame autoptico. L’avvocata Penna ha trovato non poche difficoltà a reperire i documenti, come ad esempio la copia degli atti dei quali poteva avere conoscenza in quella fase, poiché la richiesta copie depositata dal precedente difensore risultava smarrita agli uffici. Il nonno del ragazzo, a novembre del 2018, si è così recato presso la cancelleria del Tribunale di Pavia il 15 novembre – previo nulla osta – per ritirare la documentazione richiesta dal difensore, ma gli viene indicata la necessità di recarsi presso gli Uffici della Polizia stradale al fine di ottenerla. E una volta lì gli viene comunicata la necessità di una nuova richiesta dall’avvocata, riuscendo ad ottenere i verbali in questione il 21 novembre del 2018. Ma senza le foto in allegato. L’avvocata Penna ha quindi chiesto di visionare i mezzi sottoposti a sequestro probatorio, senza ricevere risposta. A quel punto, il 31 gennaio scorso, la madre di Andrea si è recata in procura e solo lì ha appreso della richiesta di archiviazione e del dissequestro dei veicoli. «A tale situazione paradossale – racconta Penna – si aggiunge l’indicazione erronea fornita dal pm procedente in data 31 gennaio 2019: nel rigetto all’istanza presentata immediatamente al fine di essere rimessi nei termini per proporre eventuale opposizione, l’inquirente ha consigliato di ricorrere in Cassazione per impugnare il decreto di archiviazione». Ma la procedura è diversa: infatti il 7 febbraio Penna ha depositato opposizione al decreto di archiviazione, con esplicita richiesta di essere informata della fissazione dell’udienza per poter presentare memorie. Nonostante quattro solleciti, a distanza di oltre 10 mesi, l’udienza non è stata fissata. Perciò Penna ha inviato un esposto al Csm e una segnalazione al ministro della Giustizia, chiedendo di verificare se ci siano state o meno condotte negligenti dei singoli magistrati coinvolti nella vicenda.
Prescrizione, la maratona dei penalisti: «Vi racconto l’Odissea di un imputato a vita». Simona Musco il 4 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Seconda giornata della maratona oratoria dell’Ucpi. L’ex presidente del Senato Schifani : «Mi stupisce come l’Anm abbia cambiato idea nel giro di poche settimane. Il vero vulnus da colmare sta nella fase delle indagini. Questa è una vera bomba sul diritto». C’è la storia dei due presunti pedofili finiti a processo quando l’avvocato che li ha fatti assolvere era ancora al liceo. O l’imprenditore, che otto anni dopo aver ricevuto una visita della Guardia di Finanza si è visto notificare l’atto con cui veniva fissata la prima udienza. Sono solo alcune delle storie sviscerate nel corso della maratona oratoria organizzata dall’Unione delle camere penali italiane in piazza Cavour, davanti al Palazzaccio, per dire no all’entrata in vigore della norma che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. E durante la seconda giornata ad intervenire è stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, che indossando le vesti di avvocato ha stigmatizzato il cambio di rotta dell’Anm, invocando l’approvazione di una legge delega «che fissi principi certi e perentori nella fase delle indagini», per andare a colmare il vero vulnus che rende i tempi del processo incerti. Una norma, quella che prevede il blocco della prescrizione, «palesemente incostituzionale – ha sottolineato il senatore -, perché viola l’articolo 111, che fissa dei paletti sulla ragionevole durata del processo, votati all’unanimità da tutti i partiti. Tutti, quindi, condivisero il principio che il processo deve avere ragionevole durata, che deve essere fissata da legge ordinaria». E con una legge ordinaria, ha aggiunto, che entrerà in vigore a gennaio, si andrà a fissare «una irragionevole durata del processo», rappresentando «una bomba sul nostro sistema giudiziario». Una legge nata sulla base di un accordo politico che prevedeva, entro il 2019, anche la riforma del processo, poi mai realizzata. Il risultato è che anziché fissare tempi certi per il processo si finisce per fissare «il processo ab eterno», cosa che in un regime di diritto e democrazia «non può essere condivisa». «Quello che mi preoccupa – ha aggiunto – è che dietro questa norma vi sia un principio squisitamente ideologico, non strutturato nel ragionamento giuridico di una classe forense». Ed è duro anche il giudizio sull’Anm: «rispetto il sindacato delle toghe – ha sottolineato – ma mi stupisco di come abbia cambiato idea, perché nel giro di poche settimane, dopo essere stata polemica, ha fatto un’inversione ad U». L’augurio di Schifani è, dunque, che «all’interno della maggioranza si trovi una sintesi per il differimento dell’entrata in vigore di una norma palesemente irrazionale, ingiusta, illiberale – ha concluso – che contrasta il nostro stato di diritto e la nostra storia». La norma, ha evidenziato Antonio De Simone, della Camera penale di Roma, rischia di tenere «una persona incatenata dentro le aule giudiziarie», risultando inconciliabile col principio della ragionevole durata del processo, finendo per danneggiare anche le vittime di reato, impossibilitate a vedersi risarcire in tempi brevi. E rimanda «alla famigerata scuola di Kiel», ha denunciato Giulio Gasparro, della Camera penale di Roma, ovvero quella che preparò giuridicamente il nazionalsocialismo, abolendo la prescrizione per tenere sotto processo per anni gli oppositori. «Siamo in presenza di un tumore che creerà una metastasi infinita – ha denunciato -. È stato barattato un diritto con la contingenza del momento. È ignoranza o lo stanno facendo apposta? Se lo fanno apposta è gravissimo, ma credo sia così». Diverse, anche ieri, le storie rievocate per dimostrare i pericoli insiti nella riforma. Come quella di Teresa Cesarano, del foro di Torre Annunziata. «Quando ero al liceo – ha raccontato – due persone finirono a processo per pedofilia. È durato 11 anni e mezzo, tanto che in appello li ho assistiti io. Si è chiuso con un’assoluzione, ma mi hanno confidato di aver pensato anche di farla finita». Altra storia quella raccontata dall’avvocato Valentina Manchisi, di Monza. «Un imprenditore di nome Giovanni, nel 2005, venne accusato di aver emesso false fatture. Dopo i controlli della Finanza non ne seppe più nulla e continuò a svolgere il suo lavoro tranquillamente e regolarmente – ha raccontato -. Bene, nel 2013, senza che venissero svolte altre indagini oltre quei primi accertamenti, Giovanni ha ricevuto una notifica per la fissazione della prima udienza, nel 2014. Quando, durante la prima udienza, ho sottolineato che la prescrizione era maturata, il pm ha invocato una norma del 2011, che allungava i tempi di prescrizione di quel reato. Io feci notare che il reato era stato compiuto prima del 2011. A quel punto intervenne il giudice, che disse una cosa che ricorderò sempre: non è colpa di questo tribunale, del difensore o dell’imputato se la Procura si è svegliata dopo parecchi anni per fissare udienza, specie se non ha svolto altre indagini. Ecco, cerchiamo di spiegare che è inumano tenere sotto scacco una persona che può anche redimersi senza la persecuzione di un processo infinito. Ed è inumano anche per la vittima non sapere se avrà giustizia. Questa riforma – ha concluso – vuol dire consentire la liceità di un abuso, a cui ci opporremo sempre, coi mezzi che la Costituzione e la legge ci mettono a disposizione».
Nove anni da indagato: si erano scordati il fascicolo. Simona Musco il 7 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’imprenditore reo confesso ma mai processato: il fascicolo rimasto fermo senza motivo. «Lo Stato pretende dai cittadini il rispetto di leggi e scadenze. Allora perché proprio lo Stato dovrebbe togliersi l’incombenza di una scadenza così importante, come quella di arrivare ad una condanna o ad un’assoluzione definitiva in tempi certi?». Il senso della protesta dei penalisti contro il blocco della prescrizione si potrebbe riassumere così, con storie come quella di Giovanni, piccolo imprenditore di Monza indagato, nel 2005, per una vicenda di fatture false. Un reato realmente commesso dall’uomo, che in un momento di difficoltà decide di violare la legge per salvare la propria attività. E che confessa tutto alla Guardia di Finanza. Ma a impedirgli di pagare il proprio debito con la giustizia, paradossalmente, è proprio la Procura, che decide di portarlo a processo solo nove anni dopo aver commesso il reato, quando ormai è prescritto. Tutto comincia 14 anni fa, racconta l’avvocato Valentina Manchisi nel corso della maratona oratoria in piazza Cavour, quando le Fiamme Gialle effettuano un controllo nella bottega artigiana dell’uomo, scoprendo venti fatture emesse per operazioni inesistenti. Le indagini vanno avanti velocemente, con due accessi da parte della Finanza. Giovanni ammette subito tutto, racconta al Dubbio Manchisi, e così le indagini si chiudono a stretto giro, con una sintesi della documentazione raccolta contenuta in una relazione comprensiva dei verbali con le confessioni di Giovanni. Una relazione subito consegnata al sostituto procuratore titolare delle indagini, che iscrive così l’uomo sul registro degli indagati. «Da quel momento in poi – spiega Manchisi – non viene effettuato più alcun accertamento, come verificato personalmente analizzando il fascicolo». Passano anni e nessuno bussa più alla porta di Giovanni, che decide di chiudere per sempre con le fatture false. Tutto sembra esser finito lì, ma nel 2013 l’uomo riceve la notifica della citazione diretta a giudizio, con prima udienza fissata nel 2014. Ovvero nove anni dopo il fatto. «È in quel momento che conosco Giovanni – spiega ancora l’avvocato -. Lo rassicuro: nel 2005 la normativa per quel tipo di reati prevedeva un tempo di prescrizione di sette anni e mezzo, già passati, dunque». Nel corso della prima udienza, Manchisi chiede così in via preliminare il proscioglimento, ma il pm si oppone, tirando in ballo la riforma del 2011 che ha allungato i tempi di prescrizione di un terzo. «A quel punto ricordo il principio del favor rei, citando l’articolo 2 del codice penale sulla successione delle leggi nel tempo», spiega il legale. Il pm non ci sta, si alza e porta il fascicolo sullo scranno del giudice. Che però se la prende con il magistrato, facendogli notare che «non è colpa né del giudice, che poi si ritrova a dover fare i processi di corsa, né dell’avvocato, che deve ricordare un istituto di diritto, né dell’imputato, che ha poi il diritto vero sulla propria pelle, se la Procura tiene per anni in un cassetto un fascicolo». Per Manchisi, dunque, questo caso spiega proprio il punto ignorato dalla riforma Bonafede: «spesso i reati si prescrivono perché i fascicoli rimangono fermi in Procura e non per colpa degli avvocati». L’obiezione è ovvia: Giovanni, alla fine, non ha pagato il suo debito con la giustizia, proprio grazie alla prescrizione. Ma lo Stato, replica l’avvocato, deve rispettare le leggi e le scadenze tanto quanto il cittadino. «La prescrizione è nata durante il fascismo e se addirittura in un periodo del genere è stato creato comunque un istituto che va a punire lo Stato, all’epoca preponderante, quando non risulta efficiente allora la cosa dovrebbe farci riflettere – aggiunge -. Peraltro, il sottotesto di questa riforma è che senza prescrizione si arriva a condanna certa. Ma il processo serve ad accertare la colpevolezza o l’innocenza, non a condannare a prescindere. Il principio di non colpevolezza vige sempre». Senza dimenticare le numerose condanne inflitte all’Italia dalla Cedu per aver violato il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. «Ora – conclude – aumenteranno i casi che ci porteranno ad una condanna e al pagamento di sanzioni. Tutto grazie a questa riforma».
Caselli shock: bisogna abolire l'Appello. L'ex procuratore: "Vantaggi strepitosi, si cancellerebbero gli arretrati". Luca Fazzo, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. A gettare il sasso era stato domenica scorsa Edmondo Bruti Liberati, leader storico di Magistratura democratica, con una intervista a Repubblica in cui teorizzava la necessità assoluta di una nuova legge sulla prescrizione, accusando gli avvocati di utilizzare le norme attuali per «impugnazioni puramente dilatorie» causando l'«ingorgo dei giudizi in appello» e «ricadute di lungaggini su tutta la durata del processo». Tempo quarantott'ore, e a raccogliere l'assist è un vecchio compagno di battaglia e di corrente di Bruti, l'ex procuratore di Palermo e di Torino Giancarlo Caselli. Che se ne esce sul suo blog sull'Huffington Post rincarando la dose fino al punto che pareva irraggiungibile: l'abolizione del processo d'appello. Prima condanna e carcere, senza passare dal via. Inevitabile notare che tra le due uscite è avvenuto un fatto nuovo: la saldatura tra il Movimento 5 Stelle e l'Associazione nazionale magistrati, che nel suo congresso genovese ha sposato in pieno la linea grillina sulla prescrizione. Come la pensino i pentastellati sul processo d'appello è noto, visto che nel loro programma sulla giustizia avevano proposto - per disincentivare i ricorsi - di consentire che il processo d'appello aggravi, anziché ridurre, la condanna. Ma nemmeno questo a Caselli pare sufficiente. «Basta con i palliativi», scrive. «Si valuti anche l'ipotesi dell'abolizione del grado d'appello, in modo da uniformare il nostro agli altri paesi di rito accusatorio. I vantaggi sarebbero strepitosi». Addirittura strepitosi? Sì: «Si potrebbe cancellare l'arretrato, circa un milione e mezzo di processi». Per accelerare la giustizia basta abolire i processi, insomma. E giù con un po' di insulti agli avvocati: il processo è «pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che in realtà sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi». Nel motivare la sua rivoluzionaria proposta, Caselli fa - a dire il vero - un po' di confusione, arrivando a sostenere che in Italia esiste «una pletora» di gradi di giudizio, in cui inserisce anche i provvedimenti del tribunale del Riesame (che in realtà non si occupa di colpevolezze e innocenze ma solo di esigenze cautelari) e non meglio precisati «interventi del gip» e «giudizi incidentali». «Siamo di fronte ad una grave anomalia rispetto agli altri paesi di democrazia occidentale che va corretta riducendo drasticamente i gradi di giudizio», scrive l'ex magistrato. Curiosa la spiegazione che Caselli dà di questo eccesso di garanzie: «La moltiplicazione dei gradi di giudizio si spiega con la radicata convinzione che la magistratura e il diritto fossero ostili alle classi sociali subalterne. Per arginare i misfatti che conseguentemente la cultura popolare riteneva perpetrati nei secoli ecco l'idea dei più gradi di giudizio». È appena il caso di ricordare che il codice di procedura penale attualmente in vigore è del 1988, quando di misfatti ai danni delle classe subalterne i giudici avevano smesso di compierne da un bel pezzo.
La versione di Davigo, niente sanzioni per i pm lumaca. Il comunicato di autonomia & indipendenza. La corrente dell’ex pm del pool milanese appoggia il blocca prescrizione e rilancia l’abolizione del divieto di “reformatio in pejus” in appello. Giovanni M. Jacobazzi il 4 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Il vincitore assoluto dell’ultimo congresso dell’Associazione nazionale magistrati è Piercamillo Davigo. Con un tempismo non comune è riuscito a mettere il cappello sulla mozione approvata al termine dell’assise genovese. «Da parte nostra nessuna titubanza: da molti anni abbiamo individuato, proponendolo, nel blocco della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado un possibile fattore di recupero di efficienza ed efficacia del sistema processuale», avevano scritto i vertici dell’Anm. Appena poche ore ed ecco spuntare la nota del coordinamento di “Autonomia& indipendenza” , la corrente fondata nel 2015 dall’ex pm di Mani pulite e attualmente azionista di maggioranza al Csm con cinque consiglieri, contando anche il magistrato antimafia Nino Di Matteo, eletto come indipendente nelle liste di A& i. «Cogliamo con favore la volontà di procedere senza ulteriori rinvii al blocco della prescrizione dopo il giudizio di primo grado», si legge nel comunicato di A& i. «Riteniamo proseguono i davighiani – che tale misura da tempo invocata dalla magistratura ci allinei alla maggioranza dei Paesi europei». Sulla prescrizione il presidente dell’Anm Luca Poniz era stato costretto al testa coda. «La riforma della prescrizione – svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie, come infatti da noi contestualmente richieste, ed inserita incidentalmente nel testo di una Legge (cd. Spazzacorrotti) che disciplina materia affatto diversa – rischia di produrre squilibri complessivi», aveva detto Poniz nella relazione di apertura del congresso, precisando che «non è noto, ad oggi, ufficialmente, lo stato di elaborazione delle riforme annunciate dal Ministro della Giustizia». Salvo però cambiare idea il giorno dopo: «La prescrizione cosi com’è va benissimo e renderà impossibile un uso strumentale delle impugnazioni. Nessun faccia dire all’Anm che attendiamo riformi epocali per l’entrata in vigore della prescrizione». Tornando a Davigo, invece, come se non fosse sufficiente il blocco della prescrizione voluto a tutti i costi dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, anche due altre proposte: «L’abolizione del divieto di “reformatio in pejus” in appello» e «una profonda rivisitazione della disciplina normativa in tema di patrocinio a spese dello Stato». Tanto per non farsi mancare nulla. Sulla certezza dei tempi del processo per evitare che l’imputato resti tale fino alla fine dei suoi giorni terreni? Nulla. E nessuno sanzione disciplinare per le cosiddette toghe lumaca. Questo perché a giudizio di A& i l’abolizione della prescrizione in nessun caso potrà essere legata all’obbligo per i magistrati di sveltire le indagini. Molto secca la motivazione: «Il carico di lavoro che grava sui magistrati è tale da rendere impossibile il rispetto dei termini». E’ l’arretrato il problema, dunque: nessuna colpa per possibili lungaggini delle toghe. Affermazioni molto ferme per la corrente che non ha mai vinto una elezione nelle competizioni togate e ora è il primo gruppo al Csm. Un successo non da poco.
Prescrizione, da magistrato dico no alla riforma. Alberto Cisterna il 6 Dicembre 2019 su Il Riformista. Bisognerebbe guardare al bicchiere mezzo pieno e partire da lì per colmarne l’altra metà. E invece non accade. Partiamo da alcuni dati di fatto confutabili solo a prezzo di un’insopportabile conformismo. I giudici di primo grado sono quotidianamente schiacciati da una mole enorme di fascicoli (spesso urgenti) e quasi mai si stracciano le vesti di fronte a un reato prescritto. Quando qualche imputato rinuncia alla prescrizione lo guardano, in genere, un po’ di traverso con l’aria di uno che cerca rogne. Celia a parte della prescrizione, in verità, il nostro attuale sistema processuale non può fare a meno perché è l’unica valvola di sfogo, è solo il modo con cui i giudici monocratici di quasi tutte le sedi giudiziarie d’Italia sopravvivono al nugolo quotidiano di convalide d’arresto, di procedimenti per omicidio stradali o per colpa sanitaria di grande difficoltà, alla miriade di reati che sono stati rimessi alla sua cognizione e che ogni anno aumentano a dismisura (alcune dozzine in più dal 2008 fa oggi, ma il calcolo è a spanne). Nuovi reati spesso sospinti da una legislazione vittima di emergenze cicliche e che – come sappiamo da anni – scarica nel processo ogni inefficienza e qualunque distorsione sociale. Siamo, tanto per intendersi, la nazione in cui non si riesce a debellare neppure la fastidiosa presenza dei parcheggiatori abusivi, ragion per cui il primo decreto sicurezza Salvini ha previsto per questi il carcere nei casi di recidiva. Si dice che la responsabilità della falcidia prescrizionale sia da addebitare alla riforma messa in piedi dal Governo di centro-destra del 2005, ma questo è vero solo in parte: 1) il fenomeno era imponente anche prima; 2) tant’è che a nessuno viene in mente di tornare al regime precedente suggerendo di abrogare la cosiddetta legge ex Cirielli; 3) la tanto vituperata Prima Repubblica governava, con una certa dose di cinismo e di saggezza, il problema dispensando cicliche amnistie e indulti. Prendiamo in esame questi ultimi due corni del dilemma. Di amnistie inutile parlarne dopo la riforma costituzionale del 1992 che ha imposto «la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». Quanto al perché nessuno proponga di ripristinare il regime ante Cirielli la risposta non è chiara, o forse lo è perfettamente, ma nel feroce dibattito in corso si preferisce mettere lo scomodo inciampo sotto lo zerbino. Azzardiamo un’ipotesi: non si pensa di tornare indietro perché è a tutti evidente che i reati continuerebbero comunque a morire di prescrizione e ciò a causa della grave inefficienza che ingrippa la macchina giudiziaria italiana, persa tra garanzie superflue e organici inadeguati. Tornare indietro vorrebbe dire solo praticare uno stolto accanimento terapeutico capace di far sopravvivere il reato e il processo solo per un po’ più di tempo di adesso, ma mai per un tempo sufficiente ad arrivare a una sentenza definitiva. Con l’ulteriore danno che la massa dei “morituri” ingolferebbe ancora di più le corsie dei tribunali gremite di malati e di casi d’emergenza, rischiando di portare a morte anche il più giovane virgulto. Secondo la profezia della riforma dal 2023 in poi la questione dovrebbe andare a risolversi. I tribunali da polverosi e mefitici lebbrosari gravidi di processi moribondi diverrebbero provvidenziali sanatori in cui ogni reato commesso dopo il 1° gennaio 2020 avrebbe l’insperata chance di essere immune da prescrizione. Tutto ciò grazie a un’ingegnosa terapia: la sentenza di primo grado. Una sorta di miracoloso elisir che darebbe vita eterna al reato e al processo, destinati a sopravvivere, potenzialmente per sempre, dopo la decisione di primo grado. Si discute animatamente di questa cura immaginando che questa possa portare via anche la malattia, ossia le disfunzioni del sistema processuale, ma la questione è più complessa. A nessuno viene in mente di tener in conto i danni arrecati alle parti civili, alle vittime dei reati, alla collettività, ai parenti, ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro chiamati a convivere con un altro malato, questa volta non guaribile e, anzi, contagiato potenzialmente per sempre: l’imputato ovvero il sospetto colpevole. La presunzione di innocenza in Costituzione, lo sappiamo, proclama che nessuno può essere considerato colpevole sino a una sentenza definitiva, ma questa presunzione, in questo Paese, è un bene, come dire, facilmente deperibile e che, spesso, non sopravvive alla prima ondata inquisitoria, soprattutto se ben programmata mediaticamente. I danni collaterali della durata del tutto imprevedibile del processo sono enormi e non solo per gli indennizzi che saranno comunque dovuti dalla Stato per l’irragionevole durata del processo (legge Pinto). Certo gli idolatri dell’azione penale pensano che sono guai dell’imputato il quale, con incomprensibile ostinazione, insiste a proclamarsi innocente anziché patteggiare la sua pena e pretende, pensate un po’, persino un appello in caso di condanna. Ora se tutto il cerino della prescrizione resta nella mani del giudice di primo grado che deve, con una certa velocità, concludere il giudizio per evitare impicci e rimproveri, un appello è il minimo che ci si può aspettare, perché – statene certi – anche solo il rischio di quella fretta e di quella concitazione impone da solo forza un secondo grado. Naturalmente c’è chi – con spensierata innocenza – pretende addirittura di tenere insieme le due cose, ammirando l’idea di un processo esemplare come l’unico vero deterrente (come negli Usa) per indurre l’imputato alla piena sottomissione alle ipotesi d’accusa. Non dimentichiamo, però, la parte piena del bicchiere. Non è detto che, nel lungo periodo (diciamo dal 2025 in poi), le corti d’appello e la Cassazione vedrebbero per forza aumentare i propri carichi di lavoro, per effetto della mancata bonifica operata oggi dalla prescrizione che ha, soprattutto in appello, un’incidenza significativa. In verità potrebbero esservi dei benefici insperati: la soppressione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio dovrebbe, innanzitutto, assicurare una maggiore serenità nell’affrontare i processi, rifuggendo dal benché minimo sospetto che l’imputato l’abbia impugnato per arrivare a una prescrizione divenuta irraggiungibile. Certo il reprobo potrebbe lavorare per evitare una sentenza definitiva di condanna, ma qui veniamo agli auspici ultimi dei sostenitori della riforma. Se il reato non si prescrive l’imputato “reo” (solo per il suo foro interiore sia chiaro) ha tutto l’interesse a patteggiare la pena, se patteggia il processo si chiude e così appelli e ricorsi diminuiscono. Il tutto funziona a una duplice condizione: 1) che il processo in primo grado si concluda effettivamente entro gli attuali termini di prescrizione del reato, altrimenti anche i “colpevoli” non rinunceranno alla chance di tirarla per le lunghe e 2) che i reati siano scoperti tempestivamente ovvero senza che passi troppo tempo dalla loro commissione. E qui le cose si complicano perché oltre il 50% dei reati si prescrivono già nella fase delle indagini ossia nelle mani dei pubblici ministeri e non (sempre) per inerzie, ma perché gli autori dei reati vengono scoperti con ritardo. Per il restante 50% circa la prescrizione si consuma in un periodo più o meno lungo (un 25% circa in primo grado). Questa cifra oscura (il 75% circa delle prescrizioni) non è direttamente scalfita dalla modifica approvata e può ritenersi che resti praticamente incomprimibile anche dopo la riforma che entra in vigore il prossimo 1° gennaio se non intervengono modiche strutturali profonde. Quindi si sta lavorando per salvare il restante 25% circa di processi, ossia i processi che si estinguono per prescrizione innanzi alle corti d’appello e, in minima parte, alla Cassazione. Qualcuno dirà che comunque sarebbe un buon risultato e che anche i detrattori della riforma potrebbero farsene una ragione. Forse è vero, ma un imputato a vita non giova alla collettività e genera costi economici (non solo indennizzi Pinto) e sociali non ben calcolati. Costi che, comunque, dovrebbero porsi in equilibrio con l’interesse che lo Stato dovrebbe conservare a punire (o meglio a sperare di punire, le assoluzioni in appello sono numerose) reati per lo più bagattellari, posto che i crimini più gravi sono già ora, e per fortuna, praticamente imprescrittibili.
"Anni nel limbo giudiziario. La riforma è uno scandalo". Il docente ed esperto, Emanuele D'Innella: "Stato inefficiente, dilata i tempi invece di accorciarli. E il carcere per chi evade è inutile". Stefano Zurlo, Mercoledì 04/12/2019 su Il Giornale.
Il sorriso e la faccia feroce.
«Posso farle un esempio?»
Parliamo del fisco italiano.
«E di quello inglese. A Londra, quando il cittadino viene chiamato, viene trattato con profondo rispetto perché è considerato una risorsa».
Nel nostro Paese?
«C'è sempre l'idea che il contribuente sia un limone da spremere. Anzi, da fregare».
Siamo alla stretta finale sul decreto fiscale.
Emanuele D'Innella, già docente alla Sapienza e presidente della Commissione per il diritto penale dell'economia dell'Ordine dei commercialisti di Roma, allarga le braccia: «Appunto. Hanno dichiarato guerra ai cittadini e alle imprese».
Un attimo. In Italia c'è un'evasione record, 150 miliardi, forse di più. Restiamo con le mani in mano?
«No, ma inasprire le pene serve a poco».
Qualche evasore finirà in cella. Non è un deterrente?
«Ma arriveremo alle sentenze definitive? Adesso abbiamo pure la prescrizione senza fine, come l'hanno congegnata i Cinque stelle. Gli imputati rischiano di stare nel limbo processuale anni e anni. Uno scandalo».
Perché?
«Perché lo Stato piega alle sue inefficienze e carenze vergognose i tempi infiniti del dibattimento. Invece di accelerare, rallenta tutto. E l'indagato magari sarà assolto, ma intanto perde la reputazione, gli incarichi professionali, le relazioni sociali. Una tragedia coperta dall'ipocrisia».
Intanto le pene per i reati tributari vengono ridisegnate.
«Certo, per le false fatture, le pene massime passano da 6 a 8 anni e c'è qualche probabilità in più che qualcuno vada in carcere. Ammettiamo che sia così. Ma lei crede che con le manette si possa risolvere una piaga sociale?».
L'alternativa?
«Ci sarà la possibilità di intercettare gli evasori e di punirli più severamente, ma i grandi numeri del nero si combattono in altro modo».
Come?
«Abbassando le tasse, semplificando le norme, con una politica di incentivi e di collaborazione, tutto il contrario di quel che vediamo anche in questa manovra».
Sicuro che questa ricetta possa funzionare?
«Bisogna rendere il nero poco conveniente o addirittura scomodo. Ora cosa faranno: intercetteranno migliaia di persone? E spesso con risultati deludenti: oggi l'Agenzia delle entrate perde gran parte dei duelli ingaggiati con i contribuenti».
Ma il sommerso è anche terreno di coltura della criminalità organizzata.
«E infatti una parte importante dell'evasione è legata alle grandi organizzazioni criminali. Bene, un mafioso non cambia atteggiamento sapendo che gli daranno due anni di carcere in più. Le mafie temono solo la confisca dei beni».
Le nuove norme prevedono proprio la confisca per sproporzione. Un passo in avanti?
«No, semmai indietro. La confisca per sproporzione viene già applicata ai mafiosi che dichiarano redditi ridicoli e dispongono di beni di lusso».
Lo stesso meccanismo non può valere per chi froda il fisco?
«Questo sistema si basa sul sospetto e va bene per i soldati di Cosa nostra, ma sarei molto attento a utilizzare questo principio con chi è estraneo alle logiche mafiose. Si diffonde cosi una cultura del pregiudizio e del sospetto in tutta la società con effetti catastrofici. Altro che collaborazione: il cittadino è colpevole e dev'essere lui a dimostrare il contrario. Ti sequestro tutto, poi si vedrà. Sempre che il testo non sia modificato un'altra volta».
Si, ma come recuperare i soldi che mancano?
«Lo Stato dev'essere più efficiente. Si potrebbero fare più controlli, capillari, e con risultati migliori ma per questo servono soldi e tecnologie. Investimenti. Più computer e meno manette. Invece dilaga una logica punitiva. Pure sul versante della legge 231».
Quella sulla responsabilità amministrativa delle società. Che verrà estesa ai reati tributari.
«Una scelta anti-industriale e confusa in un panorama già contorto, con norme che vengono scritte e riscritte in una babele legislativa. Vedremo il testo finale, quando si sarà diradato tutto questo polverone. Ma».
Ma?
«Temo che arriveremo ad una duplicazione o anche peggio delle sanzioni che già ci sono. Multe, chiamiamole cosi semplificando, che si sovrapporranno ad altre multe, fra le convulsioni di un sistema a dir poco barocco».
In conclusione?
«Il fisco deve cercare la fiducia dei cittadini. Questa manovra va nella direzione sbagliata: oggi ci sono 10-11mila miliardi di risparmio nel Paese dell'evasione. Lo Stato ha le pezze, le famiglie il loro tesoretto. I numeri non quadrano, anzi stridono, ma di questo passo peggioreranno ancora».
Perché lo stop della prescrizione non è utile (anzi). La maggioranza è spaccata: dal gennaio 2020, dopo la sentenza di primo grado, non sarà più possibile prescrivere il reato. Il M5S insiste, il Pd è contrario. Chi ha ragione? Panorama il 6 dicembre 2019. La riforma della prescrizione è uno dei temi che spacca la maggioranza di governo. Da un lato c’è il Movimento 5 stelle, che negli ultimi anni ha fatto dell’abbattimento del “mostro prescrizione” una sua bandiera; dall’altro c’è il Pd, che da due mesi chiede correzioni per evitare che il cittadino imputato possa rimanere “ostaggio” dello Stato a tempo indefinito. La questione, visto l’annoso problema della durata dei processi, ha scatenato anche le dure e giustificate proteste dell’Unione delle camere penali italiane e dell’opposizione di centrodestra. La riforma, che nel 2018 era entrata nel decreto legge “Spazzacorrotti” varato dal ministro della Giustizia grillino, Alfonso Bonafede, e la cui entrata in vigore è stata dilazionata al gennaio 2020, prevede che il corso della prescrizione rimanga sospeso dopo la sentenza di primo grado. Ogni anno i processi penali prescritti sono circa 130mila: circa un decimo dei nuovi processi che nello stesso tempo si aprono in tribunale. Il ministro Bonafede sostiene che la norma, bloccando la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, accelererà tutti i processi. In realtà questo è improbabile: a quel punto, al contrario, i tempi del giudizio d’appello e in Cassazione, senza più alcun rischio che il processo possa estinguersi, si dilaterebbero a dismisura in quanto pubblici ministeri e giudici non avrebbero più nemmeno lo stimolo di veder finire in nulla il loro lavoro. La proposta Bonafede, del resto, ha incontrato le critiche dei penalisti, di tutte le opposizioni parlamentari, a partire da Forza Italia, e perfino dell’Associazione nazionale magistrati (il suo presidente, Francesco Minisci, nel 2018 aveva detto: «La modifica della prescrizione, di per sé, non sarebbe affatto utile). La prescrizione, poi, non è il mostro giuridico di cui parlano i grillini. Al contrario, è un istituto giuridico che da sempre risponde a criteri di economicità processuale e al buon senso giuridico: è ovvio che lo Stato non possa perseguire all’infinito tutti i reati (tranne l’omicidio e la strage, che in Italia infatti sono imprescrittibili) e deve invece puntare a sentenze il più possibile tempestive e vicine al momento del crimine. Meglio farebbe il ministro della Giustizia a indagare sulle vere cause e sulle concrete responsabilità della prescrizione: tra 2005 e 2016 (in base ai dati ufficiali del suo stesso ministero) i procedimenti penali prescritti sono stati 1.594.414, dei quali 1.111.608 (cioè il 69,8%) si sono estinti nelle indagini preliminari. Dato che in quella fase iniziale del processo i difensori non hanno alcun ruolo, né possono mettere in pratica le “tecniche dilatorie” di cui sono accusati (e che sono alla base delle polemiche e delle teorie di chi vorrebbe cancellare la prescrizione), è chiaro che il vero responsabile del fenomeno, in sette casi su dieci, è il pubblico ministero. Resta da domandarsi quanti processi penali coinvolgerebbe la riforma della prescrizione. Nel 2017, in base all’ultimo dato disponibile, sono stati chiusi “per intervenuta prescrizione” poco meno di 126 mila procedimenti penali. Di questi quasi 67 mila si trovavano ancora nelle fasi iniziali del processo, davanti al Giudice per le indagini preliminari (Gip) o davanti al Giudice dell’udienza preliminare (Gup); quasi 27.500 davanti al tribunale ordinario; circa 2.500 davanti al giudice di Pace; poco più di 28 mila in Corte di Appello; altri 670 in Corte di cassazione. Questo significa che due anni fa, su quasi un milione di processi definiti (per l’esattezza sono stati 994.484), le prescrizioni hanno inciso per il 12,6%.
Giulia Bongiorno contro Bonafede sulla prescrizione: "Un calvario ingiusto per gli italiani". Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. A smontare le follie grilline sostenute da Alfonso Bonafede ci pensa una che di giustizia e dintorni ne sa come pochi altri: Giulia Bongiorno. Nel mirino della senatrice della Lega, lo stop alla prescrizione, definito una "bomba atomica" già tempo fa. "Solo coloro che non calpestano quotidianamente la polvere dei tribunali possono pensare che questo blocco della prescrizione non sia una bomba atomica - premette -. Chiunque conosce la procedura penale sa perfettamente che, siccome esiste un carico processuale particolarmente pesante, le udienze sono fissate in ragione di quando si prescrive il reato. Ebbene, nel momento in cui questa ghigliottina non ci sarà più, inevitabilmente si paralizzerà per sempre la giustizia italiana", rimarca. Dunque le ricordano che qualcuno la accusa di esagerare. Netta la replica della Bongiorno: "Esagerare? Ieri è venuta nel mio studio una persona che tra primo e secondo grado di giudizio ha atteso dieci anni. Ripeto: dieci anni. E chiedo al ministro della Giustizia, Bonafede: è giusto fare attendere dieci anni una persona, costringerla a questo calvario, sia essa colpevole o innocente?". Chiarissimo il messaggio dell'ex ministro, che nelle battute finali dell'intervista attacca ancora: "Per i 5 Stelle il garantismo non è un valore". E ancora: "Il garantismo è scritto in Costituzione, dove c'è la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Quindi uno non può decidere se essere o meno garantista", conclude la Bongiorno, portando a scuola di diritto i grillini.
Prima gli immigrati, pure in Tribunale. La Verità pubblica un documento della Corte d'Appello di Bologna che rinvia le cause fino al 2022 per dare la priorità a quelle dei migranti a cui è stato negato lo status di rifugiato. Mario Giordano il 26 novembre 2019 su Panorama. Prima gli italiani? Macché: prima gli immigrati. Come nelle graduatorie per le case popolari, anche nei calendari dei tribunali, il sedicente profugo mette la freccia e passa davanti al sig. Rossi di turno. Il quale, se vuole, avere un po’ di giustizia, deve probabilmente aspettare quella divina, Su quella umana c’è poco da fare affidamento, da sempre. Figurarsi ora che per avere udienza bisogna aspettare che siano accontentate le legittime richieste di ogni Mohammed, Souad, Alì, fino all’ultimo Mustafà. La cosa incredibile è che tutto ciò viene scritto , nero su bianco, senza pudore alcuno, da chi gestisce la giustizia italiana. Quella che vedete, per esempio, è una comunicazione della Corte di Appello di Bologna, seconda sezione civile. La data del documento è il 22 novembre 2019, le firme quella della presidente (Maria Cristina Salvadori) e dell’assistente giudiziario (Laura Pellegrini). Comincia così: “Dato atto che l’incremento delle cause di protezione internazionale ha ulteriormente il già rilevante carico…”. Poi prosegue: “Rilevato che la trattazione prioritaria per legge delle cause di protezione internazionale impone inevitabilmente il differimento delle altre numerose cause già fissate…”. E, quindi dispone “il rinvio delle sottoelencate cause” che erano previste nel mese di dicembre 2019. Il messaggio è piuttosto chiaro, nonostante la formulazione un po’ burocratica. Dice la Corte d’Appello: siccome siamo inondati dalle cause di protezione internazionale, che hanno la precedenza, siamo costretti a rinviare tutto il resto. Prima gli immigrati, insomma, anche nelle aule di giustizia. A costo di far diventare i processi degli altri ancor più lunghi di quello che già sono. Ho dato infatti un'occhiata alle “sottoelencate cause” della comunicazione della Corte d'Appello di Bologna. Ed è piuttosto impressionante vedere che, pur essendo tutte piuttosto datate (alcune del 2012, altre del 2013, altre più recenti) vengono rinviate non di poco: una addirittura al 19 ottobre 2022...
In Tribunale viene prima il migrante: cause rinviate al 2022. Il documento della corte di Appello di Bologna: rinviate decine di udienze. La legge prevede la "trattazione prioritaria" delle cause di protezione internazionale dei migranti. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/11/2019 su Il Giornale. Una valanga di rinvii in Tribunale, anche di due anni. Arrivederci al 2021. Il motivo? "La trattazione prioritaria per legge delle cause di protezione internazionale". Cioè, prima vengono gli immigrati. Poi tutte le altre cause. È questo il sunto del decreto datato 22 novembre 2019 e firmato dal presidente della seconda sezione civile della Corte di Appello di Bologna. Un documento che ilGiornale.it ha avuto modo di consultare e che ha attirato l'attenzione di qualche avvocato. Nel testo si legge: "Dato atto che l'incremento della cause di protezione internazionale (conseguente alla assegnazione alla seconda sezione civile della maggior quota del 70% delle sopravvivenze a far data dal 2.05.2018) ha ulteriormente appesantito il già rilevante carico decisorio dei consiglieri della seconda sezione", allora è necessario "il rinvio" delle udienze fissate per il 2, 10 e 17 dicembre 2019. Si tratta di 44 cause. In molti casi il primo grado si era chiuso, pensate, nel lontano 2012. Tra pochi giorni i malcapitati avrebbero avuto la loro udienza, invece nisba: tutto rimandato al 2021, in certi casi anche ad ottobre 2022. Esatto: tra tre anni. Non bastano i già infiniti tempi della giustizia nostrana. Ora ci si mettono pure i migranti. Va dato atto che la "colpa" di tali rinvii non è del presidente Maria Cristina Salvadori. Per carità. C'è una legge (quella Minniti-Orlando) che garantisce ai ricorsi degli stranieri contro il diniego dell'asilo una sorta di autostrada perché va gestita "in ogni grado in via d'urgenza". "La trattazione prioritaria per legge delle cause di protezione internazionale - si legge infatti nel decreto bolognese - impone inevitabilmente il differimento delle altre numerose cause già fissate per la precisazione delle conclusioni". L'obiettivo era quello di accelerare le decisioni che ingolfano i Tribunali. Ma in questo caso ha prodotto un altra conseguenza: il sorpasso dei migranti e il rinvio delle altre cause. Il problema non è solo delle corti di Appello. A gennaio il presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, aveva lanciato l'allarme: un aumento "inatteso" nel 2018 dei ricorsi civili in terzo grado in materia di protezione internazionale (+512,4%). David Ermini, vicepresidente del Csm, parò addirittura di "emergenza". In fondo il sistema è ormai acclarato: l'immigrato sbarca, presenta una domanda di asilo e poi attende di essere convocato dalla Commissione territoriale. Questa lo ascolta, valuta la sua istanza e poi decide: status di rifugiato, protezione sussidiaria o diniego. In caso di bollino rosso, però, lo straniero ha tempo per presentare un ricorso in primo grado. Fino alla riforma del 2017 era possibile presentare ricorso in Appello in caso di sentenza negativa, ora solo in Cassazione. Resta il fatto che nei Tribunali le istanze dei richiedenti asilo da giudicare sono ancora molte. E così non resta che rinviare al 2022 i cittadini che attendono giustizia.
Caro Travaglio, ora ti spiego che cosa è la prescrizione. Gian Domenico Caiazza 23 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Il direttore Marco Travaglio è ormai l’ultimo giapponese disposto a sfidare il ridicolo sostenendo che la prescrizione sia la causa della durata irragionevole dei processi. A lui non interessa che tutti, ma proprio tutti coloro che si occupano di processi penali – Csm, docenti di diritto e di procedura penale non uno escluso, oltre che gli odiati avvocati – affermano e certificano l’esatto contrario. Un magistrato non sospettabile certo di indulgenza verso le posizioni delle Camere Penali come Giuseppe Cascini ha recentemente detto che abolire la prescrizione dopo il primo grado è come togliere lo sperone al cavallerizzo: il cavallo se la prende comoda, o addirittura si pianta lì. Niente da fare: dato che questa bufala sulla prescrizione che stimola le impugnazioni gliel’ha detta Davigo, non gli farà cambiare idea nemmeno il Padreterno. Qui mi limiterò ad elencarvi le ragioni – facilmente comprensibili, d’altronde – per le quali l’interesse ad impugnare una sentenza di condanna sia del tutto indifferente alla prospettiva della prescrizione.
1. Vengo condannato in un processo nel quale mi protesto innocente: impugnerò in Appello per essere assolto, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato.
2. Vengo condannato in un processo nel quale riconosco di aver commesso il fatto, ma ritengo che sia errata la sua qualificazione giuridica (sono condannato per estorsione, ma ritengo di avere commesso tutt’al più un esercizio arbitrario delle mie ragioni). Ho interesse ad impugnare per vedere corretta la qualificazione giuridica del fatto, ed essere conseguentemente condannato ad una pena assai meno grave, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato.
3. Vengo condannato per un reato che ho pienamente confessato, ma ad una pena che reputo esagerata: proporrò l’appello per ottenere una pena più equa, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato.
4. Vengo condannato per un reato che ho pienamente confessato e alla pena edittale minima, ma non mi sono state concesse le attenuanti generiche: proporrò appello per ottenerne la concessione, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato.
5. Sono reo confesso, la pena edittale è minima, mi sono state concesse le attenuanti generiche ma non fi no alla misura massima di un terzo della pena: ho interesse ad impugnare la sentenza per risparmiare anche solo una settimana o un giorno di carcere, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato.
6. Sono reo confesso, ho ottenuto il minimo della pena e le generiche in misura massima. Qui non ho aspettative modificative della decisione, ma ho interesse a che la pena vada in esecuzione il più tardi possibile, cercherò di sistemare al meglio la mia vita e quella della mia famiglia prima di pagare il mio debito con la giustizia, nella speranza che possa magari intervenire con il tempo qualche provvedimento clemenziale e qui sì, finalmente, anche -dico: anche nella speranza che possa maturare la prescrizione (ovviamente, se parliamo di reatucci di modestissimo rilievo, perché ormai i termini di prescrizioni dei reati di maggiore allarme sociale oscillano tra i 15 ed i 45 anni e più).
Questa è la semplice realtà, la pura e banale verità, che per il direttore Travaglio è tuttavia notoriamente un optional. Ci si dica in quale delle ipotesi sopra elencate l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado mi convincerà a non proporre appello. D’altronde, non a caso il 75% delle prescrizioni maturano prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Ma Travaglio, si sa, piuttosto che studiarli, i numeri preferisce darli. Ultima avvertenza anti-bufale: quando proponi un ricorso per Cassazione manifestamente inammissibile, dunque solo per guadagnare tempo, la prescrizione del reato retroagisce al momento della proposizione dell’appello; dunque, non è possibile ottenere alcun risultato prescrittivo proponendo ricorsi per Cassazione senza capo né coda. Qualcuno lo spieghi a Travaglio, ed ai suoi (consapevoli) suggeritori.
Travaglio, auto-garantista, ogni tanto. E il nemico della prescrizione chiese: prescrivetemi. Ahi, ahi…Piero Sansonetti 22 Novembre 2019 su Il Riformista.it. In genere il Fatto Quotidiano – giornale con il quale mi è capitato talvolta di polemizzare – è molto attento a non “bucare”, come si dice in gergo giornalistico, una notizia. “Bucare una notizia” vuol dire farsela sfuggire. E il buco, per un giornale di notizie come è “Il Fatto”, è tanto più grave tanto più considerevole è la notizia dimenticata. Ieri Il Fatto ha avuto l’incidente. Ha preso – immagino involontariamente – un buco clamoroso proprio su un argomento sul quale, di solito, è ferratissimo: la prescrizione. Il Fatto è impegnato ventre a terra nella battaglia per difendere la riforma della prescrizione firmata Lega-5 Stelle, che fu varata un anno fa da Salvini e Bonafede con la promessa che sarebbe entrata in vigore solo dopo una profonda riforma del processo penale, da realizzare in 12 mesi, e questa riforma del processo penale avrebbe reso velocissimi tutti i processi e dunque reso inutile la prescrizione. Il ragionamento non funzionava benissimo, perché uno poteva chiedersi: ma se il processo diventerà velocissimo e dunque la prescrizione non scatterà più per nessuno, che bisogno c’è di abolirla o di accorciarla? Per fortuna quasi nessuno – tranne i soliti 25 garantisti postmanzoniani – fecero la domanda, e Bonafede continuò la sua marcia verso l’abolizione della prescrizione, a petto in fuori, spalleggiato (o forse guidato) da Travaglio, dimenticandosi del tutto della riforma del processo che, infatti, ora che sta scadendo l’anno (la promessa era che sarebbe stata approvata prima del 31 dicembre) non è stata ancora nemmeno scritta. Vabbè. Così Il Fatto decide di dare battaglia. Anche perché in queste ore il Pd sembra che sia un po’ sui carboni ardenti, dal momento che non gli va di sostituirsi alla Lega e firmare una riforma non solo asperrimamente giustizialista ma anche evidentemente incostituzionale (in violazione palese dell’articolo 111). E ieri, per dare forza giornalistica alla sua campagna, Il Fatto pubblica le foto segnaletiche di una decina di persone famose che hanno usufruito della prescrizione. Non sappiamo se queste persone fossero colpevoli o innocenti, sappiamo che hanno passato molti anni della loro vita sotto processo. Io credo che una persona che non sia stata condannata vada considerata innocente, e non esposta, con la sua foto, al ludibrio pubblico. Ma questo probabilmente per un mio difetto congenito, di garantismo eccessivo e di esagerato rispetto per le norme costituzionali. È chiaro che da questo difetto Travaglio e il suo giornale sono esenti. Quindi niente da eccepire sulla loro campagna. Il problema è che nello scegliere le foto Travaglio ha dimenticato il personaggio che, tra i prescelti (dopo Berlusconi) era certamente il più celebre. Chi? Lui: Travaglio. Già, Travaglio fa parte di quella schiera abbastanza folta di italiani che ha chiesto la prescrizione. Gli altri appartenenti alla schiera non se ne vergognano, lui sì. E tanto se ne vergogna che censura il suo stesso giornale e non pubblica la sua fotografia. Se pensate che scherzo, sbagliate. Potete verificare la cosa personalmente se avete un computer e la possibilità di navigare sul web. Andate sul sito della Cassazione e cercate la sentenza emessa dalla quinta sezione penale, la numero 14701 del 2014. In quella sentenza la Cassazione fa un bel lisciabbusso a Travaglio, perché definisce del tutto infondato il suo ricorso e lo rigetta confermando la sentenza di appello e dunque negando la prescrizione. Cioè che è successo? Travaglio (insieme alla direttrice dell’Espresso dell’epoca) viene condannato per diffamazione nei confronti di Previti; lui ricorre in appello e viene condannato di nuovo; allora va in Cassazione per chiedere l’assoluzione o in subordine la prescrizione. La Cassazione gli dice: tu hai fatto un ricorso infondato solo per perdere tempo e strappare la prescrizione. No, il tuo ricorso lo rigettiamo e la prescrizione te la sogni. Una figura barbina. Anche perché uno degli argomenti principali della polemica Travagliesca è sempre stato quello: gli avvocati la tirano per le lunghe e usano i ricorsi solo per guadagnarsi la prescrizione. Appunto. La cosa bella è che questa cosa io l’ho già scritta tempo fa. E Travaglio mi ha risposto con un argomento francamente fantastico. Mi ha detto: «Ma la prescrizione non l’ho chiesta io, l’ha chiesta il mio avvocato». Lo giuro: ha risposto proprio così. Pare che una volta che si operò di tonsille, Travaglio rassicurò i suoi: non mi sono operato, mi ha operato il medico! Scajola? Ma va là, Scajola è un dilettante…
Prescrizione, i falsi miti sfatati da Mascherin. Errico Novi il 22 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’audizione alla Camera, un pm: «Appelli solo per far cadere il reato». Ma I dati dicono altro. Il presidente del Cnf ribalta le tesi: «In secondo grado riformata la metà delle sentenze. Il 70% dei reati muore prima». Difficile credere che un dibattito sulla giustizia possa reggersi sul pregiudizio. Eppure nel caso della prescrizione forse è così. E non è difficile comprendere il motivo: la prescrizione è la sublimazione ultima dell’identità dei 5 Stelle. Nati dall’insofferenza nei confronti della cosiddetta casta, dal sogno di sbarazzarsene, e perciò persuasi dall’idea che l’estinzione del reato possa essere travisata nello scudo dei potenti per mano dei loro abili difensori. Una leggenda, che pure si è fatta strada nell’immaginario collettivo. E che a volte trova traduzioni sorprendenti nelle analisi di pur apprezzati operatori della giustizia. L’esempio è offerto dall’audizione svolta due giorni fa nella commissione Giustizia della Camera che, sulla proposta di abrogare la “nuova” prescrizione, ha invitato a esprimersi un magistrato e un avvocato. Più precisamente il sostituto procuratore di Verona Valeria Ardito e la figura che rappresenta l’intera avvocatura italiana, il presidente del Cnf Andrea Mascherin. Ebbene, la magistrata ha introdotto il proprio intervento con un’analisi secondo cui abolire la prescrizione dopo il primo grado favorirebbe un’accelerazione della macchina penale. «Ci sono casi in cui l’impugnazione viene proposta al solo fine di raggiungere la prescrizione, com’è desumibile dalla forma stessa in cui viene redatta, condensata in poche generiche righe». Il presidente del Cnf ha ascoltato con pazienza. Poi, al momento di intervenire, ha ribaltato quel paradosso: «Un po’ invidio il sostituto procuratore di Verona, che ci ha spiegato in poche battute come si comporta un difensore. Lo ha fatto con imprecisione e sfumature persino offensive. Non ambisco a fare lo stesso», ha aggiunto, «non saprei spiegare come si fa il pm. Ma so che il 70 per cento delle prescrizioni interviene nel corso della fase preliminare», ha proseguito rivolto direttamente alla dottoressa Ardito, «ossia quando a lavorare siete solo voi e l’avvocato non c’entra nulla». La difficoltà, con un tema simile, è anche che l’ordalia mediatica sbriciola il nocciolo della verità sostanziale. Mascherin lo ha ricordato ai deputati della commissione Giustizia quando ha fatto notare che «la modifica alla prescrizione prevista dalla norma approvata un anno fa interviene senza che si sia ancora avuto modo di verificare gli effetti della riforma Orlando. Una revisione che ha innalzato i termini prescrizionali di alcuni reati a 30 o 40 anni». Di cosa si parla, dunque, chiede implicitamente il presidente del Cnf, quando si indica nelle impugnazioni pretestuose la causa della prescrizione dei reati, se in realtà «a voler considerare le statistiche nazionali, il 48 per cento delle sentenze viene riformato in secondo grado?». E non è che «dal punto di vista del cittadino interessi solo se una condanna viene ribaltata in assoluzione: fa un’enorme differenza, dal suo punto di vista, se la pena detentiva viene ridotta o se si riduce a una multa». Altro che impugnazioni dilatorie. Dopodiché Mascherin ha ricordato un particolare non trascurabile: «Il processo è giusto se ha una ragionevole durata». Il secondo dei due principi è coessenziale al primo, perché essere sottoposti allo stillicidio di un procedimento dalla durata decennale è di per sé una pena, evidentemente ingiusta. Così il vertice dell’istituzione forense prima ricorda che del processo «si deve preservare, prima dell’efficacia, l’effettività del diritto di difesa», poi aggiunge: «È evidente come nessuno si auguri che un processo abbia una durata indeterminata. E sono sicuro che anche il ministro della Giustizia Bonafede e il suo partito non abbiano alcuna intenzione di renderlo infinito. Eppure è con la norma che dopo la sentenza di primo grado interrompe il decorso della prescrizione, a profilarsi il rischio di un processo infinito. Quanto meno in mancanza di un condivisibilissimo intervento sui tempi, preventivato come necessario dallo stesso guardasigilli». E qui interviene il giudizio politico, ma innanzitutto tecnico- giuridico, proposto dal presidente del Cnf ai deputati: «Contrarietà alla proposta Bonafede in mancanza di una controprova che, dopo la riforma, i tempi del processo possano ridursi». Non è casuale l’espressione «controprova». Perché poco dopo Mascherin la declina con la forma alternativa di «studio d’impatto». Ne servirebbe uno serio, dice: «Andrebbe verificato per un anno o un anno e mezzo l’effetto apportato da una riforma del processo penale alla durata dei giudizi: potremmo renderci conto che un intervento sulla prescrizione non serve più». Ma al di là degli esiti, conta il metodo. È il senso dell’audizione, voluta dai componenti della commissione Giustizia per valutare meglio la proposta dell’azzurro Enrico Costa, semplicemente abrogativa del blocca- prescrizione. Il metodo, come dice Mascherin, è la verifica concreta, scientifica. Non l’ipotesi irreale di un’avvocatura che propone impugnazioni per passare sotto lo striscione del reato prescritto. È solo la verifica concreta che può dire, senza equivoci, se una riforma funziona davvero.
Processi lenti, condannato 3 anni fa ancora niente motivazioni. Giulia Merlo il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Una vicenda in cui gli avvocati delle parti civili e quello dell’imputato aspettano senza esito il deposito delle motivazioni da ben tre anni e cinque mesi. Truffa, sostituzione di persona, costruzione di falsi profili creditizi: per questi reati, nel 2016 la nona sezione del tribunale penale di Napoli ha condannato un ex direttore di banca e i suoi complici a nove anni di reclusione, novemila euro di multa e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili per un milione e 300 mila euro. Peccato che la sentenza non sia stata nè eseguita nè sia appellabile: gli avvocati delle parti civili e quello dell’imputato aspettano senza esito il deposito delle motivazioni da ben tre anni e cinque mesi, contro i novanta giorni massimi previsti dal codice ( nel caso di stesura di una sentenza particolarmente complicata). A denunciare il caso è il penalista napoletano Luigi Pezzullo, che nel procedimento assiste una delle parti civili: «E’ una situazione paradossale», ha detto il legale all’Ansa, per la quale «si configurerebbe anche il reato di omissione di atti di ufficio, in presenza delle istanze di sollecito». L’avvocato, infatti, ha fatto sapere di aver presentato addirittura tre istanze di sollecito, l’ultima delle quali indirizzata al presidente coordinatore di tutte le sezioni del Tribunale di Napoli. L’ipotesi accusatoria confermata dalla condanna in primo grado riguardava una associazione per delinquere finalizzata a truffare una banca, attraverso la ricettazione di assegni e documenti di identità utilizzati per l’apertura dei conti correnti. L’inchiesta, ora, deve fare i conti anche con il decorso dei termini di prescrizione: il rinvio a giudizio era stato disposto nell’ottobre 2009 e, pur ipotizzando ora un immediato deposito delle motivazioni, l’eventuale inizio del processo di appello sarà sicuramente fissato nel 2020, trascorsi i quarantacinque giorni per proporre il ricorso e undici anni dopo l’inizio del processo di primo grado. Sembra che i vertici del tribunale partenopeo si siano attivati per porre rimedio al ritardo e per verificare che non esistano anche altri casi come questo di ritardo nel deposito delle motivazioni.
L’altolà di avvocati, studiosi, magistrati: il processo infinito è degli Stati autoritari. Se l’intera comunità dei giuristi è contro la prescrizione abolita dopo il primo grado, è perché riflette senza avere l’ansia del consenso e sa che chi è imputato non può esserlo a vita. Bartolomeo Romano, ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo, il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. Riflettere ancora sul tema della prescrizione, dopo tutto quanto si è scritto e dopo tutto quanto si è detto, potrebbe apparire inutile. O potrebbe sembrare un tentativo di entrare nell’attuale dibattito politico mediante il cavallo di Troia di un argomento giuridico. Ma la verità è che, del tutto a prescindere dal colore del governo, e dalle cromatiche preferenze personali, la questione colpisce il cuore della nostra democrazia, perché segna i delicati rapporti tra lo Stato e le libertà del cittadino ( anzi, di chiunque commette un reato sul territorio dello Stato: dunque, anche degli stranieri e degli apolidi). È bene sottolinearlo sin da subito: in linea generale, non è certamente un bene che, nel nostro Paese, un numero rilevante di procedimenti penali si concluda, purtroppo, con la dichiarazione di estinzione del reato per tale causa. Ma per risolvere, o cercare di contenere tale negativa situazione, bisognerebbe, piuttosto che dilatare a dismisura la prescrizione, tentare di studiarne le cause e cercare, conseguentemente, di porvi rimedio: è un problema che va approfondito tecnicamente, prima ancora che discusso politicamente. Un grande uomo politico italiano, ma anche grande economista, Luigi Einaudi, affermava che occorre “prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”: ecco, mi sembra che, spesso, la prima fase, la più difficile e faticosa, la si salti a piè pari. Ora, chi conosce meglio il diritto ed il processo penale? Innanzitutto, avvocati, magistrati, professori universitari. E sul tema della prescrizione, pur con comprensibili sfumature, tali “esperti” sono prevalentemente orientati nel medesimo senso. Per rimanere ai fatti più significativi e recenti, il Consiglio nazionale forense ha fatto pervenire al ministro della Giustizia la richiesta di rinviare l’entrata in vigore della norma sulla prescrizione. Le Camere penali Italiane hanno svolto una ricerca, con l’ausilio di Eurispes, sulle vere ragioni della lunga durata dei processi in Italia che in nessun caso è dovuta alle attività difensive. Le stesse Camere penali hanno, tra l’altro, incentrato il loro recente congresso straordinario di Taormina sulla figura dell’imputato per sempre, frutto di un processo senza prescrizione, ed hanno indetto vari periodi di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale ( sino alla prossima dei primi giorni di dicembre, con il ricorso ad una manifestazione oratoria continua). E anche il Consiglio superiore della magistratura, nel parere del 19 dicembre 2018, è stato chiarissimo nel criticare la riforma, in relazione alla circostanza che la maggiore incidenza del decorso dei termini di prescrizione si registra nella fase delle indagini preliminari e che non vengono introdotte previsioni acceleratorie del processo penale. Inoltre, il Csm ha notato come la prescrizione sia uno dei maggiori fattori di accelerazione dei gradi di giudizio successivi al primo, essendo il rischio prescrizione uno dei criteri di priorità. ome pure, su sollecitazione dell’Ucpi, oltre 150 professori ( tra i quali, anche chi scrive) prevalentemente di Diritto e Procedura penale, hanno sottoscritto un appello al presidente della Repubblica sottolineando i profili di illegittimità costituzionale della riforma della prescrizione. Ed altri se ne sono poi aggiunti. Come è possibile che ci sia stata questa convergenza, da parte di diversi attori del dibattito giuridico e da differenti posizioni? Io credo perché chi conosce, studia e vive il diritto ed il processo penale, senza paraocchi ideologici, è più libero e ragiona più lucidamente: e non deve cercare il (facile) consenso. La verità è, infatti, che sulla prescrizione si sono spesso misurate forze e ideologie politiche, piuttosto che opzioni tecniche, con un superamento della disciplina codicistica ad opera della cosiddetta ex Cirielli nel 2005, poi con la stagione del raddoppio dei termini di prescrizione, sino alla riforma Orlando, nel 2017, con un significativo aumento dei termini, per giungere alla riforma Bonafede, nel 2019, con la prospettata sospensione ( rectius, abolizione) della prescrizione dopo il primo grado, a far data dal 1° gennaio 2020, addirittura pure in caso di assoluzione. Soprattutto tale ultima riforma mette a dura prova princìpi scolpiti nella Costituzione e negli atti internazionali: dalla presunzione di non colpevolezza ( articolo 27 Cost.) o di innocenza ( art. 6 Cedu), al diritto inviolabile di difesa, ai sensi dell’articolo 24, comma secondo, Cost.; dalla durata ragionevole del processo ( art. 111 Cost., art. 6 Cedu), sino alla stessa funzione rieducativa della pena ( art. 27 Cost.). Ma occorre considerare anche la posizione della vittima, poiché una tardiva tutela rappresenta certamente una salvaguardia cattiva ed inefficace. In uno stato liberale e democratico, lo Stato non può tenere sotto scacco ( e, tendenzialmente, sotto ricatto) il cittadino; viceversa, in uno Stato autoritario, il suddito è sempre nelle mani del potere, che può decidere di tenerlo in sospeso sine die. La “spada di Damocle” rappresentata dalla eventualità di essere sottoposto a processo penale o di avere inflitta una condanna tardiva, anche in relazione a reati “bagatellari”, può conculcare la libertà personale e le stesse libertà politiche.
Il guaio dei rinvii delle udienze, il giudice che diventa “sesto”: e il processo penale è solo rituale. Pierpaolo Groppoli, Avvocato, il 7 Novembre 2019 su Il Dubbio. Rendere normale il cambio del giudice demolisce il metodo del cross examination: non c’è più confronto ma vale solo la lettura dei verbali.
Dal giudice terzo … al giudice quarto, quinto, sesto.
1. “Quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il giudice prosegue nel giorno seguente non festivo”.
2. Il giudice che ha partecipato al dibattimento è quello che deve emettere la sentenza. Due regole basilari del processo penale che sembra complichino la vita della magistratura italiana.
Prima regola: come accade in molti ordinamenti stranieri, appare di buon senso che se non si riesce a finire un lavoro nella stessa giornata si prosegua «nel giorno seguente non festivo». Il dibattimento deve essere concentrato nel tempo. E’ l’unica fase di un processo penale in cui i testimoni vengono sottoposti alle domande dell’Accusa e della Difesa innanzi ad un giudice. Oltre al Codice, lo ricorda anche la Corte Costituzionale, a maggio di quest’anno: l’esame ed il contro- esame dei testi di un processo funzionano solo se fatti a breve distanza, solo così il giudice può cogliere gli “aspetti non verbali” delle dichiarazioni di un teste: la tensione o la tranquillità, le contraddizioni o gli impacciati “non ricordo”; circostanze fondamentali per decidere della credibilità di un teste. Nell’esperienza quotidiana dei Tribunali italiani cosa accade? I rinvii di un’udienza registrano, incomprensibilmente, intervalli di mesi o addirittura anni, con buona pace del Codice. Possibili rimedi? Nessuno. Il Legislatore, peccando forse di ingenuità, non ha sanzionato la violazione della regola. Ergo, la regola c’è, ma i Tribunali italiani la violano più o meno costantemente da 30 anni, da Palermo ad Aosta, perché non vi è alcuna sanzione processuale.
Se si vìola costantemente la prima regola anche la seconda – il giudice che ha partecipato al dibattimento deve essere lo stesso che emana la sentenza- diventa di complicata applicazione. Se si celebrano solo due udienze in un anno, il rischio di “incidenti di percorso” estranei al processo, aumentano esponenzialmente. Maternità, pensionamenti, cambi di sede impediranno al giudice di arrivare ad emanare la sentenza. Quale problema voleva evitare la seconda regola? Un nuovo giudice non può decidere correttamente se non ha partecipato a quella faticosa e complessa attività della cross- examination a cui sono sottoposti i testi, i consulenti, le presunte vittime e gli imputati, in sintesi al cuore del processo penale. Non basta leggere i verbali delle udienze precedenti. Conseguenza: se cambia il giudice, il dibattimento deve ripartire da zero, tutte le attività svolte sono inutilizzabili ai fini della decisione con evidente spreco di danaro, di personale pubblico e di tempo.
Soluzione: se si rispettasse la legge, ovvero si fissassero le udienze in tempi stretti, il problema di cambiare giudice durante lo svolgimento di un processo penale sarebbe statisticamente irrilevante. Quella che, a torto, viene considerata una mera irregolarità burocratica ovvero l’errata programmazione delle udienze ha conseguenze gravi sui principi fondamentali del processo penale. Non serve cambiare una regola fondamentale a garanzia del buon andamento del processo, i giudici dovrebbero organizzare il calendario delle udienze secondo quanto previsto dal Codice di procedura penale. Questa soluzione deve essere sembrata eccessivamente semplicistica alle Sezioni Unite della Cassazione. Il 10 ottobre 2019 sono bastate 29 pagine ( Sent. SS. UU. N. 41736/ 2019) per cancellare un principio fondamentale del processo penale: se cambia il Giudice, la Difesa ha il diritto di chiedere di ricominciare nuovamente il processo, ma «deve indicare specificatamente le ragioni che impongono tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa».
Traduzione: la difesa dell’imputato che rivendica il diritto al buon andamento del processo, opponendosi all’utilizzo degli atti raccolti dal precedente giudice, da oggi, per poterlo esercitare dovrà spiegarne le ragioni al nuovo giudice, con motivazioni che suonerebbero più o meno così: “Egregio Giudice, non sei in grado di comprendere appieno tutto quello che è stato fatto in tua assenza, quindi ricominciamo da zero”, e deve dirglielo al giudice che valuterà la sua richiesta. Il massimo organo della giurisdizione italiana, le Sezioni Unite della Cassazione, sacrifica sull’altare di una discutibile, certamente non condivisibile, interpretazione dell’efficientismo un pilastro logico, prima ancora che giuridico, del processo penale, così come voluto dalla Legge. In definitiva, l’imbarazzante lunghezza del processo penale italiano non dipende dai soliti vecchi ingredienti della ricetta: · Notifiche sbagliate e tempi morti tra fasi del procedimento; · Pubblici Ministeri che cambiano ad ogni udienza, con evidente spreco di personale pubblico; · udienze fissate a tale distanza temporale, da rendere impossibile a chiunque ricordare cosa è successo la volta precedente, con evidente svilimento dell’oralità.
Occorre aggiungere il nuovo ingrediente: rendere normale il cambio del giudice, che può leggersi i verbali delle precedenti udienze, demolendo il metodo dialettico della cross- examination. In attesa del tocco dello “Chef” ad inizio anno 2020: l’abolizione della prescrizione, surreale soluzione alla disorganizzazione amministrativa del processo penale.
Sorprendersi a questo punto che i mass- media rilancino una visione del processo penale ormai ridotto a vuoto rituale, appare una vera ipocrisia: i cittadini, orientati da talk- show in cui viene spacciata una verità pre- confezionata a forte matrice colpevolista, percepiscono il processo come ostacolo all’accertamento della verità, vivono le assoluzioni dell’imputato come fallimento del sistema giudiziario. Si aggiunga il mantra della certezza della pena e l’involuzione culturale del nostro Paese è servita.
Azione penale obbligatoria, così la giurisdizione supera l’eterno miraggio. Errico Novi il 25 Ottobre 2019 su Il Dubbio. L’ultimio caso a Brescia: “tagliati” oltre 2000 fascicoli. I vertici della corte d’Appello lombarda lasciano I processi minori sul binario della prescrizione. La riforma ha suscitato le iniziative dal mondo forense nell’ultima settimana. Nella riforma del processo non dovrebbero esserci cenni di depenalizzazione. È una materia rimasta vergine, anche nel corso dell’intenso confronto svolto, con il guardasigilli Alfonso Bonafede, da avvocati e magistrati. Eppure l’ordine giudiziario, nel terreno di frontiera che è l’amministrazione quotidiana della macchina processuale, opta ormai da tempo per una depenalizzazione di fatto, preferita all’ipocrita megalomania della giustizia onnivora. L’ultimo esempio viene dal distretto di Brescia, dove i vertici degli uffici hanno convenuto di dare assoluta priorità ad alcuni procedimenti. Innanzitutto a quelli per i quali la legge già prevede meccanismi accelerativi e, immediatamente dopo, ai giudizi penali relativi a illeciti di forte impatto per lo specifico contesto lombardo, legati dunque all’economia. Si è deciso, perciò, di considerare come “perdita inevitabile” la mancata definizione di altri procedimenti, destinati a finire prescritti nei successivi 24 mesi. A darne notizia è stato il Corriere della Sera dieci giorni fa. E la notizia è di quelle destinate a far scalpore. Perché il contenuto implicito di simili linee guida è evidente: addio all’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria. Addio al miraggio efficientista dei fascicoli messi tutti — fino a quello più bagatellare — sull’illusorio binario della definizione. Accettazione serena, e condivisa da pm e giudici, di una prescrizione che estingue una parte non piccola di procedimenti: circa 2.000 su 6.500 istruiti dai pm, nel caso specifico. Ci sono due piani di lettura. Primo: la scelta compiuta negli uffici giudiziari della Corte d’appello di Brescia ( di cui fanno parte anche i Tribunali di Bergamo, Cremona e Mantova) è solo la versione codificata di una prassi diffusissima. Nella gran parte dei grandi distretti già si assiste a una “selezione naturale indotta”, per così dire: vengono lasciati sul binario morto della prescrizione tutti quei fascicoli che non sarebbe possibile trattare fruttuosamente. Inutile pretendere che la giustizia sia una catena di montaggio all’americana. «La giurisdizione deve assicurare qualità, non un vuoto produttivismo», nella visione di Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia e tra i principali fautori delle linee guida insieme con Vittorio Masia, che presiede il Tribunale del capoluogo. Prima ancora che arrivi la riforma, è già arrivata la giurisdizione in carne e ossa. Superare l’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria è oltretutto uno degli obiettivi dell’Unione Camere penali, che nel ddl costituzionale per il quale ha raccolto 72mila firme, e che ora è all’esame di Montecitorio, aveva previsto un’indicazione per via legislativa, cioè parlamentare, delle priorità nell’azione penale. Il tema ha finito per essere il punto di caduta di molti dibattiti organizzati nel corso di questa settimana dalle Camere penali territoriali, in coincidenza con i cinque giorni di astensione dalle udienze proclamati dall’Ucpi. Incontri che hanno di nuovo visto avvocati e magistrati condividere le stesse analisi, innanzitutto sul rischio che lo stop alla prescrizione tenda ad aggravare quel sovraccarico a cui opzioni drastiche come quella adottata a Brescia tenderebbero a rispondere. Manifestazioni si sino tenute per tutta la settimana a Torino come a Benevento, a Bari, come a Frosinone e a Milano e ancora se ne terranno oggi. Come a Bologna, dalla cui Camera penale arriva una testimonianza di particolare significato: l’adesione di realtà associative dell’avvocatura anche esterne al campo dei penalisti, dalla Camera civile alle sezioni locali di amministrativisti e tributaristi, fino all’Aiga e con la piena condivsione, sul piano locale come su quello nazionale, dell’Ocf. «È segno», nota il presidente della Camera penale bolognese Ettore Grenci, «che fa comprendere come sulla riforma della prescrizione vi sia una diffusa preoccupazione che ha toccato la sensibilità non solo deipenalisti, ma di tutto il mondo forense». Alle 10 di stamattina tutta l’avvocatura del capoluogo emilano si ritroverà per un sit in davanti al Tribunale «con la toga addosso». Un «fatto storico» per Grenci. E la riprova che l’efficienza della giustizia penale sta a cuore non solo a chi, con i paradossi dell’obbligatorietà e della prescrizione, fa i conti ogni giorno.
Processi "lumaca", oltre 7 anni per assolverlo dal furto di 5 cucchiai. L'assurda vicenda che vede protagonista un uomo di 64 anni accusato di aver rubato 5 cucchiai dal carcere "Cavallacci" di Termini Imerese, nel palermitano. Vincenzo Ganci, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. Avrebbe rubato 5 cucchiai dal carcere "Cavallacci" di Termini Imerese e per questo è finito a processo. La cosa più assurda della vicenda però, è che ci sono voluti ben sette anni e mezzo per giudicarlo e assolverlo. Protagonista dell'assurda vicenda - raccontata sulle pagine del Giornale di Sicilia - è Antonino Cascino 64enne, che nel 2012 si trovava in carcere per scontare una pena per ricettazione. "Il mio è stato un gesto di solidarietà", ha detto l'imputato difeso dall'avvocato Domenico Trinceri. Il furto sarebbe avvenuto il 24 marzo del 2012, quando Cascino detenuto, aveva la mansione di occuparsi di rifornire della biancheria e di altri oggetti i detenuti. Avendo accesso al magazzino del carcere, secondo l'accusa, avrebbe approfittato della distribuzione di alcuni accappatoi per rubare le posate. Ad accorgersi del "furto", due agenti del penitenziario. Il sacco che portava Cascino infatti, suonava sotto il metal detector. Cascino con il suo avvocato, aveva fin da subito chiesto di essere ascoltato per chiarire l'accaduto. E il 3 marzo del 2014, spiega ai carabinieri, che doveva consegnare quei cucchiai ai detenuti stranieri, "che ne avevano fatto più volte richiesta ma non li avevano mai ricevuti". "Qualche giorno prima - racconta ancora Cascino - un assistente in servizio nel magazzino, mi aveva detto 'Quando arrivano provvedi'. É stato proprio quel "quando arrivano provvedi", che ha inguaiato l'uomo, che ammette: "La mia superficialità è dipesa dal fatto che non ho chiesto l'autorizzazione all'assistente di turno quando ho prelevato le posate". Nonostante le spiegazioni fornite, Cascino finisce a giudizio. Ma nonostante l'assurda accusa e la richiesta del pubblico ministero di condannare l'uomo a un anno, il giudice Fabio Raia non ha ravvisato alcun reato nel comportamento dell'uomo. E così, accogliendo la richiesta dell'avvocato difensore, ha deciso di assolverlo. Peccato però, che ci sono voluti sette anni e mezzo.
Testimoni assenti e notifiche errate: ecco cosa rallenta i processi. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Una sentenza su 10 viene prescritta e più del 25% è un’assoluzione. Quasi 1 udienza su 4 in Tribunale viene rinviata (peraltro in media a 5 mesi di distanza) per assenza dei testi citati, errori nella loro convocazione, notifiche omesse o sbagliate a imputati e difensori, e carenze logistiche della macchina giudiziaria. E quando arrivano le sentenze di primo grado, le prescrizioni ne falciano 1 su 10, ma le assoluzioni nel merito arrivano già in oltre 1 caso su 4 (1 su 3 nei reati monocratici come truffe e furti). Sono alcune delle dinamiche — spesso controintuitive rispetto a credenze comuni — fotografate dalla ricerca che gli avvocati dell’Unione Camere Penali Italiane (meglio che nell’esperimento del 2008) hanno svolto con l’Eurispes tra maggio e settembre su una udienza di 13.600 processi campionati dall’istituto statistico in 32 sedi di Tribunale, e che oggi presenteranno al congresso straordinario di Taormina. Il campione di 13.600 processi (su 1 milione e 182.000 pendenti nei tribunali) ne ha visti rinviare 10.828, nella maggioranza dei casi (63,9%) come normale conseguenza di istruttorie non concluse. Tuttavia un dato scorporato segnala carenza di senso civico nei cittadini e inconsapevolezza dell’importanza della veste di testimone: ben l’8,3% di udienze è infatti rinviato per assenza dei testi correttamente citati dal pm e un altro 1,5% per assenza di quelli della difesa. Rinvii ai quali sommare quelli per errori del pm (1,7%) o dei difensori (0,3%) nel convocare i propri testi. Proprio questo 0,3% è una delle cause di rinvio addebitabili agli avvocati, come i legittimi impedimenti (comunque a prescrizione fermata) dell’imputato (1,5%) e del legale (2,1%): in tutto, il 3,9%. Comprensibile, quindi, che Ucpi valorizzi che una quota ben più alta di rinvii di udienze (il 15,7%) vada invece sul conto o dei magistrati o comunque dell’apparato giudiziario. Se per il 3,3% è assente il giudice, se per lo 0,3% è mutato il collegio (con lettura degli atti assecondata dalle difese nel 59,6% dei casi), se per lo 0,2% non si presenta il pm, il grosso delle udienze salta infatti sempre a causa delle notifiche omesse o fatte in maniera irregolare dagli uffici giudiziari all’imputato, al difensore o alle persone offese: una voce — ulteriore rispetto all’1,7% di errate citazioni di testi del pm — che pesa per l’8,1% (con l’unica consolazione di essere meno dell’11,6% del 2008). E poi c’è un altro 2,4% di rinvii dovuti a problemi di logistica come il mancato trasporto dal carcere del detenuto, l’assenza di trascrittori, le carenze di aule, l’eccessivo carico del ruolo. Sui 13.600 processi monitorati, 2.807 sono andati a sentenza con il 43,7% di condanne, il 26,5% di estinzioni del reato, il 25,8% di assoluzioni nel merito (che salgono al 28,9% nei reati monocratici), alle quali sommare un ulteriore 4% di «non punibilità per particolare tenuità del fatto»: dato elevato, questo delle assoluzioni, giacché si registra già in primo grado dopo in teoria il doppio filtro operato dai pm con l’archiviazione in indagine o dai gup nei reati a udienza preliminare. E la prescrizione? Se era già noto dai dati ministeriali che il 70% matura prima del processo, ora la rilevazione Ucpi-Eurispes — al netto di altre cause di estinzione del reato come rimessioni di querela, esito della messa alla prova, oblazioni, morte dell’imputato — mostra che la prescrizione falcia il 10% delle sentenze di primo grado: cioè di prima del momento dopo il quale la legge grilloleghista (contro la quale gli avvocati scioperano dal 21 al 25 ottobre) inizierà a bloccarla dall’1 gennaio 2020 senza alcun contrappeso. Di certo nei tribunali si lavora, ma come in catena di montaggio: l’udienza dura in media quasi 8 ore, ma i processi sono così tanti che la durata media è 14 minuti nei monocratici e 40 nei collegiali.
Quell’uovo di serpente covato sotto la bomba della prescrizione. Perché l’abolizione dell’istituto prefigura vantaggi per le lobby. Francesco Forte il 16 Agosto 2019 su Il Dubbio. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede conosce bene la legge Pinto del 2001 che introduce il diritto al risarcimento per danno esistenziale patrimoniale e morale e – fra le varie fattispecie – considera la violazione al diritto, costituzionalmente garantito, alla ragionevole durata del processo. Invero Bonafede, nel 2002, un anno dopo la legge Pinto, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Firenze con la tesi “Il danno esistenziale. Il nodo al pettine della responsabilità civile” e, nel 2009, ha conseguito la laurea di dottore di ricerca all’Università di Pisa col tema del danno non patrimoniale alla luce del diritto europeo. Sa dunque che abolendo la prescrizione dopo il primo grado di giudizio i tempi dei processi possono allungarsi creando danni patrimoniali e morali ingenti, per i quali il risarcimento sarebbe troppo tardivo. Cesare Beccaria, nel capitolo 13 del libro “Dei delitti e delle pene”, sostiene la necessità della prescrizione per la certezza della pena. Questa, egli scrisse, generalmente svanisce se il processo tarda a concludersi. Solo per delitti atroci come l’omicidio essa deve esser lunga, perché la atrocità del reato desta a lungo un turbamento sociale, ma dovrebbe essere minore per gli altri reati, in rapporto alla loro minor gravità. Circa i processi che durano all’infinito, Beccaria nel capitolo 19 dedicato a “La prontezza della pena”, scriveva: «Il processo deve esser finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce di un reo? I comodi e i piaceri di un magistrato da una parte e dall’altra le lacrime e lo squallore di un prigioniero?». E aggiungeva: «La prontezza delle pene è più utile perché quanto è minore la distanza nel tempo che passa fra la pena e il misfatto, tanto più forte e durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena». «La certezza della pena, benché moderata – scriveva altresì Beccaria nel capitolo 20 – farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile castigo unito alla speranza dell’impunità». Il teorema che se ne ricava, utilizzando gli scritti economici del Beccaria, che, come professore, non aveva una cattedra di Diritto penale ma di Economia pubblica a Milano appositamente per lui istituita, è che una pena di 100 con probabilità di applicazione del 30%, ha una valore deterrente e punitivo del 30% soltanto, ossia quanto una pena di meno di un terzo erogata in tempi certi. Immagino che Alfonso Bonafede consideri Cesare Beccaria “un superato” e non si curi della sua tesi sul contrasto fra i comodi e i piaceri di un magistrato da una parte e dall’altra le lacrime e lo squallore di un prigioniero e le angosce di un reo, in attesa del giudizio definitivo. Però sulla base della tematica del danno esistenziale derivante dalla irragionevole durata del processo, nella sua “Rousseauviana” riforma ha introdotto l’ossimoro “niente prescrizione dopo il primo grado di giudizio” e “processo breve” tramite penalizzazioni dei magistrati che ne allungano indebitamente i tempi. Ora se, a causa dell’efficacia della regola che dispone penalizzazioni, il processo funziona, a che serve abolire la prescrizione? Semmai bisogna puntare sugli ostacoli oggettivi a un processo di durata ragionevole, adottando regole procedurali che riducano i tempi processuali e quelli dei ricorsi successivi delle parti in causa, dotando gli uffici giudiziari di adeguate strutture elettroniche a somiglianza di quelle dei settori della produzione e del commercio di beni della moda, con il sistema “cross channell” in cui l’azienda, con le tecniche informatiche, personalizza le vendite e le velocizza accelerando il ciclo dalla produzione al consumo, in modo interattivo. Analogamente la produzione di perizie, di indagini e la connessa attività processuale si possono monitorare e personalizzare per via informatica, sempre in modo interattivo. Ma se la regola sul processo breve non funziona, perché le strutture non sono ammodernate e il personale è inadeguato, perché abolire la prescrizione che dispone tempi lunghi ma definiti, per processi complessi e uffici ingolfati di procedimenti? Perché supporre che giudici, pubblici ministeri e loro collaboratori si comportino come “angeli “, anziché come esseri umani che tengono condotte che giovano a loro, ma non necessariamente ai tempi brevi dei processi, sol perché loro colleghi, che non sono neppur essi angeli, dovrebbero penalizzarli quando i processi appaiono “irragionevolmente” lunghi, muovendosi lentamente negli uffici congestionati, senza che si possa addebitare ciò al comportamento specifico di qualcuno? La teoria della burocrazia della scuola di “Public choice” ( scelte pubbliche) di cui io faccio parte, sostiene, anche sulla base di ampie ricerche empiriche, che, in ogni ramo della pubblica amministrazione in senso lato, ivi incluso il potere giudiziario, vi è la tendenza a condotte opportunistiche perché le persone non sono angeli ma esseri umani, e sono alla ricerca di tempo libero durante il servizio. Esso, per i funzionari di minor livello consiste nell’assentarsi dall’ufficio o nell’usarlo anche per gli affari personali. Per quelli di maggior livello consiste nel dedicarsi a ciò che dà prestigio, visibilità, eventuali futuri benefici in altre attività. Ed ecco, fra le perverse conseguenze dell’ossimoro di Bonafede, quella derivante dal principio giuridico dell’unità del diritto. Questo principio induce il Guardasigilli ad applicare il suo doppio criterio della abolizione della prescrizione dopo il primo grado e dei disincentivi ai processi “irragionevolmente” lunghi non solo al processo penale, ma ai reati, in ogni specie di processo, con effetti economici negativi per l’intreccio fra procedimento civilistico e penale, per i reati bancari e societari e per i fallimenti. Nei procedimenti amministrativi e delle autorità di controllo del mercato la distinzione fra sanzioni amministrative e penali è prevalentemente interpretativa. Nelle Commissioni tributarie ci sono tematiche penali. In tali casi, dovrebbe cadere la prescrizione dopo il primo grado? La Corte dei Conti innesta le richieste di risarcimenti per danno erariale ( anche morale) sull’accertamento di reati. Qui, di nuovo, interviene la teoria di Public Choice – di cui si può leggere vuoi nei miei Principi di Economia Pubblica,vuoi nel mio Manuale di Scienza delle Finanze ( edizione inglese Public Economics A Public Choice Approach) – sulle condotte opportunistiche dei burocrati ( nel senso ampio che include anche la Giustizia), connesse alla pressione dei gruppi di interesse. Se le Corti possono far durare i processi discrezionalmente senza prescrizione e sono affollate, ai gruppi di interesse con molto potere di pressione converrà influenzare gli apparati in vari modi per allungare i processi agli “amici” e accorciarli ai rivali. Le persone e le compagnie finanziarie e industriali che hanno più mezzi economici e più collegamenti con i poteri politici e gli organismi di interessi (associazioni di consumatori, sindacati, organismi di industriali e di commercianti etc.) potranno mobilitarsi per “difendersi nei processi” con ogni virtuosismo. L’idea del processo senza prescrizione è la sostituzione del principio movimentista della “lotta continua” con quello della “lite continua”, della minaccia eterna della pena come principio di massimizzazione del potere giudiziario discrezionale, ottenuto quando vengono abrogate una o più regole dello Stato di diritto fra cui il principio della “riserva di legge” in base al quale il potere giudiziario non è discrezionale. Nel regime senza prescrizione si massimizza questa scelta del potere giudiziario: con una differenza, non prevista da Cesare Beccaria, ossia che quando il processo coinvolge una compagnia molto ben organizzata e influente, in luogo delle lacrime e dello squallore del prigioniero, vi è l’impunità di chi, di fatto, ha il processo ma non la pena, come in un gioco del circo in cui il domatore ha di fronte una belva che ringhia ma non morde. Il meccanismo del mercato è inceppato e reso incerto dall’arbitrio giudiziario: che non nasce dalla natura umana dei giudici, dei cancellieri, dei loro inservienti, ma dalle regole: come spiega, appunto, la teoria di Public choice, in regime di razionalità limitata e di natura umana imperfetta, quando si tolgono regole che tutelano la libertà. Cesare Beccaria diceva che il diritto a punire è un modo con cui il cittadino si priva di un po’ della sua libertà, per poterne godere una maggiore. La regola ha valore generale. Il progetto Bonafede la viola. C’è da augurarsi una crisi di rigetto dei principi rousseauviani pentastellati in cui è stato covato questo uovo di serpente.
NON SIETE STATO, VOI. Mattia Feltri per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Un uomo ha cinquantaquattro anni la mattina in cui riceve un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Ne ha cinquantacinque quando, nella stessa indagine, finisce in prigione per nove mesi e ai domiciliari per tredici. Ne ha cinquantasette quando viene scarcerato. Ne ha sessantadue quando viene pronunciata l'assoluzione in primo grado. Ne ha sessantatré quando la procura fa ricorso. Ne ha quasi sessantaquattro quando viene condannato in appello. Ne ha sessantasei quando la Cassazione ordina la ripetizione dell' appello definendo la sentenza di condanna un perfetto esempio del modo in cui una sentenza non andrebbe mai concepita né scritta. Ne ha sessantanove quando l'ulteriore appello lo assolve. Ne ha settanta quando la procura oppone un nuovo ricorso. Ne ha quasi settantuno quando la Cassazione lo assolve in via definitiva. Ne ha settantadue quando viene indagato nell' ambito della (presunta) trattativa fra Stato e mafia con l' accusa di attentato a corpo politico dello Stato. Ne ha settantatré quando viene rinviato a giudizio. Ne ha settantasei quando, con rito abbreviato (e si sottolinea abbreviato), viene assolto in primo grado. Ne ha settantasette quando la procura fa ricorso in appello. Ne ha settantanove quando viene assolto anche in secondo grado, due giorni fa. L'uomo, che fra un mese compirà ottant' anni, si chiama Calogero Mannino, è stato cinque volte ministro democristiano e da venticinque anni e cinque mesi è sotto il sequestro di uno Stato incivile.
GIUSTIZIA ALL’ITALIANA. Liberoquotidiano.it il 24 maggio 2019. "Vi ricordate Antonio Bassolino?". Guido Crosetto, con un post su Twitter, attacca i magistrati per il caso dell'ex governatore della Campania. "Era sotto processo per peculato dal 2001. Nel 2016 il reato cadde in prescrizione, ma lui la rifiutò perché voleva un giudizio. Ora l'hanno assolto con formula piena. Nel 2019", sottolinea il "fratello d'Italia". Che con amarezza conclude: "Che volete che siano 18 anni di vita di un politico per un magistrato?". Bassolino, ex sindaco di Napoli, infatti è stato definitivamente prosciolto dal processo che lo ha visto imputato per irregolarità nella gestione dei rifiuti durante le emergenze nello smaltimento vissute a Napoli tra 2003 e 2005. I reati ipotizzati erano ormai prescritti, ma i giudici del tribunale di Napoli si erano espressi nel merito con una sentenza di piena assoluzione; la Procura aveva presentato appello per trasformare l'assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione, nei confronti di Bassolino e di altri 26 indagati. La Corte di Appello ha dichiarato però inammissibile l'impugnazione del pm e ha confermato la sentenza di primo grado.
Cinque anni per una sentenza. Processo per il “giudice pigro”. Giovanni M. Jacobazzi il 26 luglio 2019 su Il Dubbio. Annullata la sentenza di assoluzione emessa dal Csm. Il magistrato del tribunale della Toscana era diventato famoso perchè scriveva i provvedimenti fuori tempo massimo. Processo da rifare per il magistrato più “pigro” d’Italia. Le Sezioni unite civili della Cassazione hanno annullato la sentenza di assoluzione emessa dalla Sezione disciplinare del Csm della magistratura nei confronti di un giudice di un Tribunale della Toscana famoso per scrivere le sentenze fuori tempo massimo. La vicenda era stata riportata all’inizio dell’anno da Il Dubbio.
Tempi infiniti per un provvedimento. Il giudice toscano era finito sotto processo disciplinare per i ritardi con cui depositava i provvedimenti: alcune volte le parti dovevano attendere oltre cinque anni. La situazione era stata segnalata dal suo presidente di Tribunale che aveva evidenziato come il magistrato in questione non fosse nelle condizioni di depositare le sentenze rispettando i tempi previsti. E ciò nonostante avesse anche condiviso con lui un programma di smaltimento dell’arretrato. Il capo dell’Ufficio, infatti, vista la situazione fuori controllo, dopo aver esonerato il magistrato ritardatario dalla partecipazione alle udienze in cui non fosse relatore e dalla decisione dei reclami cautelari, aveva concordato una tabellina di marcia: depositare in un mese cinquanta sentenze e quaranta ordinanze, per un totale di tre provvedimenti al giorno. Il piano di rientro era però stato inutile. Dopo appena qualche mese il crono programma era saltato senza che fosse stato minimamente raggiunto l’obiettivo. Da qui, dunque, l’inevitabile avvio del procedimento disciplinare.
Gravi violazioni. Secondo il procuratore generale della Cassazione che aveva esercitato l’azione disciplinare, il magistrato ritardatario aveva violato i doveri di “diligenza e laboriosità”, determinando, nel quinquennio 2012- 2016, «una lesione evidente del diritto del cittadino ad una corretta e sollecita amministrazione della giustizia con conseguente compromissione del prestigio dell’Ordine giudiziario». A questo quadro bisognava anche aggiungere che il giudice era recidivo, essendo stato già condannato per avere, dal 2007 al 2012, depositato, sempre con ritardo di anni, altre centinaia di sentenze. «Ritardi gravi ed ingiustificati aveva sottolineato il pg – nonché pregiudizievoli del diritto delle parti ad ottenere la definizione in tempi ragionevoli del processo secondo quanto previsto dall’art. 111 co 2 della Costituzione e 6 CEDU». Il Csm al termine dell’istruttoria aveva però assolto il giudice ritardatario.
Una decisione a sorpresa. Una assoluzione che aveva destato più di una sorpresa, essendo in controtendenza con l’orientamento della disciplinare di Palazzo dei Marescialli, notoriamente inflessibile con chi ritarda, anche di poche settimane, il deposito delle sentenze. Figuriamoci quando i ritardi, come in questo caso, erano “istituzionalizzati”. La decisione assolutoria del Csm partiva da una premessa, e cioè che sarebbero tollerati, secondo una non meglio indicata giurisprudenza, ritardi superiori al triplo del temine legale. Una sorta di “extrabonus” temporale che il giudice può spendersi prima di essere sanzionato. Oltre a ciò, tralasciando alcune sentenze, la maggior parte dei ritardi si erano concentrati nel deposito delle “ordinanze istruttorie”. E questo, sempre a dire del Csm, non costituiva illecito disciplinare. A far pendere definitivamente la bilancia in favore del giudice, poi, il fatto che negli anni «non c’è stato alcun avvocato che si sia mai lamentato della gestione del ruolo del magistrato», ed alcuni motivi personali, come il ricovero di un familiare per dieci giorni in un ospedale, che gli avrebbero impedito il rispetto dei tempi. Di diverso parere il procuratore generale della Cassazione ed il Ministero della giustizia che avevano impugnato la sentenza davanti alla Sezioni unite civili della Cassazione.
Le questioni d’appello. E’ irrilevante il fatto che gli avvocati non abbiano mai protestato contro il giudice «in quanto l’illecito tutela il regolare corso della giustizia ed i principi del giusto processo». Sui i motivi personali che il giudice aveva come giustificazione, comprensibilissimi, «il giudice poteva ricorrere a periodi di congedo o aspettativa». Tali periodi di criticità, però, devono essere transitori ed eccezionali e non, come in questo caso, di durata ultra decennale. La decisione della Cassazione è arrivata nelle scorse settimane ed ha “bacchettato” i consiglieri del Csm con un lungo provvedimento. In estrema sintesi, il ritardo tollerato è quello fino al triplo del termine fissato per il deposito. La Corte di Strasburgo ha affermato che il ritardo non tollerabile è quello di un anno. Il Csm aveva ritenuto che la maggior parte dei ritardi era sotto l’anno, “dimenticandosi”, però, che quando questi ritardi sono numerosi hanno sempre rilievo disciplinare. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, era carente la motivazione. Si dovrà ora ripronunciare la Sezione disciplinare in diversa composizione.
«Avvocati e ricchi: l’attesa per il giudizio non venga risarcita». Sentenza-shock a Napoli: un giudice nega il risarcimento perché i legali sono «ricchi» e «abituati alle lungaggini» Errico Novi il 25 Maggio 2019 su Il Dubbio. Primo: siete ricchi. E quindi avete sbagliato voi a intestardivi in una causa per il recupero di una somma irrisoria (vista la vostra «condizione reddituale» ), pari a 694,84 euro. Secondo, siete avvocati. E in quanto tali abituati alle lentezze del sistema giustizia. Sapevate benissimo cioè che per recuperare i vostri 700 euro scarsi ci avreste messo un sacco di tempo. Ve la siete cercata. Quindi non meritate alcun risarcimento per l’irragionevole durata del processo civile, andato avanti per circa dieci anni. Non ha utilizzato affatto parole così sbrigative, un giudice della Corte d’appello di Napoli, settima sezione civile, nel rigettare le «pretese» di due professionisti del capoluogo campano. Non è stato così sprezzante. Ha citato sentenze della Cassazione, tanto per fare un esempio, quali precedenti utili ad avvalorare l’idea, cruciale nella stesura del “decreto di rigetto”, in base alla quale se uno ha lo studio «in Napoli alla via Carducci» è sicuramente benestante. Il magistrato in questione, per carità, ha redatto un “provvedimento decisionale”, non uno sberleffo da spettacolo di satira. Eppure i concetti richiamati nel decreto sono proprio quelli, incredibili, tradotti in modo sbrigativo all’inizio. E sono francamente un condensato di affermazioni sconcertanti. Vittime del rigetto- choc sono Sara Santochirico e Alessandro Faggiano. Due civilisti napoletani. Hanno lo studio nella ricordata via Carducci. Zona Chiaia. Mai avrebbero immaginato che scegliersi la sede professionale in un quartiere simile – che poi è comune a tantissimi professionisti napoletani avrebbe potuto tradursi in una specie di “colpa”. O quantomeno in un pregiudizio sfavorevole. Fatto sta che i due avvocati erano stati «nove anni, sette mesi e venticinque giorni» in causa con l’Inps. Due gradi di giudizio: il primo davanti al Tribunale di Nola, il secondo in Corte d’appello. Nel frattempo la loro vita è certamente evoluta sotto tanti aspetti. Ma dal settembre 2007 al febbraio 2018 quella causa con l’Inps è rimasta sempre lì. Si trattava di un credito che Santochirico e Faggiano intendevano recuperare dall’istituto di previdenza. A fine primo grado vengono loro offerti 988,83 euro. Li accettano «solo ed esclusivamente in conto maggiore avere», e fanno appello per recuperare gli altri 694,84 euro che si ritenevano, giustamente, in diritto di ricevere. Nel frattempo trascorre così tanto tempo che i due legali maturano anche il diritto all’equa riparazione per «violazione del termine di durata ragionevole del processo». Ricorrono in Corte d’appello per ottenere il risarcimento, e appunto arriva il decreto di cui sopra. La lesione per l’eccessiva attesa è, per il giudice, «insussistente», in quanto il procedimento avrebbe sforato i termini solo per la «pretesa» dei due professionisti nel veder riconosciuto un diritto. Va «tenuto conto dell’irrisorietà del valore della causa» (i quasi 700 euro) e le «condizioni personali dei richiedenti». Non solo, ma anche della «loro qualità di avvocati ( dunque abituati alle lentezze del sistema giudiziario» ). E stavolta i virgolettati non sono una parodia. Sono quelli del provvedimento. Che ci crediate o no.
· Processi lumaca: sì all’indennizzo anche senza istanza di accelerazione.
Processi lumaca: sì all’indennizzo anche senza istanza di accelerazione. Per la Consulta la domanda “non ha un’effettiva efficacia” e basare il risarcimento su essa negherebbe l’esercizio di un diritto. Simona Musco il 13 luglio 2019 su Il Dubbio. La domanda di equa riparazione per i processi lumaca non può dipendere dalla presentazione dell’istanza di accelerazione. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza depositata lo scorso 10 luglio, che ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 2, comma 2- quinquies, lettera e), della legge Pinto. Di fatto eliminando un cavillo sul quale lo Stato, almeno dal 2012 al 2015, ha potuto contare per evitare di pagare migliaia di euro di risarcimenti per processi irragionevolmente lunghi. La Consulta è intervenuta a seguito di quattro ordinanze di rimessione della Cassazione provenienti da altrettanti procedimenti di impugnazione dei decreti con i quali erano state rigettate le richieste di ottenere un’equa riparazione, dinieghi motivati sulla base della mancata presentazione, da parte degli interessati, della «istanza di accelerazione» entro i 30 giorni successivi al superamento dei termini di durata ragionevole. Una richiesta che, secondo la Cassazione, entrerebbe in contrasto con le disposizioni della Cedu e con la Costituzione, introducendo una «condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo in questione», violando, quindi, un diritto stabilito dalla legge. La Consulta ha così ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale, sostenendo che l’istanza di accelerazione «non è un adempimento necessario, ma una mera facoltà dell’imputato». Inoltre l’istanza «non ha efficacia effettivamente acceleratoria del processo» che in tal modo «può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente». E ciò significa che la presenza o meno di tale richiesta formale tra gli atti del processo non avrebbe in ogni caso alcuna efficacia sui tempi. Tale istanza, secondo i giudici della Consulta, può al massimo essere un «indice di sopravvenuta carenza o non serietà dell’interesse al processo del richiedente» e, dunque, per determinare la cifra da versare in termini di indennizzo, «ma non può condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata – si legge nella sentenza – e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione».
· Test psicologici su giudici e Pm.
Il ministro Bonafede: test psicologici su giudici e Pm. Un disegno di legge prevede che il Csm, per valutare gli avanzamenti di carriera dei magistrati, chieda un parere allo psicologo. È l’idea di Berlusconi, ma nessuno oggi insorge. Maurizio Tortorella il 16 luglio 2019 su Panorama. Test psicologici su giudici e Pm. La norma è contenuta nel disegno di legge sulla riforma dell'Ordinamento giudiziario presentato la scorsa settimana dal ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. L'articolo 27, intitolato "Riforma del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario, delle valutazioni di professionalità e della progressione economica dei magistrati", prevede che "il Consiglio superiore della magistratura, allo scopo di valutare il parametro dell'equilibrio del magistrato in funzione delle valutazioni di professionalità, possa tener conto, unitamente gli altri elementi conoscitivi acquisiti, del parere di uno psicologo di comprovata professionalità, appositamente nominato, assicurando all'interessato adeguate garanzie". La svolta ha dell’incredibile, soprattutto se si pensa quali furono le proteste scatenate nel 2013 da Silvio Berlusconi, che 16 anni fa aveva lanciato un’idea non troppo dissimile. Eppure non ha ancora ricevuto alcuna risposta ufficiale da parte della magistratura associata. L'unica reazione è stata un indignato corsivetto pubblicato sulla Repubblica di ieri, intitolato “Se Bonafede copia Berlusconi”, dove per l’appunto si ricorda come, in un'intervista del settembre 2003 al periodico britannico Spectator, Berlusconi avesse definito i magistrati "mentalmente disturbati" e il suo Guardasigilli, il leghista Roberto Castelli, avesse ipotizzato d’introdurre i test. All’epoca si era scatenata una brutale contraerea e la proposta era stata velocemente riposta. Oggi, invece, Repubblica si domanda perché mai le toghe non insorgano. Ma tutto tace. Già qualche mese fa il ministro della Pubblica amministrazione, la leghista Giulia Bongiorno, aveva annunciato la necessità di “riformare il tradizionale metodo di selezione" di giudici e pubblici ministeri. Era marzo, lo scandalo del Csm non era ancora scoppiato, e parlando alla Scuola di formazione politica della Lega Bongiorno aveva detto: "I magistrati sono troppo legati a un sapere nozionistico, spesso lontano dalle concrete complessità della carriera in magistratura; i test psicologici dovrebbero essere funzionali a verificare la stabilità emotiva, l'empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche imprescindibili della professione". Oggi il disegno di legge governativo prende fisicamente forma, ma dalle toghe tutto tace: “no reactions at all”. Forse perché la proposta non viene da Berlusconi? O perché la magistratura ha un feeling diverso con i grillini e con il loro populismo giudiziario? Staremo a vedere…
· Avvocati ed obbiettori di coscienza.
Vittoria, l’Ucpi contro gli avvocati “obiettori”. Errico Novi il 17 luglio 2019 su Il Dubbio. Alcuni penalisti esortano, su blog e social, a rifiutare la difesa dell’assassino che ha travolto Alessio e Simone. L’Unione Camere penali: «Così si tradiscono i principi della professione, un processo secondo le regole va assicurato a tutti, anche al più mostruoso dei criminali». Vittoria, avvocati contro. C’è una frase strana, sorprendente ma notevole quanto meno per la sua assertività. È di un avvocato, che scrive di giustizia e attualità su un blog piuttosto noto nel mondo forense, “Rando Gurrieri”. Il professionista, Alberto Pezzini, di Sanremo, interviene sulla tragedia dei due bimbi uccisi da Rosario Greco, il figlio del boss di Vittoria, in Sicilia: «Non difenderei mai, mai, un uomo che ammazza un bambino, ne decapita un altro e si allontana scappando, perché esiste un giustificato motivo che è la mia coscienza: questa secondo me», scandisce Pezzini, «è la vera indipendenza dell’avvocato, quella che caratterizza l’avvocatura». La funzione dell’avvocato. Una frase chiave che riflette il pensiero espresso sui social anche da (pochi) altri difensori. Una frase che, proprio nelle sue contraddizioni, dischiude in realtà la riflessione sul senso della funzione dell’avvocatura oggi in Italia. Persino sul suo riconoscimento costituzionale, urgente anche per sconfessare tesi come quella di Pezzini. Il quale si schiera col collega che dirige il sito, Pietro Gurrieri, risoluto a sua volta nel chiedere, a proposito dell’assassino di Vittoria, «che non ci sia un solo Collega sulla faccia della terra che lo assista nemmeno come difensore d’ufficio!». L’onda d’odio. Insolito anatema, giacché si assimila all’ormai consueta onda d’odio dirottata, oltre che sulle persone accusate dei reati più mostruosi, anche in direzione dei loro legali. Sulla “maledizione” invocata da Gurrieri e poi rilanciata da Pezzini, interviene l’Unione Camere penali, con una nota firmata dalla giunta e dall’osservatorio Difesa d’ufficio intitolato a Paola Rebecchi, la professionista autrice della riforma dell’istituto e rimasta uccisa nel 2016 proprio in un incidente stradale. Nell’intervento dell’Ucpi si nota come le dannazioni pronunciate su blog e social dell’avvocatura esprimano «(inaccettabili) accostamenti e sovrapposizioni tra il difensore, l’imputato e i fatti di cui quest’ultimo è chiamato a rispondere». Il richiamo dell’Ucpi. L’associazione che rappresenta tutti i penalisti d’Italia non solo richiama i cardini «del diritto (e del dovere) di difesa», i presupposti della difesa d’ufficio sanciti nella Costituzione e nella legge professionale, ma è anche molto severa nello scorgere un «malcelato tentativo di acquisire consenso tra la pubblica opinione, particolarmente scossa in situazioni come questa» dietro la decisione di «cavalcare l’ondata emotiva che la notizia ha inevitabilmente determinato, affermando pubblicamente che certe persone neppure meriterebbero di essere difese». Quale indipendenza? A colpire di più resta soprattutto quel richiamo alla «vera indipendenza dell’avvocato» formulato da uno dei professionisti, Pezzini, che si dichiarano indisponibili a difendere, anche d’ufficio, individui come lo scellerato automobilista che ha ucciso i due cuginetti, Alessio e Simone. Quell’idea di «indipendenza» è tutta costruita attorno a una concezione libertaria e individualistica dell’attività del difensore. Pare priva di qualsiasi sentore del rilevo pubblico e sociale che l’avvocato assume nello svolgere la propria funzione. Un rilievo pubblico, e quindi costituzionale, acquisito proprio «nel difendere il diritto ad un processo giusto anche per l’ultimo degli imputati del più grave ed odioso crimine», come si legge nella magistrale nota dell’Ucpi. Proprio nel difendere il più mostruoso degli assassini, infatti, «l’Avvocato d’ufficio è posto a tutela di diritti fondamentali che appartengono a tutti, perché non ammettono deroghe ed eccezioni», per citare ancora l’Ucpi. La sacralità del diritto di difesa, e la sua collocazione nell’architettura dello Stato di diritto, derivano proprio dall’impossibilità di subordinarlo a «deroghe ed eccezioni» . Non un richiamo professorale, sussiegoso e glacialmente buonista alla deontologia. Ma una commovente evocazione, quella dell’Unione Camere penali, di un valore che è sacro proprio in quanto assoluto. Nel documento della giunta dei penalisti e dell’osservatorio “Paola Rebecchi” c’è davvero il senso dell’avvocato in Costituzione. Di quel riconoscimento della necessaria «libertà e indipendenza» del difensore, oltre che della sua imprescindibilità. Un riconoscimento sollecitato dal Cnf e condiviso dai capigruppo in Senato dei partiti dell’attuale maggioranza, Patuanelli e Molinari, co-firmatari del ddl depositato a Palazzo Madama. Un’affermazione di valori al più alto grado dell’ordinamento che fa chiarezza su quale sia il senso della «libertà» del difensore, anche di fronte a delitti mostruosi come quello di Vittoria.
· La vituperata Toga.
La domiciliazione è per sempre...Avvocata rifiuta l’elezione di domicilio, e viene “punita”: revocata la nomina d’ufficio. Giulia Merlo il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. La polizia giudiziaria scorre la lista dei difensori d’ufficio fino a che uno non accetta che l’imputato si domicili presso il suo studio. Le Camere penali: «lede il diritto di difesa e scarica ogni peso sugli avvocati». All’una e 26 minuti il cellulare squilla: dall’altra parte del filo ci sono i carabinieri di Buccinasco, nella provincia di Milano. L’avvocata Cinzia Giambruno risponde e le viene comunicata la nomina a difensore d’ufficio, cui segue la domanda di rito: «Accetta che l’indagato elegga domicilio presso il suo studio legale?». L’avvocata Giambruno rifiuta la domiciliazione e chiude la telefonata. All’una e 28, però, nella sua casella di posta elettronica arriva una email autogenerata dal Centro nomine difese d’ufficio, che le comunica la revoca della nomina. Nello spazio sul motivo della revoca: ‘ Rifiuta’. «Con buona pace di tutta la normativa in materia…», aggiunge l’avvocata, che ha segnalato i fatti al Consiglio dell’Ordine di Milano e provato a ricontattare i carabinieri, «che però non hanno mai risposto».
Una storia comune. La prassi, tuttavia, non è isolata e molti avvocati hanno subito lo stesso trattamento. Prima che venisse instaurato il sistema elettronico, però, tutto si concludeva nel silenzio: se l’avvocato rifiutava la domiciliazione, la telefonata finiva nel nulla e la polizia giudiziaria non prendeva più contatti per dar seguito alla nomina. Il caso non è isolato: fatti simili si sono verificati anche in provincia di Roma e in altri comuni italiani, nonostante l’interessamento sia dei consigli degli ordini che dell’Unione camere penali italiane. Nodo centrale della questione è la riforma dell’articolo 162 comma- 4 bis del codice di procedura penale proposta dal Cnf e dall’Unione camere penali italiane, che prevede che l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non abbia effetto se l’autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l’assenso del difensore domiciliatario. In altre parole, l’indagato non può ricevere le notifiche sullo stato del suo processo presso l’ufficio del difensore, se l’avvocato non dà il consenso. «Una norma recepita sulla scorta della giurisprudenza della corte di Strasburgo in relazione all’articolo 6 Cedu, per tutelare l’effettività della difesa tecnica ed evitare che si processassero persone di fatto irreperibili», spiega Fabio D’Offizi, membro dell’osservatorio nazionale “Paola Rebecchi” su difesa di ufficio, dell’Unione camere penali italiane. Infatti, l’elezione di domicilio presso l’avvocato semplifica di molto il lavoro degli ufficiali giudiziari, che hanno un luogo certo dove notificare gli atti. Ma, se l’indagato è senza fissa dimora non prende contatti con il difensore, queste notifiche andate a buon fine servono solo a far procedere un processo che, nei fatti, si celebra nei confronti di un irreperibile.
Un sistema distorto. La distorsione del sistema che genera la prassi scorretta subita dall’avvocato Giambruno – sorge quando l’indagato è senza fissa dimora e non è in grado di eleggere domicilio, se non presso lo studio dell’avvocato. Se l’avvocato nega il consenso si genera l’impasse: «Uno stallo, in cui la polizia giudiziaria deve completare il verbale e non sa che cosa scrivere nello spazio relativo al domicilio eletto», spiega D’Offizi. La soluzione, allora, sarebbe una sola: «Chiedere all’indagato un altro luogo di elezione di domicilio, altrimenti dichiararlo senza fissa dimora e quindi procedere secondo le forme ordinarie dell’articolo 157 e seguenti del codice di procedura penale». Con un rischio, però: che una eventuale successiva dichiarazione di irreperibilità faccia sospendere il processo. «Quindi, in un’ottica di efficientismo distorto, viene leso il diritto di difesa e si scarica ogni responsabilità sugli avvocati» : infatti, di fronte al rifiuto, la polizia giudiziaria revoca autonomamente la nomina e fa scorrere la lista degli iscritti alle difese d’ufficio, fino a quando non trova un legale disposto ad accettare la domiciliazione dell’indagato presso il suo studio. «Per questo, come Osservatorio difesa d’ufficio dell’Ucpi, è stato creato un indirizzo ad hoc, osservatoriopaolarebecchi@gmail.com, per ricevere segnalazioni su prassi distorte come questa», conclude D’Offizi.
Il meccanismo “fuorilegge”. Nel caso dell’avvocata Giambruno e di molti altri, la tecnica è sempre la stessa e completamente contraria alle norme. La polizia giudiziaria contatta i difensori d’ufficio attivando una procedura attraverso call center e, se l’avvocato non presta il consenso all’elezione di domicilio, riattiva la procedura, scavalcando il primo nominato. Questa riattivazione, però, genera una email automatica di revoca della nomina, come quella ricevuta da Giambruno. «Una prassi assolutamente scorretta, che non rientra nei poteri della polizia giudiziaria, anche perchè la difesa d’ufficio non può essere rinunciata da parte del difensore, se non per motivi di incompatibilità», spiega D’Offizi. Non solo, nel caso in cui sulle ragioni della revoca ci sia scritto ‘ rifiuto’ come motivazione, si genera un altro profilo di danno per l’avvocato. «La dicitura ‘rifiuto’ mette in serio imbarazzo l’avvocato, perchè potrebbe essere interpretato come rifiuto della nomina a difensore d’ufficio, che è un illecito deontologico». In sostanza, dunque, se il Consiglio dell’Ordine non fosse al corrente di questa prassi illecita della polizia giudiziaria – e quindi non interpretasse quel "rifiuto" come "rifiuto all’elezione di domicilio" (una dicitura che, però, ingenererebbe in capo alla polizia giudiziaria responsabilità per condotta scorretta) – potrebbe anche aprire un procedimento disciplinare contro l’avvocato. Proprio questa prassi è stata più volte stigmatizzata dall’Ucpi, che in un documento l’ha definita un «grave attentato alla difesa ed alla figura del difensore d’ufficio: non vi è dubbio, infatti, che in tali casi si tratti di una vera e propria decisione ritorsiva, a fronte della legittima decisione di non acconsentire all’elezione di domicilio (evidentemente forzata)». Anche perchè snatura non solo la ratio della riforma del 2017, ma anche l’istituto dell’elezione di domicilio, «che non ha lo scopo di “agevolare” la successiva attività notificatoria ( come ritengono coloro che “impongono” all’indagato di eleggere domicilio presso lo studio del difensore d’ufficio)» ma quello di permettere l’effettiva conoscenza del procedimento penale da parte dell’indagato, che è parte integrante del suo diritto di difesa.
La frase shock del giudice: «Scelga! Avvocato o madre». Simona Musco il 12 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’episodio denunciato da una legale del foro di Catania. Lo sfogo di Salvina Neri sui social: «Essere giudici non autorizza nessuno a mancare di rispetto così palesemente e pubblicamente. Profondamente sdegnata». «Scelga se fare l’avvocata o la mamma». La frase, surreale, è quella che si è sentita rivolgere Salvina Silvia Neri, avvocato 36enne di Catania, di fronte alla banale richiesta di dare un ordine alle udienze a ruolo nella giornata di lunedì in tribunale. A raccontarlo è la stessa avvocatessa, che ha affidato il proprio sdegno ai social. «Alle ore 12.37, il sottoscritto avvocato viene invitato a “scegliere” tra fare l’avvocato e fare la mamma solo per aver chiesto se era possibile denuclearizzare le udienze, visto che ancora le prime udienze non erano state trattate – si legge nel post della professionista -. Io penso che essere giudici non autorizza nessuno a mancare di rispetto così palesemente e pubblicamente. Profondamente sdegnata». Una questione che ha fatto partire un acceso dibattito tra i colleghi di Neri e che, ora, verrà affrontata anche dal consiglio dell’Ordine etneo degli avvocati. A fare da sfondo alla vicenda la situazione emergenziale in cui si trova a lavorare la quarta sezione penale del Tribunale di Catania, ospitata negli uffici della ex pretura. Una struttura inadeguata a contenere la mole di lavoro che il Tribunale si trova ad affrontare, con spazi ridotti, aule sovraffollate e decine di processi pendenti, sui quali pesa anche una cattiva organizzazione. E questo è stato dunque il contesto in cui l’infelice scambio di battute è avvenuto. Lunedì, infatti, il giudice onorario Guido Oliva è arrivato nell’aula in cui si trovava l’avvocato Neri dopo le 11.30, in quanto impegnato in altro collegio. Un ritardo comunicato con un avviso cartaceo agli avvocati il giorno stesso dell’udienza, senza però stabilire alcun ordine per le cause in trattazione, tra fascicoli da rinviare, prime udienze e quelle per le quali erano state evidenziate esigenze particolari. E a fronte di 44 fascicoli da trattare nell’arco della giornata, una volta iniziato l’esame dei procedimenti, Neri ha manifestato la propria preoccupazione per il ritardo. «Dovevo andare a prendere i miei figli a scuola a Sant’Agata Li Battiati – ha confidato a MeridioNews -, ma non era questo il punto. Sarebbe bastato avere una scaletta delle udienze per avere tutti modo di organizzarci al meglio». Questa, dunque, la richiesta: poter conoscere l’ordine delle cause in trattazione e stabilire, dunque, come far fronte agli impegni familiari nel miglior modo possibile. «Si è iniziato così a trattare le udienze con un ordine che non ci viene comunicato – ha aggiunto Neri – e quindi mi sono avvicinata per chiedere notizie». Il giudice, a quel punto, ha risposto sottolineando che stava cercando di capire come fare per stabilire le priorità, date le difficoltà causate dalla disorganizzazione del Tribunale. Ed è stato a quel punto che Neri ha fatto presente di avere tre figli da prendere all’uscita da scuola. «Gli ho detto che volevo sapere come si sarebbe andato avanti. Del resto si trattava anche di una prima udienza», ha aggiunto l’avvocato. E a quel punto, dunque, sarebbe arrivata la replica infelice del giudice Oliva: «Allora scelga se fare l’avvocato o la mamma». Una frase udita anche dagli altri avvocati presenti in aula, alcuni dei quali, pur schierandosi con Neri, sottolineano ora le evidenti difficoltà nelle quali si trovava a dover lavorare il giudice. «Comprendo come anche i giudici si trovino sotto pressione, ma le gerarchie non giustificano certe frasi – ha sottolineato Neri -. Non credo che a un uomo avrebbe mai detto ‘ scelga di fare l’avvocato o il papà’». Il post della professionista ha fatto il giro del web, suscitando l’indignazione dei colleghi, soprattutto di sesso femminile, che hanno raccontato storie analoghe a quella della collega.
Vittorio Feltri: "Le donne devono avere il diritto di conciliare lavoro e doveri materni. È giusto così". Libero Quotidiano il 13 Luglio 2019. Un caso di scuola di cui ha riferito ieri il Corriere della Sera. Una avvocatessa, recatasi a Lodi per un processo, essendo stata convocata d' urgenza in aula, non ha avuto modo di organizzarsi al fine di collocare il proprio bimbo di nove mesi, cosicché se lo è portato con sé in aula. E qui è stata redarguita dal presidente della sezione civile. Il quale evidentemente non gradiva la presenza del piccolo nelle sacre (si fa per dire) stanze ove si amministra la giustizia. La professionista in questione, dottoressa Samantha Ravezzi, non solo ci è rimasta di sasso: ha anche protestato per il trattamento subìto. Ed è scoppiata la polemica. A mio modesto avviso ha ragione la signora a cui non è certo vietato riprodursi, partorire e accudire all' infante. Sono dalla sua parte. Che male c' è portarsi a Palazzo di Giustizia un pistolino, non certo in grado di bloccare una udienza? Una mamma ha il diritto di lavorare e al tempo stesso di occuparsi della prole. Gli uomini di buon senso dovrebbero saperlo, ma non tutti lo sanno, pertanto una vicenda come questa suscita scandalo. L' opinione pubblica si divide tra chi sostiene la donna e chi appoggia la severa toga. In realtà basterebbe un po' di buona volontà per capire che una madre non può sdoppiarsi nemmeno se la sua attività è quella della avvocatessa. Nella circostanza Samantha cosa avrebbe potuto fare? Buttare il pargolo dalla finestra, affidarlo alla portinaia, rinchiuderlo in automobile? Ha scelto di portarselo appresso. Meriterebbe un premio che contribuirebbe a rafforzare un concetto elementare: è ridicolo piangere perché le culle italiane sono vuote e poi lagnarsi in quanto una gentile madama cerca di conciliare il lavoro coi doveri materni. Qui a Libero, considerato parente stretto del diavolo, abbiamo introdotto una regola: le giornaliste che hanno degli eredi e che in certi periodi dell' anno non sanno dove piazzarli, in assenza di nonne o bambinaie (ben retribuite), hanno facoltà di portarli in redazione. Dov' è il problema? I fanciulli si siedono al tavolo, disegnano, scrivono, ed essendo sotto lo sguardo vigile delle genitrici non disturbano, anzi rallegrano l' ambiente nel quale i colleghi seguitano a vergare senza patire alcun inconveniente. Invito i giudici e non solo loro a copiare la nostra indolore iniziativa. Si accorgeranno che a rompere i coglioni non sono gli infanti bensì gli adulti.
Da Il Messaggero il 26 luglio 2019. Si presenta in aula per separarsi dalla moglie in bermuda e infradito. Il giudice, però, lo manda via, invitandolo a ripresentarsi indossando abiti più adeguati. È accaduto a Trieste quando in udienza davanti al presidente della Sezione civile del Tribunale di Trieste, Arturo Picciotto, si sono presentati due coniugi con l'intenzione di dirsi addio. Constatato l'abbigliamento poco consono al luogo, il magistrato ha chiesto al marito di tornare con indosso vestiti più appropriati. In una città che del mare ha fatto il suo punto di forza, ma anche la croce e la delizia delle autorità locali, non sembra fermarsi la battaglia per il decoro. Solo la scorsa settimana, infatti, era stato multato un turista austriaco che dormiva su di un'amaca appesa tra due pini sul lungomare di Barcola. Qualche giorno prima, invece, il Comune aveva invitato a mezzo di cartelli affissi sul lungomare, «i cittadini a indossare un abbigliamento adeguato» quando attraversano la strada. E ora il richiamo arriva dalle aule di giustizia. Già la scorsa estate - ricorda Il Piccolo - il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Trieste aveva emesso una circolare rivolta a tutti i legali che frequentano il palazzo in Foro Ulpiano, a sollecitare «i propri assistiti a presentarsi alle udienze con abbigliamento consono al luogo». «Anche se non c'è una casistica specifica su ciò che si può o non si può indossare, è il Codice di procedura ad attribuire al giudice il compito di garantire il rispetto del decoro durante l'udienza pubblica», spiega al quotidiano lo stesso presidente della Sezione civile del Tribunale Picciotto. «In quell'udienza di divorzio il marito si è presentato con bermuda e calzature infradito. Ho parlato con gli avvocati e mi sono lamentato del fatto che non avessero dato indicazioni di vestirsi in modo adeguato. Mi hanno assicurato di averlo fatto, ma la raccomandazione non era stata recepita. L'ho quindi invitato a tornare vestito in modo adeguato», aggiunge il magistrato. Il messaggio, ci tiene a precisare il giudice, «è stato recepito di buon grado. Si è presentato infatti un'ora dopo vestito in modo più rispettoso, e così abbiamo potuto procedere con l'udienza». L'apparenza, conclude il magistrato, «è sostanza. È un modo per riconoscere il valore dell'istituzione e l'importanza della funzione che stiamo svolgendo nel nome del popolo italiano».
Silvia Vacirca per “il Messaggero” il 26 luglio 2019. Questa aula non è una spiaggia. Due giorni fa, durante un'udienza per divorzio di fronte al presidente della Sezione civile del Tribunale di Trieste Arturo Picciotto, un uomo si è presentato in aula in bermuda e infradito. Il giudice lo ha invitato a ripresentarsi in abiti più consoni. «L'apparenza - ha commentato il magistrato - è sostanza. È un modo per riconoscere il valore dell'istituzione e l'importanza della funzione che stiamo svolgendo nel nome del popolo italiano». Cesare Placanica, presidente della Camera Penale di Roma, dice di pretendere «che gli imputati e gli avvocati siano vestiti in modo sobrio, che non vuol dire elegante». Secondo Placanica più che il dress code, che dev'essere decoroso, in tribunale è la toga ad avere un alto valore simbolico: «L'avvocato ha l'obbligo della toga perché fa capire che è nell'esercizio della funzione a favore dei cittadini che assiste. A Roma abbiamo comprato delle toghe alla sartoria delle detenute di Rebibbia da tenere a disposizione. Poi i penalisti hanno comprato pure le borse porta toghe personalizzate». Qualche giorno prima, la questione del dress code in aula aveva già scatenato polemiche. Protagonista la capitana di Sea Watch Carola Rackete che si è presentata in Procura senza reggiseno. Quotidiani e social hanno commentato a lungo la scelta. A dimostrazione di quanto - nella società dello spettacolo - a contare in aula non sia solo il decoro. Soprattutto quando ci sono le donne di mezzo. L'ansia riguardo al dress code da processo è diffusa. Sul web ci sono post come Cinque regole d'oro per non farsi odiare dal proprio giudice dove si consiglia soprattutto nei mesi invernali, l'abbigliamento a cipolla poiché, all'interno dell'aula, la temperatura può essere alta. Il problema si pone anche con gli avvocati. In un forum femminile on line un'avvocata rivela che per lei è stata una sofferenza. Venivo da un dottorato di ricerca, ambiente capellone e idealista, vestivamo come ci pareva. Questa incertezza raggiunge il suo acme negli Stati Uniti, dove la giuria è popolare. E così, decine di forum hanno titoli tipo Come vestirsi in tribunale oppure Che cosa indossare davanti alla corte. Lo studio Minick Law ha pubblicato un manuale di etichetta da scaricare gratis. Banditi colore, gioielli e abiti alla moda. Cesare Placanica spiega che «negli Stati Uniti gli studi hanno avvocati specializzati nel casting dei giurati. Prima di essere ammessi, i candidati sono interrogati dalle parti. Se difendo un uomo di colore e un candidato ha fatto parte del Ku Klux Klan posso ricusarlo». Come vestire per non sembrare colpevoli è di importanza vitale. Per questo le persone normali guardano le celebrity. Nel 2002, per esempio, Winona Ryder si è presentata al processo per furto a Los Angeles in abito nero Marc Jacobs che ricordava la sobrietà dello stile Peter Pan. Il New York Times ha definito l'outfit conservatore ma molto chic. Cardi B, quest'anno, è apparsa in un tribunale del Queens è accusata di essere coinvolta in una rissa in un sobrio Christian Siriano bianco, Hermès Birkin e coda bassa. Ha anche postato il look su Instagram con la didascalia Court flow: tre milioni di cuori. Lo studio legale di Anna Delvey, stagista della rivista di moda Purple Magazine che, per un breve periodo, è riuscita a spacciarsi per un'ereditiera tedesca a New York, ha assunto Anastasia Walker - stylist di Courtney Love - per curare i look processuali. C'è un account Instagram - @Annadelveycourtlooks dedicato al suo stile che ha più di 8.000 follower. Lindsay Lohan, attrice americana, si presentò in tribunale più volte, anche con una sexy camicia bianca. Può sembrare strano che qualcosa di frivolo come la moda possa avere conseguenze anche gravi su un caso. Ma nel giorno di San Valentino, assicuratevi di non andare in aula in una t-shirt con su stampato a letterone rosa: All you need is love, come ha fatto Amanda Knox nel 2009, nelle prime settimane del processo per l'omicidio di Meredith Kercher. Forse la t-shirt è la vostra coperta di Linus, ma sarà interpretata come odiosa, un segno del vostro narcisismo e mancanza di rispetto per il sistema giudiziario italiano. Nella stampa britannica, invece, sarà letta come il segno di una personalità psicopatica. Nella biografia del 2013 Waiting to be heard: A Memoir, Amanda Knox ricorda questa scelta come la più dannosa in quelle prime settimane.
Dress code in Tribunale: «Avvocato, esca dall’Aula e vesta in modo adeguato!». Giovanni M. Jacobazzi il 9 Agosto 2019 su Il Dubbio. Quando arriva l’estate il tribunale diventa luogo di scontro sull’abbigliamento I richiami dei giudici e il caso di Trieste: nessun divorzio in bermuda o prendisole. Come ogni estate che si rispetti, complice una temperatura sempre più torrida, ecco arrivare la circolare sul “dress code” per accedere nei palazzi di giustizia. L’ultima in ordine di tempo è del presidente del Tribunale di Bergamo, Cesare de Sapia.
IL CASO. Da questa settimana negli uffici giudiziari della città dei Mille sono vietati bermuda ed infradito. Niente obbligo di giacca e cravatta ma gambe e piedi dovranno sempre essere coperti. A chi disattenderà la disposizione verrà inibito l’accesso. Il prestigio dell’Istituzione si tutela partendo dall’abbigliamento, che dovrà essere quanto più possibile decoroso e sobrio. Nulla a che vedere, dunque, con le ben note indicazioni date da Francesco Bellomo, l’ex giudice del Consiglio di Stato che alle corsiste della sua scuola di preparazione al concorso in magistratura imponeva minigonne vertiginose, abiti scollati, tacco 12. Nessun abbigliamento “di tipo balneare e da tempo libero” scrissero qualche anno fa Ersilio Secchi e Antonio Chiappani, rispettivamente presidente del Tribunale e procuratore di Lecco. «Occorre garantire – si legge nella disposizione ancora in vigore – che le udienze dinanzi ai Giudici si svolgano in un contesto di decoro consono all’importanza dell’attività svolta, comprendente il rispetto per tutti coloro che vi si trovano a presenziare ed operare». «È stato pertanto disposto che l’accesso alle aule di udienza ( e agli uffici dei Giudici e dei Pubblici Ministeri) richieda un abbigliamento consono al luogo e agli incombenti che vi si celebrano, secondo una valutazione rimessa al buon senso comune, evitando in particolare abbigliamenti di tipo balneare o da tempo libero», precisarono i due magistrati.
ANCHE A LIVORNO E TRIESTE. Dello stesso tenore la nota dell’allora presidente vicario del Tribunale di Livorno, Maria Giuliana Civini, che fece divieto a chiunque, per «il dovuto rispetto alla funzione», di introdursi all’interno del palazzo di giustizia senza indumenti “adeguati”. E dove non esiste una circolare, arriva il buon senso? E scatta direttamente l’espulsione dall’aula. È quanto accaduto qualche settimana fa durante un’udienza di fronte al presidente della Sezione civile del Tribunale di Trieste, Arturo Picciotto. «Anche se non c’è una casistica specifica su ciò che si può o non si può indossare, è il codice di procedura ad attribuire al giudice il compito di garantire il rispetto del decoro durante l’udienza pubblica», ha precisato il magistrato. In aula erano presenti due coniugi in fase di divorzio con i rispettivi avvocati. Dopo aver visto il look dell’uomo, un bermuda, il giudice gli ha intimato di allontanarsi e di cambiarsi d’abito. «Ho parlato con gli avvocati e mi sono lamentato del fatto che non avessero dato indicazioni di vestirsi in modo adeguato – ha detto -. Mi hanno assicurato di averlo fatto, ma la raccomandazione non era stata recepita. L’ho quindi invitato a tornare vestito in modo adeguato». Dopo essere stato allontanato, l’uomo si è cambiato i vestiti e si è ripresentato un’ora più tardi in aula. «Così abbiamo potuto procedere con l’udienza – ha aggiunto Picciotto, specificando che non ci sono stati momenti di tensione con l’uomo -. L’apparenza è un modo per riconoscere il valore dell’istituzione e l’importanza della funzione che stiamo svolgendo nel nome del popolo italiano». Il richiamo ad un abbigliamento consono vale comunque anche per i magistrati. Divenne virale nell’estate 2017 l’immagine del gip del Tribunale di Reggio Emilia, Giovanni Ghini, che faceva udienza in t- shirt rossa. Il magistrato, per sua stessa ammissione allergico alla cravatta, finì nell’occhio del ciclone e nei suoi confronti venne aperta anche una pratica al Consiglio superiore della magistratura.
I simboli sociali. La solennità ed il prestigio della Toga.
La toga nera è il simbolo di un ruolo che, purtroppo, sta perdendo il fascino della solennità.
Pettorine taglia unica per avvocato o magistrato. Le pettorine sono piccoli capi di abbigliamento molto utili per chi ha la necessità di conferire maggiore autorevolezza al proprio ruolo istituzionale. Alcune categorie lavorative impongono l'indossatura di questo particolare accessorio, che ne rappresenta un vero e proprio tratto distintivo.
Chi indossa le pettorine? Generalmente, questo pezzo di stoffa viene utilizzato dagli avvocati e dai magistrati per impreziosire le loro toghe. Queste ultime acquisiscono un'evidente iniezione di eleganza e di stile grazie alla raffinatezza di ogni singola pettorina. Nella maggior parte dei casi tale modello possiede una colorazione tendente al bianco, anche se spesso vengono adoperate le loro gradazioni e le tonalità simili. La misura è standard e quindi è la stessa per tutti coloro che hanno la necessità di indossare le pettorine. La lunghezza può però essere regolata in base alla fisionomia del soggetto che intende servirsene.
Le pettorine possono essere fatte in diversi materiali. Uno dei più diffusi è senza ombra di dubbio il poliestere mescolato al cotone, grazie ai quali la resistenza può essere pressoché garantita. Ogni avvocato o magistrato può quindi indossare un modello in piena tranquillità e senza la paura che si possa sfilare da un momento all'altro. Tra gli altri possibili materiali, vanno menzionati il cotone batista, il cotone lino e il raso.
I colori della cordoniera si diversificano a secondo il ruolo e l'anzianità di Avvocati e Magistrati.
Cordoniera per Avvocato Cassazionista: Colore Oro con inserti Neri
Cordoniera per Avvocato Ordinario: Colore Argento con inserti Neri
Cordoniera per Magistrato d'Appello: Colore Oro
Cordoniera per Magistrato Ordinario: Colore Argento
La toga del giudice: retaggio anacronistico o simbolo senza tempo? Martina Verde su StudentiGiurisprudenza.it l'8 dicembre 2013. Fa notizia il fatto che in Inghilterra un giudice abbia messo in vendita il proprio parruccone. Motivo? Costa tantissimo. All’incanto anche mantelline, pantaloni e cinture: in tempi di crisi, si sa, l’usato va forte. Ma da qui nasce un dibattito nuovo, sul perché ancora oggi rimanga l’obbligo per i giudici (e non solo) di indossare la tradizionale “divisa d’ordinanza“. Al di là della vicenda inglese, la questione è universale: qual è il significato della toga? Quale storia c’è dietro e perché alle soglie del 2014 non se ne può fare a meno? La toga ha origini antiche. I Romani la indossavano al di sopra della tunica, rannodata sulla spalla sinistra; ve n’erano di varie fogge, così come diversi erano i modi di disporne i drappeggi attorno al corpo, ma si trattò sempre – com’è facile intuire – di un indumento poco pratico. Perciò progressivamente la sua lunghezza si ridusse e in compenso gli ornamenti divennero più ricchi, finché non fu definitivamente sostituita, in età tardoantica, dal pallio greco. Nel XIV secolo la ritroviamo a Venezia, del tutto rinnovata: la toga medievale è dotata di maniche ed è veste esclusivamente maschile, rossa o nera, portata da chi ricopriva cariche pubbliche, da magistrati o da medici. Insomma, un abito che sin dalla sua nascita rimanda all’autorità e al prestigio intellettuale. E oggi? Ai nostri giorni i giudici italiani dovrebbero vestirsi seguendo quanto prescritto dal regio decreto 14 dicembre 1865 n. 2641, relativo all’ordinamento giudiziario; ma è evidente che la prassi va in tutt’altra direzione. Tale regio decreto impone infatti ai giudici di indossare: zimarra nera, cintura di seta guarnita di nappine, toga di lana nera con maniche rialzate e annodate alle spalle con cordoni, tocco e collare di tela batista, con colori e tessuti che variano a seconda del grado e delle occasioni (ad esempio, nelle riunioni solenni le corti di cassazione e di appello vestono la toga rossa, e in Cassazione non manca l’ermellino). Pittoresco? Scenografico? Di certo queste disposizioni ci fanno un po’ sorridere, soprattutto se consideriamo che persino gli uscieri in servizio alle udienze delle corti e dei tribunali, a norma dell’art. 162 dello stesso decreto, sarebbe tenuti a indossare “tunica lunga fino al ginocchio di panno nero tutta abbottonata con una fila di bottoni lisci di seta, fascia alta dodici centimetri, serrata alla persona sul dietro con fibbie, collare liscio di tela batista, calzoni corti con calze di lana, mantelletto di panno lungo quanto la tunica e tocco di lana nera“. E pensare che ormai, benché l’art. 104 del regio decreto 6 gennaio 1927 n. 3 prescriva loro di indossare la toga nelle udienze dei tribunali e delle corti – chiarendo che l’inosservanza di tale obbligo è sanzionata in via disciplinare -, molti avvocati si presentano nelle aule di tribunale in veste informale… (se non indecorosa!). Comunque, senza andar troppo per il sottile, la toga è prima di tutto un simbolo. Cosa rappresenta? Francesco Carnelutti ha scritto: “La toga è un costume maestoso che magnifica non tanto la persona, quanto la funzione e l’ordine sociale che ha fornito l’investitura […] e sottolinea la separazione tra gli officianti il rito e gli altri“. Nell’immaginario collettivo il giudicante personifica, in carne ed ossa, la Giustizia; smettere i propri panni e ricoprirsi di una veste che evoca deferenza e rispetto esprime una garanzia d’imparzialità. Se dunque le norme che la impongono risultano oggi obsolete, tale non potrà dirsi la funzione a cui la toga assolve, oggi come ieri. Senza dimenticare che al privilegio di vestire un abito grandioso si accompagna sempre l’onere di onorarlo. Martina Verde
Quell’inutile liturgia della casta in ermellino. Stefano Lorenzetto, Sabato 04/02/2006, su Il Giornale. La liturgia ha la sua importanza. Ma un conto è applicarla alle cose di Dio, come fanno i preti, e un conto è applicarla alle cose del mondo, come fanno i magistrati. La liturgia riguarda la religione. La giustizia è una religione? Per i fanatici, forse. Per le persone di buon senso trattasi di un esercizio molto umano e molto terreno, ad alto rischio di fallacia. Solo l’ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro giunse a dire che «la toga non è sulle spalle, è sull’anima: io stesso non me la sono tolta mai», affermazione tanto più pericolosa se si considera che in quel momento (6 dicembre 1994) era il presidente della Repubblica e dunque il supremo garante della separazione dei poteri sancita dalla Costituzione, sulla quale si fonda lo Stato. Non si capisce pertanto come mai a tutte le latitudini gli uomini provvisoriamente deputati ad amministrare la giustizia sentano il bisogno d’indossare toghe, ermellini o parrucche. Mi si obietterà che i docenti universitari non sono da meno. Obiezione accolta. Ma quelli, al massimo, hanno il potere di metterti un 18 sul libretto, mica di privarti a vita della libertà. Magari non sarà stato istituzionalmente molto corretto che il presidente del Consiglio abbia sbuffato dai microfoni di una radio: «Devo andare all’inaugurazione dell’anno giudiziario: due ore sottratte all’attività di governo», però lo capisco. Già la ricorrenza in sé mi ricorda la perentoria constatazione con cui il mio insegnante di religione alle medie, don Augusto Cavazzola, salutava il ritorno in classe dopo le vacanze natalizie: «Ogni anno che passa, passa un anno». Non risulta che nella notte di San Silvestro i magistrati facciano un falò dei procedimenti pendenti. Dunque come si fa a inaugurare a ogni gennaio un evento che per il povero cittadino si trascinerà nella migliore delle ipotesi dai quattro agli otto anni? Che senso ha celebrare in pompa magna un’attività che contempla un’attesa media di 485 giorni per l’indagine preliminare, di 35 mesi per il processo di primo grado, di 65 mesi per l’appello? E poi i paramenti. Ma li avete osservati bene? Altro che il piviale: toga di velluto rosso orlata di pelo d’ermellino, papillon bianco, tocco con quadruplice fregio aureo, catene e pompon dorati. Il procuratore generale della Cassazione, Francesco Favara, indossava addirittura candidi guanti di raso, manco stesse per esibirsi al café chantant. Si dirà: antiche tradizioni. Ma ho notato che sia lui sia il presidente della Cassazione, Nicola Marvulli, nell’atto di ricevere il capo dello Stato erano già bell’e microfonati, cioè entrambi avevano appuntato, su quella specie di bavaglino di pizzo che gli pendeva dal collo, un minuscolo amplificatore per la voce, senza fili, come le veline. Si vede che la modernità non gli dispiace. Eppure, a leggere La Stampa, pare che all’inaugurazione dell’anno giudiziario si sia «sentita nell’aria un’eco di nostalgia dei tempi che furono»: «Sua eccellenza Nicola Marvulli, classe 1931, primo presidente di Cassazione, nell’aggiustarsi l’ermellino alla fine l’ha detta tutta: “Eh, la giustizia più non gode dell’antico prestigio, quello che era il prestigio della casta”. Casta in senso buono, per carità», s’è affrettato a precisare il cronista Francesco Grignetti (sarà l’esegeta ufficiale del verbo marvulliano?). L’avrà anche detto in senso buono, però rilevo che «casta» sul vocabolario ha solo tre significati, il primo negativo, il secondo spregiativo e il terzo zoologico. Dovendo escludere che sua eccellenza Marvulli abbia inteso definire «insetti sociali» i suoi illustri colleghi, sorprende molto che a non saper fare buon uso delle parole sia proprio il primo presidente di quella Cassazione che ha condannato il «sottinteso sapiente», gli «accostamenti suggestionanti» e gli altri «subdoli espedienti» usati dai giornalisti, incluse le virgolette (oddio, ne ho appena scritte sei). Molte altre cose ha affermato – senza guanti, sia detto a suo onore – il presidente Marvulli nella Relazione sull’attività Giudiziaria nell’anno 2005 (testuale, con la «g» maiuscola). Per esempio questa: «Rispetto a tutti gli altri Paesi, in Italia disponiamo del maggior numero di giudici e, ciò nonostante, conserviamo il primato del maggior tempo nella definizione dei processi». E questa: «Il pluralismo è una ricchezza del nostro autogoverno, ma esso fallisce il suo compito nel momento in cui alla virtù dell’obiettività si sostituisce la solidarietà ideologica». E quest’altra: «Non sempre abbiamo saputo liberarci da condizionamenti correntizi che mal si conciliano con l’indipendenza e l’autonomia della magistratura». Ma di esse non v’era traccia nei titoli dei giornali. A riprova dell’assoluta inutilità di questa liturgia.
ARROSSAMENTI. Da qualche tempo il presidente della Repubblica è sempre irritato. Di solito ce lo notifica attraverso il Corriere della Sera. Martedì scorso, per esempio, «l’imperturbabilità di Gandhi» attribuita all’inquilino del Quirinale non riusciva a cancellare «l’irritazione» di Carlo Azeglio Ciampi: un caso di sdoppiamento della personalità. Anche il 25 gennaio era irritato («dalla disdetta dell’accordo sullo scioglimento delle Camere»). Il 24 pure («per una sfida che rischia di sgangherarsi sino alla rappresaglia»). Il 22 era «irritato con Vienna». Il 21 l’irritazione filtrava direttamente dal Colle, un problema geologico allarmante, anche perché s’accompagnava al bradisismo di un altro titolo: «Il Quirinale irritato non vuole arretrare». Il capo dello Stato veniva dato per irritato o in preda a irritazione, nonostante il clima natalizio, anche il 14 e 15 dicembre. Idem il 6, 15 e 24 novembre. Forse frutto della calura estiva le irritazioni del 6 giugno, 6 luglio e 7 settembre. Ha provato con la crema Nivea?
LA RESPONSABILITÀ DI VESTIRE LA LEGGE. Libertà e giustizia sono i fondamenti della civiltà. Ecco perché dentro i tribunali si respira il senso del sacro. Ed ecco perché chi ci lavora deve esprimere, anche nell’aspetto, i valori di serietà, rispetto, credibilità. Giancarlo Maresca su arbiter.it. Il sordo senso di insoddisfazione che caratterizza gli ultimi decenni non è un tributo necessario a progresso e modernità. Innanzitutto la modernità non è affatto una cosa moderna, essendo stata un carattere del regno di Amenophis IV, dell’Atene di Pericle e Fidia, della Roma di Augusto, della Firenze medicea, della Vienna di Francesco Giuseppe e Johann Strauss, della Belle Époque, dell’Italia del boom economico e di tanti altri periodi. Anche il progresso ha un curriculum lungo quanto la storia, nel corso della quale ha suscitato più entusiasmi di quanti ne abbia spenti. Bisogna solo sapere che non ha ancora tramutato il piombo in oro e quando lo farà saranno in molti a rimpiangere il piombo. Il progresso è frutto dello spontaneo impulso a rendere qualsiasi cosa possibile, poi accessibile e, infine, facile. In tal modo ogni suo prodotto diventa da utile a necessario, così che dove c’era una domanda sorge un bisogno. Tra prima e dopo la somma non è zero, perché l’umanità si trova comunque in condizione di faticare meno e guadagnare o campare di più. In assenza di simili crescite si deve parlare di novità e non di progresso, differenza che va sempre tenuta presente. Il progresso è un fenomeno quantitativo il cui ruolo è farci vivere sempre più a lungo e più ricchi, ma solo la civiltà, che è un’architettura qualitativa, ci fa vivere meglio. Il rapporto tra civiltà e progresso è simile a quella tra politica e potere. Quando quest’ultimo riduce la prima da gestione a spettacolo, queste differenze e molte altre vengono nascoste affinché quante più cose sembrino la stessa cosa. Non a caso, i Paesi con cattiva politica sono sempre poveri di filosofia e attenzione alla lingua. Progresso e civiltà sono due percorsi naturali all’uomo e come lui contraddittori. Il limite cui tende il progresso è far diventare qualcuno onnipotente ed eterno, quello della civiltà assicurare a tutti una situazione in cui sia possibile essere felici. Il progresso resta tale anche nelle mani di pochi, la civiltà non può essere che collettiva. È indispensabile che ognuno vi partecipi depositando quotidianamente spiccioli di libertà su un conto su cui, al momento giusto, troverà un capitale immenso. La vera tassa con cui sosteniamo la civiltà è qualche rinuncia a fare come ci pare per farlo in modo sostenibile, in uno scambio che alla lunga paga a usura. Purtroppo rinuncia è una parola che oggi non si può pronunciare, quindi dobbiamo tenerci stretta la civiltà ereditata perché per qualche tempo non ne avremo di più, mentre possiamo sprecarne tanta. Per evitare che ci venga tolta senza nemmeno accorgercene bisogna conoscerne i fondamenti, che in questa sede possiamo ridurre a libertà e giustizia. La libertà che conta è quella di vivere e morire secondo i propri principi, agendo ed esprimendosi in ogni forma che non sia lesiva di salute, proprietà e dignità altrui.
Quanto alla giustizia, la sua essenza fu così descritta nel III secolo: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere». La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di riconoscere a ciascuno i propri diritti. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo. Nella prima parte del suo splendido brocardo il saggio Ulpiano definisce la giustizia, nella seconda riassume i principi del diritto. Entrambe ci riguardano come portatori di doveri, non solo di diritti, perché onestà ed equità si devono esigere da se stessi, prima che dallo Stato. Resta il fatto che una macchina giudiziaria è indispensabile, perché per un processo equo non sono sufficienti le buone leggi, devono sussistere terzietà e inamovibilità degli organi giudicanti, una garanzia di stabilità delle procedure e accesso al patrocinio. Per trattare materie delicate come i diritti personali, o la stessa vita, occorrono un rigido protocollo e la credibilità di chi vi prende parte. Chi lavora alla giustizia ne è in qualche modo sacerdote, sia in quanto partecipe di un rito sia perché condivide una conoscenza che per la generalità delle persone resta misteriosa. «Iura novit curia», è la magistratura a conoscere la legge e decidere quale applicare, recita un altro famoso brocardo. Tra formule e paramenti, il senso del sacro è di casa in un tribunale quanto in un tempio. La sostanziale differenza sta nel fatto che la mentalità giuridica è del tutto laica, quindi immanente e non trascendente. Il crocifisso in aula non ha nulla di confessionale, vuole solo simboleggiare l’altezza alla quale gli operatori si sono impegnati ad agire col proprio giuramento. Sì, perché a differenza di altri rappresentanti per i quali è perfettamente legale e morale fregarsene dei rappresentati, come per esempio i deputati, magistrati e avvocati pronunciano un solenne giuramento di fedeltà.
Se ho costretto il lettore a un itinerario tortuoso era per dimostrare come e quanto la partecipazione all’applicazione della legge sia un ministero, più che un mestiere. Chi lo vive come tale non ne trascura alcun aspetto, incluso quello estetico. Vestire con rigore è il modo con cui chi abbia scelto di tutelare gli interessi di un cliente o dello Stato rappresenta la propria correttezza nel farsene carico. Non è vanità quanto serietà e rispetto, che sono nutrimento della fiducia e quindi della civiltà. In napoletano aulico l’avvocato di terza classe viene definito «paglietta», con riferimento al cappello da passeggio tanto amato a Napoli quanto irriverente in tribunale. Il termine dimostra come, nell’immaginario comune, professionalità carente e atteggiamento inadeguato siano indissolubilmente legati. Ho vissuto tra aule e cancellerie per una ventina di anni, durante i quali l’inesorabile disgregarsi dell’antica banchisa di attenzione faceva emergere iceberg che nel mare della sciatteria si notavano da lontano. Ricordo tra questi l’avvocato Eugenio Cricri, ancora attivo. Presiedeva la commissione che mi ammise all’esercizio della professione forense, ma ancor più lo ricordo per sobrietà e costanza dello stile.
MODELLI DI GIUSTIZIA. Stefano Zurlo sulla pagina di Rita Ferrauto su Radiomontecarlo. Fonte Arbiter. Dalla toga candida dei senatori romani alla barba sfatta di Antonio Di Pietro: la liturgia del tribunale, compito etico per eccellenza, richiederebbe ai suoi «sacerdoti» un dovere estetico. Abbiamo indagato con magistrati e avvocati quanto l’eleganza sia segno di ordine morale. Uno strappo osceno come una ferita. Immagini che fanno male per chi ancora crede che la giustizia porti con sé la scintilla del divino. Flash di un degrado che mette a soqquadro il nostro galateo istituzionale. Il pubblico ministero che discute di ergastoli al processo Mafia capitale, un capitolo di malaffare che ha fatto il giro del mondo, indossando la felpa e sgranocchiando cracker. La magistrata che riceve nel suo ufficio mostrando un look da casalinga nemmeno di Voghera e al cui disastroso abbigliamento manca solo la cuffia d’ordinanza delle nostre nonne. Il giudice che si presenta in udienza calzando jeans sdruciti e un mortificante paio di pantofole, come se il tribunale fosse solo una modesta appendice della sua camera da letto. E poi avvocati, qui ci limitiamo a declinare il genere maschile, dalle tenute improbabili, quasi partecipassero a un safari o a una festa, e non a un rito collettivo. Punture di spillo quotidiane e dolorose per chi osserva un mondo che dovrebbe trasudare compostezza e invece ha perso la sua cifra: una realtà in cui ciascuno è estraneo all’altro e l’io prevale sul noi. «Cominciò tutto con le sceneggiate di Antonio Di Pietro», è la requisitoria di Domenico Aiello, uno dei più affermati penalisti di rito ambrosiano, «che entrava in aula o addirittura guardava le telecamere e l’obiettivo dei fotografi con la barba sfatta. Lui, che era il pm più noto d’Italia, prendeva al volo una cravatta a prestito, infilava in extremis una giacca, acchiappava da una mano gentile la toga, come se non avesse tempo per dettagli considerati leziosi». Naturalmente tanti altri fattori, oltre al Tonino nazionale, hanno giocato in questa gara al ribasso in cui si è andato smarrendo il senso di appartenenza a una comunità e la consapevolezza del partecipare a una liturgia. Sì, il vocabolo per quanto desueto dovrebbe essere un monito insuperabile e una guida ferrea al mattino, al momento di pescare nel guardaroba la soluzione di giornata. «Io», insiste Aiello, «mi vesto con eleganza. Rispetto ovviamente la grammatica minima della professione: i completi devono essere blu e blu anche le cravatte. Questo perché io accompagno e gestisco le angosce dei miei clienti, persone che talvolta arrivano in manette e vivono in bilico fra la prospettiva del carcere e l’aspettativa della libertà. A questi uomini e a queste donne io devo trasmettere un messaggio di sobrietà, la mia presenza non deve essere eccessiva, non dev’essere vistosa, non può restare indifferente».
«Il tribunale», ribadisce Gian Piero Biancolella, uno dei maestri del diritto penale societario, «è in realtà un luogo di sofferenza e un abbigliamento consono costituisce una forma di rispetto per chi si trova nella tempesta. Può esserci», concede il professionista, «un buon giudice in pullover o un buon avvocato abbigliato informalmente. Ma per la funzione rivestita da entrambi, il rispetto della sobrietà se non dell’eleganza è ancora oggi a mio parere un obbligo». Che come troppe regole di questo Paese, scritte o solo supposte, sembra fatto apposta per essere calpestato. Oggi la liturgia è una messa talvolta urlata come a un concerto rock, o dimessa fino alla vergogna di un negozietto senza pretese o, ancora, esposta alla cafonaggine come in un cinepanettone natalizio. La rottura dell’etichetta diventa una profanazione al tempio della legalità e semina, nell’apparente disinvoltura generale e trasversale come una falsa fratellanza, i germi del dubbio, dell’inquietudine, del disagio se non del rancore. Jacopo Pensa, altra colonna dell’avvocatura ambrosiana, racconta un apologo assai istruttivo: «Un giorno, un mio cliente, entrato in aula, squadrò allarmato il giudice e mi domandò, sempre più in ansia: “Ma io devo essere giudicato da un tizio del genere?”. Il tizio di cui sopra aveva barba lunga, jeans stropicciati, scarpacce da tennis, un maglione logoro, anzi sfilacciato e, già che c’era, pure una sciarpa non proprio sfolgorante intorno al collo. Alla fine il mio assistito fu condannato a una pena che in realtà avevo ritenuto giusta ed equa, ma lui avrà sempre conservato l’idea di essere stato giudicato da un nemico sociale. Se il giudice avesse avuto giacca e cravatta, la condanna gli sarebbe parsa più accettabile e autorevole».
Rimpianti. Sospetti. Retropensieri. Non si tratta di rispolverare il vecchio adagio «l’abito fa il monaco», ma di non disperdere un patrimonio bimillenario di civiltà. «Nell’antica Roma», ricorda Aiello, «l’aspirante senatore seguiva un percorso preciso, dalle terme al Senato, indossando la toga candida. Era il “candidato”. E chi lo riteneva indegno si avvicinava e gliela sporcava con una manata di fango». Oggi c’è una caduta di stile che lascia esterrefatti. Ancora più marcata sul versante della magistratura. «Una volta», sottolinea Aiello distillando gocce di sarcasmo, «i magistrati si confondevano per eleganza con gli avvocati, ora non corrono più questo rischio. Ho accompagnato un prefetto all’appuntamento con un pm, uno dei più noti d’Italia, che l’aveva indagato e lo aspettava per l’interrogatorio. Abbiamo bussato, siamo entrati. Lui era seduto al computer, ci dava le spalle, non si è mosso, non ha neanche accennato un saluto. In compenso, sotto il gomito, si apriva nel trasandatissimo maglione un buco grande come un uovo». Sconfortante. Come l’episodio vissuto da Pensa: «Un magistrato, uno che ha una certa notorietà, mi ha dato un passaggio in macchina. Guidava senza scarpe e alla mia sorpresa ha risposto cosi: “Amico, sai quante suole consumerei se dovessi mettere le scarpe lungo tutto il tragitto in cui sono alla guida?”. Rimasi basito». Orizzonte stretto. Ideologia del potere. La convinzione che il look sia solo un complemento accessorio, anzi un nemico da combattere o almeno ignorare in una scala virtuosa delle priorità. Cascami di vecchie dottrine, magari intinte nel rosso, che prevedono il divorzio fra l’etica e l’estetica. C’è di tutto nel declino dei cataloghi prêt-à-porter dei palazzi di giustizia. Un fatto è sicuro: la classe forense stravince sulla corporazione in toga. «Per lunghi decenni», tira le fila Pensa, «il Petronio del Palazzo milanese, l’arbiter elegantiarum del rito ambrosiano è stato l’avvocato Peppino Lopez, inarrivabile finché ci ha lasciato sulla soglia dei cent’anni: portava sontuosi cappelli di Astrakan e gloriosi Borsalino vecchia maniera, faceva ruotare 200 paia di scarpe, tutte di rettile, offriva un fiore all’occhiello, diverso ogni giorno». Imbattibile.
Come Mario Colasurdo, uomo di legge senza definizioni perché quella di avvocato d’affari gli va stretta, che ha affrontato una manciata di cause, forse pure meno, nella sua carriera, e non mette piede in tribunale da anni, ma ha trasformato il suo successo in un biglietto da visita: riceve ministri, industriali, personalità, in particolare dalla Russia di Putin, nella sua sontuosa dimora. Siamo nel cuore di Milano, dalle parti di via Torino, in un edificio che ironia della storia fu nell’800 quartier generale di un serial killer, e chi sale quelle scale, fra busti, affreschi e soffitti a cassettoni, ha l’impressione di entrare in un piccolo palazzo di giustizia ideale: maestoso e austero, dai grandi spazi e dai profondi silenzi. Poi improvvisamente accogliente, quasi familiare e in sintonia con le aspettative di chi intuisce che il diritto non è solo la routine macinata nei piccoli studi a schiera, venuti su come funghi, ma un tratto di civiltà, una pagina di galateo, un’espressione della creatività italiana. Rarità da museo. Ci sono giudici che sfuggono per fortuna alla deriva generale: sempre a Milano Eugenio Fusco, appena promosso procuratore aggiunto dopo aver condotto inchieste delicatissime, dal crac Parmalat all’omicidio dell’ex calciatore trucidato solo qualche settimana fa e sigillato in un bidone per essere sciolto, predilige i completi sartoriali: prima a Chieti, la sua città di origine, nella bottega di Pio Marinucci, ora nella metropoli lombarda.
Stesso spartito per Luca Poniz, uno dei volti più conosciuti di Magistratura democratica, pm a Milano ed ex vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati: «Lo stile è l’abito dei pensieri, e un pensiero ben vestito, come un uomo ben vestito, si presenta molto meglio». Insomma, «lo stile è forma, ma in certi luoghi, e in certi ambiti, è sostanza. Io credo che lo stile dei magistrati sia una parte importante del loro essere, o essere percepiti, come simboli della peculiare funzione che svolgono. Naturalmente, ognuno deve poter interpretare liberamente il codice dello stile, a seconda del gusto personale e di tante variabili facilmente intuibili. Quel che è inaccettabile, perché rischia di contraddire la percezione dello stesso simbolo, è la trascuratezza che talvolta si nota: abbigliamenti inadatti, assenza di cravatta, persino magliette e scarpe ginniche in udienza. Un magistrato dev’essere magistrato anche nel modo di vestire». Purtroppo le sentinelle del buongusto sono merce sempre più rara. Al di là delle generalizzazioni, la toga diventa solo un orpello burocratico, quasi l’ingombrante apparizione di un passato testardo che non se ne vuole andare. Questioni di stile ma anche di geografia. Sì, pure la geografia giudiziaria è sottosopra. Una volta l’uomo di legge si avvicinava a un crocchio di toghe e sapeva a chi chiedere: la cordoniera rossa indicava il cancelliere. Oggi il cancelliere la toga l’ha buttata in cantina; lo Stato non la passa e spendere 200-300 euro diventa un lusso di cui le giovani generazioni fanno a meno. Salta un altro tassello del mosaico, salta un altro segnale di riconoscibilità dentro un percorso sempre più confuso. Anche se non mancano segnali in controtendenza, come la circolare dell’allora presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio, del 2014. La disposizione, preceduta da altre analoghe a Roma e Torino, impone anche nei processi civili la toga e il bavaglino. «Condivido in pieno», rilancia Biancolella, «il bavaglino, la cravatta bianca inamidata, completa la toga. Anche se molti non si attengono alla prescrizione». Ridotte a grida manzoniane.
Di più, il viaggio nei lunghi corridoi che suggeriscono prospettive dechirichiane, può trasformarsi in una successione di sorprese (eufemismo) sgradevoli. In un gioco delle parti dove le parti vanno ciascuna per conto proprio. «Ormai ti può accadere di tutto», chiosa Pensa, «persino che il babelico clima generale porti a uno spiacevole equivoco. L’ho verificato con i miei occhi nel corso di un dibattimento con imputati di ’ndrangheta. In mezzo al pubblico c’era un ragazzotto che indossava una maglia bianca su cui campeggiava la scritta “Mascalzone latino”. Dopo qualche minuto si è percepita nell’aula una crescente agitazione. Sguardi tesi. Movimenti fra i carabinieri. Frasi sussurrate da un orecchio all’ altro. Noi difensori davamo le spalle alla piccola folla assiepata in fondo al salone e non capivamo. Poi io mi sono voltato e ho intuito. Allora ho informato il presidente, spiegandogli che c’era un’imbarcazione in corsa all’America’s Cup con quel nome. Sulla sua faccia è affiorato l’imbarazzo, ma per non fare una figuraccia, dopo un attimo di esitazione, si è rivolto a un militare e gli ha detto: “Beh, identifichi quel signore lo stesso”». Così la sacralità evapora fra sviste, cadute di tono, cicche masticate e talvolta esibite con maleducazione. E le forme della liturgia, dentro quell’ansimante catena di montaggio che macina milioni di fascicoli da Milano a Roma e da Udine a Palermo, scolorano in tic quasi comici. Esperienza personale da vecchio cronista di giudiziaria. Salone formato aeroportuale delle direttissime: mi trovo solo con il giudice. Lei è a capo chino, sembra assorta, forse in meditazione. Provo: «Scusi». Alza furente lo sguardo: «Non vede che sono in Camera di consiglio?». Mi cospargo il capo di cenere, attendo paziente qualche minuto in quella situazione surreale. Poi lei riallinea la faccia con l’asse terrestre. Il conclave è finito.
La foschia diventa un polverone nelle stanze sature di umanità del civile. Qui il testimone che non sia più che scafato perde anche l’ultima bussola. Il più delle volte supera la porta spalancata, avanza intimidito fra urla e schiamazzi, infine punta su quel signore che sta seduto, intento a scrivere: «Scusi giudice, posso disturbarla?». «Ma io sono il cancelliere, il magistrato è quello là», risponde. E la liturgia ormai spogliata come un albero d’inverno si arrende agli strepiti del suq.
Perché gli avvocati portano la toga? Mariano Acquaviva il 29 Gennaio 2018 su Legge per tutti. La toga risale all’epoca romana ed è simbolo di una professione di grande prestigio. Una lunga veste nera ammanta avvocati, giudici e pubblici ministeri quando viene celebrata l’udienza in aula: si tratta della toga, abito forense per eccellenza. Perché gli avvocati portano la toga? Per prestigio? Per intimorire i clienti? Per vanteria? Scopriamolo insieme.
La toga che oggi portano gli avvocati ha un’origine molto remota: essa era una veste degli antichi romani, costituita da un drappo che si indossava sopra la tunica e che avvolgeva la persona passando sotto l’ascella destra in modo da lasciare libero il braccio, annodandosi infine sopra la spalla sinistra. Indubbiamente la toga era una veste nobile, tipica dei patrizi. Essa divenne in Roma il simbolo delle cariche pubbliche, del potere civile, dell’attività politica. A Roma erano conosciuti diversi tipi di toghe: quella color porpora era considerata l’indumento nazionale romano ed era diversificata per colore e per tipo di orlatura a seconda delle cariche e delle circostanze; la più importante era senza dubbio quella che ammantava l’imperatore stesso. Durante il medioevo la toga, pur cambiando fattezze, si affermò come veste tipica dei magistrati e per quanti rivestissero un ruolo di primo piano all’interno della società, come i medici. Oggi la toga continua a contraddistinguere magistrati e avvocati impegnati nelle vicende processuali, ma anche gli accademici e i docenti universitari durante le cerimonie formali.
Com’è fatta la toga? Non tutti sanno che la forma e le dimensioni della toga sono stabilite addirittura dalla legge [1]! Per i procuratori, la toga dovrebbe essere «chiusa ed abbottonata in avanti con colletto largo cinque centimetri e orlato da una leggera filettatura in velluto e cordoni e fiocchi di seta nera; cravatta di battista bianca con merlettino e tocco in seta senza alcun distintivo». Per gli avvocati, invece, la toga dovrebbe essere «aperta, con larga mostratura in seta, colletto largo venti centimetri ed orlato da fascia di velluto dell’altezza di tre centimetri, maniche orlate da fascia di velluto dell’altezza di dieci centimetri, cordoni e fiocchi di argento misto a seta nera, o d’oro misto a seta nera (nelle proporzioni di due terzi e un terzo) […]cravatta di battista, bianca con merlettino, e tocco in seta fregiato da una fascia di velluto». I colori della cordoniera si diversificano a seconda se l’avvocato sia o meno abilitato a patrocinare presso le magistrature superiori (Corte di Cassazione e Consiglio di Stato): nel primo caso, i cordoni saranno d’oro misto a seta nera; nel secondo, di argento misto a seta nera. La legge, inoltre, fa obbligo agli avvocati e ai procuratori di indossare la toga nelle udienze dei tribunali e delle corti e persino dinanzi ai consigli dell’ordine e al consiglio superiore forense. In caso di violazione dell’obbligo è possibile che venga comminata una sanzione disciplinare. Questo obbligo, però, è rimasto sulla carta, nel senso che gli avvocati sono soliti indossare la toga solamente nelle udienze penali (nemmeno tutte) e quando patrocinano in Cassazione o al Consiglio di Stato.
Perché gli avvocati indossano la toga? Gli avvocati indossano la toga quale simbolo di una professione che, seppur libera e svolta in regime di concorrenza, si differenzia dalle altre per la nobiltà della sua missione e per la sua indispensabilità. L’avvocato, infatti, garantisce un diritto che la Costituzione definisce inviolabile, cioè quello alla difesa. Possiamo quindi dire che, in un certo senso, la professione di avvocato trova la sua legittimazione e la sua prima disciplina direttamente nella Costituzione, sebbene affondi le radici negli albori della civiltà. L’avvocato che indossa la toga porta avanti una tradizione millenaria e carica lo stesso professionista dell’onere di contribuire a che venga fatta giustizia. La toga è il simbolo esteriore dell’altissima funzione sociale, intellettuale e morale che l’avvocato è chiamato a svolgere; è la veste che caratterizza il ruolo essenziale della difesa nel processo; è il punto di riferimento del cittadino che vede violati i propri diritti.
ORDINAMENTO E TOGHE. Curiosità ed estrosità del nostro sistema giudiziario. Un viaggio nel regno dell'impossibile. Alvano.it. Siamo alle porte del terzo millennio e l'umanità talvolta anche con angoscia si chiede cosa succederà. Taluni pensano che forse vestiremo con tute spaziali o saremo capaci di metterci davanti ad un computer e ritrovarci virtualmente da un'altra parte del mondo, così come avviene oggi con il fax ed i dati elettronici su Internet. Altri invece molto più sfiduciati pensano che le cose non cambieranno, anzi, come i fautori dell'antica Repubblica di S. Marco, vorrebbero un ritorno all'antico. Ed è così che, come in una sorta di flash back, abbiamo provato ad immaginare che cosa succederebbe nelle aule di giustizia della nostra Repubblica, se volessimo semplicemente applicare norme tuttora esistenti e vigenti e tra queste quelle che impongono il modo di vestire a giudici e avvocati. L'effetto sarebbe davvero sorprendente e dobbiamo considerare che se in pratica non fossimo fuorilegge, tutti i giorni assisteremmo ad una sorta di rappresentazione teatrale che farebbero somigliare i nostri tribunali più a cinecittà che a città del futuro. L'art. 170 dell'ordinamento giudiziario approvato con r.d. 14/12/1865 n.2641, non abrogato, dispone che nelle pubbliche udienze delle corti e dei tribunali gli avvocati e i patrocinanti indossino le seguenti divise: toga di lana nera alla foggia di quella prescritta per i funzionari giudiziari, ma abbottonata sul davanti con le maniche orlate di un gallone di velluto nero, rialzate e annodate sulle spalle con cordoni e nappine di seta nera; hanno il tocco di seta nera fregiato di un gallone di velluto nero, e il collare di tela batista. L’art. 156 precisa che la magistratura fa uso di due distinte divise: una con toga per le pubbliche sedute e udienze: l'altra con abito a spada per presentarsi individualmente in forma ufficiale e solenne. Le divise di tutti, indistintamente i funzionari della magistratura giudicante e dei pubblici ministeri si compongono di zimarra nera, con cintura di seta guarnita di nappine, toga di lana nera con maniche rialzate e annodate alle spalle con cordoni, tocco, ossia berretto nero, e collare di tela batista. La qualità e il grado rispettivo dei suddetti funzionari sono determinati dai distintivi seguenti:
A. la zimarra di tutti i membri giudicanti e del pubblico ministero, delle corti di cassazione e d’appello è di seta; quella degli stessi funzionari dei tribunali e dei pretori è di lana;
B. la cintura dei suindicati funzionari delle corti è rossa con nappine d'oro: quella dei funzionari dei tribunali è turchina con nappine di seta uguale nelle adunanze ordinarie, e d'argento nelle circostanze solenni; e quella dei pretori è nera con nappine simili di seta;
C. i cordoni per le corti sono d'oro, per i tribunali d'argento, per i pretori di seta nera;
D. il tocco per le corti è di velluto fregiato in oro, per i tribunali e per i pretori è di seta fregiato in argento;
E. il tocco del primo presidente e procuratore generale della Corte di Cassazione è fregiato di tre galloni, quello dei presidente di sezione e avvocato generale della cassazione, dei primi presidenti di corti d'appello e procuratori generali presso le stesse corti, dei presidenti e procuratori dei Re dei tribunali è fregiato di due galloni, quello dei consiglieri e sostituti procuratori generali di Cassazione, dei presidenti di sezione e avvocati generali delle corti d'appello e dei vicepresidenti dei tribunali è fregiato di un gallone, quello dei consiglieri d'appello e sostituti procuratori generali presso le corti d'appello, dei giudici e sostituti procuratori dei Re è fregiato di un cordone, e quello dei pretori è fregiato di un filetto. Il tocco dei sostituti procuratori generali aggiunti è fregiato di un cordoncino d'oro. Il cancelliere della corte di cassazione vestirà le medesime divise che sono stabilite per i consiglieri della corte stessa, eccetto che le nappine della cintura e i cordoni delle maniche saranno di seta, e il tocco avrà un filetto d'oro. Le divise dei cancellieri, vice-cancellieri e vice-cancellieri aggiunti delle corti, nel tocco di velluto per questi e di seta per quelli dei tribunali fregiato di cordone di seta, e nel collare di tela batista. Nelle riunioni solenni le divise per le corti di cassazione e d’appello si modificano nel modo seguente:
A. tutti i funzionari giudiziari appartenenti o addetti alle corti di cassazione e d'appello vestono la toga rossa, di velluto per i primi presidenti, i presidenti di sezione, i procuratori e avvocati generali, i consiglieri e sostituti procuratori generali di cassazione, di panno per i consiglieri, gli avvocati generali, i sostituti procuratori generali aggiunti delle corti d'appello e per i cancellieri delle suddette corti;
B. La toga dei primi presidente e dei procuratori generali delle corti di cassazione e d'appello, del presidente di sezione e avvocato generale di cassazione è con batalo e strascico. Per questi ultimi lo strascico è più corto di quello dei primi presidenti e procuratori generali;
La toga e il batalo dei primo presidente e del procuratore generale di cassazione sono soppannati d’ermellino; il batalo dei primi presidenti e procuratori generali delle corti d'appello, del presidente e dell'avvocato generale di cassazione è egualmente soppannato d’ermellino;
C. le maniche delle toghe di velluto sono soppannate di raso rosso per i funzionari giudicanti, e nero per i funzionari del ministero pubblico. Le maniche delle toghe di panno sono soppannate, per i funzionari giudicanti e del ministero pubblico, di velluto colla distinzione sopra indicata, e per i cancellieri di seta rossa. Le maniche della toga dei sostituti procuratori generali aggiunti sono soppannate di raso nero.
Persino gli uscieri, dovrebbero darsi una spolverata, poiché la legge prevede che gli uscieri in servizio alle udienze delle corti e dei tribunali vestono tunica lunga fino al ginocchio di panno nero tutta abbottonata con una fila di bottoni lisci di seta, fascia alta dodici centimetri, serrata alla persona sul dietro con fibbie, collare liscio di tela batista, calzoni corti con calze di lana, mantelletto di panno lungo quanto la tunica e tocco di lana nera. Gli uscieri delle corti hanno calze e mantelletto di colore rosso e la fascia di seta rossa; gli altri hanno calze, mantelletto e fascia di color nero, e questa di lana. Le corti hanno una mazza e bastoni per gli uscieri, i tribunali hanno bastoni. Quella e questi si custodiscono a cura rispettivamente dei primi presidenti e dei presidenti dei tribunali; si collocano sulle tavole della corte o del tribunale in tempo delle pubbliche udienze, e si portano avanti dagli uscieri quando la corte o il tribunale esce in pubblico. Ogni funzionano giudicante o del ministero pubblico, nell'atto che esercita individualmente le sue funzioni giudiziarie fuori dell'ordinaria sua sede, si fregia ad armacollo sotto l'abito di una fascia di seta, alta dodici centimetri, rossa se appartiene ad una corte, turchina se è membro di un tribunale o di una pretura, terminata in ambo i casi con nappine di seta di colore uguale alla fascia. La fascia dei funzionari del ministero pubblico è soppannata di seta nera. L'usciere porta appesa al collo una catenella con una medaglia, sulla quale è incisa l'indicazione della corte, del tribunale, o della pretura a cui è addetto. Per gli uscieri delle corti la catenella e la medaglia sono dorate, per gli uscieri dei tribunali e delle preture la catenella e la medaglia sono argentate. Gli uni e gli altri ne fanno uso anche quando assistono alle pubbliche udienze. Perciò, altro che computer, addirittura è prescritto l'uso della spada. Tutti indistintamente i funzionari dell'ordine giudiziario, quando si presentano individualmente in forma officiale e solenne, vestono abito, pantaloni, e corpetto di color nero. L'abito è a taglio dritto e ad una fila di nove bottoni, con falde distese, finte orizzontali alle tasche con tre bottoni posti orizzontalmente sotto le finte e fiorone in ricamo in mezzo a queste. L'abito di tutti i membri e del ministero pubblico della cassazione, dei. primi presidenti, presidenti di sezione, procuratori generali e avvocati generali delle corti d'appello è di velluto con rovescio di raso alle falde; per tutti gli altri funzionari è di panno, con collaretto, paramani e finte di tasche di velluto, e rovescio alle falde di seta per tutti i funzionari delle corti d'appello, e di panno per quelli dei tribunali e delle preture. I pantaloni sono di panno con gallone lungo la cucitura esteriore. Il gallone è in oro per il primo presidente e procuratore generale di cassazione, tessuto in argento con striscia d'oro per i primi presidenti e procuratori generali, delle corti d'appello, e per il presidente di sezione e avvocato generale della cassazione; d'argento per i presidenti di sezione e avvocati generali delle corti d'appello; di seta con striscia d'oro nel mezzo per i consiglieri e sostituti procuratori generali di cassazione; e di seta nera per tutti gli altri funzionari delle corti, dei tribunali e delle preture. Il corpetto ha una fila di bottoncini, ed è di raso per tutti i membri giudicanti e del ministero pubblico delle corti, dei tribunali e delle preture. I bottoni dell'abito e dei corpetto sono di metallo dorato, convessi e con le insegne dell'autorità giudiziaria sormontate dalla corona reale, il tutto in rilievo e velato su fondo brunito; cravatta e guanti bianchi e stivaletti di cuoio verniciato; cappello arricciato di feltro nero con nappa tricolore italiana, assicurata da grovigliola d'oro e d'argento alternati. Il cappello è contornato da un giro di piuma bianca per i primi presidenti e procuratori generali, nera per gli altri membri giudicanti e dei ministero pubblico delle corti, e per i presidenti e vice presidenti dei tribunali procuratori dei Re; il cappello di tutti gli altri funzionari delle corti e dei tribunali è senza piuma; spada ad elsa di metallo dorato con impugnatura di madreperla, e l’elsa a mezza coccia rovesciata, sulla cui parte esteriore forbita lo stemma reale in rilievo e velato, coronato e attorniato di rami d'olivo. La guaina della spada è di cuoio nero verniciato con puntale dorato, ed è appesa a cinturino dì panno nero affibbiato sotto l'abito. Ma la vera stranezza non è quella che precede, poiché si sa il bel suolo italico è la patria degli stilisti, quanto il fatto che gli stilisti, nel processo a loro carico tenutosi a Milano, non hanno preteso di essere giudicati da una corte vestita alla moda.
Avvocati: perché portano la toga nera? La toga nera è il simbolo di un ruolo che, purtroppo, sta perdendo il fascino della solennità. Vediamo la sua storia e il suo significato. Annamaria Villafrate su studiocataldi.it. L'emozione che un avvocato prova nel momento in cui indossa la toga per la prima volta è unica. La toga infatti non è solo un paramento. Essa ha un significato illustre e origini antichissime. Vediamo qual è la sua storia, come è fatta e quale messaggio trasmette.
La toga nasce nell'antica Roma. In quel periodo è un drappo che si indossa sopra la tunica, annodato sulla spalla sinistra per avvolgere il corpo e passato sotto l'ascella destra, per lasciare libero il braccio. La toga può essere indossata solo dai cittadini romani maschi e liberi, che rivestono determinate cariche e funzioni. Essa infatti è l'emblema esteriore del potere civile e politico di chi esercita funzioni pubbliche di un certo rilievo. Le toghe hanno colori e fogge diverse e possono essere indossate n situazioni particolari e solo da chi ricopre certe cariche. La toga bianca, ad esempio, viene indossata da chi si candida alle elezioni, quella orlata di porpora invece è l'indumento distintivo di magistrati, senatori e antichi Re di Roma. Il nero non è un colore molto usato nell'epoca romana per tingere i tessuti. La toga più importante di colore scuro (grigio o marrone) è "la pulla", indossata nei giorni di lutto.
La toga nel Medioevo diventa nera. Durante l'età di mezzo il nero, colore tipico dell'oscurantismo del periodo, assume un significato diverso e la toga, trasformandosi in un abito vero e proprio, diventa una specie di uniforme. Medici, professori, avvocati e notai la indossano in considerazione del ruolo che ricoprono nella società. Ecco quindi il momento in cui la toga degli avvocati diventa nera.
La toga: come è fatta? Forma, tessuto, decori e accessori della toga sono stabiliti dal R.D. n. 2641 del lontano 14-12-1865 che, nella sezione dedicata alle "divise" di avvocati e procuratori, stabilisce: "Nelle pubbliche udienze delle corti e dei tribunali gli avvocati patrocinanti indossano le seguenti divise: Toga di lana nera alla foggia di quella prescritta per i funzionari giudiziari, ma abbottonata sul davanti con maniche orlate di un gallone di velluto nero, rialzate e annodate sulle spalle con cordoni e nappine di seta nera; hanno il tocco di seta nera fregiato di un gallone di velluto nero, e il collare di tela batista. I procuratori vestono toga di lana nera, abbottonata sul davanti, con maniche rialzate e annodate sulle spalle con cordoni di lana nera; hanno tocco di seta nera senza gallone, e collare di tela batista." Un elemento distintivo importante della toga è la cordoniera. I colori di questo elemento decorativo variano in base alle magistrature superiori innanzi alle quali l'avvocato è abilitato a patrocinare. Oro e seta nera per la Cassazione, argento e seta nera per il Consiglio di Stato.
Toga: quando è obbligatorio indossarla? La legge prevede l'obbligo, punibile con sanzione disciplinare, d'indossare la toga nelle pubbliche udienze delle corti e dei tribunali e innanzi ai consigli dell'ordine e al consiglio superiore forense. In realtà da tempo gli avvocati hanno adottato l'abitudine di vestire la toga solo nel corso delle udienze penali e quando devono patrocinare una causa davanti alla Corte Cassazione o al Consiglio di Stato.
Toga: simbolo del diritto di difesa. Rispondendo alla domanda posta all'inizio, gli avvocati vestono la toga perché essa è un simbolo esteriore di libertà e prestigio. Il professionista della legge infatti garantisce e tutela il diritto costituzionale alla inviolabilità della difesa. Il difensore svolge un mestiere nobile, che ha il suo fondamento nella Costituzione e la sua autorevolezza nella storia. Nel momento in cui l'avvocato indossa la toga davanti all'autorità giudiziaria si mette al servizio del cittadino, diventando suo tramite e strumento, per cercare verità e giustizia. Come sosteneva Calamandrei del resto: "Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l'impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza."
La toga: cenni storici e significato. Qual è il significato della toga per gli avvocati. Cenni storici sulla "veste nera" e significato nel tempo. Avv. Luisa Camboni su studiocataldi.it. Prima di passare ad esaminare l'importanza della veste nera, che Noi Avvocati dobbiamo onorare e indossare con rispetto, riporto un passo del Carnelutti: "….la Toga è un costume maestoso, che magnifica non tanto la persona, quanto la funzione e l'ordine sociale stesso che ha fornito l'investitura. Ma il costume giudiziario non è riservato ai soli rappresentanti dell'Autorità, bensì anche agli Avvocati, che difendono interessi privati. Avvocati, Pubblici Ministeri e Presidenti indossano tutti una toga molto simile. […]Rifiutarsi di indossare la toga rappresenta, perciò, la rottura più violenta dell'ordine che sia dato immaginare. […]".
La toga - il cui nome è collegato con il verbo latino tego,"ricoprire" - era una veste usata dagli antichi romani. Si indossava sopra la "tunica" e avvolgeva la persona passando sotto l'ascella destra in modo da lasciare libero il braccio destro e si annodava sopra la spalla sinistra formando, così, ricche pieghe trasversali. Senza dubbio, la toga era una veste signorile e, comunque, non veniva indossata dalla plebe. Nell'Antica Roma era l'emblema delle cariche pubbliche, del potere civile, dell'attività politica. A questo proposito cito il motto: "Cedant arma togae" cioè le armi cedano il posto alle civili magistrature, all'attività pacifica -Cicerone, De officiis, I, 77. Da questo motto si coglie il significato che, già al tempo di Cicerone, veniva attribuito a chi indossava il "cencio nero"; e, cioè si abbandonino le armi e si rimetta la soluzione dei casi nella persona dell'avvocato, professionista della parola.
I tipi di toga.
Nell'Antica Roma si distinguevano diversi tipi di toga:
- la "toga praetexta" - cioè orlata di porpora - era considerata la veste nazionale romana ed era diversificata per colore e per tipo di orlatura a seconda delle cariche e delle circostanze;
- la "toga virilis" era il simbolo della maggiore età (i fanciulli la indossavano a 17 anni);
- la "toga purpurea", infine, era privilegio dell'Imperatore.
La toga nel medioevo. A seguito del crollo dell'Impero Romano la toga cadde in disuso per comparire nel Medio Evo come abito solenne per magistrati, patrizi, persone di rango e, perfino, per i medici.
Nel corso dei tempi la toga subì profonde modifiche rispetto al modello originale romano. Essa divenne più ampia e più lunga, venne corredata di maniche e altri accessori, come il colletto e il copricapo.
La toga "moderna". In tal modo la toga è giunta fino ai giorni nostri divenendo la veste tradizionale dei giudici e degli avvocati nei dibattiti processuali, nonché il paramento solenne degli accademici e dei docenti universitari nelle cerimonie pubbliche. Nel tempo sono state più volte fissate precise regole perché la foggia delle toghe rendesse chiaro, evidente il grado o il rango di chi le indossava.
Toga e tocchi: come devono essere. Gli artt. 104 e 105 del R.D. del 26.08.1926, riguardanti le toghe e i tocchi degli avvocati, così dispongono:
Art. 104. - "Le divise degli avvocati e dei procuratori sono conservate nella foggia attuale, con le seguenti modificazioni: per i procuratori la toga è chiusa ed abbottonata in avanti con colletto largo cinque centimetri e orlato da una leggera filettatura in velluto e cordoni e fiocchi di seta nera; cravatta di battista bianca con merlettino e tocco in seta senza alcun distintivo. Per gli avvocati la toga è aperta, con larga mostratura in seta, colletto largo venti centimetri ed orlato da fascia di velluto dell'altezza di tre centimetri, maniche orlate da fascia di velluto dell'altezza di dieci centimetri, cordoni e fiocchi d'argento misto e seta nera, o d'oro misto a seta nera, (nelle proporzioni di due terzi ed un terzo) a seconda che siano iscritti nell'albo di un collegio o nell'albo speciale di cui all'art. 17 della legge 25 marzo 1926, n.453, cravatta di battista bianca con merlettino e tocco in seta, fregiato da una fascia di velluto.
Gli avvocati ed i procuratori debbono indossare le divise nelle udienze dei tribunali e delle corti, nonché dinanzi alle magistrature indicate nel capoverso dell'articolo 4 dalla predetta Legge e dinanzi ai consigli dell'ordine ed al Consiglio Superiore Forense. Si procede in via disciplinare contro coloro che contravvengono alla presente disposizione".
Art. 105. - "Il tocco dei membri dei consigli degli ordini dei procuratori è fregiato di un cordoncino di argento misto a seta nera; quello dei presidenti in città non sedi di corte di appello, di un gallone di argento portante nel mezzo un cordoncino di argento misto a seta nera; e quello dei presenti in città sedi di corte di appello, di due galloni di argento misto a seta nera.
Il tocco dei membri del consiglio dell'ordine degli avvocati è fregiato di un cordoncino di oro misto a seta nera, quello dei presidenti in città non sedi di corte di appello di un gallone d'oro portante nel mezzo un cordoncino d'oro misto a seta nera, quello dei presidenti in città sedi di corte di appello e dei membri del consiglio superiore forense di due galloni portanti nel mezzo di ciascuno di essi un cordoncino d'oro misto a seta nera, e quello del presidente del consiglio stesso di tre galloni di oro portanti anche nel mezzo di ciascuno di essi un cordoncino d'oro misto a seta nera.
L'argento e l'oro sono in correlazione alla seta nella proporzione di due terzi e di un terzo.
Il tocco dei dirigenti delle associazioni di avvocati e procuratori legalmente riconosciute è egualmente fregiato di speciale distintivo che per il segretario nazionale è costituito di due galloni di oro misto ad argento in eguali proporzioni, per il segretario dei sindacati di un gallone di oro misto ad argento in eguali proporzioni, per i membri del direttorio di un cordoncino d'oro misto ad argento anche esso in eguali proporzioni. I cordoncini sono per larghezza ed altezza alquanto più piccoli di quelli degli ufficiali inferiori del regio esercito e i galloni simili a quelli degli ufficiali superiori.
Il tocco con i fregi predetti si usa nelle cerimonie ufficiali e nelle udienze del consiglio superiore forense. Nelle altre circostanze si usa il tocco di seta con fascia di velluto per gli avvocati e il tocco di seta per i procuratori".
Si ricordi che la figura del procuratore legale è stata soppressa.
Toga emblema della funzione sociale e morale dell'avvocato. Dalle summenzionate disposizioni si desume che, al di là dell'obbligo di legge e delle possibili sanzioni disciplinari che possono essere comminate, Noi Avvocati dobbiamo sempre indossare la toga consci di non essere assoggettati ad un obbligo, ma di essere ammessi ad un onore e ad un privilegio; onore e privilegio fonti di grandi responsabilità. La toga è, infatti, l'emblema esteriore dell'altissima funzione sociale, intellettuale e morale dell'avvocato; è, altresì, la veste che contraddistingue il ruolo importantissimo della difesa nella dialettica del processo; è, insomma, il punto di riferimento del cittadino che in essa ripone fiducia ogniqualvolta veda violati i propri diritti, et nel pubblico et nel privato.
Per concludere, la toga non è una semplice veste per identificare chi svolge, la professione di avvocato, ma è qualcosa di più, in quanto racchiude in sé diversi significati. Toga significa professionalità; Toga significa ricerca di Giustizia e Verità; Toga significa buon senso ed umiltà; Toga significa rispetto; Toga significa equilibrio; Toga significa essere non apparire…Non basta indossare la toga, non basta sproloquiare di libertà, indipendenza… se dentro di Noi Avvocati non siamo nella nostra coscienza liberi, indipendenti nell'esercizio della professione, come dispone l'art. 10 del Codice deontologico forense "Dovere di indipendenza": Nell'esercizio dell'attività professionale l'avvocato ha il dovere di conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti esterni.[…]".
R.D. 14-12-1865 n. 2641. Regio Decreto col quale è approvato il Regolamento generale giudiziario per l’esecuzione del Codice di procedura civile, di quello di procedura penale e della legge sull’ordinamento giudiziario. Pubblicato nella Gazz. Uff. 20 dicembre 1865, n. 292.
Capo V. Sezione I. Delle divise della magistratura.
156. La magistratura fa uso di due distinte divise: una con toga per le pubbliche sedute e udienze: l’altra con abito a spada per presentarsi individualmente in forma ufficiale e solenne.
§ 1 Delle divise con toga.
157. Le divise di tutti indistintamente i funzionari della magistratura giudicante e del ministero pubblico si compongono di zimarra nera, con cintura di seta guarnita di nappine, toga di lana nera con maniche rialzate e annodate alle spalle con cordoni, tocco, ossia berretto nero, e collare di tela batista.
158. La qualità e il grado rispettivo dei suddetti funzionari sono determinati dai distintivi seguenti:
A. la zimarra di tutti i membri giudicanti e del ministero pubblico, delle corti di cassazione e di appello è di seta; quella degli stessi funzionari dei tribunali e dei pretori è di lana;
B. la cintura dei suindicati funzionari delle corti è rossa con nappine d’oro: quella dei funzionari dei tribunali è turchina con nappine di seta eguale nelle adunanze ordinarie, e d’argento nelle circostanze solenni; e quella dei pretori è nera con nappine simili di seta;
C. i cordoni per le corti sono d’oro, per i tribunali d’argento, per i pretori di seta nera;
D. il tocco per le corti è di velluto fregiato in oro, per i tribunali e per i pretori è di seta fregiato in argento;
E. il tocco del primo presidente e procuratore generale della corte di cassazione è fregiato di tre galloni, quello del presidente di sezione e avvocato generale della cassazione, dei primi presidenti di corti d’appello e procuratori generali presso le stesse corti, dei presidenti e procuratori del Re dei tribunali è fregiato di due galloni, quello dei consiglieri e sostituti procuratori generali di cassazione, dei presidenti di sezione e avvocati generali delle corti d’appello e dei vice-presidenti dei tribunali è fregiato di un gallone, quello dei consiglieri d’appello e sostituti procuratori generali presso le corti d’appello, dei giudici e sostituti procuratori del Re è fregiato di un cordone, e quello dei pretori è fregiato di un filetto. Il tocco dei sostituti procuratori generali aggiunti è fregiato di un cordoncino d’oro.
159. Le divise degli aggiunti giudiziari e degli uditori consistono nella toga di lana nera, tocco di seta, guarnito di un filetto d’argento quanto agli aggiunti, di seta per gli uditori, e collare di tela batista.
160. …Le divise dei cancellieri, vice-cancellieri e vice-cancellieri aggiunti delle corti d’appello e dei tribunali consistono nella toga di lana nera, nella zimarra di lana e cintura di seta nera con nappine e cordoni di seta rossa per i cancellieri, vice-cancellieri, e vice-cancellieri aggiunti delle corti, nel tocco di velluto per questi e di seta per quelli dei tribunali fregiato di cordone di seta, e nel collare di tela batista.
161…
162. Gli uscieri in servizio alle udienze delle corti e dei tribunali vestono tunica lunga fino al ginocchio di panno nero tutta abbottonata con una fila di bottoni lisci di seta, fascia alta dodici centimetri, serrata alla persona sul dietro con fibbie, collare liscio di tela batista, calzoni corti con calze di lana, mantelletto di panno lungo quanto la tunica e tocco di lana nera. Gli uscieri delle corti hanno calze e mantelletto di colore rosso e la fascia di seta rossa; gli altri hanno calze, mantelletto e fascia di color nero, e questa di lana.
163. Le corti hanno una mazza e bastoni per gli uscieri; i tribunali hanno bastoni. Quella e questi si custodiscono a cura rispettivamente dei primi presidenti e dei presidenti dei tribunali; si collocano sulle tavole della corte o del tribunale in tempo delle pubbliche udienze, e si portano avanti dagli uscieri quando la corte o il tribunale esce in pubblico.
164. Ogni funzionario giudicante o del ministero pubblico, nell’atto che esercita individualmente le sue funzioni giudiziarie fuori dell’ordinaria sua sede, si fregia ad armacollo sotto l’abito di una fascia di seta, alta dodici centimetri, rossa se appartiene a una corte, turchina se è membro di un tribunale o di una pretura, terminata in ambi i casi con nappine di seta di colore uguale alla fascia. La fascia dei funzionari del ministero pubblico è soppannata di seta nera.
165. Nelle circostanze indicate nell’articolo precedente l’usciere porta al collo appesa a una catenella una medaglia, sulla quale è incisa l’indicazione della corte, del tribunale, o della pretura a cui è addetto. Per gli uscieri delle corti la catenella e la medaglia sono dorate. Per gli uscieri dei tribunali e delle preture la catenella e la medaglia sono argentate. Gli uni e gli altri ne fanno uso anche quando assistono alle pubbliche udienze.
§ 2 Dell’abito a spada.
166. Tutti indistintamente i funzionari dell’ordine giudiziario, quando si presentano individualmente in forma officiale e solenne, vestono
A. abito, pantaloni, e corpetto di color nero:
L’abito è a taglio dritto e ad una fila di nove bottoni, con falde distese, finte orizzontali alle tasche con tre bottoni posti orizzontalmente sotto le finte e fiorone in ricamo in mezzo a queste.
L’abito di tutti i membri giudicanti e del ministero pubblico della cassazione, dei primi presidenti, presidenti di sezione, procuratori generali e avvocati generali delle corti d’appello è di velluto con rovescio di raso alle falde; per tutti gli altri funzionari è di panno, con collaretto, paramani e finte di tasche di velluto, e rovescio alle falde, di seta per tutti i funzionari delle corti d’appello, e di panno per quelli dei tribunali e delle preture.
I pantaloni sono di panno con gallone lungo la cucitura esteriore. Il gallone è in oro per il primo presidente e procuratore generale di cassazione, tessuto in argento con striscia d’oro per i primi presidenti e procuratori generali delle corti d’appello, e per il presidente di sezione e avvocato generale della cassazione; d’argento per i presidenti di sezione e avvocati generali delle corti d’appello; di seta con striscia d’oro nel mezzo per i consiglieri e sostituti procuratori generali di cassazione; e di seta nera per tutti gli altri funzionari delle corti, dei tribunali e delle preture.
Il corpetto ha una fila di bottoncini, ed è di raso per tutti i membri giudicanti e del ministero pubblico delle corti; di panno per tutti gli altri funzionari delle corti, dei tribunali e delle preture.
I bottoni dell’abito e del corpetto sono di metallo dorato, convessi e colle insegne dell’autorità giudiziaria sormontate dalla corona reale, il tutto in rilievo e velato su fondo brunito;
B. cravatta e guanti bianchi e stivaletti di cuoio verniciato;
C. cappello arricciato di feltro nero con nappa tricolore italiana, assicurata da grovigliola d’oro e d’argento alternati. Il cappello è contornato da un giro di piuma bianca per i primi presidenti e procuratori generali, nera per gli altri membri giudicanti e del ministero pubblico delle corti, e per i presidenti e vice presidenti dei tribunali e procuratori del Re; il cappello di tutti gli altri funzionari delle corti e dei tribunali è senza piuma;
D. spada ad elsa di metallo dorato con impugnatura di madreperla, e l’elsa a mezza coccia rovesciata, sulla cui parte esteriore forbita lo stemma reale in rilievo e velato, coronato e attorniato di rami d’olivo. La guaina della spada è di cuoio nero verniciato con puntale dorato, ed è appesa a cinturino di panno nero affibbiato sotto l’abito.
167. L’abito della magistratura ha ricami e guarnizioni in oro ed in argento distribuiti come segue:
A. i ricami per i membri giudicanti e del ministero pubblico di cassazione rappresentano rami di quercia intrecciati con rami d’olivo in oro e argento alternati, e per gli stessi funzionari delle corti d’appello consistono in due rami d’olivo fruttati uno d’oro e uno d’argento.
I ricami sono sovrapposti per tutti i suddetti funzionari al collaretto, ai paramani e alle finte delle tasche dell’abito, che ha, fra i due bottoni al taglio della vita, un fiorone corrispondente. Le finte di tasche dell’abito dei sostituti procuratori generali aggiunti sono fregiate, invece del ricamo, di una doppia bacchetta intrecciata d’oro e d’argento.
I primi presidenti e i procuratori generali aggiungono un ricamo sotto le finte delle tasche, lungo lo spaccato dell’abito sul petto, e tutto attorno alle tasche.
Il presidente di sezione e l’avvocato generale della cassazione aggiungono il ricamo sotto le finte delle tasche.
I funzionari di cancelleria delle corti e di segreteria dei procuratori generali hanno al collaretto il ricamo conforme a quello del corpo giudiziario cui appartengono, e alle finte delle tasche e ai paramani hanno una bacchetta, a tre giri per i cancellieri di cassazione, a due giri per quelli delle corti d’appello e ad un giro per i vice-cancellieri, vice-cancellieri aggiunti, e i segretari del ministero pubblico; i sostituti segretari e i sostituti segretari aggiunti hanno alle tasche e ai paramani un cordoncino in argento;
B. i membri giudicanti e del ministero pubblico dei tribunali hanno i ricami di un solo ramo d’olivo con foglie d’argento, frutti e gambo d’oro;
I presidenti e i procuratori del Re hanno il ricamo sul collaretto, sui paramani e sulle finte di tasche;
I vice presidenti hanno il ricamo sul collaretto e sui paramani, e una doppia bacchetta sulle finte di tasche;
I giudici dei tribunali e i sostituti procuratori del Re hanno il ricamo sul collaretto e un doppio cordoncino sui paramani e sulle finte, ricamato per i primi in oro, per i secondi in argento.
I cancellieri dei tribunali hanno sul davanti del collaretto due mazzetti, uno per parte, di rami d’olivo con foglie d’argento e frutti d’oro, con bacchetta semplice attorno al collaretto e ai paramani e cordoncino in ricamo alle finte di tasche. I vice-cancellieri, vice-cancellieri aggiunti, e i segretari del procuratore del Re hanno una bacchetta al collaretto;
C. i membri giudicanti e del ministero pubblico delle corti di cassazione e d’appello e i presidenti dei tribunali e i procuratori del Re hanno attorno alle maniche dell’abito, al luogo ove giunge il risvolto dei paramani, un cordoncino in ricamo, d’oro per il corpo giudicante, d’argento pel ministero pubblico;
D. i pretori hanno al collaretto il ricamo stesso dei membri dei tribunali, con bacchetta attorno ai paramani e cordoncino in ricamo alle finte di tasche.
I cancellieri delle preture hanno bacchetta al collaretto, cordoncino d’oro ai paramani e d’argento alle finte di tasche.
I vice-cancellieri delle preture hanno al collaretto due cordoncini, uno d’oro e l’altro d’argento, uno d’oro ai paramani e uno d’argento alle finte.
168. I funzionari giudiziari, in caso di collocamento a riposo, in aspettativa, o in disponibilità, hanno il diritto di portare la divisa ufficiale corrispondente al titolo e grado o alla qualità che abbiano conservato.
169. Le divise stabilite nella presente sezione, le mazze e i bastoni indicati nell’art. 163 e le medaglie menzionate nell’art. 165 saranno conformi ai modelli stabiliti dal ministro di giustizia.
Sezione II. Delle divise degli avvocati e dei procuratori.
170. Nelle pubbliche udienze delle corti e dei tribunali gli avvocati patrocinanti indossano le seguenti divise: Toga di lana nera alla foggia di quella prescritta per i funzionari giudiziari, ma abbottonata sul davanti con maniche orlate di un gallone di velluto nero, rialzate e annodate sulle spalle con cordoni e nappine di seta nera; hanno il tocco di seta nera fregiato di un gallone di velluto nero, e il collare di tela batista.
171. I procuratori vestono toga di lana nera, abbottonata sul davanti, con maniche rialzate e annodate sulle spalle con cordoni di lana nera; hanno tocco di seta nera senza gallone, e collare di tela batista.
Abbigliamento accademico. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'abbigliamento accademico (nel mondo anglosassone anche academicals e, negli USA, come academic regalia) è una forma tradizionale di vestiario indossato da chi riveste cariche di natura accademica, di regola nel corso di eventi e cerimonie ufficiali. In alcuni contesti culturali, tipicamente i paesi anglosassoni, esso è impiegato anche in alcune scuole secondarie. In tali paesi è spesso impiegato da tutti coloro che sono stati ammessi a dei corsi universitari,[1] mentre quasi ovunque in Italia (ad eccezione di alcune facoltà di alcuni atenei nell'ultimo decennio) essi sono indossati solo da parte del personale docente nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico, i cortei accademici e, in alcune facoltà, le sedute di laurea.
Cenni storici[modifica. L'abbigliamento accademico presente nelle università occidentali (essenzialmente europee e anglosassoni) è l'evoluzione della veste accademica ed ecclesiastica diffusa nelle università medievali in tutta Europa. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti esso deriva direttamente dal vestiario anticamente in uso presso le università di Oxford e Cambridge. Nei paesi del Commonwealth sono utilizzate toghe anteriormente aperte (per alcuni versi simili a quelle degli avvocati in Italia), mentre negli Stati Uniti si sono diffuse toghe chiuse (più simili alle toghe dei professori italiani).
Descrizione ed utilizzo. Nonostante attualmente esso sia impiegato quasi esclusivamente nel corso di occasioni ufficiali e cerimonie, un tempo l'abbigliamento accademico era utilizzato pressoché quotidianamente, e ancora lo è in alcune antiche università del mondo anglosassone. L'insieme e la forma di tali abiti, in Italia come all'estero, è legato alle tradizioni del singolo ateneo: così come l'elemento principale e più caratteristico di un completo maschile è la giacca, ugualmente l'elemento fondamentale di un abito accademico è la toga, la quale può essere fornita di una sorta di cappuccio, ed è spesso accompagnata da un cappello, che nel Regno Unito e negli Stati Uniti generalmente coincide col tocco di forma quadrata. L'abbigliamento accademico è impiegato anche da parte di membri di alcune società scientifiche (come la ben nota Royal Society) e di alcune istituzioni statali come divisa ufficiale. Al di sotto della toga si portano abiti più o meno formali: gli uomini generalmente vestono un completo scuro, con una camicia bianca e una cravatta, oppure una veste talare, un'uniforme militare o civile; le donne vestono in maniera equivalente, a un pari grado di eleganza. Alcune antiche università, come quelle di Oxford e Cambridge, prescrivono un preciso completo di abiti (noto con l'espressione di origine latina subfusc) da portare al di sotto della toga, che diviene perciò una sorta di lunga giacca. Nonostante le norme ufficiali di alcune università siano piuttosto tolleranti riguardo a ciò che la gente mette al di sotto della toga, tuttavia è considerata maleducazione rimanere in abiti informali quando richiesta la toga.
Materiali. In generale, i materiali impiegati per gli abiti accademici sono pesantemente influenzati dal clima del luogo dove ha sede l'istituzione accademica, o dal clima dove tali abiti saranno indossati (per esempio da parte di un membro del corpo accademico presso un'altra istituzione). Tali materiali possono essere molto economici (tipicamente tessuti sintetici) oppure di grande pregio (come la seta). Negli Stati Uniti, la maggior parte degli studenti si presentano spesso alle cerimonie di Bachelor(laurea triennale) e Master (laurea specialistica) con una versione souvenir della toga ("regalia"), che vengono preparati per un uso molto ridotto risultando perciò assai poco costosi. Per molti studenti americani la cerimonia di conferimento del titolo è di fatto la sola occasione in cui indossare un abito accademico, per cui si preferisce noleggiarlo piuttosto che acquistarlo. Tale versione da noleggio è generalmente confezionata in poliestere o con qualche altra fibra sintetica. In Gran Bretagna le toghe noleggiate sono quasi sempre in poliestere, mentre il cotone, la lana, la seta o la seta artificiale sono disponibili solo per i capi da acquistare. In genere le toghe britanniche per gli studenti undergraduate (laurea triennale) sono confezionate in cotone o cotone e poliestere e sono relativamente economiche per incoraggiarli ad averne una propria. Chi sceglie di acquistare un proprio abito accademico può optare per tessuti più pregiati, come il popelín, gros grain, percaille, cotone, lana, cashmere e altri. Inoltre sono utilizzati diversi tipi di seta, quali ad esempio la seta artificiale/rayon, il taffetà, il satin, la seta ottomana (seta intrecciata o lavorata a maglia), la seta pura, o una misto di più fibre. La seta ottomana pura è usata raramente, a parte le toghe ufficiali, essendo molto costosa. Alcune toghe possono essere ornate con fettucce, pizzi, cordini, bottoni o altri tipi di decorazione. In passato, per orlarne cappucci o colletti venivano impiegate in alcuni casi delle pellicce, dalle più modeste in pelo di coniglio a quelle più pregiate in ermellino per i gradi accademici più elevati (rettori e presidi di facoltà); veniva inoltre impiegata largamente pelle di pecora. Tuttavia oggi vengono impiegate quasi esclusivamente pellicce sintetiche, che risultano molto meno costose. Nei paesi anglosassoni, le toghe dei dottori di ricerca sono in genere fatte di flanella, panama, damasco o broccato e hanno colori vivaci (oppure sono nere, ma con la parte anteriore colorata) per distinguerli da chi ha un grado accademico più basso. Esse sono in genere le più costose, poiché devono essere tinte con un preciso colore e/o devono essere ornate in seta colorata.
In Italia le toghe, che sono vestite quasi esclusivamente dai professori, sono in genere interamente nere, e bordate con i colori propri di ciascuna facoltà.
Nel mondo. Le più prestigiose università del mondo anglosassone, numerose delle quali coprono le prime posizioni della classifica mondiale degli atenei, hanno un codice di abbigliamento per le occasioni ufficiali molto preciso e abbastanza rigido, che si è mantenuto pressoché invariato nel corso degli anni. In particolare in tali atenei è diffusa l'abitudine di vestire abiti accademici piuttosto spesso, in occasione di tutti gli ufficiali e delle cerimonie, dalle più comuni, come le lauree, fino alle più solenni, come l'entrata in ruolo di un nuovo professore, l'insediamento di un rettore o la visita di una personalità importante. In alcune di questi istituti, inoltre, è diffusa l'abitudine a vestire la toga in altre occasioni formali non cerimoniali, quali cene infrasettimanali nei college.
Canada. In Canada i vestiti accademici sono indossati da professori, dal personale degli atenei e delle facoltà e dagli studenti nel corso delle cerimonie di laurea o dottorato, oppure nel corso delle cerimonie di insediamento delle principali cariche universitarie, o nel corso di speciali cerimonie, quali la presa di possesso della cattedra da parte di un nuovo professore, il conferimento di premi, il riconoscimento di anzianità, l'ammissione a prestigiose istituzioni (per esempio società scientifiche). Gli abiti accademici tradizionali consistono tipicamente in un copricapo (un tocco quadrato, un bonnet tudor o un copricapo alla John Knox), una toga e un cappuccio. Fino agli anni trenta nelle università canadesi vi era l'obbligo per professori e studenti di vestire l'abbigliamento accademico ufficiale durante le lezioni. Nel Trinity College presso l'Università di Toronto vestire la toga accademica è tuttora obbligatorio, per studenti e docenti, nel corso delle cene infrasettimanali ufficiali, per la gran parte delle riunioni di college (college meetings), per i dibattiti e in altri particolari eventi. La gran parte delle università canadesi segue, o ha assunto, l'abbigliamento accademico di Oxford o quello di Cambridge, oppure ha adottato il ‘'Intercollegiate Code of Academic Costume'’ ratificato da molte università americane a fine anni ottanta. Le vesti ufficiali di altri atenei contengono elementi tipici britannici o americani in alcune o in tutte le proprie divise accademiche. Un esempio classico è quello dell'abbigliamento accademico della McGill University, le cui origini britanniche sono evidenti nelle vesti degli studenti che già possiedono il degree. Le vesti accademiche cerimoniali del personale della McGill University, d'altra parte, è più simile alla foggia americana per la toga di chi ha un master, con nella manica delle aperture quadrate sopra il gomito. La veste accademica scarlatta tipica del Doctor of Phylosophy (Ph.D.) di tale ateneo, oggi può essere portata chiusa anteriormente, nonostante la veste completa per il più alto grado di dottorato dell’Università di Cambridge, da cui essa deriva, sia solo aperta. Sulla toga della McGill sono inoltre cucite delle strisce dorate, come quelle utilizzate nelle vesti dottorali americane, e il cappello è un bonnet tudor o un tam.
Danimarca. Lo Studenterhue è il particolare berretto indossato dagli studenti danesi che hanno superato lo Studenteksamen, ovvero l'equivalente dell'esame di maturità italiano.
Italia. In Italia è possibile riscontrare molte differenze tra i diversi abbigliamenti accademici tradizionali di ciascuna università (toghe, tocco accademico, ecc.), differenze dovute al gran numero di antichi atenei presenti nel paese (per esempio toghe e cappelli dell'Università di Bologna, dell'Università di Pavia, dell'Università di Padova, dell'Università di Pisa, dell'Università di Siena, dell'Università di Firenze, dell'Università di Roma, ecc.). In genere toghe e abiti accademici sono indossati dai soli docenti o nel corso di cerimonie ufficiali o, in alcune facoltà, durante gli esami e le cerimonie di laurea (facevano eccezione i vestiti tradizionali dei goliardi come la feluca, che però non possono essere considerati né ufficiali né formali). Dopo il sessantotto molti professori in svariati atenei avevano cessato di impiegare la toga anche in occasioni formali, ma dagli anni novanta si è ricominciato a usarle nuovamente, in particolare nelle facoltà umanistiche. In alcune delle università italiane più antiche e prestigiose (per esempio Bologna, Padova, Firenze) anche gli studenti hanno iniziato a vestire toga e tocco durante le cerimonie di laurea, in genere in occasione del conferimento del dottorato di ricerca, in modo da conferire particolare solennità alla cerimonia di riconoscimento del più alto titolo di studio. Tradizionalmente le toghe sono sempre bordate coi colori della facoltà di appartenenza, i quali presentano alcune varianti tra una università e un'altra. Comunque, la suddivisione cromatica più diffusa è la seguente
Lettere e filosofia: Bianco
Architettura/Ingegneria: Nero
Economia: Giallo
Giurisprudenza: Blu
Farmacia: Rosso granata
Scienze politiche: Lilla
Scienze dell'educazione: Rosa
Medicina e Chirurgia: Rosso
Veterinaria: Viola
Agraria e Scienze matematiche, fisiche, naturali: Verde
Psicologia: Grigio
Sociologia: Arancione
Regno Unito e Irlanda. Negli atenei britannici e irlandesi ci sono delle grandi differenze tra i vari tipi di vesti accademiche. Di recente toghe, cappucci e cappelli sono stati classificati secondo la propria forma e il proprio disegno attraverso il sistema di classificazione di Groves, basato su un saggio di Nicholas Groves intitolato Hood and Gown Patterns, attraverso cui si assegna a ciascuna foggia o a ciascun disegno delle vesti accademiche un codice (Numero di classificazione di Groves). Per esempio, la toga da bachelor of arts (BA) è classificata come b2, e il relativo cappuccio di Cambridge è designato come f1, ecc. Poiché ciascuna università è libera di stabilire il disegno delle proprie vesti accademiche ufficiali, combinando tipo di toga (di varie forme), cappuccio e cappello (con vari disegni), aventi vari colori e materiali, e in relazione alle diverse prassi diffuse tra i sarti locali, raramente le vesti di un ateneo somigliano a quelle di un altro. Addirittura nel 2000 è stato fondato un centro studi, la Burgon Society per promuovere lo studio delle vesti accademiche, le cui pubblicazioni e attività hanno lo scopo di tracciare la storia e l'attuale impiego dell'abbigliamento accademico. Nel 2001 tale centro studi ha pubblicato la terza edizione del Shaw's reference book on British and Irish academical dress e in primavera organizza un congresso dove vengono esposte le più recenti ricerche in merito. Le attuali toghe derivano dalla roba che si indossava al di sotto della cappa clausa, un indumento simile a una lunga cappa. Nel medioevo tutti gli studenti universitari appartenevano almeno a un ordine minore, e quindi erano tenuti a portare la cappa, o una veste dell'ordine religioso di appartenenza, e a vestire con colori neri o comunque scuri. Le toghe più comuni, quelle simili alle antiche vesti del clero per Bachelor of Arts (BA) e Master of Arts (MA), sono sostanzialmente identiche in tutto il mondo anglosassone. Esse sono fatte di tessuto nero (nonostante in certe occasioni la toga possa essere tinta col colore proprio dell'ateneo o della facoltà), che pende posteriormente. Le toghe per i BA hanno delle maniche con una forma a campana, mentre le toghe per i MA hanno lunghe maniche strette all'estremità, con il braccio che passa attraverso un'apertura praticata sopra il gomito. Per il grado di dottore nel Regno Unito sono impiegate due diverse forme di toga, quella di Oxford e quella di Cambridge. La prima ha delle maniche a campana, mentre la seconda ha delle maniche lunghe e aperte. Un tipo di toga con una forma piuttosto rara è quella per il grado di MusD di Cambridge, che è una via di mezzo tra i due. Un'altra forma di toga da dottore è la cosiddetta toga informale (undress gown, letteralmente toga svestita), che è impiegata in occasioni meno formali, quali le lezioni. Di colore nero, di fatto si riduce a una lunga sorta di lunga giacca, ma oggi è impiegata piuttosto raramente, poiché molti preferiscono la toga formale. Comunque la toga informale è ancora presente negli atenei più antichi, dove l'abbigliamento accademico è normalmente impiegato. In molte delle università più antiche, anche gli undergraduates vestono le loro proprie toghe; il tipo più comune è essenzialmente una toga tipo BA lunga fino al ginocchio, oppure una toga da studente laico oxfordiano, che è senza maniche e a Oxford presenta due nastri che pendono posteriormente. A Cambridge, invece, la maggior parte del colleges hanno una propria toga con un proprio disegno. Comunque oggi gli studenti undergratues vestono la toga di rado (e sempre nelle occasioni e nelle istituzioni che la richiedono), tranne che nelle università più antiche e prestigiose. Un altro tipo di vestiario accademico, che oggi è raramente usato, è un tipo di tonaca, ed è indossato al di sopra di una toga nera. Solo le università di Oxford, Cambridge, Durham e Newcastle utilizzano la tonaca e il suo impiego è generalmente ristretto a occasioni cerimoniali molto formali, ed è riservato a chi riveste alte cariche accademiche.
Portogallo. Gli studenti portoghesi indossano il traje ovvero il mantello nero.
· Il "populismo penale" dei gialloverdi.
Cos’è il diritto penale totale? E’ il nuovo proibizionismo. Tiziana Maiolo il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. Se è vero che il potere politico-sociale sta nelle mani di chi ha il compito e la forza di qualificare come illecito un comportamento umano, possiamo dire che, nella società del “Diritto penale totale”, sono tanti i soggetti a questo legittimati. Tanti, dal giudice alle vittime fino alla realtà percepita e al pensiero dominante che sovrappone il peccato al reato. Ma non la norma penale, che dovrebbe essere l’unico soggetto a creare il confine tra il lecito e l’illecito. La norma penale che sta sempre più evaporando, sta assumendo un carattere relativo e privo di certezze. Mentre la decisione del giudice trova sempre più la propria legittimazione nel sentire sociale, nel contesto, nella percezione, nelle ragioni di “opportunità”. Una sorta di nuovo proibizionismo che sta avvolgendo come la tela del ragno le libertà individuali e la certezza della norma penale. “Il diritto penale totale” (Il Mulino, pp. 88, 10 euro) è un testo del professor Filippo Sgubbi, ma è come fosse stato scritto, o suonato in concerto, a sei mani, visto che è completato dalle preziose introduzione e postfazione di giuristi come Tullio Padovani e Gaetano Insolera. Meno di cento pagine e pare ci sia proprio tutto, tanto sono dense e precise. C’è naturalmente una parte più politica, quel fenomeno che va sotto il nome di “supplenza”, una vera abdicazione, in corso ormai da qualche decennio, da parte del potere politico che, paralizzato dal gioco incrociato dei veti, ha perso legittimazione non solo consegnando alla giustizia compiti di governo e di pubblica amministrazione che non le sono propri, ma anche accettando di essere esposto, senza più alcuna immunità, al sospetto costante di corruzione e mafiosità. Così si è costruita la società etica, dove all’antinomia colpevole-innocente si è sostituita quella dei puri e degli impuri. Il reato, scrive Sgubbi, si è trasformato «in una colpa antropologico-sociale». E reato e colpa sono quasi uno stato naturale che prescinde e sicuramente precede il fatto. Quasi un peccato originale della società degli impuri. La casta, ovviamente. Vien da pensare con nostalgia alla cara vecchia “notitia criminis”, il fatto. Con la ricerca delle prove e infine quella decisione del giudice che dovrà stabilire se il fatto storico accertato rientra nella fattispecie di reato previsto dalla norma. La prassi attuale è capovolta, non più finalizzata ad accertare la relazione tra un fatto storico e la norma, ma a “creare il fatto-reato”. E’ l’accusa che costruisce la responsabilità, non viceversa. Gli esempi di questi giorni non fanno che confermare questa realtà: dagli interventi a gamba tesa e contraddittori di diverse procure sull’Ilva fino alla vicenda Open-Renzi, paiono piuttosto chiari gli intenti della magistratura con questo nuovo rito. Assumere il ruolo degli estirpatori dei mali del mondo (lottare contro i fenomeni quali la mafia e la corruzione), governare direttamente e concretamente l’economia e la pubblica amministrazione, assumere la responsabilità della tutela dell’ambiente e della nostra stessa salute. Solo per fare alcuni esempi. La procedura di questa giustizia creativa è una vera inversione del processo: la procura va alla ricerca di un fatto, poi avvia il processo e infine cerca le prove. Naturalmente tutto ciò non vale per i “puri”, quali in genere sono, grazie all’enfatizzazione dei media che le trasforma in eroi, le vittime. Le vittime vengono usate per linciare il giudice che assolve così come quello che condanna, se non ha trovato i mandanti. Ne abbiamo un esempio nell’enfatizzazione che viene data in diversi talk in questi giorni di “casi personali”, spesso tristi e angoscianti, usati come clave per sostenere l’abolizione della prescrizione.
Il "populismo penale" dei gialloverdi. Il giurista Amodio in A furor di popolo: "Vogliono la carcerazione di massa". Carmelo Caruso Lunedì 10/06/2019, su Il Giornale. Lo abbiamo letto e ci ha spaventato al punto che l'unico modo per dimenticarlo non rimane che parlarne. Si tratta di un libro che potrebbe diventare presto neologismo d'epoca, l'autobiografia di questo esperimento di governo. È infatti il primo tentativo scientifico, compiuto da un giurista, di dare un nome al programma giudiziario del M5s e della Lega. Ennio Amodio quel nome lo ha trovato ed è «populismo penale». L'autore è un professore emerito di procedura penale all'università di Milano e ha scritto sempre di materie giuridiche, dunque se ha avvertito il bisogno di occuparsi di attualità è solo perché ne ha afferrato la novità o forse la gravità. A pubblicarlo è la casa editrice Donzelli. Il titolo del libro è A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde e arriverà in libreria il 20 giugno. Per Amodio lo scenario penale che si presenta oggi è un vero inedito italiano, «una regressione a modelli di penalità premoderni», perché «si concepisce la sanzione penale come uno strumento di collera e di ritorsione». La giustizia, insomma, come vendetta. L'idea che anima questo governo secondo il professore non è altro che quella del carcere come «medicina sociale» e della difesa legittima ma, attenzione, da intendere come gogna pubblica e furore. È così che si sta rendendo possibile l'impossibile ovvero far sposare un partito che è a favore della difesa privata (la Lega) e che quindi diffida del potere di difesa da parte dello Stato, con un altro (il M5s) che è invece il più tenace sostenitore della repressione di Stato. Da qui, la legge rinominata «Spazzacorrotti» che l'autore definisce il trionfo dell'estremismo punitivo, il falò di tutte le conquiste illuministe. È la stessa galera che subito dopo il crollo del ponte di Genova, il premier Giuseppe Conte, un professore di diritto (ma quale?), invocò per i vertici di Autostrade. Non chiese un processo regolare ma un plotone. Come spiega Amodio, con le nuove norme emanate da questo governo, la galera è stata estesa anche per reati contro la pubblica amministrazione, reati dove è possibile applicare regimi alternativi. La ragione, e torna la vendetta, è quasi sadica: infliggere «un assaggio di carcere». Per comporre questa analisi, Amodio è andato a riprendersi il contratto di governo e soprattutto il paragrafo dove si discute di «certezza della pena» prima di giungere alla conclusione che per M5s e Lega l'unica certezza «è quella di colpevolezza». Per il governo gialloverde anche reati come atti osceni in luogo pubblico e ingiuria andrebbero puniti con pene inflessibili: carcere! Una vera e propria passione per i penitenziari, anzi, una vera e propria «ossessione della penalità». Tra le ossessioni c'è naturalmente la prescrizione fatta passare come una scappatoia per i delinquenti. Riformata e allungata, ma senza accorciare la durata dei processi, l'autore dimostra anche la scarsa conoscenza dei fenomeni giudiziari. La prescrizione, modificata dal governo, scatta infatti dopo la sentenza di primo grado ma è nella fase dibattimentale, che la precede, che molti reati si prescrivono. Come dire: inasprire sì, ma ciecamente. In questo nuovo e speciale codice penale, per Amodio, c'è una «litania del dolore» e l'orizzonte promesso non è altro che «una carcerazione di massa». Nel libro manca invece una riflessione che sembra opportuno riportare. È quella sulla Giustizia del ministro Alfonso Bonafede. In un convegno, Bonafede spiegò quale fosse la sua idea di giustizia: «Il percorso della giustizia inizia con le indagini, prosegue nel processo e si conclude con la condanna. Fine». A volte, e speriamo che in questo paese possa accadere ancora, si può concludere anche con l'assoluzione.
· Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga.
Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga: 26 casi da inizio anno. Ecco chi c’è dietro. L’ultimo episodio a Genova. Nessuna minaccia finora si è rivelata concreta, ma intanto, per colpa di mitomani, criminali o truffatori, saltano centinaia di udienze. Maglia nera Nocera: quattro casi in pochi mesi. Alessandro Fulloni il 4 novembre 2019 su Il Corriere della Sera. «C’è una bomba in tribunale». Clic. Succede sempre più spesso nelle aule giudiziarie italiane. Per stare al 2019, sono 26 le volte in cui la telefonata anonima è arrivata a un presidio giudiziario. Stesse scene, tanto a Roma quanto a Milano. Stessi allarmi in cittadelle giudiziarie grandi e sorvegliatissime come Torino e Locri e in piccole, tipo Nocera — che detiene il record: addirittura quattro allarmi da febbraio; l’ultimo a luglio —, Bitonto, Asti, Matera e Lanciano. Talvolta sono chiamate in prossimità di udienze di processi importati, che magari saltano o vengono ritardate. Altre volte si tratta di semplici scherzi, sia pure inquietanti. L’ultimo lunedì 4 novembre, a Genova. Una voce chiama verso le 8 e 30 e avverte: «Salterà tutto alle 11». Scattano ovviamente le procedure di emergenza: polizia e vigili del fuoco avviano ricerche e verifiche, mentre il palazzo viene fatto evacuare; i cani delle unità cinofile annusano ovunque, angoli e sottoscala. Ma non viene trovato nulla. E si rientra in aula verso le 11 e 30. «Tre ore buttate — allarga le braccia un uditore giudiziario — in una giornata che a Genova, per via del maltempo, è stata tra l’altro assai complicata».
Il pacco bomba trovato a Cagliari. Il più delle volte durante i controlli non viene trovato niente. Ma sono comunque numerosi i casi in cui l’avvertimento minatorio è piuttosto circostanziato. Per esempio a Cagliari il 15 ottobre è arrivata una telefonata al mattino presto. E alle 7 una guardia giurata ha trovato un pacco sospetto rivestito di nastro isolante nero a cu era stato agganciato una tastierina alfanumerica. Accanto un biglietto con scritto «seconda bomba». Il finto ordigno è stato fatto brillare con dell’acqua dagli artificieri. Subito dopo è arrivata un’altra telefonata, ma dai controlli in questo caso non è emerso nulla. Sta di fatto che il personale è potuto rientrare dall’evacuazione soltanto dopo le 11. Ad Avellino, il 21 settembre, un testo dattiloscritto lasciato nella toilette informava che un ordigno sarebbe esploso il 25 settembre. Uno scherzo? Chi lo sa, quel volantino ora è nelle mani della Digos chiamata agli accertamenti.
Chi c’è dietro. A Bari l’avvertimento è arrivato via mail. Un messaggino trovato all’account postale di giudici, avvocati, magistrati, cancellieri e poliziotti recitava: «Cristo vi purificherà, l’aula bunker non esisterà più». Ad Asti una bomba carta è effettivamente esplosa, ma fuori dalle mura della cittadella giudiziaria. Talvolta gli allarmi sono davvero seri, intimidazioni vere e proprie. Come lo scorso anno, quando due buste esplosive vennero inviate per posta a due pm della procura di Torino che da anni indagano i vari segmenti del movimento anarchico che ha scelto in modo esplicito la strada del terrorismo. Spesso si tratta di mitomani (e sorprende, guardando la cartina che qui pubblichiamo, la frequenza di episodi a Nordovest...). Ma non è sempre così. A Palermo, a maggio di quest’anno, si è scoperto che l’allarme bomba — con relativa sospensione dell’attività giudiziaria — avvenuto nel 2017 era stato architettato da alcuni indagati in una vicenda di truffe assicurative («Con quel giudice possiamo perdere..»). E stessa cosa si è scoperta relativamente ad un episodio avvenuto a Benevento nel 2016: in quel caso venne trovato un finto candelotto. Era stato piazzato per evitare che quel giorno si celebrasse la prevista udienza dibattimentale che vedeva indagato tale Paolo Messina per omicidio.
Il magistrato. E ancora, una telefonata a Brescia, quest’estate: «A mezzogiorno esploderà una bomba al Palazzo di giustizia per vendicare il compagno Battisti ». Parte immediata la segnalazione alla Questura e partono anche gli accertamenti, anche se la telefonata non sembra particolarmente attendibile. Il protocollo prevede un’azione «soft». Gli uomini della Digos in borghese si mescolano all’andirivieni di aule e uffici. Non viene trovato nulla. «Sarebbe bene ricordare che anche che questi scherzi da prete possono valere una denuncia per procurato allarme», osserva un investigatore della Digos. Ed Eugenio Albamonte, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati nel biennio 2017- 2018, scuote la testa: «26 procurati allarmi in un anno sono davvero tanti...».
· Mai dire pronto intervento e Denunce a perdere.
Antonio Cosimo Stano. Manduria tra gogna mediatica ed ignominia.
I Manduriani ed i loro giornalisti provano sulla loro pelle cosa sia la gogna della vergogna.
Il commento dello scrittore Antonio Giangrande, che tra le altre cose ha scritto il libro “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana”.
Devo dire che a meno di 9 anni di distanza le frasi “omertà del paese”, “tutti sapevano”, sono atti di accusa per un intero territorio e risuonano per tutta Italia per mano di scribacchini che, venuti da lontane sponde, nulla sanno della verità, se non quella filtrata da veline giudiziarie. La denigrazione del paese di origine dei responsabili meridionali di un reato è la pena accessoria di cui tenere conto.
Devo dire che, scartando la gogna di giornalastri forestieri, è proprio dalla medesima Manduria che son venuti attacchi alla stessa Avetrana, quando vi fu l’aggressione con conseguente morte di Salvatore Detommaso, ovvero vi fu il mediatico omicidio di Sarah Scazzi.
«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.
Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.
Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.
Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto è direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.
«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»
Detto questo sui corsi e ricorsi storici ed a discolpa dei manduriani andiamo ad analizzare i fatti.
«Chiederemo pene esemplari. Siamo di fronte a una violenza senza limiti». Lo ha detto al Tg1 il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in merito alle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano da ragazzini tra i 16 e i 23 anni, tutti di Manduria. «L’intervento è stato tempestivo ma sarebbe stato ancora più tempestivo se chi sapeva avesse avvisato prima le forze dell’ordine – ha aggiunto – Saremmo intervenuti in tempo e oggi Stano sarebbe ancora vivo».
«Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti, in un silenzio assordante che oggi mi lascia amareggiato. Quanto subiva Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Il prete ha detto di essere intervenuto più volte, ma perché non ha segnalato subito ai servizi sociali?». E' lo sfogo, forte e appassionato, del prefetto Vittorio Saladino, uno dei tre commissari prefettizi di Manduria che, all’AdnKronos, parla di un "silenzio assurdo" che ha avvolto e cullato la brutalità delle aggressioni subite nel tempo. «Stano era sconosciuto ai servizi sociali perché nessuno, per quanto ne dicano oggi, ha mai fatto segnalazioni - aggiunge - La cosa strana è che il soggetto era preso di mira da tanto tempo e nonostante questo anche il responsabile dei servizi sociali ne era all’oscuro. Manduria tra l’altro è capofila nell’efficienza dei servizi sociali, è un paese ricco tra i primi posti di quelli con cittadini risparmiatori, preso di mira da turisti inglesi e tedeschi». Nessuna giustificazione, dunque, e l’annuncio: «Alla manifestazione di sabato 4 maggio per la legalità - ha detto Saladino - parteciperemo con il gonfalone come Commissione straordinaria. Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa, coi giovani bombardati dai media e da episodi negativi. Come si fa a rendere oggetto di gioco un uomo, un soggetto indifeso?».
Allora, Chi mente?
Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. I vicini avevano segnalato, si erano rivolti alle forze dell’ordine per denunciare i soprusi, subiti troppo spesso da Antonio Cosimo Stano. La prova è in un esposto presentato al commissariato di Manduria e firmato da 7 residenti di via San Gregorio Magno, la stessa strada dove viveva il 66enne, e da don Dario. “Da alcune settimane, durante le ore serali e le prime ore del mattino – si legge in una prima denuncia – si stanno verificando diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti (circa 5/6 persone) a danno del signor Antonio Cosimo Stano”. “Nello specifico – si legge ancora – segnaliamo continui e reiterati danneggiamenti che tali ignoti stanno perpetrando a danno dell’abitazione (…) con lancio di pietre e oggetti vari al prospetto dell’abitazione e dando calci e colpi diretti alla porta d’ingresso e agli infissi della medesima casa”. Secondo quanto denunciato dai residenti, la vittima aveva confessato loro quanto stava subendo: “Il signor Stano, da quanto ci ha riferito, ha subito altresì vessazioni, soprusi e lesioni anche fisiche da parte di questi soggetti, i quali in una occasione sono anche riusciti a introdursi in casa. Tale condotta illecita, lesiva della sicurezza e della quiete pubblica, cagiona, inoltre, stati d’ansia, malessere e agitazione soprattutto nei minori residenti nel vicinato”. “In piena notte sentivamo urlare. Erano grida strazianti, terribili. La sera tardi e in piena notte. Mia moglie e con lei altri 7 residenti di via San Gregorio Magno e don Dario, ha così presentato l’esposto, per paura soprattutto, ma anche per tutelare quel povero Cristo”. A raccontarlo all’Adnkronos è Cosimo, che abita due cancelli più avanti rispetto all’abitazione di Stano, al civico 8. “Non tutti hanno voluto firmare, ma noi non ce la siamo sentita di restare inermi”.
Cesare Bechis, Giusi Fasano su Corriere.it. 26 aprile 2019. Era un uomo malato, Antonio. La sua mente era confusa e tutti, in paese, lo conoscevano come «il pazzo», «quello del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio della chiesa di San Giovanni Bosco che sta proprio di fronte a casa sua. Dicono che fosse in cura al Centro di igiene mentale ma di fatto era abbandonato a se stesso, non seguito dai servizi sociali, come avrebbero richiesto le sue condizioni, né aiutato nella sua vita quotidiana dai parenti che vivono a un passo da lui. Si manteneva con la pensione che si era guadagnato lavorando all’arsenale di Taranto come operaio e tutti, a Manduria, sapevano che ormai da molti anni passava gran parte del suo tempo a coltivare la sua solitudine, aiutato in questo dalle sue condizioni psichiche. Le segnalazioni sono arrivate, ai servizi sociali. Ma lui è rimasto a casa sua, nella sporcizia e nell’indifferenza, sempre più isolato dal mondo. E i bulli hanno capito che era un bersaglio facile. Lo hanno preso di mira e lo hanno vessato senza pietà. I vicini di casa vedevano le bande arrivare, non sempre le stesse. L’ultima volta, prima di quel 6 aprile, dev’essere stata più dura del solito. Perché quando «quelli» se ne sono andati lui si è chiuso in casa e non è più uscito. Niente spesa, niente cibo, niente di niente pur di non incrociarli mai più. I vicini non l’hanno visto uscire e hanno avvisato la polizia. Gli agenti si sono appostati lì fuori nel tentativo di sorprendere qualcuno dei ragazzini ma quel giorno non si è visto nessuno e alla fine la parte più difficile dell’intervento è stato convincere lui, Antonio, ad aprire la porta per lasciarsi aiutare. Da allora in poi è stato in ospedale fino al giorno della morte, con gravi problemi fisici oltre quelli mentali.
Nazareno Dinoi La Voce di Manduria venerdì 26 aprile 2019. Il povero Stano, insomma, era diventato (e così lo chiamavano nel branco), «il pazzo del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio e della chiesa di San Giovanni Bosco situato proprio di fronte alla sua abitazione. La notizia degli indagati sta scuotendo le coscienze dei manduriani che si interrogano sul «come sia potuto accadere». Molto significativo è l’intervento di un educatore della parrocchia in questione, Roberto Dimitri che su Facebook ha pubblicato un lungo intervento che prova quanto le vessazioni e le violenze su Stano fossero conosciute da molti. Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente – scrive - ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell'ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati.
Il Fatto Quotidiano. 29 Aprile 2019. Le aggressioni duravano da almeno sette anni, secondo i vicini: uno dei video sequestrati dalla procura risale al 2013. Eppure, stando a quanto emerso finora, nessun segnale è arrivato alle autorità su Stano, conosciuto in paese come “il pazzo del Villaggio del fanciullo”, in riferimento al nome dell’oratorio di fronte casa sua. “Mai ci è arrivata, né formalmente né informalmente, fosse almeno in maniera anonima, alcuna segnalazione su Antonio Cosimo Stano”, riferisce Raffaele Salamino, responsabile dei servizi sociali del comune di Manduria. “Sarebbe bastata una chiamata – aggiunge – e un assistente avrebbe preso in carico la cosa, coinvolgendo il servizio di igiene mentale”. Un anno e mezzo fa gli operatori del 118 intervennero su segnalazione della polizia davanti alla casa di Stano. L’uomo era a terra, con delle ferite alla testa. Forse, anche in quel caso, era stato preso di mira dai ragazzini. Il 66enne venne medicato sul posto perché, vinto dal paura, rifiutò il trasporto in ospedale.
Quindi già un anno e mezzo fa le istituzioni avevano conoscenza dei fatti e non sono intervenuti. Allora perché si continua a nascondere una omissione di atti di ufficio ed accusare la cittadinanza ed il clero di omertà?
A due anni dalla morte di Sarah Scazzi Don Dario De Stefano sul suo profilo facebook il 25 agosto 2012 ha annunciato il suo trasferimento alla parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Avetrana in segno di disapprovazione ha reagito. Una raccolta di migliaia di firme tenta di far smuovere il vescovo di Oria dalla sua decisione di trasferire Don Dario De Stefano, il parroco della parrocchia Sacro Cuore di Avetrana. Sua destinazione la parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. Non è una nota stampa, né un commento ad un fatto di cronaca, ma un ringraziamento pubblico a Don Dario De Stefano, parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Avetrana e futuro parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Lo faccio io che dovrei essere l’ultimo a farlo, in quanto molto cristiano sì, ma poco frequentante le chiese. Anche se non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Eppure non frequento molto la sua casa perché si accompagnano a Gesù in quei posti cattive compagnie. Laici peccatori che sulle panche consacrate sembrano angioletti che con un piccolo obolo si lavano la coscienza od usano le amicizie ivi coltivate a fini elettorali. E’ vero: il parroco raccoglie le pecorelle smarrite, ma mi trovo in disagio a frequentare interi greggi di ovini smarriti. Don Dario è un personaggio votato alle iniziative sociali, ma non alle lotte sociali. Eppure sono convinto che Don Dario, nonostante abbia nessun rapporto con me, merita di essere ringraziato. Una mia poesia dialettale contiene queste strofe:
“Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè quistu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.”
Bene! Don Dario al suo arrivo era un giovane di Oria ambizioso, tenace, diplomatico fino ad un certo punto e con tanta voglia di fare. Io che guardo l’aspetto materiale, ossia i fatti, elenco alcune delle sue opere che resteranno alla storia sua e di Avetrana. Opere che vanno oltre la competenza parrocchiale, di cui tutta Avetrana ne ha tratto benefici: il rinnovo della sua chiesa e la costruzione del campanile, l’oratorio dove i giovani si educano e passano il loro tempo libero; i campi scuola; “il presepe vivente”; “la grande calza della Befana”; la squadra di calcio di Avetrana; la festa compatronale di Sant’Antonio; “Certe notti qui…”, ossia la “Notte Bianca”: evento agostano dove Avetrana per una notte è invasa dai turisti estasiati da decine di piccole e grandi manifestazioni culturali, culinarie, musicali, ecc…Non dimentichiamoci che ha gestito anche le funzioni religiose per la povera Sarah Scazzi ed avrebbe potuto fare di più se non fosse che la madre di Sarah è dei Testimoni di Geova ed il vescovo ha evitato inutili polemiche con nuove iniziative in suo ricordo. Questo è solo piccola cosa di quanto lui abbia fatto per la sua parrocchia e per tutta Avetrana. Non è stato facile per Don Dario fare tutto ciò in un piccolo paese con piccole vedute, molte maldicenze e con il braccino corto, specie da parte degli imprenditori che fanno affari con gli eventi organizzati da Don Dario.
Non sono mancati sin dall’inizio tra i suoi fedeli fazioni contrarie che spinte da gelosie prima hanno cercato di allontanarlo, per poi, non riuscendoci si sono allontanati loro stessi. Così come Don Dario è stato frenato e si è scontrato con degli amministratori poco illuminati e spesso incapaci a sostenere le sue o le altrui iniziative. Così come è stato vittima dei contrasti politici tra le avverse fazioni.
Intanto, a parità di fondi finanziari gestibili, ha fatto più Don Dario (orietano) in nove anni che tutti i politici avetranesi messi insieme per tutta la loro vita. Lui ha tirato dritto. Si è accompagnato con giovani fidati che lui stesso ha cresciuto. (In nove anni i bambini diventano ragazzi). Naturalmente lui ha i suoi pregi, ma anche i suoi inevitabili difetti, che sono infimi e non si notano pensando alla sua instancabile operosità. Avetrana perderà un attivissimo parroco, nella speranza che il nuovo, con la scomoda eredità, non lo faccia rimpiangere. Ecco perché a lei ed ai suoi lettori, per i passati di Don Dario posso dire: Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. E pensate un po’ cosa sarebbe una diocesi guidata da gente come lui……..
Il parroco di Avetrana che, come spiega Nazareno Dinoi su “La Voce Di Manduria”, smaschera i difensori “preventivi”. Don Dario De Stefano è furioso. Qualcuno gli ha fatto leggere il suo nome su un articolo che lo indica come colui che ha segnalato alla famiglia Misseri, per la difesa di Sabrina, l’avvocato del foro di Taranto, Vito Russo. «Io ho consigliato chi? Assolutamente no. Non conosco questo avvocato», commenta il sacerdote visibilmente contrariato.
Rilegge la notizia e la pressione gli alza. «Ecco un’altra delle cose che non mi piacciono di questa storia, ormai non se ne può più», sospira don Dario il cui volto è stato tra quelli più diffusi nei primi giorni della scomparsa di Sarah Scazzi. Da qualche settimana però, il parroco di Avetrana, fugge ai mezzi d’informazione perché, si dice, la curia vescovile di Oria ha consigliato di tenersi lontano dal circolo mediatico. Non può però tacere o celare la rabbia e, seppure con molto risparmio di parole, si lascia sfuggire dei commenti.
«Come si chiamerebbe questo avvocato? Russo? E di dov’è, chi lo ha mai conosciuto?». Il nome e il volto del legale, ben noto oggi grazie alle trasmissioni televisive, era saltato fuori all’improvviso la mattina del 15 ottobre quando la villa dei Misseri fu circondata dai carabinieri del Ris, inquirenti e investigatori che indagano sulla morte della quindicenne. Via Deledda fu dichiarata off limit e a nessuno fu consentito avvicinarsi al luogo delle operazioni.
Nemmeno all’avvocato Russo che con la sua grossa auto fu invitato da un carabiniere ad attendere poco distante da lì. Qualche giornalista lo riconobbe così il suo nome cominciò a circolare senza che nessuno riuscisse a spiegarsi la ragione della sua presenza.
Anche l’avvocato Daniele Galoppa, il giorno dopo, difensore della controparte, Michele Misseri, si chiedeva come mai il suo collega il giorno prima si trovasse a venti metri da via Deledda se Sabrina, sua futura assistita, non era stata nemmeno interrogata né poteva sapere che dodici ore dopo sarebbe stata addirittura arrestata per la confessione del padre che coinvolgeva nel delitto. In effetti fu lo stesso avvocato Russo, successivamente, a dichiarare pubblicamente che la sua venuta ad Avetrana era stata caldeggiata dal suo «amico don Dario». Il religioso, però, è pronto a smentire.
«Per favore non mi mettete in mezzo a queste cose, per questi comportamenti mi rifiuto di rilasciare interviste, questo modo di fare non mi piace proprio». E non che le richieste siano poche. «Sto dicendo di no a tutti e mi dispiace perché per colpa di pochi debbano patire tutti», afferma don Dario che torna sull’argomento.
«Questa notizia dell’avvocato o è una sua invenzione o un’invenzione del giornalista». L’avvocato Russo, informato del risentimento del parroco, spiega meglio e raddrizza il tiro. «Come? Don Dario non mi conosce? Ho qui i tabulati di due telefonate che personalmente gli ho fatto il giorno prima il mio arrivo ad Avetrana», informa il legale non spiegando, però, il contenuto e il tono di quelle conversazioni».
Si accusa una comunità di omertà. Perche? Perché è molto facile accusare una comunità di omertà. Ma non è omertà, è solo assuefazione al disservizio. Perché, come è ampiamente dimostrato, ma non dai media asserviti al potere, è inutile denunciare: o le indagini si insabbiano o i responsabili restano impuniti.
Questa è l’Italia e tutti lo sanno, ma fanno finta di ignorarlo.
Il caso Manduria: mettiamo in fila le responsabilità. Della morte di Antonio Stano, l'uomo di Manduria perseguitato da un branco di cagnulastri fino a morirne, molti danno la colpa al paese...Danilo Lupo su La Voce di Manduria, domenica 05 maggio 2019. Della morte di Antonio Stano, l'uomo di Manduria perseguitato da un branco di cagnulastri fino a morirne, molti danno la colpa al paese: indifferente, distante, omertoso. I veri colpevoli sono i vicini, i concittadini, i componenti della comunità manduriana, secondo molti commentatori. Ma è davvero così? Mettiamo in fila qualche elemento.
• Avendo assistito alle violenze, più volte un educatore della vicina parrocchia aveva rimproverato i ragazzini e aveva avvisato sia le famiglie che le forze dell'ordine, senza esito;
• L'insegnante di uno dei ragazzini, dopo aver visto uno di quei tremendi video che ora tutti conosciamo, aveva avvisato la famiglia di un ragazzo e la sua dirigente. La scuola aveva avvisato i servizi sociali comunali, senza esito;
• Le forze dell'ordine sono intervenute diverse volte sul posto ma non trovando traccia dei baby-persecutori, pare si siano limitate a redigere qualche verbale, senza esito;
• Un anno e mezzo fa il 118 era intervenuto per medicare l'uomo, colpito in fronte da una pietra, su chiamata della polizia. Stano non sporse querela e i poliziotti stilarono l'ennesimo verbale, senza esito.
• In uno di quei video strazianti, il pover'uomo gridava "sono solo, sono solo". Eppure aveva una famiglia, che nei giorni scorsi si è occupata del funerale: possibile che non si sia mai accorta di niente? Possibile che l'uomo non abbia mai confidato nulla? O forse notizie e confidenze ci sono state e sono rimaste senza esito?
• L'anziano è stato trovato in casa dai poliziotti. Ad allertare questi ultimi sono stati i vicini di casa. L'esito, in questo caso, lo conosciamo: Antonio Stano è morto in ospedale.
Ad occhio e croce, le responsabilità in effetti ci sono.
Ma prima di quelle della comunità, ne balzano agli occhi delle altre: quelle dei ragazzi e delle loro famiglie, innanzitutto.
Ma anche quelle del Comune di Manduria, che avrebbe dovuto prendere in carico la situazione.
Ma anche quelle delle forze dell'ordine che, di fronte a quelle violenze ripetute, avrebbero potuto convincere l'uomo a sporgere querela oppure avrebbero potuto indagare informalmente.
Ma anche quelle della famiglia del povero Antonio Stano. Famiglia che spero ora abbia il buon gusto di rinunciare all'eredità di quell'uomo, che nei video urlava "sono solo, sono solo". Danili Lupo, giornalista LA7 Non è l'Arena
...inutile chiamare qui, non risponderà nessuno...(Adriano Celentano. Soli, 1979).
"Qui 112, rimanga in attesa", le mie tre inutili chiamate in un mese. Tre episodi - per fortuna non drammatici come quello segnalato da Valentina Ruggiu - danno il quadro del caos (almeno a Roma) per chi chiama il numero di emergenza. In questo caso per un incendio, un allarme sanitario, la segnalazione di un conflitto a fuoco in strada. Claudio Gerino il 9 agosto 2017 su La Repubblica. "Rimanga in attesa". Ho vissuto - anche se in circostanze sicuramente meno drammatiche e tragiche - l'esperienza sconvolgente di Valentina. Per ben tre volte, nell'ultimo mese. Il Nue, numero unico per le emergenze, il 112, evidentemente non funziona come dovrebbe essere una linea telefonica H24 dedicata appunto a tutte le emergenze possibili. E con la necessaria rapidità d'intervento adeguata all'emergenza che viene segnalata. Perché è così, qualcuno dovrebbe spiegarlo, che si dovrebbe rispondere a tutti quegli utenti che - come Valentina - si sono rivolti al 112 sicuri di avere un aiuto immediato.
Primo episodio. In una di queste caldissime mattine d'agosto, stavo andando al lavoro in auto, sulla via del Mare da Ostia a Garbatella. All'altezza di Vitinia (per chi non conosce Roma e la periferia, basta spiegare che è più o meno vicino a dove dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma), vedo sul ciglio della strada le fiamme che stanno divorando la fitta boscaglia che circonda l'arteria a grande scorrimento. Fiamme alte, fumo che rende anche pericoloso il passare in auto, per la scarsa visibilità. Telefono cellulare, vivavoce, chiamo il 115, il numero dei vigili del fuoco. Automaticamente, la telefonata viene inoltrata al 112, numero unico d'emergenza. E comincia l'attesa. Voce registrata, varie lingue, resto in attesa. Intanto proseguo il viaggio verso il lavoro. Da casa mia a Garbatella, se non è l'ora di punta, ci vogliono un venti-trenta minuti per arrivare. "Rimanga in attesa". Arrivo al lavoro, parcheggio la macchina e sono ancora in attesa. Entro al lavoro e attendo ancora. 35-40 minuti circa. Alla fine, miracolo, risponde un operatore. A cui spiego ciò che ho visto, cosa stava succedendo e quando. "Resti in attesa, le passo i vigili del fuoco". Altra attesa, pochi minuti per fortuna, e finalmente parlo con qualcuno "competente" per l'eventuale intervento. Segnalo l'incendio, mi risponde che sì, anche altri erano riusciti a superare il "rimanga in attesa" e avevano fatto analoga segnalazione. E che una squadra di vigili del fuoco si stava recando sul posto o forse era già lì. Bene. Ho fatto il mio dovere di cittadino, sperando che quella lunga attesa non abbia prodotto danni gravi, che nessuno sia rimasto coinvolto dalle fiamme e dal fumo, che non ci siano stati incidenti stradali dovuti alla scarsa visibilità. Dimenticavo: uno degli avvertimenti registrati in quel "rimanga in attesa" era "non riagganci, se no siamo costretti a richiamare il suo numero". E' andata bene, tornando a casa vedo che sono andati in fumo solo un po' di alberi, un vecchio canile per fortuna abbandonato da tempo (anzi posto sotto sequestro per irregolarità) e tanta sterpaglia. Ma c'è ancora fumo, sono passate otto ore da quel primo "resti in attesa".
Secondo episodio. Questo è ben più grave. Di notte, verso l'una, si sentono intorno casa colpi d'arma da fuoco, spari ripetuti. A distanza di una decina di minuti l'uno dall'altro, da direzioni diverse. Si sente anche qualcuno correre. Ancora una volta provo a chiamare direttamente il 113, la polizia, ma vengo dirottato sul numero unico d'emergenza. E ricomincia l'attesa. Vicino a casa mia c'è anche la linea metropolitana Ostia-Lido/Roma, quei colpi sembrano provenire da quella parte, lungo la massicciata ferroviaria. 25 minuti di attesa prima di una risposta. L'operatore sembra cadere dalle nuvole su cosa fare. Mi dice, ad un certo punto, "la metto in contatto con i vigili urbani". Io protesto, dico che se quelli che sento sono effettivamente colpi d'arma da fuoco, forse è il caso che la mia telefonata venga dirottata a carabinieri o polizia. L'operatore sembra dubbioso, non sa prendere una decisione. Intanto passano i minuti e si continuano a sentire, sporadici, altri colpi. Alla fine mi collega al 113, la polizia. E alla fine posso spiegare cosa sta accadendo, o perlomeno quello che presumibilmente penso sta succedendo, a qualcuno che ha potere d'intervento. Ma passa un'altra mezz'ora prima che arrivino le "volanti". So bene quante poche siano in servizio di notte e quanti interventi i poliziotti devono fare. Nonostante questo, ne arrivano 4 e subito - anche perché gli agenti sentono anche loro "in diretta" i colpi - si mettono a caccia di chi li sta esplodendo. Scacciacani, revolver vero, qualcuno che si divertiva a sparare in aria, non lo saprò mai. Gli agenti inseguono una persona in fuga verso la ferrovia metropolitana, ma lo perdono di vista. Girano con le auto, si allontanano e poi ritornano una ventina di minuti dopo. Non riuscendo però a individuare gli autori o l'autore degli spari, vanno giustamente a fare altri interventi. Non è stata una rapina, non è stato uno dei tanti femminicidi che ormai siamo abituati purtroppo a leggere sulle cronache. Ma se fosse stato uno di questi casi? 25 minuti di attesa solo per parlare con un operatore e altrettanti, alla fine, per comunicare con chi poteva intervenire realmente sono francamente troppi. Anche per un possibile falso allarme, per qualcosa che comunque non aveva le stesse tragiche dimensioni vissute da Valentina.
Terzo episodio. La faccio brevissima, perché memore delle esperienze precedenti, alla fine ho saltato tutti i passaggi. Mio figlio, per un banale incidente casalingo, si procura una leggera lesione alla cornea. Dolorosa, fastidiosa e problematica. Anche in questo caso, il primo istinto è chiamare il 118, la Guardia Medica, perlomeno per farsi indicare dove portarlo eventualmente per un controllo urgente. Per sapere quale ospedale della zona ha un pronto soccorso oftalmico. Il 118 però viene prima dirottato sul Nue, il 112. Che ripete per una quindicina di minuti, "rimanga in attesa", sempre in tutte le lingue. Riaggancio, lascio perdere, vado su Internet e cerco un'oculista che faccia pronto soccorso. Ovviamente a pagamento. Lo trovo, lo chiamo e alla fine fisso un appuntamento per un'ora dopo. Problema risolto, potendo pagare però 110 euro per una visita privata, accuratissima e completa, ma comunque privata. La lesione alla cornea di mio figlio è curata. Particolare non secondario: nonostante quel quasi minaccioso avvertimento - "Non riagganci se no la dobbiamo richiamare - nessuno mi ha mai richiamato per chiedere qual era il tipo di emergenza per cui mi ero rivolto al 112. Ora in casa ho affisso vicino al telefono tutti i numeri di ambulanze private (per le emergenze mediche), quelli dei centri di diagnostica privata della zona e qualche altro numero di cellulare di medici a cui rivolgermi se avessi un problema sanitario serio. E per possibili tentativi di intrusione nella mia casa da parte di malintenzionati, ho stipulato un contratto con un'agenzia di vigilanza privata collegata con un sistema d'allarme e una centrale operativa che opera H24 (e che, devo dire, risponde subito). Una spesa, certo. Ma in qualche modo obbligata e dettata da queste esperienze. Ah, tra l'altro, l'agenzia di vigilanza non fa solo "protezione antifurto e rapina", ma si collega anche a guardie mediche private, se ce ne fosse bisogno. Ma per incendi, rapine, aggressioni o qualche altra emergenza di questo tipo che non avvengono in casa o nei dintorni dovrò sempre rivolgermi al Nue, al 112. Sperando che quel "resti in attesa" non si dimostri purtroppo talmente lungo da rendere inutile poi l'eventuale intervento, come ha vissuto drammaticamente sulla sua pelle Valentina.
Senza uomini e mezzi, la polizia non interviene più. Redazione, Giovedì 03/01/2008 su Il Giornale. Due segnalazioni nel giro di poche ore, la stessa emergenza: la polizia non ce la fa a garantire la sicurezza. Una pensionata di Sampierdarena è sconvolta per quanto accaduto la notte di Capodanno. I suoi vicini del piano di sopra, dalle 18 del 31 dicembre alle 6 della mattina successiva, hanno dato vita a «festeggiamenti» decisamente fuori dal comune. Urla, grida strazianti di bambini, rumori di oggetti scaraventati a terra e contro il muro. La donna ha chiamato preoccupata per cinque volte il «113» e le è stato sempre risposto che l'intervento per la sua chiamata sarebbe stato messo «in lista d'attesa». Una lista infinita, visto che altre telefonate al «112» venivano deviata alla questura, senza esito. La mattina successiva la donna è andata alla caserma dei carabinieri di corso Martinetti, ma il piantone non l'ha nemmeno fatta entrare perché «era solo». Stessa risposta alle quattro del pomeriggio. Le spiegazioni informali, offerte dagli operatori della questura al mancato intervento? Carenza di personale e di mezzi. Stessa cosa che si è sentito rispondere un professionista trentenne, rapinato in strada la notte di Capodanno. «In questura sono stati davvero gentilissimi, squisiti e comprensivi - ha spiegato l'uomo -. Ma mi hanno anche detto che sanno benissimo della presenza delle bande, sanno forse anche chi sono, ma che non hanno la possibilità di intervenire». Una resa dovuta sempre alla cronica carenza di uomini e mezzi nonostante i tanto sbandierati (a parole) rinforzi di cui si è addirittura vantata la sindaco. E nonostante le telecamere installate ovunque. Chissà perché, però, le uniche che funzionano e fanno il loro dovere, sono quelle che danno le multe a chi passa sulle strisce gialle o entra nelle zone a traffico limitato.
Denunciare i furti? È inutile E la politica non ha più scuse. I dati della Procura confermano la percezione di insicurezza che si vive in città Gli uffici dei pm sommersi da casi di microcriminalità. E quasi non si indaga più. Il Giornale, Venerdì 19/12/2014. Ogni anno migliaia e migliaia di denunce di furto che piovono in Procura. Sono troppe. E vengono archiviate. La morale è deprimente: vincono i ladri. Se vi hanno svaligiato casa, se vi hanno rubato l'auto, i responsabili non li troveranno praticamente mai. E - cosa peggiore - forse non li cercheranno neppure. Due giorni fa la Procura ha reso pubblico il lavoro di un anno. Uno dei dati più eclatanti riguarda il vertiginoso aumento dei furti e degli scippi, cresciuti del 74% rispetto ai dodici mesi precedenti. È una statistica da non trascurare. Racconta di un fenomeno - la cosiddetta «microcriminalità» - che non ha echi mediatici ma che può toccare chiunque. Eppure, nella stragrande maggioranza dei casi a una denuncia contro ignoti per furto o scippo non seguirà un'indagine. I numeri forniscono pochi alibi a chi, dalle parti di Palazzo Marino, continua a descriverla come il paese delle meraviglie. Almeno il presidente Pd della Commissione Sicurezza, Gabriele Ghezzi, non nega i dati («sono incontrovertibili») e il problema. Gelmini (Fi) accusa Pisapia per aver cacciato i soldati.
Quando la denuncia è inutile. Intervista al sociologo Marzio Barbagli, autore di alcuni degli studi più importanti sulla criminalità in Italia. Giovanni Tizian 13 giugno 2013 su L'Espresso.
«È possibile che la crisi economica abbia provocato l'aumento dei reati predatori, come furti e rapine». Parla il sociologo Marzio Barbagli, autore di alcuni degli studi più importanti sulla criminalità in Italia, serviti in passato anche per orientare l'attività del ministero dell'Interno.
Quanto è forte il legame tra recessione e aumento dei reati?
«È difficile dirlo con certezza. Dalla fine degli anni Sessanta al 1992 l'aumento dei reati predatori è stato costante. Per poi diminuire fino a due anni fa. A partire dal 2011 la curva è di nuovo ascendente, in tutta Europa».
Quanti reati non vengono denunciati? E perché?
«Lo spirito civico non c'entra nulla. La poca fiducia nelle forze dell'ordine non è l'elemento cruciale. Non è vero che in Emilia Romagna si denunci di più che in Sicilia. Ci sono reati per i quali la mancata denuncia deriva da tutt'altro. La spinta a denunciare varia a seconda del calcolo costi-benefici che le persone derubate fanno. Se penso di non avere la minima speranza di riavere la merce rubata non perderò ore allo sportello denunce. A meno che non abbia subito il furto del portafoglio o dell'auto per cui sono obbligato a sporgere la denuncia».
Migliorare la sicurezza urbana in due mosse: è possibile?
«Uno dei problemi che nessuna forza politica ha mai affrontato è l'efficienza delle forze dell'ordine. C'è una cattiva distribuzione delle risorse, ci sono studi noti al Viminale su questo e sul difficile coordinamento delle forze. È un assoluto tabù di cui nessuno parla. L'altra grande questione ha a che fare con il contrasto all'immigrazione clandestina. Abbiamo un sistema di controlli degli irregolari che è inefficiente e frustrante per chi se ne occupa».
I carabinieri non vogliono prendere la denuncia: che fare? Sabina Coppola il 6 Giugno 2018. Quali sono i doveri dei carabinieri, nella qualità di pubblici ufficiali, e quali le loro responsabilità nell’esercizio delle funzioni. L’attività dei carabinieri e dei pubblici ufficiali ad essi equiparati (immaginiamo la polizia giudiziaria o urbana) è volta alla tutela dei cittadini e del patrimonio. Carabinieri e pubblici ufficiali sono tenuti a salvaguardare la cittadinanza, garantendo la libertà dei singoli individui e contribuendo alla sicurezza di tutti. Immaginiamo che io voglia denunciare il mio vicino di casa o il mio datore di lavoro perchè ritengo stiano commettendo dei reati; mi rivolgo ai carabinieri ma questi non vogliono prendere la denuncia: che fare? Andiamo con ordine chiarendo prima quali sono i doveri dei carabinieri ed in seguito le loro responsabilità in caso di mancato adempimento di un loro dovere.
I carabinieri fanno parte della categoria dei pubblici ufficiali; agli effetti della legge penale sono, infatti, pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa [1]. Esempi tipici di pubblici ufficiali riconosciuti dalla legge italiana sono:
gli appartenenti alle forze armate e alle forze di polizia;
i vigili del fuoco;
gli impiegati civili della pubblica amministrazione italiana, ma solo in determinate circostanze (ad esempio gli ufficiali dell’anagrafe, dello stato civile e tutti coloro che espletano le funzioni amministrative dello stato demandate ai comuni);
i conduttori, i capitreno, i controllori delle ferrovie dello stato italiane;
i piloti d’aereo, civili e militari, e i comandanti di nave;
il dirigente scolastico e gli insegnanti;
i componenti dell’ufficio elettorale di sezione e i rappresentanti di lista;
i magistrati ed i giudici popolari nell’esercizio delle loro funzioni;
i medici, gli infermieri e i veterinari;
il sindaco quale ufficiale del governo;
il presidente del consiglio dei ministri e tutti i ministri nell’esercizio delle proprie funzioni;
i parlamentari, i consiglieri comunali, i parlamentari, i consiglieri comunali, provinciali e regionali riuniti in assemblea;
il notaio e così via.
I poteri tipici (o, meglio, alcuni dei poteri tipici) del pubblico ufficiale sono, invece:
assumere informazioni;
ispezionare cose e luoghi;
effettuare rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici;
eseguire il sequestro cautelare delle cose oggetto di una confisca amministrativa;
sequestrare il veicolo o il natante privo dell’assicurazione o della carta di circolazione;
ricevere denunce e querele.
I pubblici ufficiali hanno, inoltre, l’obbligo di sporgere denuncia alla magistratura italiana o altra autorità preposta, quando (nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio) ricevono la notizia di un reato perseguibile d’ufficio. In generale, possiamo affermare che l’attività di polizia riguarda la salvaguardia del sereno svolgimento della vita cittadina, attraverso la garanzia della libertà dei singoli individui ed il contributo alla sicurezza dei cittadini. Ha anche lo scopo di assicurare l’osservanza delle leggi, dei regolamenti e delle ordinanze emanate da Stato, Regioni, Comuni. Immaginiamo allora che i carabinieri non vogliono prendere la denuncia: che fare?
Rifiuto di atti di ufficio: quando si commette. Se un carabiniere si rifiuta, ad esempio, di raccogliere una tua denuncia, puoi (anzi dovresti) denunciarlo presso le autorità competenti (carabinieri, polizia, procura della repubblica); devi semplicemente esporre i fatti, oralmente e per iscritto, e allegare le eventuali prove in tuo possesso.
Il carabiniere che si rifiuta di ricevere la tua denuncia sta, infatti, commettendo il reato di rifiuto di atti di ufficio. Ma di cosa si tratta?
Il delitto di rifiuto di atti di ufficio si realizza quando:
il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità deve essere compiuto senza ritardo. Il termine “rifiuto” indica una manifestazione di volontà di non compiere l’atto legalmente richiesto e implica, pertanto, una previa richiesta di adempimento. Il reato sussite, cioè, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, di fronte alla richiesta di compiere un atto del suo ufficio (il suo lavoro), non lo compie secondo la legge. Questo vuol dire che se il carabiniere si rifiuta (senza motivo) di accettare la denuncia che un cittadino vorrebbe presentare a carico di un terzo (che ha commesso qualsiasi tipo di reato) ne risponde penalmente.
Cosa fare se i carabinieri rifiutano la denuncia?
In definitiva, se i carabinieri non vogliono prendere la denuncia: che fare? A prescindere dalla ragione che induce il carabiniere a non raccogliere la tua denuncia, in quanto (ad esempio) la ritiene inutile o superflua, puoi denunciarlo per rifiuto di atti di ufficio. Devi recarti personalmente presso qualsiasi ufficio di polizia (preferibilmente diverso da quello in cui è stata commessa l’omissione di atti di ufficio) oppure direttamente alla procura della repubblica della tua città o provincia ed esporre i fatti. Puoi farlo per iscritto o oralmente; l’importante è allegare prove (se ne hai) e segnalare la presenza di eventuali testimoni. Il reato di rifiuto di atti di ufficio è procedibile di ufficio, pertanto non vi è limite di tempo per sporgere la denuncia. A seguito della denuncia, potrebbe essere disposta la misura della sospensione dal servizio; mentre la sentenza di condanna per il reato in oggetto determinerebbe un’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
L’uso della denuncia anonima è illegale, e però è legale. Strane sentenze di Cassazione. Maurizio Tortorella il 28 agosto 2016 su Tempi. Per la Suprema Corte «una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici d’indagine». Tuttavia i suoi «elementi» possono «stimolare l’iniziativa del pm». Nessuno, qui, può o vuole impancarsi a giurista. Però, sommessamente, va detto che strane cose stanno accadendo in Corte di cassazione. A tutti gli studenti di Giurisprudenza viene insegnato che il codice di procedura penale prevede che delle denunce anonime non possa essere fatto alcun uso, salvo alcune rarissime eccezioni (fondamentalmente, se le denunce stesse sono in sé il corpo di un reato). È ovvio che sia così, è razionale. Anzi, è un fondamentale principio garantista: il divieto per le forze dell’ordine e per l’autorità giudiziaria di raccogliere una denuncia anonima serve proprio a garantire il diritto alla difesa del presunto reo, il quale può tutelare i suoi diritti soltanto conoscendo i fatti che gli vengono addebitati e l’autore delle accuse. Inoltre, una società che prendesse per buone le delazioni anonime (come per esempio faceva la Repubblica Veneta nel Settecento), darebbe la stura a un uso strumentale degli esposti, esponendosi a mille abusi e vendette. Alcune settimane fa, invece, la sesta sezione della Corte di cassazione, con la sentenza numero 34450 del 4 agosto che motivava una condanna dello scorso aprile, ha stabilito che anche una denuncia anonima possa essere utilizzata dall’autorità giudiziaria per ordinare perquisizioni e sequestri.
Un ragionamento paradossale. In questo caso, la Cassazione doveva decidere il ricorso di un dipendente pubblico che nel dicembre 2015 aveva pubblicato su Facebook una serie di dichiarazioni offensive verso il presidente della Repubblica. L’uomo, un quarantenne di Ancona, era stato segnalato con un esposto anonimo e la polizia giudiziaria gli aveva sequestrato il cellulare e gli hard disk dei due computer, a casa e al lavoro. L’imputato lamentava proprio che tutto fosse partito da un esposto anonimo. Ecco, parola per parola, che cosa stabilisce la sentenza (la citazione è lunga, ma merita di essere trascritta per intero): «Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici d’indagine e quindi non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza d’indizi di reità. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis».
Riassumo brevemente quel che avete appena letto. La denuncia anonima non dovrebbe essere utilizzata da agenti e magistrati; però “se serve per individuare un reato”, allora può essere utilizzata. Vi pare normale? Vi pare logico? A me no. Anzi, il ragionamento della sentenza mi pare irrimediabilmente contraddittorio, incoerente, quasi paradossale. Se in base al codice una denuncia anonima è inutilizzabile in un procedimento penale, lo è sempre. Non diventa improvvisamente legittima e utilizzabile “se può essere utile per l’individuazione di un reato”: non può, perché questo è un rimbalzo del tutto illogico. Ammettiamo che debba essere così. Ma allora chi stabilisce a priori quale denuncia anonima sia potenzialmente “utile a individuare un reato” e quale invece sia “inutile”? Il poliziotto? Il pubblico ministero? E come fanno a deciderlo, costoro, senza indagare (illegittimamente)? Pacatamente, io penso che questa sentenza sia quanto meno bizzarra. Vorrei tanto che un giurista vero mi spiegasse dove sbaglio. Ma chi cassa la Cassazione?
Il pensionato picchiato a morte a Manduria avvisò la polizia un mese prima: "Sono vittima dei bulli". Il 14 marzo 2019 Antonio Stano fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. Un mese dopo il 66enne è morto. La Repubblica il 5 maggio 2019. Il 14 marzo 2019 Antonio Stano, il pensionato di 66 anni morto il 23 aprile scorso e vittima delle torture di una banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa dall'equipaggio di una pattuglia di polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. E' quanto emerge dagli atti dell'indagine. "Alle ore 22.43 circa - è riportato negli atti - personale dipendente (del commissariato di polizia di Manduria, ndr), nell'ambito della consueta attività di prevenzione e controllo del territorio, su disposizione della sala operativa, si portava in questa via San Gregorio Magno numero 8", dove viveva il 66enne e dove i bulli passavano il tempo a pestarlo. "Gli operanti sul posto - continua la relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile - venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse ed aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti". Per i pestaggi e le torture subite da Stano sono in carcere sei minorenni e due maggiorenni. Il successivo documento che parla delle aggressioni è del 5 aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta firmata da sette residenti nella via in cui viveva Stano e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano.
“Io vittima di bulli”. Stano denunciò un mese prima. Il quattordici marzo scorso Antonio Stano, il pensionato 66enne morto il 23 aprile e vittima delle torture della banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa – in via San Gregorio Magno, 8 alle 22.45 circa – dall’equipaggio di una volante della Polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. È quanto emerso dagli atti dell’indagine. Redazione Teleregione 6 Maggio 2019. Il quattordici marzo scorso Antonio Stano, il pensionato 66enne morto il 23 aprile e vittima delle torture della banda di bulli a Manduria, fu raggiunto a casa – in via San Gregorio Magno, 8 alle 22.45 circa – dall’equipaggio di una volante della Polizia al quale riferì di essere vittima delle angherie della gang criminale. È quanto emerso dagli atti dell’indagine. Gli agenti sul posto – c’è scritto nella relazione inviata alle Procure ordinaria e minorile – venivano avvicinati da Antonio Cosimo Stano, un uomo anziano che vive da solo, il quale riferiva loro di essere, già da diversi giorni, costantemente oggetto di vessazioni, angherie, percosse e aggressioni ad opera di alcuni giovani ignoti”. Il successivo documento che parla delle aggressioni subite dal pensionato è datato cinque aprile, giorno in cui viene presentata la denuncia scritta e firmata da sette vicini di casa e dal parroco della chiesa San Giovanni Bosco, don Dario De Stefano. Il giorno dopo la Polizia si recò nuovamente a casa dell’uomo torturato: gli agenti in quell’occasione bussarono più volte dicendo a Stano di aprire: “Non vogliamo farti del male”, dissero, capirono subito che qualcosa non andava. Dopo aver aperto la porta, trovarono l’anziano legato ad una sedia. Fu trasportato subito in ospedale e dopo due interventi e diciotto giorni di agonia l’uomo è deceduto. Intanto otto persone sono state fermate, di cui sei minori per i reati di tortura e sequestro di persona.
La Mamma di Salvatore De Simone «Il Babbo ha detto che ci sparava a tutti. E’ partito. E’ andato a prende il figlio e so ritornati lì con la pistola dentro. Capito..eh…E io ho chiamato i carabinieri ed ho detto “guarda che qui c’è questo con la pistola”. Venite subito. E non so mai venuti». L’inviato Gabriele Lo Bello: «La madre di Salvatore de Simone ucciso ieri da Raffaele Papa parla la Tg2 Rai a patto di non essere vista in faccia e ricostruisce i minuti prima della sparatoria. Racconta la sua verità. Una tragedia che poteva essere evitata, dive mostrandoci il telefonino con le chiamate al 112.» «Ho chiamato 8 volte, che si poteva evità perché l’ho chiamati all’1 e 26. Alle 2 ancora non arrivavano. Sono arrivati tutti solo quando erano già tutti per terra.»
“UNA MORTE COSÌ È UNA VERGOGNA”. Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 5 luglio 2019. Si chiamava Ulderico Esposito, aveva 52 anni, una moglie, due figlie e ogni mattina si alzava per andare a lavorare nel suo negozio, una tabaccheria della stazione Chiaiano della Linea 1 della metropolitana di Napoli. È morto l' altra notte dopo un mese di agonia all' ospedale Cardarelli di Napoli. Il 9 giugno era stato colpito alla testa con un pugno violentissimo sferrato da un richiedente asilo nigeriano, una delle tante "risorse" che secondo certi buonisti dovremmo accollarci senza discutere, per non passare da cattivoni razzisti. Questo tizio, clandestino sul nostro territorio, passava le sue giornate a sbronzarsi e a molestare i passanti. Faceva paura non soltanto alle donne, ma anche ad altri viaggiatori, eppure nessuno l' ha fermato. Nessuno tranne Ulderico Esposito, che gli amici di Mugnano chiamavano Rico e che ora piangono perché «una morte così è una vergogna, non si può tollerare». Il tabaccaio e la moglie, Daniela, da tre anni si trovavano sull' uscio del negozio il nigeriano bugiardo (diceva di chiamarsi Joseph invece il nome vero era Alfred) che sperava di raccattare qualche soldo dai clienti della ricevitoria. Stava appostato dalle 7 del mattino alle otto e mezza di sera e se non gli davano quello che voleva, l'extracomunitario insultava con le più brutali parolacce. «Era troppo invadente», ricorda la signora Daniela e noi ci permettevamo di fargli notare che avrebbe dovuto cercarsi un lavoro, ma lui rispondeva: «Io un lavoro ce l'ho già». Fare l'elemosina. La moglie del tabaccaio aveva provato a chiedere aiuto, a scrivere alle autorità, ma è stato tutto inutile e, anzi, i due coniugi sono stati scambiati per xenofobi soltanto perché, esasperati da quella presenza quotidiana ingombrante, volevano lavorare con serenità e senza che i clienti fossero infastiditi. «Puoi andartene per favore?», gli ha domandato alla fine l' esercente. Una richiesta garbata, legittima, come garbato era Ulderico: persona buona e stimata da tutti, con il sorriso stampato sul viso e un amore immenso per la sua famiglia. Il tabaccaio non ha alzato la voce, non ha minacciato ritorsioni, ha semplicemente domandato. Ma quella terribile sera di un mese fa, mentre stava tirando giù la saracinesca per andare a casa con la moglie, il 36enne africano si è avvicinato e ha insultato: «Tabaccà omm e m...», poi gli ha tirato un pugno in faccia e l' ha fatto stramazzare a terra. Il 52enne ha sbattuto la testa e ha cominciato a perdere sangue dalle orecchie e dal naso, le sue condizioni sono subito apparse molto gravi. Il pugno gli ha provocato un emorragia cerebrale che non gli ha dato scampo. Rimasto in coma per circa un mese, ieri si è spento in un letto d'ospedale. Straziate dal dolore la moglie Daniela e le figlie, che facevano i turni per tenere aperta la tabaccheria e speravano in un miracolo che invece non è mai arrivato. Il nigeriano, arrestato la sera stessa dell' aggressione, «sarà espulso dopo che si sarà fatto molti anni di carcere», assicura il ministro dell' Interno Matteo Salvini. Per lui l'accusa diventa ora da lesioni gravi a omicidio preterintenzionale, anche se il senatore azzurro, Francesco Giro, avverte: «Ora la magistratura non indebolisca l'atto di imputazione perché il delitto non è preterintenzionale, ma totalmente volontario e doloso, una vera esecuzione capitale». Tristezza e sgomento vengono espressi dal sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, dal governatore campano Enzo De Luca, da tanti esponenti politici locali. Il presidente provinciale della Federazione Tabaccai, Francesco Marigliano invoca «una risposta forte dello Stato». Per il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, invece, si tratta di un duro colpo al cuore la città. C'è indignazione soprattutto da parte dei colleghi commercianti di tutta Italia, specie da chi ha subìto in passato rapine o tentativi di furto e ha deciso di reagire per non soccombere di fronte ai delinquenti. «L'Italia non ha più spazio per le vittime», ha dichiarato Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino che sparò alla banda di ladri che tentava il colpo nella gioielleria accanto al suo distributore. «Questi vermi non hanno il diritto di stare in Italia», ha commentato Roberto Zancan, la cui gioielleria fu assaltata dai rapinatori nel 2015. «Non ci sentiamo tutelati», ha detto all' Adn Franco Birolo, tabaccaio padovano, «e il caso di Esposito è l' ennesimo in cui si viene colpiti anche quando non si reagisce; c' è chi lo fa e viene incriminato da qualche giudice che ha poco buonsenso e chi, come questo povero tabaccaio è stato preso a pugni solo per aver parlato». A Chiaiano la serranda gialla è abbassata, davanti c' è un mazzo di rose rosse e sopra un biglietto: «Rico è tornato alla casa del Padre».
Estratto dell’articolo di Stella Cervasio per La Repubblica del 15 giugno 2019. Daniela Manzi torna con una delle figlie dall'ospedale Cardarelli, dove il sindaco Luigi de Magistris e l'assessore Alessandra Clemente sono passati a salutare lei e la sua famiglia. Le avevano detto che finalmente, sei giorni dopo la barbara aggressione che l'ha ridotto in fin di vita, avrebbe rivisto il marito. […]
[…] Da quanto tempo era lì l'aggressore?
"Da tre anni e aveva sempre infastidito le persone chiedendo il resto ricevuto dopo aver comprato le sigarette o altro nella nostra tabaccheria. Dalle 7 mattina alle 20,30 di sera. Salutava, augurava buona fortuna ma era molto insistente. Se non gli davano quello che chiedeva li insultava con parolacce. Arrivati qui imparano subito le cose più brutte di Napoli...".
E voi vi siete opposti?
"Nel punto vendita lavoriamo in quattro con i miei due figli. Ci arrabbiavamo a turno, mio marito e io, gli dicevamo "vai a lavorare". Ma lui diceva: "Ma io lavoro già". Aveva detto di chiamarsi Joseph e invece si chiama Alfred e di avere 23 anni, invece ne ha 36. Fino a pochi mesi fa gli parlavo, ci ragionavo, gli dicevo "perché non ti metti fuori per favore?". Ma lui si spostava solo quando qualche agente di stazione o vigilante scrupoloso lo invitava a farlo, ma la maggior parte degli agenti lo lasciava stare lì. Io ho chiamato la dirigenza dell'Anm, ma rispondevano che dovevo dirlo alla vigilanza. Quante volte gliel'ho detto! […]".
Avevate chiamato le forze dell'ordine?
"Ma nessuno l'ha allontanato sul serio. […] Due mesi fa lui e un altro vendevano i biglietti fuori dalla metro per un euro (mentre costa un euro e dieci). Dove li avessero presi, falsi, rubati, non lo so. Vennero i carabinieri. Io avevo chiamato la vigilanza, che ha telefonato al 112".
E sabato scorso c'è stata una lite?
"No. Chiudemmo la tabaccheria alle 20,30, mentre uscivamo stavamo progettando come passare la serata, quando quell'uomo si è avvicinato gridando a mio marito: "Tabaccà, omm'' e m...". Ho sentito Ulderico rispondergli "Ma che c...dici?" e quello gli ha sferrato un pugno sulla bocca. È caduto con la testa a terra. A 10 anni fu operato per un tumore al nervo ottico, ha battuto proprio all'altezza di quella vecchia cicatrice e ha avuto un'emorragia cerebrale. L'hanno operato nella notte".
È vero che avevate affisso un cartello nella stazione che raccomandava di non dare soldi all'immigrato?
"Il mese scorso, ma fui subito richiamata dai vertici dell'Anm per razzismo. Spiegai che il razzismo non c'entrava. Scrivemmo "non fate l'elemosina a chi guadagna circa 60 euro, pari all'introito di un operaio specializzato". Ma siamo stati fraintesi da persone con falsi istinti buonisti. E la gente che prendeva la metro l'ha capito, ci ha detto "bravi". […]".
[…] Si riconosce nelle accuse di razzismo?
"Penso che neanche Salvini sia razzista, noi siamo contro chi ci fa del male, anche se fosse un napoletano: quanti delinquono anche tra noi, infatti. A delle persone di colore venute l'anno scorso ho offerto caffè, pizzette, panini. Ce n'era uno, Toby, che mi chiamava "mammà", e a mio marito diceva "papà". Anche loro chiedevano l'elemosina, ma senza aggredire nessuno. Negli occhi di quello che ha ridotto in fin di vita mio marito c'era solo sfida".
Minacce davanti alla piccola figlia. Il Tirreno - Cronaca, domenica 15 aprile 2018. C'era una bambina in strada prima che accadesse tutto. Prima che Raffaele Papa decidesse di impugnare la sua semiautomatica per fare fuoco su tre persone. La figlia di Salvatore De Simone, sei anni, era in viale Matteotti venerdì pomeriggio, insieme al padre e allo zio Massimiliano De Simone. Un caldo primaverile, le prime ore del pomeriggio, in una delle principali vie del centro di Follonica: un momento di calma interrotto bruscamente dal duro litigio occorso tra Raffaele Papa e Annalisa Marcelli, vicini di attività, al quale sono intervenuti in un secondo momento anche i fratelli De Simone, figli della donna. La bambina - secondo alcuni testimoni che hanno assistito alla scena - avrebbe preso parte a quel momento di violenza scellerata e avrebbe ascoltato le parole di Papa, sottolineate da quel gesto con le mani, a simulare un'arma che spara. La piccola avrebbe sentito le minacce di morte pronunciate dal proprietario della gastronomia adiacente all'hotel della nonna. E sarebbe scappata via prima che Papa sparasse contro i fratelli De Simone e contro Paola Martinozzi, che stava passando di lì per andare al lavoro: «Mia moglie era in terrazza mentre è successo tutto - racconta Carlo Fontani, proprietario dell'abitazione che si trova proprio di fronte all'hotel Stella - Io ero in casa, stavo riposando e ho sentito gli spari provenire dalla via. Mia moglie subito dopo è rientrata impaurita e mi ha raccontato dell'accaduto parlandomi anche di quella bambina in strada, scappata via terrorizzata dalle parole di Papa, quando l'uomo ha minacciato di prendere la pistola. Cosa che poi, purtroppo, ha fatto veramente». In molti hanno chiamato i carabinieri venerdì nel primo pomeriggio, tra questi anche Pier Enrico Moda, proprietario del negozio di assistenza Sky che si trova proprio di fronte alla gastronomia Da Buono di Raffaele Papa: «Ho mangiato qui in negozio con mia moglie - racconta l'uomo - Saranno state le 13,30 o le 13,45 quando ho sentito litigare in strada. Non era la prima volta che sentivamo quelle discussioni. Dopo pranzo mi sono messo a lavorare e improvvisamente ho sentito un colpo di pistola, l'ho subito riconosciuto, mia moglie invece si è affacciata dall'altra stanza chiedendomi se fosse caduto qualcosa. Poi pochi istanti dopo ne sono stati sparati altri. Ci siamo affacciati e abbiamo visto una persona a terra, una scena terribile. Abbiamo iniziato a tremare come foglie e abbiamo chiamato i carabinieri che erano già stati avvertiti da diverse persone». Massimiliano De Simone era appena stato colpito dai proiettili sparati da Papa: «Si è accasciato a terra - dice Moda - è caduto ma non voleva andare giù, provava a rialzarsi ma aveva le gambe come paralizzate e si è messo seduto. Sapevo che mia figlia era di turno alla Croce Rossa e l'ho chiamata per rassicurarla che non eravamo noi le vittime della sparatoria di viale Matteotti. Poco dopo, infatti, è arrivata qui e ha soccorso le vittime». Le attività della via poco dopo l'accaduto sono state fatte chiudere una dopo l'altra, tra queste anche la tabaccheria Galati: «Sono arrivata a lavoro - racconta la titolare Silvia - e ho visto un motorino in mezzo alla strada - forse un mezzo lasciato lì da un passante spaventato - e ho visto Salvatore a terra di fronte all'immobiliare. Ho associato il motorino alla persona a terra e ho subito pensato ad un incidente, quindi sono andata a vedere come stesse. Salvatore aveva già perso i sensi e non mi ha risposto. Solo in un secondo momento ho realizzato quello che era accaduto prima del mio arrivo».I fratelli De Simone e Raffaele Papa, come anche Paola Martinozzi, sono tutti conosciuti dagli abitanti della via follonichese dove ieri si respirava un clima di paura e dispiacere. «Conosco le persone coinvolte in questa brutta vicenda - dice la tabaccaia - non posso dire male di nessuno di loro, anche Papa, che aveva aperto qui la sua attività da un paio di anni, mi è sempre sembrata una persona tranquilla ed educata».
La paradossale storia di Maurizio: 12 rapine in 3 anni e lo Stato è assente. Da Redazione vesuviolive.it 30 novembre 2018. Ha subito 12 rapine in tre anni, ma le Forze dell’Ordine sono state sempre assenti. Questa è la paradossale storia in cui si è ritrovato catapultato Maurizio, proprietario di un Bar Tabacchi ad Afragola. Un record incredibile che finisce al centro di un servizio di Luca Abete di Striscia la Notizia che raccoglie la testimonianza dello stesso proprietario dell’esercizio commerciale: “In queste rapine subiamo percosse, vengono armati fino ai denti. Abbiamo paura e non siamo tutelati“. Per Maurizio i rapinatori, anche se sempre a volto coperto, “sono sicuramente del posto perché quando parlano hanno il nostro accento“. Per un caso così eccezionale sono state messe in atto precauzioni eccezionali, anche se sembrano siano servite a poco: “Dalla prima rapina abbiamo potenziato il sistema di videosorveglianza: in 80 mq abbiamo 20 telecamere che registrano in HD. Ma fino ad ora non ci sono servite a niente“. Quindi, Maurizio ha tutte le immagini che vengono mostrate nel servizio di Striscia la Notizia. I ladri, che spesso sequestrano anche i clienti, arrivano quasi sempre in branco, armati (a volte anche di fucile a canne mozze), facendo razzia di tutto: non solo soldi, ma anche altre merci come sigarette, gratta e vinci e una cambia monete. Un danno ingente, in questi anni, che tra beni e soldi ammonta a circa 150mila euro. L’ultima rapina è avvenuta venerdì scorso, intorno alle 13, quando strada e locale erano affollati di persone. Una situazione insostenibile che diventa ancor più pesante per l’assenza dello Stato. Infatti, racconta Maurizio, ogni volta che le Forze dell’Ordine sono state allertate sono sempre arrivate in ritardo (anche un’ora e mezza dopo la rapina), eppure distano a soli 200 metri dall’esercizio commerciale. “Siamo diventati il bancomat di questi criminali – dice sconfortato Maurizio – Ho pensato anche di chiudere, ma così andrebbero in strada 15 dipendenti. Cercheremo di resistere fino a quando ne avremo la forza. Sono, però, sicura di una cosa: se noi ci abbiamo rimesso i soldi, lo Stato ci ha sicuramente rimesso la faccia“.
Aggredito con l'acido: i carabinieri non risposero alla chiamata di Giuseppe. Le Iene 13 maggio 2019. Vi mostriamo lo screen della chiamata che Giuseppe Morgante, accortosi di essere seguito da Sara Del Mastro, fa al 112. Una chiamata di quasi 2 minuti alla quale nessuno risponde. E qualche istante dopo quella telefonata la ragazza gli getta in faccia l’acido. “Dovrei chiamare il maresciallo, mi ha detto di avvisarlo quando la vedo, però cosa faccio? Gli dico che sotto casa c’è una pazza che continua a fare la ronda?”. A parlare è Giuseppe Morgante, il ragazzo aggredito con l’acido da Sara Del Mastro, la 38enne con cui aveva avuto una relazione di meno di un mese. Pochi minuti dopo questa frase, pronunciata da Giuseppe in macchina mentre Sara sta passando per l’ennesima volta davanti alla sua auto, la ragazza gli getterà davvero in faccia un bicchiere pieno di un liquido scuso e denso: un acido potentissimo (come potete vedere nel servizio di Veronica Ruggeri qui sopra). Una premonizione forse, quella di Giuseppe, ma la cosa ancora più incredibile è che subito dopo aver pronunciato quella frase in auto Giuseppe prova davvero a chiamare i carabinieri. Giuseppe chiama i carabinieri alle 21.36 del 7 maggio. Ma quella chiamata di aiuto, che come potete vedere dallo screen dura un interminabile minuto e 43 secondi, cadrà nel vuoto. Giuseppe viene messo in attesa fino a quando stanco di aspettare rinuncia ad avvisare le forze dell'ordine. “Avrebbero potuto avere un occhio di riguardo in più per Giuseppe, vedendo la sua chiamata e conoscendo lo stalking di cui era vittima”, spiegano dalla famiglia del giovane, che questa mattina si sta sottoponendo a un piccolo intervento chirurgico. E Giuseppe ci ha raccontato un altro particolare inquietante. Solo pochi minuti prima dell’agguato il ragazzo aveva rischiato conseguenze fisiche ancora più gravi. Sulla strada tra il posto di lavoro e casa sua Giuseppe, che si è accorto di essere seguito dal’'auto di Sara, prova a entrare in un parcheggio privato, per seminarla. La giovane gli si mette davanti con la sua auto, impedendogli di uscire. All’improvviso Sara scende dalla sua macchina e va verso il finestrino di Giuseppe, prima chiedendogli di ritirare la denuncia e poi dicendogli di volersi scusare. Se Giuseppe avesse abbassato il finestrino o fosse sceso, forse, lei avrebbe potuto tirargli l’acido in piena faccia, con conseguenze ancora più tragiche. Giuseppe però non si fida di lei e le dice di andare sotto casa dei suoi, sapendo che lì ad aspettarlo ci sono suo fratello gemello e sua madre. Il resto è cronaca, con la Del Mastro che una volta arrivata sotto casa di Giuseppe lo attira verso la sua macchina e dal’interno dell’auto gli getta addosso l’acido. Sara e Giuseppe si erano conosciuti in chat ed avevano avuto una frequentazione brevissima. L’uomo, non appena aveva percepito l’asfissiante gelosia di Sara, aveva deciso di interrompere quella relazione. Ed era stato l’inizio del suo “inferno”, fatto di 800 chiamate al giorno, pedinamenti, gomme dell’auto bucate, minacce esplicite di morte e falsi profili social per intimidirlo. E allora Giuseppe aveva chiamato Le Iene, per raccontare le minacce di morte e le persecuzioni della donna, che sarebbe anche arrivata ad assoldare un uomo per pedinare il “suo” Giuseppe oltreché stalkerizzare Arianna Penone, una ragazza che aveva conosciuto Giuseppe online. Veronica Ruggeri aveva avvicinato anche la stessa Sara, e lei ci aveva detto: “So che il mio è stalking. L’ho fatto per colpa di quello stronzo di merda. Era l’unica persona buona in tutto lo schifo che avevo avuto. È la prima delusione forte. È stata la delusione del ti adoro facciamo una famiglia e poi?”. Sara Del Mastro, che in carcere si sarebbe detta pentita del gesto e avrebbe chiesto una perizia psichiatrica, è in arresto per lesioni personali gravissime e stalking.
800 telefonate in un giorno e sms con foto di bare: così Sara perseguitava l’ex. Pubblicato giovedì, 9 maggio 2019 da Andrea Galli su Corriere.it. Le 16.40 del 19 aprile. Stazione dei carabinieri di Legnano. Da una parte, un maresciallo; dall’altra, un 29enne italiano, Giuseppe Morgante, arrivato per denunciare una 38enne italiana, Sara Del Mastro, conosciuta in chat su Internet, frequentata da inizio ottobre a metà novembre, una relazione che lui ha voluto interrompere e che lei ha trasformato in una persecuzione. Pedinamenti, minacce di morte, ottocento chiamate da numeri sconosciuti nell’arco di un unico giorno. Domanda del maresciallo a Morgante: «Può dirci se lei ha nutrito paura per possibili comportamenti da parte di Del Mastro?». Risposta di Morgante: «Io vivo con l’ansia che Sara possa crearmi seri danni. Temo inoltre possa fare del male alle persone che mi stanno accanto e mi vogliono bene». Da quella stazione dei carabinieri, la denuncia fu subito trasmessa alla Procura di Busto Arsizio. In quella stessa caserma, alle 21.50 dell’altroieri, Sara Del Mastro si è presentata dicendo di «aver fatto un gestito orribile nei confronti del ragazzo». Non di un ragazzo, ma del ragazzo, convinta che fosse o dovesse essere il suo fidanzato. Pochi minuti prima, aveva gettato un bicchiere di acido sul volto di Morgante, ricoverato in prognosi riservata per ustioni di secondo e terzo grado su torace, addome, mano sinistra e soprattutto il viso: rischia di perdere l’occhio sinistro. Davanti ai carabinieri che l’hanno arrestata e accompagnata in carcere, Sara Del Mastro ha urlato: «Quello lì mi ha rovinato la vita». Nella confessione in caserma, la donna, occupata in un’impresa di pulizie, ha ricostruito l’agguato. Nel primo pomeriggio di martedì, «in previsione di incontrare» Morgante, ha acquistato una boccettina di acido. Alle 16 ha chiamato sua madre per avvisarla che, se le fosse successo qualcosa, si sarebbe dovuta occupare della figlia di otto anni. Poi ha atteso a bordo della sua Fiat Punto. Ha incrociato Morgante in via Dei Pioppi a Legnano, la cittadina dove entrambi abitano, è scesa, e quando il 29enne ha abbassato il finestrino della macchina, Del Mastro gli ha rovesciato addosso la sostanza. Se n’è andata e ha raggiunto la caserma, dove ha alternato atteggiamenti d’insofferenza (si alzava e sedeva, toccava freneticamente mani e naso) a lunghi silenzi, e dove ha consegnato due iPhone e una sim; in mattinata, si era sbarazzata di un terzo telefonino lanciandolo nel fiume Olona. Ritorniamo sulle date, adesso. Il 19 aprile la denuncia di Morgante, il 7 maggio l’aggressione. Sono diciotto giorni, durante i quali i magistrati hanno avuto sul tavolo un cristallino quadro della situazione. Nel riportare le frasi di un avvocato che tratta molti casi di stalking come Domenico Musicco («Troppo lente le indagini, troppo lunghe le inchieste, nessun provvedimento preventivo, come il braccialetto elettronico obbligatorio nei casi più gravi, che però in Italia il giudice non dispone mai»), conviene tornare ancora su quella denuncia di Morgante, operaio in un centro commerciale. «Con Sara avevo messo in chiaro che la nostra sarebbe stata esclusivamente una frequentazione, poiché le avevo detto che mi stavo vedendo con altre persone... Ogni mio spostamento è seguito da Sara come se sapesse in anticipo dove intenda recarmi... L’ho notata in numerose occasioni nei pressi della mia abitazione... L’ho notata nel parcheggio dove lavoro... La mia speranza è quella che la smetta... Una volta le ho chiesto perché faceva così, e mi ha detto di essere “marcia dentro”... Ha chiamato la ragazza che frequento e la detto di essere incinta di me... Attraverso falsi profili dei social, mi insulta: “Viscido, bast..., figlio di..., idiota... Uomo di m.. tu sei morto...”. Mi ha anche inviato foto di bare». Domanda del maresciallo a Morgante: «Può dirci se lei è stato costretto a modificare le sue abitudini?». Risposta di Morgante: «Ho dovuto modificare le mie abitudini. Esco di meno. Cerco di fare strade alternative». Mercoledì, con Morgante, c’era il fratello gemello Filippo, che non è riuscito a impedire l’agguato, talmente è stato veloce. Una sera, mentre bucava le gomme della Clio di Giuseppe, la sua ossessione («Ci penso ininterrottamente giorno e notte» ha ripetuto), Del Mastro era stata sorpresa dal fratello. Pensando che fosse Giuseppe, gli aveva puntato addosso il coltello, promettendo: «Mi hai rovinato la vita, io ti uccido». Poi era scappata, l’arma in mano.
Marianna Manduca e Saverio Nolfo: come lo Stato uccide la memoria di una donna che non ha protetto. Next quotidiano il 22 Marzo 2019. Marianna Manduca, 32anni, vita e famiglia a Palagonia, in provincia di Catania, fu uccisa a coltellate il 3 ottobre del 2007 da suo marito, Saverio Nolfo, poi condannato a 21 anni di carcere. Lei aveva firmato 12 denunce contro di lui ma lo Stato non riuscì a proteggerla. E ieri una sentenza della Corte d’Appello in Sicilia ha negato ai figli il risarcimento danni. Perché? Scrive oggi il Corriere della Sera: Ma «ritiene la Corte» che a nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l’ha uccisa «dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un’arma simile». Nemmeno «l’interrogatorio dell’uomo avrebbe impedito l’omicidio della giovane donna», scrivono i giudici. Tutt’al più lui avrebbe capito «di essere attenzionato dagli inquirenti». Men che meno avrebbe avuto effetto una perquisizione a casa sua per scovare il coltello mostrato a lei minacciosamente. In pratica, «ritiene la Corte», che «l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato». Ventuno pagine di sentenza per descrivere il senso di totale impotenza della magistratura (in quel caso la Procura di Caltagirone) davanti alle suppliche di aiuto di Marianna. E per smentire la decisione di primo grado che invece aveva parlato di «grave violazione di legge con negligenza inescusabile» nel «non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati» e nel «non adottare nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Saverio Nolfo». Il giudizio d’appello, invece, sostiene che la Procura fece il possibile date le leggi del momento (ancora non c’era la legge sullo stalking). Dice che — è vero—non eseguì la perquisizione e quindi non sequestrò il coltello, ma le due non-azioni, appunto, non sarebbero bastate a scongiurare il peggio. Per i maltrattamenti e le minacce di morte era previsto anche allora l’arresto (quello sì che avrebbe scongiurato il delitto) ma i comportamenti di Nolfo non furono interpretati all’epoca, e non lo sono in questa sentenza, come gravi: «Non consentivano l’applicazione della misura cautelare». Nemmeno quando lui accolse Marianna mostrandole un coltello a serramanico con il quale finse di pulirsi le unghie.
"Uccisa dal marito per colpa dell'inerzia dei giudici". Lo Stato complice del femminicidio, ecco le carte delle 12 denunce ignorate. Le carte di una sentenza destinata a fare storia. “I giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile” Claudia Fusani 14 luglio 2017 su Tiscali News. La differenza sta in un coltello. Quando Marianna lo vede, la prima volta, era il 13 maggio 2007 e un brutto presentimento le attraversa la mente. Si spaventa, lo denuncia, “con quel coltello mi ucciderà” disse ai carabinieri. Ma non serve. Sarà quel coltello ad ucciderla pochi mesi dopo, il 3 ottobre, mamma di tre bimbi, moglie uccisa dal marito. Lui si chiama Saverio Nolfo, lo presero quasi subito e non fu difficile per il tribunale di Caltagirone condannarlo a vent’anni per omicidio volontario. I tre bimbi, allora di 3,5 e 7 anni, sono stati nel frattempo adottati, vivono con serenità altrove e chiamano “papà e mamma” i nuovi genitori (lontani parenti di Marianna) e “fratelli” i tre figli naturali della coppia adottiva. E’ una tragedia lontana quella tornata nelle cronache a metà giugno. L’ennesimo femminicidio di cui sono state però punite le colpe dirette – quelle del marito - e anche quelle indirette, cioè dei giudici e di quell’apparato di sicurezza che sembra ancora oggi non essere in grado di capire e prevenire nonostante gli sforzi del ministero dell’Interno sulla formazione del personale e le modifiche al codice penale. Il capo della polizia prefetto Franco Gabrielli la scorsa settimana audito alla Camera spiegò come non sia possibile dare una scorta a tutte le donne che temono aggressioni e violenze da mariti o ex compagni. Vero, certamente. Il fatto è che anche Donata, 48 anni, Maria, 49, Manuela , 25, una donna romena di 48 anni e una italiana di 81, chi più chi meno avevano gridato, chiesto aiuto, denunciato magari con vergogna le loro paure. Le hanno ammazzate tutte in 48 ore, tra Bari, Salerno, Cagliari, Roma, Montepulciano. E allora gli apparati dello Stato, di sicurezza e giudiziari e sociali, dovrebbero mandare a mente le 31 pagine della sentenza della I sezione civile del Tribunale di Messina che ha condannato al risarcimento (per 260 mila euro) i giudici che dieci anni fa non seppero ascoltare Marianna. Pagine che sono la cronaca di dodici mesi di minacce e paura. Di dodici denunce rimaste inascoltate, comunque sottovalutate.
Trenta pagine da imparare a memoria. La sentenza firmata dal presidente Caterina Mangano è destinata a fare storia. A dettare la giurisprudenza. Soprattutto a dare speranza. Perché, come si legge, “i giudici dell’epoca, nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati da Marianna e nel non adottare nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità del marito, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile”. E’ il risultato della vecchia (1988) legge Vassalli che va a combinarsi con la più recente modificata nel 2015. Il messaggio è chiaro: mai più sottovalutare alcunché. Anche da parte della vittima. Carmelo Calì, così si chiama il lontano cugino di Marianna che prende in carico prima e poi adotta i tre ragazzini, inizia la sua battaglia nel 2012: sono passati 5 anni dall’omicidio, la pratica per l’adozione si è conclusa, è tempo di chiudere l’unico conto in sospeso perché gli altri – il dolore, la mancanza, lo choc – non sono calcolabili e quindi mai risarcibili. E’ convinto, Carmelo, che “la procura della Repubblica di Caltagirone nulla abbia fatto per impedire la consumazione dell’omicidio di Marianna” nonostante la donna abbia presentato “tra settembre 2006 e settembre 2007 dodici querele nei confronti del marito autore di violenze fisiche, aggressioni e minacce”. La causa civile è promossa contro la Presidenza del Consiglio dei ministri che per i primi tre anni chiede e ottiene la non ammissibilità della causa. Carmelo, affiancato dagli avvocati Alfredo Galasso e Licia D’Amico, insiste finchè la Cassazione gli dà ragione e ordine al tribunale di Messina di procedere. E’ il 17 luglio 2015. Quante volte Marianna aveva chiesto aiuto. Caterina Mangano, presidente della prima sezione, le mette tutte in fila, una dietro l’altro, 12 querele in 12 mesi. Ne viene fuori la trama sottile di un delitto annunciato.
Dodici denunce in dodici mesi.
La prima volta è il 27 settembre 2006, stazione dei carabinieri di Palagonia. Saverio, il marito di Marianna, ha problemi di tossicodipendenza, e lei lo denuncia per “violenze fisiche e maltrattamenti”. Il pm, una donna, prende sul serio la cosa e chiede ed ottiene dal gip la misura cautelare dell’allontanamento dell’uomo dalla casa di famiglia. Attenzione alle date: il 10 ottobre, poco dopo la denuncia, Marianna chiede la separazione. Due strade, il penale delle querele e il civile per la separazione, destinate ad incrociarsi e condizionarsi. Mentre Saverio è allontanato da casa, a quanto pare ben assistito dai suoi legali, produce un certificato del Sert dell’Asl da cui risulta “l’inesistenza di uno stato di tossicodipendenza” tanto che il 19 dicembre 2006 ottiene l’affidamento dei figli in via provvisoria con diritto di visita della madre. Il motivo dell’affidamento è in queste parole del presidente del Tribunale: “Constatato il timore dei figli alla vista della mamma in aula”. A margine dell’affidamento vengono richieste le solite perizie e relazioni ai servizi sociali i quali certificano “la capacità e la disponibilità di entrambi i genitori ad esercitare la patria potestà”. Sul padre, però, dicono qualcosa in più: “Dinamiche relazionali padre-figli condizionate dalla volontà del padre di tenere i figli con sé; insufficienza della casa dei nonni abitata dai minori”. Insomma: dopo la prima denuncia, Marianna ottiene la cacciata del marito ma perde anche figli.
La seconda denuncia. E’ del 14 ottobre 2006: due giorni prima Saverio è arrivato a casa della suocera dove erano i bimbi e ha cominciato a prendere a calci il portone spaccando il vetro perché “non è vero che dormono, devo vederli”. I carabinieri, chiamati sul posto, fanno rapporto. Ma Marianna non dà seguito alla necessaria querela di parte: è appena stata presentata la richiesta di divorzio ed è bene – suggeriscono gli avvocati – non esasperare una situazione già complicata. La denuncia per danneggiamento muore così.
Quella per ingiurie - la terza denuncia – è archiviata il 17 aprile 2007 perché “non è stato ravvisato nulla di penalmente rilevante”.
La quarta querela è del 7 novembre 2006: Marianna denuncia di essere stata picchiata dal marito, ha un referto di 15 giorni, e che i figli non sono stati portati a scuola. Nello stesso periodo ci sono le controdenunce del marito perché “vittima di aggressioni e ingiurie da parte della moglie e dei suoi genitori”. Il 28 novembre Saverio sarà allontanato da casa, segno che comunque la situazione creava preoccupazione. I figli però saranno affidati al babbo.
L’anno nuovo, il 2007, inizia con quattro querele: il 15, 16 e 17 gennaio e il 2 febbraio. Marianna dice di non poter andare a casa a prendere le sue cose “per timore di essere aggredita e delle reazioni spropositate del marito”.
Il 15 marzo ne arriva un’altra: questa volta Marianna denuncia di essere stata schiaffeggiata, di non poter aver accesso alle sue cose e di non aver potuto prendere i figli in consegna come previsto dal giudice.
Il presidente Mangano prosegue con precisione da laboratorio, dando il dettaglio dell’esito di ciascuna querela archiviata “per elementi inidonei e insussistenti” o dove l’imputato veniva assolto più o meno per gli stessi motivi. Ogni volta, in ogni caso, non è stata possibile l’applicazione delle misure cautelari.
Si va avanti per pagine e pagine. “Sino al mese di giugno 2007 – si legge nella sentenza – non sono rinvenibili i presupposti per affermare una responsabilità dei magistrati della procura di Caltagirone”. Uno stillicidio di violenze e pressioni non perseguibili. La giustizia, e gli apparati di sicurezza e prevenzione, fino a giugno 2007 hanno fatto, sulla carta, il loro dovere. Anche le perizie psichiatriche dicevano che il marito era capace di intendere e di volere, non era un tossicodipendente, entrambi i genitori idonei alla patria potestà. Per fortuna la giurisprudenza da allora ha fornito giudici e investigatori di strumenti più idonei a contrastare certe follie (il reato di stalking).
"L’inerzia dello Stato". La storia, già di per sé assurda di Marianna e Saverio e dei loro tre bimbi, cambia però il 2 giugno 2007. “Differente valutazione merita invece la vicenda a decorrere dal mese di giugno del 2007” scrive la presidente Mangano. E’ la denuncia numero 10. Quel giorno Marianna va alla stazione dei carabinieri dove ormai la conoscono benissimo, e racconta di essere andata a casa e di aver trovato il marito che, appena la vede, “estrae un coltello a scatto e con aria di sfida lo usa per pulirsi le unghie delle mani”. E’ un crescendo di minacce perché nei giorni precedenti il marito, da cui è ormai avviata la procedura di separazione, “le aveva puntato contro un arco artigianale con una freccia metallica ricavata da un’antenna”. La freccia era stata scoccata ed era finita a 50 centimetri dai piedi della donna. Negli stessi giorni, andando a prendere uno dei figli, il marito “si era fatto trovare mentre maneggiava lo stesso coltello, a scatto, una lama di circa 10 centimetri e manico scuro”.
Seguono altre denunce: il 25 luglio e il 3 settembre, ogni volta compare il solito coltello. “A fronte delle querele presentate a decorrere dal mese di giugno 2007 – scrive la presidente – dalle quali poteva razionalmente presagirsi un intento se non omicida quantomeno di violenza ai danni della donna, vi è stata una sostanziale inerzia dello Stato”.
Sei coltellate. Il 3 ottobre Marianna Manduca viene uccisa “con plurime coltellate all’addome e al torace con un coltello a serramanico con una lama di circa dieci centimetri”. I carabinieri questa volta non hanno dubbi e vanno ad arrestare Saverio. Mai delitto è stato più annunciato di quello. A pagina 25 e 26 della sentenza si legge: “Il compimento di una perquisizione (ai tempi delle denunce e mai avvenuta, ndr) avrebbe condotto al rinvenimento del coltello e al suo conseguente sequestro per porto abusivo di mezzi atti ad offendere(…)”. E questo “con valutazione probabilistica, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento omicida del 3 ottobre”. Certo, magari Saverio ci avrebbe provato con altri mezzi e in un altro momento. Ma quel rischio specifico non è stato evitato per colpa dell’inerzia dello Stato. “In materia di violenza domestica – scrive qualche riga sotto la presidente – il compito di uno Stato non si esaurisce nella mera adozione di disposizioni di legge che tutelino i soggetti maggiormente vulnerabili ma si estende ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva evidenziando che l’inerzia dell’autorità nell’applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti di tutela in esse previsti”. Una sentenza da studiare nelle università e da mandare a mente in ogni caserma, commissariato e tribunale.
· Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.
L'inchiesta. Ecco tutte le accuse a Romeo, un giro di affari di quasi 1.000 euro. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 ottobre. Stamattina le agenzie di stampa hanno battuto la notizia della richiesta di rinvio a giudizio (non del rinvio a giudizio: della richiesta di rinvio) per Alfredo Romeo e altre 54 persone. La notizia per la verità non è nuovissima: è del 7 ottobre. Succede che ogni tanto l’informazione arrivi un po’ in ritardo su alcune notizie. Stavolta lo spostamento dei tempi ha determinato la coincidenza tra la notizia su Romeo e l’uscita del Riformista, del quale Romeo è editore. Ma questo, è chiaro, è solo un caso. A voler dire tutta la verità, la notizia non è nemmeno del 7 ottobre scorso, ma è del febbraio del 2018. Cioè ha un anno e nove mesi. L’età in cui molti bambini parlano. “Non c’è nulla di più inedito dell’edito”, scriveva Montanelli. Stavolta, forse, il ritardo è un po’ esagerato. Fu appunto nel febbraio del 2018 che Romeo fu mandato a giudizio per svariati reati (una decina) che avevano già provocato il suo arresto e circa sei mesi di detenzione a Regina Coeli. In quell’occasione il Gip aveva però escluso il reato più grave, e cioè l’associazione a delinquere. La Procura di Napoli allora è tornata alla carica e ha preparato un nuovo rinvio a giudizio, che per la verità riguarda quasi esclusivamente i presunti corrotti, e non il corruttore. E al corruttore (che per i reati di corruzione verrà giudicato in un altro processo già in corso) ha aggiunto solo l’associazione a delinquere, infischiandosene un po’ del fatto che un Gip l’aveva esclusa. Ora il paradosso è che si svolgeranno due processi paralleli. Uno contro il presunto corruttore (Romeo) l’altro contro i presunti corrotti (i 54). Potrebbe anche succedere che Romeo venga condannato per aver corrotto i 54 e i 54 assolti per non essere stati corrotti da Romeo. O viceversa che i 54 vengano condannati per essere stati corrotti da Romeo e Romeo assolto per non averli corrotti.
COLPO DI SCENA NEL CASO CONSIP. Emiliano Fittipaldi per L'Espresso l'11 ottobre 2019. Dentro il pozzo oscuro dello scandalo Consip ci sono tante cose. C’è l’inchiesta romana che ha portato qualche giorno fa al rinvio a giudizio di alti ufficiali dei carabinieri e di un pezzo grosso del Pd come Luca Lotti, accusati di aver fatto trapelare notizie riservate e aver rovinato volutamente le indagini sul grande appalto da 2,7 miliardi di euro della procura di Napoli. C’è lo scontro tra i pm di Roma e il maggiore Gianpaolo Scafarto, l’investigatore accusato di falso e depistaggio, ma prosciolto da ogni accusa dal Gup Clementina Forleo la scorsa settimana. E le presunte manovre di Tiziano Renzi e del suo sodale Carlo Russo, entrambi indagati per traffico di influenze illecite per aver tentato di favorire i business dell’imprenditore Alfredo Romeo (i magistrati hanno chiesto per la seconda volta l’archiviazione del babbo del leader di Italia Viva: il gip deciderà a giorni se dare l’ok, ordinare altre indagini oppure procedere con un’imputazione coatta). Ma nel vaso di Pandora di Consip c’è pure l’altro filone. Quello incentrato sulla figura di Romeo, assurto fin da principio a “grande corruttore” dell’affaire. Tutto lo scandalo parte da lui. O meglio, dalle accuse di corruzione della procura di Napoli e dei carabinieri del Noe contro il boss indiscusso del facility management nazionale. Romeo nel marzo del 2017, dopo che le carte partenopee gonfie di intercettazioni vengono spedite per competenza nella Capitale, viene arrestato. L’accusa è grave: aver comprato un alto dirigente della Consip, Marco Gasparri, per ottenere notizie riservate dei bandi di gara, e vincere poi i lotti della gara FM4, la più ricca d’Europa, con il trucco. Accuse che appaiono circostanziate: perché è lo stesso Gasparri che, dopo 9 giorni da una prima perquisizione, decide di vuotare il sacco davanti ai pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano, ammettendo di aver preso denaro in contanti direttamente dalle mani di Romeo, e spiegando di aver venduto all’imprenditore di Cesa la sua funzione pubblica intascando somme ingenti per quattro anni. La mazzetta finale arriverebbe, secondo i pm, a circa 100 mila euro. La confessione piena e la chiamata in correità ha portato Gasparri, nel settembre 2017, a patteggiare un anno e otto mesi di carcere, e ha sprofondato Romeo nel gorgo del processo di cui giovedì scorso si è tenuta la prima udienza. In aula l’imprenditore si gioca non solo una condanna penale, ma anche il futuro della sua Romeo Gestioni: dopo l’inchiesta e le accuse di Gasparri la società è stata esclusa prima dalla gara incriminata, la FM4, poi da altri sei bandi di Consip dal valore di centinaia di milioni di euro. Tutti erano certi che Romeo - che ha sempre dichiarato di non aver mai girato un centesimo a Gasparri - si sarebbe difeso fin da subito con le unghie e con i denti. Ma nessuno poteva immaginare il colpo di scena che aveva in canna. L’avvocato di Romeo Gian Domenico Caiazza ha infatti chiesto ai giudici di depositare agli atti del processo il rapporto di un’agenzia di intelligence privata, la Dogma. Si è scoperto così che lo scorso marzo l’imprenditore ha deciso di ingaggiare un gruppo di investigatori a cui ha delegato indagini difensive preventive. Obiettivo principale degli agenti di Dogma (tra cui ci sono molti ex carabinieri) è proprio il grande accusatore del loro cliente, Marco Gasparri. Che è stato pedinato e fotografato per 101 giorni, dalla mattina alla sera, alla ricerca spasmodica di elementi che potessero essere utili alla difesa di Romeo. Ebbene, secondo gli avvocati difensori gli investigatori privati avrebbero fatto bingo. Trovando evidenze di «costanti rapporti di lavoro», si legge nel report di Dogma, «l’architetto Gasparri» e una società, la Team Service, «la quale, già classificatasi seconda in graduatoria nei lotti 3 e 18 della gara FM4 bandita da Consip, in conseguenza dell’esclusione dalla suddetta gara derivante dalla chiamata in correità di Alfredo Romeo da parte del Gasparri, diviene prima in graduatoria in luogo della Romeo Gestioni spa, per un importo pari a circa 388 milioni». Da marzo 2019 fino allo scorso 1 ottobre, Gasparri è stato seguito «per un totale di 101 giorni esclusi i sabato e le domeniche», e sarebbe stato visto entrare e uscire negli uffici dei rivali di Romeo per 51 volte. «In particolare, lo stesso è stato notato più volte» scrivono allegando fotografie e riprese video «alla stessa finestra degli uffici occupati dalla direzione della Team Service al sesto piano». Il rapporto degli 007 di Romeo mette l’accento su quelle che sarebbero altre evidenze. L’esistenza di una società di consulenza di Gasparri aperta a marzo del 2018, a qualche mese dal patteggiamento, chiamata Magas (che quell’anno, risulta all’Espresso, ha fatturato 76 mila euro). E anche i rapporti professionali di un fratello dell’architetto Gasparri, che frequenterebbe anche lui «costantemente» gli uffici della Team Service. L’Espresso ha cercato l’architetto e i vecchi concorrenti di Romeo per capire se e quando avessero affidato incarichi professionali all’ex direttore Consip dopo il patteggiamento per corruzione: al telefono hanno confermato che Gasparri è di casa («non è ancora arrivato in ufficio», spiegano), ma né lui né i dirigenti dell’azienda ci hanno richiamato. Oltre i rapporti con chi ha preso il posto della Romeo come possibile vincitore di alcuni lotti della gara FM4, il dossier fa le pulci anche al tenore di vita di Gasparri, sostenendo che l’ex funzionario spiato «a differenza di quanto da lui affermato in fase di incidente probatorio, dove lo stesso dichiara di aver dimezzato il suo tenore di vita», avrebbe invece un livello di spese personali elevate. Lo dimostrerebbe la frequentazione assidua del Circolo Tiro a Volo di Roma, i ristoranti di lusso, gli hotel «medio alti», le visite a centri massaggi e viaggi in prima classe. Caiazza, sentito dall’Espresso, spiega che a suo parere le scoperte saranno utili per smontare le accuse contro “il grande corruttore”. «I rapporti tra Gasparri e la società che grazie alle sue dichiarazioni contro Romeo è diventata aggiudicataria di bandi da centinaia di milioni di euro sembrano lampanti. Ora è legittimo chiedere al tribunale di verificare se questo rapporto nasca nel contesto di un accordo. E se dunque le dichiarazioni accusatorie possano avere avuto una spiegazione diversa da quella che viene data da Gasparri. Questo dossier evidenzia che Gasparri non è più credibile. E a parte le sue parole, non ci sono a nostro parere riscontri confermativi delle mazzette di cui lui parla». Il report di Dogma mette in evidenza pure quelli che, a parere della difesa, sarebbero altri punti deboli dell’accusa. Come la relazione di servizio dei Carabinieri del Noe sull’attività che portò alla prima identificazione su un taxi di Gasparri a fine novembre 2016 (redatta mesi dopo e firmata da un militare che però, quel giorno, sarebbe stato in Sardegna come dimostrerebbero alcuni post su Facebook); il fatto che nel decreto di perquisizione del 7 dicembre 2016 deciso dalla procura di Napoli si farebbe riferimento «a fatti specifici che vengono evidenziati dal Gasparri» solo nell’interrogatorio di 9 giorni dopo; e la discordanza delle dichiarazioni di Gasparri, che se ammette di aver preso soldi ai pm a dicembre 2016, a marzo 2017 avrebbe poi negato «nelle giustificazioni inviate a Consip... di aver percepito somme di denaro» da Romeo. Insomma, il colpo di scena servirebbe a screditare completamente il test che ha portato Romeo in galera. Cercando di aprire scenari che per la procura di Roma appaiono però altamente improbabili. Fonti di Piazzale Clodio si dicono più che tranquille dagli elementi di prova che hanno in tasca. Che Gasparri possa lavorare oggi per un’azienda di facility management non desta allarme: Gasparri è un esperto del ramo (Romeo lo chiamava il “prototipatore”) e nel campo - dopo aver lavorato per oltre tre lustri in Consip - è certamente uno dei più bravi. Oltre alla confessione di Gasparri (il gip Gaspare Sturzo che ne ordina gli arresti nel 2017 evidenzia «l’assenza di motivi per rendere false dichiarazioni a carico del Romeo»), i pm romani hanno in mano anche “pizzini” con il nome dell’architetto, e alcune intercettazioni in cui l’allora funzionario Consip dà all’imprenditore indicazioni tecniche per correggere gli “errori” dei consulenti che progettavano le gare («senza il suo intervento Romeo con molta probabilità sarebbe stato escluso da tutti i lotti ai quali ha partecipato», chiosa Sturzo nel dispositivo). Soprattutto, hanno in tasca quelle in cui si parlerebbe chiaramente di promesse di passaggio di denaro tra i due. «Però avvocato una cosa! Mi è rimasto “quaranta” indietro...», dice Gasparri a Romeo in uno degli ultimi incontri, a ottobre 2016, prima di salutarsi. «Va bene» risponde Romeo. «Ma tanto eh? Sto in difficoltà, vediamo...». «No, fra poco... C’ho una buona notizia oggi. No, va bene!». E Gasparri, bisbigliando: «È... per quello. Ce la fa?». «Sì sì» chiude Romeo. Prova inconfutabile di scambi di soldi, secondo l’accusa. Mentre la difesa spiega che Gasparri non dice «quaranta indietro», ma «ma tanto indietro». Frase che non sarebbero affatto da collegare «alla disponibilità di Romeo di sborsare una cifra importante, 40 mila euro» come sostiene l’accusa, ma ad aspetti tecnici legati ai bandi di gara a cui la Romeo Gestioni sta partecipando. Vedremo. I rapporti tra Romeo e Gasparri, certamente in pieno conflitto d’interessi, durano anni. E i magistrati puntano sull’altissima probabilità che il funzionario, per aiutare il gruppo Romeo, sia stato per forza ricompensato. Come lui stesso ha ammesso a verbale, aggiungendo pure che l’imprenditore napoletano gli avrebbe chiesto anche di concordare una versione di comodo per inquinare le prove. Per i pm l’architetto avrebbe venduto la sua funzione di pubblico ufficiale non solo in cambio di tangenti prese in contanti «dal “nero” dell’albergo di Romeo a Napoli», ma anche con promesse di ulteriori benefici. In altre intercettazioni, in effetti, i due parlano di altri business, di «un bonus inglese», che secondo l’accusa nient’altro sarebbe che la promessa fatta da Romeo a Gasparri di diventare capo di una struttura allocata in un hotel in Inghilterra di proprietà dell’imprenditore «funzionale per gestire la gare d’appalto». Il metodo criminale che per i pm sarebbe confermato da altre imputazioni portate avanti dalla procura di Napoli, che in un altro processo sta tentanto di inchiodare Romeo per diversi presunti episodi corruttivi, come favori e regali ad alcuni ex dirigenti e dipendenti del Comune di Napoli, e a una funzionaria della Soprintendenza di Roma. «In questo caso la prova del fatto che io sia un corruttore è una pianta grassa, un myrtillocactus del valore di una quarantina di euro. Se fossi un giudice sereno direi: “Ma mi faccia il piacere”» ha ironizzato Romeo qualche giorno fa in una nota. «Io per l’opinione pubblica sono divisivo al 50 per cento. Diavolo o vittima. Buono o cattivo. Per me si tifa contro o a favore. Difficile che qualcuno si applichi a vedere i fatti. Spero però che lo faranno i giudici di merito».
Consip e la sindrome del ricorso. L'ente al centro di inchieste famose detiene il record dei contenziosi nelle gare bandite. Ecco cause e conseguenze. Fabio Amendolara l'11 luglio 2019 su Panorama. La sindrome da ricorso si scatena ogni qual volta un ufficiale giudiziario romano si presenta nella sede legale di Consip, la centrale unica degli appalti pubblici, per la notifica di un procedimento giudiziario. La cadenza? Un giorno sì e l’altro pure. Tar, Consiglio di Stato e Tribunali civili sono zeppi di procedimenti contro la Concessionaria dei servizi informativi pubblici. Il risultato è questo: i grandi appalti sono impaludati. Ogni lotto un ricorso. Tanto che la Sezione di controllo della Corte dei conti nell’ultima relazione depositata (maggio 2019) ha rilevato che «i grandi appalti Consip giungono a far registrare un tasso di impugnazione che sfiora il 30 per cento, a fronte del 2,7 per cento nazionale». Ossia: la media dei ricorsi per gli appalti banditi dagli altri enti non arriva al 3 per cento. Le contestazioni contro Consip superano il dato di dieci volte. La statistica analizzata è ufficiale ma non è completa, perché riguarda solo i dati che possiede l’Ufficio studi, massimario e formazione del Consiglio di Stato. Mancano all’appello i ricorsi cautelari d’urgenza presentati in sede civile. Un esempio da record: la sola gara numero 1.460, relativa a servizi di pulizia del Servizio sanitario nazionale, dell’importo di un miliardo e mezzo di euro, è stata interessata da 13 ricorsi. E i tempi, quando c’è la giustizia di mezzo, si fanno lunghi. I ricorsi totali ancora pendenti sono 210. Dal 2012 a oggi, su un totale di 806 ricorsi notificati, ne sono stati definiti 596, di cui 370 di primo grado e 226 in quelli successivi. Nel solo primo semestre del 2019, sono arrivati 63 ricorsi freschi freschi. Tre riguardano la pulizia delle caserme, tre la pulizia dei musei, due il Polo museale della Lombardia e il Cenacolo vinciano, uno il Parco archeologico di Paestum. Quelli pendenti, invece, al primo trimestre 2019, sono 51. Alcuni procedimenti sono tortuosi e complicati. Quello per la pulizia delle caserme militari, per esempio. In considerazione delle clausole contrattuali che consentivano di valutare l’intesa anticoncorrenziale accertata, il 16 giugno 2017 la Consip si determinò a escludere i due operatori che l’avevano vinta per violazione dei regolamenti. E questo è un tema su cui Consip è molto rigida, anche perché tra gli obiettivi della Centrale appaltante c’è quello di riqualificare la spesa pubblica e renderla più efficiente e trasparente, fornendo alle amministrazioni strumenti per gestire i propri acquisti, stimolando proprio le imprese al confronto competitivo. Come in questo caso, però, non tutto è filato liscio. Il contenzioso pende ancora davanti ai giudici amministrativi, nonostante il Tar del Lazio abbia già dato ragione a Consip. Le società hanno impugnato la sentenza al Consiglio di Stato, richiedendo le sospensioni. E il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza di primo grado. Effetto generato: Consip ha dovuto riammettere alla gara le due società escluse. Situazione risolta? Manco a dirlo. Tutto congelato fino alla decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea che dovrà pronunciarsi sulla questione dell’illecito anticoncorrenziale. Che, di fatto, è il tema principale dei giudizi in cui inciampa la Centrale unica degli appalti. Nell’attesa, e per prevenire ulteriori contenziosi, considerata la complessità della questione, Consip ha richiesto al Consiglio di Stato dei chiarimenti, delle linee guida per indirizzare in modo corretto le attività legate all’aggiudicazione della gara e per evitare altri contenziosi. Le controversie più frequenti ma anche più spinose riguardano soprattutto i servizi di pulizia e il cosiddetto facility management, termine entrato nello slang dell’«appaltologia» italiana e che indica la gestione dei servizi integrati: a partire dalla sanificazione all’energia elettrica, fino ad arrivare alla manutenzione e alla vigilanza. La corona da re dei contenziosi se la sono guadagnata sul campo due cartelli: al primo posto c’è il colosso delle cooperative rosse Manutencoop che nel 2017 ha avviato ben 21 contenziosi verso la Consip e nel 2018 (ultimo dato disponibile), insieme alla Rekeep, ne ha presentati 39; seconda sul podio è la Romeo gestioni (22 ricorsi in sei anni) e nel 2018 si è arrivati a quota 34. La Romeo gestioni è famosa anche per l’indagine penale che ha coinvolto il vecchio management e il ministro Luca Lotti, accusato di favoreggiamento perché avrebbe rivelato all’allora amministratore delegato della società di appalti pubblici Luigi Marroni l’esistenza dell’inchiesta coordinata dal pm anglonapoletano Henry John Woodcock. La questione contenziosi, comunque, è una brutta gatta da pelare. Si traduce in una crescita di costi per lo Stato, per colpa dei ritardi e per le proroghe tecniche. I servizi, infatti, non si fermano. Continuano in regime di proroga all’impresa che già deteneva l’appalto. Molti dei ricorsi, poi, si rivelano pretestuosi e a spesso infondati. Il totale dei giudizi favorevoli a Consip è pari a circa il 77 per cento. Bene che vada, però, le questioni si chiudono con semplici rallentamenti nelle procedure e con oneri economici per l’ente. Fino a qualche tempo fa l’ufficio legale si avvaleva di consulenze di primo piano e, ovviamente, le parcelle erano salate. Tanto che è arrivato più di qualche rimbrotto dalla Corte dei conti. Soprattutto per gli affidamenti «in via diretta e continuativa». La cerchia era ristretta: e i fascicoli finivano sempre agli stessi quattro avvocati (tra i quali spicca il nome di Alberto Bianchi, famosissimo avvocato del renzismo, fondatore della Fondazione Open e difensore del rottamatore Matteo Renzi) pur avendo a disposizione una trentina di legali interni con idoneo titolo di abilitazione. Il danno erariale, come riporta in un servizio su Il Tempo Valeria Di Corrado, stimato dai giudici contabili era coincidente con l’ammontare degli incarichi conferiti: 4,3 milioni di euro. Una cifra decisamente non irrisoria. Per correre ai ripari Consip si è rivolta all’Avvocatura dello Stato e, ad aprile, è stato siglato un protocollo che porta la firma dell’amministratore delegato Cristiano Cannarsa e dell’avvocato generale dello Stato Massimo Massella Ducci Teri. Gli scatoloni con i fascicoli sono già in fase di trasloco.
Più che un “caso Consip” esiste un “caso indagine Consip”. Il lavoro della procura ha portato ad alcune richieste di archiviazione, in particolare per il padre di Matteo Renzi, e a una serie di rinvii a giudizio. Che però non riguardano la corruzione. Massimo Bordin il 19 Febbraio 2019 su Il Foglio. Su una cosa, a proposito della vicenda dell’inchiesta Consip, al Fatto Quotidiano hanno ragione. Questa storia delle querele incrociate causate dal recente libro di Matteo Renzi ha la consistenza della panna montata. Solo per avere un quadro preciso di chi annuncia di querelare chi, viene il mal di testa. Se tutti poi dovessero sul serio tenere fede ai loro bellicosi propositi giudiziari ne uscirebbe un guazzabuglio inestricabile che avrebbe l’unico effetto di non chiarire nulla. Sin qui si può convenire. C’è però un dato incontrovertibile che riguarda l’indagine della procura romana che comprensibilmente al Fatto non apprezzano. Il lavoro della procura ha portato ad alcune richieste di archiviazione, in particolare per il padre di Matteo Renzi, e a una serie di rinvii a giudizio che però mostrano come più che un “caso Consip” esista, secondo i pm, un “caso indagine Consip”. I rinvii a giudizio riguardano non la corruzione ma una fuga di notizie sull’inchiesta oppure reati gravi come il falso e il depistaggio imputati al maggiore Scafarto. Resta accusato Carlo Russo, incontestabilmente amico di Tiziano, ma l’imputazione di millantato credito mostra che i pm pensano al massimo che Tiziano Renzi da certi amici avrebbe fatto meglio a guardarsi. Resta infine una mail di Scafarto in cui l’allora capitano invita un ex collega del Noe passato ai servizi segreti a informare “il capo” dello stato delle indagini su Consip. Il Fatto ha trattato il capitano Ultimo, non può che essere lui “il capo”, come un pasticcione o un poco di buono per la vicenda del covo di Riina ma in questo caso lo difende. Qui non si vuol fare lo stesso percorso al contrario ma un chiarimento pare necessario.
A che punto è il caso CONSIP. Il Post martedì 30 ottobre 2019. La procura di Roma ha concluso l'indagine sulla vicenda che riguardava il padre di Matteo Renzi, e che nel tempo è diventata un'inchiesta su come si fanno le inchieste in Italia. Dopo più di due anni la procura di Roma ha concluso le indagini sul cosiddetto “caso CONSIP“, la complicata vicenda giudiziaria partita da una sospetta di fuga di notizie e trasformatasi in un’inchiesta sugli ambigui rapporti tra stampa, politica, magistratura e forze dell’ordine. Le indagini si sono concluse con la richiesta di archiviazione per quello che ne era diventato il principale protagonista, Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del Consiglio. Secondo i magistrati non ci sono sufficienti prove che Tiziano Renzi abbia utilizzato le sue relazioni e le sue parentele per ottenere favori che non gli erano dovuti, nemmeno per andare a processo. Per altri importanti protagonisti dell’inchiesta la procura chiederà invece il rinvio a giudizio: i generali dei carabinieri Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, accusati di aver rivelato notizie riservate su indagini in corso; Luca Lotti, ex segretario alla presidenza del Consiglio, accusato di aver rivelato quelle stesse notizie riservate alla persona oggetto delle indagini (cioè Luigi Marroni, l’ex ad di CONSIP, la società che si occupa di appalti per la pubblica amministrazione che dà il nome all’inchiesta). La procura chiederà il rinvio a giudizio anche per diversi altri ex manager di CONSIP e altri dirigenti pubblici, tutti accusati di aver avuto un ruolo nella fuga di notizie. Altre richieste di rinvio a giudizio riguarderanno probabilmente altri due carabinieri: il maggiore Gianpaolo Scafarto e il suo diretto superiore, il colonnello Alessandro Sessa, accusati di aver falsificato verbali e intercettazioni per cercare di incastrare Tiziano Renzi e alzare così il profilo politico dell’indagine. I due sono anche accusati di aver rivelato ai loro superiori dettagli sulle indagini sui quali erano invece tenuti alla riservatezza. All’epoca delle indagini Scafarto e Sessa erano due uomini di fiducia di Henry John Woodcock, il primo magistrato a occuparsi del caso, sospettato e poi prosciolto per alcune fughe di notizie ricevute dai giornali e ora sotto processo da parte del CSM per il trattamento brutale a cui avrebbe sottoposto uno degli indagati. L’inchiesta CONSIP iniziò nell’estate del 2016, quando Woodcock cominciò a sospettare che l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo avesse corrotto dei funzionari di CONSIP per ottenere alcuni appalti nella sanità campana. La procura di Napoli piazzò alcune microspie negli uffici di Luigi Marroni, amministratore delegato di CONSIP, ma qualcuno lo avvertì dell’indagine e Marroni fece “bonificare” i suoi uffici. Quando fu interrogato dai magistrati, Marroni fornì l’elenco di chi lo aveva avvertito delle indagini: i generali Del Sette e Saltalamacchia (il primo comandante in capo dei Carabinieri, proveniente dalla Toscana, il secondo comandante dei carabinieri toscani), il presidente di CONSIP Luigi Ferrara, il presidente della società idrica toscana Filippo Vannoni e infine l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. Alla fine del 2016 l’inchiesta venne divisa per ragioni di competenza territoriale: la parte che riguardava CONSIP e Marroni passò alla procura di Roma, mentre a Woodcock rimase la parte che riguardava l’imprenditore Romeo. Proprio in quei giorni ci fu una fuga di notizie a favore del giornalista del Fatto Quotidiano Marco Lillo. In una serie di articoli a fine dicembre, Lillo rivelò per primo l’esistenza dell’indagine. Lillo sarà al centro di numerose altre fughe di notizie dell’indagine i cui autori non sono mai stati identificati. Per esempio fu sempre Lillo a pubblicare il testo di un’intercettazione telefonica tra Matteo Renzi e suo padre realizzata per ordine di Woodcock nel marzo del 2017 (Woodcock continuò a intercettare Renzi nonostante il filone che lo riguardava fosse stato spostato a Roma oltre tre mesi prima). Quando nel dicembre 2016 Lillo pubblicò i suoi articoli fece un accenno anche a Tiziano Renzi, che però all’epoca non era ancora indagato. Il coinvolgimento del padre dell’allora presidente del Consiglio è secondario rispetto alla vicenda principale, cioè la fuga di notizie sulle microspie nell’ufficio dell’amministratore di CONSIP Luigi Marroni. Secondo Woodcock, Renzi e un suo “amico di famiglia” (l’imprenditore Carlo Russo) avrebbero promesso a Romeo (l’imprenditore che avrebbe corrotto funzionari CONSIP per ottenere appalti nella sanità campana: quello da cui è partito tutto) di usare la loro influenza su Marroni per facilitare i suoi affari in cambio di denaro. Quando però la procura di Roma ricevette le carte dell’inchiesta scoprì una serie di errori e irregolarità che riguardavano proprio la posizione di Renzi, e che erano stati compiuti dai carabinieri che avevano svolto le indagini per conto di Woodcock. Alcuni verbali di intercettazioni erano stati alterati, mentre altri episodi erano stati nascosti o esagerati, all’apparenza con lo scopo di incastrare Tiziano Renzi e alzare così il profilo politico dell’indagine (che fino a quel momento era un’inchiesta su un importante imprenditore napoletano, ma di interesse soprattutto locale). Negli anni l’inchiesta – partita come un caso di corruzione – si è profondamente trasformata ed è finita con il diventare un’inchiesta sull’inchiesta stessa. Il filone principale oggi riguarda infatti un reato “generato” dalla stessa inchiesta, ossia la fuga di notizie sulle microspie installate nell’ufficio di Marroni. Questa fuga di notizie proveniva da chi stava realizzando le indagini ed è poi arrivata agli ambienti politico-amministrativi toscani, in particolare quelli vicini al centrosinistra di Matteo Renzi. Secondo i magistrati qualcuno fece arrivare informazioni sull’indagine CONSIP ai capi dei carabinieri toscani, che a loro volta ne informarono il sottosegretario Lotti e un buon numero di alti dirigenti pubblici toscani. Il filone secondario su Tiziano Renzi e i suoi ipotetici traffici di influenze sembra invece essersi esaurito per mancanza di prove (uno degli elementi più bizzarri in mano all’accusa era un biglietto trovato in una discarica con le iniziali “TR”). Il terzo filone ancora aperto riguarda di nuovo l’inchiesta stessa più che i fatti che l’hanno prodotta, ossia i depistaggi e le fughe di notizie ai danni di Tiziano Renzi, compiute secondo i magistrati dai due carabinieri che condussero la fase più importante delle indagini.
Tutte le tappe della vicenda Consip: l'infografica. L'inchiesta si è chiusa con sette domande di rinvio a giudizio. Ecco tutte le tappe che hanno portato alla richiesta di processo. La Repubblica il 14 dicembre 2018. Per il caso Consip la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di sette persone: Luca Lotti, ex ministro dello Sport, accusato di favoreggiamento; Tullio Del Sette, ex comandante dei carabinieri, cui è contestata anche la rivelazione del segreto. E poi Emanuele Saltalamacchia, ex comandante della Legione Toscana, accusato di favoreggiamento. Giampaolo Scafarto, l'ufficiale che guidava le indagini, accusato di reati che vanno dal falso alla rivelazione del segreto d'ufficio. Alessandro Sessa, colonnello e numero due del Noe, cui è contestato il depistaggio; Filippo Vannoni, ex consulente di Palazzo Chigi: nei suoi confronti si procede per favoreggiamento; Carlo Russo, faccendiere amico di Tiziano Renzi: la procura lo accusa di millantato credito.La timeline
Novembre 2016. La Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Napoli indaga su presunti appalti truccati all’ospedale Cardarelli. Nel mirino la società di Alfredo Romeo: alcuni dipendenti sono sospettati di avere dei contatti con la camorra.
Dicembre 2016. L’inchiesta si allarga a Roma e coinvolge la Consip, centrale unica per i servizi della pubblica amministrazione. In particolare si indaga sulla gara per il “Facility management”, del valore di 2,7 miliardi di euro, di cui Romeo si è aggiudicato tre lotti (valore 600 milioni), per la gestione dei palazzi delle istituzioni a Roma.
23 dicembre 2016. Trapela la notizia che il ministro allo Sport Luca Lotti (già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Renzi) è indagato per rivelazione di segreto istruttorio. Indagato anche il comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. Secondo l’accusa, i due hanno avvisato i vertici Consip dell’esistenza di un’indagine e della presenza di microspie.
27 dicembre 2016. Luca Lotti viene interrogato a Roma dal pubblico ministero Mario Palazzi e respinge le accuse: “Non sapevo dell’esistenza di un’inchiesta, quindi non avrei potuto rivelare a qualcuno circostanze dell’indagine in corso”.
16 febbraio 2017. Tiziano Renzi, padre di Matteo, riceve un avviso di garanzia dalla procura di Roma per “traffico di influenze illecite”: secondo l’ipotesi di accusa, insieme all’imprenditore toscano Carlo Russo, si sarebbe dato da fare per facilitare Alfredo Romeo e fargli ottenere gli appalti Consip.
1 marzo 2017. Arrestato a Napoli Alfredo Romeo, con l’accusa di corruzione nei confronti di Marco Gasparri, dirigente Consip (a sua volta indagato): secondo l’accusa, Romeo gli avrebbe versato somme per 100 mila euro, a partire dal 2012.
03 marzo 2017. Tiziano Renzi interrogato per 4 ore a Roma dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. “Quello di cui stiamo parlando – dice il suo legale Federico Barattini – è un classico caso di abuso di cognome. Qualcuno ha abusato del nome di Tiziano Renzi. Lui non è mai stato in Consip e non ha mai preso un soldo, non ha mai avuto rapporti con Alfredo Romeo. Non lo ha mai visto”.
03 marzo 2017. Tra le carte dell’inchiesta spunta “Mister X”: un uomo che Tiziano Renzi ha incontrato nel parcheggio dell’aeroporto di Fiumicino il 7 dicembre. Ma lo stesso Renzi smonta il caso, sostenendo che si tratta di una persona con la quale ha rapporti di lavoro e ne fa il nome agli inquirenti.
06 marzo 2017. Mister X esce allo scoperto: si tratta di Alessandro Comparetto, direttore generale della società di poste private Fulmine Group: “Sono stato io a incontrare Tiziano Renzi a Fiumicino”. L’uomo è estraneo all’inchiesta.
06 marzo 2017. Alfredo Romeo, interrogato dal giudice delle indagini preliminari Gaspare Sturzo nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto dopo l’arresto, non risponde alle domande, avvalendosi della facoltà concessa agli indagati. I suoi legali depositano una memoria: “L’immagine di Romeo come grande corruttore non è corretta”.
15 marzo 2017. I pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano hanno disposto perquisizioni nell'ufficio del direttore generale per la gestione e manutenzione degli edifici giudiziari napoletani, Emanuele Caldarera, e presso gli uffici della Romeo Gestioni al Centro direzionale e presso il Palazzo di Giustizia.
29 marzo 2017. Consip, Emiliano ascoltato in procura a Roma per gli sms ricevuti da Lotti e Tiziano Renzi.
10 aprile 2017. Il capitano del Noe, Giampaolo Scafarto, è indagato dalla procura di Roma per falso. Autore di un'informativa, avrebbe accreditato erroneamente la tesi della ingerenza dei servizi segreti nel corso degli accertamenti e avrebbe poi falsamente attribuito ad Alfredo Romeo e non al suo collaboratore Italo Bocchino la frase intercettata: "...Renzi l'ultima volta che l'ho incontrato". Interrogato si è avvalso della facoltà di non rispondere.
16 maggio 2017. Le intercettazioni delle telefonate tra l'ex premier e il padre alla vigilia dell'interrogatorio sull'inchiesta Consip pubblicate dal Fatto, contenuta nel nuovo libro di Marco Lillo Di padre in figlio. Tiziano Renzi nega la cena con Alfredo Romeo in un ristorante "ma potrei averlo incontrato al bar".
27 giugno 2017. La procura di Roma iscrive per rivelazione del segreto il pm Henry John Woodcock, la sua compagna Federica Sciarelli (volto di “Chi l'ha visto") e il giornalista de Il Fatto Marco Lillo.
16 settembre 2017. A Woodcock i colleghi romani contestano anche il falso per le informative "sbagliate" del Noe.
2 ottobre 2017. Viene chiesta l’archiviazione per Woodcock e Sciarelli (il gip la dispone il 17 gennaio 2018).
29 ottobre 2017. I pm notificano la conclusione indagini a 7 indagati. Per gli altri, tra i quali Tiziano Renzi e Italo Bocchino, viene chiesta l'archiviazione.
· L'astensione non esiste. E se li ricusi, ti denunciano.
Al Riesame ritrova la giudice che gli aveva negato i domiciliari. Un detenuto a rischio ictus, ha querelato il magistrato che ha presenziato all’udienza, nonostante le rimostranze della difesa. Damiano Aliprandi il 4 Maggio 2019 su Il Dubbio. Un detenuto, a rischio ictus, che si è visto rigettare la richiesta di domiciliari, denuncia un magistrato. L’uomo, difeso dal suo legale, l’avvocato Giuseppe Lipera, è imputato nell’ambito di un procedimento penale pendente davanti al tribunale di Siracusa. La denuncia è per abuso d’ufficio ed è destinata ad un magistrato oggi in carica al Tribunale delle Libertà di Catania. Il querelante è un detenuto in custodia cautelare. La vicenda oggetto della querela è quella di un magistrato che da giudicante, rigetta un’istanza in materia cautelare, e, passata nelle more all’ufficio del Tribunale della Libertà di Catania, viene dal ricorrente ritrovata in aula seduta accanto al Collegio del Tribunale del Riesame, chiamato a decidere sul rinvio della Cassazione che aveva rispedito al mittente proprio il suo rigetto. Era il 5 ottobre quando Francesco Calì chiedeva di sostituire la custodia in carcere con gli arresti domiciliari, per gravi problemi di salute dovuti ad una malformazione artero- venosa in regione cerebrale che, rendendolo a rischio di ictus, giustificava la sua incompatibilità con il carcere. L’istanza, presentata al Tribunale Collegiale, veniva rigettata dalla Presidente, Livia Rollo, che riteneva compatibili le condizioni di salute con il carcere, cosi come il rigetto veniva confermato dal Tribunale del Riesame di Catania. Di diverso avviso, invece, la Corte di Cassazione Quarta Sezione, che con sentenza il successivo 30 gennaio ha annullato il rigetto, rinviando per una nuova decisione al Tribunale del Riesame. «L’inadeguatezza delle cure fino ad allora espletate in carcere, anche considerata la eccepita tardività degli accertamenti sanitari programmati e l’esigenza di ulteriori esami clinici descritti nella consulenza medica prodotta dall’imputato». Questo il motivo dell’annullamento del provvedimento del Tribunale delle Libertà di Catania, che non aveva tenuto conto «del mancato espletamento o del ritardo degli esami clinici urgenti e dell’incidenza di tali fattori sulla compatibilità delle condizioni di salute del Calì con la detenzione carceraria (…)». In effetti, la Cassazione indicava la carenza di un «approfondimento anche sulla questione relativa alla mancata nomina di perito d’ufficio richiesta dall’imputato con formale ed espressa istanza». È proprio in occasione dell’udienza di rinvio al Tribunale del Riesame di Catania che, in aula nel collegio, Francesco Calì ritrova anche Livia Rollo, il giudice che aveva rigettato la sua prima richiesta di arresti domiciliari, quando era assegnata al Collegio del suo processo avanti il Tribunale di Siracusa. In effetti pare che il difensore abbia richiesto che il magistrato venisse allontanata dall’aula, in quanto estensore del provvedimento originario oggetto dell’impugnazione, ma è stata sufficiente una rassicurazione che la stessa non avrebbe partecipato alla deliberazione. Le sorprese per la difesa però non sono terminate, perché in corso di udienza si fece cenno a una perizia che il giorno prima era pervenuta, senza alcuna richiesta da parte del Collegio del Riesame, con pec della cancelleria del Tribunale di Siracusa, quello stesso a cui Livia Rollo era assegnata prima di passare al Tribunale del Riesame di Catania. È per queste ragioni che il Calì ha proposto personalmente la sua querela, depositandola alla Procura di Messina: tra gli altri documenti ha allegato la pec della cancelleria dibattimentale siracusana, che trasmette la perizia «all’attenzione della dottoressa Livia Rollo» sull’indirizzo pec del Tribunale del Riesame.
Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.
Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato. Da qui la sentenza di l’assoluzione emessa il 19 aprile 2016. Da qui la sentenza di l’assoluzione emessa il 19 aprile 2016 sulla querela del dr. Alessio Coccioli Sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto, prima, e di Lecce, poi.
Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.
Per dire: una norma scomoda inapplicata.
Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.
Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.
L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.
Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.
Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?
E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande. Procedimento 907/2011 RGNR e sentenza n. 530/2014.
· Intercettazioni. L’invasione dei Trojan, i file “malevoli” amati dalle procure.
Intercettazioni, rischi e falle: ecco le 148 ditte che le fanno. Pubblicato lunedì, 15 luglio 2019 da Milena Gabanelli e Mario Gerevini su Corriere.it. Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese che gli uffici giudiziari mettono in conto allo Stato: 169 milioni su 193 nel 2017.È possibile che una qualsiasi piccola società che gestisce risparmio, o polizze, debba strutturarsi con svariati livelli di controllo ed essere soggetta a una vigilanza esterna (Bankitalia, Ivass, Consob), mentre chi maneggia per conto delle procure dati sensibilissimi può permettersi la governance di una ditta artigiana? Eppure la posta in gioco è altissima. Ce ne siamo accorti qualche settimana fa quando è scoppiato il caso Exodus, uno spyware per Android in grado di impossessarsi e controllare da remoto gli smartphone.Casi simili, seppure di minore portata, erano emersi anche in passato. Exodus ha alzato di molto il livello d’allerta. La storia inizia con alcune società di intercettazione che «affittano» questo trojan. Fra queste la Stm di Cosenza, che aveva un contratto con la procura di Benevento. Stm è una piccola azienda con poca storia (nata nel 2016) e fatturato, posseduta al 100% da Marisa Aquino, moglie di un poliziotto della questura di Cosenza, Vito Tignanelli. Anche i Servizi segreti italiani hanno comprato Exodus proprio dalla Stm. Che garanzia può dare un’azienda così per essere fornitore delle procure? I contorni della vicenda non sono ancora chiari. Dal «dossieraggio» alla vendita di informazioni riservate, fino all’intromissione di 007 stranieri. C’è un’indagine avviata dalla procura di Napoli.Nei rapporti con le società di intercettazione non c’è una linea guida, ogni procura si regola come meglio crede: formando short list, affidandosi alle scelte della polizia giudiziaria, e risparmiando il più possibile sul budget, sempre più risicato. A Torino, però, Exodus, proposto da un’altra ditta, è stato bocciato senza appello per il fiuto e i dubbi sollevati da un fidatissimo funzionario appassionato di informatica: la ditta non era proprietaria del software; non dava garanzie totali di riservatezza nel riversamento dei dati al server della procura; non c’era la certezza che fosse «mirato» ai soggetti sotto indagine. «L’unica soluzione – dice Francesco Greco, capo della procura di Milano – è che il ministero assuma la guida». «Occorre un quadro di norme, controlli e verifiche sull’attività di queste società» sostiene Giovanni Melillo procuratore capo a Napoli. Intanto, secondo Patrizia Caputo, procuratore aggiunto a Torino, «diffidare di quelle società che si improvvisano nel campo e ti abbagliano con un prodotto eccezionale». Nel 2017 Milano fece un bando al quale risposero 15 società. Sette furono escluse per mancanza dei requisiti: compagine societaria opaca, oppure dati riservati deviati fuori dagli ambienti stabiliti per legge, contenzioso con il Fisco, giro d’affari nullo. Qualcuno fece ricorso e vinse al Tar, rientrando nella griglia e allungando di un anno i tempi. Tant’è che oggi il procuratore aggiunto di Milano, Riccardo Targetti, ammette: «Scade nel 2020 e non lo rifaremo». Però invita il ministero a fare un bando centralizzato e a stabilire anche «un prezzario nazionale». Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano (le intercettazioni sono indispensabili nelle indagini di mafia) ritiene che «bisogna avere un albo o un’authority di controllo». In sostanza da nord a sud i capi delle procure, da 20 anni, chiedono al ministero della Giustizia di fornire un elenco di società selezionate e certificate. Meglio ancora società in possesso di «nulla osta sicurezza», ovvero abilitate al trattamento di informazioni, documenti o materiali classificati dal grado di riservatissimo fino a segretissimo.Dice che sul prezzario «è stato costituito un apposito tavolo di lavoro». E poi che in vista del processo penale telematico il ministero «sta operando presso le sedi della procura della Repubblica per l’installazione di server ministeriali la cui finalità è anche quella di innalzare ulteriormente i livelli di sicurezza dei sistemi informativi ministeriali». Risposta burocratica a un allarme che suona. Segui il denaro… e lo smartphone, direbbe oggi Giovanni Falcone.
L’invasione dei Trojan, i file “malevoli” amati dalle procure. L’ultima “vittima” è stata l’ex governatrice umbra. Si installa in tutti i dispositivi mobili trasformandoli in microspie portatili registrano audio, messaggi e fotografie dell’indagato che non ha più nessun segreto, scrive Giulia Merlo il 23 Aprile 2019 su Il Dubbio. L’ultima in ordine di tempo a incappare nel loro utilizzo a fine giudiziari è stata l’ormai ex presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini. L’inchiesta sulla sanità in regione e sui presunti scambi di favori per le nomine di persone amiche si regge principalmente su intercettazioni: telefoniche, ambientali e attraverso il cosiddetti Trojan horse. Questo strumento di indagine, che in gergo tecnico si definisce malware – un file “malevolo” che si installa in tutti i dispositivi mobili e che li trasforma in microspie portatili addosso all’indagato, di cui registrano audio, messaggi e fotografie. Si tratta di un file apparentemente innocuo, che finisce nella memoria del dispositivo mobile attraverso allegati mail o app gratuite, ma che funzione esattamente come l’oggetto di cui porta il nome: il cavallo di Troia. Una volta installato sul cellulare o sul pc, gli inquirenti hanno pieno accesso a tutti i dati contenuti e a tutto ciò che avviene, dalle chiamate ai messaggi, fino all’utilizzo della fotocamera. Nel caso della Marini, il Trojan era installato nel telefono del dirigente regionale Emilio Duca ( oggi ai domiciliari) e ha prodotto diverse intercettazioni, diventando l’orecchio segreto della Procura di Perugia e della Guardia di Finanza nelle stanze della Asl e della Regione. Proprio per l’estrema invasività nella sfera della privacy dell’indagato, l’utilizzo del Trojan come strumento di indagine è stato più volte modificato da parte del legislatore, riducendone – o allargandone – la fattispecie di utilizzo. La riforma Orlando del 2017 permetteva l’utilizzo del malware limitatamente ai reati di mafia, terrorismo e criminalità organizzata. Questa previsione aveva reso inutilizzabili le intercettazioni attraverso Trojan di Alfredo Romeo, al centro del caso Consip: la Cassazione le aveva infatti ritenute disposte “senza una reale notizia di reato perchè Romeo non era interessato dalle indagini di criminalità organizzata che si stavano compiendo”. Inoltre, la riforma Orlando aveva introdotto anche proceduralmente una serie di paletti. Innanzitutto, il decreto autorizzativo del giudice deve indicare le ragioni per le quali tale specifica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini; l’attivazione del microfono deve avvenire solo in conseguenza di apposito comando inviato da remoto e non con il solo inserimento del captatore informatico, nel rispetto dei limiti stabiliti nel decreto autorizzativo del giudice; l’attivazione del dispositivo è disposta nel domicilio soltanto in caso di svolgimento in corso di attività criminosa, ( questo punto in particolare aveva provocato le reazioni della magistratura, che lamentava la complessità di tale requisito) e altri dettagli previsti dalla delega. Con l’approvazione della legge Spazzacorrotti da parte dell’attuale governo Conte, invece, l’impiego del Trojan è stato esteso anche alle indagini per reati contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore al massimo a 5 anni. Proprio per questa ragione, la guardia di finanza ha potuto per la prima volta piazzare questa “cimice” ipertecnologica nel cellulare di un funzionario regionale. Inoltre, la Spazzacorrotti ha abrogato anche alcuni dei paletti fissati all’utilizzo: in particolare, ha abrogato la norma che impediva l’uso dei Trojan “quando non vi è motivo di ritenere che ivi sia stia svolgendo l’attività criminosa”. Dunque – almeno potenzialmente – ne ha allargato l’utilizzo anche a tutte le fasi temporalmente precedenti, non fissando più un requisito almeno indiziario per “l’accensione” del Trojan. Non solo, anche dal punto di vista della motivazione all’utilizzo, la norma voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede non rende più necessaria, nel decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico, l’indicazione da parte del Pm delle ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini. Lo strumento si presta non solo ad usi di giustizia, ma anche ad abusi. Il caso recente più noto di installazione all’insaputa di privati cittadini di un Trojan sui loro dispositivi mobili è stato lo scandalo “Exodus”, risalente allo scorso marzo: secondo le rivelazioni fatte da Security Wthout Borders – organizzazione no- profit attiva sui diritti digitali – in Italia è stato diffuso su ampia scala un trojan che si installava sui cellulari attraverso gli Store di applicazioni. Il virus, creato da una casa di sviluppo calabrese e in dotazione alle forze dell’ordine, avrebbe raccolto per oltre due anni i dati personali di circa un migliaio di persone. Difficile valutare se si sia trattato di un errore da parte della casa di produzione che detiene i server oppure di un tentativo di “valutare” il grado di sicurezza delle piattaforme come Google Play, da cui l’app Exodus è stata scaricata da cittadini ignari di cosa stava finendo nella memoria del loro cellulare. Attualmente le piattaforme web hanno eliminato la app dalla possibilità di venire scaricata e di “infettare” i terminali e la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta a carico dell’azienda E- Surv. Tuttavia, il fenomeno e la diffusione di questo tipo di prassi solleva in tutta la sua complessità la questione del diritto alla privacy e della sicurezza informatica.
· Le Fughe di Notizie.
Milano, gli “atti” dei pm prima ai cronisti poi ai difensori…Giovanni M. Jacobazzi il 2 Novembre 2019 su Il Dubbio. Alla conferenza stampa della chiusura delle indagini sul disastro ferroviario di Pioltello è stato presentato un video, montato dagli investigatori e poi distribuito ai presenti. IL procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha assicurato che non sarà «fonte di prova». Verrebbe quasi da dire che la Procura di Milano ha “istituzionalizzato”, questa settimana, il processo mediatico. Una gestione “in house” della singolare attitudine, tutta italiana, a creare percorsi extra processuali lontani dalle aule del dibattimento. L’occasione è stata offerta dalla chiusura delle indagini sul disastro ferroviario di Pioltello, accaduto il 25 gennaio del 2018, in cui morirono tre persone e ne rimasero ferite quarantasei.
La notifica dell’avviso ex articolo 415 bis ai dodici indagati, due manager e sette fra dipendenti e tecnici di Rfi ( Rete ferroviaria italiana), oltre ai vertici dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie, è stata infatti accompagnata da una conferenza stampa organizzata dai pm milanesi titolari del fascicolo. Durante l’incontro con i cronisti, in particolare, è stato presentato un video, montato dagli investigatori e poi distribuito ai presenti, in cui venivano dettagliatamente ricostruite le cause del deragliamento del treno Milano- Cremona. Il filmato, girato con le più moderne tecniche 3D, non lasciava alcuno spazio a dubbi sulle effettive responsabilità dell’accaduto. «È stato fatto un vero processo con attribuzione di responsabilità», ha dichiarato Giovanni Briola, uno degli avvocati presenti alla conferenza, assieme a Matteo Picotti e Tiziana Bellani, tutti della Camera penale milanese, protestando contro questa “spettacolarizzazione” voluta dalla Procura. «In alcuni punti di questo video – ha poi aggiunto Briola – c’era scritto "consulenza tecnica", perciò in parte è un atto processuale». Immediata la replica del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, titolare del fascicolo, che ha assicurato che il video 3D non sarà «fonte di prova». La polemica, però, è proseguita. Sempre l’avvocato Briola: «Avete avvisato i difensori e messo a disposizione i faldoni con gli atti d’indagine? Siciliano ha risposto: sì, certo lo abbiamo fatto ieri pomeriggio. Ma in realtà hanno mandato il 415 bis, l’avviso di chiusura indagini, e quindi nessuno ha potuto visionare la mole di documenti che avremo a disposizione solo tra diversi giorni. In un contesto di correttezza dell’informazione, la Procura fa una conferenza stampa ma, visto che ci sono tutti gli atti depositati, deve dare il tempo anche alla difesa di vederli e preparare la propria versione» . Gli indagati sono accusati di disastro ferroviario colposo, omicidio plurimo e lesioni colpose. Sul punto va sempre ricordato che il Csm ha nel 2018 approvato delle “Linee guida per la corretta informazione giudiziaria”. Nella circolare si raccomanda ai magistrati «la tutela della presunzione di non colpevolezza, la centralità del giudicato rispetto ad altri snodi processuali ( per esempio le indagini preliminari), il rispetto del giusto processo». Concetti ribaditi dall’avvocato Andrea Del Corno, consigliere dell’Ordine di Milano: «Il dibattimento è stato da tempo svuotato. A chi interessa conoscere l’esisto di un processo quando ormai la sentenza è stata emessa sui media basandosi sul materiale fornito dall’accusa?». E a proposito dell’accusa, la Procura di Milano ha iniziato a distribuire ai giornalisti, dal mese scorso e dietro pagamento dei diritti di cancelleria, copia degli atti giudiziari “di rilievo pubblico” e non contenenti informazioni che possano danneggiare il segreto istruttorio. Primi atti divulgati, quelli di “Moscopoli”.
· Mediazione Civile, quando la Giustizia non incassa.
Mediazione Civile, quando la Giustizia non incassa. Nella maggioranza dei casi la sanzione per chi no si presenta non viene applicata. E lo Stato perde decine di milioni di euro, scrive Antonio Amorosi il 12 aprile 2019 su Panorama. Quello che succede nella giustizia civile italiana andrebbe studiato nelle accademie mondiali del diritto. Nel nostro Paese prima d’intentare una causa civile contro qualcuno è obbligatorio per legge, in moltissimi settori, passare dall’istituto giuridico della mediazione civile. Avviene per limitare il numero dei procedimenti in corso ed evitare di finire in un’aula di giustizia. Perché tra processi arretrati che si accumulano di anno in anno, in Italia sono pendenti circa 3 milioni e mezzo di cause civili. Nel 2009 erano 5,7 milioni. Con un intasamento tale della giustizia da dover attendere 2.866 giorni, quasi otto anni, per avere una sentenza definitiva. La mediazione è l’attività svolta da un soggetto terzo imparziale che cerca di trovare un accordo amichevole. Chi ritiene di aver subito il danno convoca la controparte. Se questa non si presenta e non ha un giustificato motivo scatta l’articolo 8, comma 4-bis della legge che prevede la condanna a versare un importo pari alla messa a ruolo della causa. Ma le cose vanno in modo un po’ diverso. Com’è accaduto alla signora Rossi di Roma che dopo la truffa di un assegno clonato da 12 mila euro ha chiamato due banche alla mediazione: il denaro risultava già incassato. Le banche non si presentano. Si va in giudizio, il giudice propone a sua volta una mediazione che viene accettata anche dalle banche ma che cambiano idea e danno di nuovo forfait. Si torna al processo. Risultato? La causa dura tre anni, la signora ha pagato 10 mila euro per spese legali e mediazioni mancate, «le controparti hanno preso tempo e nessun giudice le ha sanzionate», spiega l’avvocato Gabriel Frasca. «Nel 99 per cento dei casi la sanzione per chi non si presenta non viene applicata», racconta a Panorama Giovanni Giangreco Marotta, presidente e legale di Assiom, l’Associazione italiana degli organismi di mediazione, «e la mancata applicazione provoca un danno allo Stato di oltre 20 milioni di euro l’anno». Solo nel 2017 ci sono stati 166.989 casi iscritti a mediazione, com’è da obbligo, 183.977 nel 2016, 196.247 nel 2015 e 179.587 nel 2014, dicono i dati ufficiali del ministero della Giustizia. Procedimenti che diventano cause in tribunale e che si accumulano negli anni tra un’udienza e l’altra. «In Italia le cause di mediazione hanno un valore medio di 15 mila euro» dice Marotta «con 237 euro di imposte da pagare su ogni mediazione a cui non ci si è presentati. In tanti anni abbiamo visto sanzioni solo in casi eccezionali». Ma se il danno ammonta a 20 milioni di euro perché i giudici non applicano la legge? I maliziosi sostengono che i giudici non sono «stimolati» a sanzionare perché le progressioni di carriera dei magistrati dipendono dal numero di sentenze e ordinanze che questi depositano con i processi. Con la mediazione non c’è processo e quindi...Una rilevazione condotta dal ministero della Giustizia mostra che solo nel 48,2 per cento dei 166.989 casi di chi si è iscritto alla mediazione nel 2017 (80.488 contenziosi) è comparso davanti all’istituto. Il restante 48,4 per cento (86.501 casi) non si è presentato, non motivando impedimenti. Moltiplicando gli 86.501 procedimenti per 237 euro di media si ottengono più di 20 milioni di danni. Così l’avvocato Marotta e Assiom hanno presentato una «denuncia di danno erariale derivante da omessa irrogazione di sanzione» alla Corte dei conti del Lazio, al procuratore capo regionale Andrea Lupi, al ministero della Giustizia e al ministro Alfonso Bonafede che ha incontrato Assiom i primi giorni di marzo. In pratica, scrivono Marotta e Assiom «una mancata entrata per le casse dello Stato nell’anno 2017 per circa 20.500.000 euro», provocando un «danno erariale sia per la mancata acquisizione di entrate certe liquide ed esigibili di pertinenza dello Stato sia perché a causa della mancata applicazione della norma, a essere frustrata o comunque compromessa» è «la finalità deflattiva di interesse pubblico sottesa alla mediazione obbligatoria». Tradotto: oltre al danno economico, c’è pure quello di intasare di cause i tribunali. La maggioranza delle controversie in cui le parti non si presentano riguardano procedimenti del settore assicurativo, bancario e finanziario. Va ricordato che le mediazioni sono possibili in cause condominiali, per i diritti reali, le divisioni patrimoniali, le successioni ereditarie, i patti di famiglia, le locazioni, i comodati, l’affitto di aziende, il risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria, il risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, nei contratti assicurativi e in quelli bancari e finanziari. Visti i tempi della giustizia, i soggetti bancari e finanziari per evidenti capacità economiche possono «schiacciare» il cittadino. Prediligono, infatti, cause lunghe e costose, ma dall’esito incerto, alla soluzione veloce della mediazione che agevola il singolo che non può permettersi le spese di un processo infinito. A rincarare la dose, nel primo semestre di quest’anno è previsto l’avvio di un iter di riforma del processo civile che introdurrà meccanismi semplificativi per le cause. Tra le bozze del provvedimento vi sarebbe anche la previsione di depennare dall’obbligo della mediazione proprio i settori assicurativo, bancario e finanziario: insomma, qualcosa che somiglia tanto a un regalo a quelle istituzioni. La giustizia soccombe, lo Stato ci perde dei soldi e a vincere è l’arroganza dei più forti. «Abbiamo mandato l’esposto alla Corte dei conti del Lazio ma presto procederemo con le altre regioni», spiega Marotta. «Non ci aspettiamo che sanzionino i giudici», dice con rassegnata pacatezza, «bisognerebbe che qualcuno depositasse i casi specifici, ma che almeno vengano predisposte direttive in cui si dica di non tollerare più un danno simile allo Stato». E nel caso non avvenisse? «Ci rivolgeremo agli istituti europei». Già in passato l’Italia è stata sanzionata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo o si è vista aprire procedure di infrazione da parte di altri istituti sovranazionali per malagiustizia, mancata applicazione di procedure che sanzionino realmente le responsabilità civili dei magistrati, l’eccesiva durata dei processi, il sovraffollamento delle carceri. Non vorremmo che tra le infrazioni finissero anche quei giudici che con sistematicità hanno l’abitudine di non applicare la legge.
· Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze.
Troppi errori nelle perizie che decidono le sentenze. Sbagli, cantonate, fino ai casi limite di “esperti” reclutati da avvocati e criminali grazie a un sistema senza controlli. Diverse indagini portano alla luce il lato oscuro delle consulenze ai tribunali, scrive Paolo Biondani il 29 marzo 2019 su L'Espresso. Sono solo consulenti, in teoria. Ma spesso contano più dei magistrati. I giudici conoscono la legge, ma su tutte le questioni di scienza, medicina, tecnologia o ingegneria devono affidarsi a professionisti esterni. I periti. Che non sono magistrati dello Stato. Sono tecnici privati, professori, esperti veri o presunti. Però condizionano la giustizia. Le loro perizie, di fatto, anticipano e pilotano le sentenze. Perché è crollato il ponte di Genova? Stefano Cucchi è morto per un pestaggio in caserma o per problemi di salute? Cosa ha provocato il misterioso decesso di Imane Fadil, testimone d’accusa del caso Berlusconi-Ruby? L’autista del numero uno della sanità veneta provocò un omicidio stradale o investì un motociclista colpito da fatale malore un attimo prima dell’incidente? Domande di questo tipo si ripetono in tutti i processi più delicati e controversi. Ma a rispondere non sono giudici vincolati all’imparzialità. Sono liberi professionisti. Che in un processo rappresentano la legge, come arbitri indipendenti. Ma nella causa successiva possono lavorare a parcella, per interesse di parte. Degli errori dei giudici si parla e straparla molto. Anche se la macchina dei processi è organizzata proprio per ridurre le ingiustizie: ogni decisione, ogni sentenza viene ricontrollata in tre gradi di giudizio, fino alla Corte suprema di Cassazione. Le cantonate dei periti tendono invece a passare sotto silenzio. Così un consulente screditato può riciclarsi in nuovi procedimenti. E il faro dei controlli si accende solo in casi eccezionali, quando scoppia uno scandalo. Gli esempi, purtroppo, si sprecano.
Cristina Cattaneo, il medico legale che disse di Stefano Cucchi: «E' morto di fame». La scienziata stimata da molti e dal curriculum impeccabile viene chiamata da varie Procure. Oggi analizza anche il decesso di Imane Fadil. Ma fu lei a firmare la prima perizia secondo la quale sul corpo martoriato di Stefano non c’era traccia di vertebre fratturate di recente, scrive Francesco Viviano il 29 marzo 2019 su L'Espresso. La “scienziata delle ossa”. La donna che “salva” i cadaveri. Il medico legale dei “grandi misteri”. Dal caso di Yara Gambirasio alla vicenda De Pedis, dal suicidio di David Rossi al ritrovamento del cadavere di Elisa Claps, alla grande impresa civile per dare un nome a oltre 300 migranti recuperati in fondo al mare, e poi l’uccisione di Serena Mollicone, la morte di Stefano Cucchi, fino all’ultimo incarico, l’analisi delle cause del misterioso decesso di Imane Fadil, la testimone d’accusa del processo Ruby Ter a carico di Silvio Berlusconi, che si è spenta il primo marzo. Il medico dei grandi misteri è Cristina Cattaneo, 55 anni, che dirige il Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) della Statale di Milano, un lungo curriculum vitae con esperienze prestigiose e studi anche all’estero. Tra i vari incarichi, è anche consulente medico legale per il Commissario straordinario per le persone scomparse, che fa capo al Ministero dell’Interno, per la costituzione della banca dati nazionale delle persone sparite nel nulla e dei cadaveri senza identità. Per queste sue esperienze la dottoressa viene chiamata da varie procure italiane a tentare di svelare i misteri giudiziari, scoprire le cause dei decessi e quindi contribuire a trovare prove d’accusa o escludere responsabilità degli imputati. Un compito arduo, complicato, perché molto spesso le consulenze dell’accusa non combaciano con quelle dei periti delle difese, con inevitabili scontri in aula a base di perizie e controperizie contrastanti. Il suo curriculum impeccabile ne fa quindi una persona stimata ed apprezzata da molti, ma non da Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, il ragazzo morto all’ospedale Pertini di Roma, il 21 ottobre 2009, a pochi giorni dal suo arresto.
Morti resuscitati e favori in Regione: l’istituto di medicina legale di Padova nella bufera. E poi provette sparite, cocainomani assolti, possibili conflitti d'interesse. Sotto accusa l’istituto di autopsie e analisi cliniche più famoso d’Italia, scrive Andrea Tornago il 29 marzo 2019 su L'Espresso. Perizie contestate, vivi fatti passare per morti, analisi fantasma per restituire la patente a cocainomani, pacemaker spariti. L’istituto di medicina legale di Padova, punto di riferimento per le autopsie e le consulenze tecniche di procure e tribunali di mezza Italia, sta precipitando in un vortice di scandali e inchieste giudiziarie. Da più di un anno la scuola di medicina forense, fiore all’occhiello della città del Santo, è nominata con imbarazzo negli uffici della procura di Padova, che con i medici legali e i tossicologi dell’università che fu di Galileo lavora a braccetto da sempre. Il direttore della medicina legale, Massimo Montisci, è indagato dai pm veneti con l’accusa di aver aggiustato gli esami che avrebbero consentito a due imprenditori, risultati positivi alla cocaina, di riottenere la patente. Le perquisizioni sono scattate il 18 luglio scorso, pochi giorni dopo una segnalazione proveniente dall’interno dell’istituto: nel registro informatico in cui vengono inseriti i risultati dei test di controllo - cruciali per la commissione patenti, chiamata a decidere se riammettere gli automobilisti alla guida oppure no - i due imprenditori risultano puliti, ma non c’è traccia dei certificati delle loro analisi. E non si trovano neppure i campioni delle urine e dei capelli che dovrebbero essere conservati nel laboratorio. Gli inquirenti sequestrano i registri e i computer della tossicologia forense e scoprono che, per i due presunti consumatori di cocaina, è stata utilizzata una procedura speciale, in grado di sfuggire a ogni verifica e agli standard di tracciabilità. L’accusa ipotizza uno stratagemma degno di un racconto noir: quelle analisi sarebbero transitate sul canale parallelo, utilizzato per gli esami sui cadaveri, dove la semplice sigla “dec” (“deceduti”), inserita accanto ai nomi degli interessati, era in grado di tenere riservati i relativi certificati e referti medici.
False perizie per aggiustare processi: indagini e scandali in tutta Italia. Da Padova a Imperia, da Napoli a Pavia, raffica di accuse contro i luminari che pilotano sentenze e scarcerazioni. I pm antimafia: «Serve un albo nazionale dei consulenti tecnici». E la sorella di Stefano Cucchi contesta la super-esperta che indaga sulla morte di Imane Fadil, scrive il 29 marzo 2019 L'Espresso. Mafiosi scarcerati, processi manipolati, colpevoli impuniti, vittime beffate. Un'inchiesta giornalistica de L'Espresso, in edicola da domenica 31 marzo e già online su Espresso +, accende un faro su un grande problema della giustizia che viene ignorato: la qualità dei verdetti dei tecnici, che di fatto condizionano le sentenze dei giudici. Perché è crollato il ponte di Genova? Cosa ha provocato quel disastro ferroviario, quell'incendio, quell'infortunio sul lavoro? Quel boss detenuto va davvero scarcerato per una gravissima malattia? Domande di questo tipo si ripetono in tutti i processi più controversi. Ma a rispondere non sono giudici vincolati all'imparzialità. Sono i consulenti tecnici. Che non sono magistrati dello Stato. Sono professionisti privati, professori, esperti veri o presunti. Che in un processo rappresentano la legge, come arbitri indipendenti. Ma nella causa successiva possono lavorare a parcella, per interesse di parte. Degli errori dei giudici si parla e straparla molto. Le cantonate dei periti tendono invece a passare sotto silenzio. Così il consulente screditato può riciclarsi in nuovi processi. E il faro dei controlli si accende solo in casi eccezionali, quando scoppia uno scandalo.
Dal Veneto alla Liguria, dal Lazio alla Sicilia, l'inchiesta dell'Espresso documenta una lunga serie di casi giudiziari avvelenati da perizie dubbie, contestate, anomale, addirittura incriminate. Perfino l'Istituto di medicina legale di Padova, punto di riferimento per le autopsie e le analisi cliniche di mezza Italia, sta precipitando in un vortice di indagini giudiziarie. La procura di Padova ipotizza falsificazioni di perizie anti-droga per restituire la patente a imprenditori cocainomani. Dopo le prime perquisizioni l'indagine si è allargata ad altre vicende: negli atti si parla di provette sparite, pacemaker nascosti, analisi fantasma, vivi fatti passare per morti nei referti medici. Il principale indagato è il direttore dell'istituto. Mentre a Imperia la responsabile della medicina legale è stata già condannata in primo grado per falso e altri reati: avrebbe firmato 47 autopsie senza aver mai visto i cadaveri. Critiche e accuse coinvolgono anche consulenti di altissimo livello. Cristina Cattaneo è la luminare che guida il collegio di periti che dovrà chiarire le cause della morte di Imane Fadil, la testimone d'accusa del caso Berlusconi-Ruby, deceduta il primo marzo scorso. L'esperta ha moltissimi estimatori, ma fu clamorosamente ricusata, a Roma, dai familiari di Stefano Cucchi. Intervistata da L'Espresso, Ilaria Cucchi, la sorella della vittima, spiega che quella perizia proclamò che «Stefano sarebbe morto di fame, per una grave denutrizione», ipotizzando responsabilità dei medici. Oggi la Procura di Roma ipotizza invece un brutale pestaggio in una caserma dei carabinieri, coperto da una serie di depistaggi. Il problema delle perizie è drammatico soprattutto nei processi di mafia. Il pm anti-camorra Alessandro Molita ha definito «mostruosa» la vicenda che nel febbraio scorso ha portato alla condanna a dieci anni mezzo, in primo grado, di un rinomato oculista dell'ospedale privato Maugeri di Pavia. Il presunto luminare certificò un'inesistente patologia a un occhio provocando la scarcerazione di Giuseppe Setola, il boss stragista del clan dei casalesi. Prima di essere riarrestato, Setola ha potuto ordinare almeno 18 omicidi. La pm Alessandra Cerreti, dopo anni di indagini tra Milano e la Calabria su periti medici al servizio della 'ndrangheta, ha proposto alla commissione parlamentare antimafia di creare «un albo nazionale dei consulenti tecnici, da selezionare con criteri rigorosi e continue verifiche di professionalità». Anche Claudio Fava, oggi presidente dell'antimafia siciliana, conferma a L'Espresso la necessità di «riforme, come l'albo nazionale, per ridurre la discrezionalità, o l'arbitrio, di troppe perizie che vengono usate come una clava contro la verità nei processi di mafia».
· In galera? Non ci si finisce più.
Furti e rapine restano impuniti. "Pochi vanno in carcere se è il primo reato". Si riapre il dibattito dopo il caso delle sorelle bruciate: solo il 4,6 per cento dei ladri viene scoperto. "La condizionale è un diritto", scrive Fabio Tonacci il 3 giugno 2017 su La Repubblica. Un orribile caso di cronaca nera, la morte delle tre sorelle rom bruciate vive in un camper di Centocelle, torna a interrogare il sistema giudiziario italiano. Perché uno dei presunti autori della strage, il bosniaco Serif Seferovic arrestato a Torino giovedì, non più tardi del febbraio scorso era stato condannato a due anni di carcere per lo scippo della studentessa cinese Yao Zhang, conclusosi nel peggiore dei modi: la ragazza investita da un treno mentre cercava di recuperare la borsetta. Serif Seferovic si è fatto ventuno giorni di carcere, poi è tornato in libertà. Perché?
IL CASO SEFEROVIC - Sembra il fallimento di un intero sistema, che prima acciuffa il ladro e poi subito lo libera, ma in realtà lo prevede la legge per chi è incensurato. Quando strappa la borsa della studentessa cinese lungo la ferrovia romana, il 5 dicembre scorso, Seferovic ha la fedina penale linda. Non ha neanche precedenti di polizia. Dopo che si sparge la notizia della morte dì Yao Zhang, l'avvocato Gianluca Nicolini lo convince a consegnarsi ai magistrati di Roma. Cosa che avviene il 23 dicembre, nel pomeriggio. In quel momento Seferovic è ancora un uomo libero, ma dopo l'interrogatorio viene portato nel carcere di Regina Coeli. Dove rimarrà fino al 13 gennaio, giorno in cui viene liberato dal Tribunale del Riesame perché il suo legale e il pm si sono accordati sul patteggiamento. "Due anni di prigione - racconta Nicolini - una pena alta per uno scippo. Il giudice poi ci ha concesso la sospensione della pena perché non c'erano pericoli di fuga e Serif era incensurato". A febbraio, dunque, è tornato in libertà. La cella l'ha vista solo per ventuno giorni.
GLI INCENSURATI - Dire però che in Italia i ladri non pagano mai è una semplificazione grossolana, contraddetta dai fatti: attualmente 11.585 detenuti in carcere per furto (di cui 606 donne) e i 16.242 detenuti per rapina (tra cui 523 donne). È vero, invece, che se si è al primo borseggio è praticamente impossibile finire dietro le sbarre. La pena base per il furto aggravato va da uno a sei anni (fino a dieci anni se commesso in appartamento), ma qualsiasi avvocato col minimo sforzo riesce a evitare all'imputato la prigione. Al processo per direttissima, tra attenuanti generiche (ad esempio, la confessione e la riconsegna del bottino) e la scelta del rito abbreviato che riduce di un terzo la pena, il giudice raramente emette condanne superiori a un anno, si arriva a due nei casi particolari come quello di Seferovic. "Del resto la sospensione condizionale della pena per due anni è un diritto", ricorda Roberto Trinchero presidente delle Camere penali del Piemonte occidentale e Valle D'Aosta. "Quando invece si è recidivi, il discorso cambia".
MAMMA BORSEGGIO - O meglio, dovrebbe cambiare. Perché poi si incontra la storia di "mamma borseggio", come è stata ribattezzata la 36enne nomade arrestata dai carabinieri nel centro di Roma a febbraio. L'avevano notata mentre sbirciava dentro gli zaini di alcuni turisti sulla linea Termini-Vaticano e l'hanno controllata. Quando hanno inserito le sue impronte digitali nel terminale, i militari sono rimasti senza parole: la donna di origini serbe aveva alle spalle 25 sentenze di condanna in Italia per furto e borseggio, una carriera criminale cominciata tra Milano e Firenze ancora minorenne e proseguita per vent'anni grazie ai suoi dieci figli. Ogni volta che veniva catturata, infatti, il tribunale era costretto a liberarla perché costantemente in stato di gravidanza. "Donne incinte e minorenni non finiscono in carcere neanche quando sono ladri conclamati - spiega a Repubblica un alto magistrato di Cassazione - anche nei casi di recidiva, non è così scontato che si vada in cella: perché a un imputato di furto si possa contestare la recidiva che aumenta la pena, infatti, bisogna che ci sia stata una sentenza definitiva per l'altro reato e spesso ci si mette anni".
PRESO SOLO UNO SU VENTI - Ladri e borseggiatori, poi, spesso sfuggono alle maglie della polizia, in carenza di forze in campo: solo nel 4,6 per cento dei casi (dati Istat) vengono scoperti gli autori, addirittura solo due volte su cento per i furti in appartamento. Certo, se il sistema carcerario svolgesse il compito affidatogli dalla Costituzione, la riabilitazione del detenuto, ce ne sarebbero meno in giro. Uno studio commissionato dal ministero della Giustizia ha dimostrato che un percorso di riabilitazione corretto riduce del 10-15 per cento la possibilità della recidiva. Ma nonostante lo svuota carceri, sono ancora troppo affollate, motivo per cui i magistrati in sede di giudizio per furto tendono a non dare pene tali da finire dentro. C'è poi chi punta il dito sulla mancanza della certezza della pena, perché difficilmente i detenuti scontano l'intero periodo stabilito dalla condanna. "Ma la liberazione anticipata, i permessi, l'affidamento in prova ai servizi sociali sono istituti previsti dal codice - sostiene l'avvocato Troncheri - la certezza della pena talvolta è in contrasto con la rieducazione".
In galera? Non ci si finisce più, scrive il 29 Dicembre 2011 su Il Fatto Quotidiano Bruno Tinti, Ex magistrato, giornalista e scrittore italiano. Di come sia sbagliato utilizzare le risorse della giustizia penale per fare i processi di microcriminalità ho già scritto: mentre giudici e pm vagano per le camere di sicurezza sparse tra caserme e questure e si dannano per fare decine di direttissime ogni giorno per furticiattoli e piccolo spaccio, i processi importanti restano sulla scrivania; e la prescrizione galoppa. Qui voglio trattare di un’altra riforma del nuovo ministro della Giustizia, l’aumento da un anno a 18 mesi per la libertà controllata o detenzione domiciliare: per pene che non superino l’anno e mezzo non si entra in prigione, si sta a casa propria. Il ministro Severino queste cose le sa. Ma chi legge no. La pena inflitta dal giudice è finta, se ne fa davvero circa la metà, con l’eccezione degli ultimi quattro anni: questi non si fanno per niente. Non ci si crede, vero? Invece… Art. 48 dell’ordinamento penitenziario: dopo aver scontato metà della pena si è ammessi alla semilibertà. Significa che di giorno si va in giro a lavorare; e di notte si torna in prigione a dormire. Trent’anni? Fatti 15, te ne vai la mattina e torni la sera. Già sembra incredibile ma, in realtà, è ancora peggio di così perché… Art. 54: ogni anno di prigione vale nove mesi. Se non hai fatto casino (non se ti sei comportato bene, se hai prestato servizio gratuito in infermeria, se hai aiutato le guardie carcerarie a domare una rivolta, no, questo sarebbe troppo; basta che non hai combinato guai) ogni anno ti abbuonano tre mesi. Quindi i 15 anni teorici (la metà dei 30 che ti hanno dato) sono in realtà undici anni e 25 giorni, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Ma non è vero nemmeno questo perché … Art. 30 ter: ogni anno hai diritto a 45 giorni di permesso (con qualche eccezione). Quindi gli undici anni sono in realtà (più o meno) nove anni e due mesi, fatti i quali te ne vai la mattina e torni la sera. Naturalmente questi calcoli variano a seconda della pena che il giudice ti ha inflitto: più o meno in prigione ci si passa davvero meno di un terzo della pena originaria. Ma non è vero nemmeno questo perché… Art. 47 ter: arrivati a quattro anni dal fine pena teorico si concede la detenzione domiciliare, la pena si sconta in casa propria o in qualsiasi altro luogo che il detenuto richieda. Avete capito bene: quando mancano quattro anni al fine pena, si può stare a casa propria. O all’Hotel Excelsior, se si hanno abbastanza soldi. Quello a cui forse non avete pensato è che, se uno è stato condannato a quattro anni tondi ha diritto alla detenzione domiciliare da subito. C’è il fastidio di entrare in carcere, aspettare che l’avvocato abbia fatto richiesta al giudice di sorveglianza e che questi abbia emesso il provvedimento; poi però detenzione domiciliare: più o meno 15 giorni e se ne torna a casa. Ma attenzione, anche qui il tempo vola e la legge Gozzini (l’art. 54) continua a operare: ogni anno vale nove mesi, vi ricordate? Sicché, fatti nove mesi di detenzione domiciliare (il primo anno), quando mancano teorici tre anni al fine pena … Art. 47: affidamento in prova al servizio sociale. Liberi come l’aria, salvo l’obbligo di fare qualcosa di utile per la società. Per dire, Previti (per via dell’indulto che gli abbuonava tre anni, doveva farsi ancora un paio d’anni) andò a lavorare presso il Centro Italiano di Solidarietà di Castel Gandolfo; luogo ameno se mai ce n’è stato uno: ci va anche il Papa. Riassunto: il condannato a quattro anni di prigione fa nove mesi di detenzione domiciliare; quello condannato a cinque fa un anno e mezzo e via così; poi affidamento in prova al servizio sociale. Non è azzardato concludere che delinquere conviene. Tanto più che nessuno che abbia commesso i reati che ti fanno guadagnare soldi (soldi veri) è mai condannato a più di quattro anni di reclusione. Frode fiscale, falso in bilancio, corruzione, riciclaggio, insider trading etc ‘costano’ da uno a tre anni a dire tanto. Sicché, se gli va male, affidamento in prova; e se gli va bene, (cioè quasi sempre, questa è la realtà nelle aule giudiziarie e il ministro lo sa benissimo) sospensione condizionale della pena (per condanne fino a due anni) o pena sostituita (per condanne fino a sei mesi, 7000 euro di multa). A tutto questo si deve aggiungere l’indulto per cui, per i reati commessi fino al maggio 2006, oltre a tutti i regali che ho descritto fino ad ora la pena concreta è comunque più corta di tre anni; e la prossima amnistia, alla quale il ministro Severino “non è contrario”. Adesso, a parte che tutte queste semi-libertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova, permessi e compagnia cantando costano un sacco di lavoro a Polizia e Carabinieri perché qualcuno dovrà pur controllare che questi delinquenti (sono stati condannati, no?) non vadano a delinquere di nuovo, il che è quasi sempre quello che capita. Ma si sentiva proprio il bisogno di non far fare nemmeno un po’ di galera a chi comunque ne sconterebbe pochissima di quella che gli tocca? Il ministro Severino ci ha pensato che la detenzione domiciliare si applica a quelli che non possono usufruire della sospensione condizionale della pena? Quindi stiamo parlando di gente che almeno un altro reato, probabilmente due (la sospensione condizionale ‘copre’ due anni e condanne di tale livello non sono frequentissime) lo ha già commesso. E che diavolo, ma cosa bisogna fare per finire in galera?
· Le mie Prigioni.
Carcere, la vera fotografia di un fallimento. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 novembre 2019. Sovraffollamento, suicidi, carcerazioni anche per pene brevissime e trasferimenti. Non vanno dimenticate le difficoltà degli agenti penitenziari e la scarsità di operatori sanitari e di altre figure professionali. Mentre vengono rilanciate proposte repressive, come l’allargamento del 4 bis ( l’articolo che vieta la concessione di benefici) nei confronti dei detenuti che vengono scovati con un cellulare, il sistema penitenziario risulta oramai al collasso. Le cause principale sono da attribuirsi a sovraffollamento, suicidi tentati e realizzati, ricorso troppo facile alle celle di isolamento, riduzione delle opere trattamentali e lavoro. A questo si aggiunge la scarsità di operatori sanitari, mettendo in difficoltà gli stessi agenti penitenziari che non possono avere le competenze per rapportarsi con i detenuti con problemi psichiatrici. Sempre su quest’ultimo punto, va ricordata la mancata approvazione di un decreto attuativo della riforma originale. La norma prevedeva la realizzazione di unità interne con carattere realmente sanitario, oltre al fatto che andrebbe richiesto un maggiore impegno da parte delle Aziende sanitarie territoriali e alle Autorità regionali. Situazioni che inevitabilmente generano violenza e le prime vittime sono gli stessi agenti penitenziari.
IN CELLA PER DROGA AL PRIMO POSTO IN EUROPA. Mentre si diffonde sempre di più l’idea che da noi esiste una sorta di lassismo e la mancata “certezza della pena”, i numeri dicono ben altro e che mettono l’Italia al primo posto tra i paesi dell’Unione Europea per incremento della popolazione detenuta tra il 2016 e il 2018, in controtendenza rispetto al resto del continente. L’ultimo rapporto di Antigone ha analizzato attentamente questi dati e ha evidenziato che le carceri italiane sono più affollate della media dei paesi europei, con un tasso del 115%, a fronte di una media europea del 93%. Ciò vuol dire che in Italia, laddove dovrebbero stare al massimo 100 persone, ce ne sono 115. Una delle prime cause dell’eccessiva presenza di persone detenute è da ricercare nell’inefficace e repressiva legislazione sulle droghe, che rappresenta una dei motivi principali di ingresso e permanenza in carcere. Al 31 gennaio 2018, il 31,1% delle persone detenute era ristretto per violazione del Testo Unico sulle droghe: circa un terzo del totale. La media europea è del 18%, 13 punti percentuali in meno. In Germania i detenuti per droga erano il 12,6%, in Francia il 18,3% e in Spagna il 19%. Solo Grecia e Lettonia facevano peggio di noi.
PRIMI PER PENE LUNGHE, MA ANCHE BREVISSIME. Come se non bastasse siamo al primo posto per quanto riguarda le pene lunghe da scontare. L’idea secondo cui in Italia ci sarebbero pene troppo lievi e permanenze in carcere di brevissima durata è platealmente smentita dai dati: le persone detenute che scontano la pena dell’ergastolo rappresentano il 4,4% dei condannati, contro una media europea del 3,5%. Le condanne comprese tra i 10 e i 20 anni riguardano poi il 17% dei detenuti con condanna definitiva: ben 6 punti percentuali in più della media dei paesi europei ( dell’ 11%). E ancora: il 27% di chi sconta una condanna in carcere ha una pena compresa tra i 5 e i 10 anni, a fronte di una media europea del 18%, di 9 punti percentuali in più bassa. Ciò vuol dire – come ha sottolineato sempre Antigone – che in Italia si sta in carcere più che negli altri paesi. Siamo anche il primo Paese con i più alti tassi di persone detenute senza una condanna definitiva ( ovvero, stando alla Costituzione, di persone innocenti in carcere): ad oggi rappresentano il 34,5% della popolazione detenuta. La media europea è del 23%, oltre 10 punti in meno. Ma non solo. Abbiamo anche il primato per quanto riguarda le persone che scontano in carcere pene brevissime, mente negli altri Paesi usano misure alternative. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, in carcere ci sono 22.870 persone che hanno ancora da scontare meno di tre anni, mentre 5 mila detenuti sono in carcere perché condannati a una pena inferiore ai due anni. Teoricamente sono persone che ne potrebbero usufruire, ma a causa della loro condizione sociale, non hanno gli strumenti per accedervi. Lo ha spiegato molto bene sempre Mauro Palma durante la sua presentazione dell’ultimo rapporto. Ha rivelato che l’aumento della popolazione detenuta «non è ascrivibile a maggiori ingressi, bensì a minore possibilità di uscita». Sottolineando che questo dato deve far riflettere «perché può essere determinato da più fattori: l’accentuata debolezza sociale delle persone detenute che non le rende in grado di accedere a misure alternative alla detenzione, per scarsa conoscenza o difficile supporto legale; la mancanza soggettiva di quelle connotazioni che rassicurino il magistrato nell’adozione di tali misure; o, infine, un’attenuazione della cultura che vedeva proprio nel graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento».
LA GIRANDOLA DEI DETENUTI. Se in alcune carceri si registrano esplosioni di violenza, una delle problematiche riguarda il continuo trasferimento dei detenuti problematici e alcune carceri diventano un contenitore del disagio fino ad esplodere. È successo recentemente al carcere umbro di Capanne. Sono stati trasferiti i detenuti più problematici, come quelli con provvedimenti disciplinari o con problemi di salute mentale. Con questi continui trasferimenti progressivamente il carcere scelto come meta di destinazione diventa un contenitore di persone problematiche e non è attrezzato per gestirle. Complice una circolare del Dap che ha disposto la possibilità di traferire i detenuti per motivi di sicurezza. Succede quindi che si rimanda il problema ad altri. Oppure, come sta accadendo in questi mesi, decine di detenuti ergastolani vengono trasferiti in alcune carceri, come quelli di Parma, già sovraffollati e non adeguati a sistemare i reclusi in celle singole: da lì le proteste e quindi maggiori disagi per tutti.
TELEFONINI, EVASIONI E DROGA. EMERGENZA? L’emergenza del momento sembra essere il discorso del numero dei telefonini sequestrati e le evasioni. Nei primi nove mesi di quest’anno sono stati eseguiti 587 sequestri di sostanze stupefacenti e 1.412 telefonini. Sequestri importanti, ma ricordiamo sempre che parliamo di numeri su una popolazione di quasi 61 mila detenuti. In Francia, dove esiste – come d’altronde in tutti i Paesi del mondo il discorso dei traffici dei cellulari, hanno pensato di risolvere il problema non con la repressione, ma con la realizzazione di un telefono fisso per ogni cella, in maniera tale che i detenuti possano avere la possibilità di rimanere in contatto con i familiari. Da noi invece ogni detenuto ha 10 minuti di tempo alla settimana e solo per la famiglia. Con ovvie conseguenze, tipo appunto il traffico di cellulari. La riforma dell’ordinamento penitenziario, in gran parte disattesa, prevedeva che si allungassero i tempi. Per quanto riguarda le evasioni dal carcere, invece, non esiste alcuna emergenza. Nel 2018, 44 sono quelle tentate, mentre 110 sono le evasioni riuscite. Numeri, considerata la popolazione detenuti, con percentuali da prefisso telefonico. Senza contare che chi evade, poi viene subito ripreso grazie alla professionalità degli agenti.
I CONVEGNI DI OGGI E DOMANI. Problemi reali che però trovano come risposta più repressione, allontanandosi sempre di più dallo spirito iniziale degli Stati generali sull’esecuzione penale dove venne partorita la riforma dell’ordinamento penitenziario, poi disattesa. A tal proposito, oggi alle ore 11, l’Università Sapienza di Roma ospiterà presso l’Aula Calasso della Facoltà di Giurisprudenza il Convegno “Carcere. Rimettersi in cammino verso la Costituzione”. Domani, alle ore 10, sarà convocato un tavolo di consultazione sul tema delle “Sinergie per una cultura costituzionale dell’esecuzione penale”, al quale parteciperanno, tra gli altri, anche rappresentanti di Antigone, Comunità Sant’Egidio, Garante Nazionale delle persone private della libertà, Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza. La relazione introduttiva del Convegno sarà affidata al professor Glauco Giostra.
Maria Chiara Aulisio per ilmattino.it il 18 dicembre 2019. Valentina, 25 anni, bella, alta e giovane, sembra una modella, invece è detenuta. E in quel carcere dovrà rimanerci ancora un anno e mezzo. «Ho fatto una rapina, una sola, la prima in vita mia. È andata male, o forse bene: dopo una settimana sono venuti ad arrestarmi». Una storia come tante, quella di questa splendida ragazza di Piscinola, papà camionista e mamma casalinga, tre fratelli e un lavoro da barista in un locale della zona: «Poi, sapete come vanno queste cose... le compagnie sbagliate, la voglia di cambiare e si fanno le sciocchezze». Valentina ha una gran voglia di lasciarsi tutto alle spalle e andare avanti, anzi questa brutta storia la considera il giusto punto di partenza verso la sua nuova vita. Lo spiega al microfono, nel teatro della casa circondariale di Pozzuoli, dove ieri mattina è arrivato il cardinale per fare a tutte gli auguri di Natale. Uno spettacolo musicale e tante testimonianze, ‘O sole mio intonato con passione da Martina Sannino - accompagnata dai violini dei “Discantus” - e le storie delle donne detenute che si intrecciano con le parole di conforto e solidarietà pronunciate da Sepe: «Sono qui per dirvi che vi vogliamo bene, la Chiesa vi sta accanto e anche il Signore è con voi. L’importante è non arrendersi mai: tutti possiamo sbagliare, quel che conta è cambiare, E chi è senza peccato scagli la prima pietra». Applausi e attimi di commozione. Valentina è talmente emozionata che le trema la voce ma continua a raccontare: «Soffrivo di depressione, il lavoro al bar era troppo impegnativo, non riuscivo più a cenare con la mia famiglia neanche una volta ogni tanto. Sinceramente manco lo so come mi sono ritrovata a fare una rapina». Una bella famiglia, la sua, che vive di lavoro, quello del papà, che con la mamma e i fratelli, ogni settimana va a farle visita in carcere: «Un anno e mezzo sono stata agli arresti domiciliari, - aggiunge - tenevo il “braccialetto”, un mese fa invece mi hanno portato qui per scontare il resto della pena. Sto imparando a fare l’estetista, ci insegnano tante cose, e quando esco, giuro, cambio vita. Sì, è vero, avrei potuto fare anche la modella». Prima di lei, al microfono, aveva parlato Anna, 60 anni, sette figli, a Pozzuoli già da quattro anni: «Sono colpevole e sto pagando, ma non per il Signore che mi ha già perdonato e ogni giorno mi da la forza di andare avanti». Poi, una richiesta, direttamente al cardinale: «Eminenza, al terzo piano, c’è una bella croce di Dio che non si accende più. Me la fate la cortesia di farla riparare?». Crescenzio Sepe sorride, stringe le mani della donna e le assicura che se ne occuperà. Chiede invece «preghiere», Lucia, porta un camice bianco perché sta lavorando in lavanderia, e si rivolge a tutta la platea: «Pregate per noi, e noi preghiamo per voi. La vostra forza ci aiuterà». Infine, Luana, 33 anni, bionda e ben truccata: «Sono di Taranto, e voglio ringraziare tutti. A cominciare dalle mie compagne della “seconda sezione”. Mi hanno accolto bene, anche se non sono di Napoli. Ci diamo una mano l’una con l’altra, convinte che alla fine di questo percorso saremo certamente diverse». Grazie a tutti, dunque - a cominciare da quelle che le detenute chiamano «le comandanti» - e un applauso alla direttrice della casa circondariale, Carlotta Giaquinto, sul palco per raccontare al cardinale il successo del presepe vivente interpretato dalle donne di Pozzuoli: «È stato un lavoro lungo e faticoso ma alla fine ci ha dato grande soddisfazione. Abbiamo aperto le porte del carcere al territorio per dare visibilità a una iniziativa dal grande valore sociale».
Ferì re Umberto, per dieci anni sepolto vivo all’Elba. L’incredibile vicenda dell’anarchico Giovanni Passannante. Damiano Aliprandi il 15 dicembre 2019 su Il Dubbio. Soprattutto la sera, dopo aver finito di pescare, quando gli uomini si avvicinavano alla torre, dalle viscere del vecchio bastione sentivano udire un lungo, soffocato e lugubre lamento, seguito da un inconfondibile rumore di catene. Ciò che inquietava fu il fatto che quei terribili suoni provenivano da sotto il mare. Parliamo dell’isola d’Elba dove c’è una torre, subito riconoscibile all’entrata del porto di Portoferraio per la sua forma ottagonale. Un tempo i marinai che passavano nelle vicinanze della torre, soprattutto la sera quando tutto era fermo e silenzioso, potevano udire lugubri e continui lamenti di una persona sottoposta a indicibili torture. La Torre del Martello venne ribattezzata dai marinai “Torre di Passannante”. Ovvero il nome dell’uomo che emetteva quelle grida strazianti.
Ma perché Giovanni Passannante era recluso in quella torre che era un piccolo e tetro carcere di estremo rigore? Tutto ha inizio il 17 novembre del 1878, quando la carrozza di Umberto I di Savoia e della regina Margherita percorre le strade di una Napoli festante accorsa a salutare il passaggio della coppia reale. All’improvviso l’anarchico lucano Passannante estrae dalla tasca un fazzoletto rosso in cui è nascosto il piccolo coltellino con una lama di 8 centimetri, si avvicina alla carrozza e colpisce il re. Margherita riesce a urtare l’attentatore con un mazzo di fiori e il re Umberto viene ferito solo di striscio alla coscia. Per capire meglio il suo gesto, bisogna contestualizzare il periodo storico. L’atto di Passannante giunge a breve distanza dai tentativi insurrezionali di Bologna e del Matese, in un’Italia da poco unificata e attraversata da un’infinità di contraddizioni, dove appunto gli anarchici erano molto attivi. D’altronde lo stesso Passannante ha una sua storia personale interessante. Nasce a Salvia di Lucania (poi rinominata Savoia di Lucania proprio come punizione per aver dato natale al suo attentatore) il 18 febbraio 1849 in una famiglia con gravi difficoltà economiche. Costretto ad elemosinare a causa della povertà, Passannante frequenta solo la prima elementare, ma un indomito desiderio di imparare le cose lo porta ad apprendere da solo a leggere e scrivere. Cresciuto, svolge diverse umili professioni, ma il suo carattere ribelle lo porta ad alcuni licenziamenti. A Potenza conosce un suo compaesano, l’ex capitano dell’esercito napoleonico Giovanni Agoglia, che avendo notato la sua passione per la lettura lo assume come domestico offrendogli anche un vitalizio per poter approfondire i suoi studi. Frequentando poi i circoli mazziniani, conosce l’internazionalista Matteo Melillo e intraprende un’attività rivoluzionaria in favore del mazzianesimo che gli costa un arresto a tre mesi per aver incitato i calabresi all’insurrezione e per aver forse pensato di uccidere Napoleone III, che egli riteneva fosse il vero ostacolo alla nascita della Repubblica Universale. Mentre legge e si informa sulle vicende dell’Internazionale e della Comune di Parigi, trova occupazione nella sua regione come cuoco prima di aprirsi una trattoria che spesso elargiva pasti gratuiti alle persone in difficoltà. Il ristorante sarà chiuso nel dicembre del 1877. Intanto si avvicina alle idee anarchiche, diventando prima membro della Società Operaia di Pellezzano e poi della Società di Mutuo Soccorso degli Operai, in entrambi i casi abbandonati per contrasti con gli amministratori. La Campania comunque è un covo di ferventi rivoluzionari internazionalisti, quindi ha trovato altri rifugi per le sue idee e proprio in quegli ambienti che ha cominciato a covare odio nei confronti del re e quindi provare ad ucciderlo. Ma invano.
Solo qualche decennio più tardi, ovvero una sera del 29 luglio 1900, qualcuno ci riuscì. Sarà l’anarchico Gaetano Bresci a uccidere il re a Monza con tre colpi di pistola. Si dirà che quelle revolverate chiudevano l’800 e che con esse erano vendicati soprattutto i morti di Milano del maggio 1898, gente comune che chiedeva pane e fu massacrata a cannonate dal generale Bava Beccaris, poi decorato dal monarca. Infatti, se da una parte Umberto I veniva definito il “re buono”, dall’altra c’era chi lo definiva “re mitraglia”. Ma ritorniamo a Passannante. Il processo durerà solo due giorni. La giuria, nonostante il codice prevedesse la pena di morte solo in caso di regicidio, non ha alcuna pietà per l’anarchico e lo condanna alla pena capitale, che sarà poi “magnanimamente” commutata dal “re buono” in ergastolo temendo che una condanna spropositata potesse trasformare l’attentatore in martire. Ma in realtà proprio la pena di morte sarebbe stato un gesto magnanimo, visto quello che poi Passanante dovette subire. Infatti lui stesso chiese di essere giustiziato sapendo cosa lo aspettava. Fu rinchiuso nella torre dell’isola d’Elba e sepolto vivo in una cella di due metri per uno, alta uno e 50 e situata al di sotto del livello dell’acqua. Perennemente al buio con le catene ai piedi attaccate a un piombo di 18 chili. Venne ridotto ad una larva, costretto a cibarsi delle proprie feci, diventò cieco e si ammalò di scorbuto. Ovviamente la sua mente si perse nei meandri dell’orrore quotidiano. Nel frattempo, per rappresaglia, sua madre e i fratelli vennero rinchiusi nel manicomio di Aversa, dove morirono uno dopo l’altro. Dopo 10 anni di indicibile prigionia alla Torre, dopo una visita del deputato socialista Agostino Bertani che ne rimase scioccato, il caso arrivò in Parlamento. Ma decisiva fu la visita ricevuta dalla giornalista Anna Maria Mozzoni, illuminata attivista e femminista di quegli anni, la quale scrisse articoli di fuoco per denunciarne le condizioni: l’anarchico finalmente subì una perizia medica che lo dichiarava insano di mente, tanto da concedergli la possibilità di passare i suoi ultimi anni di vita nel manicomio di Montelupo fiorentino: oramai malato e impazzito per le torture, Giovanni muore a 61 anni il 14 febbraio 1910.
Tutto finito? Nemmeno per sogno. In fase di sepoltura, il corpo di Giovanni venne prelevato grazie al tempestivo intervento di due funzionari di polizia che lo decapitarono con un’ascia. Il cranio fu accuratamente sezionato nella parte superiore, il suo cervello estratto ed esposto sotto formalina insieme al teschio, e quotidianamente “innaffiato” nel museo criminologico di Roma. Solo recentemente i resti di Passannante hanno avuto una degna sepoltura. Ma non senza intoppi. Il 23 febbraio 1999 l’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto firmò il nulla osta per la traslazione dei resti di Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che però avverrà solamente otto anni dopo anche grazie all’iniziativa dell’attore Ulderico Pesce. La sua petizione in favore dell’anarchico fu firmata da numerosi intellettuali, politici ed artisti e contribuirà in maniera decisiva allo sblocco della vicenda. Finalmente il 10 maggio 2007 è avvenuto il via libera alla sepoltura da parte dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, nel paese natale, dei resti di Giovanni Passannante. Savoia è un piccolo borgo del 1200. Strade pulite, case ben tenute e murales ovunque. Molti ispirati a San Rocco, protettore del paese. Accanto al municipio, sotto un portico, ce ne sono due dedicati all’anarchico Passanante. C’è anche un suo pensiero: “I regni sorti dalle rivoluzioni cadono con le rivoluzioni”. Eppure, l’anarchico lucano senza fare una rivoluzione, ma solo un gesto simbolico, patì torture e sofferenze che nemmeno il conte Ugolino conobbe. Tutto questo per aver, in fondo, graffiato la coscia reale.
Bimbi in carcere, cinquantasei in cella anche per il prossimo Natale. Damiano Aliprandi il 12 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Quattro in più rispetto al mese precedente. 32 sono nelle sezioni femminili degli istituti. Il mese scorso, nell’Icam di Milano, una neonata ha rischiato di morire è stata salvata grazie all’intervento di un assistente capo della polizia penitenziaria. Cresce il sovraffollamento, ma aumentano anche i bambini dietro le sbarre. Al 30 novembre del 2019 si registra la presenza di 52 detenute con 56 figli al seguito, mentre nel mese precedente ne risultavano 52 di bambini. La detenzione di una donna con i propri figli deve essere sempre una misura estrema, eppure i numeri sembrano non darne concretezza. La maggior parte dei bambini sono ospitati con la genitrice all’interno degli Istituti a custodia attenuata ( Icam) dedicati: Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca” e Lauro, mentre nessuna coppia madre- figlio è collocata nell’Icam di Cagliari. Gli altri bambini, in mancanza della disponibilità delle case famiglia ( in Italia ne esistono soltanto due), sono, di fatto, reclusi negli istituti di pena nelle 19 “sezioni nido”. I bimbi si trovano distribuiti nell’Istituto femminile di Roma- Rebibbia ( 11) e nelle sezioni femminili degli Istituti, prevalentemente maschili, di Bologna ( 2), Firenze “Sollicciano” ( 1), Messina ( 1), Milano Bollate ( 3), Teramo ( 2) e Torino ( 12). Con la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 2018, è entrato ufficialmente nella normativa il termine asilo nido, cristallizzando in tal modo la situazione. «Alle madri – si legge all’articolo 14 dell’Ordinamento penitenziario – è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido». Il Garante nazionale delle persone private della libertà, con la collaborazione dei Garanti locali, l’anno scorso ha realizzato una ricerca sulle condizioni effettive delle sezioni o delle stanze destinate a ospitare bambini fino ai tre anni di età. Il primo dato che è emerso è la totale inadeguatezza di quattro strutture che non rispondono ad alcuno dei requisiti oggetto del monitoraggio, né a quelli strutturali ( adeguatezza delle stanze alle esigenze del bambino, cucina separata per i bimbi, presenza di un cortile attrezzato con giochi, di una ludoteca, di ambienti idonei per i colloqui con i familiari), né a quelli relativi alla qualità della vita dei bambini ( presenza di personale specializzato e di volontari, convenzioni per l’inserimento nelle scuole del territorio, possibilità per i bambini di uscire con i volontari). Altre tre non hanno un cortile attrezzato per i bambini, in due manca una ludoteca e in tre i locali per i colloqui sono stati definiti non idonei per bambini piccoli. «Ma – osserva il Garante nella relazione annuale -, colpisce anche la mancanza di personale specializzato: in nove Istituti non è previsto personale dedicato ai bambini e in sei manca anche il personale medico e sanitario specializzato ( interviene soltanto “a chiamata” in caso di necessità)». Per il Garante si tratta insomma, in alcuni casi, di situazioni inaccettabili, per le quali occorrono interventi strutturali urgenti oltre all’innalzamento degli standard necessari per ospitare un bambino all’interno di una struttura detentiva, seppure per breve tempo. Mai perdere di vista l’importanza di mantenere il legame tra la detenuta madre e il figlio nei primi anni di vita, privilegiando però la decarcerizzazione come prevedeva un decreto della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, purtroppo mai approvato. Nel frattempo, per un soffio, si è sfiorata una tragedia. Il mese scorso, nell’Icam di Milano, una neonata di poche settimane ha rischiato di morire. Salvata in extremis grazie all’assistente capo della polizia penitenziaria Rinaldo Rugiano, il quale dopo aver sentito la madre della neonata gridare per chiedere aiuto, ha trovato la bambina cianotica e, una volta affidato al collega la custodia temporanea delle detenute, è corso all’esterno dell’Icam percorrendo a piedi i pochi metri che lo separavano dall’ospedale Macedonio Melloni, dove ha consegnato la bambina che è stata subito rianimata.
Carceri, il tanfo di una prigione alle sei di mattina. Gioacchino Criaco il 10 Dicembre 2019 su Il Riformista. Un qualunque giorno, in una qualunque prigione. Gli arabi in galera sono fastidiosi, alle sei di mattina già cominciano con le loro fumigazioni: la vaniglia dei papier d’armenie si mischia col lezzo dei bisogni mattutini dei detenuti. Chi passa per il carcere questo puzzo se lo porta dietro a vita. Qualche prigioniero non ha chiuso occhio tutta la notte, ha un nuovo compagno di pena. Un altro orfano. La razza peggiore. Sebastiano viene dalla Calabria, si guarda continuamente le mani: da bambino i suoi l’hanno chiuso in “collegio” e lui li ha persi. Nell’istituto c’era un agrumeto esteso. La sera i preti annusavano le mani ai bambini. E quando il profumo delle arance denunciava il loro peccato, colpivano i palmi aperti sino a farli sanguinare. Da grande Sebastiano faceva il custode in Aspromonte, ma gli ostaggi a lui affidati qualche volta finivano per morire. Così non servivano, gli dissero, e lo scacciarono dai monti. Finì nelle terre piane dell’Europa. L’hanno beccato con diciotto chili di coca, ne avrà per vent’anni. Ha sempre un coltello in mano, il suo male prima o poi esploderà. Il letto sotto al suo è occupato da Andri: sua madre l’ha mollato una notte d’inverno, quando aveva sei mesi, davanti al Blakovon. Uno dei quattordici orfanotrofi di San Pietroburgo. Da grande ha fatto il macellaio nelle guerre sporche dei paesi occidentali in giro per il mondo. Il suo male aveva fatto paura ai suoi stessi padroni. Gli avevano detto che non sempre a un bravo assassino corrispondeva un buon soldato, e lo avevano scaricato per le strade d’Europa. Andri ha un ergastolo da scontare e ha sempre freddo e se ne sta con una coperta addosso, anche in mezzo ai quaranta gradi della cella. Anche lui prima o poi esploderà. Benjamin è nel letto accanto, viene dalla Carolina del Sud, aveva sei anni, suo padre era morto da meno di due, Ines, la madre, lo mollò sulla veranda di casa: salì sulla macchina di un giovanotto tutto muscoli. La radio mandava una stupida canzone di Nat King Cole. E lei sparì per sempre dalla sua vita, sulle note di everyone saying hello again. Benjamin ha rimediato trent’anni, per droga, canta sempre qualcosa nel giradischi immaginario che gli ruota in testa. Chi conosce il cuore degli orfani e la profondità del loro male, lo sa che sono destinati a implodere e a esplodere fino alla fine dei loro giorni. Non bisogna lasciare i bambini ai fantasmi, dopo non ci sarà rimedio.
Napoli e Roma, un ex narcotrafficante garante dei detenuti. Rebibbia vietata alla presidente della onlus. Damiano Aliprandi il 13 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Pietro Ioia è stato nominato dal sindaco Luigi de Magistris. Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, non è stata autorizzata a partecipare a una iniziativa giovedì scorso nel carcere romano. Da una parte un ex narcotrafficante che non solo si è riscattato nella vita, ma si è attivato per migliorala anche agli altri ed è stato da poco eletto dal sindaco Luigi De Magistris di Napoli, come garante locale dei detenuti. Dall’altra la presidente di un’associazione che ha compiuto visite nelle carceri e portato all’attenzione delle istituzioni vicende gravi, come il presunto pestaggio all’interno del carcere di San Gimignano, che si è vista negare dall’amministrazione penitenziaria l’autorizzazione per partecipare ad una iniziativa del carcere di Rebibbia. La prima vicenda riguarda Pietro Ioia, ed è la dimostrazione vivente che anche un ex criminale non solo non è marchiato a vita, ma può anche ricoprire un ruolo istituzionale importante come quello di garantire i diritti delle persone private della libertà. Un compito delicato visto le gravi criticità che riguardano gli istituti penitenziari napoletani. Ioia da anni che si batte per i diritti dei detenuti e fu il primo a denunciare le presunte violenze che si sarebbero perpetrate all’interno del carcere di Poggioreale, nella cosiddetta cella zero. Chiamata così perché non numerata, liscia, e dove alcuni reclusi hanno denunciato di aver subito percosse da alcune guardie penitenziarie. Oggi è in corso un processo che stabilirà se tali violenze ci sono state o meno. Ioia, d’altronde, è diventato da tempo un punto di riferimento per i familiari dei detenuti, raccogliendo numerose denunce, soprattutto riguardanti il discorso dell’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari, compreso la denuncia di malati gravi e incompatibili con l’ambiente carcerario. Il neo garante locale dei detenuti ha promesso che non solo si occuperà dei detenuti, ma intenderà parlare anche per il corpo della Polizia Penitenziaria che è sotto organico. Poi c’è la storia di Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha che si occupa principalmente dei detenuti, facendo emergere situazioni che altrimenti sarebbero rimaste confinate all’interno delle quattro mura carcerarie. La Berardi ha fatto sapere pubblicamente che ha appreso di non essere stata autorizzata a partecipare ad una iniziativa di giovedì scorso nel carcere di Rebibbia. «Dispiaciuta – spiega la presidente dell’associazione Yairaiha – perché ero stata invitata dai detenuti, orgogliosa perché l’amministrazione penitenziaria rigettando la richiesta della mia partecipazione, non ha fatto altro che dare conferma della giustezza delle lotte e delle denunce che faccio con l’associazione Yairaiha». Il motivo della mancata autorizzazione, secondo quanto spiega Sandra Berardi, si baserebbe sui suoi ‘ numerosi carichi pendenti’. «Sono decine di denunce e procedimenti aperti per lotte sociali mica altro – spiega Berardi -. Carichi pendenti che non spuntano ieri ma il fatto che oggi li abbiano notati come ostativi è segno dei tempi». Due anni fa per una iniziativa analoga, sempre a Rebibbia e sempre con gli stessi "carichi pendenti", fu autorizzata, così come l’anno scorso. Ora invece la presidente di Yairaiha, che fino a poco tempo fa aveva anche accompagnato l’ex parlamentare europea Eleonora Forenza, si è vista negare l’autorizzazione.
Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “la Zanzara - Radio24”. “Il Comune non mi paga, non è un lavoro retribuito. Io ho fatto il narcotrafficante però mi sono reinserito nella società, perché non dovrei avere un incarico pubblico”. Così Pietro Ioia, ex camorrista e narcotrafficante appena nominato Garante dei detenuti dal sindaco di Napoli De Magistris (con annesse polemiche), a La Zanzara su Radio 24. “Io a Napoli da quindici anni – dice Ioia - sono un punto di riferimento per le famiglie dei detenuti”. Ma tra i requisiti dovrebbero esserci competenze in materie giuridiche e integrità morale. Non mi pare il tuo caso, dice Cruciani: “Ma la competenza ci vuole sul campo. Io i detenuti li conosco bene”. Ma facevi pure il sindacalista dei parcheggiatori abusivi: “No, no, non c’entra niente. Non me ne frega più dei parcheggiatori abusivi. Ho solo fatto solo un paio di trasmissioni e niente di più. Dei parcheggiatori non mi interessa, li dovrebbero arrestare”. “Non ho mai fatto il parcheggiatore abusivo – dice ancora – anche se ho qualche nipote che l’ha fatto. Ho difeso quel parcheggiatore che non paga la camorra e che si portava 30 euro a casa al giorno. Quelli che chiedono 5, 10 euro per ogni maccchina vanno incarcerati. Li devono arrestare. Parlo dei parcheggiatori che fanno le estorsioni, dico io”. Ma fare i parcheggiatori abusivi è illegale: “Si, si. Ma io ho difeso quelli che portano il pane a casa”. “Cosa volete da me – dice ancora Ioia - io sono inserito, volete che resti sempre un delinquente? Devo essere sempre marchiato?”. In carcere incontrerai vecchi amici: “Gli amici vecchi non ci stanno più. C’è chi è morto, chi sta a 41bis”. Cosa pensi di Salvini?: “A me non piace proprio Salvini. Uno che fa morire la gente in mare non mi va. E’ un fascista”. E la Meloni?: “Altrettanto la Meloni. Non mi piace, fascista pure essa. Per quello che faccio io non vanno bene i fascisti. Io non faccio più male a nessuno, faccio del bene. Ero un narcotrafficante trent’anni fa. Ho scontato la mia pena 22 anni fa”.
Pietro Ioia garante dei detenuti a Napoli e la sua storia di recupero e di impegno. Riccardo Polidoro,Gianpaolo Catanzariti il 18 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’osservatorio carcere dell’Ucpi sulla nomina di de Magistris. Da 14 anni, da uomo libero, si occupa del recupero delle persone detenute ed è un punto di riferimento per le loro famiglie. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha nominato Garante dei diritti dei detenuti Pietro Ioia e immediatamente sono insorti i sindacati della Polizia Penitenziaria e sulla loro scia molti altri che hanno ritenuto inopportuna tale scelta. Ma chi è Pietro Ioia ? Oggi sessantenne, in passato è stato condannato a 22 anni di carcere per traffico di stupefacenti. Da 14 anni, da uomo libero, si occupa del recupero delle persone detenute ed è un punto di riferimento per le loro famiglie. Nel corso di tale attività ha denunciato, unitamente al Garante dei detenuti della Campania Adriana Tocco e alla Onlus “il carcere possibile”, quanto avveniva nella Casa Circondariale di Napoli – Poggioreale nella famigerata cella zero. Oggi il processo è pendente in primo grado e vede imputati alcuni agenti della Polizia Penitenziaria. Ha ricevuto il Premio Diritti Umani Stefano Cucchi. Ioia è anche scrittore e attore di cinema e teatro. La sua è una storia di totale recupero e di grande impegno sociale, ma comunque per molti resta un pregiudicato. Una macchia indelebile riportata nel titolo di alcuni quotidiani, all’indomani della nomina e a cui hanno fatto riferimento tutti coloro ( molti purtroppo) che hanno aspramente criticato il sindaco. Quanto accaduto ricorda la nomina di Adriano Sofri a coordinatore di uno dei Tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, quello dedicato alla cultura in carcere. Nonostante avesse scontato la sua pena e fosse da tutti riconosciuto un raffinato intellettuale, per aver anche scritto libri e articoli di fondo su importanti giornali, fu costretto a rinunciare all’incarico. Con le differenze del caso, essendo Sofri e Ioia persone con storie personali del tutto diverse, è di palese evidenza che entrambe hanno una competenza sul carcere che difficilmente può trovarsi in altre figure, pur autorevoli, ma che non hanno conosciuto il mondo dietro quelle mura, che spesso nascondono indifferenza verso i diritti dei reclusi. Se Sofri rinunciò, ci auguriamo che Ioia resti al suo posto, perché la sua nomina è anche simbolo di riscatto ed esempio per altri che hanno avuto un burrascoso passato. La circostanza che il segretario della Lega ed ex ministro dell’Interno si sia subito precipitato a Poggioreale, non per visitare il carcere, ma per sostenere – in un luogo non deputato a comizi politici – gli attacchi dei sindacati di Polizia Penitenziaria contro la delibera del Comune, è l’ennesima prova che in Italia si sta esplicitamente promuovendo un sentimento di odio verso le minoranze, tra cui ci sono immigrati e detenuti. Una campagna elettorale e non solo – che mira ad eliminare la tutela dei diritti di tali persone, le garanzie ed i Garanti. Le ulteriori recenti critiche all‘ Ufficio del Garante Nazionale da parte dei sindacati della Polizia Penitenziaria, che continuano ad avere sostegno e solidarietà da alcune forze politiche, è un segnale inquietante che dovrebbe far riflettere tutti coloro che hanno a cuore la civiltà giuridica del nostro Paese, fino ad oggi tutelata dalla Costituzione.
Responsabili Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane
L’assurdo attacco di Salvini ai garanti dei detenuti. Stefano Anastasia il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. Chi conosce e frequenta le carceri italiane sa bene che la situazione è molto delicata: il sovraffollamento penitenziario è arrivato di nuovo ai limiti della tollerabilità, i detenuti ne soffrono, i lavoratori anche. Servirebbe uno sforzo straordinario di tutte le istituzioni per contenere gli ingressi in carcere, per facilitarne le uscite, per ottimizzare le risorse umane e finanziarie nel perseguimento dei fini costituzionali della pena. Servirebbe un’adeguata sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Invece alcune organizzazioni sindacali, e ieri anche il segretario della Lega Matteo Salvini, non trovano di meglio che alimentare una pretestuosa polemica contro i garanti dei detenuti: contro il Garante nazionale, reo di aver esposto le proprie legittime considerazioni su un video istituzionale che non valorizza le specifiche competenze professionali della polizia penitenziaria e la rappresenta impropriamente come una fucina di corpi speciali destinati a funzioni militari; contro il Sindaco di Napoli, reo di aver nominato Garante di quella città un ex-detenuto. Tralasciamo l’inconsistenza delle critiche. Naturalmente il Garante nazionale ha competenza sui percorsi formativi del personale penitenziario, e dunque anche sugli strumenti di cui a tal fine si dota l’Amministrazione competente: noi garanti sappiamo bene che la prima condizione per la tutela della dignità dei detenuti e per il perseguimento dei fini costituzionali della pena è la qualificazione professionale degli operatori penitenziari, a partire dagli agenti che vivono gran parte della loro giornata lavorativa in sezione, a diretto contatto con i detenuti, con le loro problematiche e i loro bisogni. D’altro canto, Pietro Ioia, il neo-garante napoletano, non è il primo e forse non sarà l’ultimo dei nostri colleghi con una passata esperienza detentiva. Ha ragione il Presidente della Camera Fico, quando ricorda che «è giusto dare una occasione a chi ha scontato la sua pena e completato la fase rieducativa»: è quanto prescrive la Costituzione. Certo, questo non significa che tutti gli ex-detenuti possano o abbiano le capacità per fare i garanti, ma se il loro percorso ne ha testimoniato le competenze e l’attitudine, perché un simile incarico gli deve essere precluso? Sulla base di quale titolo discriminatorio? Ma lasciamo perdere, dunque, le polemiche strumentali. Piuttosto preoccupa la abusata e stucchevole contrapposizione tra poliziotti e detenuti. Perché i detenuti hanno i garanti e i poliziotti no?, ci si chiede. Perché hanno gli avvocati e i poliziotti no? È banale rispondere che i primi hanno commesso (o sono stati accusati di aver commesso) dei reati abbastanza gravi da costringerli in carcere, mentre i poliziotti sono funzionari dello Stato a cui sono affidate delicate responsabilità pubbliche? E perché i poliziotti dovrebbero essere assistiti da garanti e avvocati? Non gli bastano le rappresentanze sindacali? Quale parallelo si può fare tra queste due condizioni? Non si rende conto, chi lo fa, che in questo modo equipara i poliziotti ai detenuti, e che in questa equiparazione c’è la condivisione della degradazione che i detenuti istituzionalmente subiscono? È questa l’idea che Salvini e quei sindacati hanno dei poliziotti penitenziari? I Garanti dei detenuti, a livello locale come a livello nazionale, nascono con l’intento di contribuire in via informale alla tutela e alla promozione dei diritti di persone che sono costrette, seppur legittimamente, in una condizione di particolare vulnerabilità. Sì, è vero, in qualche caso ci è toccato segnalare all’Autorità giudiziaria competente maltrattamenti che sarebbero stati commessi nei confronti delle persone detenute (se così è stato, non siamo noi a deciderlo: come garanti siamo garantisti sempre), ma assai più frequentemente interveniamo a raccomandare soluzioni alle doglianze dei detenuti che vanno incontro anche alle esigenze del personale penitenziario, a partire da quello di polizia. Questo è il nostro lavoro e il nostro impegno, dalla parte dei detenuti, certo, per il perseguimento dei principi e delle finalità costituzionali in materia di privazione della libertà e di esecuzione della pena, quegli stessi principi che motivano il lavoro e l’impegno degli operatori penitenziari, cui va il nostro ringraziamento per l’abnegazione con cui concorrono ad affermarli.
L’auto-garantismo di Salvini, attacco alla magistratura: “Soldi sprecati per la mia inchiesta”. Ciro Cuozzo il 13 Dicembre 2019 su Il Garantista. “Quelli che mi stanno indagando per sequestro di persona o per spreco di denaro pubblico stanno perdendo tempo e sprecando soldi”. Garantista con se stesso e con il suo partito, la Lega, giustizialista quando invece si tratta di commentare i ‘guai’ giudiziari altrui. Matteo Salvini non si smentisce e al termine della sua visita nel carcere di Poggioreale a Napoli attacca la magistratura per l’inchiesta sui voli di Stato dove il segretario del Carroccio è indagato per abuso d’ufficio dalla Procura di Roma per 35 voli di Stato, risalenti al periodo in cui era ministro dell’Interno. “Ognuna di quelle presenze era istituzionale” commenta Salvini a margine della conferenza stampa tenuta poco dopo mezzogiorno all’Holiday Inn. “Se poi dopo aver inaugurato la sede di Corleone incontravo anche i cittadini, era un lavoro in più di cui mi facevo carico io. Che però venga contestato al ministro che si occupa di polizia di usare l’aereo della polizia per andare a incontrare poliziotti o a inaugurare caserme o commissariati credo sia surreale”. Poi l’attacco ai magistrati che indagano su di lui: “Temo che qualcuno stia sprecando denaro pubblico per fare indagini che finiranno nel nulla ma che costano migliaia di euro al contribuente italiano. Se avessi preso l’aereo di linea, con tutto lo staff, l’Italia avrebbe pagato molto di più”.
L’ATTACCO A CHI HA SCONTATO 22 ANNI DI CARCERE – Dopo il profilo garantista relativo alle vicende giudiziarie della Lega, Salvini, così come avvenuto con altre inchieste (Bibbiano e Riace e l’omicidio Cucchi) indossa nuovamente i panni del giustizialista e inizia ad attaccare tutti, anche chi, come Pietro Ioia, ha scontato 22 anni di carcere per spaccio di droga e nei giorni scorsi è stato nominato dal comune di Napoli garante dei detenuti della città partenopea. “E’ uno schifo la sua nomina fatta da quel genio di de Magistris contro cui la Lega ha fatto e farà ricorso in ogni sede possibile e immaginabile. Se uno è stato in carcere per spaccio di droga, non penso possa garantire nessuno. Mi sembra l’ennesima scelta politica di de Magistris, per cui in molti gridano alla vergogna”. “Chi sbaglia paga però a tutti va data una seconda chance, certo. Mi sembra che il signore scelto da de Magistris – ha sottolineato – abbia tutt’altra caratura. Al bando, a quanto mi hanno detto, c’erano professori di scuola, ex direttori di carcere e uno mi sceglie il paladino dell’abuso dal parcheggio alla droga. Chiamerò oggi stesso il perfetto perché, anche se non sono più ministro dell’Interno, non si può allentare la presa”.
NIENTE VISITA AI DETENUTI – Salvini nel carcere di Poggioreale ha incontrato solo gli agenti della polizia penitenziaria e il direttore Maria Luisa Palma. Nessuna visita invece ai detenuti, stipati come sardine in celle dove spesso convivono anche 12 esseri umani (non animali). Il segretario della Lega rimarca i numeri raccapriccianti del penitenziario napoletano (2117 detenuti rispetto a una capienza di 1644) e si schiera sempre al fianco delle ‘guardie’. “Bisogna ridurre la forbice tra sovraffollamento, circa 500 detenuti in più, e lo scarso numero di poliziotti presenti, ne mancano almeno 150”.
TRIS DI SENATORI GRILLI – Sull’arrivo tra le fila del Carroccio dei tre grillini Ugo Grassi, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, Salvini respinge le accuse, condanna le parole di Conte e Di Maio (“ma non li querelo, almeno per ora) e smentisce qualsiasi accordo per una poltrona: “Io stimo doppiamente chi passa dalla maggioranza all’opposizione. Non lo fanno perché gli abbiamo promesso qualcosa di garantito, l’hanno fatto perché non ce la facevano più, dei Bonafede e della clamorosa incapacità dei Cinquestelle. Sono dichiarazioni squallide quelle di Di Maio e di Conte. I tribunali italiani sono già intasati, per cui querelo solo nei casi gravi. Se vanno avanti a parlare di mercato delle vacche, di tanto al chilo, sarò costretto a farlo”.
“CONTE SI RICORDI CHE E’ PREMIER” – “Si dovrebbe ricordare che non fa il battitore d’asta, ma il presidente del Consiglio di una potenza mondiale. La sintesi dell’ultima intervista è: state al governo con noi perché abbiamo le poltrone, chi ve lo fa fare di andare all’opposizione” ha commentato Salvini.
BENEDIZIONE CALDORO – In vista delle Regionali in Campania, Salvini benedice la candidatura di Stefano Caldoro avanzata nelle scorse settimane da Silvio Berlusconi: “Quando ha governato, lo ha fatto positivamente. Fosse quello il nome, non avrei nulla da eccepire”. Parole diverse invece l’ex sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, la cui candidatura a Governatore non è stata approvata dalla Lega: “Non ho il titolo io a dare patenti di bocciatura o promozione. In Calabria ho fatto un ragionamento ad alta voce: il comune di Cosenza è stato dichiarato in dissesto, non è il miglior biglietto da visita. Se la Corte dei Conti dichiara in dissesto il Comune per tre anni, c’è qualcosa di oggettivo. Non è antipatia di Salvini per Tizio o Caio”.
Carceri, le storie raccontate da Nessuno tocchi Caino. Gioacchino Criaco il 24 Dicembre 2019 su Il Riformista. C’è un nubifragio ostinato intorno a Milano, rancoroso di bibbia, l’acqua del cielo si unisce agli effluvi di una terra umida. La Pianura raccoglie gli scrosci, li precipita sul penitenziario di Opera e la pioggia supera la sbarra mobile, s’infila di soppiatto oltre le porte, da un cancello all’altro si fa passo silenzioso, percorre corridoi infiniti e beffarda intona la disamistade di De Andrè, per dire che non c’è un altro modo di vivere senza dolore. Dentro il carcere, per chi si chiede cosa sia il carcere, il dolore è un sentimento fisico, un’acqua che informa gli uomini e uragano dopo uragano ne spazza le anime, canne umane la cui unica missione è non spezzarsi. Insieme alla pioggia nel carcere ci entra il freddo, si fissa nelle ossa e le comanda anche in piena estate. Dentro fa sempre freddo, soffia perenne il gelo del maestrale e l’umidità tanfa pure se non c’è. Cancelli e corridoi, silenzi e tempi infiniti, scarpe pulite e facce pallide sono le divise dei detenuti e uno sguardo che è per tutti uguale. I giusti hanno ricacciato il male dentro enclave di cemento e acciaio e la Ong di Nessuno Tocchi Caino è venuta a forare i muri, andando oltre la speranza di non farcela, per sperare ancora: Spes Contra Spem, nel mantra di Marco Pannella che dentro Opera risulta ancora vivo, mischiato ai presenti nella sala del teatro che porta il suo nome. Due giorni di discussione, venerdì e sabato, per parlare di diritto penale e di qualcosa che sia migliore del diritto penale per regolare i rapporti fra gli uomini, di una via che non annichilisca le vite di chi sbaglia, e che non disperda l’umanità buona di cui ognuno è portatore. Parlano Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, segretario, presidente e tesoriere, vecchi e riconfermati, di Nessuno Tocchi Caino. Parlano Gherardo Colombo, Luigi Pagano, Mauro Palma. Parlano esperti e tecnici. Parlano i detenuti. Ci si alterna fra uno di dentro e uno di fuori. Ecco, per chi vuol sapere cosa sia la galera basta ascoltarli: fuori ci si dimentica al pomeriggio di cosa si sia fatto la mattina, dentro, Antonio spacca il tempo fino al microsecondo: sa quante telefonate ha fatto in 26 anni, quante lettere ha ricevuto, quanti colloqui ha avuto, potrebbe elencare ogni suo capo d’abbigliamento dell’ultimo ventennio. Dentro, il nulla diventa essenziale, e l’essenziale è l’invisibile agli occhi del Piccolo Principe: l’affetto, il coraggio, la tenacia. La certezza di non essere il macero per la carta. Stefano Castellino è venuto da Palma di Montechiaro, dove è sindaco, per abbracciare gli ergastolani suoi compaesani. “Sono anche il vostro sindaco”, dice, celebrano insieme la memoria della vita spezzata di un grande e giovane magistrato, Rosario Livatino, e il fiato manca a chiunque si trovi nel teatro. Per un attimo sorge un sole meridionale che mette in fuga la pioggia, che inchioda ai muri il freddo. Un’onda calda avvolge tutti e Opera, la gatta di Opera che non si è persa nemmeno una delle parole pronunciate nel teatro, si accovaccia al centro del palco, smette di rincorrere i bicchieri che ha sottratto agli oratori e fissa gli occhi sui Palmesi. Raffaele cerca orecchie per perorare la causa di un suo compagno di pena che dopo 20 anni di 41bis era riuscito ad andare in permesso e ora, arrivando da un altro carcere, deve ricominciare daccapo. Raffaele pure s’è fatto 16 anni di 41, su 34 passati dentro, non vede i figli da 15 anni. Li obbliga a non vederlo perché non vuole che le sue colpe ricadano su di loro: 5 figli laureati e sistemati, la sua impresa. Vito dopo 23 anni andrà in permesso per la vigilia di Natale, 2 giorni senza i quadretti delle sbarre a filtrare il cielo dai suoi occhi. Sa che non dormirà per la paura di tornare in carcere durante il sonno e di vedersi portata via una pausa al dolore inseguita per 23 anni. Sul palco è il turno di Sabrina, lei è di quelli di fuori, viene da Acireale, parla e piange perché prima di lei ha parlato e ha pianto Corrado, che è di quelli di dentro, che venerdì si è sentito meno solo perché c’era la sua compaesana. I detenuti dicono che Marco Pannella non è mai morto, ha scelto di rimanere dentro, si è incarnato nella gatta di Opera, Opera, e svanisce e poi torna dietro le sbarre, congiunge due mondi che non si parlano se non per mezzo di creature strane e straordinarie, convinte che ci sia qualcosa di migliore rispetto al diritto penale. Che per migliorare il carcere serva migliorare quelli di fuori, dargli la possibilità di essere migliori, perché non sanno davvero quanto inutile dolore, oltre ogni necessità, venga inflitto a quelli che stanno dentro. Non potranno mai sapere quanta selvatica primordialità contengano i durissimi regimi carcerari di un Paese che si sente troppo buono. Quelli di Nessuno Tocchi Caino hanno dedicato 2 giorni di discussione nel carcere di Opera perché la speranza di chi sta dentro vada oltre la spietatezza di una società ignava, che non vuole scoprirlo che dentro il carcere Caino non c’è.
Arrestato per errore e dimenticato ai domiciliari: l'assurdo caso di Donato. Il giudice lo aveva liberato. Neanche il suo avvocato si era accorto. Adesso chiede un risarcimento per ingiusta detenzione. Valentina Dardari, Domenica 17/11/2019, su Il Giornale. Incredibile avventura quella accaduta a un 43enne di Rozzano, comune in provincia di Milano e raccontata da Il Giorno. L’uomo ha ingiustamente passato un anno ai domiciliari quando invece sarebbe dovuto essere libero. Un errore dopo l’altro che lo ha costretto alla detenzione. Adesso, quando finalmente tutto si è chiarito, il 43enne chiede un risarcimento per ingiusta detenzione. La vicenda è iniziata nel luglio 2017, quando l’uomo è stato arrestato, processato e condannato a un anno e tre mesi di reclusione per favoreggiamento di un latitante ospitato nella sua abitazione di Rozzano, alle porte della città lombarda. Nonostante alcuni precedenti penali, il giudice del tribunale di Milano aveva deciso di dargli fiducia e rendergli la libertà. Nel provvedimento si dava spazio a misure alternative, come l’affidamento in prova. Sul documento si leggeva “Si ritiene che la presente vicenda processuale possa sortire adeguato effetto deterrente e non si renda necessaria l’applicazione di ulteriori misure cautelari”.
Un errore dopo l'altro. L’uomo si è quindi recato alla caserma dei carabinieri di Rozzano per esibire il provvedimento. Il militare presente in quel momento, come ammesso dal comandante della stazione, ha commesso un errore, credendo che “si trattasse della sostituzione della custodia cautelare con la misura meno afflittiva dei domiciliari ha redatto il verbale di sottoposizione che certifica che, da quel momento, il Comando ha assunto l’onere dei controlli sulla persona sottoposta a misura restrittiva”. Ma non è finita qui. Infatti poche ore dopo, il suo avvocato d’ufficio, che non si era reso conto che il suo assistito era stato liberato, aveva chiesto al Tribunale l’autorizzazione per il suo cliente ad allontanarsi da casa per alcune ore durante la giornata per fare la spesa o recarsi alle cure mediche. Il nuovo giudice gli ha quindi concesso di uscire dalla propria abitazione dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18.
Nessuno lo ha ascoltato. Nonostante il poveretto continuasse a ripetere che doveva essere libero, nessuno gli dava retta. A questo punto l’uomo ha deciso di cambiare avvocato e si è rivolto al legale Debora Piazza, la quale è riuscita a ricostruire tutta l’assurda vicenda. Il suo assistito è così riuscito a ottenere la cancellazione degli arresti domiciliari. Come spiegato dal legale “Presenteremo una richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione si tratta di un gravissimo errore giudiziario e mi piacerebbe che in futuro si facesse una maggiore attenzione nella lettura degli atti, perché è in gioco la vita delle persone”. Nei giorni scorsi il 43enne ha ottenuto l’assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste”. L’uomo era infatti stato anche accusato di aver evaso i domiciliari perché trovato per strada con i suoi cani.
Gli negano il permesso premio, fa ricorso: lo respingono per un ritardo di 28 minuti. Damiano Aliprandi il 17 novembre 2019. Per la Cassazione ci sono elementi di incostituzionalità sui quali si esprimerà la Consulta. Il tempo scadeva, dopo 24 ore dalla notifica, alle 8 e 44, ma le celle sono chiuse fino alle 9, ora in cui iniziano tutte le attività negli istituti. Il tempo è una dimensione particolare per chi è detenuto, e può accadere di sforare per pochi minuti quello massimo per proporre reclami. La Corte Costituzionale dovrà occuparsi proprio di questo. Il 30 ottobre scorso la Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30-bis, comma terzo, in relazione all’articolo 30-ter, comma 7, legge del 26 luglio 1975, numero 354 (Ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di Sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore. Cosa è accaduto? Un detenuto aveva fatto ricorso per un rigetto alla sua richiesta del permesso premio, ma è stato dichiarato inammissibile. Il motivo? Il provvedimento di rigetto era stato comunicato il 13 novembre 2018 alle ore 8.16 e il reclamo era stato depositato il giorno successivo alle ore 8.44. Dunque ha sforato le 24 ore, quindi fuori tempo massimo come prevede l’articolo dell’ordinamento penitenziario. Il detenuto ha fatto ricorso in Cassazione. Tra le argomentazioni, una è il fatto che il tribunale di Sorveglianza non ha svolto alcun accertamento in ordine alla possibilità del reclamante di presentare il reclamo in orario antecedente a quello delle ore 8,44 del giorno successivo a quello di notifica: se le celle sono chiuse fino alle ore 9,00 del mattino, orario dal quale iniziano le varie attività socio- ricreative, rieducative e lavorative, prima di quell’orario è impossibile uscire dalla cella e accedere a qualsivoglia altro locale dell’istituto senza apposita autorizzazione, quindi anche presentare reclamo. La Corte suprema ha ritenuto la questione non manifestamente infondata. Nella sua ordinanza di rimessione, la Cassazione rilevato vari punti di incostituzionalità, tra le quali quelle in tema di violazione del diritto di difesa: viene sottolineato che bisogna considerare lo squilibrio che si realizza tra le opportunità di impugnazione riservate alla parte pubblica e al detenuto. Violerebbe anche l’articolo 24 della Costituzione laddove il termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo si rivelerebbe incapace di assicurare alla parte, che intenda fare reclamo, di un tempo utile per articolare la sua difesa tecnica da sottoporre al Tribunale di sorveglianza con l’assistenza di un avvocato. Osserva la Cassazione che per evitare il rischio di una pronuncia di inammissibilità il detenuto necessita dell’assistenza di un difensore, seppur non sia imposta per legge: il punto è che l’effettività della difesa viene compromessa proprio a causa della spiccata brevità del termine concesso per il reclamo. Da un lato il sistema consente all’interessato di richiedere l’intervento e l’assistenza della difesa tecnica, ma dall’altro non gli pone le condizioni per esercitarla. Partendo da queste considerazioni, la Cassazione ha osservato che rispetto ad una precedente pronuncia, oggi esiste un riferimento normativo che consentirebbe alla Consulta di rideterminare essa stessa il termine rintracciandolo nell’ordinamento. Precisamente nel 1996 (sentenza 245) la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibile la stessa questione perché era impossibile «rintracciare nell’ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata», tale da consentire di porre rimedio alla brevità del termine «rideterminandolo essa stessa». È da dire che in questa pronuncia, la Consulta auspicò un rapido intervento legislativo per la fissazione di un nuovo termine capace di contemperare «la tutela del diritto di difesa con le ragioni di speditezza della procedura» : intervento che non ci fu, anche se nel frattempo è avvenuta una vera e propria «giurisdizionalizzazione del reclamo avverso gli atti dell’Amministrazione penitenziaria asseritamente lesivi di diritti» : si pensa all’articolo 35- bis dell’ordinamento penitenziario che ha previsto il termine di quindici giorni per la proposizione del reclamo contro la decisione del Magistrato di sorveglianza. È proprio questo termine di 15 giorni che potrebbe costituire un punto di riferimento.
Don Rigoldi: «I miei 30 mila ragazzi nel carcere Beccaria: ora serve un nuovo centro giovanile». Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Carcere minorile Beccaria, dieci del mattino, ufficio di don Gino Rigoldi: due sedie, un tavolino, finestra spalancata che dà sull’interno del penitenziario e stop, ma è ovvio così, altrimenti non sarebbe lui, don Virginio detto Gino, nato a Milano il 30 ottobre 1939, quartiere Crescenzago, periferia, ed è ovvio anche questo.
Intanto, buon compleanno. Quante vite ci sono nei suoi ottant’anni?
«Pensavo: è dal 1972 che vivo in questo luogo. Una delle mie case. Da allora sono passati trentamila ragazzi».
E li ha conosciuti tutti?
«Direi di sì. Anche oggi, come del resto ieri, come domani, io starò nelle celle. Non ricevo mica: vado da loro. Senza paura».
Paura?
«Non la paura fisica... Su, non scherziamo... Intendo la paura di entrare nella sofferenza, nei tormenti, nella legittima richiesta di risposte».
Gli telefonano. Don Gino ascolta la domanda, appoggia il cellulare su uno degli inconfondibili suoi golfini, dice: «Quando finiamo con questa intervista? Tre minuti bastano?». Beh no, don, considerato che abbiamo iniziato da quattro minuti, magari potremmo... Riprende il telefonino, dice: «Cinque minuti e ho terminato». A posto.
Oggi al Beccaria ci sarà una grande festa organizzata dai suoi ragazzi.
«Mi ha fermato uno prima, ha detto: “Auguri di cuore”. E io: “Grazie, ma caspita, sto diventando proprio vecchio”. E lui: “Non lo dica nemmeno, non può mica lasciarci tutti quanti orfani”».
Adesso: dei progetti in cantiere del don, si perde il conto. Dopodiché, bisogna rispettare una specie di giuramento, non menzionando alcuni dei medesimi progetti. Di altri, si può benissimo parlare. Per esempio del centro giovanile («Festeggio il giusto e torno subito a lavorarci sopra»).
Dunque, parliamone.
«Qualche finanziatore l’ho già trovato. Ma non basta. Non basta mai. Quindi spero che si facciano avanti altri generosi. So che succederà. La mia idea è la seguente: un grande centro giovanile che unisca l’oratorio a una scuola di mestieri, la preparazione per appunto a un lavoro, con gente che te lo insegna, e non per forza, con tutto rispetto, saranno solo lavori manuali non difficili da apprendere, e allo stesso tempo sarà uno spazio per il gioco, il divertimento, le letture, il pallone, il teatro. Ci saranno appartamenti dedicati a particolari situazioni e ci saranno fruitori chiamiamoli così di giornata che verranno, che so, a imparare a suonare la chitarra. Sarà una grande eterogenea comunità, una comunità aperta su questa Milano - che, ahimé, e apro una parentesi, vede correre i prezzi ma non gli stipendi -, e con un concetto di base. Fondamentale: la capacità di fare gruppo. Che rimane uno dei migliori strumenti per aiutare questi giovani di oggi, così a volte ossessivi nella bassa auto-stima».
Perché?
«Per paura, scelgono di isolarsi. Una forma di difesa. Ma se noi adulti incentiviamo le occasioni di stare insieme, forniamo un aiuto unico».
C’entrano i genitori, c’entrano sempre.
«Oh, i genitori... Spesso misurano i figli - quello che fanno, come lo fanno, quello che pensano, quello che dicono - su una personale scala di giudizio, che corrisponde banalmente al proprio successo o insuccesso... Non ci sei tu, figlio, ci sono io... Anche se, per la cronaca, questi genitori contemporanei non hanno certezze nel futuro, vedono tutto nebuloso, e questo non aiuta... Ogni estate mando un centinaio di ragazzi in Romania, nei centri di aiuto alle fasce deboli. Quando tornano sono gasatissimi. Stando l’uno al fianco dell’altro, diventa un processo naturale quello di lasciarsi andare, svelare un’angoscia, confidare un sogno. Parlare, ascoltare. Insomma, il concetto di comunità; e il concetto dell’amore, sempre lì si torna».
Stiamo sui giovani. La droga.
«Pensavo che certe stagioni, quelle da adolescenti dei sessantenni di oggi, quando l’eroina dimezzava classi d’età, ecco, non si sarebbero ripresentate... Un’emergenza enorme, la droga. Sto spingendo per la nascita di una comunità terapeutica per tossicodipendenti. In questa vita servono i fatti. I fatti, e poi certamente i luoghi adatti, e il personale giusto. Così come anche fra i detenuti minorenni in parecchi hanno problemi di natura mentale, conseguenza di traumi psichici atroci - chi ha attraversato prima l’Africa e poi il mar Mediterraneo - che non possono essere gestiti in carcere».
Il tempo è terminato, don Gino esce dall’ufficio, lascia il Beccaria, attraversa la strada di corsa, sì, proprio di corsa, verso il prossimo interlocutore che l’aspetta, e sarà uno dei mille di giornata. Ovvio.
Concludendo, don?
«Ho tante ma tante e tante di quelle cose da fare, che mi serve ancora e ancora tempo. Un sacco di tempo. Con l’intervista va bene, sem a post?».
Delitto e castigo. La guerra sanguinosa che si sta combattendo nelle carceri italiane. Da San Gimignano a Torino: detenuti ammassati e rabbiosi contro agenti di custodia malpagati che perdono la testa. E così scattano i primi processi per il reato di tortura. Ma una possibilità per cambiare le cose c’è. Giuseppe Catozzella il 28 ottobre 2019 su L'Espresso. Ci hanno maltrattato in prigione, e così vigliaccamente, che invidio le vostre torture. Grazie all’azione del calore la pianta è cresciuta. Lo scrive Jean Genet nel “Giovane criminale”, opera del 1949 che come tutte le sue decostruisce i rapporti di forza e i giochi di società della borghesia, anticipando gli studi sulla follia e sulla prigione di Foucault. Il calore delle vostre botte ci ha resi più forti. Questo valeva nel 1948 e vale ancora oggi. Valeva in Francia, e vale di più in Italia, dove le carceri non hanno mai smesso di essere luoghi di guerra tra guardie e ladri. «A me hanno dato qualche anno», dicono i detenuti agli agenti di polizia penitenziaria, «tu qua dentro te ne farai quaranta, fino alla pensione». Questa storia è la storia di un fantasma dentro un carcere, quello di San Gimignano: sovraffollato, senza rete fognaria e senza un direttore stabile. Il fantasma è un ragazzo tunisino di 31 anni lì detenuto per scontare una pena a un anno di reclusione. È la storia di un ragazzo senza nome per il quale altri detenuti in regime di sicurezza (camorristi e trafficanti di droga) hanno chiesto giustizia di fronte a un tribunale italiano. Delinquenti specializzati che si appellano allo Stato perché faccia giustizia contro se stesso, a favore di un delinquente. Parrebbe un cortocircuito e invece non lo è, si chiama diritto. Questa è la storia di un ragazzo senza nome che suo malgrado si è infilato nella guerra senza fine che si combatte nelle nostre prigioni. «Il ragazzo gridava di dolore, sempre più forte», hanno scritto gli altri detenuti alla procura di Siena. «Lo picchiavano con pugni e calci» mentre era a terra, «una guardia gli ha messo un ginocchio alla gola», «gli hanno calato i calzoni» e hanno continuato a pestarlo. Poi il ragazzo sarebbe svenuto e sarebbe stato lasciato a terra. «Tornatene nel tuo paese», gli gridavano le guardie. Quindici sono indagate, quattro sono state sospese. È la prima volta nella storia d’Italia che pubblici ufficiali vengono indagati per il reato di tortura, che fino a due anni fa neppure esisteva nel nostro ordinamento penale. La storia di questo ragazzo fantasma, che sarebbe stata solo una delle migliaia di storie invisibili di pestaggi e umiliazioni che si consumano dentro le carceri, è diventata pubblica grazie a quelle denunce ma soprattutto grazie all’esistenza di un video, ora nelle mani del pubblico ministero, che proverebbe le torture. «Senza quel video non se ne sarebbe fatto niente, in carcere la voce di un detenuto conta zero rispetto a quella di una guardia». È Salvatore Striano a dirmelo, oggi attore di teatro e di film come “Gomorra” e “Cesare deve morire” dei Taviani, per più di dodici anni detenuto a Poggioreale e a Secondigliano per i reati commessi quando stava in strada tra i clan di camorra. Ma quando a muovere i meccanismi della giustizia sono necessari dei documenti filmati e non bastano le denunce circostanziate non è una buona notizia per nessuno. Cosa sarebbe stato del processo per la morte di Stefano Cucchi se non esistesse quel film straordinario che è “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini? Lì addirittura c’è un passaggio successivo: è il potere dell’arte di mettere nero su bianco la realtà, di mostrarla non soltanto nella sua singolare crudezza ma di farla vedere in filigrana, di esporne la radiografia, a portare il carabiniere Francesco Tedesco alla confessione e alla denuncia degli altri colleghi che ha ribaltato il processo, inchiodando i difensori dello Stato alla loro brutalità. Lì è stato un film, qui è l’asettico video di una telecamera di sorveglianza. Cosa sarebbe stato di questo fantasma tunisino senza quel video? «Niente, nessuno se lo sarebbe cagato», mi dice Striano. «Devi capire che nelle carceri italiane c’è la guerra. È il sistema che non funziona, che rende il detenuto passivo, inattivo, rabbioso. È il sistema che lo fa uscire peggio di come è entrato. Quando io stavo a Poggioreale c’era la Cella zero. Arrivava la “squadretta”, cinque o sei agenti di polizia penitenziaria. Ti chiudevano là dentro e ti pestavano a sangue. Per vendicarsi di un’offesa, di una parola violenta, di un gesto d’ira. Ma non li condanno. Sono pochi, non hanno mezzi, sono abbandonati a se stessi. La maggior parte di loro è gente buona, poi c’è quello violento, e gli altri che non sanno opporsi. Davvero vogliamo lasciare le carceri nelle sole mani delle guardie? Così la guerra crescerà sempre di più. Noi andavamo da loro e dicevamo “Tu qua dentro ci starai fino alla pensione, io tra qualche anno esco”, e lo sapevamo che poi significava essere portati nella Cella zero. Ma era quello che volevamo. Picchiare, essere picchiati, sfogarci. Perché la galera così come è in Italia è il contrario della rieducazione, è abbrutimento». Un abbrutimento che trova conferma in quello che è successo a Torino pochi giorni dopo i fatti di San Gimignano: sei agenti della polizia penitenziaria della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” arrestati con l’accusa di aver commesso atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti. Sotto inchiesta dopo le denunce di gravi maltrattamenti è anche il carcere Mammagialla a Viterbo, dove l’anno scorso si sono uccisi due detenuti di 36 e 21 anni. L’ultimo sucidio è invece avvenuto nella prigione di Marassi, Genova, martedì 22 ottobre: un italiano di 53 anni, con problemi di alcolismo e in attesa di giudizio. A Marassi ci sono 730 detenuti che devono convivere in spazi per 525 posti e nel primo semestre del 2019 ci sono stati quasi cento atti di autolesionismo. A livello nazionale, nel 2018 ci sono stati 67 suicidi nelle carceri e 2.884 morti negli ultimi 19 anni. Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, diceva Dostoevskij, poiché è dal modo in cui una comunità tratta “il male” che si genera dal suo stesso seno che si vede la tempra del suo “bene”, del suo ordinamento civile. Le carceri italiane parlano chiaro della nostra attenzione per i diritti, come denuncia l’associazione Antigone: nel 2013 la Corte europea per i Diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per i «trattamenti inumani e degradanti» subiti dai detenuti; il sovraffollamento è cronico (ci sono diecimila carcerati più dei letti disponibili), e in alcuni istituti (Taranto, Como) tocca il 200 per cento; mancano cinquemila agenti di polizia penitenziaria; nel 35,3 percento delle strutture non c’è acqua calda; il 7,1 percento non dispone di riscaldamento funzionante; nel 20 per cento non ci sono spazi per permettere ai detenuti di lavorare; nel 18,8 percento delle celle non si rispetta la soglia minima dei tre metri quadri per detenuto, e nel 54,1 per cento non c’è la doccia. Le carceri italiane sfidano a uno dei più complicati esercizi privati di democrazia. Lì dentro ci finisce chi ha sbagliato, chi ha agito contro la società, ed è giusto che saldi il debito con la giustizia. Ma questo facilmente può portare chi sta fuori a non voler vedere ciò che accade nella fortezza. Chi ha sbagliato deve pagare, e se si calca un po’ la mano tanto male non farà, ci diciamo. Ma pensando così, o semplicemente scegliendo di non pensarci, siamo già ricaduti a nostra volta dentro l’illegalità. Perché in un carcere non può accadere qualunque cosa, e come dice l’articolo 27 della Costituzione «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione». Ma la rieducazione, dentro le carceri italiane «purtroppo è lasciata al singolo caso», dice Sasà Striano, ora attivissimo in progetti di recupero e volontariato dietro le sbarre, amatissimo dai galeotti. «Quando stavo a Secondigliano c’era un detenuto che se non si metteva a cantare prima di andare a letto non riusciva a dormire. Lo chiamavano zio Alfonso e la sua voce rimbombava in tutta la sezione. Le guardie andavano, e ogni sera lo menavano, gliene davano tante finché non smetteva. Poi un giorno lo psicologo ha detto: zio Alfonso ogni sera può cantare due canzoni. Aveva pure una bella voce, e ci teneva compagnia, non faceva male a nessuno, a noi piaceva, portava allegria. Così ha smesso di prendere le botte. Basterebbe cercare di rompere il muro tra guardie e ladri, e questo si potrebbe fare facilmente. Ma nel momento in cui entri in galera sai che stai andando in guerra, che non potrai vivere pacificamente, che nessuno ti lascerà in pace, nemmeno volendo. Sono luoghi sovraffollati pieni di delinquenti e dall’altra parte di gente frustrata e malpagata, gente che a lavoro non può neanche guardare il telefono, gente che magari sta a 800 km da casa e dorme in caserma, gente che al di fuori della prigione non ha una vita vera. Comunque il peggio che ti possono fare non è gonfiarti di botte. Il peggio è se ti vietano il permesso di uscire quando hai un famigliare malato o in fin di vita. Quella è la peggiore vendetta». Il giovane criminale di Genet ci fa riflettere. È lecito condannare a priori, senza un sussulto di possibile immedesimazione, chi per nascita è già stato condannato all’esclusione e alla crudeltà. Chi è più colpevole, ci porta a domandarci Genet, il giovane criminale fantasma spinto a seguire un destino contrario alle regole della società o chi, al riparo della propria condizione, chiude gli occhi di fronte all’inumanità che si consuma nelle carceri e stigmatizza l’errore senza domandarsi come sia possibile intraprendere la strada per estirparlo? È la famosa “rieducazione” che risuona nella Costituzione. Finché le carceri saranno abitate da guardie e ladri non accadrà. Occorre far entrare, 24 ore su 24, e in tutte le sezioni, i volontari della società civile, che già ci sono ma non hanno accesso alle sezioni, alle celle. Io stesso più volte sono stato nelle carceri a parlare dei miei libri a detenuti che li avevano letti, e conservo ricordi di bellissime chiacchierate. Può apparire paradossale, ma esiste un’equazione tra la gravità del crimine e la sensibilità e la cultura di chi lo ha commesso. Nel carcere di Massa una volta mi sono sorpreso a parlare a lungo di letteratura e di filosofia con un assassino seriale. «Sì, ma quando sanno che devono venire da te, i detenuti cambiano come il giorno e la notte», mi dice Sasà. «Nel tragitto tra le celle e gli spazi comuni avviene il lavaggio del cervello e la trasformazione. Quando sappiamo che dobbiamo incontrare qualcuno di fuori ci trasformiamo, ci rendiamo di nuovo civili.» Perché allora non lasciar entrare stabilmente la rete di volontari nelle sezioni, così da mediare il rapporto con gli agenti penitenziari, e convertire la passività in attività? Perché non creare presidi di umanità, gratuiti per lo Stato, all’interno delle sezioni? La potenza del film dei fratelli Taviani è ricavata proprio da questo: essere entrati per la prima volta dentro le celle, aver mostrato l’animale recluso, lì dove è tenuto lontano dagli occhi della comunità e dove può divenire soggetto non del diritto, ma della legge dell’arbitrio. «Alla vostra furbizia opporrò sempre la mia astuzia», dice Jean Genet, parlando di guardie e di ladri. Ma i due stratagemmi non sono del tutto simili?
Abusi in cella? Tra gli agenti c’è chi dice no alla violenza. Damiano Aliprandi il 30 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Parla Nicola d’Amore, in servizio a Bologna ed esponente del sindacato Sinappe. «Il carcere si sta trasformando in un ghetto, dove il lavoro è sempre più difficile e I detenuti non dovrebbero viverlo come esclusivamente punitivo». Ultimamente sono venuti allo scoperto numerosi episodi di cronaca per presunti abusi da parte degli agenti penitenziari. Pestaggi, uso improprio degli idranti, persone lasciate ammanettate nei passeggi, abuso spropositato dell’isolamento. Non c’è giustificazione alcuna, nonostante la difficoltà evidente nel rapportarsi con detenuti che vanno in escandescenza, soprattutto a causa delle patologie psichiatriche che taluni hanno: chi aveva problemi mentali già da prima, oppure sopravvenuti durante la detenzione. Oppure i detenuti stranieri, i quali hanno il problema della barriera linguistica e, in mancanza di mediatori, si trovano perduti: per comunicare il loro disagio ricorrono all’autolesionismo o, appunto, alla violenza. E gli agenti penitenziari sono quindi giustificati a ripagare con la stessa moneta, nonostante l’oggettiva difficoltà? C’è chi dice no come Nicola D’Amore, agente penitenziario che opera al carcere di Bologna ed esponente del sindacato Sinappe, che da anni si batte per una svolta culturale da parte degli agenti. Sì, perché se da una parte ci sono episodi di evidenti abusi, dall’altra ci sono tantissimi agenti che si comportano professionalmente per sedare i comportamenti violenti dei detenuti. Lui stesso, assieme ad altri suoi colleghi, ne è stato recentemente l’esempio. Un detenuto tunisino, con problemi psichiatrici, era andato in escandescenza in una stanza dell’ospedale del Sant’Orsola, dove era piantonato, e con una sbarra improvvisata, ha distrutto tutto quello che si è trovato davanti. Con lui c’era anche un altro detenuto, quindi in pericolo. Gli agenti, tra i quali Nicola D’Amore, sono intervenuti senza caschi né scudo, ma anche senza mascherine che hanno dovuto richiedere al personale sanitario. Hanno utilizzato una tecnica di mediazione, senza ricorrere a metodi coercitivi. Lo hanno riportato alla calma, senza utilizzare metodi violenti. «Ho avuto la fortuna di stare assieme a colleghi che hanno una cultura diversa rispetto a quella di altri– spiega a Il Dubbio il sindacalista Nicola D’Amore -, abbiamo dimostrato che si può agire diversamente attraverso tecniche diverse e non coercitive». L’agenteevidenzia però che hanno agito da autodidatti. «Ci vorrebbe una formazione diversa, dei corsi professionali che insegnino a comunicare, saper mediare e soprattutto lavorare in sinergia con altre figure professionali indispensabili come gli educatori, medici e mediatori culturali». D’Amore ci tiene a sottolineare che qualcosa sta cambiando con le nuove leve. «I giovani agenti penitenziari spiega l’esponente del Sinappe hanno indubbiamente una formazione diversa, molti hanno avuto anche un percorso universitario e, a differenza del passato, non provengono dall’esercito». Perché è importante? «Il carcere – spiega D’Amore – non è un campo di guerra, ma una comunità dove noi agenti penitenziari non dobbiamo considerarci una specie di corporazione, ma un gruppo che lavora per la società».
Il sindacalista che opera a Bologna non fa sconti a nessuno, nemmeno alla sua categoria. «Noi – spiega D’Amore -, rispetto al passato, abbiamo raggiunto tutele che prima non avevamo, ora dobbiamo pensare alla qualità del lavoro, non ridurci a figura da carceriere, ma promotori dell’opera trattamentale dei detenuti». Lui che è nato a Napoli e conosce quartieri difficili come Scampia, sa che l’ambiente stesso può produrre degrado e fa la comparazione con il carcere. «Non può diventare un contenitore del fallimento dello Stato – spiega -, perché in questo modo si sta trasfor-mando in un ghetto, dove il lavoro è sempre più difficile e i detenuti stessi non dovrebbero viverlo come esclusivamente punitivo». Nicola D’Amore ritiene che gli agenti penitenziari debbano avere anche dei centri di ascolto, in maniera tale da non riversare il loro disagio e le frustrazione sull’anello debole, che in questo caso è il detenuto. Una rivoluzione culturale nel mondo degli operatori penitenziari è quindi possibile.
La Consulta e quel “Viaggio nelle carceri” che ci libera dalle pulsioni vendicative. Francesco Palazzo, Professore emerito di Diritto penale Dipartimento di Scienze giuridiche Università degli Studi di Firenze, su Il Dubbio il 13 ottobre 2019. All’Università di Firenze il 22 ottobre verrà proiettato il film “Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri”. Qualche giorno dopo, l’11 novembre, seguirà una tavola rotonda con gli studenti coordinata dal Presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. Il nostro è un tempo di molte contraddizioni. Una di queste riguarda il carcere e, più precisamente, gli orientamenti che si formano nella società intorno alla (perenne) “questione carceraria”. È incontestabile che il sentire popolare, alimentato anche da demagoghi senza scrupoli, coltiva spesso sentimenti vendicativi che, travisati sotto la nobile domanda di giustizia, in pratica sfociano spesso nella richiesta di “gettare la chiave” della cella o di farvi “marcire” senza scampo il condannato. Ma è altrettanto incontestabile che, d’altra parte, è vivo tutto un movimento di pensiero, che dalle élites degli studiosi si propaga verso gli operatori del carcere e verso larghi e variegati strati di gente comune impegnata sul fronte di una sentita solidarietà offerta anche alla popolazione carceraria. È, quest’ultimo, il segno che il processo di civilizzazione dell’umanità non si arresta nemmeno dinanzi alle forti reazioni emotive suscitate dal male criminale. Non è utopistico dunque insistere nell’alimentare la convinzione del progresso civile dell’umanità, ancorché non sempre – anzi quasi mai – lineare e continuo, anche nel ribollente campo della penalità: e continuare a pensare che, come furono superati i tormenti punitivi dell’antico regime, come si è imposto il prevalente orientamento abolizionistico della pena capitale, così si potrà prima o poi avviare un processo di ridimensionamento della pena carceraria, a cominciare dall’ergastolo, bollato da Papa Francesco come «un problema da risolvere» e non la soluzione dei problemi. In questo quadro di fondo e quale momento di forte impegno civile si pone l’iniziativa dell’Ateneo fiorentino, insieme agli enti territoriali e alla magistratura e all’avvocatura locali, di proiettare per la cittadinanza il docufilm “Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri” ( Firenze, 22 ottobre, in casuale ma significativa coincidenza con il giorno dell’udienza della Consulta sull’ergastolo ostativo). A distanza di qualche giorno ( l’ 11 novembre) seguirà una tavola rotonda dedicata principalmente agli studenti e coordinata dal Presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. I due appuntamenti sono unificati sotto l’espressivo titolo “Bisogna aver visto”, mutuato da un articolo di Piero Calamandrei del 1948, le cui parole ci sono ancora mònito per rimanere sulla via di quella civilizzazione cui – nonostante tutto – non sappiamo né vogliamo rinunciare. Eccole: «Noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento di malfattori».
Presentate 39 interrogazioni bipartisan sulle prigioni italiane. Valentina Stella il 10 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Sovraffollamento, suicidi, condizioni igieniche e sanitarie le questioni principali sottoposte ai ministri della Giustizia e della Salute. Sono 39 le interrogazioni redatte dal Partito Radicale e presentate da parlamentari di vari schieramenti dopo l’iniziativa “Ferragosto in carcere”, durante la quale 278 tra dirigenti e militanti del Partito, avvocati dell’Unione Camere Penali, deputati, senatori e Garanti delle persone private delle libertà personali hanno visitato 70 luoghi di detenzione dal 15 al 18 agosto. Ieri, presso la sala stampa della Camera, sono stati illustrati in sintesi gli atti di sindacato ispettivo indirizzati sia al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che a quello della Salute Roberto Speranza. Il quadro che emerge è quello di carceri sovraffollate, dove sono in aumento i suicidi e azioni di autolesionismo dei reclusi. La situazione è aggravata dalla carenza di agenti di polizia penitenziaria, educatori e psicologi. A ciò si aggiunge l’insufficienza di attività educative o lavorative, per non parlare delle gravissime condizioni sanitarie che coinvolgono soprattutto i malati psichici. I visitatori non hanno poi potuto non notare come in molte celle manchi l’acqua calda, il riscaldamento e i wc siano a vista e spesso a vista e alla turca, e nei bagni non ci siano né finestre né sistemi di areazione. Tutto ciò pregiudica gravemente la rieducazione dei detenuti, come previsto dalla Carta costituzionale. Per Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale, «ogni detenuto non rieducato rappresenta un fallimento dello Stato». La tesoriera Irene Testa ha sottolineato come «la forza e l’alterità del partito sta proprio nell’unire diverse forze politiche intorno al tema delle carceri e delle problematiche dell’intera comunità penitenziaria, detenuti e detenenti, come amava ripetere Marco Pannella». Ed infatti all’incontro di ieri erano presenti parlamentari di varie forze politiche, a partire dal deputato di Forza Italia Roberto Cassinelli: «Dalla XVI legislatura tutti i ministri della Giustizia hanno usato parole di grande attenzione per il tema ma i passi in avanti sono stati davvero pochi». Il suo collega di partito, Roberto Bagnasco, ha «invitato tutti i colleghi a visitare almeno una volta un carcere per rendersi conto che in molti vivono in condizioni disumane». Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha, invece, evidenziato un dato importante: «In questo momento nelle nostre carceri ci sono addirittura oltre 10.000 detenuti in attesa di primo giudizio» a cui vanno aggiunti oltre 9. 300 persone senza una condanna definitiva. L’onorevole Manuela Gagliardi della componente 10 Volte Meglio del Gruppo Misto ha ricordato come «oggi si sottovaluti che la pena deve consistere solo nella privazione della libertà e non in altre lesioni di diritto». La senatrice pentastellata Cinzia Leone, che ha visitato le carceri siciliane si è detta fiduciosa che il «ministro Bonafede possa accogliere in maniera adeguata le esigenze espresse dai detenuti e dagli agenti». Se il governo accoglierà e si adopererà per fronteggiare la drammatica situazione è difficile da ipotizzare ma un punto fermo lo fornisce Rita Bernardini, del Consiglio generale del Partito Radicale, che richiama puntualmente il regolamento parlamentare in merito alle interrogazioni a risposta scritta: «Secondo l’articolo 134 di quello della Camera il governo deve dare la risposta all’interrogazione entro venti giorni dalla sua presentazione. Se il governo non fa pervenire la risposta nel termine previsto, il Presidente della Camera, a richiesta dell’interrogante, pone senz’altro l’interrogazione all’ordine del giorno della seduta successiva della Commissione competente. Stessa tempistica in Senato dove però, se non viene rispettato il termine dei 20 giorni, il Presidente di Palazzo Madama dispone che l’interrogazione venga iscritta, per la risposta orale, all’ordine del giorno della prima seduta dell’Assemblea destinata allo svolgimento delle interrogazioni, o della prima seduta della Commissione competente per materia». Dunque gli strumenti ci sono, basta farli rispettare, come la legalità nelle carceri.
LE MIE PRIGIONI. Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 27 aprile 2019. Non è stato solo un testimone, in 40 anni di carriera Luigi Pagano è stato anche un artefice del processo di cambiamento che ha investito il carcere in Italia, che però è ancora lontano da essere al passo con i tempi. Laurea in giurisprudenza, sposato, due figli, 65 anni, napoletano, Pagano è stato direttore di molti istituti, ultimo San Vittore per 15 anni. Dal 2004 è al vertice del Dipartimento per l' amministrazione penitenziaria della Lombardia, tranne la parentesi 2012-2016 in cui è stato vice capo del Dap nazionale. Il 1° maggio andrà in pensione.
Quarant' anni di carcere? Come c' è finito?
«Dopo un breve periodo da avvocato a Napoli, a 25 anni per caso vidi l' annuncio del concorso che poi ho vinto».
Primo incarico?
«Pianosa».
Isola bellissima, ma lavorarci a 25 anni non deve essere stato facile.
«Fu un impatto tremendo, c' era solo il carcere e io non ero mai entrato in un carcere in vita mia. Eravamo sotto Natale e il comandante degli agenti fece l' errore di portarmi nella sezione di massima sicurezza per fare gli auguri ai detenuti. C' erano i brigatisti del delitto Moro. Arrivarono minacce da tutte le parti, insulti. L' avevano presa per una provocazione».
Un trauma.
«Tremendo, anche per mia moglie che era incinta. Un detenuto lavorante un giorno le disse con molta gentilezza che le madri non avrebbero mai dovuto morire. Peccato che aveva sterminato la famiglia, madre compresa».
Poi?
«Nuoro. Arrivai dopo una rivolta con due morti e dopo che avevano sparato al vice questore all' uscita dal carcere. C' ero quando ammazzarono Francis Turatello, il criminale della mala milanese».
Cosa successe?
«Non lo potrò mai dimenticare. Erano in quattro ad accoltellarlo, tra cui Pasquale Barra (condannato per questo all' ergastolo ndr ). Scattò l' allarme e proprio quando raggiunsi il cortile gli diedero il colpo di grazia. In carcere, nonostante i forti controlli, allora entrava di tutto, coltelli, detonatori, esplosivo. C' era un clima pesantissimo».
Temeva per la sua vita?
«La paura è un sintomo vitale, l' importante è vincerla».
Altra sede?
«Asinara, riaperta solo per ospitare Cutolo ( glissa ) e Piacenza. Era il 1982 e fu arrestato Bruno Tassan Din, (ex amministratore delegato della Rizzoli-Corriere della Sera coinvolto nel crac del Banco Ambrosiano, ndr ). Quindi Brescia, dove per la prima volta il carcere si aprì all' esterno grazie anche all' allora ministro Mino Martinazzoli. Trasmettemmo dall' interno il Maurizio Costanzo show».
Nel '92 è a Milano. Mani pulite, Mario Chiesa in cella.
«L' avevo conosciuto come presidente del Pat per iniziative di lavoro per i detenuti».
La presenza dei colletti bianchi cambiò qualcosa?
«No. La maggior parte si unì agli altri detenuti i quali, però, li vedevano come corpi estranei».
Accade la tragedia del suicidio di Gabriele Cagliari.
«Credo che il carcere c' entri relativamente. Da quello che ho capito, fu una sua speranza di uscire che fu delusa, ma non c' erano avvisaglie di quello che sarebbe poi accaduto. Anche questa è una giornata che non dimenticherò. Fu come quando si addensa una tempesta. Dopo il suicidio di Cagliari, alla mattina, i detenuti sbatterono oggetti facendo rumore per molto tempo; la sera un altro detenuto si uccise nel centro neuropsichiatrico».
In carcere arrivò Sergio Cusani che a lungo avrebbe fatto parlare di sé.
«Con il quale ho avuto rapporti conflittuali, ma gli riconosco dignità. Affrontava il carcere come se prima non fosse esistito. Riteneva di poterlo cambiare. Non credo alle rivoluzioni d' impeto, ma alle conquiste giorno per giorno».
Cos' è oggi il carcere?
«Diverso da quando ci entrai. Allora era duro, ora i detenuti lavorano all' interno, come a San Vittore dove aprimmo il primo call center, possono accedere a internet, seppure con limitazioni, telefonare. Anche i detenuti sono diversi, sono tossicodipendenti e stranieri. A San Vittore per il 75% non sono italiani».
È comunque un luogo di punizione.
«È una delle contraddizioni che si porta dietro: pensare che una struttura chiusa per definizione, che isola rispetto al mondo possa nel contempo reinserire il condannato nella società come dice la Costituzione è difficile da capire.
Le misure alternative, però, stanno dimostrando che la strada da seguire è questa: chi ne beneficia, uscito dal carcere, statisticamente ritorna molto meno a delinquere. Bisogna pensare anche a chi resta dentro. Il carcere non è la soluzione a tutti i mali».
Lei è stato vice capo del Dap. Che esperienza è stata?
«Coinvolgente. Abbiamo affrontato la sentenza Cedu sul sovraffollamento. Le istituzioni hanno lavorato insieme per risolvere un problema di civiltà ed economico. Se non avessimo dato risposte a Strasburgo l' Italia avrebbe dovuto sborsare 20-30 milioni di euro. Anche grazie ad alcune riforme, i detenuti scesero da 66 mila a 52 mila».
I detenuti l' hanno sempre rispettata. Che rapporto ha avuto con loro?
«Li trattavo come persone ricordando loro però che ero sempre un carceriere che, per quanto illuminato, non fa promesse e ti chiude dentro, anche se ha lavorato per cambiare il carcere e superarlo perché lo ritiene anacronistico per molte tipologie di detenuti».
· Atteggiamenti “arbitrari” degli agenti.
Atteggiamenti “arbitrari” degli agenti, annullata condanna per resistenza. La corte di Cassazione annulla la condanna nei confronti di un uomo per resistenza e lesioni a un poliziotto, scrive Damiano Aliprandi il 31 gennaio 2019 Il Dubbio. La Cassazione annulla la condanna nei confronti di un uomo per resistenza e lesioni a un poliziotto. Detta così, può scatenare indignazioni, ma in realtà, per la Suprema corte, i fatti come accaduti potevano essere percepiti come arbitrari. Ricordiamo che gli “atti arbitrari” non erano riconosciuti dal regime fascista. Una insistente e persecutoria attività di identificazione, con la sola motivazione della notifica di un atto, era sembrata pretestuosa al ricorrente, già conosciuto dagli agenti, e collegata a denunce che aveva fatto nei confronti di magistrati e dello stesso commissariato del posto. Ragionevolmente dunque l’imputato si era sentito vittima di una vessazione. Di qui il riconoscimento della scusabilità putativa anche per quello che appariva l’ulteriore sopruso dell’accompagnamento coatto. L’intento di difendere la libertà personale scrimina anche le lesioni provocate a un agente. La Cassazione ha annullato senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, con una sentenza che, ad avviso dei giudici, ‘ riequilibra’ alla luce delle indicazioni della Consulta, i rapporti Stato cittadino, come vanno intesi, in un Paese democratico. Per capire meglio, inquadriamo la situazione. La Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale della stessa città nella parte in cui aveva condannato Giancosimo Dimola per il reato di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali aggravate. Secondo quanto emerge dalle sentenze di merito, l’imputato, dopo essere stato identificato e invitato dal personale della Polizia ferroviaria a recarsi in Commissariato appena sceso dal treno, in quanto destinatario di un “atto di rintraccio”, veniva intercettato da una pattuglia del locale Commissariato, nel frattempo avvisato dalla Polfer, e invitato più volte a fornire le sue generalità o esibire un documento di riconoscimento, ma senza esito. A fronte di tale condotta omissiva, l’imputato, dopo essere stato invitato a seguire gli agenti per la sua identificazione, si opponeva a costoro con forza ingaggiando una colluttazione nel corso della quale uno degli agenti riportava lesioni personali. Secondo la Corte di appello, la polizia aveva il preciso potere- dovere, ai sensi dell’art. 349, comma 4, cod. proc. pen., di accompagnare l’imputato in Commissariato per identificarlo ( essendo emerso che lo stesso era ricercato non solo per la notifica, quale persona offesa di un reato, ai sensi dell’art. 409 cod. proc. pen., ma anche per essere sentito su delega del Pm nell’ambito di indagini in corso) e, dopo i ripetuti tentativi di farlo in loco, poteva la stessa pg usare per tale motivo una coazione fisica, strettamente necessaria per l’espletamento dell’incombente. Il fatto che l’imputato fosse stato già identificato dagli agenti della Polfer, ad avviso della Corte territoriale, non lo legittimava a rifiutarsi di fornire successivamente le proprie generalità ad altri pubblici ufficiali, che alcuni minuti dopo gliene avevano fatto richiesta. Né, in mancanza di una condotta oggettivamente qualificabile in termine di arbitrarietà, era ravvisabile, secondo la Corte di appello, alcuna scriminante a favore dell’imputato. L’imputato, tramite il suo difensore, ha fatto ricorso quindi in Cassazione. Già in sede cautelare, la Suprema Corte, annullando senza rinvio, l’ordinanza cautelare emessa nei confronti del ricorrente per la medesima vicenda, aveva stigmatizzato il comportamento degli agenti, definendo ‘ arbitrari’ i loro atti (era stato costretto ad entrare nell’auto della polizia senza giustificazione), avverso ai quali aveva reagito il ricorrente. La Cassazione si è ritrovata nuovamente a decidere sulle motivazioni di condanna da parte della corte di Appello. L’imputato si era sentito vittima di una vessazione, per questo c’è il riconoscimento della scusabilità putativa. Un richiamo interessante è quello della decisione della Corte costituzionale, la quale ha evidenziato che la causa di giustificazione degli ‘ atti arbitrari’, già presente nel codice Zanardelli del 1889, abolita nel 1930, per essere poi reintrodotta, dal decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288, unitamente ad altre significative modifiche, ritenute coessenziali al passaggio dal regime autoritario al nuovo ordinamento democratico.
In carcere se ti fermano? Dipende da dove avviene l’operazione. Solo a Bologna, tra le città prese in considerazione, la pratica di portare a casa gli arrestati trova applicazione. A Palermo si fa sistematicamente ricorso al carcere e a Roma infine gli arrestati vengono portati sia in carcere che nei commissariati o nelle stazioni dei carabinieri, scrive Damiano Aliprandi il 29 gennaio 2019 su Il Dubbio. A seconda il luogo dove si viene fermati e arrestati dalla polizia, il trattamento cambia. È uno delle problematiche riscontrate dal progetto Inside Police Custody, realizzato dall’associazione Antigone con il contributo della Direzione generale Giustizia e Consumatori dell’Unione Europea. Tale ricerca è finalizzata a misurare l’effettiva applicazione di tre delle direttive previste dalla roadmap di Stoccolma: una riguarda sia il diritto di arrestati e fermati a essere informati sui propri diritti che quello di accedere per tempo al proprio fascicolo, in modo da poter preparare una difesa adeguata; l’altra riguarda il diritto degli arrestati stranieri a essere assistiti da traduttori e interpreti che rendano loro intelligibile quanto accade; la terza e ultima riguarda invece il diritto all’assistenza legale in generale. Il report, in inglese, è ben dettagliato. Grazie alla sintesi di Antigone a firma di Claudio Paterniti Martello, si evincono dei particolari interessanti come il fatto che solo a Bologna, tra le città prese in considerazione, la pratica di portare a casa gli arrestati trova applicazione con una certa frequenza. A Palermo al contrario si fa sistematicamente ricorso al carcere, nonostante le raccomandazioni ministeriali vadano in senso opposto; a Roma infine gli arrestati vengono portati sia in carcere che nei commissariati o nelle stazioni dei carabinieri. Una disparità di trattamento non da poco e vale spiegare il perché. Subito dopo l’arresto – spiega Antigone – si può essere condotti a passare la notte in tre posti diversi: a casa propria, in carcere o in o in una camera di sicurezza di una struttura delle forze dell’ordine. Portare l’arrestato a casa ad attendere l’udienza di convalida (che in genere ha luogo il giorno dopo) implica un risparmio di risorse e mezzi ed evita una misura coercitiva spesso inutile. In molti casi in effetti il rischio di fuga o inquinamento delle prove è basso o nullo. Il ricorso al carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, da un punto di vista normativo. Ogni ingresso in un istituto penitenziario comporta in effetti l’attivazione di un protocollo gravoso per l’amministrazione penitenziaria, e in questo caso si parla di soggiorni che spesso durano solo poche ore, in quanto l’arrestato viene messo in libertà dopo la prima udienza. Questi ingressi, oltre ad alimentare il sovraffollamento penitenziario, sottopongono l’arrestato a un inevitabile choc (la fase dell’arrivo in carcere è quella in cui il rischio suicidi è più elevato). Infine vi è la possibilità di ricorrere alle celle di commissariati e caserme dei carabinieri, le cui condizioni però non sono delle migliori, come ha messo in luce il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà nella relazione presentata al Parlamento nel 2017. Parliamo delle camere di sicurezza, ovvero le stanze presenti nelle caserme dei carabinieri e nelle questure che servono per trattenere le persone in attesa di un processo per direttissima. L’idea di ricorrere più spesso a questa modalità è stata sollecitata dall’ex guardasigilli Paola Severino per evitare le cosiddette “porte girevoli” che ingolfano gli istituti penitenziari. Altra criticità riguarda gli stranieri: sia a causa della mancata conoscenza della lingua che per una mancanza di familiarità col sistema penale italiano, gli stranieri hanno una minore consapevolezza dei propri diritti. In più di un caso è stato riferito ad Antigone di arrestati convinti di essere finiti in tribunale per via del loro status di immigrati irregolari, mentre erano lì perché accusati di reati come resistenza a pubblico ufficiale. Un reato, secondo Antigone, contestato con grande facilità nei loro confronti.
· «L’ergastolo ostativo nega il “diritto alla speranza”».
Il Papa: «L’ergastolo va rivisto. E giustizia non vuol dire giustiziare». Il pontefice mette in guardia i giuristi sulla cultura dell’odio e i rigurgiti nazisti: «Bisogna vigilare affinché la demagogia punitiva non degeneri in un incentivo alla violenza». Simona Musco il 16 Novembre 2019 su Il Dubbio. La condanna della cultura dell’odio, il rammarico per l’abuso delle misure cautelari e l’irrazionalità punitiva, l’arbitrio e gli abusi. E poi il dovere di ripensare la pena dell’ergastolo, per carceri che devono sempre avere un orizzonte, per una giustizia che rispetti la dignità e i diritti umani. Sono parole rivoluzionarie quelle pronunciate ieri da Papa Francesco ai partecipanti al XX Congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale. Un diritto che non è riuscito a preservarsi dalle minacce che incombono sulle democrazie, spesso a causa di una «divinizzazione del mercato» che esclude ed infierisce sui più deboli. Gli ambiti toccati dal Papa sono tanti, nel tentativo di offrire ai giuristi un «aiuto». E la prima sfida è tentare di contenere «l’irrazionalità punitiva, che si manifesta in reclusioni di massa, affollamento e tortura nelle prigioni, arbitrio e abusi nelle forze di sicurezza», ma anche attraverso «l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali». Rischi che sono estrema conseguenza di un idealismo penale che, però, ignora i macrodelitti dei poteri economici, responsabili del saccheggio delle risorse naturali del pianeta. Mettendo in guardia dalla corrente punitivista, Francesco ha affrontato la piaga, sempre più grave, degli abusi del potere sanzionatorio. A partire da un «uso arbitrario della carcerazione preventiva», per la quale il Papa si è detto preoccupato, considerato che in numerose nazioni e regioni «il numero di detenuti senza condanna già supera abbondantemente il 50% della popolazione carceraria. Questo fenomeno – ha aggiunto – contribuisce al deteriorarsi delle condizioni di detenzione ed è causa di un uso illecito delle forze di polizia e militari», arrivando a ledere il principio «per cui ogni imputato deve essere trattato come innocente» fino a condanna definitiva. Ma è un discorso soprattutto politico quello di Francesco, che ha condannato l’incentivo alla violenza, frutto anche delle riforme sull’istituto della legittima difesa, che hanno consentito di «giustificare crimini commessi da forze di sicurezza come forme legittime del compimento del proprio dovere». È importante, dunque, un intervento della comunità giuridica, «per evitare che la demagogia punitiva degeneri in incentivo alla violenza». Condotte «inammissibili in uno Stato di diritto – ha ammonito – e che in genere accompagnano i pregiudizi razzisti e il disprezzo verso le fasce sociali di emarginazione». Ed è qui che si è innestato il discorso sulla cultura dell’odio, con la ricomparsa di emblemi e azioni tipici del nazismo. «Quando sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel ‘ 34 e nel ‘ 36» e «le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omosessuale», modello negativo per eccellenza «di cultura dello scarto e dell’odio». Per il Pontefice «occorre vigilare» ed andare, dunque, verso una giustizia penale restaurativa. In ogni delitto c’è una parte lesa, ma compiere il male, ha ammonito, non giustifica altro male come risposta. «Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore», ha aggiunto. E le carceri, ha concluso, «devono guardare ad un reinserimento», motivo per cui «si deve pensare profondamente al modo di gestire un carcere, di seminare speranza di reinserimento» e «ripensare sul serio l’ergastolo», per un modello di giustizia basato sul dialogo e l’incontro, in grado di restaurare «i legami intaccati dal delitto». Parole che hanno colpito i penalisti, ammirati ed entusiasti per il discorso del Pontefice, e che «sono pienamente in sintonia con quanto le Camere penali denunciano da decenni in ordine all’abuso della custodia cautelare e alle sue ricadute sui livelli di civiltà del nostro paese», ha affermato il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza. «C’è da riflettere amaramente sul fatto che sia necessario una denuncia del Pontefice per mobilitare le coscienze – ha aggiunto – mentre la politica ha del tutto rinunciato al suo ruolo di custode dei valori costituzionali».
Cos'è l'ergastolo ostativo. Per l'Europa l’ergastolo ostativo italiano è una “punizione inumana”. Ecco cosa prevede. Maurizio Tortorella il 9 ottobre 2019 su Panorama. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto oggi all’Italia di rivedere le sue norme in materia di ergastolo ostativo. La Corte ha infatti affermato che l’ergastolo ostativo è contrario all’art 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. In assenza di ricorsi, la sentenza diverrà definitiva in tre mesi. Per ergastolo ostativo s’intende la pena che prevede la reclusione a vita: il cosiddetto “fine pena mai”. In base alla legge italiana, anche chi viene condannato all’ergastolo ha diritto ad alcuni benefici (come la semilibertà) e può usufruire di permessi-premio; dopo 26 anni di carcere, inoltre, al condannato all’ergastolo può essere concessa la libertà condizionale se, durante la detenzione, ha tenuto una buona condotta e un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. L’ergastolo ostativo è l’eccezione alla regola, in quanto non permette di concedere al condannato alcun tipo di beneficio o di premio. Per questo l’ergastolo ostativo viene inflitto a soggetti altamente pericolosi che hanno commesso determinati delitti: per esempio il sequestro di persona a scopo di estorsione oppure l’associazione di tipo mafioso. Per loro esiste soltanto il “fine pena mai”: tra gli ultimi casi si ricorda quello del boss mafioso Bernardo Provenzano, morto in carcere nel luglio 2016 dopo lunghissima malattia. La decisione di Strasburgo riguarda in particolare il caso di Marcello Viola, un condannato per associazione mafiosa, per omicidi e per rapimenti, che era stato condannato all’ergastolo ostativo all’inizio degli anni Novanta, al quale ora il governo italiano deve versare 6mila euro per i costi legali. Nella sentenza i giudici di Strasburgo evidenziano che “la mancanza di collaborazione è equiparata a una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società” e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all'ergastolo ostativo. La Corte osserva che se “la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all'ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici”, questa “strada” è però troppo stretta. Nella sentenza si osserva che la scelta di collaborare non è sempre “libera”, perché per esempio certi condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari. I giudici di Strasburgo scrivono anche che “non si può presumere che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”. La Corte non nega la gravità dei reati commessi da Marcello Viola, ma critica il fatto che l'uomo, soltanto perché non ha collaborato con la giustizia, si sia visto rifiutare le richieste di uscita dal carcere, nonostante molti rapporti indicassero la sua buona condotta e un cambiamento positivo della sua personalità. Nella sentenza si afferma che privare un condannato di qualsiasi possibilità di riabilitazione e quindi della speranza di poter un giorno uscire dal carcere viola il principio base su cui si fonda la convenzione europea dei diritti umani, il rispetto della dignità umana. Come tutte le sentenze della Corte europea, anche questa farà giurisprudenza e avrà effetti più ampi: potrà essere applicata nei confronti di chiunque si trovi a scontare una pena di quel genere. L’ergastolo nell’ordinamento italiano è regolato dall’articolo 17 e seguenti del Codice penale. L’articolo 22 dice che “la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”. L’associazione Nessuno tocchi Caino, da anni impegnata con il Partito radicale per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, sostiene che la sentenza della Corte europea è “un pronunciamento storico”. Con questa sentenza la Corte di Strasburgo di fatto “svuota” l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia. La Corte fa cadere la collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo un problema strutturale dell’ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia. Per Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, “Il successo a Strasburgo è il preludio di quel che deve succedere alla Corte costituzionale italiana, che il 22 ottobre discuterà sulla costituzionalità dell'ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente. Il pensiero non può che andare a Marco Pannella”.
Ergastolo ostativo, la Turchia di Erdogan condannata come l’Italia. Damiano Aliprandi il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La sentenza della Cedu sul caso Ocalan. I giudici della corte europea hanno sanzionato, così come per la “vicenda viola”, la richiesta di ammissione alla liberazione condizionale subordinata alla collaborazione. «Le prigioni non dovrebbero essere come le porte dell’inferno, dove si avvererebbero le parole di Dante: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Così hanno scritto i giudici della Corte europea dei diritti umani ( Cedu) nella sentenza del 18 marzo 2014 per il caso Ocalan ( leader curdo del Pkk) contro la Turchia, condannando lo Stato di Erdogan per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, dal momento che la legge turca «non prevede, dopo un certo periodo di detenzione, alcun meccanismo di riesame della pena all’ergastolo comminata per reati come quelli commessi da Ocalan, allo scopo di valutare se continuano a sussistere motivi legittimi per tenere la persona in carcere». Parliamo della stessa identica sentenza riguardante il caso Viola che ha condannato definitivamente l’Italia, perché – come stabilisce l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario prevede che la richiesta di ammissione alla liberazione condizionale sia subordinata alla collaborazione con la giustizia.
ANCHE A ISTANBUL C’È QUELLO AGGRAVATO. Per quanto riguarda la Turchia, l’articolo 107 della legge n. 5275 sull’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza prevede la possibilità della libertà condizionale, su riserva di buona condotta, per le persone condannate alla pena della reclusione ( severa) a vita dopo un periodo minimo di detenzione di trent’anni, per i condannati alla pena della reclusione a vita ( ordinaria) dopo un periodo minimo di detenzione di ventiquattro anni e per gli alti condannati dopo aver scontato un periodo pari ai due terzi della loro pena detentiva. Tuttavia, sempre secondo la medesima disposizione, i condannati alla pena della reclusione a vita aggravata per dei reati contro la sicurezza dello Stato, contro l’ordine costituzionale e contro la difesa nazionale ( quindi come il caso di Ocalan) commessi in gruppi organizzati all’estero non possono essere ammessi al beneficio della libertà condizionale. In sostanza anche la Turchia, come il nostro Paese, ha due forme di ergastolo: uno “ordinario” e l’altro “aggravato” ( in Italia viene definito “ostativo”).
IL PKK È ORMAI UN PARTITO ILLEGALE. Da ricordare che Ocalan aveva fondato nel 1978 il Partito dei lavoratori del Kurdistan, meglio conosciuto con il nome di Pkk, che per anni ha combattuto per il riconoscimento di una propria etnia. Il Pkk è ancora una realtà presente nel sud- est della Turchia benché sia considerato un partito illegale. Inizialmente era un gruppo che s’ispirava al marxismo- leninismo, rivendicando ( insieme ad altri partiti tra cui il Pyax, il Pyd, e il Kpd) la fondazione di uno stato indipendente nella regione storico- linguistica del Kurdistan. Il Pkk, però, al fine delle sue rivendicazioni, utilizzava metodi violenti ricorrendo spesso al conflitto armato, ricorrendo anche all’uso di attentati dinamitardi e kamikaze contro obiettivi militari turchi, ritenuti oppressori del popolo curdo.
QUANDO OCALAN ARRIVÒ A ROMA. Come sappiamo giunse a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista. Il leader del Pkk si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere entro qualche giorno asilo politico. Questa sua richiesta provocò un dibattito sull’opportunità di accettare tale richiesta. Alla fine – ricordiamo che c’era il governo D’Alema venne espulso in Kenia, dove poi le forze di intelligence lo presero e riportato in Turchia. In seguito la pena di morte gli verrà commutata in ergastolo a vita. D’altro canto la Cedu ha voluto esprimere concetti che poi ribadirà anche nei confronti del nostro Paese. «Le difficoltà – hanno scritto i giudici di Strasburgo – che gli Stati si trovano a dover affrontare nella nostra epoca per proteggere le loro popolazioni dalla violenza terrorista sono reali. Tuttavia – hanno sottolineato -, l’articolo 3 non prevede alcuna limitazione, non consente alcuna deroga, neppure in caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione». Un concetto che i giudici hanno dovuto cristallizzare nella sentenza, perché il governo turco ha difeso la legittimità dell’ergastolo a vita, spiegando che Ocalan si era reso responsabile di una campagna di violenza che la sua ex- organizzazione ha condotto e che ha costato la vita a migliaia di persone, tra cui numerose vittime civili innocenti.
DECIDERÀ SEMPRE UN GIUDICE. La Cedu ha ben spiegato che «nessun problema si pone rispetto all’articolo 3 se, ad esempio, un condannato all’ergastolo che, in base alla legge nazionale, può in teoria ottenere la liberazione, richiede di essere liberato ma si vede rifiutata la richiesta per il fatto che egli continua a rappresentare un pericolo per la società». In sintesi, è esattamente lo stesso concetto espresso per quanto riguarda la sentenza di condanna nei confronti dell’Italia. Non si tratta di alcun automatismo, ma la concessione all’ergastolano di poter chiedere la liberazione condizionale dopo un numero congruo di anni di detenzione: sarà sempre un giudice a valutare se concedergliela o meno. La Cedu ha citato anche una sentenza della Corte costituzionale tedesca su un caso relativo alla reclusione a vita, la quale ha sottolineato che la pena perpetua «sarebbe incompatibile con la disposizione della Legge fondamentale che consacra la dignità umana che, coercitivamente, lo Stato privi una persona della propria libertà senza dargli almeno una possibilità di poterla un giorno recuperare».
L’uomo che riuscì a scappare dall’Alcatraz italiana. Damiano Aliprandi l'8 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Storia di Matteo Boe, l’unico uomo che riuscì a evadere dall’Asinara, la fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. «Col tempo mi hanno visto consumarmi poco a poco, ho perso i chili, ho perso i denti, somiglio a un topo ho rosicchiato tutti gli attimi di vita regalati e ho coltivato i miei dolcissimi progetti campati… In aria… nell’aria», dice una canzone del 1999 di Daniele Silvestri. La canzone è agghiacciante, drammatica, di forte impatto emotivo. L’elemento più sconcertante è che il protagonista della canzone, in prima persona, è un morto. Si tratta di un ergastolano che alla fine era riuscito ad evadere, ma “in orizzontale”. «Dopo trent’anni carcerato all’Asinara, che vuoi che siano poche ore in una bara», dice drammaticamente la canzone. La struggente storia cantata da Silvestri è ambientata, appunto, nell’ex carcere dell’Asinara, un’isoletta del mar Mediterraneo, vicina alla punta della Sardegna. Oggi è un luogo incontaminato dove la natura trova il suo spazio, finalmente libera dalle 11 diramazioni penitenziarie. Pochi sanno l’origine del nome. Il pensiero va subito agli asini, che pur ci sono, ma in realtà tutto nasce dalla leggenda che Ercole afferrò l’estrema propaggine settentrionale della Sardegna e la staccò dalla penisola della Nurra. E la strinse così forte nel pugno da assottigliarne la parte centrale, lasciandole impresse tre profonde insenature dove le possenti dita l’avevano strangolata. Herculis Insula, la chiamarono perciò i romani, e successivamente Sinuaria, per la sinuosità delle sue coste. Da lì, a forza della graduale storpiatura del nome romano, si è arrivati appunto a chiamarla “Asinara”. L’isola fu prima adibita a luogo di quarantena per equipaggi di navi sospette di epidemie a bordo, con annesso lazzaretto, poi nel 1915 divenne campo di prigionia per decine di migliaia di soldati austroungarici, e poi colonia penale agricola. Tra il 1937 e il 1939 vennero trasferiti qui centinaia di prigionieri etiopi. Dal dopoguerra, l’Asinara diventò a tutti gli effetti un’isola- carcere, famigerato suo malgrado negli anni 70 come “speciale” per i fondatori delle Brigate Rosse. Poi, con la sanguinosa rivolta del 2 ottobre 1977 per protestare contro le sistematiche torture, il carcere venne temporaneamente dismesso negli anni 80 per poi riaprirlo dopo le stragi mafiose e quindi ai detenuti in regime di 41 bis. Ma le sistematiche torture si inasprirono, tanto da ricevere una condanna anche dagli organismi internazionali. Fu lì che venne portato Totò Riina dopo il suo arresto. Precisamente gli venne assegnata la cella di Cala d’Oliva, uno degli undici penitenziari dell’isola. Era soprannominata “la discoteca”, ma non perché si ballava. La cella, senza finestre, era perennemente illuminata dalle lampade che il capo dei capi non poteva spegnere. In poco tempo Totò Riina si rese conto di essere finito in un luogo in cui sarebbe stato davvero isolato e sorvegliato 24 ore su 24. Senza un attimo di intimità, neanche all’interno del bagno. E con la luce sempre accesa, anche di notte. Vi rimase per 4 anni. L’Asinara però riservava l’identico trattamento nei confronti di tutti gli altri detenuti. C’è la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che vi trascorse lunghi anni al 41 bis. «Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda”. “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità», narra Musumeci. L’isola che ospitò anche Falcone e Borsellino prima che iniziasse il maxi processo ( dovettero pagare anche il conto su richiesta dell’allora capo del Dap Nicolò Amato) è passata alla storia come l’Alcatraz italiana. E come ogni storia che si rispetti, ha conosciuto anche lei il suo Papillon. Si chiama Matteo Boe e fu l’unico uomo che riuscì ad evadere da quella fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. Boe è un personaggio da romanzo. È stato un bandito sardo, specificatamente di Lula, un paesino arroccato sui monti del nuorese. Divenne quasi una leggenda, tanto che il suo nome venne associato a una vita non solo di rapimenti, ma anche di attivismo politico visto che combatteva per l’indipendentismo sardo. Infatti, Boe, non riconosce alcuna autorità politica ed etica dello Stato italiano. Durante la sua detenzione, d’altronde, aveva tradotto in lingua sarda “Dio e lo Stato” di Bakunin e fatto poi stampare da un anarchico sardo. Fu condannato a sedici anni di carcere nel 1983, in seguito al rapimento di una giovanissima toscana, Sara Niccoli. Secondo le indagini ne fu poi il carceriere, quel “Carlos” che – come raccontò la stessa Niccoli – ne rese meno dura la detenzione, denotando perfino una cultura non indifferente nell’offrirle letture di pregio, come “L’idiota” di Dostoevskij e i libri di Franz Kafka. Sara, dopo anni, morirà all’età di 30 anni a causa di una malattia autoimmune. Boe fu arrestato e recluso all’Asinara. La permanenza doveva stargli ovviamente stretta, e così decise di evadere dalla fortezza con Salvatore Duras, in carcere per furto. Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto. Dopo aver tramortito un’agente mentre svolgevano un lavoro esterno, i due riescono a raggiungere la costa dove una donna – la moglie di Boe – li aspetta nascosta a bordo di un gommone. La donna, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Matteo Boe alla facoltà di Agraria all’università di Bologna e lui era un suo compagno di corso. Un amore immenso, che la spinse ad aiutarlo ad evadere. Duras fu trovato poco tempo dopo. Boe, invece, riuscì a restare latitante per sei anni. Alla fase della latitanza risalgono tutta una serie di altri rapimenti, come quello dell’imprenditore romano Giulio De Angelis, o quello eclatante del piccolo Farouk Kassam, nel 1992, cui fu brutalmente mozzato un orecchio. Il bambino fu lasciato libero dopo 177 giorni di prigionia, nei quali mangiò poco e non si lavò, tanto che i vestiti non gli si staccavano di dosso, come sostengono le cronache dell’epoca. Nello stesso anno Boe fu arrestato in Corsica, dove si trovava per alcuni giorni di vacanza con la moglie e i due figli, e quindi estradato nel 1995, con una condanna – confermata nel ’ 96 – a 25 anni di detenzione. Nel 2003 la tragedia. Una scarica di pallettoni rivolta al balcone della sua casa di Lula uccise Luisa, la figlia quattordicenne, forse scambiata dagli esecutori per la moglie Laura, politicamente molto attiva in paese nella lotta all’istituzione di una normalità amministrativa. «In tutti questi anni disse Matteo Boe dal carcere in una delle rare interviste rilasciate- ho visto mia figlia soltanto attraverso un vetro. Le nostre mani ogni volta erano divise da una parete. Assurdo, me l’hanno uccisa senza darmi la possibilità di abbracciarla». Questa vicenda dolorosa ebbe strascichi giudiziari: Laura accusò l’allora maresciallo dei carabinieri di non aver indagato a sufficienza e andò sotto processo per calunnia, uscendone comunque assolta. Ancora oggi l’uccisione della ragazzina è senza colpevoli. Boe ha finito di scontare la sua pena nel 2017 ed è un uomo libero. Ora ha 61 anni e sta studiando per diventare guida ambientale escursionistica. Se tutto andrà bene potrà iscriversi al registro nazionale della principale associazione di categoria, l’Aigae. I detenuti che hanno cercato di fuggire dal carcere dell’Asinara sono stati tanti. La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto. Invece sono stati tanti i carcerati trovati morti annegati, recuperati giorni dopo la scoperta della loro fuga. È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barchetta a remi. Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia. Solo Boe, il bandito sardo, ci riuscì.
Se il boss all'ergastolo non collabora e ottiene permessi rischia di diventare un modello. I mafiosi condannati a vita continuano a esercitare il potere carismatico. E ammorbidire il regime penitenziario, allargando l'accesso ai benefici anche per chi non si pente, non depotenzia la loro carica criminale. Stefania Pellegrini, *Professoressa ordinario di Sociologia del diritto, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, il 29 novembre 2019 su L'Espresso. Lo scorso 23 ottobre la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza dagli effetti potenzialmente dirompenti sullo strumentario sin’ora posseduto dal nostro ordinamento in tema di contrasto alla criminalità di stampo mafioso. La Corte è intervenuta sul regime penitenziario previsto per gli ergastolani mafiosi i quali, a fronte della loro decisione di non collaborare con la giustizia, vedevano restringersi l’accesso ai benefici, in virtù di una presunzione assoluta di permanenza dei legami con l’organizzazione criminale e, contestualmente, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale. La pronuncia ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Il condannato dovrà dar prova di aver compiuto un percorso rieducativo. In sostanza, la Corte ha ritenuto come la “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non debba essere più assoluta ma relativa, e dunque valutata caso per caso dal giudice in base alle relazioni del carcere, alle informazioni ed ai pareri di varie autorità. Il raggio d’azione di tale pronuncia va inoltre circoscritto allo specifico beneficio penitenziario dei permessi premio, non essendo incidente sulla totalità dell’art. 4 bis. L’importanza di questa decisione - in attesa della sentenza - va però contestualizzata in uno specifico momento storico, essendo stata emessa all’indomani di una disposizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 7 ottobre, respingendo un ricorso avanzato dal Governo italiano, ha ritenuto “inumano e degradante” il divieto di accedere ai benefici penitenziari imposto dalla legge italiana agli affiliati di mafia che rifiutino una collaborazione con la giustizia. Lo Stato italiano è stato chiamato a rivedere la norma, consentendo quindi al reo di dimostrare la propria lontananza dall’organizzazione con strumenti anche diversi dalla collaborazione di giustizia. Contro e a favore di queste pronunce si sono sollevate tanti voci. Molte hanno manifestato ampia soddisfazione per una pronuncia restauratrice dello spirito di umanità di uno Stato carnefice e spietato nell’aver segregato nelle patrie galere detenuti in un inesorabile “fine pena mai”; il riscatto di uno Stato che in questi casi avrebbe rinnegato uno dei principi fondamentali della Carta Costituzionale che, all’art. 27, sancisce come la finalità della pena andrebbe orientata alla rieducazione del condannato. Il principio della umanizzazione della sanzione penale è indubbiamente connesso al doveroso principio del rispetto della personalità dell’uomo e nello specifico della dignità del detenuto. Ma accanto alla finalità rieducativa va riconnessa anche una funzione deterrente che, oltre a dissuadere i consociati dal commettere reati, svolge un effetto di orientamento culturale richiamandoli alla considerazione dei valori per la cui tutela è posta la pena. Così facendo, si andrebbe a provocare una spontanea adesione dei soggetti ai valori espressi dall’ordinamento, incentivandone il rispetto e l’osservanza. Allo Stato, di fatto, viene assegnato un compito primario rispetto a quello che gli riconosce la potestà punitiva: quello di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, impegnandosi a tutelarli, prima che vengano violati. Prevenire il reato rappresenta una missione imprescindibile. Un dovere costituzionale che diviene cogente se riferito alla prevenzione di reati di elevata allerta sociale come quelli mafiosi. Molti, seppur autorevoli, commenti della sentenza della Corte costituzionale non hanno tenuto conto della specificità del fenomeno mafioso. La drammatica storia del nostro Paese ci ha imposto di prevedere una normativa differenziata per gli affiliati di mafia appartenenti ad un circuito criminale che è sul piano sociologico, criminologico e culturale, innegabilmente differente da tutti gli altri contesti malavitosi. La mafia, come scriveva Falcone, è criminalità e cultura. L’adesione ad una organizzazione mafiosa è qualcosa di più della partecipazione ad un’entità criminale finalizzata al profitto illecito. È un credo irrinunciabile. Si diventa mafiosi in un processo progressivo di oggettivazione. Il sicario mafioso è una non-persona, come sono non-persone le vittime. Non c’è l’Io e non c’è l’Altro, c’è solo la “Famiglia”, la “Locale”, il “Clan”. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Dal carcere, prima del regime penitenziario del 41 bis, i boss controllavano gli affari ed emettevano ordini di morte. Vale la pena ricordare che i primi provvedimenti di applicazione del regime di isolamento vennero firmati all’indomani della strage di via D’Amelio, benché la norma facesse parte di un pacchetto antimafia proposto da Giovanni Falcone. Il 19 luglio del 1992, alla notizia della strage, nel carcere palermitano dell’Ucciardone si brindò con champagne introdotto in concomitanza con la preparazione dell’attentato. Il regime del 41 bis nacque con queste finalità: isolare i mafiosi dal contesto di provenienza; depotenziare la loro carica criminale; indurli a collaborare, fornendo notizie certe e riscontrabili, necessarie a prevenire delitti o ad identificare responsabilità per reati già commessi. Altro dalla finalità rieducativa. Il mafioso, tradizionalmente veste gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale può essere del tutto fuorviante. Solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa essi continueranno ad essere capi rispettati ai quali si deve obbedienza. Al contempo, la collaborazione non comporta un “ravvedimento” o un pentimento. La legge non lo richiede. Nella maggioranza dei casi è il calcolo utilitaristico di avvantaggiarsi dei benefici connessi alla collaborazione ad indurre il mafioso a fornire informazioni rilevanti. Si tratta di una mera valutazione costi/benefici. Se i costi venissero ridotti e il carcere ostativo depotenziato, al mafioso non converrebbe collaborare. Alla luce di ciò, va pertanto scongiurato il pericolo dell’estensione del divieto agli altri benefici, in un cortocircuito che determinerebbe la fine di uno strumento antimafia tutt’oggi efficace. Basti pensare alla collaborazione dei mafiosi nei processi al Nord che hanno dato la possibilità di aprire nuovi procedimenti e svelare misteri da tempo archiviati. Ora, alcuni attendono l’emanazione di una legge che delimiti l’area di intervento per la concessione dei permessi, stabilendo parametri e principi fissi. Si tratterebbe di un provvedimento del tutto illegittimo perché andrebbe a limitare la discrezionalità del giudice di sorveglianza, violando la pronuncia della Corte. Tuttalpiù il legislatore potrà solo indicare le modalità di valutazione della concessione, senza reintrodurre nuove preclusioni. Ma la magistratura di sorveglianza non può essere lasciata sola ad affrontare questa delicatissima sfida che può rappresentare un’occasione per migliorare, ma non per depotenziare il contrasto alla mafia.
Permessi ai reclusi ostativi, Bruti Liberati: «Atto di civiltà che indebolirà le mafie». Errico Novi il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Bruti Liberati. «Con la sentenza della Consulta sui permessi ai reclusi in regime ostativo viene il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle mafie». Edmondo Bruti Liberati è stato un procuratore di Milano rigoroso, ed è tuttora considerato un punto di riferimento, in ambito associativo, da molti colleghi. «Tengo a ricordare di essere stato anche un magistrato di sorveglianza: in tale veste, nel 1975, ho avuto modo per la prima volta nella storia della Repubblica di applicare l’istituto del permesso: era stato introdotto con la riforma penitenziaria, si trattava del primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta. Ed è l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”». Appena lette le motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che indica la “collaborazione” come presupposto insuperabile per concedere permessi ai reclusi sottoposti al 4 bis, Bruti Liberati non esita ad auspicare che «i principi affermati dalla Consulta trovino applicazione anche per la liberazione condizionale per l’ergastolo». La pronuncia, in ogni caso, «è un segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e chiude idealmente la presidenza Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri».
Si può parlare anche di un “atto di coraggio”, considerata l’impopolarità che suscitano principi pure chiarissimi nella nostra Carta, a cominciare dal fine rieducativo della pena?
«La sentenza della Corte costituzionale è importante per la decisione presa e per i principi affermati. Richiama i principi costituzionali sulla esecuzione della pena e lo spirito originario della riforma penitenziaria del 1975. Quella legge, abrogando il regolamento fascista, chiuse la stagione delle riforme della prima metà degli anni Settanta. Il Parlamento ebbe il coraggio di fare entrare in vigore la riforma nonostante il crescente allarme per la criminalità organizzata e il terrorismo».
Viene riproposta idealmente la stessa sfida lanciata allora dal legislatore nei confronti di quelle minacce?
«Assolutamente sì. Ma è anche opportuno precisare il perimetro esatto della pronuncia di cui sono appena state depositate le motivazioni. Lo Corte, nonostante polemiche disinformate, non affronta la questione di fondo del cosiddetto ergastolo ostativo. Interviene soltanto, perché questa era la questione portata al suo esame, sulla disciplina dei permessi. La legge parla, con dizione fuorviante, di “permessi premio”: non si tratta per nulla di un premio per la buona condotta in detenzione, ma, di norma, del primo passaggio nel percorso di reinserimento del condannato nella società».
Ma è un’idea che suscita agitazione in una parte evidentemente maggioritaria dell’opinione pubblica.
«Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare l’istituto dei permessi: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella”. Grazie allo scrupolo dei magistrati di sorveglianza la percentuale di mancati rientri fu modestissima, ma l’istituto del permesso ha risentito delle emergenze: di quella relativa al terrorismo alla fine degli anni ’ 70, e poi dell’emergenza mafia. Così si spiegano gli andamenti oscillanti di chiusure e riaperture».
La sentenza riguarda solo i permessi, certo: ma i principi affermati prefigurano secondo lei un superamento complessivo dell’ostatività ex 4 bis anche per l’ergastolo?
«La pronuncia della Corte riguarda solo i permessi ma i principi affermati sono di carattere generale. È prevedibile e auspicabile che tali principi trovino applicazione anche per le misure alternative della semilibertà e dell’affidamento e per la liberazione condizionale per l’ergastolo. Le presunzioni assolute e insuperabili, previste per alcuni gravi reati, di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato che non collabori con la giustizia sono incostituzionali, anche se la condanna è all’ergastolo. La Corte afferma che la “collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento”; aggiunge anche che “non è affatto irragionevole presumere che il condannato che non collabori mantenga vivi i contatti con l’organizzazione criminale”. Ma per rispettare i principi costituzionali occorre prevedere che “tale presunzione sia relativa e non già assoluta, e quindi possa essere vinta da una prova contraria”».
Parte della maggioranza di governo insiste nell’ipotizzare addirittura una legge che “limiti” l’applicabilità della sentenza.
«Gli allarmi lanciati prima ancora di conoscere la motivazione della sentenza sono ingiustificati. Afferma la Corte che non basta certo la sola regolare condotta carceraria o la mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno una sola dichiarata dissociazione. Occorre acquisire “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Il sistema che ne emerge è netto nell’affermare i principi costituzionali e insieme attento alle esigenze di sicurezza. L’intervento di urgenza del legislatore, da taluni invocato, non ha spazi se non con la reintroduzione di rigidità incostituzionali».
La sentenza è anche un riconoscimento della funzione svolta dai giudici di sorveglianza?
«Si può dire questo: una grande responsabilità viene assegnata alla magistratura di sorveglianza, ma non maggiore di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. Ancora una volta la Corte indica un percorso, sottolineando che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia”. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia, che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi a pigre formulette del genere “non si può peraltro escludere che…”. È un mutamento culturale che si richiede, appunto, anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo antidoto alla recidiva. Tutt’altro che buonismo, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza».
Quindi gli allarmi su un’improvvisa invasione di boss sono immotivati?
«Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose, casomai di ricordare che in carcere non ci sono organizzazioni ma persone. L’offrire una prospettiva di uscita, di rientro nella società, andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori di valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze. Terrei a un’ultima notazione, che non è un tecnicismo. La prima eccezione di costituzionalità è stata sollevata dalla Cassazione: quella Corte per molto tempo attuò una sorda resistenza e talora uno scontro diretto con la Corte costituzionale in difesa della legislazione fascista. È un mutamento culturale ormai assestato che riafferma il prestigio della Corte che assicura il terzo e ultimo grado di giudizio. E la sentenza numero 253, estesa per la penna di una grande costituzionalista, chiude idealmente la presidenza di Giorgio Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri».
Per i giudici non è un mafioso, ma è detenuto ancora al 41 bis. Nicola Simonetta attende dal 28 ottobre la revoca della misura. Damiano Aliprandi il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. Può accadere che al regime del 41 bis, la frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato, vi sia rinchiuso un detenuto che non appartiene alla criminalità organizzata e tantomeno al terrorismo? La risposta è sì. Si tratta di un calabrese settantenne, Nicola Antonio Simonetta, che rimane ancora al 41 bis nel carcere di Parma, nonostante la presenza di due sentenze che escludono la partecipazione al sodalizio mafioso. In sostanza il 41 bis gli viene considerato applicabile anche se due sentenze processuali hanno reso evidente l’assenza di coinvolgimenti in contesti mafiosi. La più importante, di secondo grado, c’è stata il 28 ottobre scorso che ha riformato la precedente, proprio quella che gli ha fatto scattare il 41 bis: da promotore di associazione semplice ( e non mafiosa) a mero reato di partecipante all’associazione per lo spaccio prevista dall’art. 74 dpr 309/ 90, escludendo anche l’aggravante mafiosa. Infatti da 27 anni di carcere, la pena è stata ridotta a 13. L’altra, relativa ad altro procedimento, è stata pronunciata in primo grado e lo ha assolto dal vincolo associativo. Il suo avvocato difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha fatto quindi istanza direttamente al ministro della Giustizia per chiedere l’immediata revoca del regime del carcere duro visto che non ci sono più i presupposti. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn. Se trasferito nel centro clinico di altro regime, infatti, potrà con maggiore facilità essere curato. Del caso è stata informata anche a Rita Bernardini del Partito Radicale. L’avvocata Lombardo spiega a Il Dubbio che il ministro non solo non ha disposto la revoca, ma non ha dato alcuna risposta in merito. «Dovrebbe essere un atto dovuto, così come ad esempio è accaduto con Massimo Carminati – spiega la legale -, quando essendo decaduta l’associazione mafiosa, giustamente gli è stato prontamente revocato il 41 bis. Non comprendo perché ciò ancora non sia avvenuto con il mio assistito». L’avvocata Lombardo sottolinea anche il fatto che non può fare nulla, nemmeno una istanza alla magistratura di sorveglianza di Roma competente per il 41 bis, visto che non ha ottenuto ancora nessuna risposta formale dal ministero della Giustizia. Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41 bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italo- americano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto. Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. «Tant’è che nell’inerzia delle parti – sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014». In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe – pur non comparendo mai – occultamente coordinato il traffico che altri ( Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Rimane il dato oggettivo che Simonetta non ha nessuna condanna per mafia, non risulta appartenente a nessuna ‘ ndrina, ma è tuttora al 41 bis. L’avvocata Maria Elisa Lombardo chiede la revoca immediata, altrimenti non rimane che ricorrere alla Corte Europea di Strasburgo.
L’interrogazione di Giachetti: è compatibile il carcere duro per un malato terminale? Valentina Stella il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. E’ il caso di Antonino Tomaselli, malato terminale per un tumore ai polmoni, detenuto in custodia cautelare in regime di 41 bis presso il carcere di Opera. Roberto Giachetti di “Italia Viva” ha presentato una interrogazione a risposta scritta ai ministri Bonafede e Speranza sul caso di Antonino Tomaselli, malato terminale per un tumore ai polmoni, detenuto in custodia cautelare in regime di 41 bis presso il carcere di Opera. Per un malato oncologico con una aspettativa di vita ridottissima è compatibile il carcere e in particolare modo il regime duro? Il parlamentare evidenzia che “Tomaselli non è imputato, né mai lo è stato in passato, per fatti di sangue” ma per il riesame e la Cassazione “le condizioni di salute in cui versa il Tomaselli non risultano modificate in peggio malgrado la gravissima malattia da cui l’indagato è affetto” e quindi sono compatibili con la detenzione al 41 bis. Giachetti, dunque, si chiede se tutto questo rispetti l’articolo 1 del decreto legislativo che riordina la medicina penitenziaria per cui “i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione” delle stesse prestazioni sanitarie. Come ci dice infatti uno dei suoi legali, l’avvocato Eugenio Minniti, che lo segue insieme a Giorgio Antoci: «Abbiamo censurato l’assoluta inefficienza della dirigenza sanitaria del carcere di Opera in quanto è stato omesso ogni protocollo terapeutico finalizzato a preservare le condizioni di salute del signor Tomaselli sulla scorta inoltre di quanto disposto dal tribunale della libertà di Catania che aveva previsto tutta una serie di cautele da adottare per tamponare la situazione drammatica in cui versa l’uomo a cui resta un anno di vita. Noi chiediamo che venga trasferito in un centro specializzato per fronteggiare le gravissime condizioni di salute. Ad oggi viene lasciato morire in carcere un soggetto che è in custodia cautelare preventiva e non accusato di reati omicidiari». La questione era stata sollevata proprio su Il Dubbio dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che commenta così oggi: «I fanatici e i cretini, diceva Sciascia più di trent’anni fa, credono che la terribilità delle pene ( compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come la mafia. Quando lo Stato, violando i diritti umani, utilizza gli stessi metodi dei peggiori assassini, moltiplica il male fatto contagiando con il virus della violenza l’intera società».
Musumeci: «Io, ex ergastolano, dico: questa sentenza fa paura alla mafia». Damiano Aliprandi il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Carmelo Musumeci, da agosto in liberazione condizionale, sulla decisione della Consulta. «Molti “soldati”, arrestati quando erano giovani, con una speranza di rifarsi una vita sarebbero stimolati ad uscire, anche culturalmente, dalle loro organizzazioni». «Dopo le sentenze della Corte Europea e della Corte Costituzionale sulla “Pena di Morte Viva”, che hanno dato fiato alla speranza ad alcuni ergastolani, le mafie tremano perché hanno paura di rimanere senza esercito», così spiega a Il Dubbio l’ex ergastolano Carmelo Musumeci che ad agosto scorso è riuscito ad ottenere la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Entrato in carcere con la licenza elementare ha conseguito due lauree, una in Giurisprudenza e una in Sociologia. Ha scritto “L’urlo di un uomo ombra” e altri libri sul fine pena. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. Da anni ha intrapreso delle lotte per l’abolizione dell’ergastolo ostativo ed è contento per la sentenza della Consulta che ha aperto un varco alla speranza.
Ma come fa a dire che la mafia ha paura di questa sentenza?
«Perché molti "soldati" (la manovalanza, ndr), specialmente arrestati quando erano giovani, con una speranza di rifarsi una vita sarebbero stimolati ad uscire, anche culturalmente, dalle loro organizzazioni».
Però c’è chi dice il contrario e infatti c’è stata una indignazione generale.
«Sì, dai salotti televisivi e dalla carta stampata si sono scatenate tante polemiche, come se la mafia fosse solo tutta in quei 700 detenuti condannati al carcere duro e in un migliaio, poco più, di ergastolani ostativi, in carcere da 20, e anche 30, anni. Si è detto che potrebbero uscire i condannati per le stragi di mafia, dimenticando di dire che la stragrande maggioranza di loro sono diventati collaboratori di giustizia. Si è detto che il carcere duro non va abolito perché c’è il rischio che i mafiosi diano ordini dal carcere, dimenticando di dire che arrestato un boss ce n’è subito un altro che prende il suo posto».
Lei dice spesso che l’ergastolo aggiunge ingiustizia ad ingiustizia.
«Certo, per questo i rivoluzionari francesi nel 1789 avevano mantenuto la pena di morte e abolito la pena dell’ergastolo. Penso che il carcere senza speranza sia una fabbrica di mostri e in tutti i casi la pena non dovrebbe essere una vendetta, ma piuttosto una malattia da cui si può, e si deve, guarire. La vendetta individuale è comprensibile, invece quella collettiva è disumana. Dopo dieci, venti, trent’anni di carcere un uomo, senza più vedere un tramonto, un’alba, un albero, un fiore, senza più sentire le voci dei bambini, non è più un uomo normale. Non è facile vivere senza futuro. Non è umano! Solo i morti possono vivere senza futuro. La giustizia potrebbe, anche se non sono d’accordo, ammazzare un criminale quando è ancora cattivo, ma non dovrebbe più tenerlo in carcere quando non lo è più, o farlo uscire solo quando baratta la sua libertà con quella di qualcun altro, collaborando, e spesso usando la giustizia».
Quindi un ergastolano che ha ucciso per mafia ha il diritto di una seconda possibilità?
«Se la pena è solo vendetta, sofferenza e odio come può questa fare bene o far guarire? Se siamo umani non possiamo stare prigionieri tutta una vita. Molti ergastolani sono nati già colpevoli, per il contesto sociale dove venuti al mondo, e non meritano di morire in carcere, in particolar modo i ragazzi che hanno subito la condanna all’ergastolo all’età di diciotto, diciannove e vent’anni. Penso che la pena dell’ergastolo sia una pena stupida e inutile, che distrugge il presente e il futuro a chi lo sconta e non dia vita a nessuna vita. È disgustoso essere contro l’abolizione dell’ergastolo per solo consenso sociale o politico e citare in modo strumentale le vittime, perché come dice Agnese Moro, figlia di Aldo Moro: “La sofferenza dei colpevoli non allevia il dolore delle vittime”».
E quindi, cosa propone?
«Credo che alle vittime dei reati interesserebbe di più far uscire ai colpevoli il senso di colpa per il male fatto e penso che questo sia più facile con una pena che faccia bene e che dia speranza, altrimenti il carnefice si sentirà a sua volta vittima, senza chiedersi mai quanto dolore ha inferto, ma rimanendo perennemente concentrato sul suo».
Serve l'ergastolo, non i premi agli assassini. Antonio Cianci, ergastolano, in permesso premio, esce ed accoltella un uomo per rapinarlo. Serve l'ergastolo, senza sconti. Maurizio Belpietro l'11 novembre 2019 su Panorama. La storia di Antonio Cianci andrebbe letta e riletta. Anzi, imparata a memoria. Non nelle aule scolastiche, ma in quelle di tribunale. In particolare, andrebbe declamata nell'aula della Corte costituzionale come la storia esemplare del perché un ergastolo debba essere un ergastolo e non una vacanza premio. Nonostante alle anime belle della Consulta e anche a quelle della Corte europea dei diritti dell'uomo, il «fine pena mai» non piaccia e lo ritengano una specie di tortura da vietare nella civilissima Europa, esso non ha una finalità punitiva, ma una funzione precisa, ossia impedire che gli assassini tornino a uccidere altre persone. Antonio Cianci era un ragazzo quando ammazzò la prima volta, sparando alla testa di un metronotte che aveva avuto il solo torto di incontrarlo sulla sua strada. Cianci lo uccise come un cane, ma essendo minorenne, nonostante il delitto di lì a poco tornò in circolazione, pronto per un altro omicidio. Infatti, dopo, di assassinii ne commise altri tre. Fermato a un posto di blocco da una pattuglia di carabinieri mentre era alla guida di un'auto rubata, Cianci uccise i tre militari, sparando prima che i poveretti si rendessero conto di avere davanti un killer. Condannato all'ergastolo e tenuto dietro le sbarre per decenni, l'altro giorno gli è stata concessa una licenza premio e per riconoscenza Cianci ha pensato bene di tagliare la gola a un pensionato colpevole di non essere generoso con lui. Mentre vagava nel piano interrato dell'ospedale San Raffaele, a Milano, il killer seriale ha incontrato l'uomo e gli ha chiesto di consegnargli il portafogli. Al rifiuto dell'anziano, Cianci ha messo mano al coltello e lo ha colpito al collo. Solo il caso ha voluto che al pensionato non fosse tagliata la carotide e solo il caso ha voluto che il tentato omicidio sia stato messo in atto nel sotterraneo di un ospedale, dove il pronto soccorso è stato possibile.
Ergastolano di Cerignola accoltella anziano durante permesso premio a Milano: ha ucciso 3 Cc. L'uomo, rapinato e ferito nel parcheggio sotterraneo dell'ospedale San Raffaele, non è in pericolo di vita. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Novembre 2019. Per poche monete e un cellulare ha deciso di spendere quel permesso premio, concesso pare per un solo giorno, accoltellando alla gola per rapina un anziano di 79 anni nel parcheggio di un ospedale. Se l’è giocate in questo modo quelle ore di libertà Antonio Cianci, che aveva 20 anni quaranta anni fa quando uccise a bruciapelo tre carabinieri della stazione di Melzo, nel Milanese, che l’avevano fermato per un controllo. Oggi, ergastolano di 60 anni è stato bloccato di nuovo dalla polizia per quell'aggressione sfociata in un tentato omicidio, con la vittima che fortunatamente, da quanto si è saputo, non è in pericolo di vita. Il 79enne è stato ferito alla gola da Cianci nel tardo pomeriggio mentre si trovava nel parcheggio sotterraneo dell’ospedale San Raffaele di Milano, al piano 'meno 1', vicino a delle macchinette del caffè. Stando a quanto ricostruito dagli agenti, Cianci lo avrebbe avvicinato per chiedergli dei soldi e al rifiuto dell’anziano, lui l’avrebbe colpito alla gola con un taglierino, portando via pochi soldi e il telefonino dell’uomo. E poi è scappato ed è stato fermato dagli agenti vicino alla stazione della metropolitana di Cascina Gobba. Aveva ancora il taglierino sporco di sangue con sé e anche i pantaloni insanguinati. Cianci, originario di Cerignola (Foggia) e che le cronache dell’epoca descrivevano come un giovane dal passato difficile e un «patito di armi», aveva 20 anni quando, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre del '79, uccise i tre carabinieri che lo avevano fermato ad un posto di blocco tra Liscate e Melzo, nel Milanese, a bordo di un’auto che risultava rubata. Mentre i militari controllavano i suoi documenti quella notte, scoprendo, tra l'altro, che a 15 anni aveva già ucciso un metronotte a Segrate (venne assolto per incapacità mentale e fece 3 anni di riformatorio), il giovane fece fuoco con una pistola automatica. E uccise il maresciallo Michele Campagnuolo, l’appuntato Pietro Lia e il carabiniere Federico Tempini. Quando venne arrestato, Cianci non confessò e disse, anzi, che a sparare ai militari della stazione di Melzo erano stati alcuni sconosciuti a bordo di un’auto. Al processo di primo grado venne condannato all’ergastolo, confermato in appello nel 1983. Processo quest’ultimo in cui finalmente, però, con una lettera ai giudici confessò la strage e la condanna venne confermata, poi, anche in Cassazione. Ora era detenuto a Bollate e, da quanto si è saputo, aveva ottenuto un permesso premio di un giorno. La sua vittima di oggi è ricoverata al San Raffaele, è grave ma non in pericolo di vita. FIGLIA DI UNA VITTIMA: UN ESSERE IGNOBILE - Aveva 6 anni Daniela Lia quando nel 1979 suo padre, l’appuntato Pietro Lia, venne «massacrato senza pietà» a 51 anni, assieme ad altri due carabinieri, mentre stava facendo il suo lavoro, un servizio di controllo su una strada statale vicino Melzo, nel Milanese. Antonio Cianci gli sparò addosso 5 colpi, «ma mio padre si rialzò cinque volte, lottò finché poté contro di lui, alla fine aveva le unghie rotte». Non è bastato un ergastolo per «quell'essere ignobile», dice ora all’ANSA la donna, ma gli è stato «permesso» di creare «altro dolore» in un’altra famiglia, «di calpestare e oltraggiare ancora la memoria del mio papà e dei suoi colleghi Michele Campagnuolo e Federico Tempini». Ieri, infatti, l’ergastolano Cianci, ormai 60 anni e che già a 15 anni aveva ucciso un metronotte, ha tentato di uccidere un anziano per rapina, usufruendo di un permesso premio: una vicenda sulla quale il ministro della Giustizia Bonafede ha già disposto accertamenti preliminari. «Quando ieri molto delicatamente due carabinieri mi hanno dato conto di questa notizia - racconta Daniela Lia - sono rimasta sconvolta dal fatto che si sia permesso a questo essere ignobile, che massacrava senza pietà, di mettere un’altra famiglia in condizioni di dolore, calpestando e oltraggiando, tra l’altro, ancora la memoria di mio padre e dei suoi colleghi». Chiarisce subito di avere «molto rispetto per lo Stato», di essere «molto grata all’Arma per tutto l’affetto che ha dimostrato per la nostra famiglia in questi anni». Aggiunge, però, facendo riferimento al permesso premio concesso dai giudici, che «non si doveva permettere a quest’essere di andare ancora in giro a creare dolore». E racconta ancora che sua madre «non si riprese mai dalla morte di mio padre, fu lacerata per sempre dal dolore, ebbe un ictus e morì tre anni fa».
Il primo delitto a 15 anni, i 3 carabinieri uccisi: Cianci, il killer in permesso che ha accoltellato un uomo. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Corriere.it. Allo studente universitario Gabriele Mattetti, 29 anni, che lavorava per arrotondare come metronotte in una fabbrica di Segrate, il killer chiese l’ora e senza attendere la risposta sparò alla schiena, al cuore e alla testa. Era il 17 ottobre del 1974, Antonio Cianci (l’ergastolano che sabato ha accoltellato un anziano paziente nel seminterrato dell’ospedale San Raffaele), originario di Cerignola (Foggia) trasferitosi a Pioltello insieme alla madre e alle sorelle nel ‘64, all’epoca aveva 15 anni, un lavoro come lattoniere iniziato dopo la quinta elementare. E una passione smodata per le armi e un’attrazione morbosa per tutto ciò che fosse criminale. Anche se i delinquenti veri lo tenevano alla larga, perché era considerato un pazzo e una testa calda. Aveva evitato il carcere per la giovane età. Ed era ancora «vigilato», quando cinque anni dopo, la sera del 9 ottobre 1979, era stato fermato da tre carabinieri lungo la Rivoltana vicino a Liscate. Al maresciallo Michele Campagnuolo, all’appuntato Pietro Lia e al carabiniere Federico Tempini, aveva lasciato il tempo di parlare con la centrale e di verificare che la Cinquecento sulla quale viaggiava era rubata. Un testimone aveva detto d’averlo visto parlottare con i militari. Mentre un altro, multato dai carabinieri al posto di blocco, aveva perfino spiegato d’essersi fatto cambiare una banconota da quel ragazzo, tranquillo e calmo in attesa di ripartire. Quando però i militari si erano avvicinati, dopo aver avuto la conferma che la macchina «scottava» e alla guida c’era un ragazzo con precedenti per omicidio, lui aveva sfilato la 7.65 che teneva sotto la giacca e aveva scaricato loro addosso tutti i colpi del caricatore. Uccisi tutti e tre, senza il tempo di reagire. Nelle sue disordinate confessioni davanti ai magistrati non ha mai saputo spiegare il perché dei suoi quattro omicidi. Ha raccontato che uno dei carabinieri lo aveva preso in giro per la foto sulla patente. E a quel punto aveva deciso di sparare. Il suo avvocato durante il processo chiese perizie psichiatriche che però non hanno mai certificato l’infermità mentale. Per lui la condanna all’ergastolo e una vita trascorsa in cella dal 1979. Tre quarti della sua esistenza. Al carcere di Bollate, il detenuto pluriomicida Cianci non aveva mai creato problemi o preoccupazioni. Non lavorava, ma si prestava come volontario per gli altri detenuti nel segretariato, come spiega la direttrice Cosima Buccoliero. In sostanza faceva lo scrivano per i nuovi arrivati, per aiutarli a presentare istanze e domandine. Il suo non era un ergastolo ostativo, quello riservato a terroristi e mafiosi irriducibili — e sul quale si sono accese le polemiche nelle ultime settimane —, ma un regime ordinario. Tanto che il 60enne Cianci usufruiva da settembre dei permessi premio dopo 40 anni di detenzione ininterrotta. Un anno e mezzo fa era stato trasferito dal supercarcere di Opera a quello «modello» di Bollate. Una decisione motivata dalla necessità di una detenzione a sorveglianza attenuata in vista della progressiva uscita. Sabato mattina aveva lasciato il carcere con un permesso premio di tre giorni per raggiungere la sorella che vive a Cernusco sul Naviglio, a meno di cinque chilometri dal San Raffaele. Lì però non è mai arrivato.
Violenza dell’ergastolano in permesso premio, il carcere: “Cianci era cambiato”. L’ergastolano Antonio Cianci aveva ottenuto un permesso premio di 12 ore sulla base di una norma che prevede la valutazione di buona condotta e assenza di pericolosità sociale. Gabriele Laganà, Domenica 10/11/2019, su Il Giornale. Sono passati 40 anni ma Antonio Cianci non sembra essere poi essere cambiato molto. L’uomo di 60 anni, all’ergastolo per aver ucciso tre carabinieri, ieri ha tentato di uccidere un anziano per rapinarlo all’interno del parcheggio del San Raffaele. Ma perché Cianci era fuori? Secondo la relazione fornita dal carcere di Bollate favorevole alla concessione del permesso premio, disposto dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, l’assassino era cambiato tanto aver fatto un positivo percorso di ravvedimento, nella piena consapevolezza. L’uomo, in sostanza era maturato ed era considerato affidabile. E così gli è stato concesso un permesso "di 12 ore" sulla base di una norma che prevede la valutazione di buona condotta e assenza di pericolosità sociale. Ma dopo i fatti di ieri, tutte le belle parole sembrano evaporare come neve al sole. In base a quanto ricostruito dalla polizia, Cianci indossava una felpa da inserviente del San Raffaele quando si è avvicinato all’anziano di 79 anni, in ospedale per far visita ad una parente, nel piano "meno 1". L’ergastolano ha iniziato a minacciare il pensionato per sottrargli il cellulare. Davanti alla resistenza opposta dal vecchietto, Cianci ha perso la testa e l'ha colpito vicino alla giugulare con un taglierino. Non appena ha visto gli agenti avvicinarsi a lui nei pressi della stazione della metro di Cascina Gobba, il violento ha gettato arma e telefono in un bidone. Non si sa cosa ci facesse nell’ospedale. Sembrerebbe che l’uomo avesse ottenuto un permesso premio per andare a trovare la sorella nell'hinterland milanese.
La vicenda ha sconvolto l’opinione pubblica e ha messo in subbuglio la politica.Secondo quanto appreso dall'Ansa, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha dato mandato all'Ispettorato di compiere accertamenti sulla vicenda. Già domani potrebbe essere interrogato dal gip, mentre la procura chiederà la convalida del fermo e la custodia in carcere con le accuse di tentato omicidio e rapina. Un profondo sconcerto per l’intera vicenda è stato espresso da Daniela Lia, figlia di Pietro Lia, il carabiniere di 51 anni ucciso assieme ad altri due militari nel '79 per mano di Cianci. "Sono sconvolta dal fatto che si sia permesso a questo essere ignobile che massacrava senza pietà, di mettere un'altra famiglia in condizioni di dolore, calpestando e oltraggiando, tra l'altro, ancora la memoria di mio padre e dei suoi colleghi". Ma il massacro dei militari non era stato la prima azione da killer spietato per Cianci. Quest’ultimo già cinque anni prima, a soli 15 anni, aveva ucciso Gabriele Mattetti, un metronotte di 29 anni. La vittima fu colpita prima alle spalle e, una volta a terra, fu finita con due proiettili al viso e uno al cuore. Infine, l’assassino gli rubò l’arma ritrovata nello schienale di una poltrona del soggiorno di casa del criminale. Sulla questione è intervenuta anche Emanuela Piantadosi, presidente dell'Associazione Vittime del Dovere e figlia del maresciallo Stefano Piantadosi, ucciso a Opera nel 1980 da un uomo che stava controllando e che era un omicida evaso dal carcere:"Quanto altro spargimento di sangue si dovrà avere prima che il ministro della Giustizia e il governo prendano coscienza di quanto sia fondamentale monitorare seriamente la recidiva in questo Paese?". La stessa Piantadosi afferma che dalla precedente legislatura è stato chiesto al Ministero che venisse misurata “con dati certi ed inequivocabili la recidiva che rappresenta quel metro di misura essenziale per stabilire se un condannato abbia preso coscienza dei reati commessi, abbia scontato consapevolmente la sua pena e sia stato effettivamente rieducato, secondo quanto stabilito dalla costituzione art 27”. Dopo un primo colloquio avvenuto nel 2018, però, non ci sono state novità tanto che “al ministro Bonafede sono stati sollecitati ripetutamente incontri, mai più accordati, per avviare uno studio serio sulla recidiva, per garantire certezza della pena, per istituire un tavolo per le vittime di reato, per aprire un dibattito sul processo penale, al fine di dare un peso e un ruolo effettivo, che non sia solo risarcitorio, alla vittima poiché in Italia le ragioni delle vittime e la sicurezza della collettività contano meno dei diritti dei delinquenti".
Permesso premio a Cianci: solo i carabinieri erano contrari all’uscita. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Cesare Giuzzi e Luigi Ferrarella su Corriere.it. Dopo 44 anni in cella il 60enne Antonio Cianci - l’ergastolano quadruplice omicida (di un metronotte nel 1974 a 15 anni, e di tre carabinieri nel 1979) che in permesso premio sabato sera con un taglierino in un tentativo di rapina alle macchinette del caffè del «piano -1» dell’ospedale San Raffaele ha quasi tagliato la gola al 79enne compagno di una paziente - aveva avuto non solo una positiva relazione dell’équipe di educatori-psicologi-criminologi il 29 marzo scorso; o il parere favorevole della direttrice del carcere di Bollate il 15 aprile; ma persino «un encomio il 31 ottobre 2018 per l’attività nella segreteria Nuovi Giunti». Su un piatto della bilancia il giudice di Sorveglianza, Simone Luerti, trovava esperti per i quali era «non più socialmente pericoloso» il detenuto che, dopo anni di «iniziale atteggiamento oppositivo, col tempo si era mostrato sempre più collaborativo», maturando «un senso di colpa soprattutto nei confronti delle famiglie dei carabinieri uccisi, consapevole di aver condannato figli a vivere senza i loro padri»: come Daniela Lia, che aveva 6 anni, e che ieri lamenta «altro dolore» da «quell’essere ignobile». Sull’altro piatto della bilancia, invece, il giudice aveva la chance di lavoro sprecata da Cianci quando nel 2015 era tornato in cella mezzo ubriaco: era perciò «stato segnalato al Sert del carcere, che però non aveva ritenuto il soggetto abusatore di alcol». Contraria al permesso era poi una nota dei carabinieri di Milano del 25 giugno, ma per due motivi collaterali: il fatto che la sorella avesse una denuncia per minacce e vivesse in una casa popolare dagli affitti non pagati, ma il giudice valutava che, trattandosi di permesso e non di misure alternative, la questione fosse «non rilevante». Infine il 30 maggio vengono «chieste alla Questura di Milano le informazioni» previste dalla legge, «senza che sia pervenuta risposta». E del resto anche il pm di apposito turno in Procura, che in teoria avrebbe potuto impugnare la concessione del permesso (in quel caso congelabile in attesa di udienza collegiale al Tribunale di Sorveglianza), aveva messo il visto. Tuttavia il giudice Luerti, come raramente accade, il 26 luglio sia nella motivazione sia nel dispositivo del provvedimento che autorizzava il primo permesso aveva anche prescritto: «Almeno per le prime volte, e comunque fino a nuova disposizione del magistrato, si impone l’accompagnamento dal carcere a Cernusco e rientro con familiare o altra persona nota (che potrà essere anche un volontario), al fine di evitare il possibile disagio per una nuova dimensione di libertà, che implicherebbe anche un complesso viaggio con mezzi pubblici». In attesa degli accertamenti disposti dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è ancora da chiarire se sabato l’accompagnamento ci sia stato, o se possa essere stato equivocata al punto n.6 delle «prescrizioni» la residua formula standard «fare uso esclusivo di mezzi pubblici, con facoltà di usare i mezzi privati purché accompagnato da un familiare/volontario, negli spostamenti e all’uscita e al rientro». La rilevanza della questione rispetto al ferimento (per fortuna meno grave perché per pochi centimetri le ferite alla gola sono superficiali, il 79enne verrà dimesso tra qualche giorno, e già ai soccorritori aveva subito detto «mi è andata bene...»), è tuttavia relativa: stando infatti alle prime indagini coordinate dal pm Nicola Rossato, l’ergastolano (solo o accompagnato che fosse) è in effetti andato sia dalla sorella sia dai carabinieri di Cernusco, dove ha firmato alle 15.08. Il ferimento al San Raffaele, distante alcuni chilometri, è delle 17.45: che cosa lo abbia spinto lì ancora non si sa, e forse solo Cianci potrà spiegarlo oggi.
Permessi premio, migliaia di detenuti ne usufruiscono rispettando gli obblighi. Damiano Aliprandi il 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. In questo primo semestre quasi 20.000 persone ne hanno usufruito. Sull’ergastolo ostativo il presidente della consulta, Giorgio Lattanzi, ha evidenziato come non si possa giustificare il mantenere in detenzione chi non intende collaborare. Il caso dell’ergastolano Antonio Cianci che, usufruendo del permesso premio di un giorno, ha accoltellato alla gola un pensionato di 89 anni per rapinarlo in un parcheggio sotterraneo dell’ospedale San Raffaele di Milano, ha riacceso l’indignazione sulla bontà di questo beneficio. Inevitabilmente è stata evocata, a torto, la sentenza della Consulta in merito alla possibilità di fare istanza per questo beneficio anche per gli ergastolani che non collaborano con la giustizia. Caso che però non riguarda Cianci, visto che non è un ergastolano ostativo. Così come non riguardò altri ergastolani, tipo il famigerato Angelo Izzo, il mostro del Circeo, che ha ingannato – tranne Giovanni Falcone che a suo tempo lo inquisì per calunnia – diversi magistrati fingendosi un collaboratore. Usufruì di un permesso premio e uccise nuovamente. Il problema che ci possano essere errori di valutazione per la concessione di tale beneficio è scontato. Ma bisogna inquadrare il nostro sistema, altrimenti diventa tutto incomprensibile. Il nostro sistema penale prevede pene molto lunghe. Non solo le prevede ma le applica anche, a differenza di quanto accade in altri Paesi. Si può citare l’esempio della strage dell’isola di Utoya in Norvegia: la pena massima prevista dal codice penale, malgrado i 77 morti, è di 21 anni. Noi abbiamo l’ergastolo e perfino il carcere con fine pena mai, ovvero l’ostativo. Il nostro sistema prevede, però, misure per riequilibrare queste pene visto che abbiamo una Costituzione e, fino a prova contraria, dobbiamo rispettarla. Questo modello di apertura del carcere ha uno scopo ben preciso e indispensabile. Non solo quello di consentire di mantenere i rapporti con la famiglia, di consentire di pensare a un’occupazione per quando si esce, ma serve anche per eliminare l’isolamento e preparare il detenuto a fare i conti con la realtà che gli spetta una volta uscito. Ci sono detenuti che, non usufruendo per diversi motivi di nessun beneficio, quando terminano di scontare la pena ed escono, non sanno nemmeno più come si prende un autobus perché per anni sono rimasti fuori da tutto. Sì, perché tutti devono avere la speranza di uscire. Anche gli ergastolani ostativi. Lo ha ribadito ieri anche il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, intervenendo a Firenze al convegno “Meriti e limiti della pena carceraria”, organizzato dall’Ateneo fiorentino. «Oggi che si sentono espressioni come “buttare la chiave”, “marcire in carcere” – ha spiegato Lattanzi -, cose che non si erano più sentite da anni, è ancora più importante la riflessione sui meriti della pena carceraria». Il presidente della Consulta, ha evidenziato come non si possa giustificare il mantenere in stato di detenzione per chi non intende collaborare. Lattanzi ha ricordato come «la Corte ha detto moltissime volte che le presunzioni assolute non sono consentite». Ma ritorniamo al permesso premio. È contemplato dall’articolo 30 ter, il quale stabilisce che ai condannati che hanno tenuto una regolare condotta durante l’esecuzione della pena ( 8° comma) e che non risultano essere socialmente pericolosi, possono essere concessi tali permessi dal magistrato di Sorveglianza sentito il Direttore dell’Istituto penitenziario. Tali permessi hanno come obiettivo quello di consentire ai condannati di coltivare, fuori dall’Istituto penitenziario, interessi affettivi, culturali, di lavoro. La durata dei permessi non può essere superiore ogni volta a 15 giorni e non può comunque superare la misura complessiva di 45 giorni in ciascun anno di espiazione della pena. ll fatto di usufruire tale permesso, comporta qualche rischio? Sì, ma la percentuale è bassissima e per un caso su un migliaio non può essere messo in discussione. Secondo i dati del primo semestre del 2019, sono quasi 20.000 i detenuti che hanno usufruito del permesso premio. Ciò dimostra che il sistema funziona benissimo, e per colpa di qualcuno che sbaglia non possono pagarne la conseguenza le migliaia di detenuti che rispettano rigorosamente gli obblighi.
41 bis, un’ora di umanità con Rosetta. Quasi trent’anni di isolamento. Damiano Aliprandi il 13 Novembre 2019 su Il Dubbio. Trent’anni di carcere duro e poi un colloquio: 60 minuti. Al 41 bis per mafia, senza familiari, sempre in isolamento. È il primo incontro permesso a una persona che non ha alcun grado di parentela. In carcere fin dal 1982 per reato di mafia e dagli anni 90 in poi, ininterrottamente al 41 bis, è rimasto senza parenti e, visto che il regime duro consente i colloqui solamente con i familiari, non ha mai potuto parlare con nessuno. Nessun colloquio, per decenni tumulato vivo e l’unico contatto con l’esterno è stato per via epistolare con una donna, Rosetta, con la quale non ha nessun legame di sangue, nonostante faccia parte – seppur acquisita – della sua famiglia. Lei si ricorda di lui giovane, ed è l’unica che gli scrive da anni, quando gli spedisce pacchi di pasta e qualche soldo per potergli permettere di compare qualcosa allo spaccio del carcere. Sì perché stare al 41 bis significa essere isolato da tutti, ed è difficile vivere solamente con quello che ti passano. Il 41 bis, la cui ratio teoricamente dovrebbe consistere esclusivamente quella di evitare che un boss dia ordini all’esterno al proprio gruppo criminale di appartenenza, ha diverse misure afflittive che rendono sempre più difficoltosa la tenuta del regime differenziato, perché si esce inevitabilmente fuori dal perimetro costituzionale. Una è proprio quella di avere una sola ora di colloquio al mese, esclusivamente con i parenti di primo grado, e dietro un vetro divisore. I suoi legali, le avvocate Barbara Amicarella e Benedetta Di Cesare del foro de L’Aquila, sono riusciti ad ottenere l’impossibile. Una battaglia legale a colpi di istanze e rinvii che ha permesso, dopo 37 anni, di fargli fare un colloquio di un’ora. Un caso eccezionale al 41 bis: il primo colloquio effettuato con una persona che non appartiene a nessun grado di parentela. Rosetta è la figlia della sorella della zia materna acquisita del recluso. Tramite i legali, il recluso al 41 bis aveva fatto istanza alla magistratura di sorveglianza che però ha rigettato. A quel punto ha impugnato il rigetto e ha fatto reclamo al tribunale di sorveglianza. Ma nulla da fare. Il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila ha rigettato con il presupposto che il legame affettivo tra lui e Rosetta, che avrebbe dovuto integrare il requisito dei "ragionevoli motivi", necessario a giustificare il colloquio visivo con persone diverse dai familiari, ai sensi dell’art. 37, comma 1, d. P. R. 30 giugno 2000, n. 230, non risultava dimostrato, non essendo sufficienti a tal proposito gli accrediti periodici di somme di denaro ricevuti mediante vaglia postale dal detenuto e l’intensa corrispondenza epistolare intercorsa tra i due soggetti durante la detenzione del ricorrente. I legali hanno ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato. Un ricorso dichiarato fondato dai giudici che hanno sottolineato come la lettura dell’art. 37, comma 1, d. P. R. n. 230 del 2000 non legittima una tale interpretazione restrittiva della nozione di ‘ ragionevoli motivi’, «non potendosi escludere – scrivono i giudici della Cassazione – la rilevanza di situazioni collegate alla condizione detentiva patita dall’istante, valutabili su un piano esclusivamente soggettivo». I giudici della Corte suprema hanno quindi annullato l’ordinanza della magistratura di sorveglianza con rinvio, la quale poi ha dato finalmente il via libera al colloquio. Ma non finisce qui. Nel frattempo il detenuto è stato trasferito al carcere di Sassari e, come spesso accade, la direzione dell’istituto non ha dato luogo all’autorizzazione. Ancora una volta si è fermato tutto e le avvocate Amicarella e Di Cesare hanno dovuto fare ottemperanza. Anche questo ostacolo è stato superato e la settimana scorsa, dopo 37 anni, Rosetta ha potuto fare il colloquio per un’ora, dietro il vetro divisorio. Il recluso al 41 bis, d’altro canto, ha avuto finalmente un contatto visivo con un altro essere umano, con il quale ha avuto contatti solamente epistolari per decenni. È stata concessa così, grazie a una battaglia legale, una sola ora di umanità. Inevitabilmente ci si chiede se tutto ciò sia compatibile con l’articolo 27 della Costituzione.
Valerio Onida: «Senza benefici l’ergastolo è contro la Carta». Errico Novi il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. Valerio Onida presidente emerito della Consulta. «Con la sentenza sul 4 bis, la Corte ha inevitabilmente giudicato non libera la scelta di chi collabora. Ora nessuna legge potrà stabilire eccezioni per I boss mafiosi: il doppio binario non può spingersi fino a negare la Carta». «Se nel nostro ordinamento si può parlare di ergastolo, se ancora una simile pena esiste, è solo ed esclusivamente perché è possibile per il condannato la prospettiva di un ritorno in libertà. Senza l’accesso almeno potenziale a un esito indispensabile per attuare il fine rieducativo della pena, l’ergastolo sarebbe incostituzionale. Ecco perché non ha senso ipotizzare che la sentenza della Consulta sull’articolo 4 bis possa essere “rettificata” da una legge che ne limiti l’applicazione. Non si può escludere dal beneficio dei permessi e più in generale dai benefici penitenziari, fino alla liberazione condizionale, alcun detenuto, neppure chi è stato a capo dell’organizzazione criminale». Vale la pena di riportare subito, parola per parola, la risposta del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida a parlamentari e magistrati che nelle ultime ore insistono per circoscrivere la pronuncia sull’ergastolo ostativo. Ne vale la pena perché Onida è tra le figure che personificano più adeguatamente l’Istituzione con la “I” maiuscola. Forse solo lo sconquasso emotivo per una sentenza che ha sconvolto il quadro preesistente, com’è avvenuto con la pronuncia del 23 ottobre, può giustificare alcune prese di posizione. Accolta l’attenuante della novità, è opportuno rimettere in ordine i principi di diritto.
È dunque impossibile perimetrare lo spettro di applicazione della sentenza costituzionale sul 4 bis, Presidente Onida?
«Il principio per cui l’ergastolo deve necessariamente essere integrato da una possibilità, anche distante nel tempo, di liberazione è costituzionalmente sancito. Su tale aspetto non c’è alcuna discussione. Come credo sia chiaro a tutti, la Corte costituzionale ha risolto un altro dilemma: se considerare la collaborazione come presupposto irrinunciabile per l’accesso ai benefici soddisfacesse o meno il principio della necessaria prospettiva di libertà. E la Corte ha ritenuto che non fosse possibile subordinare alla collaborazione la prospettiva del ritorno in libertà. Prima d’ora si era ritenuto che fosse possibile perché si riteneva la collaborazione come una scelta pur sempre libera dell’interessato, e dunque tale da consentirgli comunque di ottenere la liberazione. Ma, a rifletterci, non si può davvero ritenere sempre libera una scelta simile. Non può esserlo per chi teme che la sua collaborazione provochi rappresaglie su persone a lui care. Per esempio. Oppure per chi non ha mai ammesso le proprie colpe, e dunque non può essere costretto a confessare, neppure dopo che una sentenza abbia invece affermato la sua responsabilità. La collaborazione non può essere pretesa, appunto. Quale sarà la bussola dei giudici di sorveglianza? Lo prescrive da sempre l’ordinamento penitenziario: accertare la rottura di ogni legame con la criminalità e il sicuro “ravvedimento” della persona».
La rottura, per un ergastolano ostativo, può essere accertata anche per via indiretta, con la rottura dei legami criminali da parte dei suoi familiari?
«È evidente che se i familiari del condannato mantengono relazioni criminali sarà più difficile provare l’insussistenza di relazioni anche indirette fra il condannato e l’organizzazione. Così com’è chiaro che se invece i familiari hanno spezzato quei legami si è di fronte a una prova che può essere significativa anche per il detenuto. D’altronde a me pare che chi muove critiche alla sentenza dimentichi soprattutto un aspetto».
Quale?
«Il carattere individuale di qualsiasi trattamento sanzionatorio e l’obbligo di valutare lo specifico percorso compiuto dal singolo condannato».
È scontato che prima o poi si arrivi a giudicare illegittimo il vincolo della collaborazione anche rispetto alla liberazione condizionale?
«È chiaro che l’ostatività per chi non collabora è destinata a cadere anche rispetto al beneficio della liberazione condizionale. Se la collaborazione non è più vincolante rispetto alla concessione del permesso, che è uno dei primi traguardi del percorso rieducativo, a maggior ragione non può essere vincolante per un istituto quale la liberazione condizionale che è il solo davvero in grado di rendere costituzionalmente legittima la pena dell’ergastolo. Il che non vuol dire che assisteremo a una scarcerazione in massa di boss mafiosi».
Perché è stupito delle reazioni alla pronuncia?
«Perché siamo al cuore dell’idea di pena prevista dalla nostra Carta e dalla Convenzione europea dei diritti umani. La prospettiva di libertà è elemento necessario perché l’ergastolo sia ammissibile, punto. La stessa costituzionalità del fine pena mai, com’è noto, è in discussione. È invece scontato che chi si vede infliggere quella pena debba sapere fin dall’inizio che un giorno potrà tornare libero».
Ma ora il Parlamento potrebbe escludere da tale prospettiva chi è stato a capo dell’organizzazione criminale?
«No. Assolutamente no. La valutazione sulla rottura delle relazioni criminali e sul percorso rieducativo, sul ravvedimento, va compiuta in concreto rispetto alla singola persona. Ripeto e scandisco: per- so- na. Non sul ruolo che quella persona ha rivestito in passato».
A proposito di diritti costituzionalmente sanciti: il Cnf ha chiesto di differire l’entrata in vigore del blocca- prescrizione per poter verificare l’efficacia delle riforme sulla velocizzazione dei processi. Condivide?
«Se si decide di bloccare la prescrizione dopo il primo grado è perché si ritiene che appello e Cassazione possano svolgersi in tempi ragionevoli. Trovo quindi non priva di senso l’idea di rinviare l’efficacia della norma in modo da verificare se i tempi del processo dopo il primo grado sono e possono essere resi ragionevoli davvero, come peraltro prescrive l’articolo 111 della Costituzione. Ciò non toglie che questa norma sul venir meno della prescrizione dopo la condanna in primo grado possa anche essere utile».
Da quale punto di vista?
«Non si può trascurare che talora le impugnazioni possono essere proposte al solo fine di raggiungere la prescrizione, da chi sa di avere in effetti una responsabilità. Se si sgombra il campo da tale uso anomalo dell’istituto, chi è condannato in primo grado e sa di essere colpevole potrà guardare piuttosto a una rapida esecuzione in forma di misure alternative e ad arrivare il prima che può alla riabilitazione. Se invece è convinto di dovere e poter dimostrare la propria innocenza, anche oggi può rinunciare alla prescrizione. Si potrebbe insomma forse attenuare il carico dei processi su Corti d’appello e Cassazione».
Ma è altrettanto necessario che chi è condannato in primo grado e sa di essere innocente non debba attendere lustri per vedere accertata la propria estraneità?
«E infatti la norma che blocca la prescrizione potrebbe essere opportunamente accompagnata dalla previsione di tempi di fase comunque insuperabili per appello e Cassazione».
Più in generale, soprattutto riguardo all’ergastolo, non vede un po’ d’insofferenza per i principi costituzionali?
«Prevale la cultura del buttar via la chiave, evidentemente. A proposito dell’ergastolo, mi pare infondata anche la preoccupazione per il fatto che il giudizio resterà affidato al magistrato di sorveglianza. La valutazione sul percorso rieducativo va necessariamente compiuta in modo non astratto ma individuale, e con la conoscenza della singola situazione. Sono proprio il singolo giudice e Tribunale di sorveglianza che devono decidere».
Il consigliere del Csm Di Matteo preferirebbe un Tribunale di sorveglianza unico nazionale.
«Una soluzione del genere sarebbe priva di coerenza logica con il principio per cui il trattamento e il percorso rieducativo, e quindi anche la valutazione del percorso, devono essere individuali. Un collegio collocato a Roma non può certo decidere su casi in tutta Italia. I magistrati di sorveglianza devono seguire da vicino i detenuti e i loro percorsi, conoscendo le situazioni concrete. Essi devono esercitare le proprie funzioni il più possibile vicino al luogo dove il condannato espia la pena e in contatto con quella realtà. Dovrebbero anzi interloquire con gli stessi detenuti e con gli operatori penitenziari. Devo dire che, se trovo spiegabili certe dichiarazioni di esponenti politici, mi lasciano più sorpreso quando queste arrivano da magistrati. È come se si volesse ipotizzare un ordinamento penitenziario diverso per i condannati di mafia. Ma non si può spingere il modello del doppio binario fino a contraddire i principi essenziali della Costituzione».
Corte costituzionale, Lattanzi: il silenzio del recluso non sia punito. Errico Novi il 6 Novembre 2019 su Il Dubbio. Così il presidente della Consulta spiega il suo giudizio sul 4 bis. Qualsiasi detenuto deve poter contare su un futuro rientro nella società, «che non può essere negato a chi non collabora». E c’è altro da dire, dopo aver sentito Giorgio Lattanzi, il giudice delle leggi per definizione, il presidente della Corte costituzionale? Si può ancora equivocare con livore su chi difende il diritto alla speranza degli ergastolani ostativi? No, non è possibile se si ascoltano le parole pronunciate da questo maestro del pensiero giuridico due domeniche fa, lo scorso 27 ottobre, nell’auditorium di Rebibbia, dopo l’ultima proiezione del film “Viaggio in Italia – La Corte costituzionale nelle carceri”, che è quasi il manifesto della sua presidenza. Interviene, Lattanzi, dopo la presentazione di Donatella Stasio e una domanda del professor Marco Ruotolo, ordinario a Roma Tre, che cita la lettera scritta da Filippo Rigano, ergastolano laureatosi in Legge dopo 27 anni in cella: «Esiste, ci chiede Filippo, un diritto alla speranza per qualsiasi detenuto, anche ostativo?». Rigano ha discusso la sua tesi sul 4 bis proprio nel giorno in cui la Corte presieduta da Lattanzi ha sancito che è illegittimo subordinare alla collaborazione l’accesso ai permessi per gli ergastolani ostativi. «Una bella coincidenza», nota Ruotolo, «in cui torna un quesito: deve esserci per tutti, un diritto alla speranza? Non chiedo a Lattanzi di anticipare le motivazioni della sentenza sul 4 bis, ma solo se quel diritto alla speranza caro alla Corte di Strasburgo possa trovare concretezza anche in Italia». Lattanzi sorride. Davanti a lui ci sono centinaia di reclusi. Che già applaudono alla domanda di Ruotolo. E poi aspettano in silenzio la risposta dal giudice delle leggi. Eccola: «Mi sembra che senza diritto alla speranza non ci sia prospettiva di rieducazione. È chiaro che la rieducazione, la risocializzazione si basano sulla speranza. Se manca, la vita del detenuto resta senza senso». Arrivano applausi diversi dai precedenti. Perché sono chiaramente confusi con le lacrime. Lattanzi non perde il suo sorriso e continua: «È con la speranza che la vita del detenuto acquista un senso. Ora, ci sono ragioni di carattere giuridico in cui ho creduto, ma sull’ergastolo ostativo la prospettiva su cui riflettere è proprio la risocializzazione. E io in particolare», aggiunge il presidente della Consulta, «a proposito della collaborazione, ho sostenuto che se anche in Italia, come in tutti gli Stati civili, esiste un diritto al silenzio, vuol dire che dal silenzio non può derivare un aggravarsi del trattamento sanzionatorio. Un simile aggravamento», ossia l’esclusione dal diritto alla speranza e cioè dalla possibile risocializzazione, «non può essere giustificato neppure da esigenze di politica criminale. Tali esigenze possono sì legare, alla collaborazione con la giustizia, un premio, ma la mancata collaborazione non può implicare una sanzione. E questa è una cosa in cui credo profondamente». Altri applausi. Che Lattanzi merita per aver descritto con incredibile semplicità il significato che, assai probabilmente, va attribuito alla pronuncia dello scorso 23 ottobre.
Una possibilità di riscatto va almeno teoricamente concessa anche al più feroce dei criminali, a condizione che, come dice dal palco di Rebibbia il professor Ruotolo, «recida i rapporti con il crimine e, soprattutto, mostri ravvedimento». E a nessuno si può negare un simile spiraglio di vita per il semplice fatto di aver esercitato il diritto al silenzio, che altrimenti non sarebbe un diritto. Chiarissimo. Di una chiarezza disarmante. Forse persino per chi vede il veleno della collusione in chiunque osi difendere le ragioni del diritto.
Gianfilippi: «Noi giudici di sorveglianza da sempre siamo a rischio minaccia come i pm». Damiano Aliprandi il 7 Novembre 2019 su Il Dubbio. Parla al Dubbio Fabio Gianfilippi il magistrato che ha portato l’ergastolo ostativo alla consulta. All’eventuale previsione di accentramento degli uffici non corrisponde al principio costituzionale del giudice naturale». Diversi magistrati hanno criticato la Corte costituzionale per la sentenza sul regime dell’ergastolo "ostativo"’, dichiarando il 4 bis incostituzionale, nella parte in cui escludeva radicalmente dai permessi premio i condannati per reati di mafia e assimilati, che non avessero intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia. Per opporsi alla sentenza della Consulta è stato anche detto che ciò comporterebbe la messa in pericolo dei magistrati di sorveglianza che potrebbero essere minacciati dalla mafia per ottenere i benefici. Di questo e altro ancora, ne parliamo con Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia. È colui, tra l’altro, che ha sollevato alla Consulta il caso di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano ostativo Pietro Pavone.
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, ci sono state diverse polemiche. In particolare, tra i detrattori, ha preso il sopravvento il discorso per cui voi come magistrati di sorveglianza potreste essere esposti a minacce mafiose. Lei pensa che sia una osservazione fondata?
«Io faccio il magistrato, quindi ritengo che il rischio di subire pressioni sia parte di questo mestiere che mi onoro di aver scelto. Credo che queste pressioni possano esserci, così come ci sono per i colleghi pubblici ministeri o i giudici che ogni giorno scrivono sentenze riguardanti anche persone che hanno collegamenti con la criminalità organizzata. Certamente il rischio esiste, ma è un rischio che peraltro non è una novità che deriva da quello che ha detto o dirà la Corte costituzionale: la magistratura di sorveglianza si occupa da molti anni di detenuti per reati gravissimi, e anche di mafia, e già oggi valuta le loro richieste di differimento della pena per motivi di salute, le richieste di permesso per gravi motivi, oppure si occupa anche di valutare la concessione di benefici penitenziari nei confronti di quei detenuti per reati di mafia, che non siano collaboratori, ma che abbiano avuto la valutazione di collaborazione impossibile con la giustizia, cosa quest’ultima che viene stabilita proprio dal Tribunale di Sorveglianza attraverso una valutazione molto rigorosa. Quindi la nostra esposizione non è un elemento di novità. è un dato che fa parte del nostro impegno, a cui si risponde con la professionalità. Mi sento di dire che non vedo delle novità rispetto a questo punto».
Nino Di Matteo, in una trasmissione televisiva ha parlato di un unico tribunale di sorveglianza, come quello previsto per il 41 bis, a Roma. Pensa che sia utile?
«Non ho ascoltato la trasmissione televisiva, ma non credo corrisponderebbe al principio costituzionale del giudice naturale l’eventuale previsione di un accentramento, che per altro allontanerebbe il giudice dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo. Non vedo poi come questo potrebbe ridurre il rischio di esposizione dei magistrati, che anzi si concentrerebbe sulle poche unità di quel Tribunale».
In questi giorni ci sono petizioni on line, interventi politici, tutti volti ad avanzare proposte che mirano in qualche modo a reintrodurre l’automatismo reclusivo.
«Innanzitutto penso che si debbano attendere le motivazioni della Corte che ha solo emesso un comunicato stampa, certamente molto dettagliato, ma che lascia intatta la necessità della doverosa lettura delle motivazioni per capire quale in quali termini la Corte costituzionale sia intervenuta. Dopo di che, il secondo punto del quale sono certo è che qualunque intervento il legislatore intendesse assumere, non potrà che essere un intervento che segua il percorso logico motivazionale deducibile dalla decisione della Corte. Certamente è chiaro che è necessaria una valutazione discrezionale, prudente, informata e che preveda massima attenzione alle questioni di sicurezza, rilasciata alla magistratura di sorveglianza: questo possiamo dire che è un punto fermo».
Ci sono state delle osservazioni da parte di alcuni magistrati, come ad esempio Giancarlo Caselli, sempre a proposito della concessione dei permessi premio e dei requisiti per accedervi. In sostanza osservano che non è affidabile il mafioso che rivendica di essere stato un detenuto modello, visto che il rispetto formale dei regolamenti carcerari è una regola del codice della mafia. Ma è così?
«Ho sentito molte volte queste osservazioni in questi giorni. Intanto diciamo che questa visione sminuisce di molto l’osservazione che negli Istituti penitenziari si fa sui detenuti per mandato della magistratura di sorveglianza. A fondamento della concessione, ad esempio di un permesso premio, non si tratta di valutare solo la semplice buona condotta penitenziaria, visto che si tratta di un prerequisito minimo per ogni detenuto per qualunque reato. Quando parliamo di detenuti con profili particolarmente impegnativi, come quelli che oggi ci occupano, si effettua una osservazione che deve riguardare invece la riflessione critica sui fatti di reato, il suo atteggiamento verso le vittime e verso lo stile di vita che a suo tempo aveva abbracciato. La stessa nozione di buona condotta deve comprendere un focus sui comportamenti specificamente tenuti: ad esempio l’abbandono nel tempo di atteggiamenti prevaricatori o di pressione su detenuti che abbiano magari un livello criminale più basso. O il mantenimento di uno stile di vita ancora rappresentativo di quegli approcci: ad esempio con rifiuto di lavori semplici e umili, come quelli spesso disponibili in carcere. Diventa inoltre importante valutare le rimesse in denaro che arrivano dai famigliari e gli acquisti che si fanno al sopravvitto, si può verificare cosa succede alle famiglie sui territori, cioè se vi siano ancora degli stili di vita incompatibili con i redditi dichiarati. Non è quindi la buona condotta intesa come mera assenza di rilievi disciplinari ad essere parametro importante per la concessione, ma un complessivo atteggiamento dal quale si possa dedurre l’allontanamento del detenuto dallo stile di vita pregresso. Naturalmente a questo poi si aggiunge una valutazione particolarmente seria, che riguarda i profili di pericolosità sul territorio, attraverso le informazioni che arrivano sull’operatività dei gruppi criminali di riferimento».
Quindi l’ottenimento di un beneficio è frutto di un percorso realmente intenso?
«Certamente. E quando il magistrato di sorveglianza valuta il caso specifico deve avere a disposizione una istruttoria che consideri tutte gli elementi di cui ho parlato. Parlare della sola buona condotta è uno sminuire il lavoro che si fa in carcere. Per esempio limitarsi a segnalare che un detenuto non ha mai avuto un rapporto in carcere, ecco questo non risponde alle esigenze richieste per la valutazione, che sono invece molto più intense. Queste valutazioni valgono anche quando si parla di collaboratori di giustizia: la differenza sta nel fatto che questi ultimi godono di una speciale legislazione premiale che gli consente l’accesso alla valutazione sulle misure in modo molto anticipato, in relazione con il loro contributo che, certamente, è particolarmente significativo della rescissione dei loro legami con la criminalità organizzata. Invece il detenuto per reati di mafia, che non collabori con la giustizia, dovrà attendere i termini di legge ( per un permesso premio ad esempio almeno dieci anni di pena, o quindici per i recidivi) e si valuteranno i progressi che ha fatto nel tempo».
C’è stata anche la sentenza Cedu sulla concessione della liberazione condizionale agli ergastolani non collaboranti. Se non dovesse intervenire il legislatore, potrebbe esserci una sentenza pilota?
«La sentenza Viola è stata definita una sentenza quasi pilota, perché ha dato una chiara indicazione di sistema all’Italia: si può dire che l’indicazione per un intervento preferibilmente del legislatore è sicuramente presente e non si può escludere che, se non interverrà, vi saranno nuovi ricorsi alla Cedu e il tema della liberazione condizionale potrebbe essere portato in Corte costituzionale. Per quanto riguarda il resto occorre leggere le motivazioni della sentenza della Consulta perché quello che la Cassazione e il Tribunale di Perugia remittenti chiedevano, era riferito in particolare al permesso premio con le sue caratteristiche, cioè come misura che serve a costruire i mattoni del percorso di risocializzazione, uno strumento che possa essere sperimentato per qualunque detenuto anche condannato alla pena dell’ergastolo. Ora attendiamo di leggere come la Corte costituzionale declinerà questa apertura sul permesso premio».
I penalisti: «L’applicazione del 41 bis a rischio incostituzionalità». Damiano Aliprandi l'8 Novembre 2019 su Il Dubbio. I penalisti all’Antimafia. Catanzariti: «C’è il sospetto che il 41 bis venga utilizzato per costringere alla collaborazione il detenuto. «Abbiamo una posizione fortemente critica al 41 bis per come si è evoluto. Noi comprendiamo le finalità del regime differenziato nato come misura transitoria ed eccezionale sull’onda delle stragi e che è volto a recidere ai boss mafiosi i contatti con l’organizzazione di appartenenza, ma le misure ulteriormente afflittive e l’illimitata e reiterata applicazione rischiano di mettere in discussione la natura stessa del 41 bis».
È ciò che ieri ha sostenuto l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere delle Camere penali, durante l’audizione presso la commissione antimafia presieduta da Nicola Morra e volta ad approfondire i profili applicativi del 41 bis. Catanzariti, ringraziando la commissione per averli invitati, ha ricordato l’importanza dell’osservatorio carceri composto dagli avvocati penalisti che svolgono le visite in carcere per monitorarne le condizioni, sottolineando l’importanza delle visite di ferragosto organizzate dal Partito Radicale e dove – grazie alla disponibilità del Dap – gli avvocati stessi hanno potuto visitare ben 60 carceri. L’unica osservazione che ha voluto però sottolineare è la mancata autorizzazione del Dap ai penalisti di poter verificare le condizioni del 41 bis. «Tale regime – ha ricordato sempre Catanzariti – fin dal 1995 ad oggi è sotto l’occhio degli organismi internazionali di cui noi come Paese facciamo parte, come ad esempio il comitato europeo per la prevenzione della tortura del consiglio d’Europa che ultimamente ha redatto un rapporto proprio sul regime duro, ma attende ancora l’autorizzazione del governo italiano per renderlo pubblico». Come detto, il rischio che le corti superiori mettano in discussione il 41 bis è davvero concreto. «Questo perché diversi profili di applicazione non rientrano nel perimetro costituzionale e infatti – ha spiegato il presidente dell’osservatorio carcere – molto spesso la Consulta è dovuta intervenire per dichiarare incostituzionale alcune restrizioni del tutto ingiustificate». In sintesi, si rischia di andare al di fuori dalla finalità del regime del 41 bis e quindi, di fatto, travolgendo il senso dell’articolo 27 della costituzione. «C’è il sospetto – sottolinea sempre Catanzariti – che il 41 bis venga utilizzato per costringere alla collaborazione il detenuto e quindi va contro la finalità stessa per il quale era stato introdotto». A proposito della transitorietà, sempre il penalista ha evidenziato decine di casi di detenuti che sono ininterrottamente al 41 bis da oltre 20 anni. Infine ha ricordato il problema degli internati, cioè coloro che hanno già finito di scontare la pena ma rimangono al 41 bis come misura di sicurezza, oppure le aree riservate del regime duro che sono un doppio isolamento. Un vero e proprio super 41 bis. Sulla stessa linea l’avvocata Piera Farina, esponente dello stesso Osservatorio e che conosce molto approfonditamente la questione del 41 bis, la quale – sempre in commissione antimafia – ha osservato che con la riforma del 2009 «sono state introdotte restrizioni sulle ore all’aria aperta e sui colloqui con i familiari che nulla hanno a che vedere con le finalità del 41 bis. Bisogna intervenire sulle criticità per rendere l’applicazione dello strumento conforme alla Carta costituzionale».
Luigi Manconi al Dubbio: «Vi racconto come funzionano le visite al 41 bis». La Lettera del Professore, già Presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, su Il Dubbio l'8 Novembre 2019. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto. Caro Direttore, ricorro alla sua ospitalità per alcune puntualizzazioni in merito alla “vicenda Nicosia”. Antonello Nicosia è stato arrestato lunedì scorso con l’accusa di associazione mafiosa perché avrebbe recapitato fuori dal carcere i messaggi provenienti da alcuni boss della mafia, con cui aveva parlato durante le visite effettuate insieme a una parlamentare, della quale era assistente. Si tratta di precisazioni doverose, considerati gli attacchi – alcuni brutali, altri sinuosi- indirizzati contro l’attività svolta nelle carceri dai Radicali e dalla cosiddetta "lobby garantista" ( alla quale mi onoro di appartenere). Nella scorsa legislatura, come presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, ho visitato numerosi istituti penitenziari in tutta Italia: reparti con detenuti comuni, di alta sicurezza e oltre una decina di sezioni speciali con detenuti reclusi in regime di 41 bis. Nel corso di tutte queste visite ispettive, la nostra attività veniva costantemente accompagnata dal direttore dell’istituto e i nostri movimenti venivano seguiti passo passo, attentamente vigilati e tenuti sotto occhiuta sorveglianza da parte di agenti della polizia penitenziaria e, nel caso dei reparti a regime speciale, dagli agenti del Gom ( gruppo operativo mobile), il corpo ad altissima qualificazione della polizia penitenziaria che provvede alla custodia dei detenuti sottoposti al massimo controllo. Aggiungo che oggetto dei colloqui avuti con i detenuti – e tra questi anche esponenti di vertice delle organizzazioni criminali mafiose e camorriste reclusi in 41 bis – sono sempre state, come la legge e l’ordinamento penitenziario prevedono, informazioni relative allo stato di salute dei detenuti, alla condizione di carcerazione e a eventuali diritti che si ritenevano violati all’interno di quelle celle. Niente di più. Per questi motivi non posso che provare stupore di fronte a quanto emerge dalla vicenda Nicosia: perché sarebbe stato consentito a qualcuno di potersi muovere con tanta facilità e agibilità in luoghi che dovrebbero essere tenuti sotto strettissima sorveglianza? Nel caso fosse confermato quanto emerso nei giorni scorsi, la responsabilità maggiore sarebbe da attribuirsi a chi non ha ottemperato agli obblighi che la legge e il regolamento penitenziario prevedono. Ma tutto ciò come può giustificare la tentazione, così sfacciatamente evidente, di limitare l’attività ispettiva nelle carceri e colpire una prerogativa che per legge appartiene ad alcuni soggetti istituzionali? E, cioè, ai parlamentari, ai consiglieri regionali, al Garante nazionale, a quelli regionali e – ci auguriamo- ai garanti comunali. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale – che sia del Partito radicale o di Radicali italiani – all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto e di quella norma che prevede la partecipazione della comunità esterna all’attività di rieducazione? Tutto ciò, com’è evidente, previa autorizzazione e sotto la sorveglianza del personale penitenziario. Grazie dell’attenzione e cordiali saluti.
L’ergastolo ostativo è incostituzionale: sì al permesso premio. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario. Damiano Aliprandi il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. D’ora in poi i magistrati di sorveglianza avranno il potere di poter concedere o meno il permesso premio agli ergastolani ostativi che hanno scelto di non collaborare con la giustizia. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Una sentenza storica, quella della Consulta, perché per la prima volta, da quando fu introdotto l’ergastolo ostativo tramite un decreto emergenziale dopo la strage di Capaci, viene dichiarata incostituzionale quell’automatica presunzione di assoluta mancata rieducazione di una specifica categoria di detenuti e precludendo ad essi l’accesso al beneficio penitenziario. Tramite una nota, la Consulta ha sottolineato che tale concessione può essere data sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In questo caso, la Corte – pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti – ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Cosa accadrà ora? Anche se il parlamento non dovesse metterci mano, riscrivendo l’articolo 4 bis come prevedeva, d’altronde, la riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, da oggi in poi i detenuti ergastolani potranno fare istanza alla magistratura di sorveglianza per richiedere il beneficio penitenziario. Ovviamente sarà il giudice a valutare se ci sia stata o meno la cessione di pericolosità, e lo farà anche in base alle informative delle varie Direzioni Distrettuali e Nazionale Antimafia. Da ribadire che ciò riguarda esclusivamente il permesso premio e non gli altri benefici come ad esempio la liberazione condizionale come la sentenza della Corte Europea di Strasburgo valutando il caso Viola. Ma inevitabilmente, tale sentenza di illegittimità costituzionale del comma uno del 4 bis, apre le porte alla questione degli altri benefici preclusi a prescindere per la mancata collaborazione. Quindi, se il parlamento non riscrive da capo il 4 bis, magari facendolo ritornare al primo decreto voluto da Falcone, volto ad un discorso premiale della collaborazione, ci saranno altri giudici – di sorveglianza e di cassazione – che potrebbero sollevare questioni di illegittimità costituzionale anche per gli altri benefici della pena. Prima del 1992, l’ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell’incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere, ora questa probabilità potrebbe in sostanza ritornare per chi ha svolto un percorso trattamentale volto alla visione critica del passato e alla riabilitazione come prevede la costituzione italiana tutta centrata su una pena che sia proiettata verso la libertà. Non a caso, la parola “ergastolo” non è stata menzionata dai padri costituenti. La decisione della Consulta, arriva in concomitanza con la laurea in giurisprudenza, con tanto di 110 e lode, conseguita al carcere di Rebibbia dall’ergastolano ostativo Filippo Rignano. Ha 63 anni ed è in carcere dal 1993. «Quando l’hanno arrestato aveva solo la seconda elementare – annuncia il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa -, oggi, anche grazie all’impegno e alla dedizione dei docenti e dei tutor dell’Università di Tor Vergata, ha discusso una tesi di laurea in diritto costituzionale sulla sua condizione giuridica, di condannato all’ergastolo senza possibilità di revisione, conseguendo il massimo dei voti: 110 e lode. Speriamo che la Corte costituzionale consegni alla storia la brutta pagina dell’ergastolo ostativo e dia anche a lui la possibilità di essere valutato da un giudice per il reinserimento sociale che la Costituzione prescrive a beneficio di qualsiasi condannato». E così è stato.
Ergastolo, incostituzionale non concedere permessi ai mafiosi anche se non collaborano. La Consulta fa cadere il divieto per i condannati che abbiano dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo e se l'autorità ha acquisito prove che non c'è più partecipazione all'attività criminale. La Corte costituzionale stabilisce che si valuti caso per caso. La Repubblica il 23 ottobre 2019. Cade il divieto assoluto per gli "ergastolani ostativi" di accedere a permessi premio durante la detenzione. La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis, comma 1, dell'ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualità della partecipazione all'associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, spiega Palazzo della Consulta, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. Il comunicato dell'Ufficio Stampa della Corte costituzionale spiega infatti: "La Corte costituzionale si è riunita oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia". "In attesa del deposito della sentenza - fa sapere l’Ufficio stampa della Corte - a conclusione della discussione le questioni sono state accolte nei seguenti termini. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo". "In questo caso, la Corte - pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti - ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica".
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 24 ottobre 2019. È la sentenza che chiude un' epoca nella legislazione antimafia: la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l' articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Il senso è chiaro agli addetti ai lavori. Finisce per incostituzionalità il cosiddetto ergastolo "ostativo", chiamato così perché era di insormontabile ostacolo ai benefici carcerari. Ringraziano gli ergastolani destinati finora a morire in carcere, quelli che gli avvocati chiamano «sepolti vivi». E entra in allerta rosso lo Stato. Il ministro Alfonso Bonafede ha già mobilitato gli uffici perché la «questione ha la massima priorità». È una realtà poco conosciuta, quella dell' ergastolo "ostativo" che interessa circa 1250 ergastolani (in genere condannati per mafia) su 1790 che in Italia sono stati condannati all' ergastolo. Già, perché in Italia gli ergastoli sono di due tipi: ce n' è uno normale che lascia qualche speranza di uscire di cella, scontati almeno 30 anni di detenzione e dimostrata la rottura con la vita precedente; e ce n'è un altro definitivo, il «fine pena mai» che terrorizza i mafiosi. Funziona così dal 1992. Sull'onda dell' emozione per l'omicidio di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta, lo Stato inasprì fortissimamente le norme sull' ergastolo. Fu deciso che per alcuni reati di grave allarme sociale la cella doveva restare chiusa a vita. Allo stesso tempo fu stabilito che si poteva derogare soltanto se il mafioso o il terrorista avessero collaborato con lo Stato. Di qui il dilemma: o si diventava pentiti, o era carcere a vita. Carcere peraltro reso durissimo da un altro articolo dell' ordinamento penitenziario, il 41-bis, che impedisce i contatti del detenuto con l' esterno. Ecco, la Corte costituzionale, facendo il paio con una decisione della settimana scorsa della Corte europea dei diritti dell' uomo, ha stabilito che quel "dilemma" è incostituzionale. In futuro ogni ergastolano, mafioso compreso, potrà rivolgersi al giudice di sorveglianza per chiedere i benefici carcerari (che possono essere i permessi-premio, o la semilibertà, o la possibilità di lavoro esterno) in quanto l' automatica chiusura dell' articolo 4-bis contrasta con il principio costituzionale che «le pene devono tendere alla rieducazione». Ventisette anni dopo quel fatale 1992, la Corte costituzionale dice che la collaborazione non può essere il requisito unico per valutare un mafioso all' ergastolo; ma ci sono altri requisiti: se si può escludere la partecipazione all' associazione criminale, o che non siano più collegamenti con la criminalità organizzata. Ovviamente, il condannato deve avere dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. «La presunzione di "pericolosità sociale" del detenuto non collaborante - scrive la Corte - non è più assoluta, ma diventa relativa. Può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere, nonché sulle informazioni di varie autorità». E' palpabile a questo punto l'imbarazzo della politica e l'allarme della magistratura. «È un varco potenzialmente pericoloso», avverte il pm antimafia Nino Di Matteo, ora al Csm. «La mafia si può riorganizzare», gli fa eco Sebastiano Ardita, altro pm antimafia al Csm. Cauto il commento di Nicola Zingaretti: «Una sentenza un po' stravagante, non mi sento in sintonia». Matteo Salvini invece urla allo scandalo: «Mi sale la pressione... Ma che testa hanno questi giudici? Vedremo se è possibile ricorrere perché è una sentenza che grida vendetta. O proviamo a cambiare la sentenza oppure la Costituzione, se è questa l' interpretazione che ne viene data».
Corte Costituzionale: ergastolo eccessivo, si ai premi a mafiosi e terroristi. I giudici hanno accolto le richieste della Corte Europea; no all'ergastolo ostativo. Via libera ai permessi. Panorama il 24 ottobre 2019. Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano. Bastano questi due nomi per raccontare chi sono i detenuti condannati all'ergastolo in Italia. Parliamo di persone responsabili di centinaia di omicidi, uomini che hanno guidato la Mafia siciliana con il suo giro di droga, di affari, di estorsioni, di minacce, di reati. Delinquenti che si sono macchiati dei peggiori reati possibili e che in alcuni casi non hanno nemmeno avuto la forza di pentirsi e rinnegare il loro operato. Oggi la Corte Costituzionale ha accolto la richiesta della Corte Europea dei diritti dell'uomo e stabilito che l'ergastolo ostativo sia eccessivo, inumano, incostituzionale. E così anche Giovanni Brusca, anche Bernardo Provenzano potranno godere di permessi premio. Tutto in nome dell'umanità. Quella che dovremmo avere verso chiunque perché una persona resta pur sempre una persona e va trattata in maniera dignitosa secondo i giudici di Bruxelles. Perché anche loro hanno il diritto a rivedere i prori cari, le famiglie, gli amici, la casa. Perché la punizione deve avere comunque un limite. Loro...Verrebbe da chiedere dov'è l'umanità verso i parenti delle persone che assassini, mafiosi e terroristi hanno ucciso in nome del crimine, di un ideologia, della violenza fine a se stessa? Dov'è l'umanità verso chi ha perso un padre, un figlio (sciolto nell'acido), una moglie? Dov'è l'umanità verso le famiglie di agenti di Polizia o uomini delle forze dell'ordine che hanno pagato con la vita il loro spirito di sacrificio ed il loro amore verso la nazione? Magari i giudici della Consulta avrebbero dovuto chiedere a queste vedove, ai padri senza figli, alle famiglie distrutte un'opinione. Magari avrebbero dovuto farsi raccontare com'è la vita dopo una morte di un caro. Si sarebbero sentiti dire che il dolore è per sempre, che il vuoto incolmabile, che la rabbia ormai un'amica. Oggi lo Stato ha deciso di essere "umana" verso i violenti ed "inumana" verso le vittime. Non è la prima volta, ma ogni volta sembra davvero assurdo e sbagliato.
Ergastolo ostativo, la corte ha deciso: al mafioso non si può negare «la speranza». Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 29 ottobre 2019. Milena Gabanelli discute di ergastolo ostativo e della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo con Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Il 13 giugno 2019 una sezione del tribunale di Strasburgo si esprime contro l’esclusione dei benefici penitenziari per i detenuti condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo: nell’ordinamento italiano, questi detenuti non hanno diritto alla liberazione condizionale, al lavoro all’esterno, ai permessi premio. Lo Stato italiano ricorre, chiedendo la pronuncia della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo e sottolineando che il divieto-preclusione sia da considerare un caposaldo della legislazione contro il crimine organizzato: come spiegano coloro che lo hanno combattuto, i legami con mafia, ‘ndrangheta e camorra sono difficili da recidere. L’ergastolo ostativo era stano infatti introdotto nell’ordinamento italiano nei primi anni Novanta, per rafforzare le misure contro le grandi organizzazioni criminali dopo le stragi con cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad ottobre la Grande Camera della Corte europea ha ritenuto il ricorso inammissibile. La pronuncia si innesta sul ricorso presentato dal noto costituzionalista Valerio Onida per conto di Marcello Viola, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. Dopo essere stato sottoposto per sei anni al regime di carcere duro regolato dall’articolo 41 bis, Viola ne è uscito e ha chiesto di ottenere un permesso premio e la possibilità di accedere alla liberazione condizionale. Le sue richieste sono sempre state rifiutate sulla base dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario italiano, secondo il quale per accedere a permessi premio o misure alternative al carcere i reclusi per questi tipi di reato devono prima collaborare con i magistrati, confessando le proprie responsabilità e contribuendo alle indagini nei confronti di altri. Viola invece si è sempre dichiarato innocente. Dopo il ricorso presentato da Onida, la Corte europea ha stabilito che l’ergastolo ostativo, cioè «il fine pena mai», non è compatibile con l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani. Anche l’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene devono tendere «alla rieducazione del condannato». Nel 2003 la Corte Costituzionale italiana aveva difeso l’ergastolo ostativo, sostenendo che la mancata collaborazione con la giustizia sia una scelta del condannato. Pochi giorni fa, però, il massimo tribunale italiano ha dichiarato l’ergastolo ostativo sancito dall’articolo 4 bis incostituzionale, e ha affermato che anche ai mafiosi che non collaborano possono essere concessi permessi premio. Una Corte però spaccata poiché 7 giudici sarebbero stati contrati e 8 favorevoli. Quel che è certo è che la procedura è complessa: devi aver scontato almeno 10 anni di carcere, deve esserci il parere favorevole dell’assistente sociale, del Giudice del Tribunale di Sorveglianza, devono essere sentiti i pareri dei magistrati (che potranno ricorrere contro un parere favorevole non condiviso, fino in Cassazione), della procura antimafia, del Prefetto. Se sono tutti concordi sul fatto che il detenuto si è comportato in modo esemplare, che non ha più contatti con le cosche ed ha manifestato la volontà di redimersi, allora potrà ottenere un permesso premio. I magistrati che da 40 anni combattono mafia camorra e ‘ndrangheta sostengono che non c’è un solo detenuto per mafia che abbia mai avuto una sanzione, sono tutti detenuti modello, proprio per continuare a mantenere i contatti. Spiegano che è molto difficile provare la scissione con la cosca di appartenenza, e quando emerge è per puro caso, e all’interno di altre indagini, e i contatti spesso vengono mantenuti tramite gli avvocati, i cui colloqui non sono monitorabili. Difficile prendere posizione, si può prendere atto che questa pronuncia della Corte è stata presa sul serio, mentre tutte le altre che riguardano le condizioni disumane delle carceri italiane no, e continuiamo a pagare multe come se nulla fosse. La pena ha una funzione riabilitativa, e la riabilitazione passa attraverso il lavoro — lo dice la legge. Il nostro sistema, molto sensibile ai diritti umani, non garantisce a tutti i carcerati, che una volta scontata la pena usciranno, la possibilità di lavorare durante il periodo di detenzione. Infatti il 70% torna a delinquere.
Penalisti contro la Gabanelli. Querelata la giornalista del Corriere. Luca Rocca Il Tempo, 1 novembre 2019. Stavolta i penalisti non potevano far finta di nulla, ed è finita com'era ovvio che finisse, vale a dire con la querela dell'Unione camere penali contro Milena Gabanelli, rea di aver accusato gli avvocati dei mafiosi di far da tramite fra i boss in carcere e le loro cosche di appartenenza. Tutto ha avuto inizio tre giorni fa, quando la Gabanelli ha dedicato la sua rubrica "Dataroom" sul Corriere Tv alle sentenze con le quali la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Consulta hanno "bocciato" l'ergastolo ostativo, stabilendo che anche il mafioso che non collabora con la giustizia può, se il suo legame con la criminalità organizzata è cessato, rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per chiedere di ottenere, ad esempio, dei permessi premio. Partendo dal presupposto che è difficile accertare se davvero il mafioso in carcere ha reciso o meno i contatti con la sua cosca, la Gabanelli ha sostenuto che "migliaia di atti processuali, nel corso di quarant'anni, hanno dimostrato che casualmente emerge il fatto che il tizio che è in carcere ha ancora contatti con la cosca, e lo ha attraverso gli avvocati (i cui colloqui in carcere, ndr) non sono monitorabili". Per la giornalista, dunque, in molti casi, come dimostrerebbero gli atti giudiziari, i legali dei mafiosi farebbero da tramite fra i propri clienti e le cosche. Affermazioni che hanno provocato la reazione di Giandomenico Caiazza, presidente dell'Unione camere penali: "Uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti", ha affermato il penalista, prima di domandarsi se sia questo "il giornalismo d'inchiesta nel nostro Paese". Poi l'annuncio, con un'inevitabile punta di sarcasmo, della querela: "La signora Gabanelli verrà ora a raccontarci in Tribunale i riscontri che avrà certamente raccolto in ordine ad una simile, strabiliante e diffamatoria accusa nei confronti di tutti gli avvocati penalisti italiani impegnati in quei delicatissimi processi".
La reazione dei legali, i penalisti querelano Milena Gabanelli. Il Dubbio l'1 Novembre 2019. Caiazza (Ucpi): «Sarebbe questo dunque il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese, uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti». Il presidente delle Came- re penali Gian Domenico Caiazza annuncia querela nei confronti di Milena Gabanelli per le affermazioni sulle asserite «collusioni» grazie alle quali i mafiosi in carcere riuscirebbero a comunicare con le cosche tramite i propri avvocati. La giornalista, si legge in una nota del leader dei penalisti, «si è preoccupata in questi giorni di avvertire i suoi affezionati lettori che i detenuti per mafia in regime di massima sicurezza mantengono i contatti con le cosche di appartenenza tramite i propri difensori, i cui colloqui non sono monitorabili», rileva Caiazza. «Questo emergerebbe, a detta della giornalista, da migliaia di atti processuali, sebbene in modo tardivo e casuale. Insomma, la collusione è la regola, il suo accertamento purtroppo solo episodico», aggiunge. «Sarebbe questo dunque il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese, uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti. Gabanelli verrà ora a raccontarci in tribunale i riscontri che avrà certamente raccolto in ordine a una simile, strabiliante e diffamatoria accusa nei confronti di tutti gli avvocati penalisti italiani impegnati in quei delicatissimi processi». Il presidente dell’Ucpi ricorda che «a nessuno è concesso farsi beffa con tanta disinvoltura della dignità altrui; e sarà bene che Gabanelli ricordi che aggredire la libertà e la funzione del difensore significa, da che mondo è mondo, aggredire la libertà di tutti i cittadini, Gabanelli compresa».
Ergastolo ostativo, ecco i mafiosi che potrebbero chiedere i permessi (e le tre condizioni per averli). Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Leoluca Bagarella, Michele Zagaria, Giovanni Riina, Francesco Schiavone, Nadia Desdemona Lioce, Giuseppe Graviano. Quella della Cassazione è stata una scelta contrastata, passata per un solo voto: 8 a 7. Si applica anche a chi sta scontando pene non perpetue, come i trafficanti di droga. L’elenco dei potenziali destinatari della pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo è lunghissimo: non solo i 1.106 ergastolani «ostativi» (quasi tutti, 1.003, rinchiusi da oltre vent’anni), ma pure i condannati a pene non perpetue finora esclusi da permessi premio e altri benefici a causa della mancata collaborazione con i magistrati. Mafiosi, terroristi, ma anche trafficanti di droga e di essere umani, contrabbandieri, sequestratori e responsabili di altri gravi reati come la pedopornografia. La lista comprende tutti i principali boss di mafia, camorra e ’ndrangheta: Leoluca Bagarella e il nipote Giovanni Riina (figlio di Totò), gli stragisti Filippo e Giuseppe Graviano; i casalesi Francesco «Sandokan» Schiavone e Michele Zagaria, l’ex «re» di Ottaviano Raffele Cutolo, i capi delle ’ndrine di Gioia Tauro Domenico e Girolamo Molè. In teoria ci sarebbero anche i neo-brigatisti rossi Nadia Lioce e Roberto Morandi, ma nel loro rifiuto di qualunque dialogo con lo Stato rientra anche la mancata richiesta dei benefici carcerari. E tanti nomi per lo più sconosciuti alle cronache. A cominciare dal mafioso catanese Salvatore Cannizzaro e dallo ’ndranghetista di Reggio Calabria Pietro Pavone, i due casi finiti davanti alla Consulta dai quali è derivata la decisione di ieri. La sentenza «è una breccia nel muro di cinta del fine pena mai», affermano soddisfatti i dirigenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino. E in effetti di breccia si tratta. Uno spiraglio. Perché pur dichiarando incostituzionale l’automatismo tra mancata collaborazione con i magistrati e impossibilità di accedere ai permessi-premio per uscire di prigione qualche ora o qualche giorno, i 15 «giudici delle leggi» non ne hanno stabiliti altri per cui a ogni eventuale domanda corrisponderà una concessione. Anzi: hanno introdotto esplicite e stringenti condizioni (difficili da applicare ai nomi noti di cui sopra) all’esito di una discussione in camera di consiglio approfondita e non semplice. Conclusa con una decisione presa con un solo voto di scarto: 8 favorevoli e 7 contrari. Questi ultimi espressi da chi si preoccupava di non intaccare le scelte di politica criminale compiute dopo le stragi del 1992. Come ricordato dall’Avvocatura dello Stato che chiedeva di rigettare le eccezioni di incostituzionalità, la norma sotto esame serviva ad aumentare la sicurezza della collettività perché era un incentivo ai «pentimenti» utili a combattere le mafie. Ed era stata inserita nell’ordinamento per impedire anche solo il tentativo di boss e gregari di tornare a dare manforte alle organizzazioni criminali. Dunque una misura eccezionale per fronteggiare una situazione eccezionale (la presenza delle organizzazioni criminali), sebbene poi il divieto dei permessi a chi non collabora sia stato esteso ad altri reati slegati dalla mafia. Alla fine ha prevalso però l’idea che il silenzio con i magistrati (che può derivare da ragioni diverse dal continuare ad essere un affiliato ai clan) non possa essere l’unico indice per valutare la presunta pericolosità sociale del condannato. D’ora in avanti i giudici potranno così valutare il grado di risocializzazione del condannato «non collaborante», verificando però almeno tre condizioni che fanno da contrappeso all’abolizione della «presunta pericolosità assoluta»: la «piena prova di partecipazione» al percorso rieducativo durante la detenzione; l’acquisizione di elementi concreti per escludere «l’attualità della partecipazione all’associazione criminale»; la mancanza del «pericolo del ripristino» di quei collegamenti. Un tentativo di bilanciamento di interessi contrapposti (individuali e collettivi) per una decisione faticosa e contrastata.
Gherardo Colombo: «Il carcere non risolve, dopo anni mi sono ricreduto». Giulia Merlo il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Parola all’ex Pm Gherardo Colombo: «L’aumento delle pene serve a farci sentire innocenti». «Nonostante la lotta alla mafia sia stata fatta anche con misure che travalicano I limiti della Costituzione come l’ergastolo ostativo, la mafia esiste ancora». Ogni magistrato si interroga sul senso della pena: che la chieda o che irroghi. Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani Pulite, si risponde così: «Da giovane giudice credevo nella funzione educativa del carcere, della punizione. Oggi, dopo aver conosciuto le prigioni e anche molti che vi sono finiti, conosco la distanza immensa tra quanto scritto in Costituzione e la realtà delle cose. E non credo il carcere sia uno strumento giusto».
Eppure in Italia far tintinnare le manette è sempre stata una cifra del legislatore.
«In alcuni periodi sono stati presi provvedimenti in direzione diversa. Di solito a causa di eventi esterni, però. Penso alla sentenza Torregiani, con la quale la Cedu ci condannò pesantemente per la condizione delle nostre carceri e dunque si presero provvedimenti per prevenire il sovraffollamento. Nel giro di qualche anno, tuttavia, siamo tornati quasi agli stessi numeri».
Come mai è così impensabile invertire la rotta?
«Anche per timori elettorali. Pensi alla riforma dell’ordinamento penitenziario a cui lavorò il ministro Orlando: gli Stati generali dell’esecuzione penale e le tre commissioni di riforma erano arrivate a stendere anche l’articolato, finì tutto praticamente in nulla».
Invece le leggi che inaspriscono le pene vengono approvate a furor di popolo, come nel caso del reato di evasione fiscale.
«E’ vero, ma io credo che la fede salvifica nelle manette non tenga conto della relazione tra lo strumento e le conseguenze che esso produce. Le faccio l’esempio della corruzione: sono anni che si aumentano le pene, ma il fenomeno corruttivo sostanzialmente rimane invariato».
E dunque perchè si continuano ad aumentare le pene, se i fatti dimostrano che non serve?
«Perchè è la strada più semplice, e permette di guadagnare il consenso dell’opinione pubblica. Quel che però non si ottiene, purtroppo, è di mettere a fuoco il problema».
Perchè il giustizialismo paga, elettoralmente parlando?
«Prima facie sembra strano, considerando che a fronte di una maggior richiesta di sicurezza, i reati in Italia continuano a diminuire. E questo, pur con un processo penale disastrato, anche per quel che riguarda l’esecuzione».
Lei come se lo spiega?
«Il carcere rassicura. Da un lato, logicamente, si pensa che le persone in carcere non possono commettere reati ( ma si dimentica che la gran parte delle pene è temporanea), e chi ha subito una detenzione non conforme ai principi costituzionali, quando esce torna facilmente a delinquere: la recidiva in Italia è molto alta. Dall’altro, pensare che i colpevoli stanno in carcere ci fa sentire tutti innocenti. Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci giusti, e per farlo la strada più semplice consiste nel guardare alle carceri: se i colpevoli stanno in prigione, noi, che stiamo fuori, siamo innocenti».
Il problema dunque è trovare un diverso deterrente alla commissione del reato. Quale altro strumento si potrebbe adottare?
«Prendiamo l’evasione fiscale. Perché gli italiani paghino le tasse, bisognerebbe convincerli che, con quel denaro, le istituzioni garantiscono i loro diritti: l’istruzione, la salute, la libertà personale e così via: non possono esistere diritti se non esistono le risorse per renderli effettivi. Per dire, il diritto all’istruzione esiste solo se esistono i soldi per pagare gli stipendi agli insegnanti. Poi il denaro pubblico andrebbe speso con maggiore oculatezza: in questo modo si toglierebbe un alibi a chi non paga le tasse e si giustifica sostenendo che i suoi soldi vengono sperperati».
Questo però non può valere per tutti i reati.
«Mi limito a una considerazione: nonostante l’impegno e i mezzi messi nelle indagini di Mani pulite, la corruzione è ancora qui. Nonostante l’impegno rilevantissimo nella lotta alla mafia, anche con misure che, a mio parere, talvolta travalicano il dettato della Costituzione come l’ergastolo ostativo, la mafia esiste ancora e sta progressivamente conquistando regioni che ne erano indenni. Allora mi chiedo: vogliamo osservare questi dati di realtà, per tentare una riflessione?»
La voce della magistratura, invece, rimane ancora molto orientata al carcere.
«È il loro lavoro, del resto: difficile pensare che chi manda in prigione la gente pensi che non sia utile. Però la invito a considerare che le voci che si fanno sentire di più nel sostenere la necessità del carcere sono poche, ripetitive, spesso di pm, raramente di giudici».
Anche lei, quando entrò in magistratura, la pensava così?
«A diciotto anni mi iscrissi a giurisprudenza per diventare giudice penale ( e non pubblico ministero), perché ritenevo che l’inflizione della pena fosse educativa e mi fidavo che quanto si legge nella Costituzione: che le pene non dovessero essere contrarie al senso di umanità, dovessero tendere alla rieducazione, che fosse vietata qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica sulle persone recluse. Non solo, entrai in magistratura con la voglia e l’intenzione di contribuire al lavoro della Corte costituzionale ( che decide su impulso del giudice) e, conseguentemente, del legislatore per l’adeguamento del nostro sistema penale alla Carta».
E poi?
«Entrai in magistratura nel 1974 e, nei primi tre anni, feci il giudice in dibattimento in una sezione specializzata nei reati di sequestro di persona, che allora erano molto diffusi e nella quale si infliggevano pene spesso non inferiori ai 20 anni. Nonostante credessi che la pena dovesse essere strumento educativo, mi accorsi che facevo molta fatica a infliggere pene. Così chiesi di passare all’ufficio istruzione».
Cosa ha imparato in tanti anni e tanti processi?
«Come le dicevo, credevo che la pena, circondata dalle garanzie costituzionali, fosse educativa. Notavo però che in carcere ci andava quasi esclusivamente la povera gente, quasi mai i "colletti bianchi". Pensavo che si dovesse riequilibrare la situazione applicando il carcere anche a questi, quando colpevoli. Progressivamente, tramite la lettura, l’approfondimento, la conoscenza delle condizioni concrete del carcere, rendendomi sempre più conto della distanza tra ciò che sta scritto nella Costituzione e quel che succede nella realtà, i dubbi sono diventati sempre più consistenti, ho iniziato a farmi domande per culminare con quella decisiva: è giusto il carcere, è efficace? Specie quando si incomincia a riconoscere come persone coloro che commettono reati».
Si diventa garantisti solo quando si viene toccati in prima persona dal sistema penale?
«La parola non mi piace, come non mi piace giustizialista. Io credo che si diventi "garantisti" quando si iniziano a considerare coloro che hanno commesso un reato esseri umani. Purtroppo la nostra società vive in un equivoco formidabile: la Costituzione è una legge di inclusione sociale, la cultura sta dalla parte dell’esclusione. Quando regola e cultura confliggono, a vincere è quest’ultima. Tanto che, alla fine, il legislatore finisce con il produrre leggi in sintonia con la cultura dominante e quindi in contraddizione con lo spirito della Carta».
Si può sciogliere, questo equivoco?
«Il problema è che alla fin fine si tratta di fede. Parlare di giustizia oggi è come mettere a confronto due tifoserie di calcio, dominate dalla passione ma non propense al dialogo. Questo rende molto difficile lavorare nella direzione giusta».
Se dovesse ipotizzare una strada?
«Le parlavo dei miei anni ad occuparmi di sequestri di persona a scopo di riscatto. Oggi il fenomeno è praticamente scomparso. Non credo che ciò sia dovuto all’aumento delle pene, ma all’introduzione del blocco dei beni, del divieto di pagare il riscatto. Il reato è diventato infruttifero, quindi si è smesso di commetterlo».
Ergastolo ostativo, bocciato il ricorso: benefici anche a mafiosi e terroristi. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 da Corriere.it. La Grande Camera della corte europea ha ritenuto inammissibile il ricorso dell’Italia contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Con la “sentenza Viola” del 13 giugno scorso (dal nome del ricorso presentato dall’ergastolano Marcello Viola) una sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo aveva giudicato che l’ergastolo ostativo – ossia l’esclusione di qualunque beneficio per i detenuti condannati al carcere a vita per alcuni reati: mafia, terrorismo, e altri considerati particolarmente gravi – è contrario all’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani che vieta trattamenti “inumani e degradanti”. La legge italiana, all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, prevede che per accedere a permessi premio o misure alternative al carcere i reclusi per quei reati debbano prima collaborare con i magistrati, confessando le proprie responsabilità e contribuendo alle indagini nei confronti di altri. Un automatismo che secondo i giudici di Strasburgo condiziona e preclude la possibilità di reinserimento del detenuto nel sistema sociale. Contro questa decisione (che provocherebbe nuovi ricorsi dei molti ergastolani impossibilitati a chiedere i benefici, e probabili risarcimenti da pagare da parte dello Stato), il governo italiano aveva presentato ricorso chiedendo che a pronunciarsi fosse la Grande Camera della Cedu, ossia la sua più alta espressione. Sottolineando, fra l’altro, che proprio il divieto-preclusione sia da considerare un caposaldo della legislazione contro il crimine organizzato. La Grande Camera doveva pronunciarsi sulla ammissibilità dell’istanza italiana, prima ancora di entrare nel merito della questione. Il rigetto ha reso di fatto definitiva la precedente decisione che ha bocciato l’attuale formulazione dell’ergastolo ostativo, sul quale è stata chiamata a pronunciarsi anche la Corte costituzionale, nell’udienza del prossimo 22 ottobre.
Ergastolo duro ai mafiosi, la Corte dei diritti umani di Strasburgo rigetta il ricorso dell'Italia. Diventa operativa la decisione del 13 giugno che giudicava il "fine pena mai" come trattamento inumano e degradante. Il ministro Bonafede: "Non condividiamo assolutamente, faremo il possibile in ogni sede". Liana Milella l'08 ottobre 2019 su La Repubblica. Sull'ergastolo "duro" ai mafiosi la Corte dei diritti umani di Strasburgo (Cedu) dà torto all'Italia e non accoglie il ricorso del governo contro la sentenza del 13 giugno che bocciava il cosiddetto "fine pena mai" in quanto - secondo la giurisprudenza della Corte - a chi è detenuto non si può togliere del tutto anche la speranza di un recupero, ma al soggetto in carcere va riconosciuta la possibilità di redimersi e di pentirsi ed avere quindi l'ultima chance di migliorare la propria condizione. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha espresso la sua contrarietà alla decisione della Cedu: "Non condividiamo e faremo valere in tutte le sedi le ragioni del governo italiano e le ragioni di una scelta che lo Stato ha fatto, tanto anni fa, stabilendo che una persona può accedere anche ai benefici, a condizione però che collabori con la giustizia". Il guardasigilli ha aggiunto che "noi abbiamo un ordinamento che rispetta i diritti di tutti le persone ma che di fronte alla criminalità organizzata reagisce con determinazione". L'Italia, nel ricorso presentato a settembre aveva chiesto che il caso dell'ergastolo ostativo, previsto dall'Articolo 4bis dell'ordinamento penitenziario, fosse sottoposto al giudizio della Grand Chambre, l'organo della Cedu che affronta i casi la cui soluzione può riguardare tutti i paesi della Ue. Lì, ad esempio, fu esaminata la controversia di Berlusconi contro la legge Severino (poi archiviata a seguito della sua riabilitazione) che si riferiva al diritto alla eleggibilità di un parlamentare condannato, quindi un caso che poteva avere riflessi giuridici in tutti gli Stati dell'Unione. In questo caso invece l'Italia, nel suo ricorso, spiega la specificità criminale del nostro Paese, la pericolosità stravista delle mafie, Cosa nostra, camorra, 'ndrangheta. Il ricorso motiva la ragione delle norme rigide sull'ergastolo spiegando che esse riguardano solo alcuni reati molto gravi - mafia, terrorismo, pedopornografia - e consentono una strategia severa contro chi, aderendo a un'organizzazione mafiosa o terroristica, si pone l'obiettivo di destabilizzare lo Stato. Ma l'orientamento della Cedu va in tutt'altra direzione. Proprio come dimostra il caso specifico affrontato il 13 giugno e la decisione presa dalla Corte e contestata dall'Italia. Riguardava il ricorso a Strasburgo di Marcello Viola, un capocosca di Taurianova, detenuto per 4 ergastoli a seguito di omicidi, sequestri di persona, detenzione di armi. Ma per la Cedu quell'ergastolo "duro", che la legge italiana battezza come "ostativo", nel senso che impedisce la concessione di benefici, viola l'articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni disumane e degradanti, soprattutto nega la possibilità di un percorso rieducativo. Da qui l'invito all'Italia a rivedere la legge. Un invito, si badi, che non ha carattere perentorio, non rappresenta un obbligo, ma produce però come conseguenza una serie di altri ricorsi di detenuti che lamentano condizioni disumane, tant'è che a Strasburgo ce ne sarebbero già altri 24. Inoltre anche la Corte costituzionale italiana, il 23 ottobre, dovrà trattare il caso di Sebastiano Cannizzaro, un altro detenuto per mafia, che protesta per las mancanza di permessi. In realtà l'articolo 4bis dell'ordinamento penitenziario (unito al 58ter), più volte rivisto dall'ordinaria stesura del 1975, dà una possibilità al detenuto quando dice espressamente che i benefici - permessi premio, lavoro esterno, misure alternative al carcere, ma non la liberazione anticipata - possono essere concessi solo qualora chi sta in carcere decida di collaborare con la giustizia in modo da rompere in modo definitivo i suoi legami con l'organizzazione mafiosa. L'articolo dell'ordinamento specifica che "i benefici possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata". La ragione profonda dell'ergastolo "duro" sta proprio nel fatto che la specificità di un mafioso è quella di conservare per sempre, una volta affiliato a una famiglia criminale, il suo dovere di obbedienza. La questione dell'ergastolo ostativo divide profondamente il mondo della cultura giuridica tra coloro che sostengono la necessità di un carcere umano - come l'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo e l'ex senatore Luigi Manconi - e chi invece ritiene che aprire le maglie della carcerazione per i mafiosi significhi distruggere anni di politica contro le cosche. Sono soprattutto magistrati antimafia come Piero Grasso, Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo, Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita, Luca Tescaroli, a sostenere questa seconda strada. Su cui sono allineati il ministro della Giustizia Bonafede e quello degli Esteri Luigi Di Maio, i quali hanno tentato, negli ultimi giorni, di far comprendere il danno che ricadrebbe sulla lotta alla mafia se l'ergastolo ostativo viene cancellato. Tutti ricordano che Totò Riina, indiscusso capo di Cisa nostra vino alla sua morte, nel "papello" del 1993 in cui poneva le sue condizioni per negoziare con lo Stato citava espressamente l'ergastolo come misura da cancellare.
Vince la mafia. La Consulta abolisce l'ergastolo ostativo. Assassini e terroristi non pentiti potranno uscire. Uno schiaffo a vittime e buon senso. Alessandro Sallusti, Giovedì 24/10/2019 su Il Giornale. I due fatti non sono legati tra loro, ma certo la coincidenza temporale è di quelle che fanno riflettere. Da una parte il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in una intervista al Corriere, conferma l'intenzione di rendere molto più severa e punitiva la legge che prevede il carcere per gli evasori come «svolta culturale ed educativa»; dall'altra la Corte Costituzionale, sempre ieri, ha tolto il carcere a vita per i mafiosi conclamati e non pentiti. Pene più dure per chi evade anche somme non rilevanti e pene più morbide per chi uccide, compie stragi, organizza il traffico di droga: una contraddizione in termini difficilmente comprensibile e digeribile. Entrambe queste «svolte culturali» ci fanno paura. La prima, quella del ministro sugli evasori, perché introduce la cultura giacobina e marxista del giustizialismo educativo nella nostra legislazione; la seconda quella sull'ergastolo perché toglie allo Stato una delle poche armi che si sono dimostrate efficaci nella lotta alle mafie. L'ergastolo «fine pena mai» fu introdotto agli inizi degli anni Novanta in quel pacchetto di leggi speciali per fronteggiare l'emergenza terroristica e mafiosa, di una mafia che aveva dichiarato guerra allo Stato a suon di attentati, omicidi e stragi. Come tutte le misure emergenziali, sospendeva alcune garanzie previste dalla Costituzione e viaggiava sul filo del rispetto dei diritti dell'uomo. Non era una cosa di cui vantarsi, ma i risultati non tardarono ad arrivare. L'idea di marcire e morire in carcere convinse molti mafiosi a collaborare con la giustizia (l'unico modo per sperare di tornare un giorno in libertà), cosa che ha permesso ai magistrati di smantellare cosche e arrestare quasi tutti i boss. Togliere il «fine pena mai» sarà anche una misura di civiltà, ma ancora prima è un regalo alle mafie che sicuramente tirano un sospiro di sollievo e «vincono» la battaglia per tirare fuori di prigione i loro storici e irriducibili capi. Togliere dall'ordinamento una misura emergenziale significa riconoscere che quell'emergenza è finita, che il pericolo è scampato. Non me ne intendo, ma sostenere che la mafia non è più un'emergenza stride con la realtà. Una follia esattamente come sostenere che tutti gli evasori devono finire in manette per motivi culturali.
Da Sallusti a Di Battista, il dietrofront di quelli che volevano abolire l’ergastolo. Damiano Aliprandi il 31 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Nel 2013 firmarono l’appello dei detenuti ora sono contro le sentenze della Cedu e della Consulta. Da don Luigi Ciotti al direttore del “giornale” Alessandro Sallusti, passando per Alessandro di Battista, fino al silenzio di Roberto Speranza. La sentenza della Consulta che dichiara incostituzionale quella parte del 4 bis che vieta la concessione del permesso premio agli ergastolani ostativi che decidono di non collaborare, ha provocato reazioni scomposte da parte di taluni magistrati, partiti politici e gran parte degli organi di informazione. Eppure, tra di loro, c’è chi nel passato si era espresso per la completa abolizione dell’ergastolo. Curioso che oggi criticano una sentenza che non abolisce l’ergastolo ostativo, ma lo fa rientrare il più possibile entro il perimetro costituzionale. Ma chi sono e in quale occasione sono stati parte attiva nella battaglia contro l’ergastolo ostativo? Tutto ha avuto inizio quando nel 2013 quando un gruppo di ergastolani ostativi diede vita a una campagna per sensibilizzare la Chiesa, la società civile, il governo e il mondo politico nel suo insieme, aprendo un dibattito culturale sull’abolizione della pena dell’ergastolo, tenendo conto del valore del “tempo” e del precetto marchiato nell’articolo 27 della Costituzione. Il loro desiderio è quello di vedere cancellato dalla loro “posizione giuridica” quel “fine pena mai” per essere sostituito da un “fine pena certo”. Solo in questo modo, secondo il gruppo di ergastolani, una società civile e uno Stato di diritto potrebbero garantire quella seconda possibilità che ogni persona merita. Per queste ragioni, grazie all’aiuto dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, gli ergastolani avevano attivato questa campagna raccogliendo migliaia di firme. Nel 2014 l’iniziativa popolare per l’abolizione dell’ergastolo è stata proposta alla Camera dove è poi rimasta nel cassetto. Tra i primi firmatari c’erano personalità come Agnese Moro, Margherita Hack, Umberto Veronesi, ma anche don Luigi Ciotti che però, oggi, ha espresso perplessità in merito alla sentenza della Corte costituzionale. Eppure, ribadiamo, la Consulta non ha abolito l’ergastolo. Tale iniziativa popolare era partita su più fronti, trovando anche l’ok di qualche parlamentare pentastellato. Tra i quali spicca Alessandro Di Battista che sottoscrisse l’appello contro l’ergastolo “perché – così scrisse – condivido in pieno”. A presentare alla Camera la proposta di legge popolare c’era anche l’attuale ministro della Salute Roberto Speranza, oggi però è rimasto in silenzio. Un silenzio forse dovuto al fatto che il leader del suo partito, ovvero Pietro Grasso, si è espresso duramente contro la sentenza della Consulta, evocando il fantasma del papello di Riina. Ma tra i firmatari della petizione popolare per l’abolizione dell’ergastolo ostativo spicca il nome di Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, in questi giorni in prima linea contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo prima e quella della Consulta dopo, con tanto di titolo in prima pagina: “La mafia ha vinto”. Eppure, ribadiamolo ancora una volta, la sentenza non abolisce l’ergastolo come Sallusti stesso avrebbe voluto. Pochi sono rimasti coerenti, a differenza – per esempio – di Rifondazione comunista che sottoscrisse allora e oggi, coerentemente, ha esultato per la sentenza. Quella iniziativa popolare firmata da numerose personalità politiche ed esponenti della cosiddetta “società civile” è scaturita, dicevamo, da un gruppo di ergastolani, guidato da Carmelo Musumeci, da poco in libertà condizionale. Musumeci, già quando era recluso, ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Ha varcato la soglia del carcere nel 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. In pratica la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. Tanti, della società esterna, sostenevano la sua battaglia. E tanti di loro, oggi, si sono accodati nell’indignazione creata da una falsa informazione, in alcuni casi fatta da loro stessi.
La doppia morale dell'Europa. A noi chiede il rigore sui conti pubblici. Poi è morbida con assassini e mafiosi sull'ergastolo ostativo. Mario Giordano il 24 ottobre 2019 su Panorama. Ci mancava l’Europa. Ci mancava solo quella. Ci mancava l’Europa che invitasse l’Italia a essere più clemente con la peggior specie di criminali, boss mafiosi e stragisti, assassini e terroristi. Ci mancava l’Europa che ci spingesse a scarcerare quei pochi che riusciamo a tenere in cella, nonostante le nostra inveterata tendenza a trasformare le galere in hotel a porte girevoli, oggi sei dentro, domani subito fuori. Ci mancava l’Europa a soffiare sul fuoco del liberi tutti, dell’impunità garantita, della premialità esagerata, di quell’insieme di misure che danno l’impressione, alla fine, di uno Stato dalle parte dei criminali più che delle vittime. Pronto a tendere la mano ai malfattori assai più che a chi dai malfattori è minacciato. Ci mancava l’Europa (nella fattispecie sotto forma di Corte europea dei diritti umani di Strasburgo) che ci sollecitasse a eliminare «l’ergastolo ostativo». Quest’ultimo, introdotto nella nostra legislazione nel 1992, all’indomani delle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino, prevede che chi si macchia di reati particolarmente gravi non possa accedere ai benefici previsti dalla legge a meno che non diventi collaboratore di giustizia. In pratica lo Stato dice ai delinquenti incriminati di reati gravi: avete due possibilità, o vi pentite e raccontate tutto, o uscirete dal carcere solo per andare al cimitero. È facile capire come la misura abbia di fatto moltiplicato il numero dei pentiti, facilitando il lavoro dei magistrati. Perché dunque l’Europa ci spinge a togliere uno strumento di lotta alla criminalità che sta funzionando? E perché ci vuole impedire di tenere in carcere per sempre chi si è macchiato di delitti terribili? In effetti nel Paese degli inganni linguistici, quale siamo ormai diventati, l’ergastolo ostativo è di fatto l’unico vero ergastolo. L’altro, cioè l’ergastolo semplice, non ostativo, l’ergastolo-ergastolo, l’ergastolo tout court, infatti non è più un ergastolo. Non lo è da un pezzo. È un ergastolo edulcorato. A metà. Part time. Da «fine pena mai» a «fine pena dopo un po’». In apparenza dura per sempre ma in realtà no. Con tanti permessi, un po’ di sconti, la buona condotta, sei subito fuori. Il solito miracolo del codice italiano. Più penoso che penale, per la verità. Infatti. l’Italia è quel Paese dove chi strangola la fidanzata e la infila in un sacco nero torna libero dopo appena cinque anni di cella. L’Italia è quel Paese dove chi uccide un vigile travolgendolo appositamente l’auto torna libero dopo appena cinque anni di cella. L’Italia è quel Paese dove un padre che ammazza il figlio a coltellate torna libero dopo appena 11 mesi di cella. L’Italia è quel Paese dove chi uccide una guardia giurata a sprangate per rubargli la pistola, senza mai pentirsi, senza mai chiedere scusa, dopo appena un anno esce di cella per festeggiare il suo compleanno con amici e fidanzata sotto gli occhi esterrefatti della figlia della vittima. L’Italia è un Paese così. Qualche giorno fa, a Cecina, due agenti sono intervenuti per fermare un russo che dava in escandescenze. Quest’ultimo ha reagito. Una poliziotta ha avuto un’ischemia, è gravissima in ospedale. Il russo è stato lasciato libero. Per lui solo l’obbligo di firma. In un Paese così, in un Paese dove l’impunità sembra legge e la severità una parola da libri di storia, ebbene, in un Paese così si sentiva forse il bisogno dell’intervento buonista dell’Europa? Che non è operativo, si capisce. Dovrà essere recepito (e speriamo che non lo sia). Ma in ogni caso è strano: è forse questa la stessa Europa tanto rigorosa sul fronte dei conti, la stessa Europa che non esita a chiedere di massacrare pensionati e lavoratori, la stessa Europa inflessibile sui parametri del debito e così intransigente sugli zero virgola del deficit. Possibile, allora, che sbrachi in questo modo quando si parla di sicurezza e lotta alla criminalità? Possibile che diventi così morbida, malleabile, quando si parla di delinquenti e non di pensionati, fino a consigliarci di lasciar liberi mille ergastolani della peggior specie? Due volti, una morale sola: il prossimo che si gonfia il petto proclamando «lo dice l’Europa», va condannato a stare in ginocchio su ceci per tutta la vita. Ergastolo punitivo. E ostativo, ovviamente.
Ergastolo ostativo, tutti contro la Consulta: il carcere duro non si tocca. Paolo Delgado il 25 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La sentenza sull’ergastolo ostativo spaventa maggioranza e opposizione. Le critiche agli ermellini arrivano anche da don Ciotti: «I primi ad avere una buona condotta in carcere sono I mafiosi. Allora credo che dei paletti bisogna pur metterli». La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo, che fa seguito alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa due settimane contro la stessa misura ‘ ostativa’, era obbligatoria dovendo la Consulta tenere conto sia dell’articolo della Carta che impone il trattamento egualitario sia di quello che assegna alla pena funzione rieducativa. Le reazioni, a una sentenza non di tribunale ma della massima istituzione, la Corte costituzionale, hanno però assunto toni che a tratti costeggiano l’eversione. Il ministro degli Esteri e leader del primo partito di maggioranza ha escluso i condannati per mafia dal consesso umano: «Quelli non sono persone con diritti umani. Sono animali». Salvini, dall’opposizione, ha rilanciato «Sentenza assurda, diseducativa, disgustosa e devastante». Nel luglio 1992, appena un mese e mezzo dopo la strage di Capaci, con un’opinione pubblica giustamente sconvolta per l’assassinio del giudice Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, il giovanissimo Pds di Achille Occhetto decise di non votare le leggi eccezionali antimafia incluse nel decreto antimafia Martelli- Scotti. Ugo Pecchioli, che era stato il "ministro degli Interni" del Pci, l’uomo forte del partito nella lotta al terrorismo spiegò la scelta così: "Lo giudichiamo stravolgente di princìpi fondamentali della Costituzione". Non fu una decisione facile. Osava opporsi a un’opinione pubblica che, nello stesso gruppo parlamentare dell’allora "Quercia", era invece favorevolissimo a sacrificare tutto, dai diritti fondamentali ai princìpi costitutivi, in nome della lotta alla mafia. In 27 anni le cose sono cambiate. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo, che fa seguito alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa due settimane contro la stessa misura ‘ ostativa’, era obbligatoria dovendo la Consulta tenere conto sia dell’articolo della Carta che impone il trattamento egualitario sia di quello che assegna alla pena funzione rieducativa. Le reazioni, a una sentenza non di tribunale ma della massima istituzione, la Corte costituzionale, hanno però assunto toni che a tratti costeggiano l’eversione. Il ministro degli Esteri e leader del primo partito di maggioranza ha escluso i condannati per mafia dal consesso umano: "Quelli non sono persone con diritti umani. Sono animali e faremo di tutto perché resti il regime ostativo". Salvini, dall’opposizione, ha gareggiato in truculenza: "Sentenza assurda, diseducativa, disgustosa e devastante. Cercheremo di smontarla con ogni mezzo legalmente possibile". Il partito azzurro, quello che sulla carta dovrebbe essere il più garantista, non si tira indietro: "Sono garantista ma così si possono riattivare canali di comunicazione col rischio di vanificare anni di lotta alla mafia". A sinistra le cose non sono molto diverse. Lo stesso segretario del Pd Zingaretti, pur evitando le sparate alla Di Maio- Salvini non esita, per la prima volta nella storia della Carta, a bocciare la sentenza: "Non mi sento in sintonia con una sentenza stravagante". Persino LeU, che almeno nella sua anima proveniente da SeL era sempre stata su questo fronte netta, si defila e si nasconde dietro un muro di silenzio. Un po’ per non carezzare contro pelo la sua stessa base un po’ per non contraddire Piero Grasso, che poche settimane fa, all’inizio di ottobre, aveva criticato la sentenza europea. Pesantissime anche le reazioni di alcuni magistrati. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo usa un po’ di diplomazia in più rispetto alle reazioni durissime con le quali aveva accolto la sentenza europea, ma conferma la sostanza: "La sentenza apre un varco potenzialmente pericoloso. Spero che politica sappia prontamente reagire e, sulla scia delle indicazioni della Corte costituzionale, approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo". Le parole, in questo caso, sono pesate col bilancino ma la richiesta è chiara: sta alla politica vanificare la sentenza "pericolosa", della Corte. Detto fatto. I tecnici del ministero della Giustizia sono già al lavoro. Persino don Ciotti si pone inquieti "interrogativi". Umanità va bene però "paletti bisogna pur metterli perché si sa che i primi a comportarsi bene in carcere sono proprio i mafiosi". Non c’è solo la Consulta. La Cassazione è stata negli ultimi giorni presa di mira allo stesso modo per aver smontato la sentenza d’appello che, al contrario della prima sentenza, confermava l’impianto dell’accusa su Mafia capitale. Non si tratta di fare propria la frase insensata secondo cui "le sentenze non si discutono" ( anche se desta qualche stupore vedere questa sentenza "discussa" da chi con la frase insensata di cui sopra si è riempito la bocca per decenni). Ma a fronte di una vicenda nella migliore delle ipotesi discutibile, tanto che la prima sentenza era arrivata alle stesse conclusioni di quelle della Cassazione, la pioggia di articoli dolenti per il "ritorno indietro" e il favore fatto agli imputati condannati ( salvo riconteggi nel nuovo appello) a pene del tutto sproporzionate. L’ex procuratore Caselli, che le sentenze deve rispettarle per professione, ha risolto il rebus con una spiegazione brillante. Insomma: "Può accadere che la Cassazione si esprima più volte contraddicendosi sullo stesso caso? E allora a quale cassazione credere?", Tra le sentenze contraddittorie citate dal magistrato c’è quella del 2015 a proposito della "mafia silente", quella che minaccia anche con "il non detto, il sussurrato, il semplicemente accennato". E non è forse "mafia silente" anche il "carisma criminale" di Carminati? Insomma, il solo farsi vedere di Massimo Carminati è segno di silente intimidazione mafiosa. Simili reazioni a sentenze della Cassazione e addirittura della Corte costituzionale sono segnali pericolosi e non trascurabili. E’ evidente che mentre una parte delle forze politiche è davvero e convintamente pronta a sorvolare sui princìpi costituzionali, molte altre sono invece semplicemente troppo spaventate e intimidite dalle possibili reazioni dell’elettorato per prendere posizione, fosse pure in difesa della Costituzione. Prendere esempio da quel che il Pds osò fare nel 1992 sarebbe utile.
La Cedu conferma: «L’ergastolo ostativo è inumano e degradante». Damiano Aliprandi il 9 Ottobre 2019 su Il Dubbio. La Corte di Strasburgo boccia l’Italia sull’ergastolo ostativo. Rigettata la domanda di rinvio da parte del governo italiano in merito alla sentenza del 13 giugno sul caso Marcello Viola. La Consulta il 22 ottobre deciderà se l’art. 4 bis è incostituzionale. Diventa definitivo il giudizio negativo della Corte Europea sull’ergastolo ostativo italiano. Il collegio dei cinque giudici competente ha rigettato la domanda di rinvio da parte del governo italiano in merito alla sentenza Cedu del caso Marcello Viola. Quindi diventa definitiva la sentenza emessa il 13 giugno dalla camera semplice della Corte europea, la quale condanna l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione, ovvero per tortura e trattamenti inumani e degradanti. Il caso specifico, come detto, riguarda Marcello Viola. La sua pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Egli, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine all’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato istanze di concessione del permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa. Ma i giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, a cui subordinare la concessione dei benefici durante l’esecuzione della pena, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Quindi, in sintesi, la Cedu fa cadere l’automatismo della collaborazione. I giudici della Corte Europea, di fatto, mettono in discussione quella forma di ergastolo, e dunque la preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i condannati non collaboranti, quando la condanna riguarda i reati dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Tra le premesse, la Cedu spiega in sostanza che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Ma quali conseguenze avrà, di fatto, la decisione della Cedu? Improbabile che i legislatori vorranno mettere mano al 4 bis, visto le numerose polemiche da parte degli esponenti di governo e l’affossamento parziale della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, che già era stata in parte disattesa dal governo Renzi, quando non aveva preso in considerazione la completa riforma del 4 bis indicata dagli stati generali sull’esecuzione penale. Ma la sentenza della Cedu avrà come effetto innumerevoli ricorsi da parte dei cosiddetti “fratelli minori”, ovvero coloro che, pur non avendo mai personalmente ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale del caso Viola. Di conseguenza la Cassazione si ritroverà sommersa di casi identici relativi alla preclusione automatica dell’accesso ai benefici. Questo, però, fino a quando non ci sarà una eventuale sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiari l’incostituzionalità. A quel punto, i legislatori saranno costretti a metterci mano. Ma la data già c’è. La Consulta, il 22 ottobre dovrà decidere se se la preclusione all’accesso dei benefici previsto dall’art. 4 bis è incostituzionale. Questo grazie al caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Tale ordinanza della Cassazione relativa a Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4 bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione proprio all’art. 3 della Convenzione Europea. Una violazione della convenzione ora definitivamente riconosciuta anche dalla Corte Europea tramite la sentenza Viola. Ricordiamo ancora una volta che l’attuale 4 bis non ha nulla a che fare con l’intuizione di Giovanni Falcone. Quest’ultimo, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis. La ratio non prevedeva l’esclusione dei benefici se c’era assenza di collaborazione: nel caso si doveva attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Mentre il secondo decreto legge, approvato dopo la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, ha introdotto un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario: senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Ed è ciò che i giudici della corte europea di Strasburgo hanno stigmatizzato, considerandolo, di fatto, una tortura. Anche perché, ebbene ricordarlo, non significa che automaticamente i detenuti per reati ostativi vengono liberati. Significa dare la possibilità ai magistrati – con l’ausilio del parere dell’antimafia – di valutare la concessione o meno dei benefici. Non sarà la mafia a ringraziare, ma lo Stato di Diritto.
Claudia Guasco per “il Messaggero” il 9 ottobre 2019. Vivono in «aree riservate», blocchi del carcere organizzati in modo da rendere impossibile qualsiasi contatto con altri detenuti. Perché secondo alcuni, un'occhiata fuggevole potrebbe essere un messaggio; il gesto impercettibile di una mano, una condanna a morte. Ma solo un boss ha osato dire di non poterne più dei rigori del 41 bis. È Michele Zagaria, capo del clan dei Casalesi in cella a Opera, che lo scorso febbraio durante un'udienza ha raccontato di vivere «una situazione disumana» e che nessun detenuto vuole trascorrere con lui l'ora d'aria per paura di microspie. Gli altri boss ostentano indifferenza per un regime inflitto da una giustizia che non riconoscono. Sono 1.250, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino, i detenuti sottoposti a ergastolo ostativo, pari ai due terzi dei 1.790 condannati a vita. Sono capoclan, mafiosi di grosso calibro ma anche picciotti con curriculum da killer, brigatisti rossi, terroristi, trafficanti di droga, sequestratori, chi si è macchiato di reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Rispetto agli ergastolani comuni, non hanno una prospettiva di vita diversa da quella dietro le sbarre, non possono chiedere la liberazione condizionale né le misure alternative alla detenzione o permessi. Sempre che non scelgano di collaborare. L'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario è stato introdotto per mettere i mafiosi di fronte a un bivio, come ha ricordato l'ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: essere fedeli a Cosa nostra e pagarne le conseguenze fino in fondo, oppure collaborare con lo Stato e cominciare il processo di ravvedimento previsto dalla Costituzione. Tra i boss irriducibili in regime di carcere duro ci sono Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Antonino e Rocco Pesce, Michele Zagaria, Giuseppe Pelle, Giovanni Strangio, Sebastiano Nirta. Tra i brigatisti Nadia Desdemona Lioce, uno dei capi delle Nuove Br condannata per gli omicidi di Marco Biagi e Massimo D'Antona e rinchiusa al 41 bis, oltre ai nomi di spicco della vecchia guardia come Rita Algranati, Cesare Di Lenardo, Fabio Ravalli, sua moglie Maria Cappello, Antonino Fosso, Rossella Lupo. E adesso per loro cosa cambia? «La decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo non induce alcun automatismo, ora si tratterà solo di ragionare. La legge italiana non cambia, la sentenza è un'indicazione all'Italia a modificare un sistema che si ritiene non in linea con la giurisprudenza della Corte», spiega Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Come sintetizza l'avvocato di Marcello Viola, Antonella Mascia, «non è che da domani escono tutti dalle carceri». Possono però chiedere che nei loro confronti vengano applicati i benefici concessi agli ergastolani e per farlo si rivolgeranno al giudice di Sorveglianza, che valuterà le situazioni personali, i percorsi di resipiscenza e deciderà caso per caso. Sarà la prossima mossa di Viola: «Andiamo davanti al tribunale di Sorveglianza dell'Aquila, per vedere eseguire questa sentenza che riguarda l'applicazione della misura individuale», anticipa il suo legale. Per ora, se l'Italia non rispetta le indicazioni della Corte di Strasburgo, il rischio è una multa. Rileva il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi: «Si tratta in realtà di una decisione che non ha una diretta esecutività e un'automatica applicabilità all'interno dell'ordinamento italiano. Nella sentenza della Cedu infatti lo Stato viene invitato a riformulare la normativa che prevede l'ergastolo ostativo in modo da non tener conto esclusivamente della mancanza di collaborazione con la giustizia. Sarà dunque compito del legislatore italiano trovare il necessario equilibrio con le particolarissime caratteristiche delle associazioni mafiose»». Ma dal 22 ottobre la situazione potrebbe registrare un'accelerazione: la Corte Costituzionale è chiamata a decidere se la norma è legittima o meno. Per il presidente emerito della Consulta Valerio Onida, che ha fatto parte del collegio di difesa di Viola, il carcere duro è «incostituzionale: bisogna che il legislatore modifichi la norma, se non lo facesse permarrebbe una violazione strutturale della Convenzione europea e si aprirebbe la strada a nuove condanne».
I mille «reclusi a vita», tocca alla Consulta decidere dopo la sentenza di Strasburgo. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. I giudici di sorveglianza dovranno valutare caso per caso. Marcello Viola, il pluriergastolano ’ndranghetista che aveva presentato il ricorso a Strasburgo, tornerà davanti al tribunale di sorveglianza dell’Aquila, città nella quale è detenuto, per vedersi applicare i permessi-premio e la liberazione condizionale che in passato gli erano stati negati. Gli altri condannati che si sono rivolti alla Corte europea — dovrebbero essere una ventina, ma non c’è un dato preciso — potranno fare altrettanto in attesa che i giudici europei decidano di applicare anche a loro i principi sanciti con la sentenza ribadita ieri. Ma il «popolo dell’ergastolo ostativo», che in teoria potrebbe cominciare a chiedere le misure alternative alla reclusione senza spiragli, ammonta a 1.106 persone (su un totale di 1.633 ergastolani definitivi); più della metà dei quali (628) rinchiusi da oltre vent’anni e 375 da più di 25. La gran parte sono accusati di associazione mafiosa; gli altri per omicidi o sequestri di persona aggravati da favoreggiamento dalla mafia, terrorismo, tratta di esseri umani, traffico di droga, pedopornografia e altri reati gravi. Nomi noti e meno noti: dal boss Leoluca Bagarella a Giovanni Riina, da Francesco «Sandokan» Schiavone a Michele Zagaria, fino alla neo-brigatista Nadia Lioce.In ogni caso, per loro non si apriranno indiscriminatamente le porte del carcere. In primo luogo perché — come spiega l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, che ha contribuito al ricorso di Viola a Strasburgo — «non ci sono automatismi», sebbene «lo Stato italiano abbia il dovere di rivedere la norma». Pena il pagamento di multe, prevede il costituzionalista Alfonso Celotto. Tuttavia, ammesso che l’Italia cancellasse subito la preclusione dei benefici penitenziari agli ergastolani condannati per quel gruppo di reati, sarebbero comunque i giudici di sorveglianza a decidere l’ammissione dei detenuti ai permessi o alle altre misure, valutando ogni volta le singole situazioni, dalla «pericolosità sociale» al «ravvedimento». E la vicenda del pentito Giovanni Brusca, il killer di mafia che in quanto pentito non è un ergastolano e dunque già gode di attenuazioni alla detenzione pura e semplice, dimostra che possono essere molto rigorosi. Ma a prescindere dalla Corte europea e da ciò che sceglieranno di fare governo e Parlamento, ad avere un effetto diretto sulla legislazione italiana sarà la decisione che dovrà prendere la Corte costituzionale dopo l'udienza del prossimo 22 ottobre. Quel giorno si discuteranno due eccezioni di incostituzionalità che ricalcano in buona parte la questione affrontata a Strasburgo. Due diverse ordinanze della Cassazione e del tribunale di sorveglianza di Perugia, infatti, hanno sollevato un dubbio che si sovrappone al «caso Viola»: il fatto che, come previsto dall’attuale articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, solo la collaborazione del condannato con i magistrati possa essere considerato il metro per non considerarlo più un pericolo per la società esterna, e quindi ammetterlo alla richiesta di misure alternative. Con questa norma, sostiene chi s’è rivolto alla Consulta, i giudici di sorveglianza non hanno la possibilità di valutare l’evoluzione del condannato verso quel reinserimento sociale che l’articolo 27 della Costituzione fissa come obiettivo della pena. Che deve valere per tutti. E proprio i permessi premio e le altre possibilità di uscire gradualmente dal carcere consentono di progredire su quel percorso che poi dev’essere valutato dalla magistratura. Con questi presupposti, l’esclusione automatica dei benefici per chi non collabora sarebbe in contrasto con la legge fondamentale della Repubblica. In più, la Cassazione pone un altro dubbio: che sia legittimo equiparare, tagliando fuori dall’accesso ai benefici entrambe le categorie, gli affiliati all’associazione mafiosa con chi è stato condannato ad altri reati con l’aggravante del favoreggiamento alla mafia o del «metodo mafioso». Sebbene nelle eccezioni sollevate davanti alla Consulta non se ne facesse cenno perché precedenti alle decisioni della Corte europea, è presumibile che i giudici costituzionali tengano in considerazione anche del verdetto di Strasburgo. E la loro sentenza avrà conseguenze immediate. In un senso o nell’altro.
Ergastolo duro bocciato, Gian Carlo Caselli: "A Strasburgo non conoscono la storia della mafia". Repubblica Tv l'8 ottobre 2019. La Corte dei Diritti umani di Strasburgo ha rigettato il ricorso dell'Italia contro la sentenza che boccia l'"ergastolo duro", ovvero il "fine pena mai". Gian Carlo Caselli, 46 anni in magistratura, ex procuratore capo di Torino e Palermo, non approva: “È una sentenza pericolosissima. Per la Corte di Straburgo va riconosciuta ai detenuti la possibilità di redimersi e di pentirsi. Ma i mafiosi non ne vogliono sapere di pentirsi. Hanno pronunciato un giuramento a vita. Consentire spazi di libertà vuol dire consentire l'attività criminale". Non solo: "L'isolamento dei mafiosi arrestati ha creato una slavina di pentimenti, ora che il quadro cambia, chi ha voglia di pentirsi ci penserà 300mila volte. La lotta alla mafia subirà dei rallentamenti”. Intervista di Antonio Iovane, Radio Capital.
(ANSA l'8 ottobre 2019) - L'Italia deve riformare la legge sull'ergastolo ostativo, che impedisce al condannato di usufruire di benefici sulla pena se non collabora con la giustizia. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo, rifiutando la richiesta di un nuovo giudizio avanzata dal Governo italiano dopo la condanna - che adesso diventa definitiva - emessa il 13 giugno scorso.
Luca Tescaroli (magistrato) per ''il Fatto Quotidiano'' l'8 ottobre 2019.L'iniziativa di abolire la pena dell' ergastolo viene in questi giorni riproposta. Sicuramente, merita massimo rispetto per le ragioni di umanità e giuridiche che la sottendono. L' abolizione era stata prevista nei progetti di riforma del codice penale del 1973 e in quello elaborato dalla commissione Grosso, e in occasione della riforma del rito abbreviato del 2000. Mi chiedo se sia eticamente accettabile la sua estensione al mafioso irriducibile e se sia compatibile con il proposito di contrastare efficacemente l' azione, il potere e la pericolosità delle strutture mafiose radicate nel nostro Paese. In proposito, si impone di riportare alla memoria cosa accadde agli inizi degli anni Novanta. I vertici di Cosa Nostra idearono e attuarono le stragi del 1992 e del 1993 con la prospettiva di ottenere, fra l' altro, proprio l' abrogazione dell' ergastolo, una volta raggiunta la consapevolezza che le condanne irrogate (fra le quali 19 all' ergastolo) nel giudizio di appello del maxi-uno, istruito dal pool guidato da Antonino Caponnetto, sarebbero divenute definitive. Perciò, eliminare il carcere a vita significa oggettivamente favorire la mafia, al di là dell' intenzione di chi si è fatto portatore della proposta. Al contempo, la proposta invia al mafioso un segnale pericoloso di interessata disponibilità delle classi dirigenti a interagire con il sistema mafioso e costituisce un segnale di debolezza e di indulgenza dello Stato, nei confronti dei cittadini e delle vittime di mafia, che inevitabilmente percepiscono un atteggiamento ingiustificato di buonismo nei confronti di chi è portatore di lutti e dolore, di chi li imprigiona nelle loro paure e si impadronisce dei proventi del loro lavoro senza fare nulla per meritarlo, attraverso l' estorsione. Non si può dimenticare mai che i componenti delle strutture mafiose continuano a controllare il territorio, inquinano il tessuto sociale ed economico del Paese e impediscono la fruizione delle garanzie collettive della libertà e della sicurezza. I mafiosi manifestano un' attitudine a generare violenza e morte che impone la loro perpetua sepoltura civile e un serrato isolamento dal mondo esterno per neutralizzare le loro condotte e l' interruzione dell' esercizio del loro potere anche dal carcere, attuabile con l' irrinunciabile regime carcerario di cui all' art. 41 bis O.P...I mafiosi non possono essere rieducati, perché non mostrano alcun segnale di resipiscenza e permangono in perpetuo all'interno del sodalizio, dal quale possono fuoriuscire solo con la morte o la collaborazione. Devono avvertire il peso dell' afflizione e la forza dello Stato, con il quale per troppo tempo hanno saputo e potuto convivere e trattare. In ogni caso, quand'anche dovessero dare segnali di mutato atteggiamento, l' ordinamento penitenziario già prevede la possibilità di affievolire il rigore della pena di cui si tratta. La perpetuità dell' ergastolo, infatti, non è assoluta: l' ergastolano può essere ammesso al lavoro all' aperto e alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena, se ha tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. La sanzione è ulteriormente riducibile, a seguito dell' applicazione dell' istituto penitenziario della liberazione anticipata, che consente di detrarre 45 giorni per ogni semestre di pena scontata, se il detenuto partecipa all' opera di rieducazione. Ma non solo. Il rigore della pena può essere affievolito dalla concessione di permessi premio (per non più di 45 giorni all' anno, dopo dieci anni di detenzione, periodo che può essere ridotto di un quarto per effetto dell' applicazione della liberazione anticipata) e dalla semilibertà (con il limite dell' espiazione di almeno vent' anni di pena). Un ergastolano può essere liberato condizionalmente dopo diciannove anni e sei mesi, avendo già usufruito di 428 giorni di permesso. A ciò si aggiunga che l'ergastolo è stato ritenuto dalla Consulta incostituzionale per i minorenni, nei cui confronti quindi non potrà mai essere applicato. Pertanto, il proposito di abolire l' ergastolo trova in sé ben poche ragioni d' essere, visti gli istituti premiali già esistenti nella vigente legislazione. Se poi teniamo conto che tale pena è prevista da vari Paesi europei quali il Portogallo, la Spagna, la Germania che fortunatamente non conoscono le gravi problematiche del crimine mafioso, ci rendiamo conto di quanto singolare sia rinunciare alla forza deterrente di questa sanzione per camorristi, 'ndranghetisti o mafiosi irriducibili. D' altro canto, la general-prevenzione e la neutralizzazione a tempo indeterminato di certi criminali rientrano tra i fini della pena non meno della sperata emenda, come ha ricordato la Corte Costituzionale con la sentenza numero 264 del 22 novembre 1974. Gli stessi cittadini italiani hanno ritenuto che l' abolizione dell' ergastolo indebolisca inopportunamente l' apparato intimidativo, visto l' esito negativo del referendum abrogativo del 1981.
ERGASTOLO OSTATIVO, SABELLA: “DECISIONE CORTE EUROPEA È REGALO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA”. Da radiocusanocampus.it il 9 ottobre 2019. Il magistrato Alfonso Sabella è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Riguardo la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’ergastolo ostativo. “Non è una decisione che è immediatamente esecutiva, però l’Italia deve comunque riformare le norme altrimenti rischia sanzioni a livello europeo –ha affermato Sabella-. Per come la vedo io, si tratta di un regalo alla criminalità organizzata. Il presupposto che finora ha tenuto, anche sul piano costituzionale, è che se tu fai parte di un’associazione di tipo mafioso e non ho le prove che ne sei uscito, non ho nessuna possibilità di provare a rieducarti. Questa norma ha funzionato e ha impedito a dei capi di riprendere il controllo dell’associazione. La prima volta che ho votato da bambino fu in un referendum per l’abolizione dell’ergastolo. A quei tempi ero contrario all’ergastolo. Poi ho cambiato idea quando ho conosciuto la mafia, la mafia stragista, quella che scioglieva i bambini nell’acido. E ho capito come l’ergastolo vero sia un’arma di cui lo Stato non possa fare a meno. Probabilmente il nostro governo riuscirà a trovare una soluzione, altrimenti l’impatto sarebbe devastante perché un migliaio di ergastolani potrebbe usufruire di permessi e questo potrebbe finire per creare nuovi fuggitivi e latitanti. Anche se bisogna pur sempre passare dalla magistratura di sorveglianza prima di dare i permessi. Un aspetto su cui molti non hanno ragionato è che queste norme hanno avuto anche una funzione salva vita dei magistrati. Quando il legislatore ha deciso di togliere discrezionalità ai giudici ha salvato la vita a molti di loro. Con la discrezionalità invece, ci sarà il giudice buono che ti dà i permessi e quello cattivo che ti tiene dentro. Questo significa sovraesporre i magistrati che interverranno più rigidamente nei singoli casi. Devo dire però che un po’ ce la siamo cercata. Abbiamo deciso di applicare strumenti come l’ergastolo anche ad altro tipo di reati per cui questi presupposti non ci stanno. Io sono rimasto malissimo quando è stato fatto morire Bernardo Provenzano al 41 bis, per un motivo di vendetta. Era accertato che da mesi era un vegetale. Lì abbiamo dato la dimostrazione che abbiamo usato quello strumento come forma di ritorsione, come forma di tortura. L’aggravante dell’agire al fine di agevolare l’associazione mafiosa è ormai un’aggravante che molte procure contestano a chiunque. E’ stato tolto il valore a questa aggravante. Io dico: gli strumenti che abbiamo per la lotta alla mafia sono preziosi, teniamoceli, ma applichiamoli solo ai casi in cui devono essere applicati. Bisognerebbe favorire i contatti fra l’ergastolano ostativo e le vittime dei reati che lui ha commesso. La giustizia riparativa può far bene, anche perché può dare all’ergastolano la possibilità di riflettere su quello che ha fatto e in alcuni rari casi può anche essere un percorso rieducativo”.
QUEI GIUDICI IGNORANO CHE COSA SIANO LE NOSTRE MAFIE. Francesco La Licata per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. La Corte dei Diritti umani di Strasburgo ha emesso una sentenza che, alla luce delle argomentazioni proprie di un processo penale "normale", non può che essere definita ineccepibile e in linea con le tendenze della maggior parte dei paesi europei. Il recupero del detenuto deve essere l' obiettivo della condanna alla detenzione, che non deve presentarsi come disumana e senza speranza. E l'ergastolo, per definizione, non lascia spazi a molte aspettative. Ma è un paese normale l'Italia con le sue tre o quattro mafie? Quindi esistono altri argomenti che concorrono a considerare "pericoloso" il pronunciamento della Corte, senz' altro frutto di una cultura giuridica distante dalla nostra storia, lontana e recente. I giudici di Strasburgo non sanno cosa sono le organizzazioni criminali mafiose che da prima dell' Unità d'Italia hanno occupato almeno un terzo del territorio del nostro Meridione. Una prima osservazione riguarda la possibilità di redenzione del detenuto, che non si realizza nel mafioso irriducibile (cioè non collaboratore). Se non si è mai pentito, l'affiliato rimane a vita vincolato dal giuramento di sangue pronunciato al momento del suo ingresso nella "famiglia". E perciò non esiste alcuna possibilità di "cambiamento" o "redenzione", anzi la storia ci insegna che userà ogni concessione dello Stato per agevolare l'organizzazione criminale. Solo un gesto pubblico (come l' avvio di una collaborazione) può essere considerato l' inizio di una "nuova vita", come bene ha spiegato la vicenda umana di Tommaso Buscetta e di tanti altri collaboratori. La sentenza viene considerata "pericolosa" dai migliori specialisti della lotta alla mafia, che ricordano come tra le richieste contenute nel "papello" che Totò Riina inoltrò allo Stato per "concedere" la fine dello stragismo mafioso, vi fosse l' abolizione dell' ergastolo e del carcere duro (il 41 bis). Questo perché un boss, condannato a "fine pena mai" e relegato all' isolamento, è come un re senza potere e territorio e, dunque, non può imporre la sua volontà. In sostanza non è più un capo, come non lo fu Luciano Liggio in carcere, rispettato come un presidente onorario, ma non temuto come un capo. Anche la lotta alla mafia potrebbe subire arretramenti, se la sentenza trovasse applicazione in Italia. Nessun mafioso cederebbe più alla collaborazione senza la spada di Damocle del "fine pena mai" e una detenzione "normale" (senza isolamento e 41 bis) scoraggerebbe ogni forma di dissociazione o pentimento. Ma questo la Corte di Strasburgo non lo sa.
Ergastolo ostativo, l’ira del M5S: «È un regalo alle cosche». Simona Musco il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Morra: «si sta minando il 41 bis». Ma le Camere penali esultano: «pagina fondamentale nel recupero dei diritti umani». Il presidente emerito della Consulta Onida: «una forma di detenzione incostituzionale». Un regalo ai mafiosi, una follia, da un lato. Dall’altro, una scelta di civiltà giuridica e di umanità. La decisione della Cedu spacca in due il mondo della cultura giuridica e della politica, tra coloro che sottolineano la necessità di non arretrare sul terreno della lotta alle mafie e chi, invece, evidenzia l’esigenza di un carcere umano, che non entri in conflitto con la Costituzione. Ad aprire le polemiche, pochi minuti dopo la decisione di Strasburgo, è il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra, che parla di «offesa agli uomini di Stato». E parla di «scontro» tra l’Italia e la Cedu, che consentirebbe così agli ergastolani di chiedere «risarcimenti milionari», mettendo inoltre «a rischio» il 41 bis. Una linea, quella di Morra, che conferma quella giustizialista condivisa da tutto il M5s. A partire dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che annuncia: «faremo valere in tutte le sedi le ragioni» del governo. I benefici, per il Guardasigilli, sono accessibili solo a chi collabora con la giustizia, perché «di fronte alla criminalità organizzata bisogna reagire con grande determinazione». E a rincarare la dose ci pensa anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, secondo cui «se vai a braccetto con la mafia, se distruggi la vita di intere famiglie e persone innocenti, ti fai il carcere secondo certe regole». Mentre per il capogruppo del M5s in Antimafia, Mario Giarrusso, quello della Cedu sarebbe un atto «irresponsabile» al quale bisogna reagire «con fermezza», se necessario anche «rinunciando al Consiglio d’Europa». Posizione che trova d’accordo anche il magistrato antimafia Nino Di Matteo, secondo cui «queste erano le aspettative degli stragisti», per soddisfare le quali sono state usate «le bombe» e l’ex procuratore nazionale antimafia Grasso, che parla di «una scarsa conoscenza del modello mafioso italiano». Una legge dura, quella sul carcere ostativo, «ma non incostituzionale», sostiene, in quanto «pone i mafiosi davanti a un bivio» : essere fedeli al proprio clan o allo Stato. Durissimo anche il magistrato Gian Carlo Caselli. «L’isolamento dei mafiosi – sottolinea – ha creato una slavina di pentimenti, ora che il quadro cambia, chi ha voglia di pentirsi ci penserà 300mila volte. La lotta alla mafia subirà dei rallentamenti». Per Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio, si tratta di una decisione «inadeguata», che distrugge «le conquiste per le quali magistrati come Giovanni Falcone e mio fratello Paolo hanno anche sacrificato la vita». Si dice preoccupata anche Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni, che rivolge un appello alla politica: «trovare una soluzione che non vanifichi anni di lotta alla mafia e che sappia contemperare i diritti con la sicurezza dei cittadini». E mentre i leghisti Matteo Salvini e Jacopo Morrone invocano il lavoro obbligatorio in carcere, opponendosi a qualsiasi ammorbidimento della legge per gli ergastolani, a rivendicare la correttezza della decisione dei giudici di Strasburgo ci pensa l’associazione Antigone. «Ci deve essere sempre una prospettiva di rilascio – afferma il presidente Patrizio Gonnella – E chiunque oggi dica che adesso si introduce un automatismo nell’uscita, afferma qualcosa non corrispondente al vero. Non c’è alcun allarme sociale». Voce che si associa a quelle di Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale, secondo cui «i diritti umani non sono negoziabili», e di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, che parla «pagina fondamentale nel recupero di valori che sono della Convenzione europea e della nostra Costituzione - sottolinea - E ora sarà importantissima la decisione della Corte Costituzionale in materia analoga». E sulla questione intervengono anche due presidenti emeriti della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli e Valerio Onida. Per il primo, «la Corte di Strasburgo difende i diritti dell’uomo e non può che essere orientata alla giustizia – sottolinea – certo dovrà essere rivista la disciplina del 41 bis, ma niente di allarmante. Il 41 bis potrebbe essere rivisto sulla base di un principio di personalizzazione dei casi». Mentre per Onida, la normativa sull’ergastolo ostativo è «incostituzionale» e ora il legislatore deve modificarla. Se non lo facesse rischierebbe «nuove condanne», ma «penso che il problema sarà risolto dalla Corte costituzionale», che sulla questione si pronuncerà a breve.
Ergastolo ostativo, la commissione Antimafia: "Non va toccato". Di Maio: "Rischio boss fuori dal carcere". Il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho: "Questa misura ha consentito le collaborazioni". La Repubblica il 05 ottobre 2019. Potrebbe arrivare già martedì la decisione della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo sull'ergastolo ostativo: un verdetto che preoccupa non solo il Guardasigilli Alfonso Bonafede, il quale teme conseguenze sulle politiche di lotta alla mafia e al terrorismo, ma anche i magistrati antimafia e la stessa commissione parlamentare. Ma che cos'è l'ergastolo ostativo? È un istituto con il quale si prevede che, per chi è condannato al carcere a vita per reati di mafia e terrorismo e non collabora con la giustizia, non possano esserci benefici penitenziari, quali la libertà condizionale. Ebbene questa misura è stata censurata il 13 giugno scorso, con una sentenza adottata a maggioranza, dalla Corte europea di Strasburgo per violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - che vieta "trattamenti inumani e degradanti". Il caso in esame riguardava Marcello Viola, un ergastolano condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. I giudici della Corte europea avevano sollecitato, con la loro pronuncia, una riforma dell'ergastolo ostativo. Dal governo italiano, quindi, è arrivata la richiesta di rinvio alla Grande Camera, sottoposta ora al vaglio di ammissibilità: nella sua istanza, il governo ricorda come il fenomeno mafioso sia la principale minaccia alla sicurezza non solo italiana, ma europea e internazionale, e sottolinea che l'ergastolo ostativo è stato dichiarato più volte conforme ai principi costituzionali dalla Consulta. In Italia oggi ci sono 957 ergastolani per crimini di mafia, mentre sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione. In un anno (2017-2018) 111 membri di associazioni mafiose e 7 testimoni hanno scelto di collaborare. "Quella legislazione ha avuto positivi risultati e ha consentito le collaborazioni. Nel momento in cui dovesse venir meno, se l'ergastolo si trasformasse in una pena diversa è certo che tutti i risultati positivi fino a ora conseguiti non si avrebbero più" ha detto il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho. Anche la commissione parlamentare Antimafia sottolinea che la misura non deve essere toccata: "La Corte Europea dei diritti dell'uomo deve dichiarare da che parte sta nella lotta alla mafia. È paradossale che davanti alla realtà delle mafie, alla loro capacità di espandersi a livello globale e di penetrare ogni settore della vita democratica, si discute di ergastolo ostativo". Sul tema interviene anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che, su Facebook, sottolinea come si corra "il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche boss mafiosi e terroristi" e la possibilità di "una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti". Inoltre "si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi ci permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. E non si tratta di un problema che interessa solo l'Italia, ma ne va della sicurezza di tutta l'Europa". Pertanto, è la conclusione, "è doveroso aprire una seria riflessione, lo dobbiamo alle troppe vittime di mafia e terrorismo che hanno perso la vita senza nessuna colpa".
Facebook. Luigi Di Maio 5 ottobre 2019: Da sempre il MoVimento si batte contro la mafia e i mafiosi. La storia del nostro Paese ci ha lasciato in eredità troppo sangue e dolore. Ancora oggi siamo davanti a un fenomeno che, nonostante l’ottimo lavoro di magistratura e forze dell’ordine, continua a rimanere vivo nel nostro Paese. Uno degli strumenti a disposizione della giustizia italiana è quello dell’ergastolo ostativo. Una delle tante intuizioni del magistrato Giovanni Falcone che ci ha permesso di contrastare con fermezza mafiosi e terroristi. Un condannato per mafia, o per reati gravi come il terrorismo, può usufruire di benefici penitenziari solo se decide di collaborare con la giustizia. E chi non collabora deve scontare la sua pena. Vi dico tutto questo perché nei prossimi giorni è atteso il verdetto della Grande Camera sul ricorso che il governo ha fatto alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che lo scorso giugno ha detto che l’ergastolo ostativo rappresenterebbe una violazione dei principi della dignità umana. In base alla decisione della Grande Camera potremmo trovarci a dover affrontare una serie infinita di ricorsi da parte di questi detenuti, con il serio rischio di ritrovarci fuori dal carcere anche “boss” mafiosi e terroristi. Ovviamente si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi ci permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. E non si tratta di un problema che interessa solo l’Italia, ma ne va della sicurezza di tutta l’Europa. È doveroso aprire una seria riflessione, lo dobbiamo alle troppe vittime di mafia e terrorismo che hanno perso la vita senza nessuna colpa.
Claudia Guasco per “il Messaggero” il 7 ottobre 2019. Al momento sono 957 i detenuti in regime di ergastolo ostativo. Mafiosi, ex brigatisti, ma anche condannati per traffico di droga, prostituzione minorile, pedopornografia. Se oggi la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) dovesse respingere il ricorso dell'Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 con cui i giudici di Strasburgo hanno dato ragione al boss Marcello Viola - affermando che l'ergastolo ostativo sia contrario all'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani che vieta la tortura, i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti - la lotta alla mafia e al terrorismo verrebbe depotenziata. «L'Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie, salvo poi sdegnarsi per stragi al di fuori dei confini italiani come Duisburg», è l'attacco del presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. «Si dovrebbe lavorare affinché la nostra legislazione antimafia venga recepita da altri ordinamenti nazionali in attesa di una normativa europea contro la mafia. Invece la Cedu vuole impedire che l'ergastolo, senza possibilità di alcun alleggerimento, di alcun beneficio, di alcuno sconto di pena, possa indurre mafiosi ad accettare la possibilità di collaborare con lo Stato, diventando fonti informative importanti per sconfiggere i sodalizi mafiosi». Il timore concreto, sottolinea Morra, è che bocciando l'ergastolo ostativo «si delegittimi il 41 bis, che è un regime carcerario che impedisce al detenuto di continuare a relazionarsi con l'organizzazione di cui era parte». Insomma, per il presidente della Commissione antimafia bocciare l'ergastolo ostativo «sarebbe un colpo anche alla memoria di Falcone e Borsellino». Intanto le prime conseguenze della sentenza di giugno si sono già verificate: altri dodici condannati hanno depositato il loro ricorso davanti alla Corte europea, sullo stampo di quello di Viola, mentre 250 ergastolani hanno presentato ricorso al Comitato delle Nazioni unite. Se l'azione dell'Italia venisse respinta, sarebbe un terremoto per l'intero sistema: dovranno essere risarciti tutti i detenuti che ne faranno richiesta e ripensato il sistema del 41 bis, regime di carcere duro approvato nell'ambito della legge Gozzini il 10 ottobre 1986 e più volte criticato dalla Corte di Strasburgo. Oggi sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione, tra il 2017 e il 2018 sono stati 111 i membri di associazioni mafiose e 7 i testimoni che hanno scelto di collaborare. Per sperare di ottenere qualsiasi tipo di beneficio, dai permessi al lavoro esterno, i condannati devono non solo dimostrare di essersi incamminati sulla strada della riabilitazione, ma anche di aver tagliato i ponti con gli ambienti criminali di riferimento e collaborare fattivamente con la giustizia. Per la Cedu ciò costituisce un «trattamento inumano ai sensi dell'art. 3», mentre la Consulta si è più volte pronunciata sul tema ribadendo la costituzionalità ma aprendo la strada a una rivisitazione, tant'è che vi sono stati casi di detenuti che hanno ottenuto la liberazione condizionale per effetto di un percorso rieducativo virtuoso. Adesso però la Corte europea potrebbe forzare la mano e per questo il governo italiano ha presentato il ricorso alla Grande Camera ricordando come il fenomeno mafioso sia la principale minaccia alla sicurezza non solo italiana, ma anche europea e internazionale.
Perché togliere l'ergastolo ai boss mafiosi è un gravissimo errore. Il 22 ottobre i giudici dovranno decidere se sono legittime le norme che vietano i benefici di pena ai capi della criminalità organizzata. Una legge voluta da Giovanni Falcone finora caposaldo della lotta alle cosche. Lirio Abbate il 7 ottobre 2019 su La Repubblica. Il 22 ottobre nel Palazzo della Consulta si deciderà se cancellare una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al ministero di via Arenula. Si discuterà nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per coloro che non hanno mai collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale è chiamata a decidere se questa norma è illegittima. La legge italiana prevede alcuni benefici per gli ergastolani come il lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La legge che comprende l’articolo 4bis, voluto da Falcone che lo scrisse nel 1991 per rafforzare il contrasto alle mafie e tutelare ancor di più ogni singolo giudice di sorveglianza chiamato a decidere sui detenuti, stabilisce che a questi benefici (dopo 10 anni si può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale, termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario), non possono accedere gli ergastolani definitivi accusati di omicidi in ambito mafioso, o collegati all’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di droga, ai reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Il carattere ostativo di queste condanne può essere superato solo se l’ergastolano collabora con la giustizia. Nel momento in cui si dovesse decidere di abrogare questa norma si rimetterebbe tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrebbe valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o meno il permesso o la libertà condizionale. In questo modo si scaricherebbe sulle carceri, sugli operatori sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione. E li si sottoporrebbe alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita come Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Salvino Madonia, Antonino Pesce, Rocco Pesce, Domenico Gallico, Francesco Barbaro, Giovanni Strangio, Giuseppe Nirta, tanto per citarne alcuni tra i più efferati criminali che si sono macchiati le mani con il sangue di decine di vittime innocenti. In questo modo si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era come una passeggiata. A più riprese diversi politici in passato hanno tentato di cancellare, modificare, annullare questa norma. Sarebbe un vantaggio per i mafiosi che si sono sempre opposti alla collaborazione e che sono stati riconosciuti colpevoli di aver ordinato o eseguito stragi e omicidi. La Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) lo scorso giugno ha deciso di condannare l’Italia a risarcire un ergastolano ostativo, per la violazione della dignità umana, e il governo ha appellato davanti alla Grande Camera della Corte di Strasburgo. Queste sentenze del Consiglio d’Europa non richiedono di modificare il nostro ordinamento, condannano solo lo Stato a risarcire il danno. Non si può spazzare via uno dei punti fermi del contrasto alle mafie, e non si può mettere sullo stesso piano il mafioso che collabora, il boss che ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale e i suoi affiliati, con quelli invece che continuano ad aggrapparsi al silenzio imposto dall’omertà del loro codice d’onore senza dare alcun segno di pentimento o desistenza. Si corre il rischio, cancellando questa norma, di far tornare indietro di ventotto anni la lotta alla mafia. Basti pensare a quando rivedremo circolare per le strade di Corleone Leoluca Bagarella e Giovanni Riina, o in quelle di Catania, Nitto Santapaola, con in tasca il loro permesso premio o la loro libertà condizionata. A quella vista dei boss in giro per le strade di paesi e città cosa dovrebbero pensare i familiari delle loro vittime innocenti? Riflettiamoci ancora bene, con coscienza, prima di azzoppare uno strumento fondamentale della lotta alle mafie.
Così si rischia di riesumare il vecchio sistema mafioso. Vincenzo Musacchio ( Giurista e Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise) il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Chi non ha vissuto il periodo delle stragi di mafia non può comprendere cosa significhi vedere numerosi boss mafiosi che si sono macchiati di crimini efferati uscire a breve dal carcere. Gli unici deterrenti reali per i mafiosi sono il 41bis, la confisca dei beni e l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Possono apparire misure non pienamente conformi ai dettami costituzionali ma rappresentano la migliore normativa contro la mafia, scritta peraltro con il sangue delle innumerevoli vittime della criminalità organizzata. Siamo di fronte a strumenti efficaci senza i quali probabilmente non avremmo mai potuto scalfire il potere dei boss di primo piano. Se si toccasse uno solo di questi strumenti, ritengo che il sistema antimafia italiano potrebbe collassare. Mi riferisco, in particolare, all’ergastolo ostativo, sempre odiato dai mafiosi che lo temono moltissimo. Chi non ha vissuto il periodo delle stragi di mafia non può comprendere cosa significhi vedere numerosi boss mafiosi che si sono macchiati di crimini efferati uscire a breve dal carcere. Potremmo assistere al ritorno in libertà di alcuni boss irriducibili. Una scelta molto rischiosa che potrebbe riesumare il sistema mafioso tradizionale, che è stato sconfitto proprio grazie agli strumenti antimafia in vigore. I boss storici, ma anche i nuovi, non vogliono né il 41bis, tantomeno l’ergastolo ostativo e lo dimostra che abbiano tentato più volte in passato di mettere mano proprio sul regime carcerario del 41bis e sul superamento dell’ergastolo per i boss. Chi conosce le mafie, sia per esperienza vissuta sul campo che per studio, sa che sfruttano l’ingenuità dei cittadini che non conoscono l’enorme capacità delle organizzazioni mafiose di rigenerarsi in pochissimo tempo con la sola presenza dei loro boss storici. Se tornassero a comandare i vecchi capimafia oggi ergastolani lo Stato ne uscirebbe inesorabilmente sconfitto e si darebbe loro lo strumento per riaffermare il loro potere perduto. Sarebbe un segnale di nuova sconfitta delle istituzioni. Come insegnava Giovanni Falcone, il mafioso che ha giurato fedeltà all’organizzazione criminale di appartenenza, una volta uscito dal carcere, non potrà non tornare a servirla fino alla morte. Non dobbiamo mai dimenticarci che i mafiosi di cui parliamo sono stragisti o persone che ne hanno seguito le strategie senza batter ciglio. Personalmente credo che la necessità di evitare rapporti tra gli esponenti carcerati e quelli a piede libero sia irrinunciabile. Ricordiamoci bene che riscontri oggettivi e probatori nei vari processi per mafia comprovano chiaramente che la detenzione dell’imputato di delitti di mafia non interrompe né sospende il vincolo associativo né sostanzialmente impedisce al detenuto di concorrere alla consumazione di gravi reati all’esterno degli stabilimenti carcerari con istigazioni, sollecitazioni, ordini e altre similari attività. Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che all’interno degli istituti di reclusione le gerarchie mafiose si ricostituiscono automaticamente senza soluzione di continuità con gli organigrammi e le organizzazioni esterne, cagionando sovente il sovrapporsi di occulte autorità intramurarie al personale di custodia statale, espropriato in gran parte dei suoi poteri. Dare la certezza di libertà ai mafiosi senza alcun tipo di collaborazione con la giustizia è un regalo inspiegabile e un’offesa al sacrificio di tantissime vittime di mafie e dei loro familiari. Se queste sono le premesse, non meravigliamoci se i boss torneranno a brindare così come fecero quando hanno fatto saltare in aria Falcone, sua moglie e gli uomini della sua scorta!
Vittorio Feltri, mafiosi e delinquenti "comuni": "Chi fa distinzione tra i criminali è un idiota". Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Molti giornali hanno ferocemente criticato la Corte costituzionale perché ha accolto le obiezioni dell' Europa contro il cosiddetto ergastolo ostativo. In sostanza i giudici della Consulta sostengono che anche i mafiosi e i terroristi, dopo aver scontato un cospicuo numero di anni in galera per reati gravissimi, debbano godere dello stesso regime premiale riservato a detenuti comuni. Il che consiste in pochi privilegi, per esempio giorni di vacanza fuori dalla prigione e riduzioni di pena finalizzate ad abolire la morte civile. Provvedimenti saggi e in sintonia con i princìpi sanciti dalla Carta. Dove è allora il problema? Secondo vari commentatori abituati ad applicare alla giustizia il criterio di un tanto al chilo, i condannati per reati mafiosi devono restare in gattabuia vita natural durante e trattati a calci nel culo come se non fossero esseri umani. Costoro meritano di subire leggi speciali in contrasto col concetto che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Mentre un detenuto per reato di sangue, che magari ha ucciso moglie e figli, merita di uscire di cella alcuni dì, nonostante il succitato ergastolo, chi invece si è macchiato di un crimine di mafia è costretto a marcire dietro le sbarre per sempre. Perfino un idiota capisce che è sbagliato dividere i delinquenti tra gente di serie A e gente di serie B. I carcerati non sono diversi l' uno dall' altro, ed è necessario siano valutati alla stessa stregua. Considerare gli appartenenti alla onorata società esseri inferiori e meritevoli di torture sistematiche è qualcosa di vergognoso che contrasta con lo spirito costituzionale. È vero che una condanna è una punizione, ma è altrettanto vero che essa deve puntare alla riabilitazione del recluso. Pertanto nessuno di quelli che sono dietro le sbarre può essere massacrato bensì posto in condizione di riabilitarsi. Mafioso o criminale comune che sia. Altrimenti la giustizia non è più tale, ma diventa una forma di vendetta sociale che non si concilia con la esigenza di recuperare gli uomini e le donne che hanno sbagliato. di Vittorio Feltri
Idioti forse, giustizialisti mai. Alessandro Sallusti, Sabato 26/10/2019, su Il Giornale. Vittorio Feltri ieri ha scritto che è «da idioti e giustizialisti» opporsi al carcere a vita per i mafiosi e i terroristi che si sono macchiati di gravi crimini perché «nessuno di quelli che sono dietro le sbarre può essere massacrato bensì posto in condizioni di riabilitarsi, mafioso o criminale comune che sia», altrimenti non sarebbe giustizia ma una vendetta in contrasto con i principi della Costituzione. Visto che noi siamo tra i pochi che abbiamo criticato l'abolizione del 4 bis (l'articolo che introduce la possibilità dell'ergastolo a vita) ci sentiamo chiamati in causa in quanto «idioti giustizialisti». Su «l'idiota» possiamo discutere, ma sul «giustizialista» no, non lo siamo. Vittorio Feltri ha ragione: il carcere «fine vita mai» che nega la possibilità di una riabilitazione è una barbarie. Il fatto è che il «4 bis» non dice questo, non preclude il ravvedimento. In quella legge non c'è scritto che chi fa saltare in aria con cento chili di tritolo il giudice Falcone, sua moglie e l'intera scorta deve per forza morire in prigione campasse altri cent'anni. E neppure che se uno scioglie un bambino nell'acido è successo anche questo - debba essere sepolto vivo in una cella. No, quella legge dice un'altra cosa. Dice che se tu fai saltare in aria dieci persone e ti diletti a sciogliere bambini hai gli stessi diritti di un detenuto comune compreso i permessi e la libertà a fine pena a patto che collabori con la giustizia a smantellare l'organizzazione che ti ha portato a compiere simili efferatezze. Per intenderci, se Totò Riina avesse preso le distanze dai suo esercito di mafiosi sarebbe morto nel letto di casa e non in un carcere. Feltri dice bene: anche al mafioso più incallito deve essere data la possibilità di riabilitarsi, cioè prendere coscienza degli errori fatti. Ma gli chiedo: può dirsi «riabilitato» uno che volutamente protegge assassini in libera circolazione, bombaroli a spasso e trafficanti di droga (cioè di morte), uno che chiamato a rispondere di duecento omicidi si presenta in aula non per negare o difendersi ma solo per sfidare la corte con un sorriso beffardo, a dimostrare ai suoi compari fuori che lui è un duro e nulla teme e diventare quindi un modello da imitare? Centinaia di mafiosi assassini si sono pentiti, con i loro racconti fatti il più delle volte per pura convenienza - hanno evitato nuove stragi e altri morti. E hanno così rivisto la luce di una libertà non sempre meritata. Sono stati questi, caro Vittorio, tutti degli idioti come noi?
Ma la pena non è una vendetta. Cari manettari, finchè vale la Costituzione la pena non è vendetta e il fine è rieducare. Valter Vecellio il 26 Ottobre 2019 su Il Dubbio. D’accordo: questo è il Paese dove un noto presentatore se ne esce dicendo che viviamo in un Paese a democrazia ridotta perché sono anni e anni che il presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Accade anche che un parlamentare, e il gia’ citato conduttore definiscano “imperatore” il console Quinto Fabio Massimo, detto “Il temporeggiatore”. Capita. Scagli pure la prima pietra chi non ha sillabato, in vita sua, una qualche castroneria. Dunque, l’indulgenza, è d’obbligo; e con tutti. Anche se a volte comporta una certa fatica. È il caso della recente sentenza della Corte costituzionale a proposito dell’ergastolo ostativo. A questo punto, senza scomodare i poderosi manuali di un Costantino Mortati, basta leggere la Costituzione, che ha sicuramente un pregio: quella di essere scritta in un italiano cristallino, comprensibile anche a un illetterato. Si vada all’articolo 134: “La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Chiaro, limpido: se si sospetta che una legge sia in contrasto con la Costituzione, la Corte Costituzionale, composta da magistrati e giuristi a composizione mista, valuta e stabilisce se il contrasto vi sia o no. Nel caso dell’ergastolo ostativo, ha stabilito che vi sono delle norme che non si conciliano con la Costituzione; e di conseguenza ha emesso una sentenza. Ora nel merito, la cosa può non piacere, ma resta il fatto che, sempre Costituzione alla mano, l’articolo 27 stabilisce: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Anche qui, la volontà dei Padri Costituenti è chiara, limpida: la pena non è vendetta, e non solo punizione o salvaguardia della collettività. Deve tendere alla “rieducazione del condannato”. Si chiami Mario Rossi o Totò Riina. E, sempre le pene, devono essere conformi al senso di umanità. Dunque, l’ergastolo, cioè lo stabilire a priori che si è irrecuperabili, è contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione; e parimenti contrario qualsivoglia trattamento che non sia conforme al senso di umanità. La cosa può non piacere, e in questo caso la via maestra è semplice: proporre un cambiamento della norma costituzionale. Ma fin quando c’è, la si deve osservare. Questo ha ribadito la Corte Costituzionale, nient’altro. Sentenza che non è per nulla piaciuta a un fresco componente del Consiglio Superiore della Magistratura: un magistrato che con alterne fortune si è impegnato nel fronte antimafia, ha fatto parte della Direzione Nazionale Antimafia e per troppa loquacità ( ma forse qualche altra ragione più profonda e sostanziale) da quell’ufficio è stato rimosso. Ha idee ben radicate, questo magistrato, e le ha esposte in varie pubblicazioni, anche se non sempre i fatti sembrano avergli dato ragione. Ad ogni modo, una certa coerenza gli va riconosciuta, indubbiamente. Proprio per questo, sorprende alquanto una sua presa di posizione rispetto alla sentenza della Corte costituzionale: “Si apre un varco potenzialmente pericoloso, ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo”. Forse dovrebbe nutrire maggior fiducia nei confronti dei suoi colleghi che saranno di volta in volta chiamati a decidere e valutare. Ma tant’è. Certo: se non ha fiducia lui nei suoi colleghi… Si aggiunge che si deve “che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni ’ 92-’ 94?. E qui, se si fosse un giudice costituzionale si avrebbe un moto di irritazione e stizza, per adombrare che si realizza, con una sentenza che si richiama alla Costituzione vigente, quello che la mafia stragista perseguiva. Ma il bello, cioè il brutto viene dopo: quando si invoca di fatto un intervento del Parlamento: “la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”. A parte la manifesta infondatezza delle “porte del carcere” aperte indiscriminatamente, in sostanza succede questo: il neo- componente del Csm che per tutta la vita ha tuonato contro l’interferenza della politica, per "l’indipendenza della magistratura", e la difesa della Costituzione, ora si augura che la politica intervenga e "sani" presunti vulnus che la Corte Costituzionale avrebbe inferto richiamandosi ai dettami costituzionali… Questa si, per citare una definizione del segretario del Pd Nicola Zingaretti, è una bella stravaganza. Solo che per Zingaretti la stravaganza è la sentenza. Che dire? Un giudizio perlomeno stravagante…
In prigione 41 anni, muore ma senza vedere la famiglia. Mario Trudu, ergastolano ostativo recluso da 41 anni, è morto all’ospedale di Oristano. Damiano Aliprandi il 26 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Alla fine non ce l’ha fatta, nemmeno per poche ore ha potuto riabbracciare i familiari a casa. Mario Trudu, ergastolano ostativo recluso da 41 anni, è morto all’ospedale di Oristano per complicanze polmonari dopo aver vinto la sua lunga battaglia per curarsi fuori dal carcere di Massama e riabilitarsi fisicamente stando ai domiciliari. Questo è il fine pena mai che vige in Italia e pochissimi altri Paesi. Questo è l’ergastolo ostativo quando non si collabora con la giustizia: si può uscire dal carcere solamente tramite una bara. Mario Trudu muore proprio quando due sentenze, quella della Cedu e poi della Consulta, aprono una breccia nel muro di cinta del fine pena mai. Trudu avrebbe avuto tutte le carte in tavola per poter uscire da uomo libero, riabilitato, pronto per ricominciare a vivere, come prevede la nostra Costituzione scritta da chi ha conosciuto la ferocia dello Stato etico durante il fascismo. Non a caso, sulla nostra carta costituzionale non viene menzionato l’ergastolo così come il carcere. La svolta culturale, la più alta e illuminante, fu proprio quella. Però Mario Trudu non ha potuto, nessun permesso premio, nessuna libertà condizionale e nemmeno, fino a venti giorni fa, la possibilità di curarsi adeguatamente fuori dal carcere. C’è la sua avvocata Monica Murru, la quale da anni si è battuta per lui, che giovedì sera ne ha dato la triste notizia. «Mi hanno appena avvisato che Trudu non ce l’ha fatta – scrive Murru -, è morto stasera nel reparto di terapia intensiva, senza essere potuto tornare a casa neppure una manciata di ore. Ho davanti il suo viso, le sue braccia fatte di muscoli lunghi di uomo di campagna, come se avesse sempre zappato la terra anziché stare 40 anni in carcere, il suo sorriso ironico. E mi sento addosso il peso pesante di un lavoro inutile, di un risultato arrivato troppo tardi». E infine aggiunge: «Una sopraggiunta proprio adesso che la Corte Europea dei diritti umani e la Consulta hanno sancito una svolta verso una giustizia umana, verso una pietà che Mario non ha potuto sperimentare. Stanotte la mia toga è pesante e fredda come una coperta sarda. Una burra di orbace capace di schiacciarti, ma non di scaldarti». Trudu faceva il pastore, ma ha anche fatto parte della famosa Anonima sequestri. Infatti venne condannato per due sequestri di persona. Del primo si dichiarava da sempre innocente, e tramite il suo libro edito da stampalibera “Totu sa beridadi, tutta la verità, storia di un sequestro” – teneva molto a sottolineare che se non fosse stato per quella prima ingiusta condanna ( 30 anni, ha scritto, sono davvero troppi per un reato non commesso) non avrebbe architettato il rapimento poi compiuto fuggendo da Ustica, dove era al confino in attesa della sentenza di Cassazione. Non per giustificarsi, aveva sottolineato, ma per spiegare quali sono stati i meccanismi dell’odio e della rabbia. Era in carcere, come detto, da 41 anni, destinato a morirvi perché, assumendosi in pieno la responsabilità del sequestro dell’ingegner Gazzotti ( morto in uno scontro a fuoco poco prima che venisse rilasciato), non ha mai fatto i nomi dei suoi complici. E lo Stato, nel caso di non collaborazione, è feroce, spietato, senza concedere alcuna possibilità. Trudu in occasione di un’udienza per chiedere di curarsi disse: «Non vi sto chiedendo di farmi uscire, ma di farmi curare». Non è uscito dall’ergastolo ostativo, perché I magistrati ritenevano che la sua collaborazione potrebbe in astratto essere ancora possibile. L’avvocata Murru aveva presentato una miriade di istanze di permesso, anche legate a progetti, ma non era mai riuscita a ottenere nulla. Con la sentenza della Consulta avrebbe avuto finalmente la possibilità. Ma troppo tardi. Ora Trudu non c’è più.
Pasticcio nel calcolo della pena: scarcerato il boss pluriomicida. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Accolto il ricorso: libero per la seconda volta l’ergastolano di ‘ndrangheta 58enne Domenico Paviglianiti. In carcere per sempre. No, dentro per 30 anni su 168 teorici. No, dopo 23 anni, fuori per sempre. No, fuori solo per 24 ore, e poi di nuovo dentro fino al 2024. No, di nuovo fuori, e per sempre. Per quanto stordenti come palline volanti su una roulette impazzita, sono regole. E le regole non si possono forzare, neanche per cercare di tenere comunque in carcere un pluriomicida ergastolano di ‘ndrangheta, che in estate era stato liberato da un particolarissimo rimbalzo di norme. Così il 58enne Domenico Paviglianiti una settimana fa, senza che si sia saputo, per la seconda volta in due mesi è stato scarcerato dai magistrati per «fine pena». Ma stavolta definitivamente: proprio lui che in agosto era stato riarrestato, appena 24 ore dopo essere stato liberato grazie alla commutazione in 30 anni del suo ergastolo (peraltro di tipo ostativo a qualunque beneficio), e poi al computo che glieli considerava già giuridicamente scontati pur a fronte di 23 anni trascorsi in cella. L’ergastolo, maturato nel 2002 in base alla norma che lo fa discendere da due condanne superiori ciascuna a 24 anni (e lui, su 8 sentenze, ne aveva quattro a 30 anni per altrettanti omicidi), gli era stato annullato due mesi fa perché l’Italia nel 2002 non aveva rispettato la parola data alla Spagna nel 1999 e 2006 che il superlatitante, là catturato nel 1996, qui non sarebbe stato sottoposto al carcere a vita, all’epoca non contemplato della legislazione iberica. Caduto l’ergastolo, i 168 anni di somma aritmetica di otto sentenze di condanna erano stati assorbiti, a norma di legge, nel tetto massimo ammesso in Italia da scontare in cella, 30 anni. Ma a questo punto, oltre a 3 anni e mezzo «fungibili» ad altro titolo, gli avvocati Mirna Raschi e Marina Silvia Mori avevano fatto valere anche la detrazione di 3 anni per un indulto, e di oltre 5 anni (1.815 giorni) di «liberazione anticipata» (45 giorni per legge ogni 6 mesi espiati): sicché Paviglianiti, dopo 23 anni di cella, a febbraio 2019 risultava aver già raggiunto e anzi superato il tetto massimo dei 30 anni. E il 4 agosto il gip aveva dovuto ordinarne «l’immediata scarcerazione». Ma la libertà era durata 24 ore, perché a razzo la Procura di Bologna gli aveva applicato un conteggio diverso da quello della Procura Generale di Reggio Calabria nel 2002: un nuovo calcolo che collocava il fine pena di Paviglianiti non più all’11 febbraio 2019, ma al 24 gennaio 2027, facendo leva su una condanna del 2005 (17 anni per associazione mafiosa a Reggio Calabria) che però anche a un osservatore esterno pareva già tra quelle considerate nel primo conto. E infatti adesso il gip Domenico Truppa rileva che il ricorso di Paviglianiti è fondato proprio perché «è evidente» che quella sentenza «non è un elemento di novità sopraggiunto», in quanto «non solo era stata valutata» nel primo computo del 2002 ma «è stata valutata» già anche dal gip che due mesi fa commutò l’ergastolo in 30 anni: «Era questo provvedimento che avrebbe», se mai, «dovuto essere impugnato in Cassazione», ma «tale opzione non è stata perseguita dal pm».
La vita incostituzionale dell’ergastolo ostativo col peccato originale di favorire il “pentitificio”. Tiziana Maiolo il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Come puoi rieducare con il “fine pena mai”? L’ergastolo ostativo è nato l’otto giugno del 1992 con il decreto “Scotti- Martelli”, a cavallo tra l’ultimo governo Andreotti e il governo Amato, negli stessi giorni in cui il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiedeva azioni radicali per risanare la finanza pubblica ( con una manovra da 30.000 miliardi di lire nel 1992 e una da 100.000 nel 1993) e la mafia aveva alzato il tiro fino a uccidere il magistrato Giovanni Falcone. L’incostituzionalità del provvedimento fu denunciata in modo quasi unanime, dentro e fuori il Parlamento. Gli avvocati scioperarono. Protestarono i membri della Commissione Pisapia. Perché il decreto era prima di tutto un attacco palese al nuovo processo penale entrato in vigore nel 1989 per il quale la prova si forma nell’aula e non nelle segrete stanze dove la pubblica accusa stipula il patto, spesso indecoroso, con il collaboratore di giustizia. Il decreto, emanato da un governo che non aveva la forza di arrestare Totò Riina e gli altri boss latitanti, fu un atto di impotenza e di vendetta più che di giustizia. La finalità fu esplicitamente quella di creare il “pentitificio” per smantellare le organizzazioni criminali e mafiose colpendole dall’interno. Furono costituiti i ” colloqui investigativi”, incontri riservati tra corpi speciali di polizia e singoli detenuti, che sfuggivano al controllo dello stesso magistrato. E il ricorso alle normali misure alternative al carcere o ai benefici penitenziari previste dalla riforma fin dal 1975, fu vietato per i condannati dei reati più gravi di mafia e terrorismo, tranne che per i “pentiti”. La prima conseguenza fu che diventò, nei fatti, vietato essere o dichiararsi innocenti. La seconda che, essendo la legge retroattiva ( altro motivo di incostituzionalità ), obbligava persone in carcere da anni e che magari usufruivano già per esempio di permessi esterni, a inventarsi qualcosa, magari mettendo a repentaglio la propria o altrui vita, per dimostrare la propria volontà di collaborazione e poter godere di nuovo dei propri diritti. In Parlamento scoppiò un putiferio. I liberali, i radicali, Rifondazione comunista e gran parte del Pds erano contrari. Anche tra i socialisti c’erano molte perplessità. Il decreto, in discussione al Senato per la conversione in legge, veniva criticato soprattutto per la palese violazione dell’articolo 27 terzo comma della Costituzione, che stabilisce le pene non possano “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e debbano “tendere alla rieducazione del condannato”. Come puoi rieducare con il “fine pena mai”? Le critiche erano così diffuse, anche tra i banchi della maggioranza di pentapartito, che si pensò a un certo punto di archiviare il decreto, di non convertirlo e lasciarlo al suo destino nel cestino della carta straccia. quel punto provvide però la mafia a dettare l’agenda alla politica. Il 19 luglio saltò in aria l’auto del giudice Paolo Borsellino. E il decreto “Scotti- Martelli” riprese vita fino a essere approvato con una corsa frenetica del Parlamento prima della scadenza dei sessanta giorni. Con il voto contrario di due liberali ( Alfredo Biondi e Vittorio Sgarbi) e di Rifondazione comunista e l’astensione del Pds. In quegli anni esisteva ancora il garantismo della sinistra. Dell’incostituzionalità di quella legge non si parlerà più fino al 2003, quando sarà proprio l’Alta Corte a sancirne la costituzionalità con un argomento che non verrà più messo in discussione nella sostanza ( se pure in seguito ammorbidito) fino all’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo del giugno scorso. Il punto centrale è proprio quello che, in senso negativo, era stato denunciato in Parlamento nel 1992, il “pentitificio”. Poiché il detenuto, dice in sostanza la Corte Costituzionale, è libero se collaborare o meno, l’applicazione dei benefici penitenziari è solo nelle sue mani. Non c’è dunque coartazione né trattamento disumano nei suoi confronti. Ma non si è tenuto conto, nella sentenza, dei fatto che esistono anche gli innocenti o coloro che non possono raccontare ciò che non sanno o che non vogliono far correre rischi a persone innocenti come i parenti propri o di altri. Argomenti che evidentemente sono stati considerati rilevanti per la Cedu.
Flick: «Così la Corte ridà valore alla dignità di ogni uomo». Errico Novi il 9 ottobre 2019 su Il Dubbio. Intervista a Giovanni Maria Flick presidente emerito della Consulta. «Non si subordina la fine della pena alla collaborazione perché spetta solo al giudice valutare il recupero del condannato: quello del collegio di Strasburgo è un ordine a cui ora l’Italia è vincolata». C’è un po’ di Giovanni Maria Flick, del presidente emerito della Consulta che è stato anche guardasigilli, in una sentenza storica come quella sull’ergastolo ostativo. «Insieme con altri studiosi, avevo trasmesso alla Corte europea dei Diritti dell’uomo una valutazione in veste di amicus curiae, come avviene spesso per i casi sottoposti ai giudici di Strasburgo. Ebbene, ci eravamo permessi di sollevare un aspetto forse non sempre considerato, ossia la lesione che l’ergastolo ostativo produce anche rispetto alla competenza del giudice nella valutazione sull’effettivo recupero del condannato. E proprio la restituzione di tale piena potestà valutativa al giudice di sorveglianza è non solo un ritorno ai principi costituzionali, ma anche l’esclusione di qualsiasi rischio di mettere fuori i boss, come sento dire». Flick, naturalmente, non si sente affatto corresponsabile di una tremenda minaccia per la Repubblica: in una giornata storica per la civiltà del diritto, sa di aver cooperato a riaffermare il principio inviolabile della dignità.
Ma l’Italia potrebbe sottrarsi al rispetto di questa sentenza?
«Secondo l’articolo 117 della Costituzione siamo sottoposti agli obblighi derivanti dalla sottoscrizione di trattati internazionali. La Convenzione europea dei Diritti umani è un architrave di tale ordinamento sovranazionale: ne siamo vincolati e siamo dunque vincolati ad applicare le sentenze della Corte di Strasburgo. Nel caso specifico, considerato che il collegio ha dichiarato inammissibile il ricorso italiano, si afferma non un diritto di singole persone, ma un’indicazione vincolante a cui lo Stato deve uniformarsi. L’accesso ai benefici, per chi è condannato all’ergastolo, non potrà essere subordinato alla collaborazione».
E se comunque lo Stato italiano non si uniformasse?
«Ci sarebbe la possibilità di ricorrere al giudice affinché sollevi la questione di costituzionalità delle norme sull’ergastolo ostativo. Peraltro la stessa Corte costituzionale è già investita della valutazione sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che preclude l’accesso ai benefici per alcuni reati, e già in quella sede, tra pochi giorni, potrà esprimere una valutazione adeguata. Ma posso muovere un’obiezione alla sua stessa domanda?»
In che senso?
«Nel senso che trovo difficile una contestazione formale dello Stato italiano rispetto a un giudizio con cui la Corte di Strasburgo evoca il problema della dignità».
Al centro della pronuncia sull’ergastolo ostativo c’è la dignità?
«La Corte dice che va contro la dignità della persona offrire un’unica alternativa al carcere a vita individuata nella collaborazione con la magistratura».
Tale previsione, secondo la commissione Diritti umani presieduta da Manconi, configurerebbe persino una tortura di Stato.
«Non so fine a che punto sia una considerazione compatibile con quanto previsto dalla Convenzione di New York contro la tortura. E comunque non credo sia necessario spingersi fino a tal punto. Anche perché la Corte ha richiamato l’Italia al rispetto di un ulteriore cardine del diritto penale, qual è la competenza esclusiva del giudice sulla valutazione del percorso rieducativo del condannato e sul suo possibile reinserimento».
Con l’ergastolo ostativo tale competenza era stata disconosciuta?
«Evidentemente sì: subordinare l’effettivo reinserimento sociale del condannato alla sua eventuale collaborazione significa avocare la valutazione che dovrebbe competere al giudice naturale precostituito, se possiamo così definirlo, che nel caso del detenuto è il giudice di sorveglianza. Si tratta di un’affermazione che risponde anche alla presunta grande incognita che questa sentenza, per alcuni, dischiuderebbe».
A cosa si riferisce?
«Al fatto che riconoscere la competenza del giudice di sorveglianza fa giustizia dei timori di veder liberate fiumane di mafiosi: sarà il magistrato, in ciascun singolo caso, a valutare se è effettivamente compiuto un processo di recupero».
Si restituisce dignità all’uomo. Persino se è stato mafioso.
«Anche in relazione a una conseguenza, sottovalutata direi, dell’ergastolo ostativo. Vede, nel nostro ordinamento, nella nostra tradizione, il processo di cognizione ha come oggetto il fatto. La gravità della lesione al bene giuridico offeso. A essere giudicato non è il mafioso o il corrotto, ma il fatto. L’uomo viene in considerazione solo con l’esecuzione della pena. Con l’ergastolo ostativo si opera un capovolgimento, perché nella fase di esecuzione si continua a giudicare non l’uomo e il suo percorso, ma ancora il fatto. Solo che così un Paese trasfigura i connotati stessi del diritto penale».
Una perdita di civiltà?
«Tanto più perché simmetricamente connessa al cosiddetto diritto penale del nemico. Al mantra del buttare la chiave, in cui il carcere non è estrema ratio, ma soluzione abituale e, inevitabilmente, discarica sociale. In tal modo il processo di cognizione, a sua volta, non giudica più il fatto ma l’uomo, mafioso o corrotto che sia, in quanto nemico a prescindere».
Un sistema da Stato d’eccezione: la Cedu ci sollecita a superarlo?
«In un momento di eccezionalità qual è stato il ’ 93 forse l’ostatività poteva avere una spiegazione: ora non la si può comprendere. Così come mi sono sempre sentito in compagnia del Santo Padre, di Moro, di Napolitano, nel ritenere che l’ergastolo fosse una pena illegittima nella formulazione ma legittima nell’esecuzione finché è possibile avere una prospettiva di uscirne con la liberazione condizionale, quando si ritiene ragionevolmente che il condannato si sia rieducato. Con la scomparsa, provocata dal regime ostativo, di quel recupero di legittimità, io proprio non riuscivo ad accettare quell’illegittima dichiarazione che è il fine pena mai».
Un ergastolano alla Consulta per testimoniare il suo riscatto. Marcello Dell’Anna si è laureato in giurisprudenza con lode, è relatore nel corso di formazione giuridica per avvocati, è al 4 bis e non può avere benefici. Damiano Aliprandi il 19 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, ovvero la sentenza Viola contro l’Italia del 13 giugno scorso, l’ergastolo ostativo torna nuovamente all’esame della Corte costituzionale sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis sollevate dalla prima Sezione della Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone. Se nel caso Viola si discuteva dell’impossibilità di richiedere la liberazione condizionale per mancata collaborazione con la giustizia, la discussione del prossimo 22 ottobre si concentra proprio sul perché il requisito della collaborazione renda di fatto inapplicabile la richiesta del permesso premio. Secondo il giudice della Cassazione che ha sollevato l’illegittimità costituzionale relativo al caso Cannizzaro, l’esclusione dell’applicazione del beneficio penitenziario in mancanza della scelta collaborativa, senza consentire al giudice una valutazione in concreto della situazione del detenuto, sarebbe «in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno». Il Tribunale di sorveglianza di Perugia a firma del magistrato Fabio Gianfilippi solleva l’analoga questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano Pavone. Il 22 ottobre saranno quindi presenti i rispettivi avvocati dei due ergastolani. L’avvocato Vianello Accorretti per il caso Cannizzaro e gli avvocati Michele Passione e Mirna Raschi per il caso Pavone. La parte però più interessante è che all’udienza parteciperanno anche i cosiddetti amicus curiae, ovvero le parti terze che, nonostante non siano parte in causa, offrono un aiuto alla Consulta per decidere. Per il caso Pavone si affiancherà l’avvocata Emilia Rossi, per l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, e l’avvocato Vittorio Manes per l’Unione Camere penali italiane. Per quanto riguarda il caso Cannizzaro si affiancherà l’avvocato Andrea Saccucci per Nessuno Tocchi Caino e l’avvocato Ladisalao Massari per Marcello Dell’Anna. Ma chi è quest’ultimo? Si tratta di un ergastolano ostativo ed è la prima volta nella storia che un detenuto, per di più ergastolano, interverrà in un giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Un amicus curiae che, grazie al suo ravvedimento, è il simbolo di chi – pur non collaborando per svariate ragioni – ha tutte le carte regola per uscire dal carcere visto l’evidente riabilitazione, ma ne rimane imprigionato per la mancata collaborazione con la giustizia. D’Anna ha varcato le soglie del carcere quando aveva poco più di 20 anni. Apparteneva alla Sacra corona unita e ha commesso un duplice omicidio in un contesto mafioso. Ora ha 52 anni e dopo 27 anni di detenzione è ancora dentro nel carcere di Nuoro e rischierà di non uscirne più. Nel corso della sua detenzione ha elaborato una visione critica del passato, ha ripudiato la violenza e ha scelto “l’arma” del Diritto. Infatti si è laureato in giurisprudenza con lode all’Università di Pisa, discutendo la tesi sui diritti fondamentali dei detenuti e sul regime del 41 bis. Ma non solo. Nel 2014, la Scuola forense di Nuoro ha deciso di dargli una mano nel percorso di riscatto e gli ha affidato il ruolo di coordinatore interno e di relatore principe nel corso di formazione giuridica per avvocati. La sua famiglia però vive in Puglia. Il mare complica la possibilità di incontrarla. C’è anche una bella storia d’amore. Lasciò sua moglie quando aveva 21 anni. Ma nel 2016 si sono riabbracciati e si sono risposati proprio il giorno di Natale. Marcello Dell’Anna è un ergastolano ostativo, un sepolto vivo. Ha finito di scontare la pena per il 416 bis, ma gli rimane l’aggravante mafiosa per l’omicidio. Ed è lì che continua ad esserci il 4 bis, quella parte in cui gli vieta le misure alternative non avendo scelto di collaborare. La questione l’ha sollevata anche lui ricorrendo alla Cassazione. Quest’ultima l’ha accolta, ma attenderà di decidere dopo la sentenza della Consulta del 22 ottobre. Sì, perché i casi Cannizzaro e Pavone sono sovrapponibile al suo. Ma in realtà è sovrapponibile a tutti quei “sepolti vivi” che, nonostante il ravvedimento e la mancanza di pericolosità sociale, sono costretti a rimanere il resto dei loro giorni dentro quelle quattro mura. Forse il 22 ottobre, la Corte costituzionale potrebbe decidere di ridare il potere ai magistrati di sorveglianza di poter valutare se concedere o meno quei benefici negati a prescindere. Forse sarà decisivo anche l’aiuto dell’ergastolano Marcello D’Anna.
Ergastolo ostativo, l'Europa dice no. La storia di chi è cambiato. Le Iene il 18 ottobre 2019. Per i giudici della Corte dei diritti dell’uomo il regime carcerario duro per i condannati all’ergastolo non è accettabile. In tanti hanno attaccato la sentenza: Antonino Monteleone ha incontrato Carmelo Musumeci, il primo ad esser stato sottoposto a quel regime carcerario: “Meglio la pena di morte, è più umana”. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso che l’ergastolo ostativo, cioè il regime carcerario durissimo destinato a terroristi e mafiosi, è contro i diritti umani. La politica italiana ha, quasi all’unanimità, condannato la scelta dei giudici di Strasburgo. Ma è possibile per un criminale incallito redimersi? Antonino Monteleone ha incontrato Carmelo Musumeci, criminale siciliano classe 1955, il primo a cui è stato applicato l’ergastolo ostativo: condannato per vari reati tra cui omicidio, la fine della sua pena è prevista il 31 dicembre 9999. Cioè tra 7.980 anni. “Criminali si diventa, non si nasce”, racconta Carmelo. “Mia nonna mi aveva insegnato a rubare, passavo un uomo in divisa e mi diceva "attento, quello è l’uomo nero". Nasco come rapinatore, perché era la cosa più semplice”. Nel 1972 varca per la prima volta la porta del riformatorio per una rapina a mano armata. Entrato in carcere non ancora maggiorenne, qualche anno dopo si ritrova ad avere a che fare con la legge della strada: “Il carcere è una fabbrica di criminalità”, ci dice. Comincia così a rapinare le banche e a fare la bella vita, e a guadagnare molti soldi. Mette su una banda di soldati agguerriti, e in qualche anno diventa il boss della Versilia pronto a scalzare il clan rivale: “È stata una vera e propria guerra che è durata un anno: non si sapeva se si sarebbe tornati vivi. Non ho ordinato degli omicidi, ma ne ho compiuti”. Cosa si prova a uccidere una persona? “Ho sudato freddo, avevo paura perché anche lui era armato”. Carmelo subisce un attentato, gli sparano ma sopravvive. Lui decide di uscire dal giro, ma i suoi amici non vogliono e gli fanno un agguato: sopravvive anche a questo e subito dopo viene arrestato e portato nel super carcere dell’Asinara. “Ho conosciuto i peggiori regimi, ho vissuto il carcere in modo cattivo”, ci dice. La Iena allora gli chiede cosa bisognerebbe fare con una persona che spaccia, ruba e uccide: “Bisogna fermare chi lo fa arrestandolo, ma poi va aiutato a migliorare non a peggiorare”, risponde. Condannato all’ergastolo, mentre è in isolamento decide di studiare e diventa scrittore. Oggi ha una voce su Wikipedia, dove viene descritto come “scrittore e criminale”. Prima scrittore, poi criminale. “Sono entrato in carcere con la quinta elementare, ora ho tre lauree”, racconta con orgoglio. Da quando si è istruito, ha fatto parlare molto di se e in tanti gli hanno offerto sostegno. Dopo 27 anni ha la libertà condizionale, e vive in un convento dove fa volontariato. “Gli studi e le relazioni mi hanno fatto bene”. Però non è fuori dal mondo andare troppo duri con i mafiosi: “Dare l’ergastolo ostativo a 19 anni come può permetterti di cambiare? È meglio la pena di morte dell’ergastolo ostativo, è più umana”. In tanti hanno gridato allo scandalo, sostenendo anche che Falcone e Borsellino siano stati uccisi di nuovo. “Il senso di umanità che avevano, io l’ho visto in pochissimi magistrati”, dice Gioacchino Genchi, il superpoliziotto informatico che ha lavorato con i due giudici. “Ho visto soffrire Borsellino quando si stavano dando degli ergastoli. Falcone si è battuto perché fosse creato un sistema premiale per chi collabora”. “È strano un paese che deve definire ‘ostativo’ un ergastolo. Ergastolo è fine pena mai, almeno per i mafiosi e i terroristi non si concede al giudice di dare permessi e scappatoie che rendono l’ergastolo finto”, dice Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano. “I giudici europei non sanno tutte le conseguenze della cultura mafiosa”, continua Travaglio. Il giornalista fa l’esempio di Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio: lui è all’ergastolo ostativo e non può avere permessi poiché non collabora. Se si lascia al giudice la possibilità di decidere, ci sarebbero tentativi continui di intimidire o corrompere il giudice. Per Travaglio la sentenza della Corte europea è “demenziale”.
Fine umanità mai. Carlo Fusi il 12 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Quando, con sentore di strumentalità, si tirano in ballo persone o fatti del passato per giustificare misure dell’oggi, spesso è perché le motivazioni dell’oggi sono scarse o poco convincenti. E’ la sensazione non l’unica: solo la più benevola – che si ricava dalla lettura delle valutazioni usate da Marco Travaglio per contestare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha invitato l’Italia a ripudiare l’ergastolo ostativo – quello senza alcuna possibilità di benefici – in quanto, appunto, inumano. Travaglio ricorre alla memoria di Falcone e Borsellino per sostenere che loro quella misura, «l’hanno inventata» e dunque chi la critica fa il gioco dei malavitosi, dei mafiosi, dei corrotti. Anzi, dovrebbe avere il coraggio di deturpare il loro ricordo affermando che i due magistrati erano, oltre che inumani, «violatori» della Costituzione. A parte – e questo giornale lo ha scritto più volte – che la verità storica è un’altra e cioè che Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale ( citiamo il nostro Damiano Aliprandi) era incostituzionale, non ha escluso i benefici bensì solo allungato i tempi per ottenerli, il nodo vero non è storico- memorialistico bensì culturale. Quanto il sofisma sia fuorviante è confermato dalla sua stessa essenza: praticamente – e Travaglio infatti lo fa – seguendo quel percorso logico si arriva a sostenere che i giudici europei con i loro verdetti intendono non salvaguardare principi basilari della civiltà e del rispetto della dignità umana bensì surrettiziamente «dare una mano» a mafiosi, malavitosi, corrotti. Di più. Usando lo schema precedente, perfino Papa Francesco quando sostiene che l’ergastolo ostativo è «una morte nascosta» si pone sullo stesso piano dei giudici di Strasburgo. Per Travaglio la Cedu è «demenziale». Verrebbe da usare stesso aggettivo per le sue argomentazioni. Visto che la Costituzione viene tirata in ballo forse è il caso di ricordarla. Laddove agli articoli 13 e 27 prescrive che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà», e che «le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato». Vale per chiunque: perfino per mafiosi, malavitosi e corrotti. Nessuno vuole rimetterli in libertà gratuitamente: sarà il giudice a stabilire il se e il come. Ma negargli la speranza, solo quella, di lasciare un giorno, per alcune ore, il carcere è roba da aguzzini. Dei mille e passa in quelle condizioni, il ravvedimento anche di uno solo rappresenta una vittoria per tutti. Anche per Travaglio.
Brusca richiede i domiciliari: «I pm sono d’accordo con me». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Secondo la Procura nazionale antimafia, dopo ventitré anni di carcere Giovanni Brusca può finire di scontare la pena agli arresti domiciliari. E sulla base di questo parere per la prima volta favorevole il killer di Capaci, l’uomo che ordinò di sequestrare e poi uccidere e sciogliere nell’acido il figlio del pentito Santo Di Matteo, divenuto a sua volta collaboratore di giustizia dopo la cattura nel 1996, prova a ribaltare l’ennesimo rifiuto del tribunale di sorveglianza. S’è rivolto alla Corte di cassazione, e la prima sezione penale si riunirà oggi per decidere sul ricorso presentato dall’avvocato Antonella Cassandro, che con il collega Manfredo Fiormonti assiste l’ex boss mafioso. Il legale contesta che nell’ultimo rifiuto del marzo scorso, il nono dal 2002, il tribunale di sorveglianza di Roma non ha tenuto nella giusta considerazione le valutazioni del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che dopo i precedenti no ha detto sì all’ipotesi che il pentito sia detenuto a casa. Assenso motivato dal fatto che «il contributo offerto da Brusca Giovanni nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». E poi perché «sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca»: le sentenze che hanno riconosciuto «la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore», e «le relazioni e i pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei precedenti permessi». Il mafioso che a Capaci azionò la leva per far esplodere la bomba che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, ha già usufruito di oltre ottanta permessi premio. Ogni volta esce di prigione per vari giorni e resta libero 11 ore al giorno (la sera deve rientrare a casa), solitamente trascorse con il figlio oggi ventottenne. Dando prova della «affidabilità esterna» certificata dagli operatori del carcere romano di Rebibbia, che aggiungono: «L’interessato non si è mai sottratto ai colloqui e partecipa al dialogo con la psicologa, mostrando la volontà di dimostrare il suo cambiamento». Ma il tribunale di sorveglianza ha continuato a negare la detenzione domiciliare. Ritenendo che per un mafioso del suo calibro, dalla «storia criminale unica e senza precedenti», responsabile di «più di cento delitti commessi con le modalità più cruente», che in virtù della collaborazione è stato condannato a 30 anni di prigione anziché all’ergastolo (che sarebbe stato ostativo a benefici o misure alternative), il «ravvedimento» dev’essere qualcosa che va oltre «l’aspetto esteriore della condotta». Non basta comportarsi bene, insomma; ci vuole «un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto»; una sorta di «pentimento civile» che vada oltre le dichiarazioni rilasciate davanti ai magistrati. Anche attraverso un «riscatto morale nei riguardi dei familiari delle vittime» che non sarebbe mai avvenuto. In passato Brusca ha incontrato Rita Borsellino, la sorella di Paolo morta nel 2018, su iniziativa della donna: circostanza che «non dimostra che vi sia stata una richiesta di perdono alla signora né ai discendenti di Paolo Borsellino o ai familiari delle altre vittime dei delitti commessi, e neppure al dottor Pietro Grasso», l’ex magistrato che il pentito voleva far saltare in aria nell’estate del ‘92. La difesa di Brusca ribatte che l’ex boss mafioso ha più volte chiesto pubblicamente perdono alle vittime, e di poter effettuare attività di volontariato durante i permessi in segno di concreto ravvedimento, ma «non gli è stato concesso per motivi di sicurezza». Di qui il ricorso in Cassazione, contestando la pretesa di «un ravvedimento ad personam modellato sulla figura del Brusca». Che in ogni caso, a 62 anni di età, è ormai arrivato in vista del traguardo del fine pena: calcolando i tre mesi sottratti per ogni anno di detenzione scontato, la scadenza dei trent’anni dovrebbe arrivare a novembre 2021.
Grasso: «Brusca non è come Riina, il ravvedimento c’è stato». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo e G. Bianconi. Il no alla richiesta dei legali del pentito: resterà all’interno di Rebibbia Grasso: «Lui non è come Riina. Il ravvedimento c’è stato» di G. Bianconi. «Sì, è vero, anch’io posso ritenermi una vittima di Giovanni Brusca, perché ha progettato un attentato contro di me e voleva rapire mio figlio; ma pure perché tra le centinaia di persone che ha ucciso o di cui ha ordinato la morte c’erano alcuni miei amici. Ma è pure vero che queste cose le sappiamo grazie a lui, alla sua collaborazione e confessione. Le ha dette anche a me, durante decine di interrogatori». Pietro Grasso è stato il giudice a latere del maxi-processo alla mafia, poi procuratore di Palermo e procuratore nazionale antimafia, prima di entrare in politica con il Partito democratico, diventare presidente del Senato e fondare Liberi e uguali. Conosce bene il pentito che chiede di finire di scontare la sua pena in detenzione domiciliare.
Lei è favorevole è contrario a questa concessione?
«La decisione è nelle mani giuste: quelle dei giudici, e non credo che la mia opinione debba in qualche modo condizionare la decisione che dovranno prendere. I giudici devono emettere un provvedimento sul piano tecnico, senza essere influenzati dai sentimenti delle vittime».
Il tribunale di sorveglianza ha già detto no, motivando il rigetto anche con il fatto che Brusca non ha chiesto perdono nemmeno a lei.
«Dopodiché Brusca ha fatto ricorso e ora tocca alla Cassazione: la via giudiziaria è quella corretta. Quando ho avuto a che fare con lui avevo l’obiettivo di cercare la verità. Non mi sono preoccupato di ottenerne le scuse o richieste di perdono, la legge per “ravvedimento” intende altro. Lui ha deciso di collaborare con la giustizia, rompendo ogni legame con Cosa nostra, rendendo dichiarazioni che hanno trovato riscontri e conferme. Il “pentimento sociale” richiesto dai giudici di sorveglianza secondo me è rappresentato anche dalla collaborazione che non s’è interrotta in oltre vent’anni, perché ha aiutato a scoprire la verità su ciò che era avvenuto e impedito ulteriori crimini».
Però Maria Falcone e Tina Montinaro, sorella del magistrato e vedova del caposcorta che saltò in aria con lui a Capaci, sono contrarie a un ulteriore beneficio.
«Condivido il loro dolore e la loro rabbia, ma so anche che i giudici per fare il loro dovere sono tenuti ad applicare le norme prescindendo dai sentimenti delle vittime, per dimostrare che l’ordinamento statale opera secondo giustizia e mai secondo vendetta. Per me è stato giusto che Riina e Provenzano siano rimasti in carcere fino alla loro morte, ma uno come Brusca non si può valutare alla stessa maniera. Ha scontato oltre 23 anni in carcere, e tra due anni la pena sarà esaurita, gode già di permessi che per certi versi gli concedono più spazi di libertà rispetto alla detenzione domiciliare: è la dimostrazione che collaborare paga. I magistrati hanno tutti gli elementi per decidere, e rispetterò qualsiasi decisione».
Anche lei è preoccupato per il rischio che l’ergastolo ostativo, che impedisce la concessioni dei benefici a mafiosi e terroristi non pentiti, venga bocciato senza appello dalla Corte europea dei diritti umani?
«Sì, perché non sono sicuro che a livello europeo, attraverso la sola lettura delle carte, si riesca a percepire fino in fondo la pericolosità e l’incidenza della criminalità organizzata in Italia».
Poi toccherà alla Consulta a decidere, la Costituzione prevede il reinserimento sociale di tutti i detenuti.
«Lo so bene, ma un mafioso non può reinserisi se non rompe le regole dell’organizzazione criminale, e questo si dimostra solo collaborando con lo Stato. Inoltre la norma concede la possibilità di accedere ai benefici anche a chi dimostra di non avere più legami con l’ambiente criminale pur non potendo fornire nuovi elementi ai magistrati».
Ma l’abolizione del divieto non significherebbe scarcerazione automatica, sarebbero sempre i giudici a valutare caso per caso.
«È vero, tuttavia non sempre i tribunali di sorveglianza hanno la possibilità di conoscere a fondo le storie criminali dei singoli soggetti. In ogni caso la strada per uscire dall’ergastolo ostativo c’è già, e ovviamente dipende dallo spessore criminale dei singoli detenuti. Ma vorrei ricordare anche un altro particolare».
Quale?
«L’abolizione dell’ergastolo era uno dei punti del papello di richieste che Riina pretendeva dallo Stato per fermare le stragi. Ce l’ha raccontato proprio Giovanni Brusca».
Dago News l'11 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, il senatore Grasso ex magistrato sostiene a spada tratta l’ergastolo ostativo e nello stesso tempo la scarcerazione di Brusca “perché pentito”. Un pentito sul quale tra l’altro bisognerebbe discutere a livello di attendibilità perché accusò Mannino di essere mafioso. Mannino è stato assolto. La procura di Palermo avrebbe il dovere di procedere contro Brusca per calunnia. Non lo fa perché non vuole in pratica indagare su se stessa. E allora la procura di Caltanissetta dovrebbe indagare su Palermo per abuso di ufficio sotto forma di omissione. Cane non mangia cane e siamo sempre lì. È la giustizia bellezza... Amen. Frank Cimini
La decisione della Cassazione su Brusca, scarcerare l’uomo, non il pentito. Errico Novi l'8 ottobre 2019 su Il Dubbio. La pronuncia sul boss che innescò la strage di Capaci. I difensori del mafioso che ordinò di sciogliere Giuseppe Di Matteo nell’acido avevano dalla loro parte il parere favorevole della Dna. Ma ha pesato la valutazione sulla profondità del ravvedimento. È forse il mafioso colpevole delle più atroci mostruosità. Compiute contro lo Stato come contro altri mafiosi e loro familiari. Con la stessa feroce noncuranza, l’oggi 62enne Giovanni Brusca ha materialmente spinto il bottone che provocò l’esplosione di Capaci, dunque la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, così come ha ordinato di uccidere, per strangolamento, un ragazzino di 14 anni, Giuseppe Di Matteo, colpevole di avere un padre pentito, Santino, e sciolto in un bidone di acido dopo l’esecuzione. Brusca è dunque un simbolo. Più di Totò Riina. Simbolo di una indole criminale estrema. Ecco perché se oggi la prima sezione della Suprema Corte di Cassazione, dopo l’udienza di ieri, decidesse di concedergli i domiciliari, cambierebbe in modo definitivo, irreversibile, l’orientamento della giustizia italiana rispetto alla funzione rieducativa della pena. Se anche nel più crudele dei malavitosi, con un curriculum di omicidi che lui stesso fatica a collocare tra quota 100 e quota 200, si possono scorgere i segni del ravvedimento e del compiuto recupero sociale, sarà assai più difficile mostrare in futuro l’intransigenza cieca e irriducibile esibita finora con mafiosi e con criminali di altra natura. Antonella Cassandro e Manfredo Fiormonti, difensori di Brusca, hanno chiesto alla Suprema corte di riformare l’ordinanza con cui nel marzo scorso il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza di commutazione della pena da detentiva a domiciliare. Non è il primo ricorso, né si è trattato del primo rigetto: anche qui i numeri sono da record, visto che siamo a quota 9. Stavolta però è diverso. Perché a marzo per la prima volta dal 2002, la Procura nazionale antimafia, chiamata a esprimere il proprio parere sulla compatibilità del beneficio penitenziario con il percorso del detenuto, ha espresso valutazione favorevole. Secondo l’ufficio diretto da Federico Cafiero de Raho, infatti, Brusca può dirsi «ravveduto». E appunto, gli avvocati Cassandro e Fiormonti sono certi che il giudice di sorveglianza, nel respingere l’istanza di 7 mesi fa, non abbia tenuto nella giusta considerazione il giudizio della Dna. La Procura antimafia ha dichiarato che «il contributo offerto da Brusca nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». In realtà non sempre le verità offerte dal superboss sono state suffragate dai riscontri processuali. Non nel processo a Calogero Mannino, per esempio. Negli anni lo stesso Brusca ha ammesso che alcune sue ricostruzioni sono state poco altro che una riproposizione di fatti ascoltati, da detenuto, in televisione. Ma visto che in altri casi le sue parole hanno trovato corrispondenza nelle verità processuali delle sentenze, la Dna ritiene sussista anche un’implicita prova del suo ravvedimento umano: «Sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca», desumibili appunto sia dalle sentenze che hanno riconosciuto «la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore», sia da «relazioni e pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei precedenti permessi». Giovanni Brusca non è un ergastolano. I suoi delitti, che appunto si contano oltre il centinaio solo per stare agli omicidi, non hanno dato luogo a un fine pena mai proprio in virtù della «collaborazione». È stato condannato a 30 anni. Ne ha già trascorsi 23 in carcere ( ora è a Rebibbia, è recluso dal 1996). Nel novembre 2021, tra poco più di 2 anni, sarebbe comunque a fine pena, dunque libero. Un aspetto non irrilevante. Eppure non è la materia in base alla quale la Cassazione scioglierà il rebus. Innanzitutto valuterà se il giudice di sorveglianza è stato coerente nel ritenere insufficienti le risultanze trattamentali — costruite sì sulla base anche dell’attendibilità della collaborazione, ma prima ancora sulla sua condotta di detenuto —. Se cioè il diniego del Tribunale sia stato costruito in modo solido, se il giudice è stato lineare nel rigettare l’istanza in virtù del principio secondo cui «per un mafioso del suo calibro, dalla storia criminale unica e senza precedenti, il ravvedimento dev’essere qualcosa che va oltre l’aspetto esteriore della condotta» e visto che tale ravvedimento non può, a parere del giudice, essersi verificato così in profondità. Ma proprio la necessità di considerare l’avvenuto recupero umano di Brusca, e non solo la sua funzionalità di pentito, dimostrerà come già prima che si pronunciasse la Corte europea dei Diritti dell’uomo, la valutazione sulla crescita del detenuto non poteva dipendere solo dalle sue dichiarazioni. E indirettamente emergerà, dunque, quanto fosse sbagliato subordinare la legittimità dell’ergastolo ostativo alla collaborazione. Persino nel caso del ferocissimo Brusca, l’eventuale ritrovata umanità deve per forza precedere l’aiuto offerto ai pubblici ministeri. Inevitabilmente la Cassazione non potrà tenere conto del no ribadito ieri, sui domiciliari a Brusca, da Maria Falcone, sorella di Giovanni e presidente della Fondazione a lui intitolata; e neppure del «dolore a vita» con cui ha motivato il suo dissenso Tina Montinaro, vedova dell’agente Antonio, morto anche lui a Capaci. Ma le loro legittime opinioni ribadiscono che non può esserci scambio tra Stato e pentiti, e che se al collaboratore Brusca può essere concessa la scarcerazione deve essere perché si è convinti che la sua ferocia si è placata davvero.
No ai domiciliari per Giovanni Brusca, la Cassazione respinge il ricorso. Il Dubbio l8 ottobre 2019. Il verdetto nella tarda serata di ieri respinge il ricorso presentato dai legali dell’ex boss mafioso. Per la Corte non ci sono le condizioni per i domiciliari. Maria Falcone e Piero Grasso su barricate opposte. La Cassazione ha deciso niente arresti domiciliari per Giovanni Brusca. Il killer della strage di Capaci dunque resta in carcere. Stamani la prima sezione penale ha infatti respinto il ricorso presentato dai legali del mafioso divenuto poi collaboratore degli inquirenti. Sulla vicenda si era registrata una diversità di vedute tra la Procura Nazionale Antimafia secondo cui il boss si era ravveduto e lo stesso Procuratore generale della Cassazione fortemente contrario ad un’uscita dal carcere. Brusca ha già scontato 23 anni, oltre all’uccisione di Falcone di lui si ricorda anche il terribile episodio nel quale ordinò di sequestrare e poi uccidere il figlio del pentito Santo Di Matteo. Il commento di Maria Falcone, sorella del magistrato vittima della mafia, è stato duro: «Se si accetta che per un fine superiore vengano concessi benefici ai criminali che collaborano con lo Stato, resta però inaccettabile la concessione di sconti ulteriori a chi si è macchiato di delitti tanto efferati». Di parere opposto l’ex procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso: «Anch’io posso ritenermi una vittima di Giovanni Brusca, perché ha progettato un attentato contro di me e voleva rapire mio figlio; ma pure perché tra le centinaia di persone che ha ucciso o di cui ha ordinato la morte c’erano alcuni miei amici. E’ pure vero che queste cose le sappiamo grazie a lui, alla sua collaborazione e confessione. Lui ha deciso di collaborare con la giustizia, rompendo ogni legame con Cosa nostra, rendendo dichiarazioni che hanno trovato riscontri e conferme».
Brusca resta in carcere: la Cassazione ha respinto la richiesta dei domiciliari. Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. Il no alla richiesta dei legali del pentito: resterà all’interno di Rebibbia Grasso: «Lui non è come Riina. Il ravvedimento c’è stato» di G. Bianconi. Giovanni Brusca non andrà agli arresti domiciliari. Lo ha deciso la prima sezione della Corte di Cassazione che ha respinto la richiesta dei difensori del boss degli arresti domiciliari. I giudici hanno accolto la tesi della procura generale: «Non è ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento». Così l’uomo che azionò la bomba per Giovanni Falcone e che per ritorsione contro il pentimento di Santino Di Matteo fece rapire, strangolare e sciogliere nell’acido il figlio Giuseppe per il Pg resterà in cella. Anche se è diventato un collaboratore di giustizia. E anche se a favore dei domiciliari si era pronunciato il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho facendo levare alta la protesta dei familiari delle vittime contro la tesi, sostenuta dagli operatori penitenziari, che il boss abbia dato prova di ravvedimento e di «affidabilità esterna». Tesi quest’ultima suffragata dal fatto che Brusca ha già ottenuto 80 permessi premio ed è sempre tornato in cella. «Mio padre non sarebbe d’accordo con questo regalo. Ha ucciso più di 140 persone», aveva ricordato Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Falcone alla notizia della richiesta dei domiciliari. E sul superprocuratore aveva attaccato: «Dà l’ok ai domiciliari per Brusca? È indegno della sua carica». Sua madre, Tina, aveva confessato: «Mi sento presa in giro. Non conta il nostro dolore?». La sorella di Falcone, Maria, aveva avvertito: «Brusca è ambiguo e spietato, merita solo il carcere». «Non ci ha mai chiesto scusa», aveva denunciato Nicola Di Matteo, fratello del bimbo ammazzato...«Uccidete il canuzzo», aveva ordinato Brusca, detto «scannacristiani», quell’11 gennaio del ‘96, dopo aver saputo della sua condanna. Il piccolo venne messo faccia al muro. Il mafioso Chiodo gli mise una corda al collo e tirò e poi raccontò:«Non ha capito niente. Dopo averlo spogliato ho preso il bambino per i piedi, Monticciolo e Brusca per le braccia e l’abbiamo messo nell’acido. Poi siamo andati tutti a dormire». Cafiero De Raho si difende: la sua non era solo una valutazione discrezionale, ma in linea con il Codice e la Costituzione: «A seguito del contributo che ha dato e il ravvedimento evidenziato — spiega —, le condanne si sono mantenute sotto il tetto dei 30 anni, e con le riduzioni che ogni anno ci sono finirà di scontare la pena nel novembre 2021».
Mafia, Giovanni Brusca resta in carcere. La Cassazione boccia la richiesta dei domiciliari. La Procura Nazionale Antimafia aveva invece dato parere favorevole: "Si è ravveduto". La reazione di Maria Falcone: "Inaccettabile la concessione di sconti ulteriori a chi si è macchiato di delitti tanto efferati. Grasso: "Ha rotto i legami con Cosa nostra e aiutato a scoprire la verità". La Repubblica l'08 ottobre 2019. Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci resta in carcere. La prima sezione penale della Cassazione, al termine della camera di consiglio di oggi, ha rigettato il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa Nostra, che chiedeva la detenzione domiciliare. La Procura Nazionale Antimafia aveva detto sì: “E’ ravveduto”, mentre la Procura generale della Cassazione aveva ribattuto che no, doveva restare in cella. Il verdetto è arrivato a tarda sera. Brusca, che ordinò anche di sequestrare e poi uccidere e sciogliere nell'acido il figlio del pentito Santo Di Matteo, ha già scontato ventitré anni di carcere. Come si diceva, per la Procura Nazionale Antimafia Brusca, si è ravveduto. Forte di questo risultato Brusca ieri rincarava: “I pm sono d’accordo con me”. Dopo ventitré anni di carcere sperava di finire di scontare la pena agli arresti domiciliari. La prima sezione penale della Corte di cassazione, si è riunita à per decidere sul ricorso degli avvocati del boss, Antonella Cassandro e Manfredo Fiormonti. Il legale contesta che nell’ultimo rifiuto del marzo scorso, il nono dal 2002, il tribunale di sorveglianza di Roma non ha tenuto nella giusta considerazione le valutazioni del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che dopo i precedenti no ha detto sì all’ipotesi che il pentito sia detenuto a casa. Brusca è in carcere a Rebibbia. Duro il commento di Maria Falcone, sorella del giudice ucciso con la moglie e la scorta nell'attentato di Capaci: "Resta un personaggio ambiguo, non merita altri benefici. Ricordo ancora che proprio grazie alla collaborazione con la giustizia ha potuto beneficiare di premialità importanti: oltre a evitare l'ergastolo per le decine di omicidi che ha commesso - tra questi cito solo quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell'acido a 15 anni- ha usufruito di 80 permessi". "Con la sua decisione la Cassazione ha dato una risposta alla richiesta di giustizia dei tanti cittadini che continuano a vedere nella mafia uno dei peggiori nemici del nostro Paese", prosegue Maria Falcone. "Se si accetta che per un fine superiore vengano concessi benefici ai criminali che collaborano con lo Stato, resta però inaccettabile la concessione di sconti ulteriori a chi si è macchiato di delitti tanto efferati", conclude. Diversa la posiione dell'ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: "Anch'io posso ritenermi una vittima di Giovanni Brusca, perché ha progettato un attentato contro di me e voleva rapire mio figlio; ma pure perché tra le centinaia di persone che ha ucciso o di cui ha ordinato la morte c'erano alcuni miei amici. E' pure vero che queste cose le sappiamo grazie a lui, alla sua collaborazione e confessione. Lui ha deciso di collaborare con la giustizia, rompendo ogni legame con Cosa nostra, rendendo dichiarazioni che hanno trovato riscontri e conferme". Il "pentimento sociale" richiesto dai giudici di sorveglianza secondo Grasso "è rappresentato anche dalla collaborazione che non s'è interrotta in oltre vent'anni, perché ha aiutato a scoprire la verità su ciò che era avvenuto e impedito ulteriori crimini".
Fiammetta Borsellino: «Mio padre e Falcone non avrebbero liquidato l’ergastolo ostativo in modo così semplicistico». Il Dubbio il 30 Ottobre 2019. L’intervento al festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. «Penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. «È stata la cultura dell’emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, che ha dato luogo al grande inganno di via d’Amelio, una storia di menzogne che hanno dato luogo a innocenti condannati all’ergastolo tramite falsi pentiti costruiti a tavolino tramite torture e processi caratterizzati da gravissime anomalie». È Fiammetta Borsellino, figlia più piccola dell’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio, a parlare durante il secondo incontro intitolato “Paure e gabbie. Perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, nell’ambito del Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere a Milano. Una vera e propria spina nel fianco del coro granitico di una certa antimafia, la figlia di Borsellino, la quale – come ha detto Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nel presentarla – «è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine». Si è affrontata la questione scottante dell’ergastolo ostativo e della recente senza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4 bis che subordina la concessione o meno del permesso premio alla collaborazione. «Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo, perché loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo», ha risposto Fiammetta. «Sicuramente io non sono una esperta in questo settore – ha continuato la figlia di Borsellino -, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni». Fiammetta Borsellino ha sottolineato che si tratta di «un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni come ‘ la mafia ha perso’ o ‘ la mafia ha vinto’ o anche ‘ la mia antimafia è migliore della tua’, perché fanno male. Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quelle giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre». Parole lucide, di alto spessore e soprattutto umane che ha creato commozione tra i presenti, soprattutto i detenuti come Pasquale Zagari e l’ergastolano Roberto Cannavò con dietro una storia di mafia, di morte e poi di rinascita. Ornella Favero ha poi chiesto a Fiammetta se è vero che la sentenza della Consulta abbia ucciso una seconda volta il padre. «A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Csm si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto», ha risposto Fiammetta Borsellino. Ma, alla sollecitazione posta dal professore Davide Galliani, ha anche aggiunto che parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissutiGiù le mani da Falcone, non voleva escludere per sempre dai benefici i condannati all’ergastolo ostativo. Damiano Aliprandi l'8 Ottobre 2019, su Il Dubbio. La sentenza della Cedu sul caso Viola fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale. In un recente convegno, organizzato dall’Osservatorio carcere delle Camere penali italiane e da Magistratura democratica, I giuristi hanno concordato che la decisione della Corte europea rimette al centro il concetto di “speranza”. La sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Non distrugge ciò che avrebbe voluto Falcone. Anzi fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato. No, la sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi dal carcere. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Ma, soprattutto, non distrugge ciò che avrebbe voluto Giovanni Falcone. Anzi, al contrario, fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato dal tritolo in via Capaci.
L’ORIGINE DEL 4 BIS NEL RISPETTO DELLA COSTITUZIONE. Ma andiamo con ordine. La Cedu, il 13 giugno scorso, si era espressa sul ricorso dell’ergastolano Marcello Viola e assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo. Tutto ruota su quella parte del 4 bis che nega, a priori, qualsiasi concezione dei benefici se c’è assenza di collaborazione. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Ciò si avvicina di molto a ciò che aveva voluto Giovanni Falcone quando, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis. Perché? Basterebbe leggere un capitolo del recente libro – con la prefazione di Mauro Palma – dal titolo “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”. Un libro pensato da autorevoli giuristi come Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Davide Galliani, Paulo Pinto de Albuquerque e Andrea Puggiotto. Giovanni Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone, contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ecco perché la sentenza Viola, se applicata, si avvicina al decreto Falcone originale: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Poi accadde che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, il quale introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario. Con il nuovo decreto legge, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone aveva invece salvaguardato. Usare quindi il suo nome per opporsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo è, di fatto, una operazione irrispettosa per chi, pur combattendo duramente la mafia, aveva a cuore la nostra costituzione.
COLLABORAZIONE E PERICOLOSITÀ SOCIALE. Numerosi esponenti di primo piano dell’attuale governo, Commissione antimafia compresa, hanno sollevato numerose polemiche su tale sentenza, soprattutto puntando sul fatto che se dovesse essere modificato il 4 bis, si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi i permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. Ma la collaborazione è un elemento indissolubile per la lotta alla mafia? L’istituto dei collaboratori di giustizia è uno dei principali strumenti utilizzati negli ultimi venti anni nella lotta contro la criminalità organizzata. Lo stesso Giovanni Falcone, però, uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori, valutava la dichiarazione dei pentiti con grande prudenza. Fu uno dei motivi per il quale venne aspramente criticato. Ma, ritornando alla sentenza Viola, gli stessi giudici della Corte europea hanno evidenziato che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Qui la differenza tra dissociazione e collaborazione. Anche il magistrato Nino Di Matteo ha criticato aspramente la sentenza Viola. A rispondergli però, è Sergio D’Elia dell’associazione del Partito Radicale Nessuno tocchi Caino. «Tale posizione – sottolinea D’Elia – è un atto di sfiducia nei confronti dei giudici delle alte giurisdizioni chiamati a valutare la compatibilità della legge nazionale con i principi fondamentali della carta costituzionale italiana ed europea. Ma è un atto di sfiducia anche nei confronti dei magistrati ordinari, a partire da quelli di sorveglianza, che continuano a mantenere il potere di concedere benefici o misure alternative agli ergastolani». E aggiunge: «E’ un atto di sfiducia anche nei confronti di se stesso, poiché la magistratura di sorveglianza deciderà sulla base delle informative delle varie Direzioni Distrettuali e Nazionale Antimafia, di cui lui stesso fa parte. Quindi, dopo la fine dell’ergastolo ostativo, capimafia o picciotti potranno uscire dal carcere solo se e quando pm e giudici lo vorranno. A ben vedere, con la sentenza Viola vs Italia, saranno liberi, più che gli ergastolani, i magistrati che oggi hanno le mani legate dal vincolo della collaborazione previsto dal 4 bis». Tali concetti sono stati ribaditi anche durante il convegno organizzato dall’osservatorio carcere delle Camere penali italiane e e da Magistratura democratica che ha visto, tra gli altri, la partecipazione del responsabile dell’osservatorio carceri Gianpaolo Catanzariti, il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini del Partito Radicale, il presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito e il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Tutti concordi nel dire che la sentenza Viola rimette al centro il concetto di “speranza”.
ASPETTANDO LA CONSULTA IL 22 OTTOBRE. E a proposito di speranza, il 22 ottobre la Corte costituzionale dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis. Parliamo del caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Le polemiche sono montate soprattutto per questo: il “timore” che la Consulta possa aprire le porte del carcere ai boss mafiosi. A rispondere è l’avvocato del foro di Roma Valerio Vianello Accorretti che assiste Cannizzaro. «È un errore macroscopico sostenere questo timore- osserva l’avvocato a Il Dubbio -. Si eliminerebbe solo l’obbligo di collaborare sugli episodi per cui si è stati condannati, ma resterebbe la necessità di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo in carcere, nonché l’ulteriore esigenza di escludere l’attualità di collegamenti con le realtà criminose di originaria appartenenza. Presupposti il cui rispetto sarà sempre sottoposto al controllo di un magistrato di Sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere alcun beneficio penitenziario». Questi sono i fatti, il resto sono fin troppe inesattezze nei confronti dell’opinione pubblica che non fanno altro che alimentare l’ignoranza del diritto e l’indifferenza verso i diritti.
«L’ergastolo ostativo nega il “diritto alla speranza”». Interrogazione della parlamentare europea della Sinistra Eleonora Forenza. In Italia, al 31 dicembre 2017, gli ergastolani erano 1.735 e dal 2010, sono circa il 4% della popolazione penitenziaria, scrive Damiano Aliprandi il 19 Aprile 2019 su Il Dubbio. È legittimo l’ergastolo ostativo? L’ ultima interrogazione parlamentare alla commissione europea riguarda proprio il tema carcerario, e sullo specifico la cosiddetta pena perpetua che, di fatto, esiste nel nostro Paese. A farla è la parlamentare europea Eleonora Forenza del gruppo Sinistra unitaria europea (Gue/ Ngl). «Il cosiddetto “ergastolo ostativo” – si legge nell’interrogazione di Forenza – è una pena perpetua che esclude il condannato non collaborante con la giustizia da qualsiasi possibilità di rientro nella società libera». Ricorda che i condannati all’ergastolo in Italia al 31/ 12/ 2017 erano 1.735 e che dal 2010, gli ergastolani sono circa il 4% della popolazione penitenziaria, «una quota nettamente superiore alla mediana europea ( 1,8%)», sottolinea sempre la parlamentare europea e aggiunge che «l’ergastolo ostativo interessa oltre il 70% dei condannati alla pena perpetua». Eleonora Forenza, sempre nell’interrogazione, spiega che «l’ergastolo ostativo è motivato dalla presunzione di pericolosità del condannato, riconducibile all’assenza di progressi verso la rieducazione, che darebbero accesso ai benefici penitenziari ovvero alla liberazione condizionale». Sottolinea, quindi, come «questo assetto si pone in forte tensione con il principio costituzionale italiano, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato». Nell’interrogazione, l’europarlamentare, spiega che nel trattato sul funzionamento dell’unione europea esistono ulteriori tensioni esistono con gli art. 1 e 4 «che tutelano la dignità dell’uomo e il divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti» e c’è anche un «evidente l’attrito anche con l’art. 3 della Cedu, che sostiene l’idea di “pena perpetua riducibile”». Conclude quindi con due domande ben precise rivolte alla Commissione: la situazione illustrata non è in tensione con la decisione quadro 2008/ 909/ GAI e con la disciplina degli strumenti di mutuo riconoscimento? Cosa intende fare la Commissione europea per indurre l’Italia a correggere l’ordinamento? Forenza racconta, con un lungo comunicato, come in questi anni di mandato, assieme all’Associazione Yairaiha Onlus, hanno «ispezionato la quasi totalità delle sezioni di Alta Sicurezza 1, raccogliendo testimonianze e documentazione in merito all’impossibilità di accedere ai benefici o ad una revisione della pena nonostante la Corte europea, con la sentenza Vinter, obblighi gli Stati membri al rispetto dell’art. 3 che prevede la possibilità di riesame delle pene perpetue, sancendo così il “diritto alla speranza”». Ma ricorda di come siamo «nell’Italia della guerra agli ultimi, del giustizialismo, della vendetta, delle pene esemplari, del securitarismo elevato a sistema che da oltre un quarto di secolo crea crimini, criminali e capri espiatori per nascondere tutto il marcio prodotto dal capitalismo e dal liberismo sfrenato che, particolarmente in Italia, si è tradotto in privatizzazione selvaggia dei servizi e saccheggio delle risorse umane ed ambientali». Eleonora Forenza non ci sta con la condanna eterna, per questo conclude che vuole «continuare a credere che nessuno è perduto per sempre, ognuno ha diritto ad un’altra possibilità. Ognuno ha il diritto di sperare».
Della serie: garantisti per se, forcaioli per gli altri. Via l'ergastolo a vita. La Corte di Strasburgo condanna l'Italia: inumano il carcere per sempre Così rischiano di tornare a piede libero boss mafiosi e pluriomicidi. Alessandro Sallusti, Venerdì 14/06/2019, su Il Giornale. L'ergastolo è la pena detentiva perpetua per chi si macchia di reati particolarmente gravi. Ma il «fine pena mai», come si dice in gergo, è cosa teorica pure per assassini e stragisti, che dopo aver scontato 26 anni di carcere accedono a permessi e libertà condizionata. Tranne nel caso dei killer di mafia che si rifiutano di collaborare con la giustizia. Per costoro - colpevoli dei reati mafiosi previsti dall'articolo del codice penale 416 bis -, scatta invece l'ergastolo ostativo, che prevede il carcere duro (il «41 bis») e nessuno sconto. Ieri la Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato illegale questo tipo di trattamento e ordinato all'Italia di abolirlo. Per boss e pluriassassini si apriranno quindi un giorno le porte della prigione. In linea di principio il «fine pena mai» abbinato al carcere duro non è un limpido esempio di civiltà giuridica. Ma come tutti i nobili principi, vale in tempo di pace. E i giudici europei avrebbero dovuto sapere che l'Italia non è in pace, ma è alle prese da un secolo con una sanguinosa guerra, quella dichiarata dalle mafie allo Stato e ai cittadini. Sospendere alcune garanzie civili, cioè introdurre nel nostro ordinamento il 41 bis, è stata una delle armi più efficaci se non l'unica, al netto dell'eroismo degli investigatori per arginare il nemico, i cui capi fino ad allora riuscivano a comandare il loro esercito anche da dietro le sbarre, rispettati, venerati e temuti per via della certezza che un giorno o l'altro sarebbero tornati a casa con la possibilità di regolare i conti con chi avesse sgarrato. I giudici europei non sanno poi che un mafioso, un vero mafioso, non concepisce la clemenza come contratto di pace. E neppure, salvo rarissimi casi, la riabilitazione come possibilità di riscatto. Il mafioso resterà sempre mafioso, nemico dello Stato e del vivere civile, perché il suo è un patto di sangue irrinunciabile con il male. Prova ne è che - se si trova in una situazione di «fine pena mai» - è perché ha liberamente scelto di non pentirsi e di non collaborare con la giustizia. Che significa: meglio morire in carcere che abiurare la mafia. Noi siamo per l'Europa dei popoli, non per l'Europa delle mafie. Il «fine pena mai» tolto ai mafiosi incalliti è un «fine pena mai» appioppato a tutti gli italiani, un oltraggio alle vittime di mafia civili e militari, una zeppa nel lavoro degli inquirenti. E anche una frattura tra noi, convinti europeisti, e queste istituzioni lontane che fanno accademia su un cancro che sta divorando l'Italia.
"Il perdono è cristiano ma non il perdonismo. Logico il fine pena mai". Il giurista: "La sentenza europea? Plausibile l'ergastolo ostativo se non c'è il pentimento". Stefano Zurlo, Sabato 15/06/2019, su Il Giornale. Il cristianesimo è la speranza che irrompe nel mondo. Ma la speranza non è un sentimento zuccheroso e appiccicoso con cui spedire fuori dal carcere mafiosi incalliti. L'ergastolo ostativo. Quello dei mafiosi che non hanno tradito i loro padrini. È il tema che ha rilanciato ieri nel suo editoriale il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, dopo la sentenza della Corte di Strasburgo che contesta questa forma di detenzione durissima. Senza benefici e senza spiragli: in galera fino alla morte. È la questione spinosa su cui riflette Salvatore Amato, cattolico, ordinario di filosofia del diritto a Catania.
Professor Amato, la Corte di Strasburgo dà un colpo di piccone al fine pena mai. Sacrosanto?
«Un attimo. Siamo davanti a un problema delicatissimo, in cui contano molto le sfumature, i dettagli, insomma i casi concreti in carne e ossa».
Parliamo in sostanza di mafiosi e terroristi che non hanno tagliato i ponti con il loro passato. È giusto negare loro benefici e uno spiraglio di luce?
«Il diritto alla speranza è molto importante. Ed è ancora più importante, come sottolinea Strasburgo, che non sia negato a priori. Con una specie di riflesso pavloviano, no in automatico».
Ma se non si recidono quei legami tossici?
«Eccoci al secondo lato del nostro ragionamento. Io credo che la Corte abbia solo evidenziato questo aspetto su cui, fra l'altro, in molti paesi europei che non hanno avuto la nostra storia sanguinaria, c'è una sensibilità diversa: no all'ergastolo ostativo a scatola chiusa, sì a una valutazione che tenga presente la complessità di una vita umana».
Dunque, si può arrivare a un sì ma anche a un no alla scarcerazione?
«Certo. Il ravvedimento non può essere solo un fatto personale, quasi privato, intimo. Se hai ucciso, se hai fatto del male, io mi aspetto che tu mandi dei segnali contrari, se hai tolto la speranza io mi attendo che tu riporti un po' di speranza con i tuoi gesti, con i tuoi atti, con le tue parole».
Il perdono?
«Alt, il perdono non è mai perdonismo. Il cristianesimo non è mai sentimentalismo, il cristiano abbraccia l'altro dentro un giudizio. E il giudizio può anche essere negativo: sarai pure diverso da prima, ma non si vede. E questo può essere declinato in molti modi».
Ad esempio?
«Può essere che il soggetto in questione non abbia spezzato quei vincoli per interesse: perché magari i clan aiutano economicamente la sua famiglia. Se è cosi, anche l'eventuale buona condotta conta poco o nulla. La verità è un'altra: la rete del malaffare domina ancora, la liberazione sarebbe una resa dello Stato. Allo stesso modo se io non collaboro e il mio silenzio permette ad un sicario nell'ombra di continuare ad uccidere allora mi assumo responsabilità gravissime».
Ma se il rifiuto di collaborare nasce dalla paura di ritorsioni, come nota Strasburgo?
«Entriamo in vicende molto articolate e difficilmente comprensibili dall'esterno. Ma in linea generale possiamo dire che al coraggio della denuncia dovrebbe corrispondere la capacità dello Stato di tutelare i familiari. Non si può pretendere che un delinquente si trasformi addirittura in un eroe».
E adesso che succederà dopo questo verdetto?
«L'Italia pagherà un indennizzo poco più che simbolico all'ergastolano i cui diritti sono stati violati, ma non è obbligata a cambiare la norma. Roma farà le sue considerazioni e poi deciderà».
Corte Strasburgo: «L’Italia riveda la legge sull’ergastolo, no a trattamenti inumani». Pubblicato giovedì, 13 giugno 2019 da Corriere.it. L'Italia deve rivedere la legge che regola il carcere a vita, perché viola il diritto del condannato a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Così la Corte europea dei diritti umani in una sentenza che in assenza di ricorsi sarà definitiva tra tre mesi. La decisione riguarda il caso di Marcello Viola, condannato per associazione mafiosa, omicidi e rapimenti, in prigione da inizio anni Novanta. La sentenza non implica la liberazione di Viola a cui l'Italia deve versare 6mila euro per i costi legali. La decisione sull'Italia della Corte di Strasburgo si basa sul fatto che chi è condannato al carcere a vita (ergastolo ostativo) non può ottenere, come gli altri carcerati, alcun “beneficio” - come per esempio i permessi d'uscita, o la riduzione della pena - a meno che non collabori con la giustizia. Nella sentenza i giudici di Strasburgo evidenziano che «la mancanza di collaborazione è equiparata ad una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società» e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all'ergastolo ostativo. La Corte osserva che se «la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all'ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici», questa «strada» è però troppo stretta. Nella sentenza si osserva che la scelta di collaborare non è sempre «libera», per esempio perché alcuni condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari, e che «non si può presumere che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere». Strasburgo non nega la gravità dei reati commessi da Marcello Viola, ma critica che l'uomo, non avendo collaborato con la giustizia, si sia visto rifiutare le richieste di uscita dal carcere, nonostante i rapporti indicassero la sua buona condotta ed un cambiamento positivo della sua personalità. Nella sentenza si afferma che privare un condannato di qualsiasi possibilità di riabilitazione e quindi della speranza di poter un giorno uscire dal carcere viola il principio base su cui si fonda la convenzione europea dei diritti umani, il rispetto della dignità umana. «Alla Corte di Strasburgo pendono già numerosi altri ricorsi» contro il carcere a vita (ergastolo ostativo) e dopo la condanna di oggi «potrebbero arrivarne molti altri», scrivono i giudici di Strasburgo nella sentenza . Il problema messo in luce oggi, per i magistrati, «è di natura strutturale» e richiede quindi, per essere risolto, un intervento, di preferenza legislativo, delle autorità. L'Italia dovrebbe quindi agire «con una riforma della reclusione a perpetuità in modo da garantire la possibilità agli ergastolani di ottenere un riesame della pena». Questo, scrivono, «permetterebbe alle autorità di determinare se durante la pena già scontata il detenuto ha fatto progressi tali sul cammino della riabilitazione da renderne ingiustificabile il mantenimento in prigione». Per l'associazione "Nessuno tocchi Caino" si tratta di un «pronunciamento storico» «Secondo la Corte - spiega una nota -, l'ergastolo ostativo è una forma di punizione perpetua incomprimibile. Con questa sentenza la CEDU svuota l'art 4 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia. La CEDU fa cadere la collaborazione con la giustizia ex art 58 ter o.p, come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo un problema strutturale dell'ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia». «Il successo alla Corte EDU è il preludio di quel che deve succedere alla Corte Costituzionale italiana che il 22 ottobre discuterà l'ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente - spiega il segretario Sergio d'Elia -. Il pensiero non può non andare che a Marco Pannella, al suo Spes contra Spem che ci ha animati e nutriti in questi anni, e ai detenuti di Opera protagonisti del docu-film di Ambrogio Crespi "Spes contra Spem - Liberi dentro" che contro ogni speranza sono stati speranza, con ciò liberando oltre che se stessi anche le menti dei giudici di Strasburgo.
La Corte di Strasburgo boccia l'ergastolo ostativo. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo stabiliscono che l’ergastolo ostativo italiano è una “punizione inumana”. Maurizio Tortorella il 13 giugno 2019 su Panorama. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto oggi all’Italia di rivedere le sue norme in materia di ergastolo ostativo. La Corte ha infatti affermato che l’ergastolo ostativo è contrario all’art 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. In assenza di ricorsi, la sentenza diverrà definitiva in tre mesi. Per ergastolo ostativo s’intende la pena che prevede la reclusione a vita: il cosiddetto “fine pena mai”. In base alla legge italiana, anche chi viene condannato all’ergastolo ha diritto ad alcuni benefici (come la semilibertà) e può usufruire di permessi-premio; dopo 26 anni di carcere, inoltre, al condannato all’ergastolo può essere concessa la libertà condizionale se, durante la detenzione, ha tenuto una buona condotta e un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. L’ergastolo ostativo è l’eccezione alla regola, in quanto non permette di concedere al condannato alcun tipo di beneficio o di premio. Per questo l’ergastolo ostativo viene inflitto a soggetti altamente pericolosi che hanno commesso determinati delitti: per esempio il sequestro di persona a scopo di estorsione oppure l’associazione di tipo mafioso. Per loro esiste soltanto il “fine pena mai”: tra gli ultimi casi si ricorda quello del boss mafioso Bernardo Provenzano, morto in carcere nel luglio 2016 dopo lunghissima malattia. La decisione di Strasburgo riguarda in particolare il caso di Marcello Viola, un condannato per associazione mafiosa, per omicidi e per rapimenti, che era stato condannato all’ergastolo ostativo all’inizio degli anni Novanta, al quale ora il governo italiano deve versare 6mila euro per i costi legali. Nella sentenza i giudici di Strasburgo evidenziano che “la mancanza di collaborazione è equiparata a una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società” e questo principio fa si che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all'ergastolo ostativo. La Corte osserva che se “la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all'ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici”, questa “strada” è però troppo stretta. Nella sentenza si osserva che la scelta di collaborare non è sempre “libera”, perché per esempio certi condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari. I giudici di Strasburgo scrivono anche che “non si può presumere che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”. La Corte non nega la gravità dei reati commessi da Marcello Viola, ma critica il fatto che l'uomo, soltanto perché non ha collaborato con la giustizia, si sia visto rifiutare le richieste di uscita dal carcere, nonostante molti rapporti indicassero la sua buona condotta e un cambiamento positivo della sua personalità. Nella sentenza si afferma che privare un condannato di qualsiasi possibilità di riabilitazione e quindi della speranza di poter un giorno uscire dal carcere viola il principio base su cui si fonda la convenzione europea dei diritti umani, il rispetto della dignità umana. Come tutte le sentenze della Corte europea, anche questa farà giurisprudenza e avrà effetti più ampi: potrà essere applicata nei confronti di chiunque si trovi a scontare una pena di quel genere. L’ergastolo nell’ordinamento italiano è regolato dall’articolo 17 e seguenti del Codice penale. L’articolo 22 dice che “la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”. L’associazione Nessuno tocchi Caino, da anni impegnata con il Partito radicale per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, sostiene che la sentenza della Corte europea è “un pronunciamento storico”. Con questa sentenza la Corte di Strasburgo di fatto “svuota” l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia. La Corte fa cadere la collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo un problema strutturale dell’ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia. Per Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, “Il successo a Strasburgo è il preludio di quel che deve succedere alla Corte costituzionale italiana, che il 22 ottobre discuterà sulla costituzionalità dell'ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente. Il pensiero non può che andare a Marco Pannella”.
La Corte europea boccia l’ergastolo ostativo. La legge italiana viola i diritti umani. La sentenza potrebbe avere effetti sui ricorsi dei “fratelli minori” che si trovano nella stessa situazione del caso esaminato. Il 22 ottobre la Consulta dovrà decidere sulla illegittimità del 4 bis. Damiano Aliprandi il 14 gennaio 2019 su Il Dubbio. L’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione europea che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti, configurando un ergastolo incomprimibile. Così ha deciso ieri la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul ricorso dell’ergastolano Marcello Viola e assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo. La pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Marcello Viola, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine alla pena perpetua che è, appunto, l’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato istanze di concessione del permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa. Ma ora i giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, a cui subordinare la concessione dei benefici durante l’esecuzione della pena, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Quindi, in sintesi, la Cedu fa cadere l’automatismo della collaborazione. I giudici della Corte Europea, di fatto, mettono in discussione quella forma di ergastolo, e dunque la preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i condannati non collaboranti, quando la condanna riguarda i reati dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Tra le premesse, la Cedu spiega in sostanza che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Non a caso, nella motivazione della sentenza, la Cedu inizia con un excursus delle varie sentenze dei tribunali italiani sulla questione dell’ergastolo ostativo, tanto da citare il caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Tale ordinanza della Cassazione relativa a Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione proprio all’art. 3 della Convenzione Europea, ora riconosciuto violato dalla Corte Europea. Come già annunciato da Il Dubbio, la Corte Costituzionale, il 22 ottobre dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis. La sentenza della Corte Europea, quindi, offrirà sicuramente una grande sponda ai giudici della Consulta se avranno la volontà di decidere sull’illegittimità costituzionale dell’automatismo che preclude i benefici in mancanza di una condotta di collaborazione con la giustizia di cui all’art. 58 ter dell’ordinamento penitenziario. Lo ricorda anche l’associazione Nessuno tocchi Caino, da anni impegnata, con il Partito Radicale, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. «Il successo alla Corte Edu – commenta Sergio d’Elia, il Segretario di Nessuno tocchi Caino – è il preludio di quel che deve succedere alla Corte Costituzionale italiana che il 22 ottobre discuterà l’ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente. Il pensiero non può non andare che a Marco Pannella, al suo Spes contra Spem, che ci ha animati e nutriti in questi anni, e ai detenuti di Opera protagonisti del docu- film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem- Liberi dentro” che contro ogni speranza sono stati speranza, con ciò liberando oltre che se stessi anche le menti dei giudici di Strasburgo». Ma quali conseguenze avrà, di fatto, la decisione della Cedu? Improbabile che i legislatori vorranno mettere mano al 4 bis, visto l’affossamento parziale della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, che già era stata in parte disattesa dal governo precedente, quando non aveva preso in considerazione la completa riforma del 4 bis indicata dagli stati generali sull’esecuzione penale. Ma la sentenza della Cedu avrà come effetto innumerevoli ricorsi da parte dei cosiddetti “fratelli minori”, ovvero coloro che, pur non avendo mai personalmente ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale del caso Viola. Di conseguenza la Cassazione si ritroverà sommersa di casi identici relativi alla preclusione automatica dell’accesso ai benefici. Questo, almeno fino a quando non ci sarà una sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarerà l’incostituzionalità. A quel punto, i legislatori saranno costretti a metterci mano.
· "Palazzi di ingiustizia".
RAI3: PRESADIRETTA 14/01/2019. "Palazzi di ingiustizia", intervista a Ministro Bonafede. Ospite in studio Ministro Grillo, scrive ufficiostampa.rai.it. “Palazzi di ingiustizia” è un’inchiesta sulla macchina della Giustizia che rischia il collasso: l’emergenza dei Tribunali italiani, il mondo dei giudici, le correnti nella magistratura, le pressioni della politica, le storie di errori giudiziari e di malagiustizia. A rispondere a tutto campo sulle tematiche aperte dalla puntata di “PresaDiretta”, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La puntata andrà in onda lunedì 14 gennaio alle 21.20 su Rai3. L’ospite in studio, in apertura della seconda puntata, è il ministro della Salute, Giulia Grillo. Risponderà alle critiche del presidente dimissionario dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, alle polemiche degli ultimi giorni circa le informazioni raccolte sulle simpatie politiche degli scienziati e soprattutto sulle emergenze della sanità pubblica e i nuovi progetti in campo. Le telecamere di “PresaDiretta” sono entrate nei tribunali italiani, a Venezia, a Palermo, a Latina, a Catania, a Tempio Pausania, ad Avellino, a Napoli, ovunque l’esercizio della Giustizia è un autentico calvario. Mancano i giudici, manca il personale amministrativo, mancano gli uscieri, qualche volta mancano anche i bagni. E poi edifici pericolanti, crepe sui muri, aule bollenti d’estate e fradice di pioggia in inverno, topi negli edifici. E ancora, fascicoli pendenti, condanne definitive che non si riesce a far eseguire, indagini che non partono, richieste di arresto inevase.
Malagiustizia: l’inchiesta di PresaDiretta sui Tribunali Italiani, scrive Ludovica Ranaldi il 14 Gennaio 2019 su money.it. Su Rai Tre l’appuntamento con PresaDiretta ha affrontato il tema della malagiustizia italiana e degli effetti collaterali. La malagiustizia italiana è stato un importante argomento trattato durante la puntata di stasera a PresaDiretta. L’inchiesta ha mostrato il degrado dei tribunali italiani nonostante ci siano i fondi e le capacità per risanare la situazione.
Malagiustizia Italiana: quando la legge non funziona. La puntata di stasera a PresaDiretta ha messo in luce la situazione in cui versano i tribunali del nostro paese. A dispetto di quanto si possa pensare, non vivono in condizioni rosee e di conseguenza ne risente tutto il sistema giudiziario. Le telecamere della nota trasmissione hanno mostrato i tribunali di: Venezia, Palermo, Latina, Catania, Tempio Pausania, Avellino, Napoli. Ma la situazione era sempre la stessa. Infatti l’inchiesta «Palazzi di ingiustizia» ha fatto vedere edifici fatiscenti, impraticabili, con personale a corto. Il risultato è che le condanne cadono e nessuno arriva mai a presentarsi di fronte la giustizia. Insomma, tutto il sistema gira a vuoto. Al tribunale di Palermo ci sono 13 giudici per le indagini preliminari a fronte di 28. Mentre a Catania le udienze vengono rinviate per i motivi più vari, come il troppo caldo nelle aule di udienza. Sono strutture che pagano 800 mila euro all’anno di affitto ai privati per edifici inagibili.
A Napoli, il presidente del tribunale Garzo, dice: I soldi ci sono. La gara di appalto è stata vinta. Ma i lavori non sono iniziati. Per l’occasione è stato intervistato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che cerca di rassicurare il conduttore: La situazione delle infrastrutture dei tribunali è grave. I soldi ci sono: 80,5 milioni più 28,5 milioni di euro per intervenire [...] Ci sono 360 magistrati provenienti da concorsi che andranno a lavorare nei tribunali più 320 da concorsi pendenti. Questo significa che ci sarà una saturazione. Inoltre assicura l’intenzione di voler aumentare di 600 posti le posizioni per la magistratura e che il ministero sta valutando la strategia più consona da attuare per migliorare la disastrosa situazione della giustizia italiana.
Le telecamere di "Presa diretta" nei tribunali di Catania e Palermo, scrive il 13/01/2019 lasicilia.it. Nel programma su Raitre condotto da Riccardo Iacona, "Palazzi di ingiustizia”, un'inchiesta sulla macchina della giustizia che rischia il collasso. Lunedì 14 gennaio alle 21.15 a "Presa diretta", il programma su Raitre condotto da Riccardo Iacona, "Palazzi di ingiustizia”, un'inchiesta sulla macchina della giustizia che rischia il collasso: l’emergenza dei tribunali italiani, il mondo dei giudici, le correnti nella magistratura, le pressioni della politica, le storie di errori giudiziari e di malagiustizia. Le telecamere di "Presa diretta" sono entrate nei tribunali italiani - a Venezia, Palermo, Latina, Catania, Tempio Pausania, Avellino, Napoli - ovunque l’esercizio della giustizia è un autentico calvario. Mancano i giudici, manca il personale amministrativo, mancano gli uscieri, qualche volta mancano anche i bagni. E poi edifici pericolanti, crepe sui muri, aule bollenti d’estate e fradice di pioggia in inverno, topi negli edifici. E ancora, fascicoli pendenti, condanne definitive che non si riesce a far eseguire, indagini che non partono, richieste di arresto inevase. Ed a rispondere a tutto campo sulle tematiche aperte dalla puntata, sarà il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. L’ospite in studio, in apertura della seconda puntata è il ministro della Salute, Giulia Grillo. Risponderà alle critiche del presidente dimissionario dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, alle polemiche degli ultimi giorni circa le informazioni raccolte sulle simpatie politiche degli scienziati e soprattutto sulle emergenze della sanità pubblica e i nuovi progetti in campo.
"Palazzi di ingiustizia": il Tribunale di Latina a "Presa diretta", su Rai3, scrive il 15/01/2019 h24notizie.com. E’ andata in onda lo scorso lunedì, 14 gennaio la puntata di Presa Diretta, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona dal titolo "Palazzi di ingiustizia". Un’inchiesta sulla lentezza della giustizia italiana, con processi lunghissimi che quasi mai arrivano alla fine. Ospite della serata il ministro della giustizia Alfondo Bonafede. Nella puntata di lunedì si è parlato dei tribunali di Venezia, Palermo, Catania, Tempio Pausania, Avellino, Napoli, e naturalmente, Latina. Gli inviati della trasmissione erano stati infatti avvistati in città lo scorso mese di ottobre, quando avevano preso contatti con il presidente dell’ordine degli avvocati Giovanni Lauretti, e con la presidente del tribunale Caterina Chiaravalloti. I problemi del tribunale pontino sono comuni a quelli di tutti gli altri: mancanza di giudici, personale amministrativo ed uscieri, carenze strutturali degli edifici dove le condizioni climatiche sono spesso proibitive, tra freddo invernale e calura estiva, presenza di animali e, ultimo ma non meno importante, indagini e processi che stentano a concludersi o, nel peggiore dei casi, anche solo a partire.
Tempio, la giustizia in emergenza: «Ora serve un’inchiesta». Gli ispettori del ministero hanno certificato quindici anni di lavoro arretrato. Il presidente chiede verifiche amministrative per accertare le responsabilità, scrive Tiziana Simula il 16 gennaio 2019 su lanuovasardegna.it. Il tribunale di Tempio finisce tristemente alla ribalta nazionale tra i “palazzi di ingiustizia” visitati dalle telecamere di PresaDiretta, il programma tv di Rai3 che ha documentato con immagini e un’intervista al presidente del tribunale Giuseppe Magliulo una situazione ormai al collasso, tra carenze di giudici, fascicoli arretrati, processi finiti in prescrizione e sentenze mai eseguite. Esattamente quanto raccontato giornalmente dalla Nuova Sardegna. Mali comuni ad altri tribunali d’Italia oggetto dell’inchiesta televisiva condotta dall’inviato Danilo Procaccianti che ha fatto tappa a Venezia, Palermo, Latina, Catania, Avellino e Napoli. Ovunque l’esercizio della giustizia è un vero calvario.
L’inchiesta amministrativa. Ma quanto è emerso sul tribunale di Tempio nella puntata di PresaDiretta andata in onda l’altro ieri sera, è solo una parte dell’allarmante realtà fotografata dall’ispezione ministeriale che si è appena conclusa. E che ha certificato una situazione fuori controllo, già segnalata con numerose lettere a tutte le autorità competenti, dal Consiglio superiore al ministero della Giustizia, alla Corte d’appello, dal presidente Magliulo. Che, alla luce del risultato dell’ispezione, ha chiesto di essere immediatamente sentito affinché vengano trovate delle soluzioni per poter ottemperare alle prescrizioni disposte dagli ispettori che dovranno essere sanate entro maggio, giugno. Il presidente ha anche chiesto che venga avviata un’inchiesta amministrativa per accertare le gravi responsabilità che hanno portato il tribunale di Tempio al limite del collasso. Con una trentina di prescrizioni imposte dagli ispettori si dovrebbero sanare 15 anni di arretrato. Impossibile con la carenza di organico che strangola l’ufficio giudiziario. Per questo Magliulo ha sollecitato una task force di giudici e cancellieri, solo così si potrà adempiere alle prescrizioni. Un grido d’allarme che il presidente del tribunale si augura venga ascoltato.
Numeri allarmanti. L’ispezione che ha rivoltato come un calzino il palazzo di giustizia (ma anche la Procura), ha certificato una vera e propria emergenza: tra i numeri emersi, 300 fascicoli rimasti pendenti davanti al gup anche per dieci anni, 1300 fascicoli per i quali bisognava dichiarare l’esecutività, per non parlare degli oltre mille fascicoli che non sono stati trovati e che, se non spunteranno fuori dagli archivi, dovranno essere ricostruiti. E ancora, oltre 5mila cartoline mai inserite nei fascicoli, oltre mille falsi pendenti e “corpi di reato” che non si trovano più. Tutto questo – così hanno detto gli ispettori – dovrà essere sanato nel giro di quattro, cinque mesi.
Il cantiere. Meglio va sul fronte strutturale, i cui lavori sono cominciati alcune settimane fa. Saranno eseguiti interventi non più rinviabili in una struttura che cade praticamente a pezzi. A cominciare dalla facciata, da cui si staccavano le lastre di granito col serio rischio di cadere addosso ai passanti e agli utenti del tribunale. Per proseguire col tetto, da cui filtrava acqua a ogni pioggia allagando gli uffici e scrostando gli intonaci. Ma il disagio maggiormente sentito, forse anche quello più imbarazzante, riguarda i servizi igienici: su 16 bagni presenti, solo cinque sono funzionanti. Non esiste nessun bagno per i disabili. Il ministero ha affidato i lavori strutturali dell’edificio e quelli di rifacimento dei bagni a due imprese, una di Tempio e l’altra di Sassari. Si occuperanno di rifare la facciata, sistemare il tetto e ripristinare il funzionamento di tutti e 16 i servizi igienici. Il ministero spenderà 200mila euro per la facciata e il tetto, e 50mila euro per i bagni. Altri 150mila euro sono stati finanziati per la sostituzione dei motori dei condizionatori.
Tempio, Tribunale a Presa Diretta: decine e decine di sentenze di condanna mai applicate, scrive il 15 gennaio 2019 olbia.it. C’era anche il Tribunale di Tempio tra i protagonisti della puntata di Presa Diretta andata in onda ieri sera in prima serata su Rai Tre: una puntata dedicata alla giustizia che, per quel che concerne la parte gallurese, è partita da un fatto di cronaca: le bonifiche mai svolte all’ex Arsenale di La Maddalena, raccontate dal sindaco Carlo Montella. “Processi falcidiati dalla prescrizione”, ha detto il sindaco. E così, ecco il Tribunale di Tempio in tutta la sua magnificenza: è l’unico presidio giustizia del territorio, dopo la chiusura delle due sedi distaccate di Olbia e di La Maddalena avvenuta in seguito alla tanto discussa riforma di qualche anno fa. Una chiusura che, invece di migliorare, ha solo peggiorato la situazione. Dal minuto 00:25:14, Presa Diretta si tuffa nella realtà gallurese e ne racconta la storia partendo dalle immagini: transenne, nastri, calcinacci. È il presidente del Tribunale Giuseppe Magliulo a raccontare cosa ha trovato subito dopo il suo insediamento: “Abbiamo trovato un edificio cadente, con le infiltrazioni d’acqua addirittura dal tetto”. E poi le lettere al Ministero, i 4 bagni funzionanti su 16, l’assenza di un bagno per disabili e poi l’organico carente. Un organico talmente carente da non permettere al Tribunale di smaltire tutto il lavoro che c’è da fare. “La situazione è, a mio avviso, drammatica”, specifica il dott. Magliulo. “Nel primo grado abbiamo prescrizioni superiori al 50%, ciò significa che in secondo grado e in Cassazione si arriva a una percentuale del quasi 100%. Tutto il lavoro fatto da noi, dalla Procura, da chiunque è assolutamente inutile”. Nella puntata vengono fuori particolari agghiaccianti: il presidente Magliulo pare abbia trovato decine e decine di sentenze di condanna mai eseguite per mancanza di giudici. Il tutto anche per reati gravi. Il ritratto che scaturisce dal racconto giornalistico di Presa Diretta è impietoso.
Milano, Tribunale «fuorilegge»: i parapetti pericolosi e l’incidente all’avvocato Antonio Montinaro. Dopo la caduta di un avvocato dal quarto piano. Balconate, parapetti e corrimani a rischio. Nessun intervento dopo il dossier sulla sicurezza, scrive Luigi Ferrarella il 20 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". I medici non nutrono molte speranze sul recupero delle gambe da parte del giovane avvocato precipitato per disgrazia venerdì per sei metri dal quarto piano della Procura da una delle basse balaustre di cui era stata denunciata la pericolosità nel 2015-2016-2017 e ancora due mesi fa. Quelle del Palazzo di Giustizia, del resto, sono un puzzle assurdo di situazioni eterogenee. Nell’atrio del terzo piano su Porta Vittoria, ad esempio, si affacciano balconate del quarto piano schizofreniche, nel senso che qui anni fa vennero quasi tutte chiuse con vetrate a completa o mezza altezza, mentre sul lato di via Freguglia ce ne sono ancora di non chiuse. Le scalinate che scendono hanno parapetti in muratura di 80 centimetri, mentre quelli invece di altre scale che collegano i piani misurano 60 centimetri, rialzati anni fa da un corrimano di legno sino a 95 centimetri. Ma al quarto piano, sul lato San Barnaba, nel passaggio che collega i vari corridoi e ammezzati, un affaccio sull’atrio sottostante è protetto, si fa per dire, da un parapetto alto solo 75 centimetri. Ancora diverse, pur comunque tutte basse, le aperture dell’ammezzato del quarto piano e di altri piani sugli atri sottostanti, cintate da un parapetto di muratura di 60 centimetri, che diventano 90 se si conta il segmento di ringhiera (e curiosamente 115 soltanto su un corridoio del quarto piano su San Barnaba). E gli scaloni nobili centrali da Porta Vittoria, che hanno un corrimano con tanto vuoto in mezzo (perché i piantoni che lo reggono sono orizzontalmente distanziati ben 72 centimetri l’uno dall’altro) non hanno altre difese da queste possibili cadute laterali.
Fuori pericolo l'avvocato, ma il tribunale è fuorilegge. Uscito dal coma dopo essere precipitato dalla balaustra Un problema noto da tempo, ma nessuno ha fatto nulla, scrive Luca Fazzo, Domenica 20/01/2019 su "Il Giornale". È uscito dal coma farmacologico, è cosciente, non corre più pericolo di vita. Alessandro Montinaro, il giovane avvocato volato venerdì mattina dal quarto piano del Palazzo di giustizia, sopravviverà. Ma solo stamani conoscerà come è destinata a cambiare la sua vita: «Per ora - spiega Basilio Tiso, direttore sanitario del Policlinico - non siamo in grado di dire se riprenderà l'uso delle gambe e se sarà necessaria una operazione alla colonna vertebrale». Trent'anni, nato a Maglie, praticante in uno studio legale di via Podgora, Montinaro stava telefonando quando è volato oltre la bassa balaustra che protegge il corridoio del quarto piano. Una semplice disattenzione che ha avuto conseguenze drammatiche a causa di un difetto ben noto del grande edificio di corso di Porta Vittoria: l'altezza insufficiente delle sponde dei corridoi oltre le quali vi sono strapiombi di molti metri (in alcuni punti, oltre quindici). Da tempo - come nell'inchiesta del Giornale.it del 2017 - questa situazione viene denunciata senza che nessuno faccia niente. Ora qualcosa si dovrà fare per forza, perché sul volo di Alessandro è stata aperta una inchiesta penale per lesioni colpose, affidata al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano - che si occupa di sicurezza ambientale e infortuni sul lavoro - e dal pm Maura Ripamonti. Il drammatico incidente verrà analizzato nei dettagli, come qualunque infortunio sul lavoro. Non è stata sequestrata l'area, come sarebbe accaduto in una azienda qualunque, solo per il motivo che l'area non rischia di essere modificata di nascosto: gli uffici dei due magistrati che indagano sono a pochi metri dal punto dove il professionista è precipitato. L'inchiesta non potrà che partire da un dato di fatto: il Palazzo di giustizia non è a norma. E la pericolosità della situazione è nota a tutti, tanto che anni fa un piccolo tratto di balaustra è stato rialzato con delle paratie. Nel resto del tribunale non si è fatto nulla. L'inchiesta è delicata, perché l'obbligo di provvedere alla sicurezza del tribunale compete in primo luogo ai vertici del tribunale stesso: la commissione manutenzione è presieduta dal presidente della Corte d'appello (oggi Marina Tavassi, prima di lei Giovanni Canzio) e la gestione diretta compete al procuratore generale (oggi Roberto Alfonso, il predecessore Manlio Minale è scomparso nel 2015). Se si andasse davvero a scavare sull'inerzia che in questi anni ha circondato il tema, sarebbe difficile non chiamare in causa i diretti responsabili. Certo, modificare il Palazzo è complicato, perché si tratta di un edifico con quasi novant'anni di età e un valore storico e architettonico che va tutelato. Ma i vincoli non hanno impedito che in questi anni venissero realizzati interventi a dir poco spregiudicati aumentando senza autorizzazione le volumetrie interne, modificando gli spazi, inserendo pareti di cartongesso e controsoffitti un po' dappertutto, con buona pace dell'armonia delle architetture razionaliste di Marcello Piacentini. Leggendario il gabbiotto che era stato realizzato nel cuore della Procura per ospitare parte dell'ufficio del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, e che fu demolito subito dopo la cacciata del medesimo. In questa disinvoltura di interventi, le esigenze della sicurezza sono state dimenticate. Eppure si poteva intervenire. Infatti in altri casi la magistratura milanese ha dimostrato di ritenere che le esigenze della sicurezza prevalessero su quelle dei beni architettonici, ordinando la messa in sicurezza di edifici ben più storici e prestigiosi del «palazzaccio»: accadde quando il procuratore aggiunto Nicola Cerrato dispose interventi sui loggioni della Scala e sugli spalti dell'Arena Civica, che non rispondevano alle norme antinfortunistiche. Oggi a venire chiamato in causa è il palazzo-simbolo della giustizia milanese. Un po' come è accaduto per la strage in cui nel 2015 persero la vita un avvocato, un testimone e un giudice, dopo che l'imprenditore Claudio Giardiello era riuscito a entrare armato. Giardiello è all'ergastolo, e il vigilante di turno all'entrata è stato condannato a tre anni di carcere per omicidio colposo. Ma dei buchi neri nella sicurezza del palazzo nessuno ha dovuto rispondere.
A Bari il tribunale in tenda. Oltraggio alla giustizia. Il palazzo è inagibile. Udienze penali nelle tensostrutture con i bagni chimici. Protesta l'Anm, scrive Stefano Zurlo, Domenica 27/05/2018, su "Il Giornale". Come ci fosse stato un terremoto. E invece è l'emergenza della routine. La Protezione Civile monta tre tensostrutture: sì, la giustizia si fa in tenda. Però non siamo nelle steppe dell'Asia Centrale, ma a Bari. Il palazzo in cui dovrebbero tenersi le udienze è fuori uso, a rischio crollo. E allora si corre ai ripari. I tecnici, gli stessi che abbiamo visto in azione fra sciagure e calamità naturali, costruiscono una sede provvisoria, per i processi penali. Con tanto di bagni chimici, stile concerti o grandi eventi. Una situazione penosa: in città dicono che si va avanti così da 15 anni. Denunce. Segnalazioni. Promesse. E un degrado inarrestabile fino alla decisione estrema: abbandonare i locali pericolanti e adattarsi a quello scenario da conflitto mondiale. Qualcuno ironizza: questo è il biglietto d'ingresso per il nuovo ministro, ma si potrebbe aggiungere che è anche una pessima foto d'addio per il Guardasigilli uscente, Andrea Orlando. Sentiamo da anni la litania sulla giustizia che cambia, si rinnova, smaltisce finalmente il ciclopico arretrato che quasi la schiaccia. E poi ci ritroviamo con questo quadretto da Terzo Mondo. Incommentabile. Il procuratore Giuseppe Volpe non fa sconti: «Il ministero ha ricevuto informazioni e inviti continui a rimediare ai problemi segnalati, da almeno 15 anni se non di più». Risultato: zero. «Ora - aggiunge il magistrato dando una pessima notizia - i pm dovranno lavorare a rotazione». Umiliante. D'altra parte, le aule sono un'altra cosa. Si procede fra smembramenti, ritardi, in spazi risicatissimi. La struttura più grande ha una superficie di 200 metri quadri, le altre due di 75. Si fa quel che si può in un contesto surreale: le tende sorgono nel parcheggio del Palagiustizia, appena abbandonato dopo attenta indagine della stessa procura di Bari che alla fine ha gettato la spugna: non si poteva continuare a lavorare in quell'edificio zeppo di guai. Troppi rischi. E cosi è partita la delocalizzazione che fa arrossire le istituzioni. Lunedì dovrebbe cominciare un altro trasloco verso un altro palazzo, che però è come un vestito troppo stretto: dunque si faranno i turni. E una giustizia già ingolfata si ingolferà ancora di più. Senza contare il danno all'immagine di un pezzo dello Stato che ha, o dovrebbe avere, una suo decoro. E dovrebbe tenere, almeno su questo versante, alla forma che non è un fregio barocco. Ma una parte importante in un rituale che ha una sua solennità e drammaticità. Chiacchiere se le pratiche restano nei cassetti, se i guasti non trovano soluzione, se la macchina giudiziaria è costretta a dividersi fra diverse sedi. Con disagi. Spostamenti continui. Spese che potrebbero essere evitate se tutte le attività fossero concentrate in un unico luogo. Lunedì l'Associazione nazionale magistrati ha dato appuntamento a tutti gli operatori in via Nazariantz, l'indirizzo dello scandalo. I giudici marceranno con la toga sul braccio e con loro ci sarà Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. A Roma si litiga per la composizione del nuovo governo. Quello che sta facendo gli scatoloni lascia in eredità molte parole, qualche abbozzo di riforma - alcune da bocciare su tutta la linea - e pagine vergognose. Come questa, arrivata peraltro dagli esecutivi precedenti. Speriamo che si ponga rimedio in fretta. Prima che le immagini delle tende facciano il giro del mondo. E spingano altre imprese a stare alla larga da un Paese in cui il diritto sembra quello delle tribù nomadi. Bari, processi nelle tende dopo sgombero del palazzo di Giustizia per rischio crollo. “Vicenda squallida. E il ministero sapeva”. Montate in un parcheggio tre tensostrutture con bagni chimici all'esterno: lì e in altre sedi periferiche si svolgeranno le udienze penali ordinarie. Il procuratore Volpe: "Il ministero ha ricevuto informazioni ed inviti continui a rimediare ai problemi segnalati, da almeno quindici anni, se non più. Ora i pm dovranno lavorare a rotazione". Lunedì manifestazione con la toga sottobraccio alla presenza di Legnini (Csm). Il presidente della Seconda sezione penale: "Così ignominiosamente muore un pezzo di Stato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 26 maggio 2018. Tre tende refrigerate, una da 200 metri quadri e due da 75, con bagni chimici all’esterno. Così si svolgeranno da lunedì le udienze di rinvio dei processi penali ordinari a Bari dopo lo sgombero del Palagiustizia per il rischio crollo, con la stessa procura del capoluogo pugliese che indaga sulle gravi criticità strutturali. Le udienze con detenuti continueranno a celebrarsi nelle sedi di piazza De Nicola, aula bunker di Bitonto ed ex Tribunale di Modugno. Una situazione “squallida”, l’ha definita il procuratore capo Giuseppe Volpe in una nota nella quale accusa direttamente il ministero della Giustizia: “Ha ricevuto informazioni ed inviti continui a rimediare ai problemi segnalati, da almeno quindici anni, se non più”. Mentre le tensotrutture, montate dalla Protezione Civile nel parcheggio antistante gli ormai ex uffici dei magistrati, prendono forma, dall’inizio della prossima settimana dovrebbe iniziare il trasloco degli uffici della Procura e dell’ufficio gip in un altro immobile dove si lavorerà “a rotazione”. E sempre lunedì magistrati e avvocati saranno in corteo con la toga sul braccio. Su iniziativa dell’Associazione nazionale magistrati, pubblici ministeri, giudici, avvocati e personale amministrativo marceranno dalla sede sgomberata di via Nazariantz a piazza De Nicola per accogliere le autorità convocate per la riunione con il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Mentre martedì, nell’ex cinema Royal di Bari, l’Ordine degli avvocati con l’adesione dei magistrati baresi, terrà un’assemblea pubblica per “richiamare tutte le autorità competenti ad assumere le proprie responsabilità e ad adottare i provvedimenti necessari per garantire assoluta priorità è urgenza agli interventi risolutivi del problema”. Il pericolo infatti che era già stato rilevato nel 2010. All’epoca il pm barese Renato Nitti aveva affidato delle verifiche tecniche al Servizio di vigilanza sull’igiene e sicurezza dell’Amministrazione della Giustizia (Visag) e ai vigili del fuoco. L’allora procuratore di Bari, Antonio Laudati, aveva poi trasmesso gli atti alla procura di Lecce perché, essendo datore di lavoro e responsabile della sicurezza dei lavoratori dell’edificio, rischiava di essere indagato a sua volta. I colleghi salentini decisero quindi di archiviare l’indagine e rinviarono gli atti a Bari. Da qui, ora, la decisione di aprire un nuovo fascicolo d’inchiesta per valutare eventuali altre responsabilità. Una storia giudiziaria, quella del palazzo di Giustizia di via Nazariantz, iniziata più di quindici anni fa. I due costruttori Giuseppe e Antonio Mininni, infatti, sono finiti al centro di due procedimenti penali, entrambi conclusi con condanne in primo grado e prescrizione dei reati in appello. Il primo processo per abuso edilizio, filone che ha portato nel 2002 al sequestro con facoltà d’uso dell’immobile (poi revocato nel 2008). Il secondo per frode in pubbliche forniture, truffa ai danni dell’Inail e del Comune e falso. Anche sulla base di questi precedenti, ora il procuratore Volpe punta l’indice contro il ministero spiegando che “è falso” che via Arenula ha saputo della situazione di pericolo crollo solo lunedì scorso, “perché ha ricevuto informazioni ed inviti continui a rimediare ai problemi segnalati, da almeno quindici anni, se non più”. In una nota inviata al personale amministrativo, il numero della Procura di Bari spiega che “non è colpa nostra se siamo arrivati a tanto”. Adesso, aggiunge, il ministero “sta per concludere con la proprietà il contratto di locazione”, spiegando che “in base al sopralluogo effettuato nella nuova, limitata sede provvisoria, potremo allestire l’ufficio posta e la sala intercettazioni, nonché una mega-segreteria centralizzata e alcuni uffici per magistrati e parte del personale”. Il tutto servirà solo “per trattare solo le pratiche urgenti” e infatti, annuncia Volpe, “al ministero abbiamo chiesto anche un decreto di sospensione dei termini processuali”. Per il presidente dell’Anm, Francesco Minisci occorre che le istituzioni centrali e locali “intervengano immediatamente, per consentire la ripresa del regolare svolgimento del lavoro giudiziario nel Distretto di Bari, che rischia di bloccarsi nell’arco di pochi giorni, individuando altre strutture idonee nel capoluogo pugliese” e chiede “la massima attenzione per una vicenda tanto grave quanto inammissibile che non solo non deve essere sottovalutata o relegata, ma deve essere affrontata e risolta con urgenza”. Sabato sera, in un lungo post su Facebook, il giudice Marco Guida, presidente della Seconda sezione penale del Tribunale di Bari, ha ripercorso i suoi anni nel Palagiustizia: “Entrare in quell’aula, la toga indosso, il momento che rinnova in ogni istante il tuo giuramento. E quell’aula calda o fredda, pareti scrostate o sporche, le fessurazioni, le poltrone consunte – scrive il magistrato – Quell’aula accoglie il tuo giuramento, quell’aula è lo Stato e alle pareti sembra che ci sia Caravaggio. Allora puoi amare un palazzo così. Puoi piangere perché sta morendo, ignominiosamente morendo. E con lui, oltre ai tuoi sogni, anche un pezzo di Stato”.
· Sovraffollamento nelle carceri.
Le carceri stanno scoppiando, sfondato il muro dei diecimila detenuti. Damiano Aliprandi il 4 Settembre 2019 su Il Dubbio. Sfondato il muro dei diecimila detenuti oltre la capienza. Per il comitato europeo per la prevenzione della tortura la costruzione di nuove carceri non è la strada giusta, servono politiche «che limitano la detenzione». Un sovraffollamento record da diversi anni mai raggiunto. Al 31 agosto 2019, secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane sono 60.741 rispetto ad una capienza regolamentare di 50.469. Cioè vuol dire che risultano 10.272 detenuti in più. Per comprendere l’allarmante tasso in crescita, basti pensare che il picco precedente più alto di quest’anno si è registrato al 31 marzo, con 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Un altro paragone da fare è quello con i numeri al 31 agosto del 2018: erano 8.513 i detenuti in più. Ma i numeri dell’estate di quest’anno risulterebbero addirittura maggiori se dovessimo sottrarre dalla capienza regolamentare i 3.704 posti non disponibili perché inagibili, oppure in via di ristrutturazione. Dato estrapolato dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, grazie all’analisi delle schede di ogni singolo istituto aggiornato dal ministero. Un dato che ci riporta alla vera dimensione del problema e quindi dell’effettiva emergenza sovraffollamento e che non solo si è affievolita, ma dagli ultimi dati si evince che il trend è in continua crescita. Una emergenza riconosciuta dall’attuale ministro Bonafede che però ha fatto varare la ricetta condivisa da tutto il governo: il nuovo piano carceri con la costruzione di nuovi penitenziari e riconversione di caserme dismesse. Dopo aver bocciato i decreti della riforma penitenziaria originaria che prevedevano l’implementazione delle pene alternative, ha fatto stanziare 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario, finalizzati al piano carceri. Ma, come ha rivelato Michele Miravalle di Antigone, se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti. La storia dei piani carcere ha, però, dimostrato come la soluzione si sia rilevata fallimentare. Dai vecchi dati del Dap, ad esempio, si registra che nel 1974 c’erano 28.286 detenuti. Eppure, sono numeri ridicoli a fronte di 60.741 detenuti di oggi, nonostante – dati Istat alla mano – i reati sono diminuiti rispetto a quegli anni. In tutto questo, gli istituti penitenziari sono aumentati di diverse unità rispetto agli anni 70. Dal 1990 al 2012 assistiamo a un considerevole aumento del trend fase di alta carcerizzazione – che raddoppia la presenza dei detenuti in carcere, raggiungendo quasi 65 mila detenuti. Numeri altissimi che fecero scattare la condanna dalla Corte europea di Strasburgo per trattamento inumano e degradante. Parliamo della sentenza pilota Torreggiani che ha costretto il nostro Paese a rivedere la pena e trovare percorsi alternativi al carcere. Ma non fu l’unica: ci fu un precedente. Parliamo della sentenza Sulejmanovic del 2009, dove per la prima volta la Corte europea accerta la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario. A seguito di questa sentenza il nostro Paese ha iniziato ad interrogarsi sulle azioni da implementare per affrontare il problema del sovraffollamento. Come? Con la costruzione di nuovi Istituti penitenziari. Più ne hanno costruiti, più il sovraffollamento tendeva ad aumentare. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Cpt) disse all’Italia che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché «gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria». Viceversa, «gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione». La verità, rilevata dall’ultima relazione dell’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà, è che gli ingressi nel carcere sono diminuiti, ma non si esce nonostante ci siano migliaia di persone che hanno commesso dei reati per i quali il carcere dovrebbe essere una estrema ratio.
Sovraffollamento, a febbraio quasi diecimila detenuti in più. In alcune carceri il sovraffollamento raggiunge il 120 per cento. Il garante Palma ha spiegato: «Si entra in un mondo da cui non si esce», scrive Damiano Aliprandi il 6 Marzo 2019 su Il Dubbio. Continua inesorabilmente ad aumentare la presenza dei detenuti oltre la capienza regolamentare delle carceri. Il parametro di riferimento utilizzato è di 9 metri quadri a testa, ma, di fatto, i detenuti non solo non hanno a disposizione i sei metri quadrati stabiliti dal Comitato europeo sulla prevenzione della tortura, ma – visto alcune situazioni di carceri con il sovraffollamento al 120 percento – rientrano a mala pena nei 3 metri quadrati a testa di spazio vitale minimo stabilito dalla corte europea sui diritti umani. Anche perché, va aggiunta, la sottrazione dei posti disponibili di circa 5000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei dati messi a disposizione. Resta il dato oggettivo che al 28 febbraio, secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.348 detenuti. Un risultato che fa registrare la presenza di 9.826 detenuti in più. Al 31 gennaio, invece, se ne registravano, 9.575. Ancora prima, al 30 novembre se ne registravano 9. 419 in più. A settembre erano invece 8.653 i ristretti oltre i posti disponibili. Una lettura sull’evidente lento e progressivo sovraffollamento l’ha data il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma durante l’ultimo congresso del Partito radicale. «Se analizziamo l’aumento dei numeri – ha spiegato Palma -, non sono aumentati gli ingressi in carcere, ma sono drasticamente diminuite le uscite: cioè si entra in un mondo da cui non si esce». Il Garante ha fatto anche una seconda osservazione: «Attualmente ci sono circa 1800 persone in carcere che stanno scontando una pena inferiore ad un anno». Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Comunque sia, il sovraffollamento è una piaga riconosciuta anche dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, da risolvere – secondo la linea di governo – attraverso la costruzione di nuove carceri. Soluzione non condivisa non solo dal garante nazionale dei detenuti, dalla Camera penale e ovviamente dal Partito radicale, ma anche da Magistratura Democratica come riportato oggi da Il Dubbio. Ma sul sovraffollamento sarà proprio Rita Bernardini del Partito radicale a parlarne di persona con il Guardasigilli, dopo avergli chiesto un incontro chiarificatore tramite una lettera. Proprio ieri, fa sapere l’esponente radicale, ha ricevuto una chiamata dal ministero per chiederle se preferiva una risposta scritta da Bonafede o un incontro. Bernardini vuole un incontro e le è stato promesso che sarà fissato entro i prossimi dieci giorni. Rimane costante anche la presenza dei bambini dietro le sbarre. Sono 46 le mamme detenute che hanno un totale di 53 figli al seguito (aumentato di una unità rispetto al mese precedente), una ventina dei quali sono in carcere, mentre il resto dei piccoli sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. La legge prevede l’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro madri da tre a sei anni. La norma contempla la custodia in istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Ad oggi ce ne sono 5: Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e Lauro (in Campania). Ma ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. A Firenze doveva essere aperta da tempo un Icam, ma oggi l’appartamento è inutilizzato. Su questa ultima vicenda c’è una mozione presentata alla giunta regionale della toscana che potrebbe smuovere le acque su questa storia infinita dell’Istituto per madri detenute a Firenze. «Una storia – come denunciano don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano e Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze – che ha preso il via nel gennaio 2010 con il protocollo d’intesa tra numerosi enti per la creazione dell’icam in uno stabile di proprietà dell’Opera della Madonnina del Grappa. Da allora altri documenti hanno visto la luce, senza arrivare però a una conclusione. Nel frattempo l’edificio in via Fanfani sta letteralmente cadendo a pezzi». Il ministro Bonafede ha comunque promesso che provvederà all’istituzione degli Icam in ogni regione.
Sovraffollamento: superato il muro dei sessantamila detenuti. Sono 9.575 i detenuti oltre alla capienza regolamentare che risulta, ufficialmente, di 50.550 posti, scrive Damiano Aliprandi il 5 Febbraio 2019 su "Il Dubbio". Continua a crescere il sovraffollamento. A dicembre si era registrato un leggero calo, ma Rita Bernardini del Partito Radicale aveva smorzato gli entusiasmi spiegando che la diminuzione dei 347 detenuti «era dovuta presumibilmente ai permessi che vengono concessi per le festività natalizie e di fine anno». Così è stato. Al 31 gennaio, secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.125 detenuti. Un risultato che fa registrare, infatti, 9.575 detenuti oltre alla capienza regolamentare che risulta, ufficialmente, di 50.550 posti. Al 30 novembre, invece, se ne registravano 9. 419. Ancora prima, al 31 ottobre, erano 9.187 i detenuti in più. A settembre erano invece 8.653 i ristretti oltre i posti disponibili. Un evidente lento e progressivo sovraffollamento. Un problema grave ammesso dallo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come già ricordato, al termine dell’audizione davanti al comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), ha sottolineato il problema del sovraffollamento: «È un’emergenza sotto tutti i punti di vista ma la soluzione non può essere uno svuota carceri visto che è dimostrato che rientrano subito dopo, in assenza di autentici percorsi di rieducazione si esce e si torna a delinquere». Il guardasigilli ha anche ribadito che per superare tali criticità, il suo obiettivo è la costruzione di nuove carceri, attraverso anche l’individuazione di caserme dismesse. «Stiamo impiegando forze, energie e soldi, ma – ha concluso – è chiaro che non abbiamo la bacchetta magica». Il discorso del piano carceri è stato affrontato anche dai governi passati, tanto che intervenne il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Cpt) sottolineando che la costruzione di nuove carceri non era la strada giusta, perché «gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria». Viceversa, «gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione». Recentemente è intervenuto anche il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza, sollecitando l’abbandono della visione carcerocentrica, perché sono le misure alternative che, oltre ad essere deflattive, abbattono la recidiva. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei posti disponibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Rimane costante anche la presenza dei bambini dietro le sbarre. Sono 46 le mamme detenute che hanno un totale di 52 figli al seguito, una ventina dei quali sono in carcere, mentre il resto sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. La legge prevede l’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro madri da tre a sei anni. La norma contempla la custodia in istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Ad oggi ce ne sono 5: Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e Lauro (in Campania). Ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. A Firenze doveva essere aperta da tempo un Icam, ma oggi l’appartamento è inutilizzato. Il ministro Bonafede ha promesso che provvederà all’istituzione degli Icam in ogni regione.
Quel che Alfonso Bonafede non vuole sapere, scrive Roberto Saviano, L'antitaliano, il 30 gennaio 2019 su "L'Espresso". Carceri sovraffollate. Il ministro vuole costruirne di nuove. Ma tutti gli esperti dicono che la repressione ha fallito. Il carcere è un buco nero del quale nessuno (o quasi) vuole occuparsi. In Italia il mondo carcerario è seguito, dai Radicali e da chi gravita attorno a loro. Quindi se il ministro della Giustizia Bonafede volesse farsi un’idea realistica delle azioni per migliorare la condizione dei detenuti nelle carceri italiane, essendo totalmente a digiuno dell’argomento, dovrebbe studiare l’archivio di Radio Radicale, archivio che qualunque sia il destino della Radio, sarebbe opportuno mettere al riparo, perché di pubblica utilità, come ha raccontato L’Espresso. Archivio grazie al quale è possibile, ad esempio, ascoltare in maniera integrale e senza mediazioni, il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, che è un po’ un caposaldo della retorica grillina. Quel processo si trova solo lì. Ma tornando alle carceri, bisogna prendere atto che il problema, ovunque e non solo in Italia, è il loro sovraffollamento. E la soluzione non è quella più intuitiva e banale di costruire altri istituti penitenziari, ma la strada giusta da intraprendere sarebbe quella di analizzare le cause che portano un numero così alto di persone in carcere e provare a capire se non sia piuttosto il caso di prevedere percorsi alternativi alla carcerazione. Ma sulle carceri è facile speculare, quando non si sa davvero di cosa si sta parlando e soprattutto quando ogni discorso diventa un’occasione di propaganda politica presso una platea che le immagina popolate da esseri che, dopo aver commesso reati, di umano non hanno più nulla. La verità sul carcere è che per risolvere i problemi divenuti ormai strutturali (mancanza di spazio, sovraffollamento, impossibilità di accedere a pene alternative e spesso di avere cure mediche adeguate) dovrebbe accadere qualcosa di assolutamente irreale: i governi non dovrebbero farsi condizionare dall’opinione pubblica. Rispondere a sollecitazioni come: “chiudeteli in carcere e buttate la chiave”, “lasciateli marcire in carcere” (tante volte è stato lo stesso Salvini a parlare così) è quanto di più sbagliato e pericoloso per la sicurezza di tutta la società. Ma se di questo i cittadini non hanno contezza, non è accettabile che anche i ministri ignorino informazioni che dovrebbero invece conoscere o che, e sarebbe ancora più grave, pur conoscendole, le manipolino per generare paura e insicurezza. Ecco perché la possibilità, dopo attente valutazioni, di scontare la pena in situazioni alternative dovrebbe essere un punto fermo nel programma di ogni partito politico, qualunque sia il suo colore. Ma il sovraffollamento delle carceri e l’impossibilità di accedere a pene alternative non è un dramma solo italiano. È celebre l’affermazione di Obama: «Gli Stati Uniti hanno il 5 per cento della popolazione mondiale, ma il 25 per cento sul totale degli incarcerati a livello planetario». Questo porta a riflettere da un lato sulla lotta alla droga, che riempie le carceri perché fatta essenzialmente di arresti di piccoli spacciatori. Dall’altro sull’accanimento contro le minoranze: pensare che i bianchi delinquano meno significa andare in giro ancora con gli strumenti di Lombroso nel borsello. Sta di fatto che in tutti i Paesi civili sorgono istanze che riguardano modifiche da apportare agli ordinamenti carcerari. In Bulgaria, il ministro della Giustizia dice che la riforma del sistema penitenziario è una questione nazionale. In Romania, per effetto di una legge del 2017, c’è stato il rilascio anticipato di 14 mila detenuti e tra loro la recidiva è stata bassissima (del 5 per cento). La soluzione starebbe, almeno per iniziare, nell’individuare ambiti in cui la repressione ha fallito (me ne verrebbe in mente uno, la legalizzazione delle droghe, ma rischierei di ripetermi) e quindi depenalizzare; e la soluzione sta anche nel comprendere che le condanne brevi (ne parla il Guardian in uno studio sulle condizioni delle carceri nel Regno Unito) non possono essere scontate in carcere, ma in comunità. Per chi ha commesso reati che prevedono una condanna di qualche mese, il carcere può essere solo un luogo di radicalizzazione al crimine, non di rieducazione. Ma essendo queste considerazioni di buon senso, mi domando perché ogni volta che si parla di carceri, di sovraffollamento e di pene alternative, il ministro Bonafede assicura che altri istituti sono in costruzione e ignora puntualmente le reali cause del problema. Ad ogni modo, se gli servissero informazioni, l’archivio di Radio Radicale per ora è a sua disposizione.
· 41bis. I magistrati ordinano e le carceri non eseguono.
Il 41 bis può essere incompatibile per i detenuti con problemi psichiatrici. Damiano Aliprandi il 12 Settembre 2019 su Il Dubbio. La cassazione annulla un’ordinanza del giudice di sorveglianza. La corte evidenza come in mancanza di un intervento complessivo del legislatore, è il giudice a poter modellare, la misura in questione. «Non sono ostativi alla concessione della detenzione domiciliare cd. "in deroga" l’entità del residuo pena, né il titolo del reato in esecuzione, né l’attuale sottoposizione al regime differenziato di cui all’art. 41- bis ord. Pen», così ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. I penale, con la sentenza n. 29488, ritenendo che sia necessario provvedere ad una nuova valutazione delle esigenze sottese al caso in questione, annullando con rinvio per un nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Viene così annullata l’ordinanza emessa in data 22 settembre 2017 dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, la quale ha respinto le domande proposte da F. S., detenuto al 41 bis, per ottenere il differimento della esecuzione della pena o la detenzione domiciliare per grave patologia di natura psichica. Secondo l’ordinanza del tribunale di sorveglianza la patologia psichica è «di certo presente ed è connotata da gravità, con recenti segnalazioni da parte del servizio sanitario di alto rischio autolesionistico», ciò tuttavia «non comporta la possibilità di applicare l’istituto del differimento della pena previsto dall’art. 147 c. p., né la detenzione domiciliare – sia pure in deroga alla ostatività essendo tali istituti limitati ai casi di gravi patologie di tipo fisico». Il legale del detenuto al 41 bis ha proposto quindi ricorso per cassazione articolando distinti motivi che sostanzialmente vengono accolti. La Corte sottolinea soprattutto che – come emerge da varie sentenze della corte europea – le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. La Cassazione evidenza anche come in mancanza di un intervento complessivo del legislatore, è il giudice a poter modellare, proprio attraverso il ricorso alla detenzione domiciliare ex art. 47 ter ord. pen., la misura in questione in modo da tutelare, da un lato, la salute psichica del condannato e, dall’altro, la tutela della collettività, proprio perché la collocazione del soggetto portatore della patologia psichica può non individuarsi necessariamente con il “domicilio” ma con il luogo più adeguato a contemperare le diverse esigenze coinvolte, con ovvia valutazione caso per caso ed apprezzamento concreto, «tanto della gravità della patologia che del livello di pericolosità sociale della persona di cui si discute». La Corte ha precisato, come detto, che alla valutazione di applicabilità della detenzione domiciliare in deroga non può ritenersi di ostacolo né l’entità del residuo pena, né il titolo del reato in esecuzione, né la attuale sottoposizione del ricorrente al 41 bis. Alla luce di tali considerazioni complessive, la Corte ritiene che sia necessario provvedere ad una nuova valutazione delle esigenze sottese al caso in questione, annullando con rinvio per un nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Roma.
La vita buia delle dame di compagnia. Vittime sacrificali del super 41 bis. Damiano Aliprandi l'11 Settembre 2019, su Il Dubbio. Nessun fondamento normativo di un regime criticato dagli enti internazionali. Accolto il ricorso di un detenuto di Parma, trasferito nella sezione ordinaria del carcere duro ma qualcun altro presto prenderà il suo posto. Era recluso ininterrottamente dal 2018 nella cosiddetta area riservata al 41 bis del carcere di Parma per fare da “dama di compagnia”, gergo carcerario per indicare la persona che viene sacrificata per condividere l’ora di socialità con il detenuto al 41 bis ulteriormente inasprito. Le avvocate Barbara Amicarella e Antonella Minutiello hanno fatto reclamo per chiedere immediatamente il trasferimento, perché tale sistemazione sarebbe ingiustificata e lesiva delle condizioni personali del detenuto, sia pur sottoposto al 41 bis, anche per i suoi problemi di salute che lo affliggono. In particolare presenta la sindrome claustrofobica, del tutto incompatibile con la caratteristica ambientale dell’area riservata, dove la cella risulta non areata, scarsamente illuminata, di dimensioni ridottissime, chiusa da una rete metallica e coperta da un tendone. Oltre a ciò, tale sistemazione – come ha poi riconosciuto il magistrato di sorveglianza – comporta la condivisione dell’area di socialità con un solo detenuto e ciò comprime la partecipazione a momenti di socialità ( il 41 bis l’assicura in gruppi fino a quattro persone) e trattamentali per la finalità rieducativa per un detenuto che comunque ha un fine pena nel 2029. Il magistrato di sorveglianza ha accolto il reclamo e ha ordinato il trasferimento del detenuto presso la sezione “ordinaria” del 41 bis, ritenendo che la sua sistemazione nell’area riservata è del tutto ingiustificata. Decisiva è stata anche la relazione effettuata dal garante dei detenuti del comune di Parma, Roberto Cavalieri. Ha potuto constatare nuovamente che la cosiddetta area riservata del carcere di Parma presenta caratteristiche decisamente critiche. Lo spazio dei passeggi è di dimensioni ridottissime, senza una copertura idonea di riparo dalle intemperie. Lo spazio non è servito da luce diretta, ma è in ombra e non è presente alcuna sedia, importante per i detenuti anziani. Il garante Cavalieri ha anche relazionato le condizioni delle celle. Le finestre si affacciano sull’area dei passaggi, dove in sostanza non entra la luce e viene anche compromesso il ricambio dell’aria. L’entrata della cella si affaccia su un corridoio che presenta ampie finestre che prima dei lavori di costruzione del nuovo padiglione permetteva l’entrata di luce naturale, mentre attualmente, con la costruzione dei tunnel di collegamento tra il nuovo padiglione e le sale colloquio, risulta un totale impedimento alla luce naturale di illuminare gli spazi detentivi. Il detenuto, grazie al reclamo delle avvocate, poi accolto dal magistrato di sorveglianza, è stato trasferito, ma subito dopo inevitabilmente è stato sostituito da un’altra persona per fare, appunto, da “dama di compagnia”. È il destino di chi viene recluso nell’area riservata, una forma di carcerazione ancora e parecchio più aspra del 41 bis. Ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Queste sono le caratteristiche principali di questa carcerazione che non ha nessun fondamento normativo, ma nonostante ciò è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro. Questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali, come il comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Cpt), ma anche dal dossier della commissione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate comportano un isolamento totale. Un super 41 bis così duro, al punto che l’amministrazione passata, per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi di trovare per ogni detenuto isolato in queste condizioni la “dama di compagnia”, un altro detenuto sacrificato per dare una parvenza di umanità. E ciò significa che oltre ai mafiosi di grosso calibro, vengono sacrificate altre persone che appartengono alla mafia di “basso rango”. Il regime 41 bis in area riservata è super duro, così duro che diventa per alcuni una tortura insostenibile. Così come accadde al cugino del capoclan Francesco Schiavone, suo omonimo detto “Cicciarello”, che lo portò a dissociarsi. «Non sentivo alcun rumore quando ero in cella – aveva spiegato ai giudici Schiavone – nemmeno una porta sbattere o una persona chiacchierare. Stavo impazzendo». Ma lo scopo del 41 bis, teoricamente, non è nato per torturare la persona con la finalità di farlo dissociare. La ratio, sulla carta, è quella semplicemente di evitare che i boss diano ordini esterni al proprio clan di appartenenza.
“Sono diversamente vivo, le mie lettere dal nulla del 41bis”. Davide Emanuello ha scontato 22 dei 26 anni scontati in regime di carcere duro, dal 1993. Damiano Aliprandi il 13 luglio 2019 su Il Dubbio. «Caro fratello noi prigionieri in fondo possiamo definirci “diversamente in vita” o “diversamente liberi”, e snaturati dal vivere e privati della libertà siamo stati dai giusti giustiziati nell’essenza di esistere. In noi ormai l’esserci non ha più dimora nella parola; esistiamo perché presenti in quanto corpi, e proprio perché ridotti a sola materia, non comunichiamo più attraverso la parola quell’esserci nel mondo in quanto presenza pensante». È un passaggio di una delle tante lettere scritte da un ergastolano al 41 bis. Si chiama Davide Emmanuello, nato nel 1964 a Gela, boss mafioso. In carcere dal 1993, ha a suo carico tre condanne all’ergastolo per omicidio. Di ventisei anni di carcere, ne ha trascorsi finora ventidue in 41 bis, regime al quale è tuttora sottoposto. Di tutte queste lettere, scritte quando era al super carcere sardo di Bancali, ne sono state fatte una raccolta e pubblicate in un libro edito da “Libriliberi Editore” e curato dalla giornalista Francesca de Carolis, sempre in prima fila per i diritti dei detenuti e in particolare sul tema dell’ergastolo e il 41 bis. Temi impopolari, ma dove ultimamente, grazie alle recenti sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Cassazione, si sta aprendo uno squarcio di luce. De Carolis racconta che di Davide Emmanuello ha iniziato ad interessarsi dopo una notizia che allora le sembrò “bizzarra”. «A Emmanuello – racconta la giornalista – era stata vietata la lettura del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. Libro ritenuto “pericoloso per l’ordine e la sicurezza”». Dal carcere di Ascoli Piceno, nel quale allora Emmanuello si trovava, è in seguito arrivata una vaga smentita, e l’ipotesi di un possibile divieto motivato dalla pericolosità “materiale” del libro ( nei regimi differenziati non entrano libri con copertina rigida) piuttosto che da pericolosità dei contenuti. Sempre De Carolis ha cominciato ad interessarsi, all’epoca, della realtà del 41 bis. Le 23 ore di isolamento al giorno, la sola ora d’aria ( e le tre persone al massimo con cui è possibile parlare in quell’ora), le finestre delle celle schermate, la sola ora al mese di colloquio con familiari ( e con vetro divisorio) alternativa a dieci minuti di telefonata, il divieto di cucinare cibi, la censura di posta e libri, ai quali è stata data ultimamente un’ulteriore stretta. «Se i libri rimangono l’unica forma di “resistenza” alla deprivazione sensoriale a cui si è sottoposti – spiega sempre De Carolis-, ho provato a immaginare cosa sono, a cosa servono e dove possono portare, diciotto anni di nulla». Alcune immagini di questo inferno sono svelate con lettere che Emmanuello ha scritto negli ultimi anni. Lettere tremende – tutte regolarmente passate al vaglio della censura – come questa e raccolta nel libro: «Continua il mio viaggio nelle viscere degli inferi. Sono rassegnato e consapevole che questo luogo voluto per l’annientamento non sopprimerà il mio corpo, ma agirà sulla psiche e attraverso la coscienza farà dell’anima l’inferno del corpo. L’istituto è moderno, non in senso illuminato, ma di nuova riproposizione oscurantista del supplizio come pena. In pratica un “ecomostro” per soggetti trattati al di fuori dei canoni dell’esperienza etica della libertà e dei diritti umani. L’apparente agibilità estetica del nuovo nasconde lo squallore degli spazi ridotti e claustrofobici, ordinati in senso verticale cosicché allo sguardo è tolto ogni orizzonte così come alla speranza di libertà la pena ostativa ha posto la parola fine. Ho solo un piccolo cielo che dal sotterraneo intravedo alzando lo sguardo in verticale: il cielo del passeggio(…)» . Le lettere di Emmanuello non potevano restare sulla scrivania di De Carolis. Per questo le aveva spedite a Pino Roveredo, oltre che scrittore, Garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia. Se ne è lasciato straziare e a queste lettere le ha risposto con la potente scrittura di cui è capace. Così ne è nato il libro a loro firma. “Diversamente vivo, lettere dal nulla del 41bis”, di Davide Emmanuello e Pino Roveredo. Edito da Libri Liberi, casa editrice fiorentina.
I detenuti al 41bis hanno diritto a due ore d’aria. La sentenza della corte di Cassazione. Nel suo ricorso, il ministero della Giustizia aveva sostenuto che il cosiddetto carcere duro non consentisse la fruizione di 2 ore di permanenza all’aperto. Scrive il 25 Aprile 2019 Il Dubbio. I detenuti sottoposti al 41 bis hanno diritto, salvo «motivi eccezionali», a godere di due ore di permanenza all’aria aperta. Lo ha stabilito la Cassazione che, con una sentenza depositata ieri, ha respinto il ricorso presentato dalla Casa circondariale di Sassari, dal Dap e dal ministero della Giustizia in merito alla decisione del magistrato di sorveglianza di riconoscere a un detenuto in regime di carcere duro il diritto a fruire di due ora d’aria effettive: per l’uomo, invece, era stata applicata una circolare del penitenziario di Sassari, che prevedeva soltanto un’ora all’aria aperta, consentendo lo svolgimento di un’altra ora all’interno delle sale destinate alla socialità, quali la biblioteca e la palestra. Nel suo ricorso, il ministero della Giustizia aveva sostenuto che l’articolo 41 bis non consentisse la fruizione di 2 ore d’aria, ma il tribunale di sorveglianza di Sassari aveva respinto tale tesi. La Suprema Corte, con la sentenza odierna della prima sezione penale, ricorda che i detenuti soggetti al regime differenziato sono «sottoposti a delle limitazioni della “permanenza all’aperto” non previste per altri ristretti», una permanenza «che non può svolgersi in gruppi superiori a 4 persone e che deve avere una durata non superiore a 2 ore al giorno», fermo restando il «limite minimo» previsto dall’ordinamento penitenziario per cui il periodo di tempo delle 2 ore «può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno soltanto per motivi eccezionali». Dunque, affermano gli “alti” giudici, confermando la decisione del tribunale di sorveglianza, la «permanenza all’aperto» non può essere «confusa» con la «fruizione delle cosiddetta socialità», data la «differente funzione dei due istituti, diretti, il primo, alla tutela della salute e ad assicurare il benessere psicofisico e, il secondo, a garantire il soddisfacimento delle esigenze e degli interessi culturali, relazionali e di trattamento». Inoltre, la norma in questione, pur con «tratti di marcata ambiguità», si legge ancora nella sentenza, parla di un «limite» che può essere «in concreto disposto» in caso di «motivi eccezionali». Quindi, limitare a un’ora la permanenza all’aria aperta, secondo la Cassazione, non era misura «idonea a rafforzare l’ordine e la sicurezza» contrastando con «l’esigenza», affermata dalla Corte costituzionale, di «bilanciare in maniera equilibrata» interessi contrapposti, tra i quali il diritto alla salute «cui l’ora d’aria è preordinato» : ciò non significa, concludono i giudici di piazza Cavour, «ovviamente che in caso di comprovate esigenze non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta; e tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento della direzione dell’istituto che dia conto dei motivi eccezionali».
I magistrati ordinano e le carceri non eseguono. I detenuti al 41 bis lamentano l’inosservanza delle ordinanze dei giudici di sorveglianza. Il problema è stato evidenziato anche dal Garante nella sua ultima relazione al parlamento, scrive Damiano Aliprandi l'11 Aprile 2019 su Il Dubbio. Accade spesso, esclusivamente quando sono ordinanze che hanno accolto i ricorsi dei detenuti al 41 bis, che le direzioni delle carceri non ne danno esecuzione. Su Il Dubbio abbiamo parlato del caso emblematico di Viterbo. A denunciare l’accaduto è stata l’avvocata Francesca Vianello, riferendosi al reclamo vinto dal suo assistito, Salvatore Madonia – figlio dello storico boss di Cosa Nostra Francesco Madonia -, che si trova in carcere dal 1991 e condannato al 41 bis dal 10 luglio del 1992. «Abbiamo vinto un reclamo dinanzi il Tribunale di sorveglianza di Roma – spiegò l’avvocata Vianello a Il Dubbio – che ha ordinato di disapplicare la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nella parte in cui dispone lo spegnimento della tv dalle 24 alle 07 ma, nonostante questo, non stanno eseguendo l’ordinanza e hanno detto al detenuto di fare richiesta di ottemperanza». Alla fine è riuscito ad ottenere ciò che gli spettava, ma solo dopo la richiesta di ottemperanza. Accade dappertutto, così come il discorso delle ore d’aria. Nonostante la sentenza della cassazione sull’aria d’aria sottratta, diversi istituti penitenziari che ospitano il 41 bis non applicano ciò che ha deciso la corte suprema. La sentenza, resa pubblica ad ottobre del 2018, nel respingere un ricorso del ministro della Giustizia avverso un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari in tema di fruizione di ore all’aperto, ha chiaramente affermato che in esito a una lettura sistematica delle norme in materia «la sovrapposizione della permanenza all’aria aperta e della socialità costituisce un’operazione non corretta» . Sì, perché molti istituti penitenziari che ospitano il 41 bis, hanno interpretato, in senso restrittivo, la circolare del Dap che ha uniformato le regole del carcere duro. Come? Il detenuto nel regime duro può usufruire di due ore giornaliere all’aria aperta, in alternativa ad un’ora massima di tempo da impiegare nelle attività ricreative- sportive, nell’accesso alla sala pittura o alla biblioteca. Ma non entrambe. Il detenuto deve, quindi, scegliere come impiegare le due ore massime di accesso all’aria aperta. Fino a poco tempo fa permaneva l’interpretazione restrittiva che non coglie le riflessioni prospettate di recente da parte della dottrina e di una parte della giurisprudenza di merito, che – in presenza di determinate condizioni soggettive e alla luce di fattori ambientali favorevoli – ha ribadito l’importanza di concedere al detenuto in regime di 41 bis la possibilità di accedere all’aria aperta per due ore al giorno, senza con ciò penalizzare eccessivamente lo stesso, scomputando da tale soglia i servizi "rieducativi" garantiti dall’istituto penitenziario. Ma, come detto, i detenuti, singolarmente, per ottenere ciò che i magistrati hanno ordinato, devono fare sempre ottemperanza, perché l’amministrazione penitenziaria non esegue. I problemi legati all’osservanza effettiva delle ordinanze della Magistratura di sorveglianza, competente a regolare le modalità applicative del regime speciale e a decidere sui reclami a esse inerenti, proposti dalle persone detenute ai sensi dell’articolo 35- bis dell’ordinamento penitenziario e che hanno per oggetto la lamentata violazione di diritti, è stato evidenziato anche dall’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà. «Il profilo di criticità – si legge nel rapporto del Garante – si è rivelato all’osservazione diretta e concreta della mancata esecuzione di tali provvedimenti giudiziari da parte delle Direzioni degli Istituti, destinatarie delle ordinanze e chiamate, pertanto, a rispettarle e a darvi esecutività: l’effettiva esecutività degli ordini disposti dall’Autorità giudiziaria per porre rimedio alle violazioni dei diritti riconosciute si persegue, in buona parte dei casi, soltanto attivando il giudizio di ottemperanza». Per questa ragione il Garante nazionale, che ha avuto modo di rappresentare il problema anche al Csm, confida nell’intervento del Parlamento per la verifica dell’operato degli Organi amministrativi rispetto alle pronunce giurisdizionali e per l’eventuale revisione della procedura del reclamo giurisdizionale in termini di rafforzamento dell’esecutività immediata delle ordinanze giurisdizionali.
Al 41 bis anche i giornali vengono “selezionati”. Esclusi Avvenire, il Manifesto, il Foglio, il Mattino, il Dubbio e Ristretti Orizzonti, scrive Damiano Aliprandi il 6 Ottobre 2017 su Il Dubbio. Al 41 bis, a differenza della detenzione normale, è consentita la lettura solo di alcuni quotidiani a tiratura nazionale. Le linee guida che uniformano il regime duro per tutti gli istituti che lo ospitano, riaffermano la censura dei giornali e riviste che trattano particolarmente i temi del sistema penale dal punto di vista garantista. A pagina 51 della circolare emanata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria c’è la tabella dove vengono riportati nero su bianco tutti i quotidiani nazionali e le riviste consentite. Si viene così a sapere che al 41 bis, i detenuti possono acquistare La Repubblica, Il Corriere della sera, Il Giornale, Il Giorno, Il Messaggero, Il Sole 24 ore, il Fatto Quotidiano e Italia Oggi. Però vengono esclusi Avvenire, Il Manifesto, Il Foglio, Il Dubbio e Il Mattino, quotidiani a tiratura nazionale che, seppur diversi tra loro, portano avanti delle critiche riguardante il nostro sistema penale. Per quanto riguarda le riviste, i detenuti al 41 bis hanno varie scelte: da Chi, Di Più, passando per Diva, la Settimana Enigmistica, Panorama e l’Espresso. Mentre però non compare Ristretti Orizzonti, una rivista – conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori e giornalisti che si occupano di questi temi – fatta in carcere a Padova e che informa sulla giustizia e sull’esecuzione della pena. Il direttore dell’Ufficio detenuti e trattamenti del dap Roberto Piscitello, che ha redatto la circolare sottoscritta anche dal capo del Dipartimento Santi Consolo, spiega a Il Dubbio che non è stata una loro scelta, ma che si sono basati su una norma già preesistente e redatta dalle varie direzioni delle carceri che, a loro volta, le hanno tratte da una vecchia tabella ministeriale. «La tabella si basa sui giornali a tiratura nazionale che hanno un minimo di copie vendute», spiega Piscitello. Rimane però poco chiaro quale sia il criterio utilizzato e perché un giornale può essere acquistato dai detenuti in regime del 41 bis in base al numero di copie vendute, anche in considerazione del fatto che Avvenire è tra i quotidiani più diffusi. Molto critica Rita Bernardini, l’esponente del Partito Radicale: «Il divieto in 41 bis di acquistare alcuni giornali o riviste come Ristretti Orizzonti si basa sul principio della sospensione della Costituzione. Non credo che sia una casualità che venga limitata la possibilità di acquistare giornali che portano avanti denunce del sistema penitenziario. Anche noi abbiamo avuto problemi a causa delle censure. Tutto quello che può interessargli direttamente, tipo la lotta del Partito Radicale anche per il superamento del 41 bis e la loro riabilitazione come prevede l’articolo 27 della Costituzione, difficilmente lo possono venire a sapere. D’altronde la posta viene sottoposta a censura».
Anche un boss al 41 bis ha diritto a informarsi. La Cassazione accoglie un ricorso sui giornali da leggere in galera. Damiano Aliprandi il 17 luglio 2019 su Il Dubbio. Giornali locali vietati ai boss al 41 bis per mero sospetto, nonostante riguardino luoghi di non appartenenza. La Cassazione dà ragione a un detenuto al regime duro e rimanda il provvedimento contestato al tribunale per un nuovo esame. Come si sa, tra i vari divieti ferrei, i detenuti possono leggere solo giornali nazionali, ma non locali per impedire che i boss si informino «sulle vicende connesse al clan criminale ovvero per verificare l’avvenuta esecuzione dei propri ordine veicolati all’esterno». Nel caso specifico, tale divieto però è esteso anche per chi legge notizie locali non appartenenti al proprio luogo di origine. Parliamo del boss barcellonese Giovanni Rao, ristretto nella casa circondariale de L’Aquila al quale, tramite un provvedimento dell’ottobre 2018 della Corte d’assise di Messina, era stato ordinato il «divieto di acquisto o ricezione dei giornali di stampa locale, indipendentemente dalla loro provenienza geografica». L’avvocato difensore Franco Scattareggia del foro di Messina, ha fatto ricorso in Cassazione e quest’ultima gli ha dato ragione annullando il provvedimento contestato e rinviando gli atti al Tribunale di Messina per un nuovo esame. «La ratio del divieto nei confronti del mio assistito – spiega l’avvocato e costituzionalista Scattareggia – è quella che potrebbe diffondere nell’ora di socialità notizie locali ad altri boss e quindi veicolare messaggi». Ma il problema è che questo divieto si basa, appunto, su un mero sospetto. Il ricorso posto dall’avvocato, quindi, è in punto di diritto prendendo come riferimento primario l’esistenza del diritto fondamentale all’informazione tutelatodall’articolo 21 della Costituzione. «L’estensione e la portata dei diritti dei detenuti – prosegue il legale – può subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere», ma «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto allo scopo del 41 bis». Ma c’è anche la convenzione europea che garantisce il diritto all’informazione e, non a caso, diverse sentenze della Cedu fanno riferimento ad essa anche quando si tratta delle persone private della libertà. Quindi il ricorso, accolto dalla Cassazione con rinvio, si fonda sulla lesione del diritto all’informazione. Tali afflizioni aggiuntive, in generale, sono state evidenziate anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà tramite il Rapporto tematico sul regime detentivo speciale. Nel capitolo dove ci sono le raccomandazioni che riguardano gli ulteriori diritti, il Garante ha sottolineato che l’esercizio del diritto all’informazione del detenuto è parso in altri casi essere limitato dalla mancata consegna di articoli di stampa o pubblicazioni che, pur estranee alla vicenda del detenuto, facevano generale riferimento al contrasto alla criminalità organizzata. Condotta che il Garante ha ritenuto – nei casi non strettamente necessari – idonea a compromettere l’effettivo accesso all’informazione. La ratio del regime del 41 bis è quella di rafforzare la funzione custodialistica del carcere e spezzare i legami con la consorteria mafiosa di appartenenza: si vuole impedire che il detenuto possa continuare a “guidarla” ed impartire ordini nonostante la reclusione, nell’ottica di una guerra dichiarata alla criminalità di tipo mafioso a tutto campo. Un regime detentivo che, non a caso, si è guadagnato l’appellativo di “carcere duro” per via di ulteriori restrizioni che esulano dallo scopo originario.
Cassazione: vietato vietare la stampa locale al 41 bis. Le motivazioni della decisione: non basta il “mero sospetto”. Damiano Aliprandi il 10 Agosto 2019 su Il Dubbio. Finalmente sono state depositate le motivazioni della Cassazione che ha accolto il ricorso di un detenuto al 41 bis al quale gli era stato ordinato il divieto di acquisto o ricezione dei giornali di stampa locale, indipendentemente dalla loro provenienza geografica. Parliamo di una ordinanza della corte di assise di Messina fatta nei confronti del boss barcellonese Giovanni Rao, ristretto nella casa circondariale de L’Aquila. Tale divieto era in ragione del pericolo, segnalato dalla Direzione del carcere, che il detenuto – imputato per reati commessi nel contesto della criminalità organizzata barcellonese – potesse ricevere, in tal modo, notizie relative al clan di appartenenza. A tale provvedimento aveva proposto reclamo, lo stesso Rao, deducendo che il Collegio messinese avesse violato la disciplina dettata dall’articolo 18- ter dell’ordinamento penitenziario e dalle norme, costituzionali e convenzionali (articolo 15 e 111 della costituzione, dell’articolo 10 Cedu), poste a presidio del diritto alla corrispondenza; e prospettando, altresì, l’illogicità dell’ampissima restrizione disposta, siccome riferita a tutti i giornali locali indipendentemente dalla provenienza geografica della testata. Con ordinanza del gennaio 2019, il Tribunale di Messina rigettò il reclamo proposto da Rao, sottolineando l’esistenza di esigenze di prevenzione dei reati e di sicurezza e ordine interno dell’Istituto. Ciò in considerazione della concreta possibilità che attraverso l’ingresso in istituto di notizie concernenti la cronaca locale, ancorché per mezzo di giornali non riconducibili al territorio di provenienza del detenuto, venisse consentita la circolazione, tra i detenuti, di informazioni relative al clan cui Rao apparteneva; tanto più che i detenuti appartenenti al suo gruppo di socialità sarebbero stati provenienti da differenti aree geografiche. Tramite l’avvocato Francesco Scattareggia Marchese, il detenuto al 41 bis ha fatto ricorso alla cassazione sottolineando, tra le altre cose, che non si possono adottare tali divieti che incidono su diritti fondamentali della persona sulla base di un “mero sospetto”, senza indicare le “concrete” ragioni investigative, di ordine pubblico o di sicurezza, che avrebbero reso necessaria l’adozione della misura. La Cassazione ha stabilito che il ricorso è fondato sottolineando che la limitazione della libertà di pensiero, e quindi anche di informarsi, deve connotarsi in termini di extrema ratio. Inoltre evidenzia che un provvedimento del genere può essere legittimo solamente se vi sia una specifica correlazione tra la circolazione della stampa locale all’interno del carcere e il probabile verificarsi di taluna delle circostanze indicate dall’articolo 18- ter dell’ordinamento penitenziario, quelle relative alla limitazione della ricezione della stampa. La Cassazione aggiunge che, trattandosi di provvedimenti che incidono su diritti fondamentali, “deve escludersi, come condivisibilmente dedotto dalla difesa del detenuto, che le limitazioni in questione possano essere basate sulla ricorrenza di una situazione di “mero sospetto”, essendo necessario che ricorrano concreti elementi di valutazione idonei a conferire un adeguato coefficiente di oggettività alle ragioni poste alla base del richiesto controllo”. Secondo la Cassazione il divieto non è stato ben motivato, senza nemmeno indicare quale sia il pericolo concreto. Alla luce delle considerazioni e, in particolare, alle evidenti lacune motivazionali del provvedimento impugnato, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza con rinvio, per nuovo esame. Pian piano, a colpi di sentenze, il 41 bis comincia a perdere tutte quelle misure afflittive che esulano dallo scopo originario del regime speciale.
Il 41 bis tra “aree riservate” e reiterazione del provvedimento. Alla data della redazione del Rapporto le persone detenute sottoposte al 41 bis sono 748 (tra cui 10 donne); gli internati in Casa di lavoro e sottoposti allo stesso regime sono 5, scrive Damiano Aliprandi il 7 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Altro che ammorbidimento del 41 bis attraverso la circolare che puntava ad uniformare le regole del 41 bis. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà, in alcuni istituti penitenziari l’adozione di tali regole interne risultano eccessivamente dettagliate su aspetti quotidiani che vanno anche oltre le già minuziose prescrizioni della Circolare del 2 ottobre 2017, su cui peraltro il Garante stesso aveva espresso a suo tempo alcune riserve. Situazioni soggettive relative alle reiterate proroghe del regime in controtendenza alla sentenza della Consulta del ’ 93 e all’inserimento di taluni in “aree riservate” che finiscono per costituire un regime nel regime. Parliamo delle analisi delle sezioni speciali e criticità rese pubbliche attraverso il rapporto dal Garante nazionale. Alla data della redazione del presente Rapporto le persone detenute sottoposte a tale regime sono 748 (tra cui 10 donne); gli internati in Casa di lavoro e sottoposti allo stesso regime sono 5. Del totale delle persone detenute in regime speciale, soltanto 363 hanno una posizione giuridica definitiva (i rimanenti sono in posizione mista o in misura cautelare). Soltanto 4 donne sono in posizione definitiva.
NON DEVE ESSERE UN “CARCERE DURO”. Il Garante nazionale non entra nel merito della normativa del 41 bis, ma «si focalizza sulla valutazione di come la sua applicazione rispetti i parametri di legittimità indicati dalla Corte costituzionale e altresì di come la sua reiterazione, spesso per un numero cospicuo di anni, a carico della singola persona, possa esporsi al rischio di incidere sull’inderogabile principio di tutela dei diritti umani di ogni persona, indipendentemente dal suo status di libertà o detenzione, nonché dei diritti fondamentali che, pur nei limiti oggettivi posti dalla situazione privativa della libertà e in regime particolare, non cessano di essere tutelati dalla nostra Carta costituzionale». Il Garante ci tiene molto al linguaggio. Raccomanda di non definire mai tale regime il “carcere duro”, perché ciò potrebbe far pensare che il 41 bis abbia misure afflittive in più e potrebbero far pensare che tale regime abbia una finalità diversa da quella prevista dalla normativa e che sia utilizzato come “incoraggiamento alla collaborazione”. Sappiamo che la finalità del 41 bis dovrebbe essere un’altra, ovvero «volta a far fronte a specifiche esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi – come l’esperienza dimostra – attraverso l’utilizzo delle opportunità di contatti che l’ordinario regime carcerario consente e in certa misura favorisce ( come quando si indica l’obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti ‘ anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno”)».
LA DOPPIA PENA DELLE AREE RISERVATE. Più volte il Garante ha messo all’indice tale punizione che risulta essere, di fatto, un super 41 bis. Tali sezioni sono separate dalle altre che accolgono le persone sottoposte a tale regime e sono destinate alle figure ritenute apicali dell’organizzazione criminale di appartenenza. Il Garante spiega che si tratta di 14 “Aree”, distribuite in 7 Istituti, in cui alla data di redazione del Rapporto (3 gennaio 2019) risultano ristrette 51 persone (solo 30 di 21 di esse sono in posizione giuridica definitiva). Non vi è dubbio che si tratti di persone il cui profilo criminale richiede particolare attenzione e condizioni di massima sicurezza, «tuttavia – si legge nel Rapporto -, si potrebbe osservare che tale richiesta rientra nella stessa definizione dell’ambito di applicazione del regime speciale, senza bisogno di ulteriori specialità». Risulta che tale modalità applicativa a volte porta a un quasi sostanziale isolamento della persona detenuta. Per evitare la violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’area riservata anche un altro detenuto, sempre in regime speciale, che non avrebbe titolo a starvi ma che svolge una funzione “di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi. «Soluzione – denuncia il Garante – che determina l’applicazione di un regime particolare del tutto ingiustificato a una seconda persona oltre a quella destinataria della specifica cautela». Il Garante raccomanda, quindi, che si ponga fine alla previsione delle aree riservate all’interno degli istituti che ospitano le sezioni del 41 bis.
LA CRESCENTE REITERAZIONE DELL’APPLICAZIONE DEL 41 BIS. Nel corso delle visite, il Garante nazionale ha riscontrato numerosi casi di persone sottoposte al regime del 41 bis da oltre 20 anni e ha verificato la ricorrenza nei provvedimenti di proroga di motivazioni che sostanziano il fondamento della reiterazione nella «assenza di ogni elemento in senso contrario» al mantenimento di collegamenti con l’organizzazione criminale operante all’esterno.
Nei provvedimenti di proroga i riferimenti frequenti sono il reato “iniziale” per cui la persona è stata condannata e la persistente esistenza sul territorio dell’organizzatone criminale all’interno del quale il reato è stato realizzato. Ma il Garante sottolinea che la concreta operatività dei decreti di proroga è esposta al rischio di disattendere le prescrizioni della Corte costituzionale che, a partire dal 1993 e costantemente, nelle successive pronunce, ha stabilito la necessità di adeguata motivazione per ogni provvedimento applicativo e per ogni decreto di proroga, affermando, come noto, che «ogni provvedimento di proroga delle misure dovrà recare una autonoma congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire: non possono ammettersi semplici proroghe immotivate del regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte». Il Garante nazionale raccomanda che non si protragga il regime speciale previsto dal 41 bis fino al termine dell’esecuzione di una pena temporanea e che, al contrario, qualora nel periodo previsto per un eventuale rinnovo sia compreso il termine dell’esecuzione penale, si eviti la reiterazione «dando così la possibilità all’Amministrazione penitenziaria di progettare percorsi che gradualmente accompagnino alla dimissione, utili al positivo reinserimento sociale nonché maggiormente efficaci per la tutela della sicurezza esterna».
Il caso delle carceri sarde: quelli del 41 bis sottoterra. Come l’abate Faria, scrive Damiano Aliprandi il 18 gennaio 2019, su "Il Dubbio". Reparti del 41 bis situati appositamente sotto il livello del terreno, tanto da provocare una diminuzione progressiva dell’aria e della luce naturale che filtra che passa solo attraverso piccole finestre poste in alto sulla parete o lucernai, invasione di blatte nelle infermerie, difficoltà di accesso all’acqua potabile, sezioni di alta sorveglianza dedicate alle persone detenute cosiddette “radicalizzate” e quelle “a rischio di radicalizzazione”, come quella gergalmente chiamata “porcilaia”, privi delle condizioni minime di dignitosa vivibilità. Questo è tanto altro emerge dal rapporto dell’autorità garante nazionale delle persone private della libertà, in merito alla visita nelle carceri della regione Sardegna. Una regione – come si legge nel rapporto che si caratterizza per un numero elevato di Istituti di pena, superiore alle esigenze territoriali. Infatti, la presenza di dieci Istituti con una capienza totale, alla data del 30 aprile 2018, di 2713 posti (con 2248 persone detenute presenti) ben più alto rispetto alle 1102 persone detenute residenti in Sardegna, comporta come conseguenza il trasferimento sull’isola di un elevato numero di ristretti provenienti da altre regioni. “La scelta dell’Amministrazione penitenziaria – scrive il Garante nazionale – di utilizzare, date le complessive condizioni di sovraffollamento nel territorio nazionale, tutti i posti disponibili, ha comportato la sostanziale rinuncia al principio che vuole che la pena sia eseguita, salvo eccezioni riferibili a contesti criminali diffusi in un dato territorio, in modo tale da non recidere il rapporto con il proprio ambito affettivo e relazionale”. Tale situazione comporta pesanti ricadute negative sulla possibilità di mantenere le relazioni familiari con i propri cari, costretti a lunghi e costosi viaggi per fare i colloqui. “Tuttavia – si sottolinea nel rapporto nessun Istituto ha previsto finora l’attivazione di un sistema di video telefonate, così come previsto peraltro dalla circolare Dap n. 0366755 del 2 novembre 2015”. Si denuncia che è stato scelto di trasferire e concentrare nelle strutture detentive dell’isola un gran numero di persone detenute in regime di Alta sicurezza, nonché un numero consistente di coloro che sono detenute nel 41 bis.
PROBLEMI DI DEGRADO AL 41 BIS E ALL’ALTA SORVEGLIANZA. La prima criticità riguarda la tutela della loro salute. Il Garante denuncia che, nonostante la forte presenza di un elevato numero di persone detenute in regime di alta sicurezza o 41 bis, nella Regione non è disponibile il Servizio di assistenza intensiva (Sai) che possa essere utilizzato a tutela della loro salute. Infatti, il Sai dell’Istituto di Sassari – strutturato originariamente per coloro per i quali era disposta una detenzione secondo tali regimi – è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari- Uta, è esclusivamente per coloro che sono detenuti in regime di normale sicurezza. A tutto ciò si aggiunge il degrado ambientale. Almeno due fra gli Istituti visitati sono in condizioni di degrado materiale, con scarsa manutenzione ordinaria o con lavori in corso che comportano pesanti disagi per le persone detenute e per il personale che vi lavora: in particolare, l’Istituto di Nuoro, con un reparto comunemente chiamato – non a caso – “la porcilaia” e la Casa circondariale di Cagliari con il cantiere per la costruzione di un reparto per persone detenute al 41 bis, aperto nel 2014 e al momento della visita della delegazione del Garante nazionale in totale stato di abbandono, con materiale lasciato all’aperto, cucine attrezzate lasciate andare in malora e con un serio problema di sicurezza – oltre a un evidente spreco di denaro pubblico. In quest’ultimo caso, risulta che le condizioni materiali riducono drasticamente la disponibilità di spazio all’aperto e la possibilità di avviare attività “trattamentali” o lavorative. Dal rapporto emerge anche il caso particolare delle sezioni del 41 bis relative al carcere Bancali di Sassari: sono state realizzate sotto il livello del restante terreno ove sorgono le altre sezioni. “Una scelta non dovuta alla tipologia del terreno”, sottolinea il Garante nel rapporto. Nel carcere di Nuoro, invece, alcuni reparti sono stati trovati privi delle condizioni minime di dignitosa vivibilità, come la sezione che ospita le persone detenute “radicalizzate” e quelle “a rischio di radicalizzazione”, in regime di As2. Si denuncia che il reparto è gergalmente conosciuto come “porcilaia”, era noto sin dai tempi della detenzione di persone condannate per reati di terrorismo nazionale, era stato successivamente chiuso perché ben al di sotto di qualsiasi standard minimo in ambito europeo, è stato poi riaperto come piccola sezione di regime del 41 bis. Chiuso dopo l’apertura dell’Istituto di Sassari, ora infine riaperto per questo ristretto numero di persone imputate per reati connessi al terrorismo internazionale, individuate come figure di supporto materiale o ideale a tali reati. Le stanze detentive risultano scarsamente areate e ben poco illuminate e l’atmosfera complessiva è claustrofobica. Alla delegazione è stato, inoltre, riportato che erano state rimosse nei giorni precedenti alla visita alcune schermature alle finestre. La delegazione del Garante ha riscontrato che i muri erano ammalorati, che nei bagni vi erano evidenti e ampie tracce di umidità ed estese macchie di muffa. Una stanza di pernottamento aveva il bagno a vista, separato unicamente da una tenda. La stanza “per la socialità”, che misura meno di sei metri quadri, consente la permanenza contemporanea solo di poche persone. È stata trovata completamente spoglia, con una coperta lasciata a terra per sedersi o per pregare, e le pareti appena ritinteggiate. Inoltre, il personale medico ha segnalato la temperatura molto alta della sezione nei mesi estivi nel lato esposto al sole e privo di ogni riparo. Il Garante nazionale sottolinea di come questo degrado sia incompatibile con il discorso della prevenzione alla cosiddetta “radicalizzazione” e di come queste sezioni rischiano di subire censure in ambito internazionale.
INFERMERIE E SPAZI ALL’APERTO NON CONFORMI. Sempre nel carcere di Sassari i locali sanitari appaiono al di sotto di qualsivoglia standard e c’è una ricorrente presenza di blatte. In quasi tutte le carceri sarde gli spazi all’aperto per l’esercizio fisico sono risultati essere spesso dei semplici cubi di cemento aperti in alto, privi di ogni attrezzatura, spesso con i bagni malfunzionanti. Ad esempio c’è il carcere di Massama dove le quattro aree per i passeggi della sezione misurano 4m x 2m e sono prive di tettoie per ripararsi dal sole o dalla pioggia. Segnalato anche il problema del mancato rilascio o il rinnovo dei documenti che scadono durante il periodo di detenzione. “La conseguenza – si legge nel rapporto – è che in tal modo, paradossalmente, il carcere si trasforma in un’istituzione che produce ’ irregolari’ e ’ irregolarità’: si entra con il permesso di soggiorno e si esce senza”. Nella sezione femminile della Casa circondariale di Sassari- Bancali, ad esempio, diverse donne hanno espresso preoccupazione alla delegazione per lo scadere a breve del permesso di soggiorno, senza che gli operatori – a quanto dichiarato – si fossero attivati, mentre nell’Istituto di Cagliari Uta le persone detenute hanno lamentato l’impossibilità di ottenere il Codice fiscale dall’Agenzia delle entrate.
· La difficile vita in cella delle 2600 detenute italiane.
La difficile vita in cella delle 2600 detenute italiane. Analisi di Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, su dati del ministero della Giustizia in occasione della Giornata internazionale dedicata alle donne, scrive Damiano Aliprandi il 7 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Sono oltre 2.600 le donne che passeranno la festa dell’8 marzo in una cella delle carceri italiane e fra di loro ci sono 49 mamme con 53 bambini al seguito». È quanto emerge da un’analisi di Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, su dati del ministero della Giustizia in occasione della Giornata internazionale dedicata alle donne di domani. «Su un totale di 60.348 detenuti – spiega Uecoop – le “quote rosa” rappresentano poco più del 4% e sono concentrate principalmente in Lombardia, Campania e Lazio». Rispetto ai detenuti maschi, rileva Uecoop, «le donne vivono una situazione più delicata sia, spesso, per la gestione dei rapporti con la famiglia sia per i legami con i figli dentro e fuori il carcere, con problemi aggravati per le detenute straniere». Inoltre, si sottolinea nell’analisi, «una volta scontata la pena e uscite dal carcere esistono difficoltà di reinserimento con una dinamica che aumenta il rischio di recidive criminali». Per questo, secondo Uecoop, «è necessario potenziare tutti quei progetti di reinserimento e di percorsi professionali che permettono ai detenuti di provare a ricostruirsi un futuro e una vita nella legalità sia da soli sia magari aggregati in cooperative. Orticoltura, sartoria e ristorazione sono i settori dove più frequentemente le detenute compiono percorsi di professionalizzazione». In questi anni «le donne – conclude Uecoop – nelle diverse iniziative nelle quali sono state coinvolte hanno saputo mostrare grandi capacità organizzative che, se indirizzate nella giusta direzione, possono dare un contributo importante alla crescita della società». La detenzione femminile è stato un aspetto, soprattutto nel passato, molto trascurato. Nella società liberanon è corretto – riferendosi alle donne – parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega molto bene l’ultimo rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché «il carcere – si legge nel rapporto – è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi, con regole definite attorno a tale pensiero e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere». Alcuni anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato all’interno della sua struttura organizzativa un apposito settore dedicato alla riflessione sul tema della detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia in anni recenti e purtroppo il Garante nazionale si è trovato di fronte ad alcune situazioni limite in cui, per esempio, quattro donne erano ristrette in un Istituto di ben più di centocinquanta uomini. Ma qualche passo in avanti è stato fatto. L’ingresso, fondamentale, di figure femminili nel personale, anche con ruoli di direzione e di comando della Polizia penitenziaria ha avuto un impatto importante nel percorso verso una nuova e migliore attenzione al tema, anche per i suoi riflessi sulla detenzione in generale. Ma «ancora molta strada deve essere fatta – si legge nel rapporto del Garante – perché ovunque il punto di vista femminile sia colto come fattore significativo per ripensare il carcere nel suo complesso e la sua quotidiana gestione, superando antiche maschiliste impostazioni». Non a caso, si sottolinea, che mai una donna è stata a capo dell’Amministrazione penitenziaria.
· Quella pena doppia per i detenuti disabili.
Quella pena doppia per i detenuti disabili. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, le persone detenute con disabilità fisica rappresentano la seconda criticità del carcere, scrive Damiano Aliprandi il 20 gennaio 2019 su "Il Dubbio". La vicenda della morte nel carcere di Salerno di un detenuto in sedia a rotelle affetto da gravi patologie mette in luce anche un altro aspetto sanitario del carcere. Ovvero la disabilità. La vita all’interno di un penitenziario non è facile, ma quella dei detenuti disabili è una vera e propria doppia pena a cui contribuiscono barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, carenza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri, e strutture esterne in grado di fornire loro la necessaria assistenza in caso di concessione di misure alternative alla detenzione. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, le persone detenute con disabilità fisica rappresentano la seconda rilevante criticità. Dalle visite di monitoraggio si è evinto l’assoluta inadeguatezza delle carceri italiane ad ospitare persone disabili. L’edilizia penitenziaria certamente non agevola, le barriere architettoniche e la mancanza di celle attrezzate che consentano la mobilità sono la regola, spesso occorre affidarsi alla solidarietà tra detenuti e con il personale. Appena il 30% delle carceri visitate ha spazi adeguati e pensati per accogliere detenuti disabili, negli altri casi la disabilità diventa l’ennesimo ostacolo ad una vita detentiva degna. Il diritto alla salute, teoricamente, dovrebbe prevalere sulla punizione carceraria. Eppure accade, non di rado, che il Tribunale di Sorveglianza respinge le istanze di scarcerazione, anche di fronte a condizioni cliniche oggettivamente gravi. E allora i detenuti disabili si ritrovano a dover scontare la propria condanna in condizioni precarie, aggravando la propria salute. Per far fronte a questi problemi, e alle condanne della corte europea di Strasburgo che ha condannato l’Italia per ben quattro volte per problemi legati alle particolari esigenze dei detenuti con disabilità (Sentenza Scoppola), il Dap aveva emanato una circolare nella quale detta le linee guida per riformare ed adeguare tutti gli istituti penitenziari in maniera tale da far rispettare i diritti delle persone con disabilità recluse. Gli interventi migliorativi prevedevano l’abbattimento di barriere architettoniche, la realizzazione di percorsi e varchi per gli spostamenti verticali e orizzontali, adeguatamente dimensionati e attrezzati per garantire l’accessibilità ai locali frequentati da detenuti e/ o operatori disabili, nonché ambienti con servizi igienici dedicati e una camera di pernottamento adeguata per ogni circuito. Secondo quanto indicato dal Dap laddove non siano disponibili ambienti adeguatamente attrezzati, dovrà essere verificata la presenza di luoghi idonei alle esigenze del disabile nell’istituto più vicino, così garantendo anche il principio della territorialità della pena. Altra indicazione sono l’attuazione dei progetti di caregivers, ossia i corsi che vengono effettuati per dare le competenze ai detenuti per svolgere il ruolo di “badante” per i compagni di cella con problemi di disabilità fisica. Però rimane il dilemma di fondo: il carcere è un ambiente adatto per far espiare la pena a un disabile, oppure c’è la necessità di trovare una misura punitiva e rieducativa diversa?
· Quelle celle lisce a Bancali nascoste alla visita del Garante.
Quelle celle lisce a Bancali nascoste alla visita del Garante. Il controllo del registro dei cambi turno ha mostrato l’utilizzo recente delle stanze, scrive Damiano Aliprandi il 22 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Uso sistematico dell’isolamento preventivo e utilizzo di stanze punitive riconducibili alle cosiddette “celle lisce”. Nel rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà in merito alla visita delle carceri sarde, si fa luce anche sull’utilizzo delle celle di isolamento ( più volte stigmatizzate dal Garante per il facile ricorso e condizione in cui talvolta accadono eventi drammatici), in maniera particolare al carcere di Sassari - Bancali dove raccomanda con urgenza l’abolizione della collocazione in una stanza di isolamento del letto fissato al pavimento e distanziato dalle pareti, che così permette il controllo della persona ristretta dallo spioncino della porta blindata. «Tale collocazione – si legge nel rapporto – priva di un proprio spazio, quantunque limitato, e lo rende un luogo di mera disponibilità del proprio corpo al controllo di chi vigila». La sezione di isolamento del carcere di Bancali è stata trovata in deprecabili condizioni, con molte celle poste fuori servizio nei giorni immediatamente precedenti la visita se non nel giorno stesso. Secondo quanto riferito alla delegazione del Garante dalle persone detenute, i blindi delle stanze restavano chiusi per l’intera giornata. Le stanze però non risultavano tutte uguali e due di esse, in particolare, hanno suscitato perplessità: la n. 3 e la n. 5. Quest’ultima, si legge sempre nel rapporto, era dotata solo di un letto fissato al centro della stanza, di fronte alla porta di ingresso e osservabile dallo spioncino, riconducibile a una “cella liscia”. Simile era anche la stanza n. 3, sempre con il letto fissato davanti alla porta. Queste due stanze e la n. 4 erano segnalate come non agibili, ma i cartelli sopra le porte delle stanze n. 3 e n. 5 sembravano essere stati appena apposti. Oltre a conferme ricevute da più fonti, il controllo del Registro dei cambi di turno del personale di Polizia penitenziaria ha mostrato proprio che le stanze n. 3 e 5 erano state di recente utilizzate, contrariamente a quanto riferito alla delegazione. A tale proposito il Garante nazionale stigmatizza il comportamento di quegli operatori dell’Istituto che alla richiesta del Registro relativamente all’ultimo mese hanno consegnato soltanto gli ultimi giorni del mese, quando effettivamente le stanze erano state chiuse. Solo a una reiterata richiesta è stata consegnata copia completa dell’ultimo mese, da cui, per l’appunto, risultava il pieno utilizzo delle stanze presentate invece come fuori uso da tempo. Le condizioni generali delle celle di isolamento, secondo il Garante, non sono a norma anche per un possibile effetto negativo e delle possibili conseguenze sull’equilibrio psichico della persona, «peraltro già in una situazione peculiare, quale è quella dell’isolamento». Ad esempio, nella stanza numero 6 che ospitava V. V., trasferito dalla Casa di reclusione di Roma-Rebibbia, gli unici arredi erano un letto con materasso, lenzuola e coperte e una bilancetta senza sportelli. Nessuno sgabello e nessun tavolo: per mangiare si appoggiava al letto. Poi c’era la stanza n. 7 che era ammobiliata solo con un letto dotato di materasso ma privo di lenzuola (c’era solo una federa) e con una coperta sopra. Nella stanza era ospitato I. P. e al momento della vista, questa persona non era nella sua stanza perché trasportata presso la comunità “Aquilone” di Flumeni di Quartu in provincia di Cagliari, distante 173 km con un viaggio senza interruzioni in un furgone con cella interna. La storia è emblematica. La comunità non era stata informata del suo arrivo, né tantomeno aveva dato la disponibilità ad accoglierlo, per cui il Garante nazionale ha potuto riscontrare che lo stesso è stato riportato la sera stessa – nelle stesse condizioni di trasporto – indietro nell’Istituto. Come se non bastasse, il Garante ha riscontrato una prassi particolare. Ovvero l’isolamento precauzionale che può durare anche 10 giorni fino all’attesa della decisione del consiglio di disciplina: accade quindi che al detenuto poi gli vengono assegnati altri 10 giorni di punizione definitiva. Il garante sottolinea che un uso sistematico della misura disciplinare cautelare viola il senso della norma che prevede che l’isolamento in via precauzionale sia adottato sempre e solo come misura eccezionale.
· Carcere: Tabagismo e Psicologia.
Tabagismo in carcere, dietro le sbarre si fuma di più e la sigaretta fa sentire liberi. Antigone e Sism lanciano l’allarme sui pericoli del tabagismo. Damiano Aliprandi il 28 Agosto 2019 su Il Dubbio. Continua l’approfondimento dell’associazione Antigone, in collaborazione con il Segretariato Italiano Studenti Medicina (Sism), sulla conoscenza sulle patologie presenti in carcere e sulle loro cause. Dopo aver precedentemente approfondito le malattie infettive, questa volta tocca al tabagismo. Antigone spiega che l’uso di sigarette in carcere è maggiore che all’esterno, perché danno un senso di libertà, perché aiutano la socialità, per la situazione di dipendenza di tanti detenuti. Eppure in tanti vorrebbero smettere. Cosa che farebbe bene sia a chi fuma sia ai tanti, compreso il personale, che subiscono gli effetti del fumo passivo in ambienti spesso poco aerati. Secondo quanto scrive Elio Gentilini dell’associazione Antigone, Il tabagismo all’interno dei luoghi di detenzione è un problema di salute pubblica di primo piano, ma nonostante ciò gli studi nelle carceri italiane sono pochi. Tra questi, Sempre secondo Antigone, meritano di essere citati “Il monitoraggio della salute dei detenuti nel carcere di Trento” e “L’indagine PASSI in carcere”, approvata dall’Istituto Superiore di Sanità. Dalla prima ricerca è emerso come nel carcere trentino il 72% della popolazione carceraria sia fumatrice: un dato in linea, se non superiore, a quelli rilevati dalla letteratura medica straniera. Da un’altra ricerca, consultabile nella “Relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia- Romagna” ( 5), emerge che il 27% dei nuovi ingressi in carcere negli anni 2015– 2017 è rappresentato da fumatori. Sono numeri che probabilmente sottostimano l’effettiva portata del fenomeno. Il fumo è spesso percepito come qualcosa di normale, con la conseguenza che spesso il detenuto- paziente non si cura di citarlo quando si fa il quadro sulla sua situazione medica, né il medico lo riporta sempre nella raccolta anamnestica di routine. All’interno del carcere, poi, è considerato ancora più normale. Tre sono le cause principali dell’ampia diffusione del tabagismo nelle carceri: una psicologica, l’altra sociale, e la terza direttamente riconducibile al fenomeno delle dipendenze. Le cause di natura psicologica possono andare oltre il semplice stress della vita ristretta. Sempre Gentilini di Antigone spiega che la sigaretta può rappresentare in effetti uno dei pochi momenti di libertà all’interno di un ambiente fortemente costrittivo. Così come, fumarsi una sigaretta, è una risposta al desiderio di socialità. E poi ci sono i tossicodipendenti e tale dipendenza porta inevitabilmente un alto rischio di diventare fumatori. Che fare? Antigone fa l’esempio del carcere di Sollicciano, quando, nel 2016, sono state introdotte le sigarette elettroniche. Attraverso il “sopravvitto”, cioè l’acquisto di beni di consumo in carcere, è divenuto stato possibile sostituire le sigarette tradizionali con quelle elettroniche. «Se il carcere, come prevede la Costituzione, è legittimo solo laddove contribuisce al reinserimento delle persone detenute – scrive Antigone nel suo secondo approfondimento sulle patologie in carcere –, non è possibile ignorare le condizioni di chi vive al suo interno, in primis quelle legate al diritto alla salute. Gli obiettivi di salute pubblica riguardanti la popolazione detenuta devono coincidere anche nelle pratiche con quelli che riguardano cittadini in stato di libertà, avendo entrambi pari dignità rispetto al bisogno di cura».
Psicologici in carcere: cinque ore all’anno di colloqui per ogni detenuto. Damiano Aliprandi il 28 Agosto 2019 su Il Dubbio. Si tratta di un ruolo fondamentale soprattutto per la prevenzione dei suicidi. Gli educatori, figura fondamentale nel progetto educativo e di reintegrazione, sono soltanto 931 su 60.254 reclusi: uno ogni 65. Il carcere è, per definizione, un luogo di espiazione di una pena, un ambiente nel quale gli individui reclusi sono temporaneamente privati della propria libertà per aver commesso un reato, anche gravissimo. Da un punto di vista umano e costituzionale il carcere non deve essere però un luogo di sofferenza, di rabbia o di rassegnazione. Deve essere una realtà nella quale chi vi è recluso possa comprendere la gravità dell’errore commesso e apprendere quel tessuto di regole e di norme comportamentali la cui non osservanza l’ha portato a commettere il reato per il quale è stato condannato. Alla prova dei fatti tutto ciò risulta spesso difficile, utopico, quasi inattuabile. Così, come ha osservato l’autorità del Garante nazionale delle persone private delle libertà nell’ultima relazione al Parlamento, dal carcere poi bisogna uscire, ma rimane il dato preoccupante che migliaia di detenuti permangono nei penitenziari, nonostante la possibilità di poter accedere alle misure alternative. Tra le varie criticità che affliggono il sistema penitenziario, c’è l’enorme carenza di due figure fondamentali. Una è quella dell’educatore. È una particolare figura professionale che racchiude in sé funzioni diverse, e che con il suo nome richiama l’obiettivo ultimo di chi lavora in carcere. Ha il compito di instaurare e mantenere vivo un rapporto umano con il detenuto, in un contesto che tende a spersonalizzare ogni aspetto della vita quotidiana. Il suo lavoro è rivolto al recupero della persona, partendo dalla valorizzazione delle sue risorse individuali. Insieme al detenuto e ad altre figure professionali che operano in carcere, l’educatore costruisce un progetto educativo e di reintegrazione dell’individuo nel contesto sociale, coinvolgendo i servizi pubblici, le agenzie territoriali, le associazioni e le singole persone che si rendono disponibili. Questi progetti possono essere realizzati non solo all’interno del carcere, ma a anche attraverso strumenti legislativi che consentono al detenuto di scontare la sua pena all’esterno dell’istituto, in famiglia o in altre situazioni di vita. E, sempre a proposito delle misure alternative, Il lavoro dell’educatore mira anche a valutare la possibilità per il detenuto di scontare la pena fuori dal carcere. Ma la realtà è che tale figura professionale è carente. Attualmente sono 931 gli educatori impiegati nelle carceri italiane e se consideriamo che i detenuti – al 31 luglio – sono 60.254, il rapporto è un educatore ogni 65 detenuti. L’altra figura professionale carente è quella dello psicologo. Fondamentale anche per la prevenzione dei suicidi. Infatti ha il compito di effettuare colloqui di sostegno ( per situazioni di disagio o sofferenza, malessere per difficoltà di rapporto con gli altri, ecc.), di diagnosi, valutazione, e motivazione ( quando è in progetto un inserimento in Comunità Terapeutica come programma riabilitativo alternativo alla carcerazione o successivo alla stessa); curano i rapporti con i Sert competenti territorialmente per i pazienti detenuti; collaborano con gli operatori delle Comunità terapeutiche e con le Associazioni del privato/ sociale per progetti rivolti ai tossicodipendenti in carico all’Unità Operativa. Figura, come detto, carente. Sono 600 in tutto e in media fanno 30 ore al mese. Il dato in rapporto con la popolazione detenuta è presto detto: meno di 5 ore all’anno per detenuto.
· I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati.
I sanitari nelle carceri: pochi, precari e sottopagati. La denuncia della federazione italiana medici di medicina generale e di medicina penitenziaria. «Ce n’è 1 ogni 315 detenuti, la nostra richiesta è di uno ogni 150», scrive Damiano Aliprandi il 21 Marzo 2019 su Il Dubbio. Pochi medici in carcere e il 70 percento di loro sono precari e sottopagati. Il diritto alla salute in carcere, quindi, non è garantito come dovrebbe. La denuncia è arrivata dal coordinatore nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale Fimmg Medicina Penitenziaria Franco Alberti, che avverte: «Mancano medici nelle carceri, nonostante passate circolari del ministero della Giustizia stabilissero la presenza di 1 medico ogni 200 detenuti, e la situazione è grave». Si parla anche del sovraffollamento come aggravante. «I detenuti sono oggi circa 65.000, ben più dei 40- 45.000 che potrebbero essere ospitati nelle strutture carcerarie. C’è una situazione nota di sovraffollamento alla quale – spiega Alberti – è davvero difficile fare fronte. I medici che lavorano nelle carceri sono infatti 1.000, ma va detto che circa il 70% di questi è rappresentato da medici precari e sottopagati». Ovviamente, il numero dei medici varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media, sottolinea, «oggi possiamo dire che ci sia un medico per ogni 315 detenuti. La nostra richiesta è che ve ne sia uno almeno ogni 150. I medici di base, che garantiscono l’assistenza ambulatoriale per 3- 4 ore al giorno, secondo il fabbisogno da noi calcolato dovrebbero essere 1.044; i medici di guardia, che fanno assistenza h24 a turno, dovrebbero invece essere 1.588, e va detto che attualmente in varie carceri i medici di guardia mancano del tutto». Quando si parla di diritto alla salute in carcere bisogna tenere presenti due profili: il diritto a mantenere una buona condizione di salute per coloro che sono sani, e il diritto alla salute per i detenuti malati, come i tossicodipendenti o i sieropositivi, attraverso misure che garantiscano il diritto all’informazione sul proprio stato di salute, sui trattamenti che il medico vuole effettuare e il diritto a cure garantite. Ma sia nell’un senso sia nell’altro siamo sempre di fronte ad un diritto fondamentale, che, per tale motivo, seppure sotto profili diversi, attiene alla dignità della persona umana e sollecita i poteri statuali a garantirlo mediante il massimo degli sforzi possibili. L’Ordinamento penitenziario pertanto contempla alcune disposizioni stabilite con la finalità di salvaguardare il diritto alla salute, tutelato, in via generale e primaria, dall’art. 32 della Costituzione, che implica il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la sua tutela ed è garantito ad ogni persona, e, in via indiretta e con specifico riferimento all’esecuzione penale, dall’art. 27 co. 3 della Costituzione, che vieta l’adozione di pratiche contrarie al senso di umanità nel corso dell’esecuzione delle pene. Purtroppo si muore in cella per mancanza di una adeguata assistenza sanitaria e, non di rado, la colpa cade sugli operatori sanitari che cercano di fare il possibile. Oppure, al contrario, anche per sottovalutazione del problema e, invece di una terapia adeguata. A questo si aggiunge il ricorso al carcere, nonostante l’incompatibilità del detenuto con l’ambiente carcerario.
· Vitto e sopravvitto.
Detenuti costretti al sopravvitto che costa anche il doppio. Damiano Aliprandi il 25 Agosto 2019 su Il Dubbio. I detenuti sono costretti a ricorrere al sopravvitto. I prodotti in vendita sono gestiti di solito dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce la cucina. In diversi istituti penitenziari rimane ancor il problema che ogni bene del sopravvitto costa in media il doppio del normale acquistabile in un supermercato. Ma che cos’è? Per orientarsi dentro il carcere va detto che il suo ingresso comporta il ritiro, durante la perquisizione in casellario, del denaro e degli oggetti di valore, come collane, orologi, nonché di quelli non consentiti. Quanto prelevato alla persona viene depositato e custodito in cassaforte. Quindi la quantità di denaro posseduta al momento dell’ingresso è trascritta su di un libretto di conto corrente, che terrà traccia di tutte le future voci di entrata e uscita di denaro, ricevute o effettuate dalla persona reclusa. È utilizzando il denaro depositato sul libretto di conto corrente che la persona detenuta può procedere ad effettuare gli acquisti di beni all’interno dell’istituto, il cosiddetto sopravvitto. In tutte le sezioni dei padiglioni è infatti affisso in bacheca, il modello 72, un elenco di prodotti ( generi alimentari, detersivi, cartoleria, sigarette, etc.) che possono essere acquistati presso l’impresa all’interno dell’istituto. La cifra spesa, sarà addebitata sul conto corrente personale. Per la richiesta dei generi non elencati dal modello 72 è necessaria l’autorizzazione del Direttore dell’istituto il quale darà parere favorevole solo per giustificati motivi. Il problema del ricorso al sopravvitto, come è emerso da alcune sentenze del Tar che hanno sospeso alcune gare relativo all’affidamento del servizio di mantenimento dei detenuti e internati degli istituti penitenziari, è da ricercarsi nel fatto che con tre euro e 90 viene garantita la colazione, pranzo e cena a ciascun detenuto. Viene da sé immaginare che nessuno di loro riesca a sfamarsi con quello che offre lo Stato. Motivo per il quale i detenuti sono costretti a ricorrere al cosiddetto “sopravvitto”. I prodotti in vendita sono gestiti di solito dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce anche i generi alimentari per la cucina. Il problema è che i prodotti in vendita hanno cifre alte e non tutti i detenuti hanno la possibilità di acquistarli. Da anni i detenuti segnalano che i prezzi sono troppo cari, e da anni i volontari che provano a fare una verifica nei supermercati della zona hanno verificato che i prezzi interni al carcere sono uguali a quelli dei negozi. Apparentemente quindi sembrerebbe che il costo del "sopravvitto" rispetti l’ordinamento penitenziario, il quale recita: «I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’Istituto». Ma non è esattamente così. La regola dell’ordinamento è vecchia e andrebbe aggiornata. Era l’epoca in cui non esistevano i discount, e i prezzi erano accessibili. Oggi, soprattutto con la crisi economica, molte persone non possono permettersi di fare spesa nei negozietti e quindi ricorrono ai discount, oppure fanno acquisti nei mercati a Km zero dove hanno tagliato i costi del trasporto e distribuzione. Ma per i detenuti non è così. Per loro vale la dittatura del prezzo unico.
Petto di pollo scaduto da tre mesi in vendita ai detenuti di Bologna. Damiano Aliprandi il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. Gli agenti hanno avvisato i reclusi, c’è stato un esposto alla procura e la ditta ha ritirato la merce. Nel carcere bolognese della Dozza, i detenuti si sono ritrovati ad acquistare alimenti scaduti da mesi. Parliamo del cosiddetto sopravvitto, gli alimenti e beni di necessità da acquistare negli empori interni agli istituti. A denunciare l’incredibile situazione è Nicola D’Amore, il segretario del sindacato della polizia penitenziaria Sinappe. Sono già due gli episodi riscontrati. «Qualche giorno fa – spiega D’Amore – è stata trovata una partita di carne bianca scaduta da due mesi, così come, a novembre, è accaduto un episodio analogo con delle merendine». Il segretario del Sinappe, sottolinea come questi fatti gravissimi, «non fanno altro che alimentare il malcontento tra i detenuti della casa circondariale, già costretti a condividere celle sovraffollate e, in questi mesi estivi, di caldo insopportabile». D’altronde, a proposito del caldo, sempre lo stesso sindacato ha denunciato che, in mancanza di ventilatori a batteria, i detenuti utilizzano recipienti pieni di acqua per immergere i piedi o si bagnano la fronte con pezze umide. Una situazione che si ripercuote anche agli agenti penitenziari. Ma ritorniamo ai generi alimentari scaduti del sopravvitto. Ad accorgersi delle fettine di pollo scadute da maggio, è stato un detenuto quando le acquistate e si è rivolto agli agenti penitenziari incaricati al sopravvitto, i quali hanno subito informato i detenuti della Dozza a non acquistarle. La ditta appaltatrice, di conseguenza, ha ritirato la partita marcia. Subito è scattata la protesta che si è tradotta in un esposto alla procura e per conoscenza alla magistratura di sorveglianza, con oltre cento firme. Il Sinappe ricorda come il servizio di sopravvitto viene appaltato a ditte esterne ed è la direzione del carcere che dovrebbe vigilare. Il segretario Nicola D’Amore denuncia che ciò accade perché le ditte potrebbero puntare la risparmio, magari acquistando partite di alimenti vicini alla data di scadenza, pagandoli quindi di meno. Ma è solo un sospetto e sarà eventualmente la procura ha vederci chiaro. Resta però il dato oggettivo che è già il secondo episodio, il primo a novembre quando furono trovate le merendine scadute e venne informata Antigone perché in quel momento l’associazione stava effettuando una visita. Ma non è la prima volta che si verificano problemi simili. Sempre alla Dozza, fino a qualche tempo fa, c’era stato un problema circa la gestione del caseificio “Liberiamo i sapori”, inaugurato lo scorso anno. Tale attività è stata inaugurata grazie alla Legge Smuraglia che concede alle imprese, che investono nelle strutture penitenziarie, o che assumono detenuti, dei benefit fiscali. Il Sinappe ha spiegato che tale progetto per la realizzazione del suddetto caseificio è stato realizzato anche grazie al cospicuo investimento del Ministero della Giustizia. Ma nello specifico delle problematiche che caratterizzano il lavoro dei poliziotti, il Sinappe aveva denunciato che spessissimo il casaro ( persona non detenuta) lavora da solo, senza detenuti, e il personale di Polizia penitenziaria era costretto comunque a vigilare sulla attività lavorativa del medesimo. Secondo quanto ha rivelato il sindacato, l’impresa accede in Istituto, spesso, senza dare la preventiva comunicazione per email ( come sarebbe da prassi), che consentirebbe la giusta programmazione del servizio. A causa di ciò, il personale era costretto ogni volta a fermarsi oltre l’orario di lavoro, e sovente a coprire più posti di servizio. Ma non solo. Il personale di Polizia penitenziaria era chiamato a gestire e contenere gli effetti del malcontento crescente dei detenuti che lamentavano da mesi la mancata firma del contratto di lavoro, il mancato pagamento degli stipendi, l’effettuazione di numerose ore di straordinario. «Se tutto ciò fosse rispondente al vero – ha scritto il Sinappe in una lettera rivolta alla direzione del carcere -, ci verrebbe da chiederci come sia possibile che all’interno di una struttura detentiva, istituzione statale e presidio di legalità, possano tollerarsi simili gravissime inadempienze» . Ora l’azienda è fallita, e il Sinappe si augura che «si possa immediatamente voltare pagina rispetto a tale esperienza e avviare nuove attività lavorative per le persone detenute, tali da poter interessare un numero sempre maggiore di reclusi e rasserenare gli animi, a volte, fin troppo agitati, che si riscontrano, soprattutto, nelle sezioni detentive».
· Il carcere dove sono condannati anche a vivere senz’acqua.
Il carcere dove sono condannati anche a vivere senz’acqua. L’istituto di Santa Maria Capua Vetere ospita mille reclusi. Costruito nel 1996, è senza condotta idrica e si utilizzano dei pozzi ma nel periodo estivo c’è carenza. Damiano Aliprandi il 14 giugno 2019 su Il Dubbio. Anche quest’estate i detenuti si appresteranno a vivere senza acqua. Oramai è diventata una pena perpetua per gli oltre mille reclusi del carcere di Santa Maria Capua Vetere ( Caserta). Da una recente visita dell’associazione Antigone nel carcere risulta, infatti, che nonostante i fondi messi a disposizione per i lavori di allaccio alla rete idrica cittadina, dentro e fuori le mura, "non si prevedono – rivela l’associazione – tempi brevi" per la fine dei lavori. L’acqua per gli usi quotidiani – come già denunciato da Il Dubbio
negli anni passati– viene fornita dai pozzi e nel periodo estivo la falda si abbassa a causa della siccità creando non pochi problemi. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere, attivo dal 1996 e ampliato con l’apertura ad ottobre del 2013 di un nuovo padiglione, è stato costruito senza una condotta idrica. Questo è il motivo della poca disponibilità di acqua. Per ovviare a tale anomala situazione, che, soprattutto nei mesi estivi, crea una vera e propria emergenza all’interno dell’istituto penitenziario, la Regione Campania, con delibera della G. R. N. 142 del 5.4.2016, aveva approvato lo “schema di Protocollo di Intesa per la costruzione di una condotta idrica a servizio della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere e delle aule Bunker”, istituendo un apposito capitolo di spesa nel bilancio di previsione della Regione Campania per l’esercizio finanziario 2016, per €. 2.190.000,00, cofinanziati dall’Unione europea. Ma l’iter risulta tuttora troppo lento perché ancora non è stato indetta la gara. Solo il 12 dicembre 2016 è stato approvato il bando di gara per la progettazione dell’opera ed individuata la copertura di spesa. Ma la gara prevede cinque diverse fasi, alcune pubbliche ( le prime due e le ultime due) ed una non pubblica ( attribuzione dei punteggi alle singole offerte). Inoltre prevede dei definiti tempi di durata, considerato che espressamente il bando di gara stabilisce che le offerte pervenute saranno ritenute vincolanti ( per l’offerente) per un periodo di 180 giorni, dalla prima seduta di gara: dopo lo spirare del termine di 180 giorni, l’offerente potrà svincolarsi dall’offerta in caso di mancata aggiudicazione della gara. Ma cosa è accaduto? Le attività della commissione di gara hanno conosciuto inspiegabili e patologici rallentamenti che non hanno consentito, allo stato, di determinare l’aggiudicazione della progettazione dell’opera – dopo la prima seduta del 31 gennaio di due anni fa, le operazioni di gara sono state rinviate al sette febbraio dello stesso anno e, dopo un rinvio a data da destinarsi per consentire l’integrazione della documentazione a taluni concorrenti -, al 13 giugno, data della terza seduta. Da allora, quindi nel 2017, ultimate le due fasi pubbliche, ancora non è stata avviata la terza fase non pubblica.
· Di cella si muore.
Solitudine, disagi e sofferenze dietro i tanti suicidi in carcere. Damiano Aliprandi il 28 Novembre 2019 su Il Dubbio. Dall’inizio dell’anno sono 45 I casi su un totale di 120 morti. Martedì un detenuto, dopo alcuni tentativi falliti, si è tolto la vita a Monza. Domenica a Ivrea si è impiccato un detenuto, in cella da febbraio per una rapina del 2006. Due suicidi in cella a pochi giorni di distanza. L’ultimo martedì scorso nel carcere di Monza, ma non è stato un gesto inaspettato. Si chiamava Mario Pagano, 46enne, da poco arrestato perché aveva preso a martellate la moglie e dopo il gesto aveva tentato di uccidersi buttandosi dal balcone. Al momento del fermo era stato trasferito nel reparto Psichiatria. Qui aveva cercato un’altra volta di togliersi la vita. Dopo la convalida dell’arresto, il magistrato aveva disposto il suo trasferimento nel penitenziario monzese, attrezzato con un reparto dedicato a detenuti con problemi psichici. Ed è qui che martedì mattina è stato rinvenuto privo di vita. Stando alle informazioni diramate dall’Agenzia regionale emergenza urgenza, il personale medico e paramedico prontamente intervenuto all’interno del carcere, ha tentato la rianimazione cardiopolmonare dell’uomo, prima di dichiararne il sopravvenuto decesso. Due giorni prima, domenica pomeriggio, invece è stata la volta di un detenuto, 35enne, recluso da febbraio nel carcere di Ivrea dove stava scontando una pena definitiva a circa tre anni. Lì, secondo quanto è trapelato, si sarebbe suicidato tramite impiccagione. L’uomo condivideva la cella con il fratello, perché assieme a lui era stato condannato per una rapina commessa nel 2006, quando aveva solo 22 anni. Giovedì 21 novembre, invece, si è impiccato nel carcere di Bologna un romeno di 27 anni, Costantin Fiti, il quale era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di un pensionato di 73 nel corso di una rapina. Parliamo del secondo suicidio nel corso del 2019 nel carcere di Bologna nel giro di qualche mese. Quella volta, a giugno, si era trattato della tragica vicenda personale di Stefano Monti, ancora in attesa di giudizio, accusato di omicidio che secondo i PM avrebbe commesso nel 1999. Si era sempre proclamato innocente, ma Monti aveva deciso per sé prima che lo facessero i giudici. Aveva atteso che si aprissero le celle della Dozza e che tutti i detenuti uscissero “al passeggio”, come si dice in carcere. Poi era andato nel bagno della sua cella e si era impiccato con i lacci delle scarpe. Tante, troppe morti in carcere. Dall’inizio dell’anno siamo giunti a 45 suicidi su un totale di 120 morti. Ce ne sarebbero stati molti di più, ma fortunatamente vengono sventati grazie all’intervento degli agenti penitenziari. Un tentativo di suicidio impressionante è avvenuto tre giorni fa al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Un detenuto di 40 anni aveva provato a togliersi la vita bevendo della candeggina, ma fortunatamente è stato soccorso dagli agenti penitenziari ed è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Moscati di Aversa. Tanti sono i motivi di chi arriva a compiere il gesto del suicidio, alcuni casi anche prevedibili come quelli che hanno problemi psichiatrici. Ma non solo. Nell’epoca del mantra della “certezza della pena”, si è perso di vista che in carcere le persone ci vanno per davvero, anche per piccolissimi reati. Buttandoli in una cella non siamo in grado di intercettarne la disperazione. Infatti, nonostante che il numero dei reati sia in calo, oramai i detenuti hanno superato la soglia delle 60mila unità. Nessuna attenzione individuale può essere loro garantita dal sistema e le vite umane continueranno a sfuggire dalle maglie. Come per il recente del suicidio avvenuto nel carcere di Viterbo. Parliamo di Mohamed Ataif, di soli 24 anni. Una condanna a un anno di carcere. Data la scarsa entità della pena, Mohamed in carcere non ci sarebbe potuto proprio entrare, ma non avendo un domicilio il giudice ha scelto per la detenzione. Sarebbe tornato libero tra pochi mesi. Ha deciso, per la disperazione, di uscire prima. Ma in una bara. Mohamed non aveva ricevuto né telefonate né fatto colloqui. Condannato alla solitudine in carcere, fuori dal perimetro della prigione c’erano persone che avrebbero voluto parlargli e fargli visita. Ma per difficoltà burocratiche gli era stato impedito dalle difficoltà burocratiche. Quindi, tanti sono i motivi per il quale un detenuto si suicida e quindi tanti sono i rimedi di prevenzione che il sistema penitenziario potrebbe adottare. Proprio per questo l’associazione Antigone aveva inviato a tutti i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato una proposta di legge volta a prevenire i suicidi in carcere. Uno dei rimedi proposti è proprio il potenziamento dei contatti con gli affetti esterni. L’affettività che rientrava anche in uno dei decreti della riforma dell’ordinamento penitenziario: purtroppo disatteso.
L’isolamento in cella che uccide: tanti i suicidi da Nord al Sud. Damiano Aliprandi il 22 Agosto 2019 su Il Dubbio. L’ultima vittima: un ragazzo iracheno di vent’anni nel carcere di Trieste. Secondo l’associazione Antigone «va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitata la solitudine forzata». La settimana scorsa è morto un ragazzo iracheno di vent’anni nel carcere di Trieste. Era uno dei ristretti in cella di isolamento in un’area dedicata a vari detenuti affetti da disagio psichico. A denunciare il tragico evento è stato Alessandro Giadrossi, il presidente della camera penale triestina che ha partecipato all’iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dal Partito Radicale. Le cause della morte sono però ancora da accertare. D’altronde, nello stesso carcere, nel mese di ottobre, si era impiccato sempre in cella di isolamento un detenuto soprannominato “Tarzan”, un uomo, 46enne, di origini bosniache e arrestato per rapina. Soffriva di problemi psichiatrici, per questo non era un tipo tranquillo e quindi punito in isolamento. Ma questo avviene nelle patrie galere del Nord, come quelle del Sud. In Sicilia c’è stato il caso di Samuele Bua. Aveva ventinove anni e si è ucciso, il 4 novembre, in una cella del carcere Pagliarelli, a Palermo. Soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione. La diagnosi di schizofrenia e turbe comportamentali aveva preceduto il riconoscimento di una invalidità all’ottanta per cento. Era stato ricoverato, in una occasione, per le ferite ai polsi che si era inflitto da solo. Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, aveva espresso indignazione con parole dure: «Ormai è routine, non fa più notizia, tanto il detenuto è considerato un rifiuto. Il ministero non penserà nemmeno di fare una ispezione, sarebbe una perdita di tempo inutile secondo qualcuno. Io dico basta, non è giusto che avvengano tanti suicidi nel carcere, qualcosa non funziona. Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? Gli psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere?». Il problema dell’isolamento come sanzione disciplinare è stato molto discusso nel passato, soprattutto in merito all’utilizzo delle cosiddette “celle lisce”. Si chiamano così perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari ( i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso, però, risulta anche deleterio visto i casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. Come denunciato da Antigone anche attraverso il recente rapporto di metà anno sullo stato delle nostre carceri, molto spesso gli atti estremi si registrano nei reparti di isolamento. Proprio allo scopo di prevenire i suicidi in carcere, Antigone ha presentato nei mesi scorsi una proposta di legge che puntasse, tra le altre cose, a una riforma complessiva del regime dell’isolamento. Secondo Antigone la prevenzione dei suicidi richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere, in sintesi, deve riprodurre la vita normale. «Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo», spiega Antigone, aggiungendo che «va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitato l’isolamento forzato dal mondo». L’associazione evidenza, appunto, che l’isolamento penitenziario fa male alla salute psichica del detenuto. «Durante l’isolamento è più frequente che ci si suicidi. Vanno posti limiti di tempo. Va abolita la norma obsoleta che prevede l’isolamento diurno per i pluri- ergastolani», conclude Antigone.
I tanti detenuti che muoiono in cella per gravi malattie. Damiano Aliprandi l'1 agosto 2019 su Il Dubbio. L’ultima vittima a Milano dove un malato terminale è deceduto tra atroci sofferenze. Giuseppe d’Oca morì a Vigevano nel 2016 nonostante un tumore diagnosticato nel 2014, per il caso di Roberto Jerinò è stata disposta la riapertura delle indagini. Purtroppo non è un caso isolato quello del detenuto piantonato in carcere nonostante avesse un tumore allo stadio terminale e poi morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano.
Il caso. Nelle patrie galere accade spesso. Questa vicenda finita nelle cronache nazionali parte dal dicembre 2018 quando Giorgio C, 58 anni, oltre a tosse e difficoltà respiratorie, accusa un dolore persistente al polmone sinistro. Il 12 aprile, una radiografia al torace evidenzia il collasso del polmone sinistro. Viene ricoverato d’urgenza al Fatebenefratelli. Due settimane dopo, la scoperta del tumore maligno, le dimissioni dall’ospedale e il ritorno in cella in attesa di una “Tac- Pet” per confermare la diagnosi. Accertamento che, viene effettuato 25 giorni dopo.
Negata l’incompatibilità con il carcere. Nel frattempo il legale Francesca Brocchi deposita alla Corte d’Appello l’istanza per valutare la compatibilità con il carcere e ottenere la sostituzione della misura cautelare, per consentirgli di potersi curare. I giudici, in assenza delle relazioni mediche, non possono decidere sulle ripetute richieste. Le sue condizioni peggiorano, ha metastasi alle ossa, non si regge in piedi. Tant’è che il legale reitera la richiesta di scarcerazione, ma la Corte d’Appello non può ancora provvedere per mancanza della documentazione clinica. Il 15 luglio viene dimesso con una diagnosi che non lascia scampo, ma tre giorni dopo viene di nuovo ricoverato nello stesso ospedale. Lì muore dopo atroci sofferenze.
Un’altra morte. Una storia che ricorda quella del detenuto Giuseppe D’Oca, malato anche lui di tumore ai polmoni, detenuto nel carcere di Vigevano. Il 2 agosto 2016 è venuto a mancare all’età di 59 anni all’ospedale di Pavia. Durante la sua permanenza in carcere, il tumore avanzava sempre di più. Già a fine 2014 si vedeva che non stava bene e i famigliari hanno fatto la richiesta di incompatibilità con il carcere, ma gli è stata negata. Da quel momento in poi è andato sempre peggiorando, dimagrendo visibilmente, non mangiando più. La Corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2015 aveva negato il trasferimento del detenuto – che scontava l’ergastolo- ad altro regime di detenzione, suggerendo l’acquisto di una dentiera, perché, nel frattempo, a causa di una piorrea il detenuto aveva perso l’intera dentatura. Era quello, secondo i magistrati, il motivo del dimagrimento. A quel punto i familiari pagarono un neurologo per effettuare una visita specialistica. Il medico aveva riscontrato che era incompatibile con il carcere. Ma niente da fare: secondo le autorità, D’Oca poteva essere curato in cella. In pochi mesi dimagrì di 40 Kg e fu ricoverato urgentemente il 28 maggio del 2016 per il suo clamoroso deperimento tanto da destare le preoccupazioni del medico di turno. Troppo tardi: dopo due mesi è morto.
Riaperte le indagini per Jerinò. C’è anche la vicenda di Roberto Jerinò – recentemente il gip ha disposto la riapertura delle indagini -, detenuto al carcere calabrese di Arghillà e morto a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. Durante la detenzione cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi. Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Roberto sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014.
Di cella si muore ancora: 25 suicidi nel 2019 tra i detenuti, 7 tra gli agenti. Damiano Aliprandi il 17 luglio 2019 su Il Dubbio. Continua la macabra conta delle vittime negli istituti penitenziari italiane. Drammatica la situzione in Campania. Il garante: «solo 95 educatori per 15 carceri ( 7.832 persone), 32 psicologi e 16 psichiatri». Di cella si muore. Il carcere continua a mietere vittime, detenuti ma anche agenti penitenziari. Una escalation senza fine quella dei suicidi. L’ultimo, in ordine cronologico, è avvenuto nel carcere campano di Secondigliano. Domenica pomeriggio, Giovanni Pontillo, un 59enne di Capodrise ( CE), si è impiccato nella sua cella del carcere napoletano. Era detenuto nel reparto Ionio, alta sicurezza del carcere, dove stava scontando una condanna in primo grado a 20 anni per spaccio internazionale di droga e associazione a delinquere. È il quinto suicidio in un carcere in Campania dall’inizio dell’anno, gli altri erano avvenuti nel carcere superaffollato di Poggioreale, al centro di una recente rivolta. La denuncia del Garante. Il Garante dei Detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha denunciato la carenza di personale adatto a occuparsi della salute mentale dei reclusi negli istituti detentivi della regione: «Ogni carcere, anche Secondigliano, ha avuto approvato e validato dall’Osservatorio regionale della sanità il Protocollo di prevenzione del rischio suicidario in istituto. Ma mancano le figure sociali di psicologi ed educatori: 95 educatori per 15 Istituti penitenziari ( 7832 detenuti), 32 psicologi e 16 psichiatri, per complessive 1428 ore mensili. In media ogni mese queste figure sociali dedicano ad ogni detenuto 10/ 11 minuti. E adesso gli psicologi devono stare anche nei consigli di disciplina», spiega il Garante. «Non si può morire in carcere e di carcere», prosegue Ciambriello. «Ogni morte violenta è un’offesa alla vita, al buon senso, alla Costituzione ed un invito, un desiderio di saperne di più sulla vita detentiva, ma anche il coraggio di dubitare delle proprie credenze in merito al carcere». Il penultimo suicidio, invece, è avvenuto nel carcere di Ferrara. Il detenuto, come accade troppo spesso, aveva problemi psichiatrici e l’ 11 luglio si è impiccato. La strage. Con l’ennesimo recente suicidio, siamo giunti a 25 persone che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Parliamo di una macabra conta senza fine, una lunga lista funebre. L’istituto penitenziario è come un luogo pieno di cappelle mortuarie e infatti le celle, tecnicamente, vengono anche chiamate “cubicoli”. D’altronde la parola “carcere” deriva anche dall’ebraico “carcar” che vuol dire, appunto, “tumulazione”. Il tema dei suicidi in carcere rimane di estrema attualità. Secondo un vecchio studio del Consiglio d’Europa, in Italia il rischio di suicidio in carcere era risultato fra i più elevati. Non solo, mentre fra la popolazione libera negli ultimi 20 anni i tassi di suicidio diminuiscono progressivamente, ciò non accade in carcere. Diversi sono i fattori e in diverse Regioni le direzioni del carcere e le Asl hanno aderito a un protocollo di intesa per prevenire i suicidi e gli atti di autolesionismo. Ma non appare sufficiente. Molte sono le situazioni – basti pensare ai detenuti con problemi psichici – che a buon titolo possono essere comprese nel concetto di vulnerabilità: lo stesso numero dei suicidi viene considerato per certi aspetti un indicatore, così come lo sono i tantissimi casi di autolesionismo registrati. Anche gli agenti tra le vittime. Ma il sistema penitenziario non risparmia nemmeno gli agenti. Tra il 1997 e il 2018 sono 143 coloro che si sono tolti la vita ( dati registrati da Ristretti Orizzonti), già sette i casi registrati nel 2019. L’ultimo il 10 luglio: un agente in servizio alla Casa circondariale di Bologna si è ucciso nella sua casa in Abruzzo, aveva 35 anni. Ad aprile un altro, sempre a Bologna. A giugno un agente originario di Sassari che, da anni, lavorava a Vigevano si era ucciso mentre era in ferie in Sardegna. «Il carcere è un contenitore di disagio sociale e noi siamo dall’altra parte, disarmati, senza strumenti per affrontarlo», dice amaramente Nicola D’Amore, delegato del Sinappe, il Sindacato nazionale autonomo di Polizia penitenziaria, di stanza alla Casal circondariale di Bologna.
· Il 70% dei detenuti torna a delinquere Perché non c’è la riabilitazione?
Carceri: perché il 70% dei detenuti torna a delinquere. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it Milena Gabanelli e Simona Ravizza. La legge dice che la riabilitazione passa attraverso il lavoro, ma a svolgere un’attività è soltanto il 30% dei carcerati. Perché gli altri non fanno niente? Nelle 190 carceri italiane ci sono 60.552 detenuti che costano, incluse le spese per la sicurezza, 4.000 euro al mese a testa. Complessivamente il sistema penitenziario pesa sul bilancio dello Stato per 2,9 miliardi l’anno. In Europa solo Russia e Germania spendono più di noi. I condannati in via definitiva sono 41.103, che devono pagare le spese di giustizia e quelle per il loro mantenimento in carcere. Ma solo poco più del 2% salda il conto, gli altri i soldi non li hanno, e le richieste pendenti di carcerati che, una volta fuori, chiedono la cancellazione del debito sono oltre 4.300 l’anno.L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario, individua nel lavoro uno dei pilastri rieducativi, e stabilisce che deve essere assicurato, incentivato, remunerato. Vuol dire che durante la detenzione i condannati in grado di lavorare, e che lo desiderano, devono seguire corsi di formazione e svolgere con regolarità un mestiere che li aiuti a reinserirsi nella società. Con la retribuzione potranno così rimborsare lo Stato, aiutare un po’ la famiglia, e non trovarsi le tasche vuote a fine pena. La paga è fissata a due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi. Lo stanziamento dello Stato per le retribuzioni dei carcerati nel 2018 ha raggiunto i 110 milioni di euro (erano 60 fino al 2016). Negli ultimi 2 anni sono aumentate anche le paghe, ferme dal 1994: più 80%.Nel 2018 i detenuti impiegati in un lavoro erano 17.614 (in calo del 4,3% in numeri assoluti rispetto al 2017). Di questi, il 25% lavora fra le 3 o 4 ore al giorno e a rotazione, ovvero un giorno sì e due no. Si tratta di attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie e alla cucina, alla manutenzione ordinaria del fabbricato, lavanderia, spesa, cuochi e aiuto cuochi, oppure piantoni, scopini e scrivani. Anche la remunerazione individuale di conseguenza varia ed è difficilmente quantificabile, se non attraverso i parametri di riferimento: dai 150 euro al mese per uno scopino impiegato 3 ore al giorno, ai 650 euro per il cuoco che ne lavora 6. Dallo stipendio viene trattenuto il vitto: 3,60 euro al giorno. In totale quindi circa il 29% svolge una mansione, il grosso una tantum, e fa mestieri difficilmente spendibili una volta scontata la pena. Gli altri sono tenuti per anni a giocare a carte o a guardare la tv, e non bastano le lodevoli e pur indispensabili attività culturali date in gestione alle cooperative o quelle del volontariato. Se si esclude il modello avanzato del carcere di Bollate, dove su 1.288 detenuti lavorano in 500, e il tasso di recidiva non supera il 18%, il risultato è un costo sociale incalcolabile. Il problema è che i 110 milioni stanziati dallo Stato per le retribuzioni non bastano a far lavorare tutti. E chi, pur di non stare a far niente, è disponibile a lavorare anche gratis, non gli è permesso, proprio perché in assenza di remunerazione, è considerato «lavoro forzato». Eppure affidare lavori di regolare manutenzione carceraria, per esempio, eviterebbe quel degrado che poi viene tamponato con appalti esterni, e sarebbe utile anche per ridurre il sovraffollamento per cui l’Italia paga multe all’Europa. Nelle nostre carceri ci sono 10.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, anche a causa di camerate o intere sezioni fuori uso per inagibilità o lavori in corso: al 14 febbraio 2019 quelle inutilizzabili sono pari al 6,5% del totale. I casi limite: ad Arezzo da più anni su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia 24 dei 57 previsti, e in Sardegna il 13% dei posti ufficiali è inutilizzabile. Le carceri francesi e tedesche non sono messe molto meglio delle nostre, però riescono a far lavorare rispettivamente quasi il 50% e il 65% dei detenuti. Sta di fatto che il tema dei soldi per le retribuzioni è comune in tutti i Paesi occidentali, ma in Olanda, Irlanda, Austria e alcuni Stati americani hanno affrontato la questione con un altro ragionamento: siccome devo far lavorare tutti, ma i soldi per pagarli non li ho, l’Amministrazione penitenziaria calcola uno stipendio virtuale, dal quale trattiene le spese di giustizia e di mantenimento, e dà al detenuto la differenza. Dentro al carcere vengono organizzate attività che rendono la struttura indipendente (muratori, falegnami, sartoria) e stipulati accordi con aziende private. L’amministrazione incassa il dovuto e retribuisce il detenuto applicando lo stesso meccanismo. Quasi tutti accettano il programma e, in cambio, ottengono sconti di pena, più visite, permessi e un mestiere in tasca quando escono. Il risultato: recidive bassissime. In Italia si fa il contrario. Uno degli obiettivi della riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 è di incentivare i lavori di pubblica utilità presso i Comuni o altri enti pubblici. I detenuti ricevono un corso di formazione qualificante e dopo un primo periodo di attività volontaria e gratuita potranno ottenere un sussidio finanziato dalla Cassa Ammende. Ma i numeri sono ancora bassi: i detenuti coinvolti dai Comuni sono stati 4.500 di cui 1.000 a Roma. La capitale li sta impiegando a rotazione per la manutenzione stradale, la pulizia del verde e il rifacimento delle strisce pedonali. Ma la maggior parte dei sindaci temono le «paure» dei loro cittadini, e così preferiscono lasciare strade, muri e giardini sporchi. Oltre che incentivare il lavoro, per i condannati a pene lievi è considerata necessaria anche la revisione dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà e la liberazione anticipata. Sono misure adottate da tempo e con successo, nel Nord Europa. Era quanto previsto sempre nel provvedimento di revisione dell’ordinamento penitenziario, ma il decreto attuativo è stato stoppato a ridosso delle elezioni del 4 marzo 2018 e da allora la riforma langue. In tutto questo, per Strasburgo il nostro problema più urgente è cancellare la legge che vieta i permessi premio agli ergastolani mafiosi. E la Consulta gli ha dato pure ragione.
Gli 80 anni di don Gino Rigoldi: “Gesù Cristo era un rivoluzionario pericoloso”. Le Iene l'1 novembre 2019. Per tutti è il sacerdote dalla parte degli ultimi: don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, compie 80 anni. Insieme a Gaetano Pecoraro ripercorre la sua vita e non le manda a dire ai parroci che non seguono gli insegnamenti di Cristo e del Papa. Don Gino Rigoldi compie 80 anni. Storico cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano è per tutti il prete di strada. Per celebrare questo compleanno, noi de Le Iene lo abbiamo incontrato. Insieme ripercorriamo questi anni di servizio al fianco degli ultimi. “La Chiesa è ancora molto clericale”, dice il don. “Il parroco è quello che decide, quindi non è aperta nei fatti. Magari neanche nella liturgia, basti guardare che ha un linguaggio assolutamente incomprensibile. Signore pietà di qui, Signore pietà di là. Oppure: mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. A Gaetano Pecoraro spiega quello che oggi dovrebbe fare la Chiesa partendo dalle parole di Cristo. “Lui era un rivoluzionario pericoloso che ha irritato la classe dirigente dei suoi tempi. Parlava di uguaglianza, condivisione dei beni. L’hanno accoppato perché era un rivoluzionario. Per lui erano tutti uguali: le donne, i ricchi che hanno il compito di condividere con i loro fratelli. Tutto questo lo ritroviamo nelle parole di Papa Francesco”.
Il nuovo progetto di don Gino Rigoldi: “Aiutiamo chi esce dal carcere minorile”. Le Iene il 4 novembre 2019. Si chiama “Credito al futuro”, è l’ultimo progetto di don Gino Rigoldi per aiutare chi esce dal carcere minorile Beccaria di Milano. Gaetano Pecoraro ha incontrato il sacerdote che festeggia 80 anni che gli parla di politica, fede e Chiesa togliendosi anche qualche sassolino dalle scarpe. Dal 1972 è al fianco degli ultimi. In particolare di quelli del carcere minorile Beccaria di Milano. Lui è Virginio Rigoldi, per tutti don Gino, un prete di strada. E ancora prima di essere sacerdote è un padre. Papà di 4 figli adottati, ma anche di tanti altri strappati dalla criminalità. In questi giorni don Gino compie 80 anni. Gaetano Pecoraro l’ha incontrato per fare un bilancio della sua vita. Finiti gli studi in seminario non viene ordinato sacerdote perché ritenuto non pronto. Solo diversi anni dopo, la Curia si accorge delle sue doti nel trattare con i giovani e ci ripensa. “Io non ho paura di mescolarmi nelle vicende, anche le più atroci”, ci dice don Gino. “La situazione più dolorosa? Ritrovarsi a piangere con il primario di un ospedale per la morte di un ragazzo tossicodipendente”. In questi casi il dolore è tanto ma forse la gioia di vederli salvi è ancora più grande. “Ci vuole pazienza. Bisogna saperli cazziare duramente, ma anche esserci nel momento del bisogno”, dice don Gino che abita con 8 ragazzi strappati dalla strada. Uno di loro è Azim, un ragazzo siriano scappato dalla guerra 6 anni fa. Suo fratello era un combattente dell’Isis e anche lui è stato accusato di questo. “Mi hanno trovato foto e video sul cellulare. Pensavano che io fossi venuto qui per quello. A 17 anni mi ha condannato a 3 di carcere”, racconta Azim. “Conoscendo don Gino ho trovato lavoro e tante cose. E qualche mese fa mi ha adottato a tutti gli effetti andando in Tribunale”. Come lui, un altro ragazzo è stato strappato dalla strada. In passato ha avuto problemi per furti a Rozzano, ma un giorno ha conosciuto don Gino: “Con lui ho smesso di rubare perché ha fatto il contrario di tutto quello che gli altri facevano con me”. Il suo segreto è proprio quello di riuscire a fidarsi, anche del ladro, del bugiardo e del criminale. “Loro sono ragazzi che hanno poca fiducia in sé stessi e negli altri. E hanno una mancanza di paternità e della vita”. Con il sacerdote parliamo anche di com’è la Chiesa oggi: “È molto clericale. Il parroco è quello che decide, quindi non è aperta nei fatti. Magari neanche nella liturgia, basti guardare che ha un linguaggio assolutamente incomprensibile. Signore pietà di qui, Signore pietà di là. Oppure: mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Per lui la Chiesa dovrebbe dire altro. “Gesù Cristo era un rivoluzionario pericoloso che ha irritato la classe dirigente dei suoi tempi. Parlava di uguaglianza, condivisione dei beni. L’hanno accoppato perché era un rivoluzionario. Per lui erano tutti uguali: le donne, i ricchi che hanno il compito di condividere con i loro fratelli. Tutto questo lo ritroviamo nelle parole di Papa Francesco”. Ci parla anche di com’è cambiata la politica in questi anni: “Una tragedia. È più saggio non fidarsi, guardarsi alle spalle. Se poi sono stranieri ci dicono che sono qua a mangiare la nostra minestra. Oggi dicono il contrario di quello che c’è scritto nel Vangelo. È difficile fidarsi degli altri, ma se non si sorride mai, nessuno ti sorriderà”. A 80 anni don Gino ancora non molla. Oggi si è messo in testa un nuovo progetto. “In uscita dal Beccaria incontro ragazzi che non hanno neanche i soldi per il biglietto del tram. Per la prima settimana, ce la fanno. La seconda, così così. E la terza li trovano da qualche parte”. Per farli ripartire il sacerdote ha avviato un progetto il cui obiettivo è tutto nel nome: “Credito al futuro”.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Stati Uniti: Un innocente in cella e un colpevole libero.
Condanna all’ergastolo per aver rubato 50 dollari. Liberato dopo 35 anni. Daniele Zaccaria il 31 Agosto 2019 su Il Dubbio. Storia di Alvin Kennard, condannato all’ergastolo per una rapina a una panetteria all’età di 22 anni. Il bottino: 50 dollari. Gennaio 1983, il 22enne Alvin Kennard, accompagnato da un complice entra a volto scoperto in una panetteria di Bessemer, cittadina di 27mila anime nel sudovest dell’Alabama, un lembo semi-rurale dell’hinterland di Birmingham. È visibilmente alterato, brandisce un coltello da tasca e ordina alla proprietaria di consegnargli l’incasso della mattina, poi si dà alla fuga con il compagno per spartirsi il “bottino” di 50,75 dollari. Una rapina maldestra in cui Kennard spargerà sul luogo decine di indizi. Tanto che alla polizia locale ci vogliono pochi giorni per identificarlo e arrestarlo. Fin qui nulla di straordinario. Ma arriva il giorno della sentenza e per Kennard è una sepoltura: prigione a vita. Come è possibile una pena così pesante per un reato in cui non ci sono stati nemmeno dei feriti? La risposta sta nei cupi faldoni del Habitual Felony Offender Act dell’Alabama, un dispositivo penale che punisce i recidivi con l’ergastolo anche se non hanno commesso violenze nei confronti di altre persone. E Kennard era recidivo. Quattro anni prima, quando era appena diciottenne, aveva scassinato un distributore automatico di benzina ed era stato condannato a tre anni di reclusione con il beneficio della libertà vigilata. Durante il processo per il colpo in panetteria Kennard si accusò di una terza rapina con scasso, sperando di ammansire la corte con la sua sincerità. Un’ingenuità che si rivela fatale: uno dei pilastri del Habitual Felony Offender Act è infatti il principio dei “tre delitti”, ovvero alla seconda recidiva scatta l’ergastolo. Seppellito in una cella per cinquanta dollari. Il giovane viene trasferito nel carcere di Bessemer, è l’unica concessione che ottiene, il che gli permetterà di ricevere regolarmente le visite di familiari e amici nel corso degli interminabili 35 anni di vita passati dietro le sbarre da «detenuto modello», come hanno testimoniato i secondini e le stesse autorità carcerarie. Il suo comportamento esemplare ( diventa un fervente cristiano) e le misure intraprese dall’Alabama nel 2013 per limitare il mostruoso sovraffollamento delle sue prigioni permettono agli avvocati di Kennard aprire una piccola breccia. Ma è soprattutto grazie al paziente lavoro dell’Alabama Appleseed Center for Law and Justice ( un gruppo di patrocinio legale senza scopo di lucro) che l’uomo riesce ad ottenere una nuova sentenza. E mercoledì scorso, tra le grida di gioia dei suoi cari e i flash dei fotografi, il giudice distrettuale della contea di Jefferson David Carpenter gli restituisce la libertà, dando torto alla pubblica accusa che chiedeva almeno l’applicazione della libertà vigilata: «Sono certo che Alvin Kennard si sia pentito di ciò che ha fatto, era convinto che non sarebbe più uscito di prigione ma è stato ugualmente un prigioniero modello, non c’è dubbio che sia pronto a reinserirsi nella società», ha dichiarato Carpenter. «Non pensavamo alla sua liberazione da almeno 20 anni, ci eravamo rassegnati al fatto che sarebbe morto in una cella, siamo commossi, mentre Alvin è sopraffatto dalla gioia, ringraziamo Dio», è stato invece il commento all’emittente Abc la nipote Patricia Jones. Ora, sulla soglia dei 60 anni, Kennard è un mite uomo di mezza età che ha trascorso la gran parte della sua esistenza in galera, le ferite di quell’ingiustizia le conserva tutte dentro di sé e nelle sue parole non c’è l’ombra del risentimento verso le autorità che gli hanno inflitto una condanna così assurda e crudele: «Sono pentito per quello che ho fatto, me ne assumo la responsabilità e non ce l’ho con nessuno. Vi ringrazio», le sue prime parole da uomo libero. Dice che cercherà lavoro come carpentiere, lo stesso che voleva fare da giovane quando poi le scelte balorde dell’adolescenza lo fecero diventare un ladruncolo da quattro soldi e poi inciampare su una legge disumana e irrazionale uno degli Stati più arretrati e reazionari degli Usa. Talmente disumana e irrazionale che nella prima metà degli anni 2000 l’Habitual Felony Offender Act è stato sospeso anche se le sentenze non sono state riviste. Se fosse stato condannato oggi Kennard avrebbe scontato 10 anni di prigione con la possibilità di ottenere in pochi anni la libertà vigilata.
Stati Uniti: Un innocente in cella e un colpevole libero, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 10/11/2018 su Il Giornale. Quando andai a vivere a New York nel 1966 vidi che cosa significa una giustizia veloce e senza sprechi: il tizio che aveva sfondato a martellate la vetrina dell'orologiaio, arrestato alle tre del mattino, prima di mezzogiorno era di fronte al suo giudice: una donna nera dall'aria cattivissima. «Colpevole o non colpevole?», chiese all'arrestato. E aggiunse: «Non oserà sfidare l'ira degli onesti cittadini che pagano le tasse e le spese di un processo, dichiarandosi innocente quando sa di essere colpevole, o la pagherà carissima. Allora?». «Colpevole, vostro onore». Sette processi su dieci finiscono in America senza cominciare, perché nei Paesi che non discendono dagli eterni fasti del Diritto Romano il giudice giudica sempre. Come i pompieri. O i pronto soccorso. Siede in tribunale 24 ore al giorno. Da noi c'è invece una giustizia paralizzata dalla mancanza di cortesia, orari, cancellieri, conoscenza dei dossier, stanze, computer, nella generale incertezza del diritto di cui ci consideriamo sia la culla che la bara. Tutte le smargiassate pentastellate sulla prescrizione sono scorciatoie rabbiose che simulano una procedura rivoluzionaria, perché costoro non hanno la più pallida idea di come riprendere il controllo dei tribunali e di chi ci lavora, cosa fattibile erogando la spesa necessaria per fornire tutto quel che serve, senza ledere i diritti della difesa. Per loro è sempre meglio un innocente in galera che un colpevole libero, perché sono i nemici della società liberale.
· Dalla parte delle vittime, vere.
Dalla parte delle vittime, vere. Il tabaccaio che ha sparato al ladro è sotto accusa; a Napoli un collega che non ha reagito è in fin di vita. Mario Giordano il 28 giugno 2019 su Panorama. Io comunque sto con Marcellino. Che poi sarebbe Franco. Io sto con il tabaccaio di Ivrea. Anche se fosse confermato ciò che risulta dalle indiscrezioni sull’autopsia; anche se fosse vero, cioè, che ha sparato dal balcone al ladro che stava scappando; anche se non ci fosse mai stata alcuna colluttazione con i delinquenti; anche se dovessero alla fine condannarlo perché nemmeno la nuova legge sulla legittima difesa potrà salvarlo; ebbene, anche se tutto ciò dovesse succedere, io sto lo stesso con lui. Così come stanno con lui tutti i suoi concittadini, che non a caso l’altro giorno sono scesi in piazza dietro uno striscione che diceva «Siamo tutti Franco». Ma sicuro: siamo tutti Franco. Anch’io sono Franco. Sempre. E oggi sarò più Franco del solito. Marcellino detto Franco Iachi Bonvin, il tabaccaio di Ivrea, non è uno sparatore, non è un pistolero, non è il texwiller del Canavese. È una persona tranquilla. Un padre di famiglia. Un uomo buono e benvoluto. Quella notte non avrebbe fatto del male a nessuno, se non fosse stato aggredito. Nella sua casa. Nel suo negozio. Nella quiete della sua famiglia. Come, invece, è successo. Sono le tre di notte. Lui sente dei rumori. Vede tre banditi con una spranga in mano. È la settima volta che viene rapinato, è esasperato. E spara. Un ladro muore. Quando c’è un morto non si può mai essere felici, si capisce. Ma siccome di rapine finite nel sangue ne abbiamo viste fin troppe, ecco, io continuo a pensare che se qualcuno deve morire, meglio che muoia il delinquente che il rapinato. Vi sembra così strano?
Certo: forse quel delinquente non avrebbe fatto mai del male a Franco. Forse stava davvero scappando. Ma se poi fosse ritornato indietro? E se si fosse armato? E se avesse girato le spalle semplicemente per andare a chiamare rinforzi o a prendere una pistola? Chi lo poteva sapere, alle tre di notte, davanti a quella porta, in quella contrada del Canavese? Ci sono decisioni che si prendono nel giro di qualche istante. E si prendono sulla base dell’istinto, della paura, dell’esasperazione. Nessuno esulta per uno sparo dal balcone. Ma resta il fatto che ad essere fuori posto quella notte non era Franco: era il ladro. Franco dormiva a casa sua, dopo una giornata di faticoso lavoro, non chiedeva nient’altro che essere lasciato in pace. Se quel moldavo, anziché a rubare, fosse andato anche lui a lavorare nessuno gli avrebbe sparato. Tanto meno Franco. Non mi piace l’Italia trasformata in Far West. Non amo i revolver. Personalmente non ne possiedo e credo che non ne possiederò mai uno. Non credo alla difesa bricolage, fai da te della protezione armata. Continuo a pensare che a tutelare i suoi cittadini debba pensare, prima di tutto, lo Stato. Ma non possiamo chiuderci gli occhi davanti al fatto che spesso persone perbene si trovano loro malgrado in situazioni di pericolo. E in questo caso a me piacerebbe uno Stato che si schiera dalla parte di chi viene rapinato e non di chi rapina. Dalla parte di chi ha sempre rispettato la legge e servito lo Stato e non dalla parte di chi la legge e lo Stato li minaccia quotidianamente con il suo comportamento criminale. Perché anche da morto un criminale resta un criminale. E un onesto lavoratore resta un onesto lavoratore, anche se ha sparato da un balcone per la paura e l’esasperazione. Vittima due volte, peraltro, se dovesse essere condannato.
Io sto con Franco, anche se speravo di non doverlo dire mai più. E invece no. La nuova legge sulla legittima difesa, entrata in vigore poche settimane fa, ha eliminato alcune assurdità della precedente normativa (per esempio la proporzionalità tra offesa e difesa) e ha introdotto il concetto di turbamento psicologico per giustificare le reazioni dei derubati. Ma, secondo gli esperti, in questo caso potrebbe non bastare. E allora io mi chiedo che cosa bisogna fare per aiutare i cittadini onesti, quelli per dire che di notte dormono a casa loro e non vanno in giro a rubare, a sentire lo Stato dalla loro parte. Qualche giorno fa a Napoli, un altro tabaccaio, Ulderico Esposito, è stato ridotto in fin di vita da un nigeriano. Quest’ultimo importunava i clienti chiedendo l’elemosina, davanti al negozio. Lui ha cercato di allontanarlo. È stato aggredito. Ora è gravissimo. Prognosi riservata. «Mio marito aveva denunciato questa persona tante volte» ha raccontato la moglie. «Nessuno ha fatto nulla, nessuno ci ha protetti». Nessuno li ha protetti, capito? E io sarò cattivo, ma continuo a pensare che se quel tabaccaio di Napoli si fosse difeso come quello di Ivrea, qualche anima bella forse avrebbe storto il naso per il nigeriano ferito. Ma ora Ulderico sarebbe in negozio a lavorare, non fra la vita e la morte in ospedale. E io ne sarei felice, chissà perché.
“PREMIANO GLI ASSASSINI E OFFENDONO LE VITTIME”. Nino Materi per “il Giornale” il 6 ottobre 2019. Quando ti bruciano viva una figlia e l' assassino esce continuamente dal carcere grazie ai permessi-premio (ma «premio» per cosa?), la rabbia diventa un mostro che rischia di divorare cuore e cervello. Eppure le parole di Mario Luzi sono piene di composta dignità. Il signor Luzzi è il papà della sedicenne accoltellata e distrutta con la benzina dal fidanzato il 24 maggio 2013 a Corigliano (Cosenza). Ora ha deciso di scrivere una lettera al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il motivo della missiva? «Mi sento abbandonato dallo Stato». Parole dure ma giustificate dalla triste realtà dei fatti: «A marzo 2016 l' assassino di Fabiana (il suo fidanzato di 17 anni ndr) fu condannato a 18 anni e 7 mesi, pena ridicola per la gravita del reato commesso - spiega il padre della vittima -. Inoltre quest' anno ha ottenuto licenze-premio già in tre occasioni. Mi sento distrutto». «Tutto questo mette in discussione il significato della parola giustizia - aggiungono i genitori di Fabiana -. Appresa la notizia, ci siamo sentiti male, tanto da dover andare in ospedale. Incrociare il carnefice di Fabiana nel nostro stesso paese ad appena tre anni dalla sentenza, è una cosa intollerabile. Ci sentiamo traditi da uno Stato e da leggi che premiano gli assassini e offendono ulteriormente le vittime e le loro famiglie». Un caso che segue di qualche giorno un' altra vicenda analoga, dove però a protestare (anche qui avendone tutte le ragioni ndr) è una figlia cui hanno ammazzato il padre. Stessa dinamica: un minore assassino al quale è concesso come premio di festeggiare il compleanno a casa, con tanto di foto di brindisi e balli postate sui social. Immagini di gioia scioccanti per una figlia che ha avuto il padre ucciso a sprangate e che per tutta la vita vivrà il dolore di non poterlo più abbracciare. Il ragazzo del party è stato condannato in primo grado a 16 anni e mezzo per aver trucidato insieme a due complici nei pressi della stazione Piscinoia della metropolitana di Napoli la guardia giurata, Francesco Della Corte. Motivo? «Volevamo rubargli la pistola». Il giudice aveva sottolineato nella sentenza la crudeltà degli imputati, definendoli «indifferenti al male». Marta, la figlia del vigilantes, ha spiegato di trovare «vergognosa ed assurda» la scelta del permesso premio: «L' assassino di mio padre ha festeggiato in allegria i suoi 18 anni. Io invece non ho festeggiato i miei 22 anni perché ancora provata dall' angoscia. Evidentemente questi ragazzi non hanno compreso la gravità di quello che hanno fatto». Marta ha aggiunto di aver visto i tre killer del padre «impassibili durante tutto il processo», anche quando descrivevano nei dettagli il delitto, e di aver ricevuto un breve messaggio di scuse solo da uno degli imputati.
La solitudine delle vittime. Il permesso dato al giovane che uccise una guardia giurata mostra come in Italia difendiamo troppo i carnefici e poco le vittime. Mario Giordano il 25 settembre 2019 su Panorama. «Vorrei anch’io il permesso di riabbracciare mio padre». Non riesco a togliermi dalla testa le parole di un ragazzo napoletano, si chiama Giuseppe Della Corte, e forse in questi giorni ne avrete sentito parlare in tv. Il papà di Giuseppe, Francesco, era una guardia giurata. È stato ucciso nel marzo dell’anno scorso, mentre lavorava: tre ragazzini, poco più che sedicenni, l’hanno aggredito con mazze e bastoni in una stazione e l’hanno pestato senza pietà. «Volevamo rubargli la pistola» diranno poi, senza alcun pentimento. Francesco è rimasto in coma 15 giorni prima di morire. E mentre lui era in agonia, i ragazzi assassini se la spassavano e ridevano alle sue spalle, senza sapere di essere intercettati. «Schiatta! Schiatta!», sghignazzavano. E poi: «Tanto non ci fanno niente». Subito dopo li hanno arrestati e processati. Questa primavera sono stati condannati a 16 anni di carcere. Poco, troppo poco per un omicidio così. Ora inizia il processo d’appello. Ma qualche giorno fa, questo è il punto, uno di loro ha compiuto 18 anni. E il tribunale gli ha concesso un permesso premio. Il ragazzo è uscito di cella ed è andato a festeggiare il compleanno in un locale lì vicino, circondato dagli amici. Torte, cotillons e tavole imbandite. I social hanno rilanciato le foto. Il ragazzo assassino, neo diciottenne, si pavoneggia mano nella mano con la sua fidanzatina. La riabbraccia. E per questo che Giuseppe dice: «Anch’io vorrei il permesso di riabbracciare il mio papà». Purtroppo, però, quel permesso non lo potrà avere. Mai più. Giuseppe ha una sorella, che si chiama Marta che studia giurisprudenza. Marta dice di aver scelto quella facoltà perché ha fiducia nella giustizia. Ma non è facile aver fiducia nella giustizia quando vedi l’assassino di tuo padre che fa festa, e a te rimangono solo ricordi, foto, lacrime e dolore. Tu l’hai festeggiato il tuo compleanno? hanno chiesto a Marta. No, ovviamente. Quest’anno Marta non ha festeggiato il compleanno. L’assassino di suo padre, invece sì. E ancora una volta, fra feste fatte e non fatte, si ha l’impressione che in questo Stato convenga essere criminali piuttosto che vittime. Per le vittime, infatti, non c’è mai nulla. Per le vittime non c’è mai attenzione. Non c’è un filo di emozione, né condivisione, tanto meno aiuto pratico. Chi è vittima rimane solo, vittima due volte, dei delinquenti e della solitudine in cui viene abbandonato. Per i criminali, invece, no. Per loro ci sono mille attenzioni. Le attenuanti. Le tutele. I percorsi di recupero. I permessi premio. La riabilitazione. Il reinserimento sociale. Il criminale non viene mai lasciato solo. E se ha un desiderio si cerca di esaudirlo, foss’anche quello di festeggiare il compleanno in faccia alle proprie vittime. È tutto perfettamente legittimo, per carità. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha mandato gli ispettori nel tribunale che ha concesso il permesso premio, ma vi anticipo già come finirà. Come finisce sempre in questi casi: in nulla. Si troverà che sono state rispettate perfettamente le leggi, che le regole non sono state violate. Ma mi domando se questo non sia ancora più grave. Se non sia ancora più grave, cioè, dover dire a Marta e Giuseppe che quello che stanno vivendo non è frutto di un errore, una svista, un’infrazione. Ma è proprio quello che prevede lo Stato. Che si dimentica chi è vittima. Non chi è carnefice. E poi mi domando anche se questo sia davvero il modo di aiutare i carnefici. Se questo sia davvero il modo per aiutarli a capire quello che hanno fatto, premessa necessaria per poter essere realmente reinseriti nella società. Marta e Giuseppe hanno raccontato che durante tutto il processo gli assassini del padre non hanno mai chiesto scusa sul serio. Solo parole di circostanza. Fredde. E quando raccontavano il delitto (orrendo) lo facevano con cuore duro. Il giudice li ha definiti «ragazzi indifferenti al male». È stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Avete capito bene: indifferenti al male, crudeltà. Ma per loro queste rimarranno parole vuote. Come potranno infatti capire l’orrore che hanno commesso, se dopo poco più di un anno possono andare già in giro a festeggiare? Ho l’impressione che dopo tanto parlare di rieducazione, ci sarebbe un gran bisogno di tornare a parlare di punizione. Perché, dopo un errore, se non c’è pena, non c’è comprensione. E se non c’è comprensione non ci può essere rieducazione. Resta solo l’offesa alle vittime. Condannate due volte, loro sì: al lutto e all’umiliazione.
· Prima infangati e poi assolti. Gogna e calvario degli innocenti. Storie dei soliti noti.
O dici la verità o butto la chiave… era innocente. Tiziana Maiolo il 31 Ottobre 2019 su Il Riformista. «Avvocato Melzi, forse non ha capito: se lei non mi dice tutto sulla “cosca Ferrazzo”, lei non esce più dal carcere, perché butto via le chiavi». Se qualche ingenuo pensava che questo tipo di espressione, butto via le chiavi, abbondasse solo sulla bocca dello stolto o dell’incauto politico, può subito ricredersi. Questa parole sono state pronunciate, oltre dieci anni fa, da uno di quei magistrati che vengono indebitamente definiti da alcuni “antimafia” e da altri più correttamente “professionisti” della medesima, il dottor Mario Venditti, che all’epoca di questa storia era pubblico ministero della Dda a Milano. Le chiavi che il famoso magistrato voleva buttare erano quelle che tenevano incarcerato un brillante avvocato milanese, Giuseppe Melzi, noto non solo per aver assistito i piccoli risparmiatori della Banca Privata Italiana (vicenda Sindona) e del Banco Ambrosiano (vicenda Calvi), ma anche per le sue numerose attività nel mondo ella cultura, dell’arte, dei diritti e della solidarietà. Un bravo avvocato, un bravo cattolico, che stava sempre “dalla parte giusta”, quella dei deboli contro i forti, della giustizia contro le ingiustizie. Trentacinque anni di onorata professione senza macchia. Sedici anni di persecuzione del circo mediatico-giudiziario. Con le stimmate del mafioso, anzi del “regista” di un traffico di armi e droga tra la Svizzera e la Calabria, al soldo di una sconosciuta “Cosca Ferrazzo”, lavando soldi da reinvestire in Sardegna e altri luoghi turistici. Ora l’avvocato Melzi, a un anno dalla notizia dell’archiviazione del suo caso, ha scritto un Libro Bianco (“riservato a familiari ed amici”), in cui racconta ANCHE di sé, della sua vita distrutta, lo studio professionale chiuso, la sospensione dall’Ordine degli avvocati, il carcere, la gogna, gli interrogatori infiniti, le intercettazioni e i pedinamenti subiti. Tutto ciò è il vestito che gli è stato cucito addosso con aghi crudeli. Ma quel che vuole far sapere a chi lo saprà ascoltare è che ogni giorno sono mille e ancora mille i vestiti cuciti addosso con crudeltà a tanti malcapitati, non da un sistema, ma da persone, che vengono chiamate con nome e cognome. E puntigliosamente vengono elencati gli ostacoli che certi amministratori di giustizia frappongono al diritto alla difesa e al rispetto della Costituzione. L’avvocato Giuseppe (o Pino o Pinuccio) Melzi viene “fermato” con una scusa alle ore 13,15 del primo febbraio 2008 davanti al suo studio di largo Richini, pieno centro di Milano, proprio di fronte all’Università Statale dove si è laureato. In caserma gli viene consegnato un ordine di custodia cautelare del gip Guido Salvini costruito con il copia-incolla: 258 pagine scritte dal pm e 18 dal giudice, veloce sintesi delle precedenti. Nella stessa giornata vengono perquisiti con esito negativo casa auto e studio legale dell’avvocato, dove vengono sequestrate carte di lavoro che riempiono sei faldoni. Lui viene portato a San Vittore. L’inchiesta nasceva a Varese, nelle mani di un pm, Agostino Abate, molto noto alle cronache perché in seguito sarà trasferito dal Csm al tribunale civile di Como per “gravi inerzie” in procedimenti famosi come il caso Uva e l’uccisione di Lidia Macchi. Nel corso dell’ indagine, chiamata suggestivamente Dirk Money, denaro sporco, Giuseppe Melzi ha subito, senza neppure un’informazione di garanzia, controlli bancari per quattro anni e mezzo, intercettazioni telefoniche su dieci diverse utenze e ambientali: 11.587 pagine di trascrizione, 17 faldoni di complessivi 76 dell’intero procedimento, OCP (osservazioni, controlli, pedinamenti) riportati in 169 pagine. La relazione finale dei Ros dei carabinieri individuava l’avvocato Melzi come il “regista” delle attività mafiose di una presunta “cosca Ferrazzo” e il suo studio legale, come scrisse in quei giorni per esempio La Repubblica, «uno dei luoghi d’incontro di affiliati alla ‘ndrangheta calabrese e truffatori italosvizzeri». Dopo avergli infine inviato un’informazione di garanzia per “agevolazione mafiosa” e “riciclaggio” il dottor Abate aveva poi trasmesso per competenza gli atti alla procura “antimafia” di Milano, dove entrano in scena il dottor Venditti, quello delle chiavi, e il gip Salvini che ne dispone la custodia cautelare in carcere. E ricomincia la trafila degli interrogatori, con i legali (Giuliano Pisapia, Massimo Di Noia, Matteo Uslenghi) che si trovano nelle mani migliaia di pagine che dovrebbero sostenere un’ipotesi accusatoria che è solo un teorema. Complessivamente sono state verbalizzate 1.195 pagine e ancora non c’è il bandolo della storia. Nel frattempo, con grande sprezzo del pericolo, l’Ordine milanese degli avvocati sospende l’avvocato dalla professione. Poi, dopo 89 giorni di custodia in carcere e 7 mesi ai domiciliari, arriva la libertà e insieme la richiesta di rinvio a giudizio. Ma il gup Paolo Jelo, dopo aver scoperto che non era mai esistita una “cosca Ferrazzo” né in Calabria né altrove, scopre anche che la competenza territoriale non era radicata a Milano (e l’ufficio del “regista” dove si incontravano i mafiosi?), ma in Sardegna, dove si sarebbero dovuti fare i famosi investimenti con il denaro sporco. Nel 2016 i giudici sardi archiviano, dopo altri 7 anni di vane ricerche, l’inchiesta, definendo le indagini di Varese e Milano “assurde e cieche”. Ma non è ancora finita. Perché i magistrati archiviano e non notificano. Così l’avvocato Melzi verrà a sapere per caso da un collega sardo che la sua persecuzione è finita solo due anni dopo. Sono passati sedici anni dalle prime indagini. E oggi c’è questo Libro Bianco che andrebbe diffuso non solo a “familiari e amici” come l’ avvocato vorrebbe. Basterebbe leggere, oltre alla sua storia, i titoli dei capitoli che dedica alle distorsioni che condizionano le storie giudiziarie di tanti: l’avvocato indagato, il predominio dell’accusa, il potere a vita insindacabile dei giudici, la riparazione e il risarcimento, la madre di tutte le caste, le correnti orgogliose, i rischi professionali, discrezionalità e arbitrio, avvocato e non prestanome. E dedica un bel capitolo all’informazione, anche qui con nomi e cognomi di giornalisti, ma anche di autori di libri sulla mafia che parlano dell’avvocato Melzi come di un appartenente alle cosche. Come per esempio “Per non morire di mafia” di Pietro Grasso e Alberto La Volpe.
P.S. «Dopo l’arresto dell’avvocato Giuseppe Melzi, accusato di riciclaggio e reimpiego di capitali a favore della ‘ndrangheta, abbiamo assistito all’ennesima condanna preventiva senza nemmeno aspettare l’esito di un processo. Possibile che nessuno abbia avuto il buon gusto di dire, o quantomeno di pensare, che l’avvocato Melzi potrebbe essere innocente?… Insomma, la storia non cambia, basta un’informazione di garanzia o un arresto per essere già colpevoli… Io, senza timore, pongo a tutti questa domanda, semplice e chiara: e se l’avvocato Melzi fosse innocente?». Tiziana Maiolo, assessore al Comune di Milano, 13 febbraio 2008. Citazione dalla prima pagina del Libro Bianco..
Fine dell’incubo per Sereni: prosciolto l’ex portiere accusato di abusi sui figli. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it da Massimiliano Nerozzi. Il portiere del Torino denunciato dall’ex moglie nel 2011, era accusato di violenza sessuale. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione del pm.
LA STORIA. Per Matteo Sereni, 44 anni, ex portiere di Samp, Lazio e Torino, tra le tante squadre in cui ha giocato, finisce un incubo durato otto anni: il gip di Torino, Francesca Firrao, ha infatti archiviato — su richiesta della Procura — il procedimento che lo vedeva accusato di presunti abusi sessuali su minori. È stata insomma accolta la tesi dei suoi due difensori, gli avvocati Giacomo Francini e Michele Galasso, secondo i quali «i minori sono stati per lungo tempo e reiteratamente interrogati con modalità inappropriate e potenzialmente suggestive di falsi ricordi dalla moglie separata, Silvia Cantoro, dalla suocera, Franceschina Mulargia, nonché dai consulenti tecnici in ambito civile e penale.Sereni era stato denunciato dall’ex moglie nel novembre 2011 e, dopo una condanna in primo grado, a Tempio Pausania, c’era stato stata la sentenza della corte d’Appello di Sassari, che aveva spedito gli atti a Torino. Dove il pubblico ministero, Giulia Marchetti, ha chiesto l’archiviazione del procedimento, fatta propria dal gip. Insomma, Sereni è stato prosciolto da indagato (la richiesta di rinvio a giudizio l’avrebbe reso imputato). «Non v’è dubbio infatti — scrivere il giudice — che in materia di minori, il problema non sia tanto e solo la capacità di riferire ciò cui hanno assistito, ma proprio la formazione del ricordo, ben potendoci essere dei “falsi ricordi” determinati dal racconto dell’evento ricevuto nel tempo dagli adulti di riferimento, dalla qualità e aspettative di chi pone la domanda, dalla relazione che lega l’adulto e il minore».
Lo aveva accusato la moglie nel corso di una turbolenta separazione. Il calciatore che per anni non ha potuto vedere i figli era anche stato condannato in primo grado a Tempio Pausania. Ottavia Giustetti il 4 dicembre 2019 su La Repubblica. Dopo nove anni, e addirittura una condanna per molestie sessuali su minorenne del tribunale di Tempio Pausania, l'ex portiere del Toro e della Sampdoria Matteo Sereni è stato prosciolto dal gip di Torino da ogni accusa. Il procedimento nato nel 2011 sulla scia di una turbolenta separazione dalla moglie si conclude così, incredibilmente, dopo che l'ex giocatore per anni non ha potute vedere i figli e dopo che il suo processo è passato da Tempio Pausania a Sassari che, infine, lo ha rimandato a Torino per competenza territoriale. Qui il pm Giulia Marchetti ha chiesto l'archiviazione delle accuse per il calciatore che, secondo la ricostruzione del primo pubblico ministero, aveva molestato la figlia di quattro anni. Il gip di Torino, Francesca Firrao, ha accolto la richiesta ed è ora ufficiale l'archiviazione definitiva del caso. La giudice ha accolto la tesi dei difensori del calciatore, gli avvocati Michele Galasso e Giacomo Francini, secondo i quali i minori "sono stati per lungo tempo e reiteratamente interrogati con modalità inappropriate e potenzialmente suggestive di falsi ricordi dalla moglie separata Silvia Cantoro, dalla suocera Franceschina Mulargia e dai consulenti tecnici in ambito civile e penale". Il caso nel corso degli anni ha visto impegnata l'autorità giudiziaria non solo di Torino, ma anche di altre città italiane, e nell'ordinanza del tribunale subalpino si fa presente che "quasi tutti i magistrati che si sono occupati della vicenda hanno evidenziato che i minori sono stati in più occasioni sentiti con modalità inappropriate". Ai bambini è stato chiesto varie volte "dentro e fuori le aule di giustizia" di ripercorrere i fatti.
Fabio Postiglione per il “Corriere della sera” il 29 novembre 2019. È stata in carcere per due anni e dieci mesi con l' accusa di aver provato ad uccidere le sue figlie, una di tre mesi e l' altra di tre anni, somministrando nel latte antiepilettici, barbiturici, benzodiazepine. Per i pubblici ministeri delle Procure di Roma e Napoli e per quattro periti soffriva della sindrome di Polle, un disturbo mentale che spinge un genitore a infliggere un danno fisico ai figli per farli credere malati e attirare l' attenzione su di sé. Ma un genetista nominato dalla difesa l' ha scagionata. Le due bambine potrebbero avere una mutazione genetica per la quale non riescono a espellere in modo corretto e velocemente i principi attivi dei medicinali, e il loro accumulo è tale da far pensare a un avvelenamento. Per questo, prima il Tribunale di Roma, il 29 ottobre scorso, poi quello di Napoli, il 22 novembre, hanno assolto con formula piena Marina, una mamma di 32 anni napoletana, che il 16 gennaio del 2017 era finita in carcere dopo aver partorito la terza figlia (e che per questo non ha potuto nemmeno allattarla). Ora è libera e aspetta di poter riabbracciare le figlie che nel frattempo sono state affidate a una comunità protetta: pende la decisione della Procura dei minorenni di sospensione della patria potestà. «Ogni notte guardavo le sbarre della cella dov' ero rinchiusa: un dolore che nessuno potrà mai cancellare. Per difendermi avevo solo le mie parole», ha raccontato Marina che ripensa a quando, alcune settimane dopo l' arresto, l' avevano dovuta trasferire dal carcere di Pozzuoli per il tentativo di linciaggio di alcune detenute. Secondo le relazioni dei medici del Santobono di Napoli e del Bambino Gesù di Roma gli omicidi delle figlie si sarebbero dovuti realizzare in maniera subdola: con dosi eccessive di medicinali antiepilettici. La prima delle figlie di Marina a essere ricoverata è Vittoria, di appena tre mesi. Arriva al pronto soccorso dell' ospedale napoletano a novembre del 2015 con vomito, diarrea, cianosi, irrigidimento del corpo. Alcuni medici riconducono tutto a una forma di epilessia. Iniziano la cura con uno sciroppo a base di barbiturici e un altro medicinale a base sedativa e ammonio. Dosi massicce che non portano a nulla perché Vittoria il 29 gennaio del 2016 finisce in coma per i farmaci in corpo. La terapia le viene sospesa, ma un mese dopo mostra ancora tracce di sedativi e ammonio. I medici non hanno dubbi: la bimba è stata avvelenata dalla mamma, che viene segnalata al Tribunale dei minorenni. La bimba guarisce e torna a casa. A novembre del 2016 l' altra figlia di Marina, Asia, tre anni, dal Santobono viene trasferita al Bambino Gesù a causa di una violenta crisi respiratoria. Nel suo corpo i medici capitolini trovano benzodiazepine e anche questa volta accusano la mamma. Ma l' avvocato Domenico Pennacchio ha dimostrato che quelle tracce di sedativi erano il principio attivo del medicinale usato in rianimazione a Napoli, che il corpo della bimba non era riuscito ad espellere per la probabile mutazione metabolica e genetica. «Cerco giustizia, ma ora più di tutto fatemi riabbracciare le mie figlie», dice Marina.
La storia di Onofrio Amoruso Battista. “Consulenze? No, tangenti!” E l’avvocato fu rovinato dai Pm. Tiziana Maiolo 27 Novembre 2019 su Il Riformista. Assolto in primo grado e anche in appello. Ma quel giorno… «Avvocato, ma come mai lei di queste cose non parla mai per telefono?». Chissà che frustrazione per il dottor Roberto Pellicano, ex sostituto milanese e oggi procuratore capo a Cremona, quel giorno di sei anni fa, quando si era reso conto di non aver potuto lanciare la consueta pesca a strascico tramite le intercettazioni sui telefoni dell’avvocato Onofrio Amoruso Battista. Eppure l’impegno era stato notevole, il 6 febbraio del 2013: 25 agenti della Guardia di finanza sparpagliati tra la casa, lo studio e gli uffici della banca Popolare Milanese di cui l’avvocato era il legale dal 1980, per perquisizioni cui si accompagnava l’ordinanza di custodia cautelare. Per due volte, nel corso delle indagini, gli uffici del pubblico ministero avevano invano chiesto il carcere per l’avvocato milanese, per due volte il gip l’aveva rifiutato, sostituendolo con i domiciliari, che comunque si sono prolungati per cinque mesi. I titoli di reato? Le solite cose, verrebbe da dire: associazione per delinquere, un certo numero di episodi di corruzione tra privati, appropriazione indebita. “Rapporti con la criminalità organizzata”, titoleranno però i quotidiani, in particolare Il Fatto e Repubblica, il giorno dopo. L’avvocato Amoruso è accusato di aver fatto parte, insieme all’ex presidente di Bpm Ponzellini e altre persone, di un “comitato d’affari” che, in cambio di tangenti, avrebbe fatto ottenere finanziamenti “facili” a chi non ne aveva titolo, in particolare a BPlus, la società di Francesco Corallo nel settore del gioco legale, le sloat machine. Gli arresti di febbraio erano stati anticipati da un articolo di Repubblica del 16 novembre 2012 e dal solito agguato della trasmissione Report, con i cronisti appostati davanti a casa e all’ufficio dell’avvocato Amoruso e infine una chiacchierata con l’attuale direttore Sigfrido Ranucci poi trasformata in intervista con registrazione occulta. Un “grande scoop” carpito alle spalle. Quel che attirava, ieri come oggi, i signori grandi firme, era il solito profumo di mafia, per via della presenza nell’inchiesta del nome di Francesco Corallo, cui si aggiungeva in questo caso anche l’odore della ‘ndrangheta per un supposto (e mai avvenuto) finanziamento elettorale a un ex assessore della Regione Lombardia, arrestato proprio in quei mesi per sospetti contatti con persone di una ‘ndrina calabrese. La vicenda in realtà era tutta interna al mondo delle banche e anche a quello delle società impegnate nel settore del gioco legale. Negli anni tra il 2009 e il 2011 vi era una certa attenzione sia della Banca d’Italia che della Guardia di finanza nei confronti del sistema cooperativo del Banco Popolare Lombardo, presieduto da Massimo Ponzellini, che era entrato in conflitto con l’assemblea dei soci, composta da dipendenti molto sindacalizzati e che disponevano ciascuno di consistenti pacchetti di clienti. L’avvocato Amoruso era da sempre in stretto contatto in particolare con il sindacato autonomo Fabi, così come con le due sigle Fiba e Fisac che rappresentavano rispettivamente i confederali Cisl e Cgil. Esisteva un vero rapporto fiduciario, tanto che, quando lui era stato candidato come membro dell’istituto dei probiviri (cioè di coloro che fornivano gli indirizzi di ordine deontologico), era stato eletto con ben 1.200 voti. Una vicinanza che disturbava non solo il presidente del Banco, ma anche, in seguito, lo stesso pubblico ministero Pellicano. Il quale, durante un interrogatorio durato oltre sei ore, picchiando forte la mano destra disposta a taglio sulla sinistra, gridò: «Io lo devo spezzare, questo suo rapporto con il sindacato!». Chissà perché. Il motivo del conflitto interno alla banca era determinato dalla volontà di Ponzellini di azzerare la struttura cooperativa e trasformare l’istituto in società per azioni. Cosa che in seguito accadrà, ma solo nel 2015, con un decreto del governo Renzi. Nel frattempo però la presidenza Ponzellini era caduta in favore di quella di Andrea Campanini Bonomi. Il quale, invece di allinearsi ai potenti sindacati che al vertice dell’istituto lo avevano voluto, riesce a infilarsi in una situazione conflittuale ancora più aspra di quella del passato, con trasferimenti nottetempo di 500 persone mandate a cento-centocinquanta chilometri di distanza e un tentativo di modifica statutaria che gli viene sonoramente bocciata. È a questo punto che, su suggerimento della stessa Procura milanese, parte dall’Istituto la querela nei confronti di Ponzellini per i finanziamenti a Corallo. La cosa strana (vogliamo pensare sia stato un errore) è che dal carteggio tra l’ufficio legale di Bpm e i magistrati si evince che il suggerimento dei pm è del giorno precedente rispetto alla mail di richiesta da parte dell’avvocato. Tra l’altro scoppia anche il problema del conflitto di interessi del presidente Bonomi che, proprio come Corallo, gestiva due società nel settore delle sloat machine. Così finisce che Corallo cita Bonomi davanti all’Alta Corte di Londra (erano tutti e due residenti in Inghilterra) e quest’ultimo è costretto ad aprire una trattativa segreta con il concorrente. Ma intanto non dimentica tutti coloro che gli si erano opposti nella sua gestione e nel progetto della spa. Il 5 febbraio 2013 il Bpm esercita la remissione di querela e il giorno dopo viene arrestato l’avvocato Onofrio Amoruso Battista. Ogni sua consulenza, a partire da questa di un milione e due fatta alla società BPlus, è considerata una tangente finalizzata a fare ottenere un prestito alla società. Bonomi dà anche incarico all’audit interno di verificare tutte le attività professionali dello studio Palmisano-Amoruso, senza risultato. L’avvocato Palmisano non verrà mai sentito dai magistrati. E Amoruso subirà cinque mesi di domiciliari, oltre a un anno e due mesi di sospensione dall’albo professionale. Inutile chiedere come sta a uno che ha perso tutto, che ha dovuto chiudere lo studio, che si sta riprendendo solo ora con pochi clienti, dopo due assoluzioni e che non è ancora in grado neppure di retribuire il suo legale di fiducia. È lui, l’avvocato Ezio Monaco, il più sorpreso: «Mio padre era un magistrato – dice – ma era di un’altra generazione, non ci avrebbe dormito la notte, prima di decidere sulla custodia cautelare, soprattutto nei confronti di un professionista». «Abbiamo tanto lottato – conclude – per il nuovo processo, per il sistema accusatorio, ma se non facciamo la separazione delle carriere, è stato tutto inutile».
Rimborsopoli, la Cassazione “affonda” l’inchiesta piemontese. Giovanni M. Jacobazzi il 20 Novembre 2019 su Il Dubbio. Era il 2012 quando esplosero in tutta Italia le Rimborsopoli regionali. In Piemonte, sotto la lente della Procura di Torino, finirono oltre cinquanta consiglieri regionali. «Piano piano la giustizia della Cassazione restituisce dignità a questa vicenda», ha dichiarato ieri l’avvocato Domenico Aiello all’indomani della definitiva assoluzione di Roberto Cota. «Naturalmente – prosegue poi il legale dell’ex presidente della Regione Piemonte – nessuno potrà restituire ciò che è stato tolto a Roberto Cota e alla sua famiglia in questi anni». Era il 2012 quando esplosero in tutta Italia le Rimborsopoli regionali. In Piemonte, sotto la lente della Procura di Torino, finirono oltre cinquanta consiglieri regionali. Per tutti, a partire dall ‘ allora presidente Cota, l’accusa di di aver speso in modo inappropriato i fondi destinati ai gruppi consiliari. L’indagine venne subito battezzata dai giornali come lo scandalo delle “mutande verdi”, che in realtà erano dei pantaloncini ginnici, acquistati da Cota durante una sua trasferta all’estero e per i quali aveva poi chiesto il rimborso. Il processo è stato caratterizzato da una girandola di sentenze per l’ex governatore leghista. Assolto in primo grado, condannato ad un anno e sette mesi di reclusione in appello, nuovamente assolto in Cassazione. Con Cota era stato indagato anche l’attuale capogruppo della Lega a Montecitorio, Luca Molinari, uno dei parlamentari leghisti più vicini a Matteo Salvini, all’epoca giovane consigliere regionale. Per lui l’accusa era di essersi fatto rimborsare spese non giustificate per circa 1.200 euro. L’indagine era stata condotta con notevole impiego di personale da parte della dalla guardia di finanza. Per mesi, decine di finanzieri avevano controllato uno ad uno alla ricerca di una “pezza” giustificativa le migliaia di scontrini per i quali era stato chiesto il rimborso. Nel calderone dei rimborsi era finito di tutto, dalle spese in bar e ristoranti, agli acquisti vari, come appunto le “mutande verdi” di Cota. Erano “spese di rappresentanza” scrissero i giudici di primo grado. Giustificazione che verosimilmente, quando saranno note le motivazioni, avrà avvallato la Cassazione. Pene confermate, invece, per Michele Giovine, ex leader dei Pensionati per Cota, e Massimiliano Motta, ai tempi esponente del Pdl, condannati, rispettivamente, a quattro a sei mesi e due anni e due mesi. Da ieri, per effetto della legge Spazzacorrotti che ha cancellato la sospensione condizionale della pena per i reati contro la Pa, i due sono già in carcere. Quando esplose l’inchiesta, i grillini parlarono di “onta da lavare il voto” e di “incapacità di intendere e volere” da parte della giunta Cota di non dimettersi. Giunta che, comunque, terminò con un anno di anticipo, nel 2014, per una sentenza del Tar che annullò le elezioni del 2010 per irregolarità nella raccolta firme.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 novembre 2019. Ci annoiamo da soli, a scrivere questo articolo: perché rischia di assomigliare a troppi altri del genere «assolto tizio, ora chi lo risarcirà?» a cui far seguire, poi, una reprimenda contro i tempi della giustizia e contro i magistrati che eventualmente abbiano sbagliato - e che non pagheranno in ogni caso - e poi, ovviamente, contro chi approfittò politicamente della sventura degli indagati, magari andando noi a ripescare - tipico - qualche articolessa colpevolista da rinfacciare a qualcuno. Rischia di assomigliare, questo, ad articoli che però non rendono banali noi: rendono cronico il problema, rendono terminale e canceroso un sistema che solo una rivoluzione legislativa sarebbe in grado di affrontare sul serio: ma, con questi chiari di luna e questa classe politica - di governo o di opposizione che sia - non siamo mai stati così lontani dall' obbiettivo, e dall' humus necessario. Siamo, semmai, già a un punto di non ritorno che ha trasformato la magistratura in un grande gendarme che sovrintende uomini, cose e soprattutto la politica. Fine del sermone. Passiamo al compitino.
LA VICENDA. Il processo è quello «Rimborsopoli» della Regione Piemonte, e il grande assolto è Roberto Cota alias «mutande verdi», espressione chiave perché ricordiate di che cosa stiamo parlando. Roberto Cota è un leghista ex governatore del Piemonte che è stato appunto assolto in Cassazione (assieme ad altri) dalle accuse sul rimborso di varie spese, tra le quali le citate mutande verdi. Certo, ci sono anche dei condannati, ma nell' insieme il processo si è politicamente sgonfiato a dir poco. In primo grado emersero spese assurde e imbarazzanti da parte di molti consiglieri regionali (decine di migliaia di euro che andavano arrotondare gli stipendi, grazie ai meccanismi di rimborso dei gruppi) e la cosa andrò a rovinare contro la legislatura 2010/2014 a trazione Lega e centrodestra: cene, pranzi, spese di rappresentanza, trasferte, alberghi e anche tosaerba, bigiotteria, e poi le famose mutande verdi di Cota oltre ad acquisti in negozi di abbigliamento come Olympic a Torino e Marinella a Napoli. Le accuse erano varie: dal peculato all' illecito finanziamento ai partiti. La posizione del capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, era tra le più leggere: condannato a 11 mesi in appello, ora assolto anche lui. Gli era stato contestato un peculato di nemmeno 1.200 euro. Annullate poi le sentenze contro il citato Roberto Cota (dapprima condannato a un anno e sette mesi) e per i parlamentari Paolo Tiramani della Lega (un anno e cinque mesi) e Augusta Montaruli di FdI (un anno e sette mesi) mentre per altri 21 imputati ci sarà un appello bis per ridefinire le prescrizioni e la rideterminazione delle pene inflitte in Appello nel luglio 2018: perché non è ancora finita, certo. La giustizia ha i suoi tempi. E gli imputati, di tempi, hanno smarrito i loro: congelati da una condizione di eterna attesa. E stiamo parlando del tribunale di Torino, considerato tra i più veloci. Naturalmente non mancherà chi dirà che l' impianto accusatorio alla fine ha retto: i giudici della V sezione della Cassazione in effetti hanno confermato l' ampliamento delle condanne in Appello (divenute 25 contro le 15 del primo grado, nel 2016) ma l' impatto politico dell' inchiesta è sostanzialmente scemato - ora, non allora - lasciando solo delle consolazioni genere «ero innocente, l' ho sempre detto». Le inchieste sono sempre un fatto pubblico, le assoluzioni una consolazione privata.
REAZIONI. «Sono contento, fin dall' inizio sapevo di essere innocente» ha detto Cota uscendo dall' aula. «Sono stato oggetto di attacchi ignobili, ho sofferto tanto. Ma è giusto avere fiducia, una parte del sistema funziona». Funziona la parte che ha assolto lui: è, a suo modo, una variazione della sindrome di Stoccolma. Un altro ex assessore della giunta Cota, Massimo Giordano, assolto a sua volta, si è detto «contento ma non sorpreso» perché si sapeva innocente anche lui. In realtà non c' è nessuno che si sia detto colpevole: le condanne sono arrivate solo per le spese considerate abnormi in un processo che appariva giuridicamente complesso, perché tutte le cosiddette spese istituzionali (cene, pranzi, abiti e borse griffate donate ai bisognosi) sono sempre state giustificate con finalità politiche: e sul confine tra libertà e legittimità della spesa si è giocata tutta la partita. Di processi per le spese pazze, comunque, se ne sono fatti tanti altri in tutte le regioni: ma in questo le assoluzioni hanno superato le condanne. Curioso che il commento più significativo venga da un piddino, il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Pensiamo alle conseguenze politiche di tutto questo sono cose che fanno venire i brividi. Sono materie su cui sarebbe opportuno riflettere, prima di mettere all' indice la classe dirigente. Ci sono troppe richieste di rinvio a giudizio, troppi clamori che si fanno sulla stampa. Abbiamo bisogno di riflettere e di un maggiore garantismo. Il politico può essere sottoposto ad una verifica di legalità, ma bisogna stare attenti prima di pronunciare l' indagine». E forse bisogna stare attenti prima di applaudirla.
"Ho sbagliato e pagato ma la gogna è un ergastolo". L'ex politico Pennisi riabilitato dopo la concussione: "Senza diritto all'oblio impossibile rifarsi una vita". Stefano Zurlo, Domenica 17/11/2019, su Il Giornale. Il difficile viene dopo. «Io - spiega con un filo di autoironia Milko Pennisi - sono stato in collegio da ragazzo e in quell'ambiente ho imparato una disciplina che mi è tornata utile quando sono finito a San Vittore». Scaraventato in cella per aver accettato una tangente. «Sono rimasto dietro le sbarre cinquanta giorni e poi sono andato ai domiciliari per altri quattro mesi, ma ho reagito bene, ho ammesso il mio errore, ho riconosciuto di aver sbagliato». Una volta. Una sola: non esisteva un sistema Pennisi. I pm l'hanno cercato in lungo e in largo ma non hanno trovato nulla. Solo che il cronometro non è più ripartito e il futuro fa fatica a prendere forma. È un paradosso: «Ho finito di scontare la mia pena, ma la condanna non se ne va, diventa una specie di malattia cronica che ti porti addosso. Vivi in una sorta di limbo paludoso: tutti allargano le braccia, ti guardano con un sospiro e alla fine, senza che ti dicano una parola, tu sai perfettamente che quell'episodio, quell'unico episodio che ti ha macchiato la fedina penale e la coscienza, è un muro invalicabile». Pennisi, esponente «rampante» di Forza Italia, era il presidente della Commissione urbanistica del Comune di Milano e l'imprenditore che lo incastrò ebbe pure l'accortezza di riprendere con una telecamera nascosta il passaggio delle banconote. Carriera finita: flash&manette. Succedeva quasi dieci anni fa ma è come se fosse accaduto ieri e Pennisi ha cominciato a studiare una via d'uscita, una exit strategy che ha un nome ben preciso: diritto all'oblio. «È l'unica soluzione, ammesso che ne esista una, altrimenti resti perennemente inchiodato a quel maledetto febbraio del 2010. Io - insiste - ho ottenuto pure la riabilitazione, diciamo che da un pezzo sarei pronto per reinventare la mia vita, naturalmente lontano dalla politica perché ho tradito chi aveva riposto in me la fiducia, ma non c'è niente da fare: vai a un colloquio di lavoro e mentre tu racconti che hai due lauree, in giurisprudenza e antropologia sui nativi digitali, e aggiungi che hai un curriculum di un certo spessore, soprattutto nella gestione dei centri convegni, quelli smanettano su internet, trovano il passato, gli articoli che mi riguardano, e si bloccano. Una smorfia si disegna sui loro visi: Ci spiace, ma sa...». Le conversazioni si chiudono tutte allo stesso modo con quel supplemento di riprovazione a scoppio ritardato che, goccia dopo goccia, diventa un compagno fisso. Si, paradosso dei paradossi, nell'Italia dove la pena non è certa, e anzi ballerina, la condanna non se ne va più. Diventa, per una rudimentale legge del contrappasso, un ostacolo insormontabile che tutte le volte ritorna fuori. Pena spesso virtuale, ma ergastolo della gogna. «È come se fossero trasmesse sempre le stesse immagini della tua esistenza e tu sei costretto a rivederle tutti i giorni, in una maledizione senza fine». Può sembrare strano, ma ad aiutare Pennisi lungo il percorso accidentato del riscatto sono state due persone che in teoria avevano poco a che spartire con lui, anzi stavano, se così si può dire, dall'altra parte della barricata: Milly Moratti, che in consiglio comunale era collocata a sinistra, e Gherardo Colombo, ex magistrato, per lunghi anni con Di Pietro e Davigo nel Pool Mani pulite, spesso frettolosamente scambiato per uno dei campioni del giustizialismo tricolore. «Ci conosciamo da sempre - riprende Pennisi - mi sono confessato con lui e lui mi è stato vicino nei momenti bui, come la Moratti che veniva a trovarmi quando gli altri politici, soprattutto quelli della mia parte, facevano finta di non conoscermi. Anche Colombo non mi ha mai abbandonato». In privato e anche in pubblico, mostrando sul campo che il diritto a una seconda chance non può rimanere confinato in un angolino della Costituzione. «Mi sono iscritto alla sua associazione Sulle Regole, e negli spazi di ChiAmaMilano, inventati e gestiti dalla Moratti, abbiamo dato vita ad un convegno sul diritto all'oblio». Tutti d'accordo i relatori, compreso Peter Gomez, giornalista notissimo, direttore del Fattoquotidiano.it: a certe condizioni e dopo un periodo congruo di tempo, è giusto voltare pagina. «Certo, in quell'occasione - aggiunge Pennisi - l'avvocato Umberto Ambrosoli ha parlato dell'importanza della memoria, ma non credo onestamente che si possa paragonare l'assassinio di suo padre Giorgio, commissionato da Michele Sindona, con la mia debolezza». E invece in Italia i motori di ricerca sfornano e aggiornano in tempo reale verdetti irrevocabili che fanno il vuoto, liste di proscrizione immodificabili, anatemi per l'eternità che non distinguono. Basta un clic e la rete all'istante agguanta l'autore di crimini inenarrabili come chi ha commesso una leggerezza, chi ha confessato e chi si ostina a negare, chi fa vita da eremita e chi ha avuto la faccia tosta di rientrare nel circuito pubblico. No, non può essere cosi. «Le persone possono cambiare - scandisce senza alcun imbarazzo Colombo - e la vita è un film che scorre, non una fotografia, sempre la stessa con quell'azione sbagliata. Per questo anche il diritto all'oblio deve essere riconosciuto». Umanità&empatia, a dispetto di tanti stereotipi e luoghi comuni. «Ho fondato un sito - riprende Pennisi - che si chiama Reputation Partners. L'idea è proprio quella di lavorare in modo professionale sulla reputazione e posso dire che più di un inquisito eccellente ha già bussato alla mia porta». Ma non è facile, in attesa di una legge che non c'è: basta un'incursione sul web per essere risucchiati dalla macchina del tempo. «Ho spiegato a mia figlia dodicenne quel che avevo attraversato prima che lei lo scoprisse da sola - è la conclusione - altri non sono stati cosi fortunati».
Scandalo sanità, assolto Angelucci: «Il fatto non sussiste». Simona Musco il 25 Settembre 2019 su Il Dubbio. Scagionato l’imprenditore e deputato. Riabilitati tutti gli imputati: I reati erano prescritti ma I giudici hanno comunque pronunciato una sentenza di proscioglimento con formula piena. Il fatto non sussiste: è con questa formula che il Tribunale di Roma ha assolto ieri mattina il deputato di Forza Italia Antonio Angelucci, il figlio Giampaolo e altre tredici persone, accusati di far parte un’associazione per delinquere finalizzata a una serie di truffe ai danni del sistema sanitario del Lazio. Un’assoluzione piena, dopo 16 anni tra indagine e processo, anche alla luce della prescrizione dei reati, nonostante la quale il tribunale di Roma ha comunque ribaltato le richieste formulate dai magistrati, che avevano invocato 15 anni per gli Angelucci e 10 per gli altri imputati, di fatto riabilitando tutti. Secondo l’accusa, gli Angelucci, con l’aiuto di vertici della Tosinvest, dei dirigenti della casa di cura San Raffaele di Velletri e di primari, nonché di due dirigenti della Regione Lazio e dell’Asl, avrebbero ottenuto la liquidazione indebita, tra il 2003 e il 2010, di 163 milioni di euro, attraverso presunte false diagnosi d’ingresso e certificazioni di prestazioni sanitarie non autorizzate. Nel 2009 il Parlamento respinse la richiesta di arresti domiciliari formulata dalla Procura per Antonio Angelucci, arresti che scattarono invece per il figlio Giampaolo e altri indagati. Secondo la procura, gli Angelucci avrebbero creato un impero politico- mediatico strutturato su tre livelli. Al vertice della piramide, secondo il pm Antonia Gianmaria, c’erano padre e figlio, che attraverso le loro proprietà editoriali avrebbero esercitato pressioni sul Presidente della Regione e sull’assessore alla Sanità per creare condizioni d’impunità nell’attività del San Raffaele di Velletri. Ad un gradino più basso ci sarebbero stati i dirigenti del gruppo, che avrebbero creato rapporti istituzionali per ottenere provvedimenti favorevoli alla casa di cura. E in fondo il braccio esecutivo, ovvero coloro che si sarebbero occupati delle false documentazioni. Secondo l’accusa, «i due, pur senza rivestire ruoli operativi nel San Raffaele di Velletri e nella galassia societaria cui la struttura fa riferimento, la Tosinvest ( holding di famiglia ndr) esercitavano un controllo diretto delle attività aziendali». In particolare, «curavano anche le relazioni esterne, con la messa a disposizione della struttura sanitaria per dispensare favori a terzi ( per ricoveri, prestazioni diagnostico- strumentali), con la messa a disposizione ( per consentire rettifiche o smentite) dei mezzi di informazione di loro proprietà editoriale ( oggetto di strumentale evocazione quale forma indebita diretta o potenziale di pressione)» e inoltre, «con l’attività di pressante influenza sulle cariche istituzionali ( il presidente e l’assessore alla Sanità della Regione Lazio) finalizzata ad interferire nella fase di regolamentazione normativa, generale ( attraverso delibere di giunta regionale) o puntuale ( attraverso l’emissione di singole determinazioni)». Nelle loro arringhe, i difensori avevano sostenuto la mancanza di «alcuna testimonianza a conferma delle imputazioni», né «prove documentali a sostegno dell’impianto accusatorio», al punto che «i testimoni ascoltati sono stati tutti favorevoli agli imputati». Un processo «mediatico», avevano sottolineato, evidenziando come «lo stesso giorno della requisitoria il tribunale ha emesso ordinanza che ha escluso dal processo le relazioni di polizia giudiziaria sulla base delle quali sono state formulate le accuse». Per Pasquale Bartolo, legale di Antonio Vallone, amministratore del San Raffaele, «è stata un’istruttoria dibattimentale molto lunga spiega al Dubbio – durata quasi quattro anni, durante la quale sono stati ascoltati centinaia di testimoni che hanno dimostrato che il San Raffaele ha sempre svolto regolarmente le sue attività». Sul banco dei testimoni, nel corso degli anni, sono saliti infatti i pazienti della clinica, che hanno tutti confermato, udienza dopo udienza, «di essere stati curati e anche bene. Erano più che soddisfatti delle terapie praticate e tutti gli altri testimoni ascoltati, dal punto di vista dei profili tecnico- sanitari, hanno ribadito che quello che era previsto si facesse è stato effettivamente fatto». Un processo nato sulla base di un’interpretazione sbagliata di una normativa molto complessa, aggiunge il legale.
«Erano state fatte valutazioni di massima procedendo per grandi linee – sottolinea – e senza andare nello specifico le norme erano state travisate e male interpretate, così come i fatti stessi. Un errore che non riguarda tanto la procura, quanto chi ha svolto le indagini». Del processo rimane un dato pacifico, in attesa delle motivazioni della sentenza: «ad oggi, a leggere il dispositivo, siamo riusciti a dimostrare che la San Raffaele ha sempre operato correttamente. Ci siamo ritrovati davanti ad un Tribunale attento e che ha prosciolto gli imputati nonostante la prescrizione dei reati, dichiarando che il fatto non sussiste. E ciò vuol dire solo una cosa: che è evidente che l’accusa non ha trovato alcun riscontro» . Antonio e Giampaolo Angelucci, insieme ai dirigenti del San Raffaele di Roma, hanno espresso soddisfazione per una decisione che «conferma il rispetto per la magistratura» nei cui confronti gli Angelucci «hanno sempre avuto piena fiducia, e rafforza il convincimento sempre avuto nella giustizia». Una sentenza, si legge in una nota della clinica, che «restituisce dignità e onore anche alle centinaia di lavoratori del San Raffaele Velletri, che così vedono riconosciuto il loro impegno a favore di migliaia di pazienti», conclude la struttura.
Da Adnkronos il 6 ottobre 2019. "Sono finito nel tritacarne perché ero strumentale per portare un attacco politico alla leadership di Matteo Renzi da una parte, mentre dall'altra mettermi alla gogna serviva a tenere lontani i riflettori dal vero marcio di Consip". A dirlo, in un'intervista all'Adnkronos, è l'imprenditore Alfredo Romeo. Il "vero marcio di Consip", spiega Romeo, "era stato da me denunciato negli esposti, e cioè il cartello di aziende che era contro di me, e non mosso da me, come risulterebbe evidente se le carte fossero lette con attenzione". Nelle maglie del cosiddetto caso Consip, aggiunge l'imprenditore, "c'è un risvolto politico che mi coinvolge, o meglio mi travolge strumentalmente. Sarebbe interessante, infatti, capire che cosa si intenda per caso Consip. Tutte le cose di cui sono accusato sul fronte delle gare, infatti, sono state denunciate da me con esposti che hanno avuto seguito solo quando il sottoscritto era finito nel tritacarne". Per quanto riguarda il "favore" con il quale negli anni scorsi ha guardato al progetto politico di Renzi, contribuendo anche con un finanziamento alla Fondazione Big Bang, Romeo afferma che si è rivelato uno "sguardo 'favorevole'" per il quale "sono stato mal ripagato". Secondo l'imprenditore "i 60mila euro, ufficiali e dichiarati, alla sua fondazione sono stati la leva per tacciarmi di fedelissimo renziano, ma lo stesso Renzi, a Report nel 2013, dichiarò che se avesse saputo che quei soldi provenivano da me, avrebbe detto di non accettarli. Potrei aggiungere che non sono stati restituiti, ma si sa: pecunia non olet. Certo che è strano - prosegue Romeo - che un renziano-renzianissimo come me, poi dovesse inseguire il papà del premier come qualche magistrato continua a suggerire, cercando ancora una volta di gettare ombre su Matteo Renzi e sulla sua presunta leadership nel campo della sinistra riformista. Si vede che qualcuno ha paura di quello che dice, che fa e che può fare". Romeo sostiene che "per gettare quelle ombre usano sistematicamente il mio nome. Si vedano i giornali di Travaglio e Belpietro in particolare: si potrà verificare, infatti, che c’è stata una recrudescenza di articoli su di me e sui miei presunti incroci con il papà di Renzi a cavallo della scelta di fare una scissione nel Pd. Il Fatto, la Verità, sparano su di me che sono la Croce Rossa, per sparare 'missili stampa-Renzi', contro un uomo che con abilità tutta politica è ritornato al centro della scena e potrà determinare infinite azioni future del governo, e non solo". Romeo, che il prossimo 9 ottobre tornerà in aula al Tribunale di Napoli per il processo che lo vede imputato per corruzione, racconta che "in questi ultimi quattro anni il sottoscritto e le sue aziende sono state al centro di un assedio implacabile, spesso condotto con strumenti che non si possono immaginare come esiti di un atteggiamento sereno nei miei confronti”. "Se non fossi sereno io, sulla mia condotta, dovrei immaginare che qualcun altro non lo sia. Anche perché - aggiunge - la sensazione che posso raccontare è che il castello costruito a mio danno sia così complesso, costoso e immaginifico, che non sia nemmeno ipotizzabile non darmi almeno una piccola pena in primo grado. Il risultato mediatico sarebbe tale, che tutte le successive assoluzioni passerebbero in sordina, e chi si è mosso sul pregiudizio comunque porterebbe un gol alla propria curva di tifoseria". "Io per l'opinione pubblica - ammette - sono come un derby di calcio: divisivo al 50%. Diavolo o vittima. Buono o cattivo. Per me si tifa contro o a favore, difficile che qualcuno si applichi a ragionare e a vedere i fatti. Spero, anzi sono certo, che però lo faranno i giudici di merito". "Le mie aziende - afferma ancora Romeo - sono state rivoltate come calzini in questi anni e non è stato trovato uno spillo fuori posto. Migliaia di pagine di analisi, indagini e controlli incrociati dimostrano che il Gruppo è sano e opera correttamente sul piano amministrativo, fiscale e contrattuale. Dunque noi continuiamo a lavorare con pieno diritto e trasparenza non solo con enti pubblici in Campania, ma in tutta Italia". "Lì dove ci sono stati dei rallentamenti - spiega l'imprenditore - è perché alcuni committenti, con iniziative arbitrarie e del tutto temerarie, hanno tentato di agire in nostro danno, senza che ci fosse una ragione di diritto o di fatto che potesse avallare quelle stesse iniziative. Con la forza della ragione, del buon titolo e del diritto, ci siamo opposti e chiederemo i danni. Anche su questo fronte sono sereno". Romeo sottolinea però che "questa autodeterminazione sregolata, fondata su presupposti errati e senza rispetto delle regole e delle controparti, provoca danni spaventosi, non solo alle aziende, ma al sistema economico in generale, che perde le tutele e gli automatismi di garanzia per far funzionare il sistema dell’impresa e del lavoro, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro, con una indifferenza alla vita delle persone e dell’apparato produttivo che lascia esterrefatti". Il processo, dopo una lunga serie di rinvii e di stop procedurali, si avvia verso la fase dibattimentale (la prossima udienza è fissata per il 9 ottobre) e Romeo si è detto "certo di poter chiarire ogni dubbio su accuse che sono state costruite su un pregiudizio di fondo nei miei confronti, che mi perseguita da più di dieci anni. Ma l’analisi puntuale dei fatti, dei riscontri e delle controdeduzioni mi lascia sereno". Secondo l'imprenditore, "le minuterie che formano la base d’accusa sono talmente improbabili, che un giudice sereno non avrà difficoltà a valutarle per quelle che sono: 'scorie del pregiudizio', così le chiamerei. Si può mai immaginare che la 'prova' che io sia un corruttore è una pianta grassa, un myrtillocactus del valore di una quarantina di euro? Se io fossi un giudice sereno direi: “Ma mi faccia il piacere!”". Alla richiesta di un commento sulla nascita di Italia Viva, l'impreditore ha affermato che "Renzi ora ha un partito che sulla carta può fare l'ago della bilancia, e l'ha creato dentro al Parlamento senza passare per le elezioni che quasi certamente lo avrebbero spazzato via. Chapeau!". L'Romeo sottolinea però che, "se vogliamo parlare del disegno politico, io non faccio il tifo per Renzi o per chicchessia. Penso però che il Paese abbia bisogno di stabilità, normalità, continuità e credibilità. Ma anche di riforme, dal sistema fiscale a quello giudiziario, piaccia o no a Davigo, Travaglio & co., che sono del partito che 'non esistono innocenti ma solo colpevoli che se la sono cavata'”. “E qui - aggiunge - devo spezzare una lancia per la categoria degli imprenditori, non per me: non si può vivere e lavorare in un Paese paralizzato dalla paura dell’attività giudiziaria. Prendiamo le norme su tasse o corruzione: anche un errore viene punito più che un reato grave contro la persona. Ma nulla si fa, invece, per combattere l’elusione fiscale da una parte, che è più grave dell’evasione, e meno ancora per semplificare la burocrazia a carico delle imprese, che determina i più evitabili, diversamente, casi di rapporto corruttivo tra imprenditore e pubblico ufficiale". Infine Romeo ricorda che nel caso Consip "c’è un reo confesso, Marco Gasparri, che mi chiama in correità nel tentativo di capire i meccanismi delle gare Consip. Anche qui i riscontri alle accuse di Gasparri sono nulli, ma negli atti i giudici già potrebbero individuare l’assoluta inaffidabilità di quel signore". Alla "inaffidabilità" dell'ex dirigente di Consip Marco Gasparri, secondo Romeo, andrebbero aggiunte le "manipolazioni evidenti delle indagini: non dimentichiamo che questo filone di inchiesta è stato tolto al pm Woodcock che l’aveva avviato e al suo fedelissimo, ma a dir poco sciatto, maggiore Scafarto". Questo, sottolinea l'imprenditore, "dovrebbe indurre i giudici a considerare con angolazione diversa tutta la vicenda. E se si fa la ricostruzione del presunto “scandalo”, si rimane basiti dall'inconsistenza dell’impianto accusatorio. Ma - conclude - ci vorrebbe una giornata a descriverlo".
Alfonso Papa, l’ex deputato del Pdl assolto in appello nell’inchiesta sulla P4. In primo grado, nel dicembre 2016, era stato condannato dal Tribunale di Napoli a 4 anni e sei mesi di reclusione per alcuni dei reati contestati, dichiarato prescritti alcuni e assolto per altri. "È finito un calvario durato 10 anni che non auguro a nessuno - ha commentato il magistrato che venne candidato da Silvio Berlusconi - Col paradosso che mi hanno arrestato i colleghi deputati e mi hanno assolto i giudici". Il Fatto Quotidiano il 26 settembre 2019. L’ex deputato del Pdl, Alfonso Papa, è stato assolto in appello dalle accuse che gli erano stato mosse dalla procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta sulla P4. “È finito un calvario durato 10 anni che non auguro a nessuno – ha commentato il magistrato che venne candidato da Silvio Berlusconi – Col paradosso che mi hanno arrestato i colleghi deputati e mi hanno assolto i giudici”. Papa era stato il quinto parlamentare per il quale la Camera aveva autorizzato la custodia cautelare in carcere quando erano emerse le accuse dei pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano. Si consegnò ai finanzieri e fu trasferito a Poggioreale. Rimase in carcere per 101 giorni, poi gli furono concessi gli arresti domiciliari. In seguito, nel 2012, il Tribunale del riesame dichiarò illegittimo il suo arresto. In primo grado, nel dicembre 2016, era stato condannato dal Tribunale di Napoli a 4 anni e sei mesi di reclusione per alcuni dei reati contestati, dichiarato prescritti alcuni e assolto per altri. La sentenza della Corte di Appello ha invece ribaltato in toto il primo pronunciamento, assolvendolo da tutti i reati. L’indagine era nata nel 2010 e culminata nell’estate del 2011 nell’arresto di Papa e del faccendiere Luigi Bisignani che poi aveva patteggiato 1 anno e 7 mesi di reclusione.
Alfonso Papa viene assolto: "Ora il calvario è finito". L'ex parlamentare del Pdl gioisce: "In Italia gestione tribale del sistema mediatico giudiziario. Con l'indagine ho perso famiglia e lavoro, ma guardo avanti". Luca Sablone, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. Alfonso Papa è stato assolto dalla seconda sezione penale della Corte d'appello di Napoli dopo le accuse relative alla vicenda giudiziaria "Loggia P4". La Camera aveva autorizzato la custodia cautelare in carcere per l'ex parlamentare del Pdl, condannato dalla prima sezione penale del Tribunale di Napoli a 4 anni e 6 mesi di reclusione per induzione alla concussione. L'indagine era nata nel 2010 e culminata nell'estate del 2011; dietro le sbarre era finito anche il faccendiere Luigi Bisignani che poi aveva patteggiato una pena di un anno e sette mesi. I difensori di Papa (Carlo Di Casola e Giuseppe D'Alise) hanno espresso enorme soddisfazione.
"Calvario finito". L'ex magistrato ha commentato così la sentenza: "È finito un calvario durato dieci anni che non auguro a nessuno. Col paradosso che mi hanno arrestato i colleghi deputati e mi hanno assolto i giudici. In Italia c'è una gestione tribale del sistema mediatico giudiziario. Con l'indagine ho perso famiglia e lavoro, ma guardo avanti".
Papa prosciolto in appello «Votarono il mio arresto per colpire Berlusconi». Simona Musco il 27 Settembre 2019 su Il Dubbio. L’ex deputato era a processo per l’inchiesta “Loggia p4”. Lo sfogo dell’ex magistrato: «passai 157 giorni da recluso per colpa di quel voto alla Camera, ma ora so che fu soltanto strumentale e a volerlo fu soprattutto la Lega». «Oggi mi rendo conto che l’arresto votato dalla Camera fu una grande strumentalizzazione voluta all’epoca dalla Lega per incidere sul governo Berlusconi». Poche ore dopo la sentenza di proscioglimento per prescrizione dei reati, Alfonso Papa tira le somme di dieci anni di «sofferenza» e di «gogna». Dieci anni passati nelle aule di giustizia, dopo 157 giorni di custodia cautelare, tra carcere e domiciliari, una prima condanna a quattro anni e mezzo e l’epilogo di mercoledì sera, che ha chiuso la vicenda per l’ex parlamentare del Pdl. «Avrei potuto fare questo processo da uomo libero», racconta al Dubbio, sostenendo quella che per lui, ormai, sono certezze: il voto del 20 luglio 2011 fu soltanto una manovra contro Silvio Berlusconi. E la P4 «non è mai esistita». Papa, ex magistrato, era finito al centro dell’indagine sulla cosiddetta “Loggia P4”, dei pm napoletani John Henry Woodcock e Celeste Carrano, con l’accusa di favoreggiamento, concussione e rivelazione di segreto d’ufficio. Ma l’accusa gli aveva contestato anche l’associazione a delinquere, esclusa sia dal gip sia, successivamente, dalla Cassazione e dal Tribunale del Riesame di Napoli, che avevano confermato l’insussistenza degli indizi in relazione a quel reato. «Non c’erano i presupposti per l’arresto – scrivevano i giudici del Riesame – perché non esistevano presupposti per contestare il reato dell’associazione a delinquere». Il quadro disegnato dai pm era invece a tinte fosche: per i magistrati, si trattava di un’attività di dossieraggio clandestino per gestire e manipolare informazioni segrete o coperte da segreto istruttorio, anche con lo scopo di controllare appalti e nomine. L’indagine riguardò anche il faccendiere Luigi Bisignani e il sottufficiale dei carabinieri di Napoli Enrico La Monica. Ma un pezzo dell’inchiesta arrivò fino al generale della Finanza Michele Adinolfi, in uno stralcio per il quale gli atti finirono a Roma per competenza, per poi essere archiviati nel 2014. Papa fu allora espulso dall’Associazione nazionale magistrati «per discredito alla magistratura» e fu il primo, nella storia dell’associazione, a subire una decisione così drastica. Così come fu il primo, dopo 30 anni, a vedersi votare l’autorizzazione all’arresto. Il primo grado di giudizio si concluse il 22 dicembre 2016, quando il Tribunale di Napoli lo condannò a 4 anni e 6 mesi di reclusione e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per le accuse di induzione indebita e istigazione alla corruzione, assolvendolo dall’accusa di favoreggiamento e dichiarando prescritta quella di rivelazione di segreto d’ufficio. Bisignani, invece, patteggiò una condanna ad un anno e sette mesi, chiudendo subito la sua vicenda. Mercoledì, infine, è arrivata la sentenza della Corte d’Appello. «Dopo l’esperienza vissuta – spiega oggi l’ex deputato – credo che l’abuso della custodia cautelare sia un momento di grande sbilanciamento del sistema e che purtroppo vi è un rapporto da rifondare completamente tra magistratura e politica». La decisione della Corte d’Appello di Napoli, per l’ex deputato, rappresenta un atto di «giustizia», anche se tardivo. «Devo ringraziare tutti quelli che mi sono stati vicini e i miei avvocati, Carlo Di Casola e Giuseppe D’Alise – racconta – Oggi guardo avanti con fiducia. Questi dieci anni sono stati di grande solitudine e grande dolore, ma anche di speranza e fiducia nella verità». Dopo l’autorizzazione all’arresto, spiega Papa, diversi colleghi si sono però pentiti della loro scelta, tornando sui propri passi e chiedendo scusa per quel voto, che gli costò 103 giorni a Poggioreale e quasi due mesi di domiciliari. «Mi hanno chiesto scusa racconta – e oggi appare chiaro quello che successe quel 20 luglio del 2011: il voto in parlamento andò in maniera assolutamente svincolata dai fatti che emergevano dall’indagine, ma fu dettato esclusivamente da logiche e interessi partitici». La Loggia P4, continua a dire, «non è mai esistita. La Cassazione già nel settembre del 2011, quando io ero ancora in custodia cautelare in carcere, disse in sede cautelare che questa era un’ipotesi che mancava di riferimenti e di riscontri. Successivamente la magistratura giudicante ha messo in evidenza tutta una serie di elementi che mettevano in grande crisi quella che era l’idea iniziale del pm». Dopo la pronuncia dei giudici di Napoli, anche Bisignani ha commentato la vicenda, spiegando di aver patteggiato «per gravi motivi familiari e lo rifarei mille volte nonostante l’enormità di alcune accuse – dice all’AdnKronos – Mi dispiace che mia madre non ci sia più. A quasi 90 anni aveva subito una perquisizione corporale alla ricerca di floppy disk. Ovviamente chiederò la revisione. La giustizia, come mi ha sempre insegnato il presidente Andreotti, va sempre e comunque accettata».
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 27 settembre 2019. Mentre Facebook chiude pagine satiriche e letterarie perché gli algoritmi non capiscono le battute e tantomeno l'arte, e i giornaloni continuano a prendersela con le fake news dei social perché rivogliono l'esclusiva sulle bugie, un fatto di cronaca rimette le cose a posto. L'ex pm ed ex deputato forzista Alfonso Papa, condannato in primo grado a 4 anni e mezzo di galera in un filone dello scandalo P4 , se la cava per prescrizione in appello. Ma l'AdnKronos, che vanta come presidente l' ex generale Michele Adinolfi (a suo tempo intercettato, indagato e poi archiviato nell' inchiesta P4 ), "informa" che è stato "assolto da tutti i reati". E raccoglie le lacrime e la gioia dell' imputato perché è stata "accertata la verità" dopo i "lunghissimi anni" di persecuzione in cui "ho perso una famiglia e un lavoro". Povera stella. Tutti i siti, trattandosi di un' agenzia di stampa, se la bevono e rilanciano. "Papa assolto", dunque il suo arresto era "illegale". Ergo il pm Woodcock che l'aveva indagato è un puzzone. E ora "chi risarcirà" il povero martire? La Corte (come già quella di Palermo sulla balla "Andreotti assolto") invita i somari a leggersi il dispositivo, che non è di assoluzione, ma di "non doversi procedere per intervenuta prescrizione" degli stessi "reati per cui l' imputato era stato condannato in primo grado". Quindi Papa non è un innocente perseguitato, ma l' ennesimo colpevole che l' ha fatta franca. Grazie agli avvocati e al tribunale che sono riusciti a far durare 6 anni il processo a un solo imputato. Roba da ispezione ministeriale. Anche perché gli altri tre processi di primo grado a carico del noto galantuomo durano da 7 anni. Un legislatore degno di questo nome avrebbe bloccato la prescrizione vent'anni fa, quando falcidiava i processi di Tangentopoli. Invece B. (per i noti motivi) e il centrosinistra (per i noti motivi) allungarono i processi e dimezzarono la prescrizione. Dovettero arrivare i 5Stelle, noti incompetenti, per bloccarla dopo la sentenza di primo grado: se l' avessero fatto gli altri, il processo Papa non si sarebbe prescritto. Nessun avvocato o giudice avrebbe perso tempo e il processo sarebbe durato pochi mesi. E, se anche fosse durato 6 anni, la prescrizione non avrebbe ripreso a correre in appello. Ora Salvini e B. sperano di neutralizzare la legge Bonafede prima che entri in vigore il 1° gennaio. E pare che parte dei renziani e del Pd, la stessa che tentenna sulle manette agli evasori, dia loro manforte. Se così fosse, il Conte 2 nato per combattere Salvini&B. coi fatti non avrebbe più senso e il M5S dovrebbe aprire subito la crisi. La paura di Salvini&B. non può giustificare un governo che fa le stesse porcate di Salvini&B.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 27 settembre 2019. Una associazione segreta a delinquere fatta da una sola persona. La terribile P4, l'associazione che infettava il paese, «organizzata e mantenuta in vita allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e la amministrazione della giustizia», «interferendo su organi costituzionali», trafficando notizie segrete e manovrando nomine, non esisteva. L'unico condannato, l'uomo d'affari Luigi Bisignani (che ha patteggiato la pena a un anno e sette mesi) era evidentemente associato solo con se stesso. Una auto-associazione a delinquere. L'ultimo dei tre uomini chiave della loggia arrestati nove anni fa dalla Procura di Napoli è stato assolto ieri con formula piena: si chiama Alfonso Papa, era deputato, e fu il primo parlamentare italiano mandato in carcere dal voto dei suoi colleghi, che approvarono a maggioranza la richiesta dei pm napoletani. Papa si fece tre mesi nell'inferno di Poggioreale, poi lo misero ai domiciliari. Al processo di primo grado i pm Francesco Curcio e Henry John Woodcock chiesero per lui otto anni di carcere. Il tribunale gliene rifilò quattro e mezzo. Ieri la Corte d'appello di Napoli lo assolve con formula piena da tutte le accuse. «Finisce un calvario», dice Papa. Ma intanto la sua vita se l'è fregata la giustizia. «Ho perso la famiglia, ho perso il lavoro, ma vado avanti», mastica amaro l'ex deputato. Un virus che aveva infettato il potere e le istituzioni, forte di legami occulti e inconfessabili con il mondo della sicurezza e dell' intelligence. Così, a manette ancora calde, il bliz dei pm napoletani descrisse la cricca capeggiata da Bisignani, da Papa, e nientemeno che da un maresciallo dei carabinieri, Enrico La Monica. Leggendo bene le carte, si capiva che della effettiva esistenza dell' associazione segreta dubitava anche il giudice che aveva ordinato gli arresti. Ma nel mondo dei media e della politica fecero finta di niente: la P4 esisteva, e la Procura l' aveva sgominata. Anche se chi fossero gli adepti non si capiva bene, visto che i capi di imputazione rimandavano ad un indistinto milieu di pubblici amministratori arruolati o da arruolare. Strada facendo, l' inchiesta si arricchì di altre prede eccellenti: vennero incriminati come sodali di Papa e Bisignani persino il capo di Stato maggiore Michele Adinolfi e il comandante in seconda della Guardia di finanza Vito Bardi. Tutti e due poi archiviati, quando ormai le carriere erano finite in discarica. Nel frattempo, Papa sopravviveva a Poggioreale, pressato dai pm perché scegliesse di collaborare. Alla fine perse la pazienza, e scrisse una lettera a un amico senatore: «Il pm Woodcock mi ha fatto sapere che sarebbe disponibile a farmi scarcerare se ammettessi almeno uno degli addebiti e rendessi dichiarazioni su Berlusconi e Lavitola e almeno su Finmeccanica». Papa non accontentò i pm, e quando venne scarcerato dal giudice preliminare la Procura fece (invano) ricorso per rispedirlo in carcere. Ora, dopo nove anni, tutto finisce in niente. Certo, rimane la condanna patteggiata «per gravi motivi familiari» da Luigi Bisignani, unico colpevole di una associazione inesistente. «Mi dispiace - dice ieri Bisignani - che mia madre non ci sia più. A quasi novant' anni aveva subito una perquisizione corporale alla ricerca di floppy disk. Ovviamente come mi consente la legge, chiederò la revisione: che arriverà, mi dicono, fra molti anni».
Marco Cavero per Adnkronos il 27 settembre 2019. In un comunicato diffuso ieri mattina l'ex parlamentare Pdl Alfonso Papa e i suoi legali esultavano per "l'assoluzione" dalle accuse relative alla vicenda giudiziaria salita alle cronache con il nome di "Loggia P4". La Corte D'Appello di Napoli ha precisato che si tratta di "una sentenza di non doversi procedere nei confronti dell'imputato per intervenuta prescrizione dei reati", sottolineando che "è stato in parte dichiarato inammissibile e in parte respinto l'appello del pm avverso le pronunzie assolutorie adottate dal Tribunale in ordine agli altri reati". L'avvocato Carlo Di Casola, che insieme a Giuseppe D'Alise difende Alfonso Papa, interpellato dall'Adnkronos prova a fare chiarezza su quanto realmente avvenuto. La P4 è ancora in piedi? Ci sono stati condannati per la P4? La massoneria e i reati collegati all’inchiesta denominata p4, che tanta eco ebbe all’epoca sui giornali, che fine hanno fatto? Insomma, per quali reati è stato assolto Papa? Per quali condannato? Per quali prescritto? "Iniziamo dalla cosa più importante - dice l'avvocato - e cioè l'ipotesi P4, ancora citata da alcuni giornali: è scomparsa". E questo, sottolinea, "per le stesse richieste del dottor pm Woodcock, che aveva già ottenuto l'archiviazione per l'aggravante della legge Anselmi", promulgata in materia di associazioni segrete sulla scorta dello scandalo P2. Alfonso Papa, spiega il suo legale, "era imputato per 10 capi d'imputazione, per 5 dei quali è stato assolto con formula piena mentre per gli altri è stata dichiarata la prescrizione". Tra questi ultimi figurano anche due ipotesi di concussione e istigazione alla corruzione, che, nella gravità ipotizzata dall'accusa, non risulterebbero ancora prescritte. "Per questo - spiega ancora Di Casola - in attesa delle motivazioni della sentenza che saranno depositate entro 90 giorni, immaginiamo che i giudici abbiano ridimensionato le accuse, per poi dichiararle prescritte. Se si parte quindi dall'ipotesi di concussione e si arriva a un reato meno grave, come può essere ad esempio il millantato credito, e si dichiara la prescrizione, è chiaro che Papa è uscito indenne dal processo e che il procedimento per lui si chiude quindi favorevolmente". Quel che è certo, sottolinea il legale di Papa, è che l'esistenza di una loggia massonica denominata P4 è un'ipotesi archiviata da tempo: "I pm - ricordano i legali di Papa - hanno iniziato l'azione penale contestando una presunta associazione per delinquere aggravata dalla legge Anselmi, quindi volta alla sovversione dell'ordine democratico della Repubblica Italiana. Questo a fronte di reati fine sproporzionati rispetto all'enormità dell'ipotesi iniziale". Al riguardo l'avvocato D'Alise cita "l'ipotizzata ricettazione di schede telefoniche, per la quale Papa è stato assolto in primo grado". Sono quindi i pubblici ministeri, prosegue Di Casola, "a smontare da soli l'aggravante della legge Anselmi, ipotesi che esisteva sin dalla prima iscrizione nel registro degli indagati del 2007, in un primo momento rigettata dal gip dell'epoca, poi anche dalla Cassazione nel 2011 che ha dato torto ai pm. Infatti, sull'associazione per delinquere non è stata mai emessa una misura cautelare a carico di Papa. Dopo qualche anno lo stesso pm Woodcock ha chiesto e ottenuto l'archiviazione per questo settore, lasciando in piedi un'ipotesi associativa semplice". A tale riguardo, ricorda l'avvocato, "c'è un procedimento davanti al Tribunale di Napoli, ma è ancora agli albori nonostante siano trascorsi più di 10 anni, versa nei preliminari del giudizio di primo grado". Questa ipotesi di associazione, aggiunge Di Casola, "prevedeva una serie di reati fine per i quali, nel processo appena concluso, Papa è stato assolto oppure sono andati in prescrizione. Abbiamo quindi un'associazione che non è più l'ipotizzata P4, per la quale sono rimaste pochissime persone coinvolte, con i reati fine eliminati. Abbiamo quindi ragione di immaginare che questa associazione per delinquere non sussista, anche se chiaramente non possiamo sostenerlo finché un giudice non lo deciderà. Quel che è certo - conclude - è che l'ipotizzata loggia massonica P4 non esiste più dal 2011, non esiste per la stessa ammissione del pm che fece l’inchiesta e che poi ha chiesto l’archiviazione, insomma è scomparsa da anni. Possiamo dunque dire che non è mai esistita”.
· Salvatore Proietto per 72 grammi di marijuana. Muoiono la madre e la moglie, ma lui resta in cella.
Muoiono la madre e la moglie, ma lui resta in cella. Condannato a soli due anni, gli negano visite e funerali. Salvatore Proietto è stato condannato per il possesso di 72 grammi di marijuana. Damiano Aliprandi il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Muoiono la madre e la moglie. Il carcere può anche infliggere senza giustificato motivo una doppia e tripla pena. Ti recidono gli affetti, ma può accadere che ti muoia una persona cara e, nonostante l’autorizzazione del giudice, non fai in tempo a vederla l’ultima volta. Ma solo in foto, quella sulla lapide. Questa è una storia, atroce, che è capitata esattamente un anno fa a Salvatore Proietto, detenuto nel carcere catanese di Piazza Lanza per una condanna a più di due anni per il possesso di 72 grammi di marijuana. Una storia drammatica. Purtroppo la sua vicenda non finisce qui. Salvatore riesce a ottenere la detenzione domiciliare e viveva insieme alla moglie. A maggio di quest’anno, però, lei si è ammalata gravemente. La portano in ospedale e finisce in terapia intensiva. Salvatore, essendo ai domiciliari, non può andarla a trovare. Fa istanza al magistrato di sorveglianza, ma non ha nessuna riposta e la moglie muore, senza che lui sia mai andata a trovarla e la possa vedere. Proietto ha scritto una lettera, dolorosa, a Rita Bernardini del Partito Radicale, perché «io so chi lei – scrive -, si batte per i diritti umani». Ora è in detenzione domiciliare e forse, se tutto andrà bene e gli sottrarranno i mesi che gli spettano, potrebbe uscire a dicembre. Salvatore ha 40 anni e quando nei primi mesi del luglio del 2018 era ristretto in quel carcere catanese – talmente superaffollato da ritrovarsi addirittura in sei dentro una cella -, gli è arrivata una notizia del tutto inaspettata. La madre, affetta da demenza senile, muore improvvisamente. Il suo avvocato difensore ha subito fatto istanza al giudice e quest’ultimo prontamente ha emesso l’autorizzazione. Tre i permessi, con tanto di scorta. Il primo per recarsi a casa il giorno stesso della morte della madre ( 4 luglio), il secondo per il funerale ( 5 luglio), il terzo per andare al cimitero nel luogo dove avveniva la tumulazione. Senza speranza. Salvatore era quindi in attesa per essere scortato in paese, per poter vedere la madre, poterla piangere e guardarla per l’ultima volta. Ma nulla da fare. I giorni passavano e ha perso ogni speranza. Solo il 7 luglio finalmente l’hanno preso e potuto scortare fino al cimitero, quando oramai la madre era stata già tumulata. E solo per mezz’ora. Eppure, anche i mafiosi al 41 bis hanno la possibilità, con un permesso di necessità, di poter abbracciare per l’ultima volta i proprio cari. Ma per Salvatore nulla. «Questa è una cosa disumana e un’ingiustizia atroce», ha scritto nella lettera indirizzata a Rita Bernardini. Ma non finisce qui. Come detto, Salvatore è riuscito ad ottenere la detenzione domiciliare. Ma ad una condizione: quella di dimorare presso un’altra abitazione visto che il reato di spaccio l’aveva commesso nella sua casa. La sorella è riuscita trovargli un’altra sistemazione, una casa di fortuna, vecchia e senza riscaldamento funzionante, tanto da aver dovuto affrontare un gelido inverno insieme a sua moglie. In trappola. Quest’ultima, proprio a maggio di quest’anno, si è ammalata gravemente. La portano in ospedale e finisce in terapia intensiva. Salvatore, essendo in detenzione domiciliare e quindi con tutte le restrizioni che ha un detenuto, non può andarla a trovare. Per questo motivo, tramite l’avvocato, fa istanza al magistrato di sorveglianza per chiedere un permesso. Nessuna riposta e la moglie nel frattempo muore, senza che Salvatore possa vederla e assisterla in ospedale. Un’altra sofferenza atroce che inevitabilmente ha una ripercussione nella psiche. Salvatore è finito in una spirale di depressione, una punizione che nessuna sentenza ha emanato. Ma evidentemente non è bastato nemmeno questo. Se da una parte è riuscito almeno ad avere l’autorizzazione per poter scontare la sua pena finalmente nella sua casa d’origine, dall’altra parte gli è stato negato l’affidamento in prova, uno strumento prezioso e indispensabile per potergli permettere di reinserirsi finalmente nella società. È riuscito perfino a trovare un’azienda disposto ad assumerlo. Ma nulla, il tribunale di sorveglianza ha rigettato l’istanza di concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova. Salvatore, prima dell’arresto, era già sotto cura per ansia e depressione. Ora inevitabilmente è peggiorato e sta malissimo. Potrà mai ottenere una riparazione del danno psicologico subito? Ora a difenderlo è l’avvocato Baldassarre Lauria, dell’associazione Progetto Innocenti, noto per essersi occupato di far riaprire il processo di Giuseppe Gulotta, colui che scontò ingiustamente l’ergastolo.
· Antimo d’Agostino. Ex soldato assolto dopo 5 in galera. Fu legittima difesa.
Ex soldato assolto dopo 5 in galera. Fu legittima difesa. In Corte d’appello a Napoli. Antimo d’Agostino, condannato a 20 anni, era stato scarcerato solo dopo l’annullamento della cassazione. Errico Novi il 28 giugno 2019 su Il Dubbio. Ex soldato assolto. L’ultima legge sulla legittima difesa ha reso più stringenti le “tutele” nei confronti dell’aggredito. Ma lo ha fatto solo per la cosiddetta difesa domiciliare. Quando cioè si reagisce a un’intrusione e al conseguente pericolo all’interno della propria dimora o luogo di lavoro. Tutti i restanti casi di legittima difesa restano regolati, in realtà, dalle norme del Codice Rocco. Imperfette, come tutte le altre, e comunque mai abbastanza puntuali da potersi sostituire al lavoro di ricostruzione dei fatti. Che spetta solo al giudice. A riprova che nessun codice potrà mai bastare a spazzar via i casi di malagiustizia arriva la vicenda incredibile di Antimo D’Agostino. Un 39enne di un piccolo comune del Casertano, Sant’Angelo in Formis, assolto a 10 anni di distanza dai fatti contestati e, soprattutto, dopo averne trascorsi la metà in carcere. L’ex militare, all’epoca in servizio nelle forze speciali dell’Esercito, era stato condannato per l’omicidio di Malay Xhervair, 27enne di origine albanese. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere gli aveva inflitto una condanna a 24 anni, appena attenuata dalla Corte d’appello, che era scesa a 20. Entrambe le sentenze avevano escluso, appunto, che D’Agostino avesse colpito Xhervair per legittima difesa. Non avevano creduto alle sue parole: l’ex soldato aveva sempre sostenuto di essersi fermato, insieme con il coimputato Michele Marchi, a difendere una prostituta e di essere stato per questo aggredito da una decina di persone. Aveva spiegato che nella convulsa colluttazione si era visto costretto a impugnare il coltello, e che il fendente mortale fu conseguenza di una scelta inevitabile. Gli ha creduto solo la Cassazione, che nel 2014 ha annullato con rinvio il primo verdetto della Corte d’appello di Napoli e scarcerato D’Agostino, rimasto fino ad allora in galera per tutti e 5 gli anni trascorsi dalla tragedia. Ha avuto definitivamente giustizia solo ieri mattina, quando la terza sezione della Corte d’assise d’Appello di Napoli, presidente Vincenzo Martursi, ha riconosciuto che «l’imputato ha agito per legittima difesa», come sempre sostenuto dal suo difensore Mario Iodice. Non basta una legge, per quanto garantista, finché non arriva il giudice in grado di applicarla.
· Giustizia. Franco Tatò: “evitate i processi”.
Giustizia: “evitate i processi”, intervista a Franco Tatò il 18 giugno 2019 di Mariagrazia Forcella. Mia intervista di oggi a Franco Tatò. Soprannominato “il manager filosofo” in ragione della sua laurea in filosofia con una tesi su Max Weber, sotto la direzione di Enzo Paci, Franco Tatò ha ricoperto alcuni dei più importanti incarichi alla testa di grandi aziende italiane. Scoperto da Olivetti, nel 1984 diventa amministratore delegato (AD) di Mondadori, per decisione di De Benedetti. Nel 1993 diventa AD di Fininvest. A questo incarico dal 1991 al 1996, Tatò aggiunge il rientro in Mondadori, come AD, per volere di Silvio Berlusconi. Nel 1996 approda in ENEL, sostenuto dal governo Prodi che fa di lui una figura chiave della politica di privatizzazione dell’industria di Stato italiana. Con Tatò alla guida, Enel esordisce nel mercato della telefonia mobile insieme ai partner strategici France Telecom e Deutsche Telekom. Ne nasce Wind. Tatò lanciò l’espansione di Enel nel settore della fornitura di acqua con Enel.Hydro, del gas con ColomboGas, nelle energie rinnovabili (Erga), nell’impiantistica (EnelPower), nell’immobiliare (Sei). Ne nacquero aziende leader nei loro settori come Enel Green Power e Sfera Terna, gestore della rete di trasporto dell’elettricità ad alta tensione su tutto il territorio italiano e in Brasile. Nel 2002 il governo Berlusconi non gli rinnova l’incarico, pur offrendogli la Presidenza di ENEL, che Tatò rifiuta. E’ quindi a capo (AD e Presidente) di numerose aziende: Hdp, Coesia Group, Prada, cartiere Pigna, IPI, Mikado Film, Compagnia Finanziaria, FullSix, Treccani. Nel periodo del post-crack della azienda, dal 2011 al 2014, è stato Presidente del CdA di Parmalat.
Domanda: Nelle sue funzioni di Presidente e Amministratore delegato di alcune fra le più grandi imprese italiane, Lei ha avuto più volte rapporti con la Giustizia italiana: quali sono le sue valutazioni riguardanti quelle sue esperienze?
Tatò : la mia conclusione è una sola: evitate i processi a qualunque costo, evitate ogni rapporto con la Giustizia a qualunque prezzo. Altro che “ho fiducia nella magistratura”! Fanno bene ad avere fiducia nella magistratura i delinquenti. Se hai ragione, se sei innocente: evita la Giustizia. E’ quello che dicono anche i grandi avvocati.
Domanda: iniziamo da un famoso processo che la concerne, quello riguardante il caso Parmalat. Come si è svolto?
Tatò: la vicenda nasce dalle accuse mosse da azionisti di minoranza, un fondo aggressivo USA, ma il processo ha subito varie evoluzioni e giravolte, i capi di imputazione ed i termini sono mutati poiché una PM folle voleva a tutti i costi evitare la prescrizione, per cui cambiando le carte in tavola, è riuscita a tenere in piedi un processo che dura da 9 anni ed ancora non si è concluso. In sintesi il problema sono in primo luogo i cosiddetti “PM d’assalto”, per cui non ti trovi davanti alla Giustizia, non sei davanti ad un funzionario dello Stato che obiettivamente valuta fatti, ma sei davanti ad un nemico che cerca disperatamente di sostenere una tesi.
Domanda: perché accade questo, cosa muove i “PM d’assalto”?
Tatò: il sistema delle carriere. Per fare carriera in magistratura devi appartenere alle correnti ed in ogni caso devi mostrare assoluta fedeltà alla parte ideologico-politica (ndr: le correnti in Magistratura fanno riferimento a partiti politici) che ti sostiene. Questo è ciò che anima il lavoro dei magistrati, PM e giudici: la fedeltà ad una parte politica.
Domanda: riprendiamo il caso Parmalat. Lei ha detto che la PM ha evitato la prescrizione, ha mutato i termini della vicenda e le accuse, come ha potuto farlo?
Tatò: attraverso l’utilizzo di cavilli. I giudici trovano sempre un modo per ricominciare il processo, modificando i capi d’imputazione. Ora, nella vicenda Parmalat, siamo alla “ostruzione di vigilanza”. I magistrati, in quello e negli altri processi, generalmente, non leggono le carte, sono delle poveracce (o dei poveracci) ignoranti, quando entri nel dettaglio dei fatti di cui sei accusato, i magistrati non sono oggettivamente in grado di comprendere i termini della questione, non sono capaci di valutare e di capire. Essi non sono all’altezza di interloquire con le parti, non hanno capacità sufficienti per comprendere i fatti o i reati sui quali sono chiamati a deliberare. Nel caso Parmalat, avevamo le valutazioni sul prezzo fatte da Boston Consulting, da luminari quali Guido Rossi, dal Prof. Colombo della Bocconi. I giudici non erano in grado di capirle, né le leggevano. Si figuri che hanno opposto a tutto ciò la valutazione fatta da un commercialista di Sassuolo. La vicenda, semplicissima alla base, è stata intricata al punto che non riescono a trovare la sede del processo: è iniziato a Parma, lo hanno spostato a Milano, poi a Roma, che lo ha rimandato a Milano, e da lì ancora a Roma. Sono vicende assurde che credo accadano solo in Italia. E non era così in passato. Prima non c’erano i PM d’assalto. Il PM in passato faceva il suo lavoro, svolgeva indagini. Ora dimostra una tesi. Non giudica fatti. E’ un nemico che ti attacca e ti si attacca addosso. Questo attaccamento è già costato a Parmalat (in perizie ed avvocati) 5 milioni e mezzo di Euro. Quando la Giustizia ti attacca, per quando infondate siano le accuse, i danni che ti causa sono certi, e non verranno mai ripagati. Non sto parlando soltanto dei costi diretti (avvocati e perizie), sto parlando anche degli immensi danni al proprio onore, alla propria reputazione, alla propria professione. Per esempio io, essendo stato condannato in primo grado, sono stato costretto a dimettermi dai miei incarichi, ivi compresi quelli presso una società finanziaria, dato che ciò era incompatibile con la mia condizione di pregiudicato. Vi sono poi i danni in termini di tempo, i danni morali, il dolore, che nessuno può risarcire per tutti questi processi che ti accompagnano durante decenni della tua vita, per poi finire in nulla, come ad esempio il processo ENEL.
Domanda: dunque i giudici procedono per tesi, preconcetti, pregiudizi (il che è l’esatto opposto rispetto al loro ruolo)?
Tatò: sì è così, e per categorie. Per esempio nel campo del diritto del lavoro. Ricordo il licenziamento di un guardia giurata quando ero amministratore delegato di Mondadori. Invece di custodire il palazzo sede di Mondadori, se ne andava a passeggio. Lo avevamo licenziato. Il giudice non ha accettato la giusta causa, lo ha reintegrato con pagamento dei danni, senza motivazione. E’ accaduto semplicemente perché la tesi (il pre-Giudizio) è: difendiamo i lavoratori. Parli con qualunque capo del personale: ascolterà una galleria degli orrori giudiziari in questo settore.
Domanda: passiamo ora al caso ENEL: l’accusa che le è stata rivolta era “disastro ambientale”, ma quel disastro non ha avuto luogo, e dopo due condanne in primo e secondo grado, lei è stato assolto in Cassazione, dopo 10 anni di processi.
Tatò: sì, in quel caso siamo addirittura arrivati al paradosso di essere stati accusati di non avere sfidato la legge. Il giudice ci ha perfino chiesto perché non abbiamo fatto in modo di fare cambiare le norme sulle emissioni inquinanti.
Domanda: Lei ha usato termini forti nel definire i giudici, posso riportarli nel testo della intervista?
Tatò: sì certo, ho una età per cui in carcere non finisco, anche se neppure questo è detto. In piena violazione delle leggi, sono stati incarcerati ottantenni. I giudici fanno quello che vogliono. Ormai a me dispiace solo per il mio paese. La Giustizia è l’elemento più importante di uno Stato. Ma dato come è amministrata ora in Italia vi dico: evitatela, evitate di avere rapporti con la amministrazione della giustizia, a qualunque costo. Per quanto mi riguarda, ne ricordo i dolori. Ne porto con me le ferite.
· Le confessioni di Stefano Ricucci.
Le confessioni di Stefano Ricucci. Francesco Bonazzi per “la Verità” il 21 giugno 2019. «Non sono un bancarottiere!». Stefano Ricucci, quando ci apre la porta del suo ufficio dietro via Veneto, è incavolato come un bufalo. Sventola le prove del fatto che ha pagato tutti i creditori di Magiste International, la sua holding, «uno per uno e al 100%, spendendo 700 milioni, di cui 119 all' Agenzia delle Entrate». Fa vedere, su un'altra inchiesta giudiziaria per cui è stato processato, che sarebbe bastato acquisire la dichiarazione dei redditi della società coinvolta nell' indagine (la Lekythos Srl), oltre alle visure camerali, per risparmiargli quel calvario giudiziario ove, fra i reati tributari addebitati, si addebitava a Ricucci di avere utilizzato fatture per operazioni inesistenti. Per non parlare dell' ultimo calvario giudiziario, che ancora pende in primo grado e per il quale s'è fatto 11 mesi (fra carcere e domiciliari) per presunta corruzione in atti giudiziari. Questa indagine, come quella relativa ai citati reati tributari, era nata da una costola della più ampia inchiesta della Procura di Roma su altri soggetti che, secondo gli inquirenti, avevano favorito o agevolato Ricucci nella ipotizzata corruzione di un Giudice della Commissione Tributaria Regionale del Lazio. Ma la Procura chiese l'archiviazione per tutti gli indagati. Il casus belli è un errore di chi scrive: aver «bucato» una sentenza del Tribunale penale di Roma, firmata dal giudice Paola De Martiis il 2 gennaio 2018: cinque righe per dire che «il fatto non sussiste», assoluzione piena dall' accusa di una bancarotta fraudolenta da un miliardo. Una bancarotta con un record: nessuno s'era costituito parte civile, manco l'Agenzia delle Entrate. «Lo volete capire che non sono un bancarottiere? Non ho fatto nessuna bancarotta e non ho fregato i soldi di nessuno». In questa intervista («La prima che concedo da oltre dieci anni») l'immobiliarista romano che ha inventato l'espressione «Furbetti del Quartierino» apre uno squarcio sulla giustizia romana, in questi giorni al centro di uno scandalo, e racconta che cosa gli sono costati 13 anni di processi con una sola macchia, come spiega lui: «Un patteggiamento per aggiotaggio su Rcs», che «col senno di poi ho sbagliato ad accettare».
Allora, lei non può essere inserito nell'albo d' oro dei bancarottieri d'Italia perché alla fine non ha fatto alcuna bancarotta.
(Ricucci allunga sul tavolo di cristallo un foglio con il dispositivo dell' assoluzione definitiva; ha ragione lui). «Sono stato assolto dall'accusa di bancarotta il 2 gennaio 2018 con la formula più ampia: il fatto non sussiste. Punto. Ho risarcito i creditori al 100%, collaborando con commissari e curatori per la vendita degli immobili, per un totale di 700 milioni di euro. Di cui ben 119 versati all'Agenzia delle Entrate».
Nessuno può dire di vantare un credito da lei?
«Nessun creditore, nessun investitore, nessun mio dipendente. Neppure lo Stato o qualche banca possono dire che debba loro qualcosa. Anzi, ho crediti fiscali per circa 30 milioni di euro e oggi posso affermare che il Gruppo Magiste è in bonis (spiattella sul tavolo tutte le carte che lo dimostrano). Poi però se chiedo a una banca italiana di aprirmi un conto, non me lo aprono. Dicono che la compliance non glielo consente, per la mia reputazione. Ma si rende conto?».
L'unica condanna che lei ha, se non sbaglio, è per la tentata scalata Rcs nell'estate del 2006, per la quale fu arrestato.
«Avevo 37 anni, non avevo protezioni, venivo da una famiglia con papà operaio e mamma casalinga, e mi sono trovato in un gioco più grande di me, dove mi hanno stritolato. Per uscire dal carcere, alla fine ho detto quello che volevano e ho patteggiato. Oggi posso dir che fu un errore tremendo: se avessi aspettato, questa faccenda sarebbe finita in nulla come le altre su Bnl e dintorni».
Il fortino di Rcs e la roccaforte di Bnl, alla fine, erano governati da poteri più forti di lei, Coppola, Statuto eccetera. Si è sentito usato, ai tempi delle scalate?
«No, però oggi posso dire che mi sono messo in operazioni più grandi di me e tutte queste inchieste che ho subito lo provano. Ma poi la gente non lo sa, ma mentre ci sono quelli che hanno il personal trainer, Ricucci ha il personal pm e il quasi personal gip».
Sarebbe?
«Io sono stato arrestato tre volte: nel 2006, nel 2016 e nel 2018. Il pm che chiede e ottiene gli arresti è sempre lo stesso. Le sembra normale? Ma aspetti, perché anche il gip, per due volte, è lo stesso. Nell'ultima, doppia inchiesta del 2016-2018, sulle presunte fatture false e sulla presunta corruzione di un magistrato che manco conosco, anche il giudice del Riesame è sempre lo stesso».
Forse sono sotto organico?
«Non lo so, ma comunque a me capita sempre lo stesso pm, che poi ad aprile dell' anno scorso se ne va al Csm, lascia i ruoli al pm Stefano Fava, oggi sui giornali per l'inchiesta sui magistrati romani e sul Csm di cui tutti stiamo leggendo, il quale lo scorso 21 novembre ribalta l' impostazione del predecessore e chiede l' archiviazione per me e per gli altri 11 indagati».
La giustizia non è sempre malvagia con lei, Ricucci.
«E ci mancherebbe anche! Io per questa fanta-storia della presunta corruzione mi faccio undici mesi tra carcere e arresti domiciliari, e poi dopo due anni devo leggere che un altro pm arriva e ribalta tutte le accuse e le butta nel cestino, nonostante proprio quegli elementi di prova, o almeno parte di questi, mi avessero portato in carcere per una presunta corruzione? E a me chi mi risarcisce?».
La Corte europea?
«Guardi, intanto Magiste International si sta rivalendo in tutte le sedi per il ristoro dei danni subiti. Il 9 marzo 2016 la Cedu di Strasburgo ha concesso l'ammissibilità del nostro ricorso sul fallimento. E poi, con riferimento a questa richiesta di archiviazione del dottor Fava, aspettiamo la decisione del Gip».
Il problema era che per il pm lei avrebbe corrotto un giudice del Consiglio di Stato, Nicola Russo, che però, anche in aula, a marzo, lei ha detto di non conoscere. Corretto?
«Corretto. Io non conosco questo dottor Russo. Aggiungo che la corruzione sarebbe consistita nel pagamento di circa quindici o sedici cene e serate nei locali della movida romana, per un valore complessivo di nemmeno 10.000 euro. Avrei poi consegnato doni al dottor Russo e mai individuati. Ma vorrei capire, parlando del processo attualmente pendente, ma uno che compra una sentenza tributaria che secondo il pm valeva oltre 20 milioni, si può sdebitare mesi dopo - e non prima - che questa sentenza venga pronunciata e pagando qualche serata nei locali notturni a cui, per altro, non ho nemmeno mai preso parte personalmente come è emerso nel processo? Ma poi, perché avrei dovuto corrompere un Giudice su una controversia tributaria in cui era coinvolta una società che, all' epoca (ossia al 24 aprile 2015) non era mia ma era di proprietà del fallimento Magiste? Quale vantaggio avrei mai avuto? Anche quando mi arrestarono nel 2016 per la presunta frode fiscale, che sarebbe dovuta servire a generare denaro per corrompere sempre lo stesso giudice mai visto e conosciuto, mi arrestarono prima che io, ossia la Lekythos Srl, avessi presentato la dichiarazione fiscale "falsa". Ma chi sono, Mago Zurlì? Le due vicende, come ho detto, nascono da una stessa indagine, in cui sono indagate altre dieci persone fra cui Centofanti, e di cui oggi si chiede l' archiviazione. Prima, nel 2016, mi hanno arrestato per i reati tributari pensando che i soldi provento di reato servissero a pagare il giudice dott. Russo perché, secondo il pm, mi avrebbe rivelato in anticipo l' esito del giudizio tributario a me favorevole. Poi, però, non avendo mai trovato questi presunti fondi neri, né avendo mai trovato elementi dimostrativi del fatto che li avessi consegnati al dottor Russo, è stato spostato il tiro ed hanno continuato l' indagine cercando elementi per indagarmi e poi di nuovo arrestarmi per la corruzione di cui ho detto».
E i soldi della «provvista» criminale?
«Ripeto: non ci sono soldi, nessuna mazzetta è mai stata data al Giudice dottor Russo, che nemmeno conoscevo. E questo lo dicono i documenti della società e non solo. Ma poi è scandaloso come nel dibattimento in corso siano mutate alcune circostanze che nelle indagini erano state ritenute rilevanti».
Ovvero?
«Se vogliamo dirla tutta, uno degli elementi di prova valorizzati dal pm e dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini e nella richiesta di arresto avanzata nel 2018 per la presunta corruzione, era una immagine scattata una sera di ottobre 2014 in un ristorante al centro di Roma. Il caso ha voluto che in quella immagine venissi effigiato sia io, seduto a un tavolo con amici a una festa di compleanno, sia il dottor Russo in piedi che camminava nei pressi del nostro tavolo. Ebbene, quella foto è stata valorizzata dal pm e dalla Polizia al punto da ritenere dimostrata la nostra conoscenza all' ottobre 2014. Poi, però, si è scoperto in dibattimento - lo hanno detto gli stessi agenti della polizia giudiziaria interrogati dal mio difensore - che quella foto non aveva in realtà molta valenza perché sembrava piuttosto che il dottor Russo stesse effettivamente camminando, e non fosse in posa nella foto. Quindi era una pura casualità. Solo che io, anche a causa di questa "casualità", ho fatto undici mesi fra carcere e domiciliari».
Quanto le è costata questa doppia inchiesta?
«Una paralisi imprenditoriale totale, perché anche con obbligo di firma tre volte a settimana per sei mesi, uno non fa niente. Ah, le faccio vedere questa meravigliosa intercettazione sempre tratta dall' indagine per corruzione, nella quale, secondo la Polizia Giudiziaria e secondo il pm, io parlavo con il giudice. Bella, eh? Peccato che il numero non fosse del Giudice ma del mio collaboratore, oggi purtroppo coimputato con me, con il quale stavo interloquendo. Si erano sbagliati a trascrivere e hanno scritto che invece stavo parlando con il Giudice. Le pare normale? Questo è solo un esempio, ma ce ne sono moltissimi altri».
Insomma, secondo lei con Ricucci vale tutto?
«Io dico solo che il cittadino normale che capita dentro a questa macchina infernale ne viene stritolato. Il pm è troppo più forte del cittadino piccolo».
Lei non è un cittadino qualsiasi, però.
«No, no, questo lo dice lei! Io sono un cittadino piccolo piccolo perché da 14 anni non faccio altro che difendermi. Ti fermano la vita, ti bloccano l' azienda, la famiglia, le fidanzate, la moglie».
La sua vita privata oggi com' è?
«La mia vita privata sono mia mamma Gina, che a 82 anni viene con me ai processi ed è stata perquisita alle 5 di mattina da 10 persone perché chissà quali reati commetteva con un telefonino che a stento sa usare. La mia vita privata è che mio padre Matteo è morto cinque anni fa di crepacuore per colpa di questa odissea giudiziaria. E mio figlio Edoardo, che ha 26 anni, per fortuna ha studiato e lavora all'estero».
Finanziariamente come sta?
«Nel 2005 avevo un gruppo da 1,9 miliardi di partecipazioni mobiliari e 600 milioni di immobili. Ho risarcito 700 milioni per Magiste e oggi la società ha un patrimonio netto positivo. Mi spiace solo per quel patteggiamento, ma in tre mesi di carcere persi 13 chili. Il mio personal pm mi fece 13 interrogatori da sei ore l'uno, e per uscire ho patteggiato».
E la famosa «bella vita» di cui ai vecchi rotocalchi?
«Gliel'aggiorno subito: ad agosto andrò a casa a Porto Cervo, con mia madre, come faccio da vent' anni. Se vuol sapere se ho la fidanzata, le dico che con questa vita che faccio non mi metto in un rapporto serio con una donna alla quale devi anche dare le giuste attenzioni, visto che passo la giornata qua dentro con le carte che vede, e negli studi dei miei avvocati. I danni collaterali di queste vicende, chi non c'è passato, non li può immaginare».
Quanto ha speso?
«A occhio non meno di 40 milioni fra spese legali e spese di giustizia, ma la vita non me la risarcisce nessuno. E mi sono perso la crescita di mio figlio nel periodo adolescenziale».
· Mario Moretti. La sentenza sulla strage di Viareggio non fa giustizia.
Strage di Viareggio. Condannato Moretti a sette anni. I familiari : «Oggi è un bel giorno. Finalmente dopo questa sentenza riusciremo a fare qualcosa per la sicurezza». Simona Musco il 21 giugno 2019 su Il Dubbio. Anche per la corte d’Appello di Firenze la strage di Viareggio si poteva evitare. Ed è per questo che ieri, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, i giudici hanno confermato la sentenza di primo grado per gli imputati ritenuti colpevoli, a vario titolo, della morte di 32 persone, tra le quali tre bambini, la notte del 29 giugno 2009. A quasi dieci anni da quel tragico giorno, i giudici hanno ribadito quanto stabilito due anni fa in primo grado a Lucca, confermando le condanne per circa 30 imputati, tra i quali Mauro Moretti, condannato a 7 anni di carcere a fronte di una richiesta di 15 anni e 6 mesi. Questa volta non solo in qualità di ex amministratore di Rfi, ma anche come ex ad di Fs. «Una vittoria», questa, per il procuratore capo di Lucca, Pietro Suchan. Condannati a sei anni anche l’ex ad di Rfi Mario Elia, che ha ottenuto uno sconto di un anno e mezzo, e Vincenzo Soprano ( ex ad Trenitalia). Assolto perché il fatto non sussiste l’ex dirigente della direzione tecnica di Rfi Giulio Margarita, in primo grado condannato a 6 anni e sei mesi e per il quale il pg Luciana Piras aveva chiesto 12 anni e sei mesi. Assoluzione anche per Giovanni Costa, Alvaro Fumi, Enzo Marzilli, dirigenti e tecnici di Rfi, che in primo grado erano stati condannati a sei anni. Durante il processo, Moretti ha scelto di rinunciare alla prescrizione «per rispetto delle vittime, dei familiari delle vittime e del loro dolore», ritenendo di «essere innocente». Ma i giudici hanno stabilito diversamente, decidendo di condannarlo per la seconda volta. Condannati anche gli amministratori e i dirigenti delle società tedesche ed austriache addette alla manutenzione dei carri merci, tra i quali Joachim Lehmann, supervisore all’Officina Jugenthal di Hannover, assolto in primo grado e ieri condannato a 7 anni e 3 mesi. Il pg aveva invocato per lui 8 anni: «aveva un contratto da 17 ore l’anno per un compenso di 700mila euro – aveva spiegato il pg in aula – ma non andò a controllare». Confermati, inoltre, i risarcimenti alle parti civili e le provvisionali stabiliti in primo grado, che gli imputati dovranno pagare in solido. Nel corso del secondo grado è intervenuta la prescrizione per i reati di incendio e lesioni plurime colpose, che ha portato a 6 mesi di sconto per gli imputati a cui venivano contestate tali accuse. I familiari delle vittime, riuniti nell’associazione “Il mondo che vorrei” erano tutti lì, in attesa delle parole del giudice. Speravano in un accoglimento pieno delle richieste del pm, ma hanno reagito alla lettura della sentenza con sollievo misto a lacrime. «Come potevo – ha detto Claudio Menichetti, padre di Emanuela, che ha mostrato ai giornalisti una foto del volto ustionato della figlia in ospedale – lasciare perdere una cosa del genere? Finalmente dopo questa sentenza riusciremo a fare qualcosa per la sicurezza». «Oggi è un bel giorno – ha aggiunto l’avvocato Tiziano Nicoletti, difensore di parte civile dei familiari delle 32 vittime – È stato condannato il sistema ferrovie, a dimostrazione che quello che è successo a Viareggio non è uno spiacevole episodio. Moretti non è stato condannato infatti solo come ex ad di Rfi ma anche come ex ad di Fs, l’holding del gruppo. Era quello che volevamo e l’abbiamo ottenuto». No comment da parte dei legali di Moretti, mentre l’avvocato Albero Mittone, difensore di Vincenzo Soprano e di Mario Castaldo, ex ad di Cargo Chemical si è detto «rammaricato» dal fatto che «in una società con molti dipendenti debba sempre rispondere l’ad» mentre «ci sono delle persone responsabili a livello settoriale». Viareggio conobbe l’inferno quando un treno merci deragliò in stazione liberando il suo carico di gpl e innescando una serie di esplosioni: 32 le persone morte in via Ponchielli, divorata dalle fiamme, molte rimaste intrappolate in casa propria, altre dopo mesi in ospedale tra atroci sofferenze. Per i giudici di primo grado, quel disastro non fu «un fatto imprevedibile», ma un evento «che sarebbe stato possibile evitare attraverso il rispetto di consolidate regole tecniche create proprio al fine di garantire la sicurezza del trasporto ferroviario, e soprattutto, prestando massima attenzione ai diversi segnali di allarme che si erano manifestati già prima del fatto e che preludevano al disastro.
Moretti, l'elenco dei beni che restano sotto sequestro. Marchi, vigneti, immobili, mezzi. Corriere di Arezzo il 21.06.2019. Un impero con i sigilli. Ecco il patrimonio mobiliare, immobiliare e societario, intestato o riconducibile agli indagati, la famiglia di Antonio Moretti, che resta sotto sequestro preventivo. La Cassazione ha annullato l'ordinanza del tribunale del Riesame che modificava in parte il decreto del gip che ha fatto scattare i sigilli sui beni ritenuti profitto dell'attività di autoriciclaggio che pende sul patron, familiari e collaboratori, per un totale di quattordici indagati. Ora dovrà pronunciarsi di nuovo in merito il tribunale del riesame di Arezzo, intanto tutto il patrimonio per oltre 25 milioni resta sequestrato. E’ costituito da 14 società, 179 immobili (di cui uno di rilevante valore artistico in Firenze, il palazzo di Bianca Cappello), diverse auto di lusso e oltre 500 ettari di terreni, prevalentemente adibiti a vigneti, dislocati tra Toscana, Sicilia ed Emilia Romagna nonché importanti marchi registrati, quali Oreno, Vigna dell’Impero e Crognolo, di proprietà della Tenuta Sette Ponti Società Agricola S.r.l., e Pull Love, di proprietà della Exlusive Limited di Hong Kong. I beni sequestrati (tra cui lo yacht di Andrea) appartengono alle seguenti società: Jeremy e associates real estate limited con sede in Gran Bretagna e Irlanda del Nord; Società agricola Feudo Maccari società semplice di Noto (SR); T.S.P. - S.R.L. di Terranuova Bracciolini (AR); Orma Società Agricola S.R.L. di Castagneto Carducci (LI); Dal Borro Immobiliare S.r.l. di Arezzo; M.E.F.A. - S.r.l.. di Arezzo (AR); Edilfutura S.R.L. di Arezzo; Ainvest S.r.l. di Roma; Le Torri S.r.l. di Firenze; Prioria SRL di Mondovì (CN); Società agricola La Loggia S.r.l. di Firenze. Intanto Antonio Moretti, re del vino, ha ottenuto il ritorno alla piena libertà: stop agli obblighi di firma tre volte la settimana dai carabinieri e restituito il passaporto. Il 23 novembre 2018 era stato arrestato (ai domiciliari) con il figlio Andrea e i collaboratori Marcello Innocenti e Paolo Farsetti. Tutti ora liberi, mentre l'inchiesta, complessa, procede.
La sentenza sulla strage di Viareggio non fa giustizia. La Corte d'appello conferma la condanna a sette anni a carico dell'ex ad di Ferrovie, Mauro Moretti. La sua unica responsabilità, trovarsi ai vertici di un’azienda. Il Foglio il 20 Giugno 2019. I dirigenti della rete ferroviaria, a cominciare dall’ex amministratore delegato delle Ferrovie dello stato, Mauro Moretti, sono stati condannati a pesanti pene detentive dalla Corte d’appello di Firenze che ha confermato la sentenza di primo grado a sette anni di carcere. L’emozione suscitata dal gravissimo incidente di Viareggio di nove anni fa, il dolore delle famiglie delle 32 vittime, hanno superato il più che ragionevole dubbio sulle effettive responsabilità personali di Moretti e dei suoi collaboratori. Tutto si incentra sul...
Vittorio Feltri, quando della condanna di Mauro Moretti diceva: "Che scandalo trattarlo da criminale". Libero Quotidiano il 20 Giugno 2019. Di seguito l'editoriale di Vittorio Feltri pubblicato su Libero il 13 febbraio 2019 scorso in cui il direttore spiegava quanto fosse insensato condannare l'ex amministratore delegato Fs Mauro Moretti per la tragedia di Viareggio. Dieci anni orsono a Viareggio accadde un impressionante incidente ferroviario in cui trovarono morte orrenda varie persone. Ovvio che la magistratura avesse subito aperto una inchiesta per accertare eventuali responsabilità. Si arrivò al processo di primo grado e l' ex amministratore delegato FS, Mauro Moretti, fu condannato a sette anni di prigione. Perché? Non l' abbiamo mai capito. Che c' entra il massimo dirigente di una impresa nazionale se un treno provoca un disastro in periferia? Si dà il caso che costui non sia un macchinista benché guidasse la complessa rete dei convogli italiani, compresi quelli dell' Alta Velocità, da egli stesso creati con competenza e diremmo maestria. Infliggergli la galera per una sciagura avvenuta in Toscana, mentre l' ingegnere operava ad alto livello organizzativo stando a Roma, ci sembra insensato per usare un termine gentile. Sarebbe come prendersela con il capo dell' azienda tranviaria milanese se un autobus va fuori strada e fa secchi alcuni passeggeri. Mah. Comunque a distanza di dieci anni dal massacro viareggino, si è giunti al processo d'appello e ancora una volta il pm indica nell'ingegner Moretti l' uomo da punire. Noi non possiamo entrare nei dettagli tecnici della vicenda, ma sottolineiamo che l' imputato eccellente ha rinunciato (secondo noi sbagliando, conoscendo la giustizia patria) alla prescrizione di cui avrebbe avuto diritto, per rispetto delle vittime e nella consapevolezza di essere innocente. Non è roba da poco. Noi col cavolo avremmo fatto a meno di invocare la succitata prescrizione. Moretti invece si è comportato da vero signore e affronta il giudizio (o il pregiudizio) delle toghe. Giù il cappello. Ci piacerebbe sapere per quale arcano motivo un dirigente specchiato e nobile quale il vecchio ad di Trenitalia venga perseguitato in tal guisa. Egli è stato l' artefice di Frecciarossa, che ha posto la nostra Patria sullo stesso piano dei Paesi più evoluti d' Europa nel campo dei trasporti celeri, e ha dimostrato nella sua carriera di essere un fuoriclasse, eppure viene trattato quale criminale. Siamo scandalizzati. Ci auguriamo che la Corte d' Appello, allorché sarà chiamata a emettere la sentenza, si renda conto di avere di fronte non un delinquente bensì a un servitore dello Stato degno non soltanto di rispetto, ma anche di lode ed eviti di castigarlo ingiustamente. Vittorio Feltri
Dagospia il 21 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile dottore Mughini, ancora una volta un suo articolo, quello di ieri sul disastro ferroviario di Viareggio, rompe la monotona ipocrisia della maggioranza, un tempo silenziosa ma oggi assordante. Giovedì la corte di appello di Firenze ha confermato la responsabilità dei vertici ferroviari italiani. Era questa l’invocazione collettiva, e ogni soluzione diversa sarebbe stata letta come un cedimento della giustizia, con interrogazioni parlamentari come qualche mese addietro per riduzioni di pena, con perplessità sui giudici insubordinati come quanto avvenuto ad Avellino dove il vertice aziendale è stato assolto per un disastro autostradale. Questo, dobbiamo prenderne atto, è il codice attuale del processo, quello non studiato nelle università, non scritto nei testi ma dalle testate autorevoli e da un’opinione pubblica ansiosa e desiderante. Nel passato, e avrebbe dovuto essere ancora, il processo riguardava il cittadino imputato, con le garanzie e i drammi personali. Oggi il processo è il luogo delle vittime che hanno trovato uno spazio al dolore nelle aule e chiedono riconoscimento del loro dramma umano. Ma i linguaggi sono diversi: quello del dolore non ha soluzione, sarà sempre inappagato perché non restituirà la persona cara scomparsa o il danno reale subito, ogni verdetto diverso dalla condanna e per di più severa sarà sempre vissuto come una sconfitta. Il linguaggio del processo è invece quello delle regole, dell’equilibrio (non a caso il simbolo è la bilancia), della ‘distanza emotiva’ per dirla con Calvino. Del resto le foto dell’aula anche di ieri, con 32 magliette raffiguranti i volti dei deceduti appoggiate sulle seggiole, era straziante per i familiari. Ma lo era anche per gli imputati che si rendevano conto di doversi confrontare con la percezione di quella tragedia e con magistrati che non si sottraevano a quella vista e all’empatia che quelle magliette generava. E noi difensori eravamo consapevoli che la richiesta collettiva era la condanna, era il capro espiatorio, era la vendetta legalizzata. Eravamo e siamo convinti di aver ragione, ma questo non basta perché è indispensabile trovare un giudice che te la dia. E aggiungo, abbia anche il coraggio di dartela . I tedeschi, pur colpevoli a forte intensità, non bastano, deve essere coinvolta anche l’azienda italiana più antica e prestigiosa. Anche perché i tedeschi se ne stanno in Germania senza danni come insegna la vicenda Thyssen. E allora che vendetta è se qualcuno non va in prigione realmente?
Giampiero Mughini per Dagospia il 21 giugno 2019. Caro Dago, mi è successa una cosa gravissima. Che il mio vecchio amico Renato Farina ha di certo messo un trojan nel mio cervello a catturarmi le idee e le parole con cui scrivere (su “Libero”) un bellissimo articolo a difesa dell’ “innocente” ex amministratore delegato di Ferrovie italiane Mario Moretti. Di certo Renato ha scritto un articolo migliore di quello che avrei scritto io, ieri pomeriggio, alla notizia per me incredibile che in appello è stata confermata la sentenza di condanna a sette anni a Mauro Moretti, e questo perché “oggettivamente” responsabile di quella stramaledetta sciagura ferroviaria di Viareggio, dove persero la vita 32 ”innocenti”. Non uno dei cosiddetti “giornaloni” ha avuto il coraggio e la lealtà civica di argomentare come ha fatto Renato Farina e come avrei fatto io ieri pomeriggio, se ne avessi avuto il tempo e non fossi dovuto andare a Napoli a chetare i tifosi napoletani furiosissimi contro l’ex comandante partigiano della insurrezione anti-juventina, Maurizio Sarri. A parte l’articolo di Farina, ho solo visto sui giornali di oggi un breve editoriale sul “Foglio”, anch’esso allarmato da una tale sentenza. Ricordo che Mauro Moretti (al quale va la mia infinita gratitudine per avere accorciato d quattro ore e mezza a tre, il tempo necessario per andare da Roma a Milano a fare un lavoro su cui pagavo e pago il 50 per cento allo Stato), aveva rinunciato alla prescrizione e questo da quanto lui si riteneva del tutto incolpevole del fatto che un maledetto giorno nulla avesse funzionato sui binari su cui viaggiava uno delle migliaia e migliaia di treni che percorrono lo stivale. I responsabili della manutenzione di quei vagoni sono stati assolti, Moretti no. Spaventoso, e questo pur di dare ai familiari di quelle povere vittime il contentino dell’aver trovato un capro espiatorio. E come se le tragedie della vita e del lavoro avessero sempre una spiegazione così facile e così banale, uno che ne ha la colpa. Né poteva mancare l’uscita dei 5Stelle, sempre all’altezza della loro nullità civile e morale. Hanno chiesto che Moretti rimetta il cavalierato conferitogli dall’ex presidente Giorgio Napolitano. Semianalfabeti.
Renato Farina per ''Libero Quotidiano'' il 21 giugno 2019. La Corte d' Appello di Firenze ha emesso la sua sentenza sul disastro ferroviario di Viareggio, 32 vittime, 29 giugno 2009. Ci permettiamo anche noi una sentenza, che non conta niente, salvo che per la nostra coscienza: è una boiata. Non si placa una strage identificando un mostro, che la folla desidera sbranare perché potente, intelligente, di successo, e dunque perciò per forza colpevole. Che tristezza. Quando il giudice ha detto il nome di Mauro Moretti, condanna, 7 anni, è come se nella mente collettiva di questo Paese la magistratura avesse resuscitato i morti. Diciamo così perché è sicuro che se ci fosse stata una assoluzione del capo delle Ferrovie (di tutti gli altri condannati non importa a nessuno) si sarebbe alzato il grido: li hanno uccisi una seconda volta. Versare ingiustizia sull' ira dei parenti per placare il loro dolore non è una buona giustizia. Non a caso, alla soddisfazione dei congiunti (comprensibile) si è unito il compiacimento dei politici: perché le condanne di chi sta in alto, non importa se si è arrampicato perché è il migliore, placano il popolo e danno modo di cavalcarne i sentimenti. Non parliamo per partito preso. Sono logica e buon senso a essere annientate da questa decisione tribunalizia di secondo grado, che temiamo sarà accolta da una Cassazione molto turbata dall' impopolarità crescente delle toghe, e lo diciamo un po' per scaramanzia e un po' per pratica di vita, confidando però in un soprassalto di coraggio. Difficile. Sembra che in Italia sia un obbligo morale individuare il Toro seduto della situazione anche se non c' entra. E se non accetti, passi per un complice, uno comprato dai poteri forti. Abbiamo ben visto a quale linciaggio è stato sottoposto il giudice di Avellino che l' 11 gennaio scorso osò assolvere l' ad di Autostrade Giovanni Castellucci per i 40 passeggeri morti su un pullman che aveva sfondato i parapetti del viadotto Acqualonga, dato che era un rottame ambulante. Mica poteva controllare l' amministratore delegato con il martelletto la tenuta dei guardrail di migliaia di chilometri. Le disposizioni erano precise. Qualcuno non le ha rispettate. Il Tribunale aveva perciò condannato i tecnici negligenti che non avevano vigilato sulle protezioni e il proprietario del torpedone. Pene fino a dodici anni. Figuriamoci. Volevano solo la testa dei vertici. Le televisioni registrarono le urla in aula: «Ti aspettiamo fuori, loro sono colpevoli e assassini, hanno comprato la sentenza». Di Maio, vicepremier, si dichiarò «incazzato» e proclamò che comunque avrebbe tolto le concessioni ad Atlantia, anche Salvini si lasciò andare e sostenne che il Tribunale «assolve qualcuno che ha la responsabilità dei morti» . Insomma. Ed eccoci allora al caso di Viareggio. A Firenze la sentenza ha colpito come già in primo grado Moretti ed altri due dirigenti apicali delle Ferrovie, mentre ha assolto, correggendo il tribunale di Lucca, i loro dipendenti incaricati di controllare la sicurezza dei binari e dei vagoni. Come dire: tutto funzionava dal punto di vista della società a capitale di Stato. Perché colpire in alto, allora? Perché sì. Le negligenze criminali erano della ditta tedesca che doveva vigilare sui vagoni cisterna noleggiati alle FFSS. Se io noleggio una macchina da una azienda qualificata e travolgo un ciclista perché i freni erano rotti, la colpa di chi è? Del noleggiatore, non di chi prende in affitto la vettura. La Corte d' Appello ha punito anche il noleggiatore della cisterna ultra-fragile, da cui è uscito a fiotti il gas infiammabile? Ma quelli chi li conosce? Nessuno. Nomi ignoti. Se si fossero fermati a quel livello, i giudici sarebbero stati appesi ai lampioni. Domanda. C' era bisogno di condannare degli innocenti per placare l' ira dei parenti di vittime innocenti? Una specie di uno a uno? Come dire: io soffro, ma almeno soffri anche tu. Un treno mi ha portato via i miei cari? Allora paghi il capo dei treni, anche se stava a Roma, anche se non poteva controllare per ovvie ragioni tutti i vagoni di tutti i convogli della penisola. Va travolto dalla vendetta pubblica, spacciata per giustizia. Certo. Ci sono state 32 vittime innocenti a Viareggio nel disastro ferroviario del 29 giugno di dieci anni fa. Siamo tristi per loro, come lo si può essere per la morte di quei bambini portati via dalle fiamme, mentre dormivano sicuri nella loro casa. Ma che c' entra? Non è che se un avvocato, a causa delle balaustre troppo basse, cade dal quinto piano del Palazzo di Giustizia di Milano, e resta invalido, devo accusare di lesioni colpose gravi il ministro della Giustizia o addirittura il Capo della Stato che è pure capo della magistratura. Stavolta invece sono arrivati lassù, che vergogna. Di che cosa è colpevole Mauro Moretti? Per noi solo di aver militato nella Cgil, di essere stato e probabilmente di essere ancora un comunista. Ma queste sono faccende private. Una volta scelto come amministratore delegato delle Ferrovie da Tomaso Padoa-Schioppa nel 2006 le ha risanate. Avevano un debiti di due miliardi e qualche centinaio di milioni di euro, roba da portare i libri in tribunale. Dopo due anni, questa azienda decotta macinava utili. Ha avuto il torto di dichiarare a fine aprile del 2009 che per la prima volta nella sua storia i binari di Stato avrebbero prodotto profitti intorno ai 20 milioni di euro. Certo ha licenziato, ha scorticato il parassitismo imposto dai famosi ministri delle ferrovie, che assumevano per ragioni di clientela specie al Sud. Quando a Viareggio la notte del 29 giugno un vagone ha deragliato per un cedimento, la cisterna non ha tenuto, e uno spaventoso incendio si è sviluppato per la scintilla di un moto-scooter che passava vicino, è scattato il riflesso ideologico: ha stroncato vite innocenti, in nome del dio denaro. E dire che non ha mai nascosto la faccia. Si è presentato alle 8 del mattino del 30 giugno sul luogo del disastro. Alle 11 ha spiegato che cos' era successo. Si sentiva il numero 1 di un' impresa con 72mila dipendenti, che non era precisamente una associazione a delinquere con un boss assassino come Totò Riina. Niente da fare. Lo hanno impiccato alla frase secondo cui questa strage è stata «uno spiacevolissimo episodio», qualificandola come insensibilità crudele. Nel febbraio scorso, dopo che il pm aveva terminato la sua requisitoria chiedendo contro di lui 15 anni di carcere, si alzò e disse: «Ho preso atto di quello che ha detto il procuratore. Sono parecchi anni che si discute in merito alla prescrizione e sono stato spesso portato a bersaglio, per la prescrizione, per i fatti di Viareggio. Rinuncio alla prescrizione, lo faccio per rispetto delle vittime, dei familiari delle vittime e del loro dolore. Lo faccio perché ritengo di essere innocente». Il presidente della corte Paola Masi gli ha chiesto se fosse consapevole che la rinuncia, una volta dichiarata, vale anche per i successivi gradi di giudizio (Cassazione). Moretti disse «sì». Povero pirla. Uno dei nostri migliori manager si è dimostrato un pirla. Di cui essere orgogliosi, però. Speriamo di esserlo anche della Corte di Cassazione.
· Stefano Monti. Si dichiara innocente e si suicida.
A processo a 20 anni dall’omicidio si dichiara innocente e si suicida. Arrestato a giugno del 2018, doveva essere giudicato il prossimo 26 a bologna. Per il suo legale, Roberto D’Errico: «non ha retto alla pressione». Damiano Aliprandi il 21 giugno 2019 su Il Dubbio. Il detenuto che si è suicidato mercoledì scorso nel carcere di Bologna, era in attesa di giudizio di primo grado a distanza di 20 anni dal fatto. Parliamo di Stefano Monti, imputato in Corte d’Assise a Bologna per l’omicidio, avvenuto il 5 dicembre 1999, del buttafuori Valeriano Poli. Aveva 60 anni ed era entrato per la prima volta in carcere a 20 anni dai fatti contestati e si era proclamato, da sempre, innocente. «Vive una situazione particolare – spiega il suo legale Roberto D’Errico -, e nell’inferno del carcere, che è un luogo violento per definizione, evidentemente non ha retto alla pressione del processo». L’udienza per la decisione dei giudici era in programma per il prossimo 26 giugno: il suo avvocato Roberto D’Errico aveva chiesto l’assoluzione, mentre il procuratore Roberto Ceroni, pm del caso, aveva chiesto l’ergastolo. Monti venne arrestato nel giugno scorso, dopo una svolta investigativa che aveva portato a isolare il suo Dna su una scarpa indossata dalla vittima, e risultata pulita il giorno dopo l’omicidio. Per quei fatti venne già indagato in passato ma la sua posizione venne archiviata. Il movente dell’omicidio – secondo gli inquirenti – sarebbe da ricercare in una vendetta seguita alle percosse subite da Monti da parte di Poli, impiegato come buttafuori dell’allora discoteca Tnt, fuori del locale. L’uomo, che si è suicidato mercoledì scorso, non ce l’ha fatta ad aspettare. «Anche perché – sottolinea l’avvocato -, il processo, per cui la sentenza era prevista per mercoledì prossimo, è stato impostato in maniera molto aggressiva dalla Procura, che da giugno del 2018 fino ad ottobre ha negato a Monti i colloqui con i familiari, prima che la Corte decidesse di concederli una volta iniziato il dibattimento». All’avvocato D’Errico ha replicato il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato: «Francamente parlare di aggressività è parlare di un qualcosa che non appartiene al modo di fare di questo ufficio». Secondo l’avvocato D’Errico però «può aver influito sulla decisione di Monti di suicidarsi anche la forte pressione mediatica a cui è stato sottoposto dopo il suo arresto». In sostanza, chiosa il legale, «al di là dei fatti personali, su cui è sempre difficile dare un giudizio, va valutato il contesto che si era creato intorno a Monti nell’ultimo anno». Al momento, fa poi sapere D’Errico, i familiari non intendono prendere alcuna iniziativa dopo quanto accaduto, perché «sono distrutti dal dolore, per ora si augurano solo che questa vicenda si sia chiusa definitivamente». I suicidi nelle carceri italiane non si fermano, dall’inizio dell’anno, secondo quanto riportato dall’osservatorio di Ristretti Orizzonti, siamo giunti a 20 detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, su un totale di 60 morti. Sì, perché ben 40 reclusi sono morti per malattia o per cause ancora da accertare. Un dramma, quelle delle morti cosiddette “naturali”, che vede come protagonista la salute in carcere. E le condizioni igieniche sanitarie di alcuni istituti non aiutano. Al carcere di Poggioreale, finito nella cronaca per la rivolta dei detenuti per solidarietà al mancato trasferimento in ospedale di un detenuto affetto da febbre alta, è uscito fuori un caso di scabbia contratta da un recluso di 21 anni. La famiglia sarebbe venuta a conoscenza della vicenda il 14 giugno scorso, quando la madre del ragazzo si è recata in visita al proprio figlio, detenuto dal 4 aprile scorso nel padiglione Livorno del penitenziario napoletano su provvedimento della Procura della Repubblica di Modena e ha chiesto di lui. La donna ha saputo, solo allora e per puro caso, dell’allontanamento del giovane a seguito della contrazione di una malattia contagiosa. La famiglia del giovane detenuto ha presentato una denuncia. L’avvocato del ragazzo, Michele Salomone, si è recato immediatamente nel carcere di Poggioreale per saperne di più sulle condizioni di salute del suo assistito. Al legale è stato confermato che il ragazzo è tuttora posto in isolamento a causa di un contagio da scabbia.
· Angelo Massaro e un’intercettazione distorta.
«Un’intercettazione distorta mi è costata ventun anni di galera. È giustizia questa?». L’inferno giudiziario di Angelo Massaro. Alla moglie disse che stava trasportando un “muorso”.gli inquirenti capirono morto e lo accusarono di omicidio e occultamento di cadavere. Giulia Merlo il 18 giugno 2019 su Il Dubbio. In dialetto pugliese, morto si dice “muerto”, un oggetto ingombrante invece si dice “muerso”. Il giorno in cui è stato intercettato erano le 8.30 del mattino, Angelo Massaro stava portando da un paese all’altro un mezzo meccanico attaccato a un carrello dietro la macchina e discuteva al telefono con la moglie. Lei era innervosita, perchè lo stava aspettando per portare il figlio all’asilo, lui le spiegava che sarebbe arrivato il prima possibile, ma che era rallentato da quel “muerso” che stava trasportando. Per gli inquirenti che indagavano sulla scomparsa di un amico di famiglia di Massaro e avevano messo i telefoni sotto controllo, però, il carico trasportato era un cadavere. Ci incontriamo fuori dall’auditorium di Modena, dove Massaro è stato invitato a raccontare la sua storia nell’ambito del Festiva della giustizia penale, e pochi minuti prima di cominciare lui è un poco agitato: in sala ci sono ottocento posti e non ha mai parlato davanti a una platea così vasta. Al centro c’è la sua storia: imputato e condannato ingiustamente per sequestro di persona, occultamento di cadavere e omicidio con l’aggravante della premeditazione. Tre gradi di giudizio, macinati alla velocità record di tre anni: «Sono stato condannato a 24 anni in primo grado, confermati in appello e Cassazione. Contro di me non c’erano nè il corpo del reato, nè l’arma del delitto, nemmeno il movente. Solo un’intercettazione trascritta male». Un’intercettazione trascritta male e le parole di un pentito, nell’ultima fase del processo: «Ha riportato fatti che non poteva conoscere se non avendo letto gli atti processuali e ha detto che “pensava” che il colpevole fossi io. Poi, questo collaboratore è stato smentito in altri processi e dichiarato inattendibile. Io, però, ero già in carcere». Dal 15 maggio 1996, data del suo arresto, Angelo Massaro è stato detenuto in sette carceri e le elenca velocemente: «Taranto, Lecce, Foggia. Poi Rossano Calabro, Carinola, Melfi e infine Catanzaro», dove si è svolto anche il processo di revisione. Sette carceri in ventun anni, senza mai un permesso premio. Massaro, dopo l’elenco delle città, spiega con semplicità la ragione di tanto peregrinare: «Non accettavo la pena, quindi venivo considerato un detenuto polemico e contestatario». Per questo, non ha mai avuto un permesso premio: «In alcuni istituti mi hanno chiesto di fare la cosiddetta “revisione critica di passato deviante”, in pratica di ammettere la mia responsabilità, ancorandola alla concessione di permessi premiali». Massaro, però, non ha mai cambiato versione dei fatti, anche a costo di non uscire mai di cella e di peregrinare per tutti gli istituti del sud Italia come detenuto problematico. In quei lunghi anni, è diventato un testimone delle condizioni delle carceri italiane: «Una volta ho sentito un ministro dire che il nostro ordinamento penitenziario è il migliore d’Europa, peccato che sia applicato per meno del 30%». In tre istituti l’acqua corrente nelle docce e nelle celle era solo fredda tutto l’anno, lo stato delle strutture «da terzo mondo». La cosa peggiore, però, è stata il distacco dalla famiglia. L’ordinamento penitenziario prevede che questo non avvenga, ma Angelo racconta che il detenuto per prima cosa viene allontanato di fatto dai suoi affetti: «Per nove anni non ho mai visto la mia famiglia. Non potevano venirmi a trovare per problemi economici e l’unico contatto era un colloquio telefonico alla settimana, per 10 minuti. Immagini 10 minuti ogni sette giorni: 180 minuti per ogni figlio, 120 minuti con mia madre e 120 con mia moglie. Questo, secondo il ministero della Giustizia, significa mantenere gli affetti familiari». La vita in carcere è durissima: «Vivevo col tormento di essere innocente e di essere dove non dovevo. Più chiedevo il rispetto dei miei diritti anche carcerari, più ero considerato un detenuto problematico. Per questo venivo inserito tra gli “indesiderati” e spostato di carcere in carcere». Nel raccontarlo, Massaro sorride con amarezza: «Chi chiede diritti in carcere non piace, il detenuto modello è quello che mangia, dorme e non dà fastidio». Ma dentro ha mai trovato la solidarietà di qualcuno, il conforto di un’amicizia? «Umanità l’ho trovata in qualche agente della polizia penitenziaria. Ho raccontato loro la mia storia e non volevano crederci». Tra gli altri detenuti, invece, nulla. «In carcere impari che non puoi confidarti con nessuno. In 21 anni, non ho mai detto ad anima viva la ragione della mia condanna». La ragione sta in una delle prime regole che si imparano: «In carcere, per avere un beneficio, sono tutti pronti a vendersi anche la madre. Dal primo momento ho iniziato a lavorare per la revisione del processo e si immagini: parlavo con qualcuno e poi questo andava a raccontare che “Massaro mi ha detto che…”. Poi valla a smontare un’altra accusa. No, dovevo tenermi tutto dentro». Per arrivare alla revisione, sono serviti vent’anni: in carcere, Massaro ha iniziato a studiare giurisprudenza e si è scritto da solo l’istanza di revisione. L’ha mandata a molti avvocati, fino a quando non ne ha trovato uno che gli ha creduto e ha accettato di combattere con lui. Reperire la documentazione, però, è stato difficile e l’avvocato ha dovuto svolgere indagini difensive per ascoltare tutti i testimoni in grado di smontare l’accusa. «In pratica, abbiamo fatto la ricostruzione che avrebbero dovuto fare, nell’immediatezza dei fatti, gli inquirenti». In un certo senso, lo studio lo ha salvato: «Mi ha salvato la testa, insieme alla meditazione e allo yoga. Ma più importante di tutti è stata la mia famiglia». Che però, senza i permessi premio, riusciva a vedere e sentire pochissimo. Massaro interrompe il racconto e ci pensa: «Un permesso l’ho ricevuto, nell’ultimo anno di carcere. Fu il magistrato di Catanzaro a dirmi di presentare la domanda anche se io mi rifiutavo di fare ammissione di colpa. Ricevetti il permesso dopo sette mesi ed era già in corso il processo di revisione, poi seppi che il magistrato me lo aveva concesso dopo aver letto la mia sentenza di condanna, che lui stesso definì “illogica”». Ora, Angelo Massaro è un uomo libero: è tornato a casa sua, in provincia di Taranto, e si sta faticosamente ricostruendo una vita, «perchè il passato in carcere genera sempre pregiudizi, anche se ho sconta- to una condanna da innocente». Contemporaneamente, sta portando avanti il giudizio per il risarcimento per ingiusta detenzione, ma si tratta di un percorso lungo e Angelo apre le braccia, «nulla potrà comunque ripagarmi di quello che ho perso». Quando è entrato in carcere, i suoi figli avevano due anni e pochi giorni, ora sono due ragazzi quasi adulti e quando parla di loro si commuove, come è successo sul palco del Festival: «La madre li ha cresciuti bene, con senso dello Stato, nonostante quello che è successo a me». Un senso dello stato che lo stesso Massaro ha conservato, anche se la sua è una di quelle storie che legittimano a mettere in discussione il meccanismo giudiziario italiano: «Il senso della giustizia me lo ha fatto ritrovare il procuratore generale che ha chiesto la mia assoluzione in sede di revisione. Gli ho stretto la mano e lui mi ha detto che stava solo facendo il suo dovere». Nessun odio, nessuna vendetta nei confronti di chi ha deciso di rubargli ventun anni di vita: «Sbagliare è umano e quel che è successo a me non può cambiare», liquida in poche parole il discorso ma, quando gli si chiede cosa vorrebbe sentirsi dire da quegli stessi giudici, risponde «una conferenza stampa, in cui dicono che si impegneranno a fare indagini con criterio, in futuro. Si ricordino che dietro un detenuto innocente ci sono mogli, figli e genitori». Quando è finalmente uscito dal carcere di Catanzaro due anni fa, la prima cosa che ha fatto è stato andare al mare e buttarsi tra le onde, anche se era dicembre. «Così ho ricominciato a vivere».
· Gerardo De Piano. L’arresto, le botte e la gogna.
Gerardo De Piano. L’arresto, le botte e la gogna. Ma quel maestro accusato di abuso forse è innocente. L’uomo ora è stato scarcerato. Il suo legale: «Il suo caso un’invenzione investigativa: i video e gli audio delle intercettazioni decontestualizzati e montati senza che c’entrassero gli uni con gli altri». Simona Musco il 25 giugno 2019 su Il Dubbio. «Bisogna avere molta prudenza prima di mandare in carcere una persona. Nell’arco di poche ore è stata devastata la vita di un uomo perbene, di un innocente, com’è stato riconosciuto dal tribunale del Riesame, attraverso delle invenzioni investigative». La denuncia dell’avvocato Gaetano Aufiero è grave: le intercettazioni utilizzate per accusare un maestro di religione di un asilo di Solofra, in provincia di Avellino, non dimostrerebbero in alcun modo le violenze sessuali che lo hanno fatto finire prima ai domiciliari e poi in carcere, dove sarebbe stato picchiato da altri detenuti. Un’ipotesi, quella del legale, con la quale hanno concordato anche i giudici del Riesame, che lunedì scorso hanno disposto la scarcerazione dell’uomo per mancanza di gravità indiziaria. Ma la vicenda, afferma Aufiero, va assolutamente chiarita. «Molti frame sono decontestualizzati – spiega – In circa quattrocento ore di video ci si è concentrati solo su venti minuti. Tutto ciò dovrebbe far riflettere». Tutto accade all’alba del 5 giugno, quando i carabinieri di Solofra arrestano tre insegnanti di un asilo di Solofra – più uno al quale è stata inflitta una misura interdittiva – dopo tre mesi di indagini. Finiscono ai domiciliari con l’accusa di maltrattamenti, ma per uno di loro, Gerardo De Piano, viene mossa anche un’accusa più grave: la molestia sessuale ai danni di un bimbo di 5 anni. Un’indagine partita da tre denunce sporte a gennaio da alcune madri e dalle quali è partita un’attività d’intercettazione audio- video dalla quale sarebbero emersi, nelle ipotesi degli investigatori, non solo i maltrattamenti, ma anche l’abuso. Così, spiega Aufiero, «De Piano, da umile maestro di religione di Solofra diventa un mostro da sbattere in prima pagina, con articoli di giornali che parlano di asilo lager e di pedofilo – racconta – Questo è diventato De Piano nell’arco di poche ore. Prudenza, rispetto della dignità delle persone, rispetto della verità e della realtà: tutto ciò è mancato nella maniera più assoluta». Ma il linciaggio mediatico, che ha interessato anche il legale, preso di mira sul web in quanto difensore dei mostri, al punto da arrivare a dire che «bisognerebbe usare l’acido per l’avvocato e i suoi clienti», è secondario. Perché l’accusa di violenza sessuale, secondo Aufiero, non si basa su nulla. Anzi, si fonda su audio e video registrati separatamente, ma montati in un modo «che sconvolge totalmente il discorso». Per questo, spiega al Dubbio, «parlo di invenzioni investigative: c’è stato, a mio avviso, un eccesso nell’ipotizzare la consumazione di talune condotte o di taluni reati. Cosa che spesso capita quando gli elementi di accusa si fondano esclusivamente su intercettazioni. Nell’associare, almeno nell’informativa, le immagini alle parole, il senso di quella che era l’esatta dinamica è stato un po’ stravolto». Sui maltrattamenti Aufiero non vuole dire nulla: è giusto indagare, sentendo bambini e genitori, spiega, nonostante l’ipotesi continui a non convincerlo al 100 per cento. Tant’è, sottolinea, che il Riesame ha optato per una misura interdittiva, il che «la dice lunga sulla natura e sulla gravità di questi presunti maltrattamenti». Il vero dramma, però, riguarda l’accusa rivolta solo a De Piano, al quale. sottolinea il legale, vengono contestati alcuni «toccamenti», che le immagini, sostiene, non dimostrano in alcun modo. «E con me è stato d’accordo il Riesame – spiega – Ho visto e rivisto le immagini centinaia di volte, fino alla paranoia, e non sono riuscito a trovare traccia di quegli abusi. L’unica cosa che si vede è un episodio in cui il maestro di religione fa il solletico al bambino, partendo dalle orecchie e arrivando alla pancia e ai fianchi, l’unico sul quale si possa discutere. Dagli altri episodi, invece, non è emerge nulla. Credo ci sia stato un eccesso di valutazione nel mettere insieme momenti diversi di un evento, in modo che potesse apparire in maniera diversa da com’era in realtà».
DAI DOMICILIARI AL CARCERE IN TEMPO RECORD E LE BOTTE. De Piano finisce ai domiciliari, ma poco dopo essere riportato a casa dalla Caserma decide di convocare il parroco del Paese e la madre del bambino che sarebbe stato molestato, alla quale si limita a dire di essere stato arrestato da innocente. La donna, però, non sa ancora nulla e così decide di segnalare l’episodio ai carabinieri. Così, in poche ore, la misura si aggrava e il maestro finisce nel carcere di Bellizzi, dove manca la sezione dei sex offenders e dove viene subito aggredito, con colpi sul naso e sul volto. Dopo un paio di giorni, dunque, viene trasferito a Benevento. «Al di là dei danni subiti fisicamente – sottolinea l’avvocato – L’episodio è grave». Così come gravi sono le minacce ricevute dall’avvocato, reo di aver messo in dubbio le accuse. «Mi ero limitato a dire che non trovavo riscontro alle accuse nei video – spiega – Precisavo di non dubitare di cosa avessero fatto gli inquirenti, ma sono un avvocato e dubito ancor meno dei miei occhi».
«INVENZIONI INVESTIGATIVE». Aufiero non parla di falsi – «credo nella buona fede di chi ha indagato» – ma di «incongruenze che a mio avviso andavano valutate diversamente da chi ha fatto le indagini e per le quali, nei prossimi giorni, depositerò una segnalazione al pm». Perché se è «sacrosanto» fare ipotesi investigative, le stesse «vanno verificate». E per questo ha chiesto di rimuovere i carabinieri di Solofra dalle indagini.
I VIDEO ALLA STAMPA. Ma a dire che sulle accuse ci siano fondati dubbi è anche il tribunale del Riesame, che lunedì ha annullato l’ordinanza cautelare per gli atti sessuali, sostituendo il carcere con una misura interdittiva per nove mesi per l’accusa di maltrattamenti. Nonostante il giorno dell’udienza sia stato depositato un nuovo filmato, nel quale si vede il maestro abbracciare il bambino. Un video che non è nelle disponibilità dei legali, ma che subito dopo la scarcerazione è finito in rete. «Ho denunciato la pubblicazione del video – spiega – dal momento che nemmeno noi difensori ne siamo in possesso. La mattina dell’udienza abbiamo solo visto qualche frame. Trovo questa cosa molto grave – aggiunge – anche perché pubblicarlo dopo la scarcerazione sembra un modo per perseverare nelle accuse ai suoi riguardi».
LA GOGNA MEDIATICA. L’arresto è stato eseguito alle 6 del mattino, «come se fosse un pericoloso delinquente». Alle 7.01 la stampa riceve il comunicato dei carabinieri, dai quali i familiari scoprono dell’arresto, spiega Aufiero. Un quadro completato alle 13 con la conferenza stampa. «Io spero che prima o poi un magistrato ponga fine allo scempio di sbattere il mostro in prima pagina prima che gli stessi magistrati vengano a sapere dell’esecuzione delle misure cautelari», tuona l’avvocato. De Piano si è professato innocente, pur avvalendosi della facoltà di non rispondere davanti al giudice, «non avendo avuto il tempo di leggere gli atti, essendo stato interrogato 24 ore dopo». E dopo la decisione del Riesame, conclude Aufiero, «sarebbe il caso che qualcuno, forse a partire dalla stampa, cominci a chiedere scusa».
· Archiviato. Maurizio Lupi mastica soddisfazione e amarezza.
LF. per “il Giornale” il 7 novembre 2019. Maurizio Lupi mastica soddisfazione e amarezza: «Quando l' inchiesta venne alla luce finì su tutte le prime pagine, sembrava che avessero scoperto una nuova Cupola, mi ricordo anche la puntata di Report ... Invece quando hanno archiviato tutto ne ha parlato solo il Corriere fiorentino. Ma così va il mondo». Per l' ex ministro alle Infrastrutture, amarezze a parte, è una pagina brutta che si chiude definitivamente. Ieri il Corriere della sera rivela che anche il troncone milanese dell' indagine che gli piombò addosso quattro anni fa, quando rappresentava l'ala moderata del governo di Matteo Renzi, e che lo portò alle dimissioni, è finito in nulla. La Procura di Firenze, la stessa che aveva scatenato la bufera mediatica sulla cricca delle Infrastrutture, a partire dal manager di Stato Ercole Incalza, aveva chiesto e ottenuto, nell' ottobre del 2016, l' archiviazione del procedimento. Una retromarcia su tutta la linea, a partire dall' accusa di associazione a delinquere, asse portante dell' inchiesta, che già il giudice aveva ritenuto insussistente al momento di ordinare gli arresti: e che alla fine la stessa Procura aveva abbandonato. Nel clamore mediatico a ridosso del blitz, più che di Incalza e degli altri indagati si era parlato di uno che indagato non lo era, né lo sarebbe diventato: lui, Lupi, il ciellino passato dal Popolo delle libertà all' Ncd di Alfano, e approdato - nella diaspora del centrodestra - al governo con Matteo Renzi, con la delega chiave alle Infrastrutture. Nelle carte dell' inchiesta, il suo nome compare due volte, in relazione a suo figlio Luca: per una telefonata con Incalza («deve venirti a trovare mio figlio», dice il ministro) e per un Rolex da diecimila euro regalato da un indagato a Lupi junior per la laurea. Gli stessi pm non ritengono che siano reati, ma per i giornali e i siti quella è «la telefonata che inguaia Lupi», e il ministro si trova così scaraventato a ridosso dello «scenario di devastante corruzione sistemica nella gestione dei grandi appalti». Parola dei pm di Firenze, gli stessi che dopo chiederanno l' archiviazione. Investito dal ciclone, Lupi fa una scelta inconsueta: si dimette da ministro, unico modo per sottrarre il figlio dal bombardamento mediatico. Ma non smette di seguire l' evoluzione dell' indagine fiorentina. Così, due anni fa, viene a sapere della archiviazione chiesta dai pm toscani, e dello sparpagliamento tra altre Procure - Milano, Brescia, Roma - di alcuni tronconi dell' inchiesta. A Brescia e a Roma il processo non è mai cominciato. Invece a Milano non comincerà mai, perché un anno fa, in totale silenzio stampa, la Procura meneghina aveva stabilito che anche lo spezzone arrivato sui suoi tavoli era inadatto a dar luogo a una richiesta di rinvio a giudizio. Tutto si basava su una intercettazione di Stefano Perotti, uno degli indagati, sugli appalti per il Palazzo Italia di Expo 2015: frasi che per i pm fiorentini erano la prova di un' asta truccata, e che invece i loro colleghi milanesi interpretano nel modo opposto. Inchiesta chiusa anche qua, insomma. Scrive Matteo Renzi: «All' epoca dissi pubblicamente che ero fiero di aver lavorato con Lupi, che gli esprimevo la mia vicinanza e che il tempo gli avrebbe reso giustizia. Oggi scopriamo che l' indagine nella quale Lupi venne intercettato, indagine aperta allora dalla procura di Firenze, finisce con l' archiviazione. Non troverete questa notizia in evidenza nei gazzettini del giustizialismo italiano, nei talk show, sui social, no. Tutti fingono di aver dimenticato l' onda di piena dell' odio sui social, le sentenze su Twitter, le aggressioni verbali. Tutti oggi fischiettano facendo finta di nulla davanti all' ennesimo scandalo che scandalo non era».
Maurizio Caverzan per “la Verità” il 17 novembre 2019.
Buongiorno Maurizio Lupi, come sta?
«Sto bene perché non ho nessun rimpianto e nessuna recriminazione. Quando mi sono dimesso da ministro l' ho fatto per difendere un' idea di politica e di governo, ma soprattutto la mia storia e la mia famiglia. Non potevo, né volevo, dimettermi da padre. E nemmeno modificare il giudizio sui miei collaboratori. Con quel gesto ho voluto riaffermare le ragioni per cui un giorno ho deciso di entrare in politica».
E come si sta, pubblicamente riabilitati?
«Sono stato fortunato a non essere mai indagato, a non dover spendere denaro per avvocati, a poter continuare a fare politica in un altro ruolo. Al contempo, provo grande dispiacere pensando a coloro che hanno ingiustamente pagato con il carcere e processi continui, da innocenti».
Il 15 marzo 2015, senza essere indagato, Maurizio Lupi si dimise da ministro delle Infrastrutture in seguito all' inchiesta Grandi opere secondo la quale l' imprenditore Stefano Perotti e il superdirigente del ministero, Ercole Incalza, si sarebbero interessati all'assunzione del figlio Luca. Al quale, in occasione della laurea, Perotti, amico di vecchia data del ministro, regalò un orologio Rolex. L'archiviazione dell'indagine è di aprile, ma la notizia è stata divulgata solo il 6 novembre. Nel 2018 Lupi è stato rieletto deputato nelle file di Noi con l' Italia, confluito nel Gruppo misto della Camera.
Sono passati 4 anni e mezzo dalle sue dimissioni da ministro del governo Renzi, dopo quello Letta: che anni sono stati?
«Di continuo cambiamento. La prima certezza saltata è stata il ruolo di ministro. Poi è cambiato il partito di riferimento, da Forza Italia e dall' Ncd, con un gruppo di amici abbiamo dato vita a Noi con l' Italia. Infine, è evoluta anche l' idea di centrodestra. L' unica certezza che si è consolidata è che bisogna essere sempre pronti a mettersi in gioco».
Perché si dimise nonostante non fosse indagato?
«A volte, più di tante parole valgono i gesti. Siamo uomini pubblici. Quasi tutti mi avevano sconsigliato di farlo e tanti non l' hanno fatto. Io ho preferito lasciare che qualcun altro proseguisse il lavoro iniziato. Quando ho visto che si dipingeva una cupola di corruzione ho voluto dare un segnale di assoluta libertà».
Perché la richiesta di archiviazione presentata ad aprile è divenuta pubblica solo pochi giorni fa?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Ringrazio il giornalista del Corriere della sera che ha dato la notizia. Era la seconda archiviazione in un anno e mezzo. Nel nostro Paese il sostegno a un'indagine su un reato, prima che sia comprovato, comincia già sui giornali. Per altro, dopo la divulgazione della notizia entrano in funzione i soloni del tribunale etico».
Anche i funzionari e imprenditori più coinvolti di lei saranno riabilitati?
«Questo è il dolore maggiore. Quando si agitano le manette bisognerebbe ricordare che la presunzione di innocenza, oltre a essere scritta nella Costituzione, serve a tutelare la vita delle persone. È giusto che chi commette degli errori ne risponda. Ma ora chi ripagherà un' impresa con 100 dipendenti tra le migliori d' Europa nel suo campo che ha dovuto chiudere? E chi risarcirà un alto dirigente statale che ha fatto 70 giorni di carcere ed è stato assolto 17 volte su 17? Infine, chi risponderà del danno per il clima inquisitorio instaurato che rende sempre più faticoso il processo decisionale nelle istituzioni?».
Quell' indagine era partita da alcune intercettazioni male interpretate.
«I magistrati di Milano hanno detto che la Procura di Firenze ha male interpretato un dialogo nel quale in realtà si stava ribadendo una norma di legge. Cioè, l' hanno interpretato al contrario, come espressione di un intento affaristico. Se decontestualizzi le conversazioni puoi prendere grandi abbagli. Da anni si attende la definizione della normativa sull' uso delle intercettazioni, ma finché ciò non avviene ognuno le usa liberamente».
La riforma del ministro Alfonso Bonafede la fa ben sperare?
«Dalla legge "Spazzacorrotti" in poi s' interviene solo con l' inasprimento delle pene o con l'introduzione di nuove figure e mezzi investigativi. Se si prescinde dalla proporzionalità della pena al reato alla lunga non ci resterà che la pena di morte».
Quanta soddisfazione le dà il fatto che è stata proprio la Procura di Firenze a chiedere l' archiviazione?
«C'è un giudice buono a Berlino. Si può sbagliare, ma riconoscere l' errore può far intraprendere una strada nuova».
Perché l'archiviazione dell' indagine ha avuto così scarso rilievo sui giornali?
«Perché non fa notizia dire, a distanza di anni, che era un' inchiesta infondata. Tutto brucia rapidamente. Fortunatamente c' è la Rete che permette una pur minima pubblicità delle notizie positive. Se dovessimo stare a gran parte dei giornali».
Francesco Merlo su Repubblica ha distinto tra assoluzione penale e decenza politica.
«Certi opinionisti indossano i panni del grande inquisitore: sì, non c' era niente, ma ha sbagliato comunque. Anche Marco Travaglio ha ribadito che dovevo dimettermi, tirando in ballo la questione etica. Ma se non c' era reato, non c' era corruzione, non c' era alcuna richiesta di favori, non ero indagato allora e non sono stato condannato dopo e c' era trasparenza assoluta, dov' è la questione etica?».
Ha meno fiducia nei giornalisti che nei magistrati?
«Tra i commentatori non ho visto ammissioni di errori. Per qualcuno dovevo dimettermi anche da padre. Mio figlio, laureato in ingegneria con 110 e lode, aveva trovato un lavoro. Mi chiamò in lacrime da New York dicendomi che sotto il suo ufficio c' erano decine di giornalisti e chiedendomi quale fosse la colpa di aver ricevuto un regalo di laurea da una persona che conosceva da anni. Quando ci si accorge di aver sbagliato ci si può scusare, invece i Torquemada continuano per la loro strada. A loro vorrei regalare Pensieri improvvisi, un libriccino di Andrej Sinjavskij: "Quando ti becchi una malattia venerea, solo allora ti accorgi che tutti gli uomini sono puliti"».
Perché chi opera negli appalti delle infrastrutture è sempre in odore di corruzione?
«È una fama giustificata, ci sono precise responsabilità della politica. L' errore è generalizzare buttando il bambino con l' acqua sporca. Alla fine degli anni Ottanta fu promulgata una legge che bloccò fino al 2001 la realizzazione delle grandi opere per sconfiggere la corruzione. È il motivo per cui in questo campo l' Italia è un paese arretrato. Serve un patto trasversale per le infrastrutture materiali e immateriali. Poi chi governa deciderà come farle».
Che cosa pensa del crollo del ponte Morandi?
«Aldilà delle responsabilità accertate, penso che se avessimo costruito la Gronda quella tragedia non si sarebbe verificata. Le opere non realizzate spesso si trasformano in tragedie».
Rinnoverebbe la concessione ad Atlantia della famiglia Benetton per la gestione di Autostrade per l' Italia?
«In uno Stato di diritto si ritirano le concessioni solo nel momento in cui è accertato il mancato rispetto del contratto. Una volta documentate le responsabilità, chi ha sbagliato paga e ricostruisce. La tragedia del ponte Morandi era l' occasione per ridefinire le regole del rapporto concessionario. Ora si pensa al ritorno dello Stato padrone come fosse immune da errori, ma la storia ha già mostrato che non è così».
Il Mose e l' alluvione di Venezia?
«I ritardi nell' ultimazione del Mose sono l' evidenza di come si è tradita Venezia e quindi l' Italia. Nella primavera del 2014 era realizzato all' 87%. Avrebbe dovuto essere pronto nel giugno 2016 e attivo, dopo i collaudi, nel gennaio 218. Lo scandalo delle tangenti ha fatto bloccare i lavori ed è iniziato lo scaricabarile tra le autorità. Invece, mentre la giustizia avrebbe dovuto fare il suo percorso pretendendo i rimborsi dai responsabili, si sarebbero dovuti accelerare i lavori di completamento dell' opera».
Ex Ilva, Tav, Mose, ponte Morandi, aree terremotate: come può esserci unità d' intenti se nello stesso governo ci sono il partito del Pil e quello della decrescita?
«Anche un movimento di moralizzatori potrebbe capire che la sfida della politica non è la campagna elettorale, ma governare il Paese. Se il reddito di cittadinanza si rivela un provvedimento assistenzialista e con quei soldi si può tagliare il cuneo fiscale, bisogna avere la forza di cambiarlo e di convincere il proprio elettorato».
Non è facile come dirlo.
«Bisogna provarci. Se hai il ministero dello Sviluppo economico, prima con Luigi Di Maio e ora con Stefano Patuanelli, e fai chiudere la più grande acciaieria d' Europa qualche domanda te la devi fare».
Noi per l' Italia aderirà alla coalizione degli italiani con Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni?
«Noi con l' Italia è a pieno titolo nel centrodestra. Senza esser presuntuosi vogliamo far tornare rilevante la proposta politica del centro, senza il quale il centrodestra si chiamerebbe destra».
Che spazio vede per i cattolici in politica?
«Uno spazio enorme. Oggi il partito dei cattolici sarebbe antistorico. Ma in uno scenario in continua e rapida evoluzione, i cattolici, come tanti altri, possono testimoniare un impegno al servizio del bene comune per ricostruire una società che nasca dalla persona e dalla libertà».
Cosa pensa della disponibilità al dialogo verso Salvini manifestata dal cardinal Ruini?
«Non si può non dialogare con chi rappresenta un terzo degli italiani. Trovando, nelle differenze, punti in comune su cui lavorare insieme. Salvini non è il diavolo, così come i comunisti non mangiavano i bambini».
Che cosa direbbe oggi al suo amico Roberto Formigoni?
«Quello che gli dico quando vado a trovarlo: che il suo operato ha cambiato la Lombardia ed è stato un modello per l' Italia di attuazione del principio di sussidiarietà con al centro la persona. Gli dico anche che non è solo».
E sulla sua vicenda giudiziaria?
«Le sentenze si rispettano e Roberto lo sta facendo. Ma, per conto mio, quella che lo riguarda non racconta ciò che è stata l' azione politica e di governo di Roberto Formigoni».
Maurizio Lupi, archiviata l'inchiesta: chi si deve scusare. E vergognare. Renato Farina su Libero Quotidiano il 9 Novembre 2019. Se Lupi somigliasse al suo nome adesso dovrebbe saltar fuori dalla pellicceria in cui era finito quattro anni fa scotennato da una banda di forcaioli, e girare per Montecitorio, per tivù e giornali, a mordere i persecutori. Dovrebbe pure passare dalla Procura di Firenze se non altro a ululare, ma glielo sconsigliamo vivamente. Del resto - da buon cattolico - ha perdonato. Non solo era innocente, ma non era stato neppure indagato. Adesso si scopre che anche i suoi collaboratori erano stati coinvolti in una storiaccia di corruzione per un equivoco. Era stata «male interpretata», ha sentenziato il gip archiviandoli, una telefonata ricevuta da Lupi mentre era ministro delle Infrastrutture e Trasporti. Non indagato e cacciato via come un cane malato dal consesso degli onesti, ben prima che si dimettesse. Scrive Lupi su Facebook: «Mi dimisi il 15 marzo 2015, pur non essendo mai stato indagato, per le polemiche suscitate da quell' inchiesta e per gli attacchi alla mia famiglia. Oggi, a distanza di 4 anni, continuano le archiviazioni. Ero certo, come lo sono adesso, della correttezza del lavoro dei miei collaboratori al ministero e non ho mai contestato la legittimità delle indagini ma sempre il processo mediatico che ne è seguito e la sua strumentalizzazione politica. Non rimpiango di essermi dimesso perché con quel gesto volevo testimoniare la mia concezione di politica e di governo. Mi domando solo: chi ripagherà dei giorni terribili passati dalle persone coinvolte, le carriere rovinate, la sofferenza dei familiari? Per chi di voi è curioso lascio il video del mio intervento in aula di quel giorno. Be', c' ero in aula, e me lo ricordo. Tenne la schiena molto dritta, ma sanguinava. Non ci fu alcun buon samaritano a soccorrerlo. Fu abbandonato da tutti. Non lo difese come si deve nessuno dei suoi alleati, al contrario del solo Renato Brunetta che pure era all' opposizione. Matteo Renzi? Oggi lealmente riconosce l' orrore subito da Lupi, e non è poca cosa, lamenta che i social e i giornalisti con il cappio all' occhiello nasconderanno l' ingiustizia perpetrata. Ma allora non seppe o non volle opporsi all' apparato del Pd e ai suoi appetiti. Quel ministero era ed è una leccornia, e la lapidazione pubblica cascava a fagiolo per liberare la cadrega. Al dicastero di Lupi, che fu ottimo ministro, uno che apriva i cantieri e faceva procedere i lavori, si acquartierò al volo Graziano Delrio. Ricordate la storia? Basta una parola: Rolex. Lupi aveva (e ha) un figlio parecchio in gamba. Per la laurea in ingegneria un imprenditore gli regalò un Rolex di quelli da poche migliaia di euro (esistono). Fece sapere che lo avrebbe assunto volentieri nella sua impresa edile. Chi esce dal Politecnico di Milano, non ha bisogno di elemosine: accettò un' offerta in America, dove rimase convinto dal padre visti gli attacchi su giornali, tivù, Crozza, Travaglio e compagnia trattato da scroccone figlio di scrocconi, immerso fino al mento nella cloaca della corruzione. Una scarnificazione scientifica. I procuratori di Firenze dopo aver sparso elementi ottimi per il linciaggio mediatico si ritirarono. Non prima che Lupi si dimettesse da ministro. Lupi dice che furono spontanee. Gli ero vicino, posso testimoniare: poteva resistere, non c' era avviso di garanzia. Preferì difendere la pace familiare e il destino del figlio sacrificando la carriera ministeriale. Questo dal punto di vista di Lupi. Dal punto di vista della verità storica le dimissioni furono «spintanee», provocate ad arte con atti proditori da purga stalinista. Lupi fu messo nella condizione di optare, stante la sua idea della vita e della politica, per il bene maggiore (la famiglia) e il male minore (la perdita del potere). Ma che ribrezzo questo agguato. Dopo aver fornito le munizioni al plotone di esecuzione sanculotto, i pm esaminarono con la lente di ingrandimento le intercettazioni di Lupi (non si sarebbe potuto, ma va così) e del suo entourage ministeriale e amicale, orologio donato, circostanze del regalo, contratti del figlio, partenze e ritorni. Niente. Nessuna infezione corruttiva. Ne eravate stati informati?
CHI RIPAGA IL MALE? Lupi, come dimostra il dolore che traspare dalle righe che ha diffuso sui social e l' amarezza che so sincera di Renzi, benché non sia mai stato neppure indagato è rimasto lesionato profondamente da quell' attacco a lui e al figlio. Siate sinceri. Dopo quei fatti finiti nelle nebbie, senti il nome di Lupi e pensi sia un furbetto che non si capisce come l' abbia fatta franca. Un secchio di sporcizia che, a leggere le carte, si capiva subito essere stata rovesciata con malizia su un uomo onesto. Eppure in questa Italia non è bene essere puliti. Non serve. Occorre essere incastonati come gemme nell' ombelico delle procure e dei giornalisti e politici del loro partito. Lupi se l' è cavata in questi anni. È rimasto deputato, lavora parecchio sul territorio della Brianza. Il figlio si è trasferito lontano: un cervello, anzi un' anima in fuga; e forse è un bene per lui. Altri - che ora si scoprono prosciolti, neppure processabili - hanno perso lavoro, le intercettazioni diffuse ne hanno sfregiato la reputazione. Non erano reati, ma che importa? Sei morto. E hanno dovuto rifarsi una vita all' estero. Particolare ultra-interessante. La notizia del proscioglimento è stata fornita oggi dal Corriere della Sera, a piè di pagina 20. Ai tempi il Corriere ci apriva la prima pagina. L' autore dello scoop così poco valorizzato è Luigi Ferrarella. Nessun altro ha attinto questa informazione al Palazzo di Giustizia di Milano (a cui Firenze aveva passato la pratica). Lui l' ha scoperta. E la data di questo proscioglimento? Eccola: 20 aprile 2018! Un anno e mezzo è stato zitto il Tribunale di Milano. Ora per caso, emerge che «i pm milanesi Eugenio Fusco e Carlo Scalas abbiano chiesto (il 13 dicembre 2017) e ottenuto dal gip Giulio Fanales (il 20 aprile 2018) l' archiviazione».
Fanno per il comodo delle tivù conferenze stampa con procuratori, generali e colonnelli, filmati e diapositive quando partono le inchieste. Poi, come nota acutamente Ferrarella: «Dopo l' iniziale eruzione vulcanica giustamente all' attenzione pubblica, carsicamente spariscono». Scrive proprio così: giustamente. E dove sarebbe la giustizia del tacere l' innocenza, signori procuratori e giornalisti della loro filibusta? di Renato Farina
· Novara, Massimo Giordano ex sindaco assolto ma carriera stroncata dall’indagine.
Novara, ex sindaco assolto ma carriera stroncata dall’indagine. Marco Zacchera il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. Massimo Giordano completamente scagionato. Esponente di spicco della Lega piemontese si era dovuto dimettere dalla giunta regionale e la vicenda ha avuto ripercussioni personali e professionali. Il fatto giudiziario può ridursi in poche righe. Il Tribunale di Novara – dopo tre anni di dibattimento – ha assoluto con formula piena “perché il fatto non sussiste” l’ex giovanissimo sindaco di Novara e poi assessore regionale, l’avvocato Massimo Giordano e con lui tutti gli altri 11 imputati in un processo iniziato oltre tre anni fa. Giordano era imputato di una lunga serie di reati tra i quali corruzione e concussione per i quali la pubblica accusa aveva chiesto oltre cinque anni di reclusione.
L’inchiesta era iniziata con una serie di spettacolari perquisizioni ( subito riprese a tutta pagina dalla stampa locale) il 19 febbraio 2013 e riguardava episodi risalenti al 2012. In seguito alle accuse, Giordano si era dovuto dimettere dalla giunta regionale guidata dall’allora governatore Roberto Cota. Secondo l’accusa Giordano, leghista, era a capo di una sorta di “gruppo di potere” che, in più occasioni, avrebbe avvantaggiato professionisti e imprenditori amici in cambio di favori. Gli aspetti personali trascendono però dal processo perché – di fatto – per via giudiziaria è stata concretamente e comunque stroncata la carriera del più promettente leader leghista piemontese, distrutta la sua famiglia, di fatto di molto ridotta la sua attività professionale con una opinione pubblica divisa anche perché costantemente bombardata da fatti e commenti di cronaca che spesso poco avevano a che fare con gli atti del processo. Per questo oggi molte persone non necessariamente vicino alla Lega si chiedono chi mai restituirà ora a Massimo Giordano le occasioni politiche e professionali sfumate, l’ansia e l’angoscia di questi anni, la credibilità personale che in una città di provincia è tutto, quando diventi – di fatto – un “sospetto” e quindi guardato come un diverso anche se – come sindaco – aveva raccolto molte simpatie per le attività svolte durante il suo mandato. Giordano durante il dibattimento ha perso il padre e poi la giovane moglie Simona «Sono stati anni molto difficili e di grande sofferenza, non tanto per me ma per i miei familiari – commenta oggi Giordano – ora sono ovviamente soddisfatto dalla sentenza, ma anche addolorato perché le due persone che mi sono state sempre vicine, mio padre e mia moglie, non ci sono più. Ringrazio tutti i novaresi perché non hanno mai creduto alle suggestioni che hanno voluto creare».
· «Del tutto infondata la condanna di Ignazio Marino».
«Del tutto infondata la condanna di Ignazio Marino». Le motivazioni della sentenza di assoluzione. L’ex primo cittadino polemico col suo ex partito: «Il caso è chiuso. Ciò che rimane aperto sono le motivazioni che hanno portato il Pd a “licenziarmi” con un atto notarile» Egidio Guarnacci il 17 Maggio 2019 su Il Dubbio. «Infondatezza della ipotesi accusatoria», perché «non è configurabile il delitto di peculato nel caso in cui non sia fornita giustificazione in ordine al contributo erogato per l’esercizio delle funzioni di natura pubblicistica» : «L’illiceità della spesa» non può essere fatta derivare «da tale mancanza», ma occorre comunque «piena prova dell’appropriazione e dell’offensività della condotta, quanto meno in termini di alterazione del buon andamento della pubblica amministrazione». Sono le durissime motivazioni con cui la Cassazione spiega perchè, il 9 aprile scorso, decise di assolvere «perché il fatto non sussiste» l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, imputato per peculato e falso nel processo sulla rendicontazione degli scontrini di alcune cene di rappresentanza pagate con la carta di credito del Campidoglio. Immediato il commento del diretto interessato che dagli Stati Uniti – dove è tornato al suo lavoro di chirurgo – posta un lungo intervento su facebook: «Il caso è chiuso – ha scritto l’ex sindaco – Ciò che rimane aperto sono le motivazioni che hanno portato tutti i Consiglieri del Partito Democratico e parte dei Consiglieri di Centrodestra – sottolinea- a recarsi da un Notaio per interrompere il cambiamento che si stava realizzando. Queste sono le uniche motivazioni che ancora oggi non sono state depositate». Per quel che riguarda la sentenza, la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato da Marino contro la sentenza, emessa in appello l’ 11 gennaio 2018, che lo aveva condannato a due anni. L’ex sindaco era stato invece assolto in primo grado. Nella sentenza depositata ieri, la sesta sezione penale del “Palazzaccio” evidenzia che i «giustificativi delle spese erano stati presentati» ma che la Corte d’appello, «con una motivazione del tutto inadeguata» li aveva ritenuti «falsi». I giudici di piazza Cavour osservano che, «ad eccezione di due soli di quei documenti per i quali era stata accertata una difformità nella indicazione della qualifica commensale del sindaco, casi nei quali l’imputato aveva convincentemente spiegato essersi trattato di probabili imprecisioni commesse dai suoi collaboratori nella compilazione di documenti, peraltro avvenuta a distanza di tempo dai relativi eventi», in «tutti» i giustificativi di spesa «vi erano annotazioni che potevano collegare ciascuno di quegli incontri conviviali ad altrettanti eventi, svoltisi nella stessa giornata, spesso poco prima delle ore serali, ai quali Marino aveva partecipato nella veste di sindaco, dunque per finalità certamente istituzionali». Con un «riscontro soggettivo», inoltre, «era stato possibile appurare che Marino aveva effettivamente cenato con rappresentanti di altre istituzioni per discutere di questioni attinenti alla città di Roma», rileva la Cassazione, affermando che si tratta di «situazioni nelle quali vi era più di una mera presunzione in ordine alla natura pubblicistica di quelle spese, rientranti nella categoria delle legittime “spese di rappresentanza” in quanto destinate alla realizzazione di un fine istituzionale dell’ente che le sostiene, per essere strumentali a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico».
· Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.
Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia accusata di collusione coi clan. L’odissea giudiziaria di Carolina Girasole. Simona Musco il 29 Maggio 2019 su Il Dubbio. Una vita da icona antimafia. Poi il capovolgimento di fronte, il sospetto, da brividi, che tutto quel successo mediatico, pure le intimidazioni, fossero frutto proprio di un accordo con i clan. Il processo e, poi, l’assoluzione. Non una, ma due volte. Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, sullo Ionio calabrese, non era ammanicata con la ‘ndrangheta. Anzi, quella ‘ndrangheta che per la Dda le aveva spianato la strada verso il Comune, in realtà, la odiava tanto. Lunedì, alle 17.30, il giudice Giancarlo Bianchi, presidente del collegio giudicante, lo ha chiarito dopo tre anni di processo, confermando in pieno l’assoluzione di primo grado, pronunciata il 22 settembre 2015. Assolta da tutti i reati per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste, il massimo possibile, così come il marito Franco Pugliese, per l’accusa questuante di voti dal sapore mafioso. I due avevano passato 168 giorni agli arresti domiciliari, a partire dal 19 dicembre 2013, e tra un’assoluzione e l’altra sono passate pure due sentenze di incandidabilità. La Dda ha sostenuto con fermezza la sua tesi, portandola due volte in aula. Girasole, secondo l’antimafia, avrebbe «ricevuto il sostegno elettorale della famiglia Arena», teorema costruito ascoltando in cuffia gli uomini del clan che sostenevano di aver raccolto voti «facendo favori ai cristiani». E per l’accusa, la condotta votata alla legalità mantenuta dal sindaco era mera apparenza, sostenuta da quella celebrazione mediatica che, assieme alle numerose intimidazioni subite, aveva fatto di lei un’eroina. Quella tesi, secondo la prima sentenza d’assoluzione, era «infondata»: Girasole, come emerso dalle intercettazioni, era considerata dal clan un’acerrima nemica. I giudici avevano evidenziato anche errori grossolani compiuti durante le indagini, come nel caso della conversazione in cui «l’accoscato» Pasquale Arena parla non di mille “voti” ( come trascritto nei brogliacci) «ma di “350” volte in cui si sarebbe adoperato, sostenendo la candidatura per l’elezione non della Girasole, ma di altro personaggio politico». Una sentenza che non piacque al pm Domenico Guarascio, che nel suo atto d’appello parlò di prove ignorate, travisate e sminuite. E a ciò si era aggiunta la decisione dei giudici di decretare l’incandidabilità dell’ex sindaco. Carolina Girasole, però, non solo non avrebbe mai fatto nessun accordo con gli Arena, ma la sua politica amministrativa li avrebbe combattuti. Il reato di corruzione elettorale, scrivevano i giudici, «si è rivelato del tutto infondato, in quanto campato su elementi inconsistenti se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria». Le intercettazioni, anzi, «rivelano una macchinazione degli Arena, uno stratagemma per farla cadere». «È una liberazione», esulta oggi Girasole. Sono stati «5 anni e mezzo di incubo, un calvario durissimo, con accuse infamanti e in contrasto con quella che era la mia attività amministrativa». Un’accusa che in questi anni l’ex sindaco, assistita dagli avvocati Mario e Marcello Bombardiere, ha cercato di smentire mettendo ordine agli atti, trovando quelli che mancavano, facendo trascrivere le intercettazioni in maniera corretta. «Da una parte – spiega al Dubbio – c’era la sicurezza di non aver fatto niente, anzi, di aver agito contro la ‘ ndrangheta, ritrovandomi, però, in quella situazione. Dall’altra c’era la paura, perché anche se era tutto molto chiaro la procura continuava ad accusarmi. Fino alla sentenza di primo grado sono stata tranquilla, pensavo di aver chiarito tutto. Invece c’è stato l’appello, un ulteriore incubo, perché l’ho vissuto come un accanimento». Da questi lunghi anni Girasole e suo marito ne escono «provati», confusi. Anche perché, dice, «chi fa un accordo con le cosche non può, poi, fare gli atti amministrativi che ho fatto da sindaco. Nessuno sarebbe così folle. La procura ha parlato di travisamento delle prove, ma evidentemente non eravamo noi a non aver capito bene». L’altra battaglia da portare avanti, ora, è quella contro l’incandidabilità, per la quale pende un ricorso in Cassazione. «Non posso accettare quella sentenza – spiega – e non perché voglia ricandidarmi, ma perché non mi si addebita nulla in quella richiesta. Si parla, molto vagamente, di disordine amministrativo e viene disconosciuto tutto ciò che ho fatto sui beni confiscati, sull’abusivismo edilizio e su tutto il resto. Ciò che ho fatto in 5 anni è stato duro e impopolare e se lo scopo era concludere un’esperienza amministrativa farlo in questo modo è inaccettabile». Di quel percorso – «molto lungo, complicato e bello» – rimangono i beni confiscati, le associazioni, la presenza di Libera sul territorio. «Ma il percorso è stato interrotto», commenta amaramente. E poi c’è la querela contro la commissione d’accesso che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione. «Di quella non si sa nulla – spiega – L’ho fatto perché mi si addebitano cose di cui non ho assoluta responsabilità e vengono dette cose false». Ora non rimane che aspettare. E provare a riprendersi una vita che, per 5 anni, è rimasta in pausa. «Cercherò di ritrovare la serenità per vivere in pace con la mia famiglia. Mi difenderò ancora e probabilmente scriverò un libro». E l’antimafia? «Ci credo ancora – conclude – Ma c’è chi la utilizza come bandiera per pubblicità o interessi. Quello che ci distingue sono gli atti, non i convegni o le parole. Non mi ero candidata per diventare un’eroina, ma lungo quel percorso mi sono trovata a scontrarmi con interessi privati che erano quelli della cosca. E ho fatto una scelta».
· Gianfranco Cavaliere. La falsa Tangentopoli.
Gianfranco Cavaliere. La falsa Tangentopoli: assolti dopo otto anni. Accusati ingiustamente di aver «distratto» 12 milioni per la ricostruzione de L'Aquila. Stefano Zurlo, Giovedì 16/05/2019, su Il Giornale. Manette e titoloni sui giornali. Sembrava uno scandalo, ancora più grave perché i soldi dello Stato sarebbero spariti nel grande cratere del terremoto che aveva devastato L'Aquila. Ma non era vero: la truffa non c'era e non c'era nessun altro reato. Peccato ci siano voluti otto anni per diradare il polverone e fare giustizia. Era il 2011 quando Gianfranco Cavaliere, un politico dell'allora Pdl molto noto in città, fu arrestato insieme al funzionario di Palazzo Chigi Luigi Traversi, con l'accusa di essersi appropriato dei fondi messi a disposizione dalla presidenza del Consiglio attraverso il sottosegretario Carlo Giovanardi. «Io - racconta Giovanardi - avevo subito detto che non c'era niente di irregolare, anzi Cavaliere si era dato da fare per attivare progetti nel sociale utilizzando quei 12 milioni che il Dipartimento per la famiglia da me guidato aveva deciso di spendere per opere nel sociale». Niente da fare. Otto anni dopo ecco finalmente l'assoluzione con formula piena per Cavaliere, ma il verdetto arriva troppo tardi per l'altro imputato: Traversi è morto prima di essere riabilitato, come spesso è accaduto in questo Paese. Terra di malaffare, ma anche di processi che si stenta a comprendere nella loro genesi. «Nel 2011 - ricorda Giovanardi - due anni dopo il terribile sisma, avevo trovato quei fondi da impiegare per asili, scuole, strutture per gli anziani. Il Comune amministrato dal centrosinistra era paralizzato, inerte. Cavaliere si era mosso costituendo una fondazione e avviando un progetto. Ma non fece in tempo a realizzarlo, perché fu arrestato quasi subito. Per i giudici aveva il peccato originale di essere un politico, oltretutto vicino alle mie posizioni, quindi cercava un tornaconto personale indipendentemente dalla consistenza del suo impegno che non si poteva mettere in dubbio. A mio parere era solo un teorema giudiziario, non c'erano non dico i presupposti per gli arresti, ma nemmeno per iniziare l'indagine». Invece la storia aveva riempito i quotidiani che avevano descritto una presunta cricca affaristica insediatasi sull'orlo del cratere e dedita a traffici sul filo dell'illegalità. Una cricca che lambiva pure lo stesso Giovanardi, sulla carta il presunto truffato di questa vicenda, e arrivava fino alla curia aquilana: per una fuga di notizie era stato messo sotto inchiesta pure il vescovo ausiliare della città Giovanni D'Ercole, poi puntualmente prosciolto da ogni contestazione. Insomma, un intrigo da romanzo di cui poi si erano perse le tracce, nel solito, lento metronomo della giustizia italiana. «Non ho saputo più nulla per anni - prosegue Giovanardi - poi a dicembre scorso finalmente mi hanno sentito come teste nel dibattimento». In un processo in cui si sommavano molti capi d'imputazione: dal falso alla tentata truffa, dalla tentata estorsione al millantato credito. Qualcosa però aveva convinto anche il pm d'aula, ovviamente non lo stesso che aveva avviato l'inchiesta nel 2011, ad innestare la retromarcia, proponendo l'assoluzione per alcuni reati e arrendendosi alla prescrizione per gli altri. Ora l'assoluzione con formula piena chiude una storia andata avanti troppo a lungo. «Sono rimasto 23 giorni ai domiciliari - spiega Cavaliere - e oltre due mesi confinato in una frazione dell'Aquila con tanto di obbligo di dimora, la vita sottosopra e la mia attività di medico in un buco nero. Poi è cominciata la fase interminabile e sfibrante del processo. Anni di pregiudizi, di voci, di solitudine. Ora è tutto finito, ma è stata un'esperienza durissima». E una brutta pagina della cronaca giudiziaria.
· Leonardo Rossi a Firenze. Avvocato accusato di pedo- pornografia, assolto in appello 7 anni dopo l’arresto.
Avvocato accusato di pedo- pornografia, assolto in appello 7 anni dopo l’arresto, scrive Errico Novi il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Il caso di Leonardo Rossi a Firenze. Il professionista, oggi 65enne, aveva sostenuto fin dall’udienza di convalida la tesi accolta dai giudici di secondo grado: i file vietati erano stati inseriti da altri utenti in una memoria condivisa. Sette anni segnati da un’accusa infamante: “Detenzione di materiale pedopornografico”. Leonardo Rossi, avvocato civilista fiorentino, era finito addirittura in carcere, e poi ai domiciliari, quando i carabinieri trovarono i file nelle memorie esterne del suo studio, nel 2012. Solo due giorni fa la Corte d’appello di Firenze ha finalmente assolto il professionista 65enne. Ribaltata la pronuncia di primo grado, con cui Rossi era stato condannato a 8 mesi di reclusione. La fine di un incubo. «Si tratta di una persona incensurata, che era stata arrestata per un reato infamante dal quale aveva sempre preso le distanze», spiega l’avvocato Francesco Stefani, che difende il collega. «Le indagini non avevano potuto dimostrare che il materiale sequestrato fosse effettivamente di Rossi». La memoria esterna in cui erano stati rintracciati i file, infatti, era in realtà condivisa non solo con i collaboratori dello studio ma anche con alcuni clienti. In particolare, carrozzieri che condividevano le immagini delle auto coinvolte in controversie per sinistri stradali. Qualcuno potrebbe aver approfittato di questa memoria accessibile a molti utenti per conservare le immagini vietate e ridurre nello stesso tempo il rischio di essere scoperto. È la tesi con cui l’avvocato Rossi si era difeso fin dall’udienza di convalida dell’arresto, senza trovare ascolto da parte del giudice. Solo lunedì scorso il processo d’appello gli ha dato ragione. All’epoca delle misure cautelari inflitte per il possesso di materiale pedopornografico, Rossi era stato costretto a scontare i domiciliari lontano dai figli. «Leonardo ringrazia i clienti e i collaboratori che hanno sempre creduto in lui», dice il difensore Stefani, «ma da questa vicenda riceve un grave e irreparabile danno alla propria immagine professionale».
· E ora chi chiede scusa a Mimmo Lucano, Giulia Ligresti e Boschi Senior?
E ora chi chiede scusa a Mimmo, Giulia e Boschi? Scrive Angela Azzaro il 4 Aprile 2019 su Il Dubbio. Giulia Ligresti, Mimmo Lucano, Pierluigi Boschi. Tre storie diverse e un’unica morale: il processo mediatico che ti rovina la vita, ti mette alla gogna, ti condanna prima della sentenza. Sentenza che poi arriva ed è spesso di assoluzione. Ma a volte è tardi, non riesci più a riprenderti, non riesci ad andare avanti. Sicuramente è uscita dalla scena politica Annamaria Cancellieri, ministra della Giustizia quando sei anni fa Giulia Ligresti fu arrestata. La Guardasigilli si informò delle condizioni di salute della donna che era anche una sua amica. Le intercettazioni, date in pasto ai giornali, furono decisive per chiedere la testa della ministra. Non c’era alcun rilievo penale, ma secondo il “circo” politico- mediatico era eticamente colpevole e Cancellieri, dopo un voto in aula, dovette lasciare via Arenula. A nulla valsero le proteste di chi difendeva la ministra e Giulia Ligresti. Il popolo, istigato dai media, aveva deciso: colpevoli. In quel caso il Pd, che allora governava con Enrico Letta, si dimostrò poco “garantista” e lo stesso Matteo Renzi chiese e ottenne la testa della ministra. Ora che Ligresti è stata assolta ( quasi) nessuno le chiede scusa, ( quasi) nessuno si sente in dovere di chiamare la ministra e dire: abbiamo sbagliato. Cancellieri era considerata tra i “papabili” per salire al Colle. Sarebbe stata la prima donna a ricoprire il prestigioso incarico. È invece sparita dalla scena pubblica. Mimmo Lucano per fortuna ci ha messo di meno a uscire dall’incubo in cui era piombato. La Cassazione, che ha rinviato al riesame per valutare se il sindaco di Riace dovrà o meno stare in “esilio”, ha smontato le tesi dell’accusa. In breve tempo, Lucano molto probabilmente potrà rientrare nella sua città, che tanto ama e per la quale tanto ha fatto. Ma anche per lui non è stato facile, anche se nel suo caso l’opinione pubblica si è spaccata e ha potuto godere di tanta solidarietà. Ma le critiche non si dimenticano, non si dimentica facilmente quando basta un avviso di garanzia per essere considerato colpevole. Ne sa qualcosa Boschi senior, preso di mira dal popolo grillino e leghista al pari del peggiore serial killer per Banca Etruria. L’altro ieri è arrivata una nuova richiesta di archiviazione per il reato di bancarotta fraudolenta. A febbraio scorso era stata archiviata l’accusa di falso in prospetto. Se la nuova richiesta verrà accolta dal giudice cadrebbero per Boschi tutte le accuse. Accuse sulle quali si è basata una campagna stampa e politica che ha preso di mira la figlia e il Pd, a tal punto – secondo alcuni analisti – da essere la principale causa della sconfitta elettorale. Ora nessuno chiederà scusa anche alla famiglia Boschi, in pochi verranno a conoscenza dei nuovi fatti. La ghigliottina era già scattata e non si torna indietro.
Lucano: «Io non ho commesso reati». Salvini: «Smetta di deportare migranti», scrive Simona Musco il 3 Aprile 2019 su Il Dubbio. Ecco perché la Cassazione distrugge le accuse a carico del sindaco sospeso. Accuse che arrivano a «non previste valutazioni di ordine morale». Il sindaco sospeso: «mi difendo nel processo, non dal processo». Il ministro: «non ho paura dei tribunali». C’è un passaggio che fa riflettere, nelle motivazioni con cui la Cassazione ha annullato con rinvio l’obbligo di dimora imposto a Mimmo Lucano. Ed è quello in cui i giudici, nel valutare il ragionamento del Riesame di Reggio Calabria sulle esigenze cautelari, parlano di «non previste valutazioni di ordine morale». Qualcuno, insomma, aveva già condannato moralmente – andando al di là del proprio compito – Lucano, costringendolo fuori da Riace sulla base di esigenze che si poggiano su circostanze «irrilevanti», ritenute anche nella prima ordinanza cautelare «prive del necessario fondamento giustificativo». Così come il richiamo a presunti matrimoni di comodo poggia su un quadro «sfornito di elementi di riscontro», sebbene sia valutato positivamente il ragionamento logico alla base della contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sono parole eclatanti quelle contenute nel documento depositato martedì al Palazzaccio. Un documento con il quale Mimmo “il curdo”, sindaco sospeso di Riace, finito prima ai domiciliari e poi costretto ad andare via dal suo paese, viene di fatto riabilitato, sbriciolando un impianto accusatorio giudicato debole già dal giudice per le indagini preliminari. Oggi il sindaco sospeso si troverà davanti al gup, che dovrà decidere se rinviarlo a giudizio, assieme ad altre 30 persone, per associazione a delinquere, truffa con danno patrimoniale per lo Stato per oltre 350mila euro, abuso d’ufficio ottenendo un ingiusto vantaggio patrimoniale per oltre 2 milioni di euro, peculato distraendo fondi pubblici per oltre 2.400.000 euro, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma le motivazioni della Cassazione certificano un primo importante fatto: la carenza di fatti concreti a sostegno dell’accusa di frode e del condizionamento nella scelta del soggetto a cui affidare la raccolta dei rifiuti. Effettuata con atti collegiali, e non – come ipotizzato dalla Procura di Lori – come atto d’imperio del sindaco sospeso di Riace. Non potrà ancora tornare a casa sua, Lucano, ma rimane un fatto: di indizi che supportino il dubbio di comportamenti illegali non vi è traccia. Anzi, quegli affidamenti diretti, sotto soglia, erano possibili e tutti certificati da pareri di regolarità tecnica e delibere approvate anche in sua assenza.
L’appalto per la raccolta differenziata. L’accusa sintetizzata al capo T riguarda l’affidamento della raccolta differenziata a due cooperative sociali, la “Ecoriace” e L’Aquilone”, prive, secondo l’accusa, dei requisiti di legge in quanto non iscritte nell’apposito albo regionale previsto dalla normativa di settore. Un problema bypassato istituendo un albo comunale delle cooperative sociali tramite cui poter affidare direttamente, secondo il sistema agevolato previsto dalle norme, lo svolgimento di servizi pubblici e impedendo «l’effettuazione delle necessarie e previste procedure di gara», che prevedevano la procedura del cottimo fiduciario. Secondo i giudici della Cassazione, però, non ci sono fatti concreti a sostegno dell’accusa. «Il requisito del mezzo fraudolento e lo stesso fine di condizionamento del procedimento amministrativo finalizzato alla scelta del soggetto affidatario del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani – si legge – non emergono con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa». E questo sia in ragione del carattere collegiale delle delibere e di tutti gli atti amministrativi adottati sulla base di pareri di regolarità tecnica e contabile «sempre sottoscritti anche dal segretario comunale e dagli altri funzionari tecnici coinvolti nelle relative sequenze procedimentali», sia in ragione «della evidente notorietà dell’iniziativa (pubblicizzata anche attraverso l’istituzione di un albo comunale) e della oggettiva connotazione di peculiarità – espressamente riconosciuta anche nei provvedimenti amministrativi via via susseguitisi nel tempo – del servizio pubblico loro affidato, e a suo tempo fatto oggetto di una specifica valutazione di fattibilità espressa con la delibera comunale che stabiliva il ricorso alla modalità “dell’asinello porta a porta” per la raccolta dei rifiuti urbani». Per l’accusa quelle cooperativa avrebbero dovuto essere iscritte all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma all’epoca dei fatti, scrivono i giudici, quell’albo non esisteva. E ciò almeno fino alla data del 7 marzo 2016. L’ordinanza del Riesame, che imponeva il divieto di dimora a Riace, non forniva, dunque, «elementi di gravità indiziaria» tali da avvalorare l’accusa. Anzi, non emergono con la necessaria chiarezza «gli atti o i comportamenti che l’indagato avrebbe materialmente posto in essere per realizzare in concreto una serie di condotte che, allo stato, paiono solo assertivamente ipotizzate, e le cui note modali, peraltro, non vengono sotto alcun profilo tratteggiate, rimanendo addirittura contraddette dalla connotazione di collegialità propria di tutti gli atti di affidamento» e dai «pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato».
I matrimoni di comodo. Non c’è dubbio, secondo la Cassazione, che Lucano volesse aiutare la compagna, Lemlem Tesfahun, a portare suo fratello in Italia, arrivando con lei in Etiopia e collaborando al suo tentativo di sposarlo con documenti falsi per garantirgli un permesso di soggiorno. Gesti compiuti, come affermato nella decisione che riguarda la Tesfahun, «probabilmente per finalità moralmente apprezzabili». Ma il dubbio che si insinua nella validità dell’impianto accusatorio è un altro. Per la Procura, infatti, quello di combinare matrimoni tra cittadini di Riace e donne straniere sarebbe stato un «metodo» per garantire il permesso di soggiorno alle immigrate che chiedevano aiuto al sindaco. Ma per i giudici, «il richiamo a presunti matrimoni di comodo favoriti dall’indagato poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare».
Le esigenze cautelari. Sul punto i giudici sono chiari: gli scarni passaggi motivazionali dell’ordinanza «non si dedicano ad illustrare, con puntuali argomentazioni, gli elementi ritenuti, oggettivamente e soggettivamente, sintomatici della concretezza e dell’attualità dell’enunciato pericolo di reiterazione di delitti “della stessa specie di quello per cui si procede”, ma risultano basati, sotto tale profilo, su affermazioni del tutto apodittiche ed irrilevanti ai fini del richiesto vaglio delibativo, perché estranee ai contorni propri delle vicende storico fattuali oggetto dei temi d’accusa». Insomma, non è chiaro il motivo per cui, da sei mesi, Lucano non possa continuare a fare il sindaco del suo paese. Le circostanze poste alla base di tale decisioni sarebbero, di fatto, «asintomatiche, solo genericamente individuate ovvero irrilevanti» ai fini di una valutazione circa la concretezza ed attualità del pericolo, in quanto «già ritenute, finanche nella prima ordinanza cautelare, prive del necessario fondamento giustificativo derivante da un positivo esito del preliminare vaglio di gravità indiziaria, o addirittura basate su non previste valutazioni di ordine morale».
Il commento di Lucano. Si dice contento, ma pronto «a difendermi nei processi, non dal processo». Un accenno, nemmeno troppo velato, al ministro dell’Interno Matteo Salvini, che non sarebbe uguale a lui davanti alla legge, afferma il sindaco sospeso. «Chi ha la forza e la possibilità sta lontano dai processi – spiega al Dubbio – Questo primo passo della Cassazione porta un po’ di luce su questa aria torbida che si è creata attorno a me e al messaggio politico, all’idea che rappresenta Riace, che evidentemente ha preoccupato qualcuno». Un’avversione politica che va avanti da tempo, afferma Lucano. «Il giudizio della Cassazione è consequenziale a quello che aveva detto il gip – aggiunge – che aveva demolito l’impianto accusatorio costruito dopo mesi di intercettazioni. Lo stesso giudice aveva sottolineato come io non abbia rubato nulla: non ho niente, come emerge dagli accertamenti patrimoniali. Io appartengo alla dimensione di precarietà dei rifugiati. Mi sono trovato ad occuparmi di loro per caso, ma poi è diventata una mission, che è servita al territorio, perché abbiamo ripopolato le aree interne, condividendo un’idea di riscatto dei luoghi della nostra terra». Ma anche e soprattutto «un’idea di giustizia per gli ultimi. Abbiamo collegato le nostre precarietà e questo ci ha portato anche ad avere questa idea di comunità multietnica, dove il contributo economico diventava collettivo per i proprietari delle case, per gli esercenti, per gli operatori. Un progetto di cui aveva parlato il mondo».
Le accuse. A Lucano non vanno giù soprattutto le due accuse che gli sono costate le esigenze cautelari. A partire dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Mi sembra paradossale che lo contestino proprio a me – sottolinea – Il reato lo commette chi costringe migliaia e migliaia di esseri umani a intraprendere questi viaggi della speranza, chi li obbliga a vivere con meno di un dollaro al giorno, chi vende armi, chi esporta guerre. Mi sono occupato dei matrimoni degli ultimi, senza discriminazioni, come dice la Costituzione italiana. Non di matrimoni con auto di lusso fuori dal municipio, carrozze o elicotteri, né tra famiglie che cementano legami di sangue di mafia. Noi ci siamo costituiti parte civile contro la mafia, non come il Viminale, che si è costituito contro di noi ma non nel processo che riguarda i 49 milioni di euro occultati dal suo partito».
La nuova polemica con Salvini. E qui s’innesta l’ennesima polemica con il ministro dell’Interno. «Perché scappare dai processi e utilizzare l’escamotage dell’immunità?», si chiede Lucano riferendosi a Salvini. «Quando uno non ha nulla da nascondere, fuggire dai processi è un atto di vigliaccheria. Hanno distrutto una comunità, rimangono solo le ferite di quello che è successo». E la risposta del ministro arriva a stretto giro. «Non ho paura, anche perché ne avrò altri di processi da affrontare – afferma – Se avessi paura non farei il ministro dell’Interno. Per me ha deciso il Senato, dunque il popolo italiano, io quello che ho fatto l’ho fatto nell’interesse del popolo italiano, non sono un Sindaco che fattura sull’immigrazione». E riferendosi alle accuse rivolte a Lucano, chiarisce come «al di là di reati che possono esserci o possono non esserci, quello di Riace è un modello di sviluppo sbagliato. Io fossi un sindaco della Calabria, della Campania e della Lombardia non penserei a risolvere i problemi con la deportazione dei migranti».
Cosa resta di Riace. «Manco da sei mesi – dice amaramente il sindaco sospeso – non so se questa esperienza che ho vissuto lascerà un segno e in quale direzione lo lascerà e quali sono gli umori dentro la comunità. Eravamo abituati ad avere un fermento culturale, un laboratorio politico, ma in pochi mesi tutto è cambiato. La mia impressione è che quello che ha preoccupato è non tanto il modello Riace ma il messaggio politico che porta dietro – conclude – A Riace non c’è un’accoglienza neutrale. Io vengo giudicato dai tribunali, ma il giudizio che ha dato il Papa sul principale soggetto di quella prospettiva di disumanità oggi diffusa è molto più grave. Preferirei finire in galera che subire un simile giudizio da chi si schiera per i più deboli». Ora, probabilmente, ci sarà un processo. «Bisogna soffrire un po’ ancora – conclude – Ma io non ho più paura di nulla, la mia vita la metto là. Non ho altri supporti se non quelli di chi mi vuole bene. Sono contento di aver condiviso questo ideale».
Giulia Ligresti: «Mi mancano lo yoga e le compagne di cella. Aiuterò i bimbi in India». Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 su Corriere.it da Paola Pollo. Giulia Ligresti: «Mi mancano le compagne di cella. Quando sono uscita ho buttato tutto». La donna si racconta pochi giorni dopo la sentenza che l’ha assolta da falso in bilancio e aggiotaggio nel caso Fonsai. Unbroken. Unbroken. Unbroken. Cioè «non farti spezzare». Lo ha scritto centinaia di volte. Per 21 giorni. In stampatello. In corsivo. A lettere piccolissime. A caratteri cubitali. Nel grande block notes a quadretti, stropicciato e con le orecchie agli angoli. «Cara bimba mia, senza di te non ce l’avrei mai fatta». E più in là: Unbroken. «Amici vi sento tutti vicini». Unbroken. Mai smettere, mai smettere, mai smettere. Di crederci. Alla giustizia, alla verità, alla famiglia. E quando le porte di San Vittore si sono chiuse alle sue spalle, quella parola-mantra è diventata un impegno: «Ciò che è accaduto a me non deve succedere a nessuno, mai più». Giulia Ligresti, pochi giorni dopo la sentenza che l’ha assolta dalle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio nel caso Fonsai, annullando il patteggiamento e 62 giorni di carcere, è un fiume in piena di emozioni e sentimenti. Ma non c’è una Giulia prima e dopo la vicenda giudiziaria. Quella che si racconterà in queste righe è lei, un po’ la ragazza sportiva che cercava il vento sul mare, un po’ la giovane che cercava la sua strada negli impegni di famiglia, un po’ la madre con in braccio (sempre) Ginny, Federico e Leonardo, un po’ la persona impegnata nel sociale e, sì, un po’ anche la donna alla quale piaceva fare shopping. Perché no? Quello che le è successo ha aggiunto, più che tolto. Un solo desiderio, impossibile: «Che ci fosse papà (l’ingegnere Salvatore Ligresti, ndr) e con lui ricostruire la storia: Milano non sarebbe quella che è ora se non ci fosse stata la sua determinazione e visione».
I ricordi cominciano dai pantaloni con la striscia bianca che indossa.
«Li portavo in carcere. Comodi vero? Ovs. Quando sono uscita ho regalato tutto. Ma non questi. E non le ciabatte, quelle bisogna buttarle; come lo spazzolino, che devi spaccare in due: è il rito del non ritorno. I primi vestiti invece me li ha rubati una detenuta che è uscita all’improvviso. Poi la mia compagna di stanza mi ha detto: “Giulia, mi stai simpatica, ma cosa pensavi? Siamo in carcere. Con me nessuno oserà più portarti via nulla. Mai più. A San Vittore, ho trovato un’umanità incredibile, dalle compagne al direttore, la vicedirettrice e gli assistenti. Quando mi hanno detto che sarei andata via, ho pensato: come faccio con la partita di pallavolo contro il maschile? E le mie allieve del corso di yoga? È stato un secondo, poi è esplosa la felicità di riabbracciare i miei. Però ho promesso a tutte che le lezioni le farò. Vediamo. Quando sono uscita c’era la ola. Non ho mai smesso di crederci e ho impegnato tutto il tempo di cose. Mie e delle altre. Sempre attenta a non urtare nessuno. Una legge che devi imparare: il rispetto degli spazi che lì sono soggettivi. C’è tanta aggressività e violenza, tanta energia compressa. Il carcere non è solitudine, come erroneamente si pensa. È invece condivisione, più di qualunque altro luogo. È solidarietà, comunione, sopravvivenza, ossessione. Ogni discorso è ripetuto all’infinito, ogni novità vissuta come un evento speciale. E ogni cambiamento fa paura».
La prima volta vennero all’improvviso, la seconda se l’aspettava.
«Era l’una di notte quando entrai in cella, per fortuna a Milano, avevo la forza dei miei figli, l’abbraccio dei miei fratelli e di tutti i nipoti. Ogni mattina, dentro, correvo per chilometri nel quadrato del cortile, anche quando pioveva. Alle 11 salivo, avvocati, colloqui e alle 13 tornavo giù e ancora “tu-tu-tu” (la corsa, ndr) e alle 16 cominciavo i corsi: giornalismo, musica, palestra, canto gospel, sartoria. Suor Chicca mi diceva: “Giulia non ti trovo mai”. E poi il mio corso di yoga. Pensavo a Vercelli e a quei 41 giorni d’inferno. A Milano ho detto a tutti “se mi muovo posso farcela”. E alla sera, giocavo a carte con le altre: all’assassino, sì, ho imparato. E riso, tanto. E pianto».
Già, Vercelli, dove aveva deciso di non mangiare più.
«Stavo male, pensavo ai miei figli. Stavo impazzendo. E ho patteggiato. Leo aveva 9 anni. Le zanzare mi massacravano. Ero in cella da sola. Facevo qualche flessione per muovermi, ma per 23 ore stavo lì. Fra la turca e la branda. Era agosto. Un inferno. Lì sì che la solitudine mi ha piegata, annientata, non trovavo una ragione. Mi sentivo innocente, ma nessuno sentiva la voce che urlava dentro di me. Uscivano notizie non controllate. E l’idea che chi non mi conosceva era lì a sputare sentenze e giudizi sulla base di ciò che veniva raccontato e scritto, spesso con un fine preciso, mi distruggeva, giorno dopo giorno. Nel mio caso, volevano farmi apparire ridicola e superficiale, nel modo più maschilista e meschino, utilizzando stereotipi del tipo shopping uguale oca ricca e viziata».
La prima volta che uscì è stata rabbia o desiderio di farla pagare a tutti, o resa?
«Nulla di tutto questo. Ero felice di riabbracciare i miei figli, la mia famiglia. Mi stupì e mi stupisce ancora quanto non ci si rende conto che anche i gesti più banali e normali siano preziosi: ora trovo insopportabile chi non lo capisce. In carcere sono vite rinchiuse, ma vite con un quotidiano che è sopravvivenza alla quale nessuno è abituato. È uno zoo umano di culture, abitudini, mentalità e background sociali dove come in una babele ognuno cerca i propri simili. Ricevevo e cercavo di dare sempre qualcosa agli altri. Lì è così. Senza Elena, Anna, Giada, Michela, Radu e molte altre non ce l’avrei fatta. Quei giorni — difficilissimi — mi sono entrati nella pelle; un’esperienza fortissima, mai io non ho mai voluta una vita banale. La maggior parte delle ragazze là dentro però merita una seconda possibilità».
Cosa sogna ora?
«Di tornare in India dai miei bambini della Vanaprastha Children’s Home a sud di Bangalore, riprendere ad andare in Afghanistan, e nella striscia di Gaza. E voglio raccogliere attrezzature sportive per il progetto con i bambini “Sport e resilienza: una speranza per la Siria”. Voglio andare a trovare mio figlio Federico a Manila. E poi c’è il mio lavoro nel design, al salone sarò in mostra con i miei oggetti “Imperfect Love”. Questa ero io e questa sono io. Mai più altro».
Giulia Ligresti: assolta ma alle spalle ha sei anni d’inferno. Le accuse di aggiotaggio e falso in bilancio erano infondate. «Troppo spesso, in nome della giustizia, si commette la più grande delle ingiustizie: togliere la libertà a un innocente», ha commentato la donna dopo la sentenza, scrive Giulia Merlo il 4 Aprile 2019 su Il Dubbio. Si è conclusa il 1 aprile 2019 la vicenda giudiziaria di Giulia Ligresti: la Corte d’appello di Milano l’ha assolta definitivamente dalle accuse di aggiotaggio e falso in bilancio nel caso Fonsai. La sentenza ha accolto la richiesta di revisione del patteggiamento a 2 anni e 8 mesi, presentata dagli avvocati difensori in seguito all’assoluzione in rito abbreviato per gli stessi capi d’imputazione al fratello Paolo e ad altri ex manager. «E’ stata durissima ma non ho mai smesso di lottare e di avere fiducia nella giustizia», è stato il commento della secondogenita della dinastia Ligresti dopo la notizia dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. «Nonostante la violenza di essere stata messa in carcere, con tutto ciò che ne consegue, da innocente. Troppo spesso, in nome della giustizia, si commette la più grande delle ingiustizia: togliere la libertà ad un innocente e abbandonarlo alla gogna mediatica». Il caso giudiziario che ruota intorno alla famiglia Ligresti – il padre Salvatore, i figli Paolo, Jonella e soprattutto Giulia – riempie dal 2013 le pagine di cronaca giudiziaria, nello stesso anno ha portato a una mozione di sfiducia contro un ministro della Repubblica (Annamaria Cancellieri, all’epoca ministro della Giustizia e tra le papabili candidate al Colle) e, dopo sei anni, si smonta dalle fondamenta. In particolare, il caso di Giulia Ligresti ora concluso dopo sei anni e una intricata vicenda processuale, solleva perplessità in merito alla gestione dell’inchiesta a partire dalla fase delle indagini preliminari. Ripercorrendone i passaggi, il 17 luglio 2013 per l’intera famiglia Ligresti il gip di Torino dispone l’arresto: l’accusa è di falso in bilancio e manipolazione di mercato, per l’occultamento di un ammanco da circa 600 milioni di euro nella riserva per i sinistri della compagnia assicurativa Fondiaria Sai, con conseguenze per i risparmiatori. Il padre ottantenne Salvatore viene posto ai domiciliari, il figlio Paolo è in Svizzera e si costituirà solo due anni dopo, Giulia e Jonella invece finiscono in custodia cautelare nel carcere di Vercelli. Giulia soffre di anoressia e la galera peggiora le sue condizioni di salute: in carcere rimane un mese e mezzo e il gip respinge la prima istanza di scarcerazione formulata dai legali, nonostante il parere favorevole del pubblico ministero (dopo che Ligresti aveva collaborato con le indagini e formulato una proposta di patteggiamento della pena). Solo il 28 agosto il gip concede i domiciliari, dopo gli esiti di una perizia medica per accertare le condizioni di salute della donna. Gli stessi operatori carcerari, infatti, si erano rivolti ai magistrati di sorveglianza perché Ligresti era arrivata al punto di rifiutare il cibo e versava in condizioni psicologiche preoccupanti. La perizia certifica i disturbi psicologici e di alimentazione provocati dalla detenzione e viene concessa una misura cautelare meno afflittiva. A settembre 2013, l’ex vicepresidente di Fonsai – provata dalla carcerazione preventiva – decide definitivamente di patteggiare la pena a 2 anni e otto mesi, una multa di 20mila euro e la confisca del 31% delle azioni della società Pegasus (per un controvalore di circa 5 milioni di euro) e del 31% degli immobili riferibili alla società (valore totale stimato tra 25 e 28 milioni di euro). L’obiettivo dei difensori è quello di stralciare definitivamente la posizione di Giulia dall’inchiesta Fonsai, chiudendo la vicenda nel modo più rapido possibile per risparmiare alla donna il protrarsi della misura cautelare. Dopo il patteggiamento, infatti, Giulia torna libera e attende che la sentenza diventi definitiva per concordare con il Tribunale di sorveglianza di Milano le misure alternative alla detenzione, come l’affidamento servizi socialmente utili. Il 19 ottobre 2018 (quando viene fissata udienza davanti ai giudici di sorveglianza), tuttavia, Giulia Ligresti torna in carcere, questa volta a San Vittore a Milano. Il tribunale milanese, infatti, respinge la richiesta avanzata dai legali di far scontare a Ligresti la parte restante della pena (dopo i 3 mesi scontati prima in carcere e poi ai domiciliari) con lavori socialmente utili. La nuova carcerazione dura 19 giorni: Ligresti torna in libertà con l’accoglimento da parte della Corte d’Appello di Milano della richiesta di sospensione dell’esecuzione della sentenza di Torino, presentata dagli avvocati difensori Gian Luigi Tizzoni e Davide Sangiorgio. I legali, infatti, depositano un’istanza di revisione del patteggiamento del 2013, sulla base dell’assoluzione ottenuta in via definitiva dal fratello Paolo «per gli stessi fatti», ovvero i reati di falso in bilancio e aggiotaggio nel processo Fonsai. Lunedì scorso, infine, i giudici milanesi hanno accolto la posizione dei legali e revocato il patteggiamento, assolvendo definitivamente Giulia Ligresti. Il patteggiamento era «inconciliabile», «visto un pronunciamento passato in giudicato che dichiara l’insussistenza del fatto», ha spiegato l’avvocato Sangiorgio. La vicenda, dunque, per l’ex top manager si conclude con un’assoluzione dopo sei anni di processi, quaranta giorni di carcere a Vercelli, altrettanti ai domiciliari e 19 a San Vittore. E’ stata proprio la detenzione a provare maggiormente – sia dal punto di vista psicologico che fisico – Giulia Ligresti, la quale ha tenuto in ogni sede a ribadire di «essere finita in carcere da innocente». A sottolineare l’importanza della sentenza sono intervenuti anche gli avvocati: «La sentenza di Milano restituisce piena dignità a Giulia Ligresti, bersaglio di un’ingiusta carcerazione». Ora, proprio questa ingiusta detenzione potrebbe oggetto di autonomo procedimento: l’ex vicepresidente di Fonsai, infatti, avrebbe la possibilità di instaurare un giudizio per ottenere il risarcimento del danno da ingiusta detenzione. Anche se nessuna compensazione economica potrà restituirle sei anni di calvario giudiziario, aggravato dai mesi passati in carcere.
· Unabomber, Zornitta (indagato e prosciolto) chiede i danni.
Elvo Zornitta: «I miei cinque anni trattato da Unabomber». Pubblicato domenica, 11 agosto 2019 da Andrea Pasqualetto su Corriere.it. Elvo Zornitta, nella sua casa, mostra i giornali che parlano di lui «Elvooo! Hai visite». «Chi è?». «Boh». La moglie ci fa comunque accomodare ed Elvo spunta da una porta, ciabatte, bretelle e maglietta variopinta. Mai visto così, l’inappuntabile ingegner Zornitta, del quale fino a ieri si conosceva solo la versione in giacca e cravatta. «Scusi tanto, mi ero dimenticato». Si era scordato dell’appuntamento. Davvero un altro uomo. Sono passati quindici anni da quando l’Italia pensava di aver scovato il suo Unabomber, chiudendo così un lungo periodo di piccole bombe e di paure iniziato esattamente un quarto di secolo fa: trenta ordigni, dal 1994 al 2004, con uno strascico fino al 2006 e un bilancio di sangue che parla di donne, uomini e bambini mutilati. Nessun morto, miracolosamente. Il tutto succedeva a Nordest, fra le province di Pordenone, Udine, Treviso e Venezia, nei luoghi più diversi, a una sagra di paese, sulla spiaggia, nei supermercati, in due cabine del telefono, con una predilezione per i luoghi sacri, chiese e cimiteri. Un paio di volte l’anno, boom!, e montava la psicosi. Nel 2004 il pool interforze voluto dalla Procura di Venezia per dare la caccia al bombarolo — 30 uomini fra poliziotti e carabinieri — pensò di averlo acciuffato: lui, Elvo Zornitta di Azzano Decimo (Pordenone), allora 47 anni, professione ingegnere con un brillante passato all’industria di armamenti Oto Melara, una moglie, una figlia, la passione per i lavoretti elettrici e il bricolage. Ma la prova schiacciante che avrebbe dovuto incastrarlo, un paio di forbici, si rivelò falsa, fabbricata in laboratorio da un poliziotto in camice bianco, Ezio Zernar. E così gli inquirenti italiani conobbero la pagina più nera della loro storia: Zornitta scagionato, Zernar condannato e Unabomber per sempre libero. Eccolo l’ingegnere dieci anni dopo. Stessa casa, una villetta a schiera, stessa moglie, stessa cortesia.
Ingegnere, cosa le rimane dei 5 anni in cui era Unabomber?
«Venga con me... La vede questa, la guardi bene. Uno, due, tre... Si chiamano chiavistelli. Tre per ogni imposta della casa. Ho messo un sistema di allarme interno, telecamere esterne. Mancano solo le inferriate. Mia figlia dice che sono diventato paranoico».
Perché si è blindato?
«Perché non mi fido più di nessuno. Quell’indagine è stata per me devastante da tutti i punti di vista: lavorativo, familiare, sociale. Ho perso il lavoro, ho perso gli amici e ho perso anche la fiducia negli altri. Cosa rimane? Questo: una vita rovinata, un uomo diverso. Le ricordo che ero stato licenziato in tronco perché indagato (ora lavora in una piccola azienda, ndr) e che tutti mi evitavano come la peste. Era tutto molto difficile: difficile avere relazioni, difficile chiamare, parlare. Difficile vivere. Ed ero costretto a pensarle tutte per difendermi».
Cioè?
«Dopo la storia delle forbici e dopo aver trovato tre microspie in casa, temevo tutti. Pensavo che chiunque potesse essere un nemico. In quegli anni non facevo entrare mai nessuno perché avevo il terrore di ritrovarmi stranezze in casa o che potessero prendere qualcosa di mio».
In che senso?
«Ricordo per esempio che mi riempivo le tasche di mozziconi. Io ero un fumatore accanito e non li buttavo più perché avevo paura che qualcuno li prendesse per usarli contro di me, sa, il dna, i reperti...».
Il “terrorista” terrorizzato?
«Mi erano venute tante paure e anche una brutta idea...». Zornitta sospira, scuote la testa, tace.
Di farla finita?
«L’amore di mia moglie mi ha dato la forza di non finire nell’abisso».
La moglie, Maria Donata, maestra elementare, gira per casa: «Non ho mai sospettato di Elvo», assicura, «ma proprio mai. L’intimità psicologica che c’è fra noi è tale che non può essere diversamente. Altro che diabolico, lui è un santo».
Ingegnere, riconoscerà che al di là delle forbici gli indizi erano molti: dagli ovetti Kinder alle fialette Paneangeli alle penne Bic senza refil che le hanno trovato in casa, tutte componenti di vari ordigni...
«Certo, ma da qui a passare per Unabomber ne passa».
A ruoli invertiti, se lei fosse stato un inquirente cosa avrebbe fatto di fronte a Elvo Zornitta?
«Avrei certamente indagato per capire chi era quest’uomo, l’avrei sorvegliato. Ma verificato che non c’era nulla di serio avrei anche abbandonato la pista. Ovetti, fialette e penne bic si trovavano in qualsiasi famiglia con figli. E invece hanno voluto insistere su di me perché avevano bisogno di un mostro da sbattere in prima pagina. Senza un movente, peraltro».
Dicevano che volesse vendicare suo fratello mutilato.
«Ma mio fratello non è stato mutilato, lui è nato senza un arto ed è la persona più buona e gentile del mondo. Nessuna rabbia, nessuna vendetta».
Dal 2006, quando lei era ancora all’inferno, Unabomber non ha più colpito. Anche questo viene indicato come un indizio. Cosa ne pensa?
«Errore: da quando ho saputo di essere indagato, anno 2004, ci sono stati altri cinque attentati. E quindi io avrei messo cinque bombe mentre gli investigatori mi erano alle calcagna. Dopo il 2006 è finita? Beh, il pazzo potrebbe essere morto o essersi ammalato».
Si è fatto un’idea su chi fosse Unabomber?
«Erano tre i nomi che mi venivano segnalati, nelle molte lettere che ricevevo. Su uno c’era qualcosa in più, ma niente di decisivo. Si trattava di un settantenne, un pensionato della provincia di Udine. Non ho mai detto nulla di questa cosa e non farò mai il suo nome, per rispetto. Quell’uomo è morto diversi anni fa, vero Maria?... Ma io avevo pensato anche alla pista americana».
Qualcuno della base Usa di Aviano?
«Le misure del componente di una bomba non erano italiane. Erano in pollici non in centimetri». Lei ha chiesto allo Stato un milione di euro di risarcimento, giusto?
«Sì, chi sbaglia dovrebbe pagare credo, ma la richiesta è stata rifiutata. C’è comunque una causa in corso». Arriva la figlia, oggi ventitreenne, saluta tutti ed esce di casa.
Ha avuto problemi anche lei?
«Ha sentito tutto il peso della vicenda e ai tempi del liceo si era fatta schiva e riservata. Unabomber l’ha fatta maturare prima del tempo. Oggi studia Legge... vuole fare la criminologa». Zornitta ci accompagna gentilmente all’uscita. Stringe la mano con energia, accenna un sorriso e chiude il portone. Con una doppia mandata.Unabomber, Zornitta (indagato e prosciolto) chiede i danni. Nuova perizia. Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Corriere.it. Di nuovo Unabomber, di nuovo lui: Elvo Zornitta, l’ingegnere friulano a lungo indagato come bombarolo del Nord Est e poi prosciolto. Questa volta il sessantaduenne di Azzano Decimo torna sotto i riflettori della cronaca per via di un giudice che sta indagando sulla sua psiche. Il motivo? Vuole capire quanto può pretendere di risarcimento danni per il coinvolgimento nell’inchiesta sull’attentatore ritenuto responsabile di 28 ordigni in 12 anni, dal 1994 al 2006, e mai trovato. La trattativa avviata con lo Stato è infatti saltata perché considerata troppo onerosa. Per chiudere la causa intentata contro i ministeri dell’Interno e della Giustizia e contro Ezio Zernar, il poliziotto condannato per aver prodotto una falsa prova, Zornitta aveva chiesto un milione di euro. «La proposta è stata respinta perché il ministero ha giudicato il quantum troppo elevato», si era limitato a dire l’avvocato dello Stato Simone Cardin. Fallito l’accordo, il giudice lagunare Silvia Franzoso ha dovuto riprendere in mano la causa, disponendo una perizia psichiatrico-forense su Zornitta. E così sono scesi in campo periti e consulenti di parte. Ci sono già stati due incontri, nei quali Zornitta è stato sentito alla presenza anche di una psicologa. Si indaga sulle ripercussioni psicologiche e lavorative. Ci sono da stabilire gli eventuali danni patrimoniale, biologico, d’immagine. Sono state chiamate a testimoniare varie persone, fra cui il fratello di Zornitta, un suo collega e i medici che l’avevano in cura al tempi dell’indagine. Ci sarà un terzo e ultimo incontro, poi il perito, Rubens De Nicola, trarrà le sue conclusioni che depositerà in tribunale. Un passo indietro. Era il 2009 quando la posizione dell’ingegnere fu archiviata dopo cinque anni d’indagine. Una scelta imbarazzata e frettolosa. Gli inquirenti erano infatti convinti che fosse proprio lui il diabolico bombarolo capace di piazzare trappole esplosive nei luoghi più disparati, spiagge, chiese, cimiteri, sagre, supermercati, mutilando bambini e donne e spaventando la gente. Zornitta era stato pedinato, intercettato, perquisito. Il pool interforze di trenta uomini, creato proprio per dare la caccia a Unabomber, mise in fila una trentina di indizi. E, alla fine, anche una prova regina: il lamierino di una bomba rinvenuta inesplosa che sarebbe stato tagliato da un paio di forbici sequestrate a Zornitta. Un «colpo» investigativo di grande effetto, apparentemente capace di incastrare l’ingegnere alle sue responsabilità. Ma con un clamoroso difetto d’origine: era falso, costruito nel 2006 da Zernar che alterò il lamierino in laboratorio. La scoperta della manomissione ebbe un effetto domino sull’intera inchiesta, compromettendola. Cadde la prova, caddero gli indizi, cadde pure l’indagine. La prova decisiva si era trasformata per le procure in un boomerang che travolse tutto e tutti. Salvando un solo uomo: l’indagato eccellente Zornitta. Poi passarono gli anni, Zernar subì una condanna definitiva, e si è arrivati al 2017, quando gli avvocati dell’ingegnere, Maurizio Paniz e Stefania Fullin, hanno dato il via alla transazione con i ministeri degli Interni e della Giustizia per il suo risarcimento, nell’ambito della causa civile avviata davanti al magistrato veneziano. «Erano tutti concordi, i legali, le prefetture interessate, i gradini intermedi... ma alla fine, quando la pratica è giunta a Roma, qualcuno ha mandato all’aria l’accordo. E quindi si è ripartiti da zero davanti al giudice», ha spiegato deluso Paniz. Zornitta, che oggi lavora in una piccola azienda pordenonese, la sta vivendo con rassegnazione. «La mia famiglia è stata devastata dall’inchiesta, con problemi di immagine, di relazioni sociali e di salute…», è la sintesi nell’atto di citazione. In più, quella che considera un’inaccettabile beffa: lui licenziato e il poliziotto che ha falsificato la prova ancora in servizio e pure promosso «nonostante la condanna». Ma il poliziotto pensa che la grande beffa sia la sua. È l’altra faccia dell’infinita storia di Unabomber.
· Marco Siniscalco. Avvocato, 74 anni: in cella per l’effetto retroattivo della legge spazzacorrotti.
Marco Siniscalco. Avvocato, 74 anni: in cella per l’effetto retroattivo della legge spazzacorrotti. Un’altra beffa della spazzacorrotti: l’avvocato Siniscalco avrebbe ottenuto i domiciliari, poi si è visto revocare la sospensione, scrive Errico Novi il 30 Marzo 2019 su Il Dubbio. Età: 74 anni. Pena da scontare: 3 anni e 2 mesi. Reato per il quale è stata emessa la condanna: corruzione in atti giudiziari. Seppure in modo non perfettamente sovrapponibile, i dati appena messi in fila richiamano casi come quello di Roberto Formigoni. O di altri condannati con sentenza definitiva che, con l’entrata in vigore della legge spazzacorrotti, hanno visto improvvisamente dissolversi la possibilità di accedere a misure alternative al carcere. Stavolta il condannato in questione è un avvocato: si tratta di Marco Siniscalco, professionista molto conosciuto a Salerno, città in cui è stato anche consigliere comunale. È in carcere da oltre un mese e mezzo. Anche se ha 74 anni. L’ultima riforma anticorruzione ha precluso infatti anche agli ultrasettantenni la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere. Così come Formigoni a maggior ragione dopo l’esito dell’incidente di esecuzione dovrà attendere in una cella a Bollate di essere ascoltato dal giudice di sorveglianza per convincerlo del proprio “pentimento”, così l’avvocato Siniscalco è ora recluso nel penitenziario salernitano di Fuorni e potrebbe doverci restare almeno per qualche mese, in attesa che la sua istanza di concessione dei domiciliari sia valutata dal Tribunale, anche in base a sue eventuali professioni di ravvedimento morale. È l’ennesima beffa provocata dall’ultima legge sulla corruzione, voluta fortemente dalla maggioranza e in particolare dal Movimento cinquestelle. La vicenda di Siniscalco è esemplare e ha scosso l’avvocatura salernitana. Il caso dell’anziano collega, finito in galera per gli effetti retroattivi delle nuove norme, è oggetto di discussione nei palazzi di giustizia e sui social network. Soprattutto considerato che quando a giugno scorso la condanna del professionista campano era divenuta definitiva, non sussistevano dubbi sulla possibilità di ottenere la misura alternativa alla detenzione inframuraria. «La pronuncia con cui la Cassazione aveva detto l’ultima parola sulla vicenda processuale di Siniscalco risale al giugno dell’anno scorso, e inizialmente la Procura generale competente, quella di Napoli, aveva emesso un ordine di esecuzione sospeso, in cui era lasciata al condannato la possibilità di chiedere la misura alternativa», spiega il penalista Francesco Dustin Grancagnolo, che ha assunto la difesa del collega 74enne insieme con il professor Gustavo Pansini. «La detenzione domiciliare sarebbe stata senz’altro concessa, considerata l’età anagrafica. Poi è avvenuto quello che si verifica ormai in molti uffici giudiziari italiani da quando, lo scorso 31 gennaio, è entrata in vigore la legge spazzacorrotti: dal momento che il Tribunale di sorveglianza non si era ancora pronunciato sulla richiesta di misura alternativa, la stessa Procura generale ha revocato il precedente ordine di esecuzione e ne ha emesso uno nuovo che non consente di chiederla. Sappiamo che lo scorso 20 marzo la Cassazione ha emesso una sentenza, la 12541, in cui riconosce la possibile illegittimità costituzionale delle nuove norme sull’esecuzione delle condanne per reati contro la pubblica amministrazione. Pochi giorni prima, insieme con il professor Pansini ci eravamo mossi esattamente in quella direzione, con un incidente di esecuzione nell’ambito del quale porremo appunto la questione di costituzionalità: la spazzacorrotti non dovrebbe potersi applicare in forma retroattiva, vale a dire per reati commessi molti anni prima della sua entrata in vigore». Come suggerisce, appunto, anche la Suprema corte.
· "Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori. Come un calciatore che sbaglia un rigore".
Roberto, Giorgio, Gino. Cioè Formigoni e i suoi fratelli incarcerati. Storie di prigionieri tenuti in cella senza ragione. Famosi o ignoti. Vittime di un sistema punitivo che sta peggiorando e ora è diventato anche retroattivo, scrive Piero Sansonetti il 29 Marzo 2019 su Il Dubbio. Roberto domani compie 72 anni. È vecchio ormai. Una gran vita dietro le spalle. È stato famoso, benestante, riverito. Ora è in cella. probabilmente i suoi compagni lo festeggeranno. Chissà se riusciranno a preparargli una torta. Anche Giorgio ha 72 anni, già compiuti. E’ un colletto bianco, come si dice. Quelli contro i quali si scagliano sempre Travaglio e Davigo, dicono che loro la fanno sempre franca, perché sono potenti, ricchi. Giorgio non è ricco e non è potente. Non l’ha neanche fatta franca. Oggi è malato, è cieco non ha un euro in tasca. Lo hanno condannato per avere fatto da prestanome alla persona sbagliata e lui non ha potuto neanche fare appello perché non aveva i soldi per pagarselo. Così la condanna è diventata definitiva, cinque anni. Giorgio era un dipendente pubblico. Quindi “corrotto”. La nuova legge lo considera al pari di un mafioso, come Luciano Liggio, come Riina, e perciò lo esclude dai benefici penitenziari. Non può chiedere i servizi sociali o i domiciliari. Roberto, Giorgio e Gino, cioè Formigoni e i suoi “fratelli” incarcerati. La nuova legge è molto seria, l’hanno voluta i 5 stelle. E’ retroattiva. E’ l’unica legge retroattiva che si conosca in occidente, e proprio ieri, giustamente, Marco Travaglio l’ha rivendicata come sua e ha spiegato che ne va orgoglioso. Giorgio deve adattarsi a passare in cella gli ultimi anni della sua vita. Travaglio potrà brindare. Poi c’è Gino. Gino è un pochino più vecchio di Roberto e Giorgio. Lui ha 81 anni. Non è mafioso e nemmeno corrotto. E’ stato, se le accuse sono giuste, un piccolo spacciatore. Quando lo beccarono aveva un po’ meno di 50 anni. Ne sono passati più di trenta da allora. Si beccò un po’ di galera, ma con la condizionale. Poi ci ricadde. Vendette di nuovo canne e spinelli. Lo beccarono un’altra volta nel 2011. Le condanne sono diventate definitive qualche anno fa, le pene si sono sommate. Gino si è preso in tutto 15 anni e quattro mesi, tutti da scontare: cioè la pena che talvolta viene data per omicidio volontario. Tre volte superiore a quella che puoi prenderti per stupro. Del resto, lo sappiamo tutti, un pusher è un pusher. Va stangato. Dal 2014 è chiuso in cella. Magari tra cinque o sei anni potrà godere di qualche beneficio penitenziario e uscirà. Almeno di mattina. Più o meno uscirà insieme a Roberto e a Giorgio. I primi due andranno fuori a godersi gli ottant’anni, Gino andrà a godersi i novanta. Non me le sono mica inventate queste storie. Gino di cognome si chiama Baccani. Giorgio si chiama Mancinelli. Roberto, forse lo avete già indovinato, si chiama Formigoni, è l’ex fondatore di Comunione e Liberazione, l’ex presidente della Regione Lombardia.
Ieri “Il Fatto Quotidiano” ha dedicato un articolo di sberleffi a Formigoni. Ha detto che deve restare in cella. Senza usare, come fa Salvini, la parola “marcire”, ma il senso era quello. E ha spiegato che se la spazzacorrotti ha introdotto misure che vengono applicate in modo retroattivo è bene così. Io quando leggo queste cose, ve lo confesso, un po’ barcollo. Non riesco proprio a mettermi nei panni di qualcuno che bastona e prende in giro una persona che sta in carcere. Si, a costo di essere retorico e di sembrare cattolico e bigotto – e non lo sono non riesco a non pensare quel passo del vangelo nel quale Gesù minacciava di orribili punizioni chi se ne frega dei carcerati. Però resto garantista e spero che queste orribili punizioni siano risparmiate a tutti, anche ai maramaldi… Roberto Formigoni è stato condannato a una pena spropositata, quasi sei anni, con l’accusa di avere passato le vacanze a sbafo. E’ stato condannato senza prove, come, purtroppo, in Italia succede abbastanza spesso. Gli è stata applicata retroattivamente una legge un po’ demenziale ( che dice che prendere una tangente o uccidere una mezza dozzina di cristiani è più o meno grave uguale) e giudicata incostituzionale un po’ da tutti, e cioè la spazzacorrotti, che lo esclude dai benefici penitenziari. Bisogna infischiarsene del suo destino solo perché è stato un uomo potente e un parlamentare? O perché è stato un esponente di uno schieramento politico che non piace a chi scrive, o a Travaglio, o a qualche magistrato, o a molti giornalisti? Su questo giornale abbiamo condotto molte battaglie per la scarcerazione di tanti detenuti. Ignotissimi, poverissimi, sconosciuti, o famosi, come per esempio Marcello Dell’Utri, o Giuseppe Scopelliti. Ora è la volta di Roberto, di Giorgio, di Gino. Siamo sempre rimasti molto soli in queste battaglie. Se ci guardavamo attorno chi vedevamo? Del mondo politico, mi pare, solo i radicali. Possibile che i politici siano così egoisti, gretti, insensibili? Neppure se mettono in gabbia un loro amico si mobilitano? A me non scandalizzano gli stipendi alti della casta, il finanziamento dei partiti, neppure mi scandalizza tanto il voto di scambio ( che non ho mai capito bene cos’è) o il traffico di influenze ( che non capirò mai cos’è): a me scandalizza un po’ questa totale assenza di moralità, e questa codardia, che spinge i politici a voltarsi dall’altra parte se un loro collega cade in disgrazia e viene massacrato dalla magistratura. Sarà il caso o no di cominciare a dire che se le carceri sono sovraffolate è soprattutto per una ragione: perché dentro le prigioni ci sono decine di migliaia di persone che non dovrebbero starci. La prigione è evidentemente una barbarie. Specialmente per come è organizzata oggi, in modo oppressivo, persecutorio, spesso di vera e propria tortura. Dovrebbe essere ridotta, in una società moderna, a struttura minima, residuale, destinata solo a casi estremi che mettono in discussione la sicurezza, cioè che mettono in pericolo i cittadini. E invece è considerata quasi come una macchina funzionale. Non si sa funzionale a che, visto che qualunque sociologo sa che è una macchina che produce criminalità. Dentro la prigione c’è un gran numero di innocenti ( almeno il 20 per cento tra errori giudiziari conclamati e detenzioni preventive che si concludono con le assoluzioni) e un numero ancora più grande di persone che stanno lì dentro solo per rispondere a una domanda di opinione pubblica, o di opinion maker, o a una incapacità dello stato di gestire le punizioni in altro modo. C’è qualcuno che sa dirmi quale vantaggio avrà la società dell’imprigionamento di Roberto, Giorgio, Gino? Da anni aspetto che qualcuno me lo dica. Ora posso solo mandare un abbraccio a quei tre e i miei affettuosissimi auguri di buon compleanno a Roberto Formigoni.
"Noi carcerati, ricordati solo per i nostri errori. Come un calciatore che sbaglia un rigore". Tra Genny ’a carogna e il medico di Provenzano, abbiamo passato una giornata con i detenuti di una sezione "alta sicurezza", parlando di calcio, libri e di quelle scelte che ti cambiano la vita, scrive Gigi Riva il 17 aprile 2019 su L'Espresso. Che nesso c’è tra un rigore sbagliato e un reato commesso? Un’assonanza più stretta di quella già evidente per i tifosi di calcio poteva trovarla solo un detenuto. Siamo alle Sughere, carcere di Livorno, ramo alta sicurezza. Mi hanno invitato a parlare del mio libro “L’ultimo rigore di Faruk” (Sellerio) nell’ambito del progetto “Caro amico, io scrivo...” coordinato da Monica Sarno del provveditorato regionale toscano dell’amministrazione penitenziaria. In galera si guarda molto calcio in televisione, si gioca al calcio, si parla di calcio. A Livorno c’è, oltretutto, Gennaro De Tommaso, detto “Genny ’carogna”, condannato a 18 anni per traffico di droga, capo dei Mastiffs, frangia ultrà del Napoli, diventato famoso perché nel 2014 trattò con le autorità le modalità di svolgimento della finale di Coppa Italia tra la sua squadra e la Fiorentina, dopo gli incidenti e il ferimento di un suo compagno di fede, Ciro Esposito (spirerà in seguito). E io voglio raccontare delle curve degli stadi jugoslavi, degli hooligan trasformati in zelanti miliziani dediti agli stupri, alle carneficine e alle esecuzioni sommarie. Non solo Genny, c’è anche Giovanni Mercadante, 70 anni, radiologo e docente universitario, 10 anni e 8 mesi di pena per associazione mafiosa, l’accusa, che ha sempre negato, di essere il medico del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la lunga latitanza. E poi pluriomicidi, trafficanti internazionali di eroina e cocaina, camorristi, mafiosi. Molti di loro si sono laureati in galera, seguono gruppi di lettura, impiegano il tempo sui libri.
Matteo Salvini ad Annalisa Chirico: "Non dirò mai più marcire in galera", scrive il 29 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Vedrò di stare più attento. Obbedisco". Matteo Salvini lo ha promesso alla presidente di Fino a prova contraria, Annalisa Chirico nel corso della cena al ristorante "In Galera" nel carcere di Bollate, che gli ha chiesto di non usare più l’espressione "marcire in galera". La Chirico ha introdotto la domanda sottolineando che "una persona non è il reato che ha commesso" e che come la persona uscirà dal carcere è più importante del motivo per cui ci è entrata. A tavola i piatti cucinati e serviti dai detenuti hanno seguito un menu "no meat" (senza carne, ndr) e in particolare sono stati serviti gnocchi e polipetti.
Brunella Giovara per “la Repubblica” il 29 marzo 2019. Il ministro è stravolto ma ha fame, si fionda in cucina e qui partono i selfie con i detenuti chef e camerieri di uno dei ristoranti più esclusivi d' Italia, non fosse perché è all' interno di un carcere, a Bollate, periferia di Milano. « Festeggio la giornata in galera», dice Matteo Salvini al suo arrivo da Roma, tutti lo aspettano per la cena evento organizzata da Annalisa Chirico e dalla sua associazione "Fino a prova contraria", qui nel ristorante chic InGalera, aperto anche al pubblico ma stasera no, solo il ministro e 50 ospiti, magistrati, avvocati, docenti universitari, personalità. Scopo della serata, far dire al ministro «che nessuno deve marcire in galera, un uomo di Stato non usa queste parole » . E il ministro ieri sera era buono, anzi « clamorosamente buono » , infatti ha promesso che non lo dirà più, ma «la giustizia è la certezza della pena», e poi via a raccontare la giornata della sua vittoria, la legge sulla legittima difesa di cui « si chiacchierava da anni, e voi non sapete che piacerissimo mi ha fatto leggere certi messaggi personali, che conservo sul mio telefono », e chissà di chi sono, «questa è una legge che si riferisce alla vita reale», e chi lo critica non gli fa un baffo, «visto che mi criticano anche quando mi alzo e bevo un cappuccino ». Intanto spiega di avere una gran fame perché « oggi ho mangiato solo un Crispy McBacon, ma con carne italiana, sia chiaro » , quindi si lancia sul salmone marinato alle erbe gentili, dopo arriveranno le chicche di patate e il tiepido di polipetti. Ma allora, è o non è un esempio, questo carcere dove lavorano moltissimi detenuti, dove c' è il ristorante, le serre, i corsi professionali, e anche detenuti importanti tipo Stasi (omicidio di Garlasco), e l' ex governatore Formigoni ( corruzione). « Sì, è un modello, farò il possibile per moltiplicare questa esperienza, con il collega Bonafede » , e « vedrò di essere più attento anche alla sensibilità di chi ha sbagliato una volta, e non è detto che sbagli una seconda», e ha anche un progetto, «sempre assieme al collega Bonafede, per accompagnare nei loro Paesi i detenuti a fine pena, toccando ferro » , ognuno a casa sua. Per il resto, il buon Salvini intende «eliminare il rito abbreviato entro questa primavera, e sarà una legge dello Stato». Che a lui interessa che «chi viene condannato a vent' anni, faccia vent' anni » . Uno a caso, Cesare Battisti, che « starà in carcere fino alla fine dei suoi giorni » , essendo condannato all' ergastolo. E i responsabili di reati gravissimi, come le violenze sessuali? « Se qualcuno mette le mani addosso a una donna o a un bambino, trattasi di schifoso, ma va curato ». Possibilmente con la castrazione chimica, «che viene sperimentata in tanti Paesi occidentali, dove molti la chiedono, per non commettere altre violenze bestiali», insomma buon appetito.
· Assolto Duilio Poggiolini.
DOPO VENTITRÉ ANNI, DUE PROCESSI ARCHIVIATI, UNO SVOLTO CON DECINE DI UDIENZE E TRE ORE DI CAMERA DI CONSIGLIO “IL FATTO NON SUSSISTE”: ASSOLTO DUILIO POGGIOLINI, OGGI 93ENNE, EX RE MIDA DELLA SANITÀ ITALIANA. Giovanni Del Giaccio per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Dopo ventitré anni, due processi archiviati, uno svolto con decine di udienze e alla fine di tre ore di camera di consiglio «il fatto non sussiste». Sono stati assolti Duilio Poggiolini, oggi 93enne, ex Re Mida della sanità italiana, ospite da tempo di una casa di riposo e ormai nemmeno in grado di sapere che il suo ultimo processo è finito nel modo migliore. Lui, all' epoca direttore del servizio centrale farmaceutico, autorizzava i farmaci prodotti con emoderivati che dovevano salvare la vita agli emofilici. Cioè a persone alle prese con un difetto del fattore ottavo e quindi della coagulazione del sangue. Molti, la vita, l'hanno persa. A seguito di infezione per Hiv (il virus dell' Aids) o per epatite C. Per otto persone decedute si è celebrato il processo a Napoli per una vicenda iniziata a Trento nel 95 e in parte già chiusa. A nulla è valso sostenere che Poggiolini, attraverso omissioni, agevolazioni e autorizzazioni specifiche avesse - secondo il capo di imputazione - favorito le aziende. I farmaci, vennero prodotti e rimasero in commercio anche dopo che ci si rese conto della loro pericolosità per una intera comunità, praticamente distrutta dagli emoderivati indicati come salvavita. Per questo si era parlato, inizialmente, di epidemia colposa. Inutilmente. «Nessuno voleva farlo questo processo - dice sconsolato l'avvocato Ermanno Zancla, rappresentate delle parti civili - ci siamo trovati l' ufficio del pubblico ministero comunque contro e il Ministero della salute si è prima costituito parte civile e poi si è ritirato». Era stato lo stesso pubblico ministero, Lucio Giugliano, a chiedere di assolvere gli imputati. Pur comprendendo che si era di fronte a uno scandalo - quello del sangue infetto che ha attraversato l'Italia fino agli anni 90 - era impossibile stabilire il nesso causale tra i farmaci e la morte delle persone per le quali si era arrivati al processo. Non solo, cambiando il capo di imputazione «non sono state effettuate nuove specifiche indagini». Poggiolini e i rappresentanti delle aziende Sclavo e Farmabiagini, sono usciti indenni. Così ha stabilito il giudice Luigi Palumbo. L'avvocato Luigi Ferrante, difensore di Poggiolini, esprime «viva soddisfazione» per la sentenza di assoluzione. Il legale sottolinea «con amarezza, che nonostante fosse chiarissima la normativa, che riferiva ad altri la responsabilità dei controlli sugli emoderivati, siano stati necessari ben 23 anni per liberare il mio assistito da una così pesante contestazione». Era un processo simbolo, questo, per i familiari delle dieci vittime e per le migliaia di emofilici che cercavano giustizia. Ma anche per tutti i trasfusi occasionali che hanno contratto Aids o epatite perché sul sangue non c'erano i controlli adeguati. Migliaia di persone, molte delle quali aspettano risarcimenti dallo stesso Ministero che al processo di Napoli si è sfilato. Rispetto alla vicenda degli emoderivati realizzati con sangue infetto proveniente dalle carceri americane: «Serve una commissione parlamentare d' inchiesta - dice l' avvocato Stefano Bertone, altro rappresentante di parte civile - su un fenomeno che ha causato migliaia di morti. Sugli attuali imputati possiamo persino essere d' accordo ma è ora di fare luce su questa triste vicenda italiana aspettiamo le motivazioni». Fissate in 90 giorni. Nulla rispetto ai 23 anni per concludere questo processo e ai 30 da quando le associazioni dei malati o i trasfusi chiedono giustizia. Spesso inutilmente.
· Bassolino, assolto dopo 16 anni.
Bassolino, assolto dopo 16 anni: «La politica non si fa con l’arma dei processi». Errico Novi il 7 giugno 2019 su Il Dubbio. Intervista all’ultimo leader popolare della sinistra, prosciolto con formula piena da un’accusa contestata nel 2003: «Si deve intervenire sui tempi della giustizia. Ma si rifletta anche sui media che non parlano mai delle assoluzioni e sulla politica vera ormai oscurata dall’uso strumentale delle vicende penali». Com’è noto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha affidato ad avvocati e magistrati la riforma del processo. Ha sentito loro e poi ha tirato le somme. Il suo ddl è pronto. Forse, al suo “tavolo”, avrebbe potuto chiamare anche uno straordinario testimone diretto: Antonio Bassolino. Leader che più di tutti ha rappresentato la forza trascinante della sinistra. Fino alle bordate di un’indagine su presunte irregolarità nel ciclo dei rifiuti, da cui è venuto un processo, durato qualcosa come 16 anni. Solo lo scorso 22 maggio è arrivata la parola fine. L’ha scritta la Corte d’appello di Napoli: ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai pm contro la sentenza del Tribunale. Che è stata di assoluzione con la formula più piena possibile: il fatto non sussiste. Ecco, visto che a via Arenula si è discusso di come ridurre i tempi morti dei processi, avrebbero potuto sentire in audizione l’ex sindaco di Napoli e governatore della Campania.
Presidente, ma lei come fa a trattenere la rabbia?
«La rabbia non serve. Serve una riflessione. Anzi ne servono tre. Una sui processi, una sul modo in cui i media li raccontano e una terza sull’uso che la politica fa dei processi. Forse è il caso di esaminare sia la questione giudiziaria sia anche e soprattutto quella mediatica e politica».
Partiamo dalla prima, dal sistema della giustizia.
«Si è trattato di una lunga vicenda. La mia intendo. È iniziata nel 2003. Si è conclusa solo poche settimane fa, dopo 16 anni».
Verrebbe di rifarle la domanda iniziale, però vada avanti.
«Dopo dieci anni dall’inizio delle indagini, nel novembre del 2013, vi è stata una sentenza di piena assoluzione. Si è trattato di una sentenza molto importante, dal punto di vista giuridico e anche civile. Ricostruiva con una straordinaria profondità tanti passaggi. Ha rappresentato i fatti con un’incredibile adesione alla verità. Forse avrei dovuto pubblicarla.
Se avesse voluto ricostruirli lei, quei fatti, non sarebbe riuscito a farli emergere in modo così efficace. La forza di quella sentenza mi ha confermato nella convinzione di dover sempre avere fiducia nella giustizia, nella sua dialettica strutturata in diverse componenti: un’accusa e un giudice. Non solo per il contenuto ma anche per la scelta compiuta da chi ha scritto quella sentenza».
A cosa si riferisce?
«Dal momento che erano trascorsi dieci anni, era intervenuta la prescrizione dei reati ipotizzati: per i magistrati di primo grado sarebbe stato più semplice prendere atto dell’intervenuta prescrizione, per il sottoscritto e per gli altri 26 imputati, senza approfondire il merito».
E invece?
«I giudici hanno scelto di scrivere una sentenza impegnativa, di decine e decine di pagine. È evidente che avevano ascoltato e valutato ogni elemento. Ecco perché avrei dovuto pubblicarla. Si è trattato dunque di una sentenza di merito, di assoluzione piena, redatta nonostante i reati fossero prescritti. Sono stato ripagato, dal punto di vista strettamente giudiziario, di tante sofferenze».
Ma non è finita lì.
«No. Il pm ha fatto ricorso in appello. Ma poiché era comunque intervenuta la prescrizione, l’inammissibilità era già apparsa chiara ai miei avvocati. Al massimo il pm avrebbe potuto mirare alla diversa rubricazione: da assoluzione nel merito ad assoluzione per prescrizione».
Un’ostinazione, quella del pm, degna di miglior causa.
«Il cambio del titolo dell’assoluzione avrebbe lasciato un’ombra nell’opinione pubblica, è evidente. Dalla sentenza del 2013 sono dunque trascorsi altri 6 anni. Solo due settimane fa la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile il ricorso del pm. Altra cosa importante: si è pronunciata per l’inammissibilità la stessa Procura generale. L’esito dell’appello riconferma in tutta la sua forza la sentenza di pena assoluzione nel merito pronunciata in primo grado. Entro novanta giorni saranno depositate le motivazioni della Corte d’appello. La vicenda si conclude così dopo 16 anni con la piena assoluzione».
Sedici anni, presidente.
«Ecco, la prima riflessione: è evidente l’ingiusta, e sottolineo ingiusta, lunghezza dei procedimenti giudiziari. È il primo problema che andrebbe affrontato con una riforma della giustizia. È chiaro a tutti come tempi tanto lunghi danneggino gli innocenti e aiutino i colpevoli».
Indiscutibile.
«La seconda riflessione riguarda i media. Come sono ingiusti i tempi lunghi, così è ingiusta la sproporzione tra il rilievo dato dai media alle indagini, dunque alle ipotesi d’accusa, e lo spazio riservato poi alle assoluzioni. Mi riferisco alla carta stampata come alla tv. Nel mio caso tale sproporzione è stata evidente sia in occasione della prima assoluzione nel merito che della conferma arrivata in appello. Ringrazio chi, come Radio 1 Rai e alcune tv, ne ha parlato, ha trasmesso o pubblicato mie interviste in cui ho cercato di spiegare. Ma quell’impressionante sproporzione resta».
La terza riflessione?
«È evidente il danno politico che è stato procurato in questi 16 anni. Io ho sempre mantenuto il mio stile, ma è chiaro che la vicenda è stata brandita dal punto di vista politico. Anche da forze politiche avversarie, certo. Ma ancor più di questo, che in parte è comprensibile, è stato particolarmente doloroso dal punto di vista politico il silenzio, il lungo silenzio del mio partito. Fino a un paradosso».
Quale?
«Giacché c’era stato un silenzio sbagliato, del mio partito e di tanti suoi dirigenti, nei momenti difficili, vi è stato poi un silenzio inevitabile anche nei momenti belli».
Non sono riusciti a trovare la forma espressiva per reggere il peso dell’errore precedente, diciamo. Forse più che “la forma” bisognerebbe dire “la faccia”.
«È stato un silenzio sbagliato perché tenuto da tanti dirigenti che conosco da una vita. Vengo dal Partito comunista, ne sono stato a lungo un dirigente, ho ricoperto importanti incarichi istituzionali, di sindaco innanzitutto e di presidente della Regione, sono stato tra i fondatori nazionali del Pds, dei Ds e del Pd. Sarebbero bastate due frasi. La prima: “Abbiamo fiducia nella giustizia”. È quella che io stesso ho sempre pronunciato anche nei momenti più duri. La seconda: “Al tempo stesso abbiamo fiducia in Antonio Bassolino, ci conosciamo da una vita e sappiamo bene che non può aver fatto nulla di male”».
Ma a furia di usare la giustizia come arma politica, non ne è uscita distrutta la politica stessa?
«Ho detto non a caso che le riflessioni necessarie sono tre. Sull’ingiusta lunghezza dei tempi della giustizia. Sul meccanismo terribile per cui testate di orientamento politico anche opposto finiscono puntualmente per dare all’accusa uno spazio cento volte maggiore che all’assoluzione. E questo imporrebbe una grande battaglia culturale, da condurre innanzitutto nel mondo dell’informazione. Ma la riflessione serve anche nel mondo politico, dentro ogni partito e tra tutte le forze, e dovrebbe avere un punto fermo: in primo piano non devono esserci le vicende giudiziarie di questo o quell’esponente, ma la politica. La politica vera. Non è possibile rifugiarsi nei processi, usarli come unico argomento. Cosi si è fatto, e ora la politica non esiste più».
· Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai tre figli minorenni di Marianna Manduca.
Dopo i femminicidi, la doppia tragedia degli orfani abbandonati dallo Stato. Le Iene il 20 dicembre 2019. Le mamme uccise da chi le avrebbero dovuto amare, i loro mariti, e il dramma dei bambini rimasti orfani, lasciati soli dalle istituzioni e che si ritrovano magari in casa il padre assassino tra minacce e urla. Nina Palmieri torna a parlarci dell’emergenza femminicidi. Ogni 72 ore in Italia viene assassinata una donna, con 3.000 femminicidi negli ultimi 20 anni, più di quanto uccide il terrorismo in tutta l’Europa. L’atrocità di quest’emergenza colpisce anche i figli delle vittime, invisibili per lo Stato dopo aver vissuto l’orrore. “Io ho visto la mamma per terra. È venuto il papà Enzo che le ha fatto la bua qua”, questa è la voce di un bambino di 3 anni che ha visto con i suoi occhi la sua mamma strangolata e uccisa dal padre. “Non ho un ricordo di un giorno in cui c’era tranquillità. Mio padre arrivava sempre arrabbiato, sempre le mani addosso”, sono le parole della figlia di Carmela, che è stata uccisa dal marito. Quella casa era diventata una prigione asfissiante per la madre, tra botte e calci, un inferno senza via d’uscita. Un giorno lui la strangola con “tutta la rabbia che aveva tra le mani”. L’orrore dei numeri si traduce in storie di vite, spesso purtroppo simili. Giordana a soli 15 anni conosce Luca, quello che più tardi le avrebbe tolto tutto. Nel suo caso, l’amore indossa la maschera dell’ossessione: “Lui la seguiva, non era più libera la sua vita e doveva obbedire al suo volere”, racconta la madre della vittima. A 16 anni rimane incinta ed è proprio in quel momento che scatta l’ultimatum: “Se mi ami, devi abortire”. Lividi, ferite e violenze rimangono sempre nell’ombra, Giordana non ha il coraggio di chiedere aiuto. Un giorno ci riesce e decide di chiudere la storia, per sua figlia. Il terrore continua e l’ormai ex compagno la perseguita dappertutto, la paura diventa il nemico numero uno per Giordana. Un giorno lei decide di denunciarlo per stalking, Luca sfrutta la debolezza della donna per vedere sua figlia. L’obiettivo è solo quello di farle togliere la denuncia. Giordana non vuole: una sera, quando torna a casa, viene uccisa con 48 coltellate da Luca. Anche Luana, madre di tre figli, cade nella rete del compagno ossessivo. “Non voleva che lei uscisse”, ricorda la madre della vittima. Lei però non riesce a ribellarsi e ogni volta che lo denuncia, ritira le accuse. Una sera, Luana è da sola a casa con suo figlio più piccolo: sarà l’ultima volta che il bambino sentirà la voce di sua madre. Viene strangolata a mani nude con una crudeltà senza spiegazioni. Solo dolore, tutto davanti agli occhi di un bambino da 3 anni. E la tragedia continua anche dopo l'orrore dei femminicidi. Questi bambini, orfani di mamma, vengono a volte affidate alle famiglie del padre assassino ed è lì che il dramma aumenta ancora. “Tua mamma è una puttana e ha rovinato mio figlio”, sono le parole che sentono da loro nonne. Una realtà assurda e inconcepibile. A decidere per loro è un giudice: “E per 4 anni che sono stato lì, non ho mai visto uno psicologo, un’assistente sociale, un qualcuno che mi chiedesse ‘Come stai?’, mai”, dice Pasquale, orfano di femminicidio.
“Questi sono traumi indelebili, bisogna intervenire in maniera urgente”, sostiene l’avvocatessa Patrizia Schiarizza. Per adesso intervengono solo i parenti. Nessuno può capire cosa succede a solo un mese dopo l’omicidio: “Sei obbligato ad andare a trovare il padre assassino in carcere. Se non vai, non mangi a pranzo, niente merende e vestiti”. Sono tutte misere ripicche dei genitori degli assassini. Quegli incontri in carcere sono un incubo che non finisce mai. Tra “tua madre è una puttana” e “stai attento che ti faccio fare la fine di tua madre”, i bambini vengono segnati per tutta la vita. Già con una condanna da 18 anni, gli stessi assassini ricevono i cosiddetti “permessi premio”, che permettono di farli venire ogni domenica a casa. E in quella casa senza il supporto di nessuno, accade di tutto.“Era ubriaco e ha iniziato a lanciare tutto” racconta Pasquale, che un giorno decide di denunciarlo. Più gira le questure, più nessuno interviene. E quando finalmente arrivano le forze dell’ordine, il padre comincia a minacciarlo: “Ti ammazzo e ti vengo a cercare”, tutto davanti agli occhi dei carabinieri, che non intervengono. Figli di 3, 4, 16, 18 anni: cosa fa lo Stato per questi orfani? “Nessuno si interessa di come muoiono queste donne, così di come muoiono questi bambini, nessuno”, dice la madre di Luana. E il calvario non finisce mai. “Io non sto più vivendo, sono terrorizzata. Da sola non esco”, sono le parole strazianti della figlia di Carmela. Anna vive con il terrore del domani e nessuno cerca di aiutarla. In questo panorama assurdo dei bambini orfani del femminicidio, mancano tante cose: dalle scarpe alle possibilità di studiare, diritto che dovrebbero avere tutti. Lo Stato deve intervenire in modo urgente e subito, altrimenti si rischia di crescere uomini e donne violente per tutti i vuoti che vivono questi figli invisibili per le autorità. Eppure, nessuno ha mai pensato di fare una legge per i figli delle vittime fino al febbraio del 2018, ma quella proposta per ora è ferma. “Se questo per lo Stato non è un problema, mi rendo contro che il mondo gira al contrario”, dice con tutto lo sconforto del mondo la madre di Giordana.
Femminicidio, tribunale annulla il risarcimento ai tre figli minorenni di Marianna Manduca. Due anni fa i giudici di primo grado avevano riconosciuto la responsabilità civile dei magistrati rimasti inerti nonostante le 12 denunce della donna uccisa dal marito nel 2007, scrive Giovanni Gagliardi il 21 marzo 2019 su La Repubblica. La Corte d'appello di Messina ha annullato il risarcimento di 259mila euro che nel giugno del 2017 i giudici di primo grado avevano riconosciuto ai tre figli minorenni di Marianna Manduca, (Carmelo, Salvatore e Stefano, che oggi hanno rispettivamente 17, 16 e 14 anni), dopo avere ammesso la responsabilità civile dei magistrati rimasti inerti nonostante le 12 denunce della donna, poi uccisa nell’ottobre 2007 dal marito, Saverio Nolfo. Lo rende noto la vice presidente della Camera e deputata di Forza Italia, Mara Carfagna, che si dice "incredula e indignata per la sentenza" di secondo grado che impone ai "tre orfani di Marianna Manduca di restituire la già misera somma che il Tribunale di Messina aveva previsto a loro risarcimento". "La Corte d'Appello - aggiunge Mara Carfagna - dice quindi agli orfani, e a tutti noi, che quel femminicidio non poteva essere evitato, denunciare i violenti è vano". Secondo la vice presidente della Camera e deputata di Fi è "sconvolgente che i giudici abbiano sentenziato, in nome del popolo italiano, che non vi fu negligenza alcuna da parte di chi, preposto a proteggere la vita di noi tutti e a fare giustizia, ha ignorato le fondate e disperate richieste d'aiuto" della donna. "Non è mio costume mancare di rispetto alla magistratura - sottolinea Mara Carfagna - ma, oggi, non posso astenermi dal dire che questa è l'ennesima beffa verso chi è vittima di violenza eppure trova il coraggio di denunciare, e soprattutto verso i più fragili, i più indifesi: gli orfani che hanno visto la madre uccisa dal padre. Questo è il risultato del messaggio politico che il Governo ha dato negando un fondo adeguato agli orfani di femminicidio, ma anche il segno che, al di là della propaganda, questo Paese rischia di fare retromarcia su diritti fondamentali e acquisiti. Ci auguriamo - conclude Carfagna - che la Cassazione ripristini legalità e giustizia e che, almeno di fronte a questo, il Governo si muova per sostenere le famiglie che accolgono e crescono bambini e ragazzi così orribilmente feriti".
Orfani di Femminicidio. Marianna Manduca, tolto il risarcimento ai figli. «Il marito l’avrebbe uccisa lo stesso», scrive Giusi Fasano il 21 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. È la resa. È lo Stato che alza bandiera bianca e in una sentenza scrive, in sostanza, che l’omicidio di Marianna Manduca non poteva essere evitato. È lo Stato che ammette l’inammissibile, e cioè che qualunque cosa il sistema Giustizia avesse fatto per intercettare le esigenze di lei, lui — suo marito — l’avrebbe comunque uccisa. Una specie di vittima predestinata, Marianna. E, dodici anni dopo la sua morte, oggi diventano più vittime di quanto lo siano mai stati anche i suoi tre figli, ancora tutti minorenni. A loro il verdetto di primo grado aveva concesso un risarcimento perché la magistratura non aveva fatto abbastanza per proteggere la mamma. A loro adesso la sentenza d’appello chiede di restituire tutto. È lo Stato (formalmente la presidenza del Consiglio) che chiede i soldi indietro a tre orfani.
Marianna, 32 anni, vita e famiglia a Palagonia, in provincia di Catania, fu uccisa a coltellate il 3 ottobre del 2007 da suo marito, Saverio Nolfo, poi condannato a 21 anni di carcere. Lei aveva firmato 12 denunce contro di lui: d’accordo. Nelle ultime aveva spiegato che lui si era presentato con un coltello e che le minacce di sempre erano diventate tangibili: va bene. Era un uomo pericoloso e le aveva promesso di ammazzarla: certo. Ma «ritiene la Corte» che a nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l’ha uccisa «dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un’arma simile». Nemmeno «l’interrogatorio dell’uomo avrebbe impedito l’omicidio della giovane donna», scrivono i giudici. Tutt’al più lui avrebbe capito «di essere attenzionato dagli inquirenti». Men che meno avrebbe avuto effetto una perquisizione a casa sua per scovare il coltello mostrato a lei minacciosamente. In pratica, «ritiene la Corte», che «l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato».
La sentenza d’appello. Ventuno pagine di sentenza per descrivere il senso di totale impotenza della magistratura (in quel caso la Procura di Caltagirone) davanti alle suppliche di aiuto di Marianna. E per smentire la decisione di primo grado che invece aveva parlato di «grave violazione di legge con negligenza inescusabile» nel «non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati» e nel «non adottare nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Saverio Nolfo». Il giudizio d’appello, invece, sostiene che la Procura fece il possibile date le leggi del momento (ancora non c’era la legge sullo stalking). Dice che — è vero — non eseguì la perquisizione e quindi non sequestrò il coltello, ma le due non-azioni, appunto, non sarebbero bastate a scongiurare il peggio. Per i maltrattamenti e le minacce di morte era previsto anche allora l’arresto (quello sì che avrebbe scongiurato il delitto) ma i comportamenti di Nolfo non furono interpretati all’epoca, e non lo sono in questa sentenza, come gravi: «Non consentivano l’applicazione della misura cautelare». Nemmeno quando lui accolse Marianna mostrandole un coltello a serramanico con il quale finse di pulirsi le unghie.
Una sentenza sconvolgente. Nessuna responsabilità significa niente risarcimento, «e se la Cassazione non rivedrà il giudizio per i miei figli sarà la rinuncia al futuro che avevano sperato, per esempio all’università» si tormenta Carmelo Calì, il cugino di Marianna che, già padre di due figli, subito dopo l’omicidio adottò i suoi tre bambini senza averli mai conosciuti prima. È suo il nome che figura nella causa contro la presidenza del Consiglio. I suoi avvocati, Licia D’Amico e Alfredo Galasso, si dicono «sconcertati» e parlano di una magistratura che «dovrebbe riflettere su questa permanente tendenza all’autoassoluzione». Fa sentire la sua voce anche Mara Carfagna, che definisce la sentenza «sconvolgente» e scrive: «La Corte d’Appello dice agli orfani e a tutti noi che quel femminicidio non poteva essere evitato, denunciare i violenti è vano». Per Marianna andò esattamente così: dodici denunce. Tutto vano.
Marianna Manduca e il risarcimento tolto ai figli, l’uomo che li cresce: «Quei soldi sono loro, non li rendo», scrive il 22 marzo 2019 Giusi Fasano su Il Corriere della Sera. Dopo l’amarezza, la rabbia. Carmelo Calì non prova nemmeno a nasconderlo. «Sono arrabbiato, sì. E indietro non ci torno per nessun motivo. Quindi che lo sappiano: io non restituisco un bel niente. Devono passare sul mio cadavere...». Non è una questione di soldi. Piuttosto di umanità. È che ci sono tre orfani ai quali una sentenza d’appello chiede di restituire il risarcimento avuto dallo Stato perché la loro mamma non era stata protetta come avrebbe dovuto. Lei, Marianna Manduca, 32 anni, aveva firmato dodici denunce contro il marito che la tormentava e minacciava continuamente. Dodici. Finché non l’ha uccisa davvero, a coltellate, il 3 ottobre del 2007 a Palagonia, il paese in cui vivevano entrambi vicino a Catania. Due anni fa la sentenza di primo grado: la Procura di Caltagirone si comportò con «negligenza inescusabile», scrissero i magistrati, «non disponendo atti d’indagine» e «non adottando misure per neutralizzare l’uomo». «Ci accordarono 259 mila euro più gli interessi di dieci anni. In totale circa 300 mila euro», spiega il cugino di Marianna, Carmelo Calì, padre adottivo dei tre orfani. «E invece adesso la Corte d’appello ha ribaltato tutto e dice che dobbiamo restituire ogni centesimo più gli interessi maturati in questi due anni...». Quando Marianna fu uccisa, Carmelo e sua moglie Paola avevano già due figli piccoli e lui ne aveva un altro da un precedente matrimonio, nessuno dei due aveva mai nemmeno visto i figli di Marianna, «ma ci siamo detti: non possiamo abbandonarli al loro destino. Siamo andati in Sicilia a prenderli e li abbiamo portati via così com’erano. Sono arrivati nella nostra casa, a Senigallia, che avevano soltanto lo zainetto della scuola. Oggi hanno 14, 16 e 17 anni e noi sappiamo che avevamo ragione, abbiamo fatto la cosa giusta. Siamo una famiglia bellissima e i nostri figli meritano un futuro sereno, anche dal punto di vista economico. Con i soldi del risarcimento abbiamo comprato una casa, l’abbiamo ristrutturata e ne abbiamo fatto un bed & breakfast. Io mi occupo di quello e Paola aiuta una sua amica in un negozio: non navighiamo nell’oro ma ce la facciamo. Se dovessimo restituire tutto invece... non voglio nemmeno pensarci. Ci resta da sperare nella Cassazione ma lo ripeto ancora una volta: indietro non si torna». Paolo l’altra sera ha messo i ragazzi (tutti) attorno al tavolo e ha spiegato cosa sta succedendo. «Mi hanno chiesto: papà vincerai tu, vero? Riccardo, il mio primo figlio che ha 22 anni, invece è più arrabbiato di me. Mi ha detto: “Spero che tu non ti arrenda”. Certo che non mi arrendo, ma non è facile, questa storia mi sta togliendo il sonno». E da tutto il pensare notturno riemerge un ricordo «che fa male perché è una promessa mancata», come dice Carmelo: una nota ufficiale di Palazzo Chigi datata 2 agosto 2017 (governo Gentiloni). Diceva che la presidenza del Consiglio aveva «chiesto all’avvocatura dello Stato di valutare ogni possibile soluzione, compresa la ricerca di una definizione consensuale della vicenda giudiziaria di Marianna (...), fino ad arrivare alla ipotesi della desistenza da qualsiasi azione giudiziaria».
I pm assolti pure se ignorano le vittime di femminicidio. Gli orfani di Marianna Manduca, uccisa dal marito, ricorreranno contro lo Stato per le colpe dei pm. La Corte d’Appello ha negato ai tre ragazzi i 300mila euro di risarcimento per le responsabilità della procura di Caltagirone: ora il governo che vuole il “codice rosso” per le violenze di genere si costituirà anche in Cassazione? Scrive Errico Novi il 23 Marzo 2019 su Il Dubbio. Con la nuova legge non sarebbe successo. Se il “Codice rosso” di Giulia Bongiorno e Alfonso Bonafede fosse stato in vigore all’epoca dei fatti, la Corte d’appello di Messina non avrebbe comunque potuto partorire un mostro giuridico qual è la sentenza che nega la responsabilità civile dei magistrati nella morte di Marianna Manduca. Un rovesciamento della pronuncia che in primo grado aveva condannato la presidenza del Consiglio ( organo che “risponde” per tutti i magistrati italiani) a pagare circa 300mila euro di risarcimento ai 3 figli di Marianna, rimasti orfani e tuttora minorenni. Con le norme ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio i pm di Caltagirone non avrebbero potuto interpretare come «non gravi» i comportamenti del marito femminicida, Saverio Nolfo, processato e condannato a 21 anni solo dopo aver ucciso la donna a coltellate, solo dopo che 12 denunce della vittima avevano lasciato indifferente la Procura di Caltagirone. Soprattutto, non avrebbero potuto tralasciare di ricevere la vittima già dopo la prima delle sue 12 inutili denunce. Quegli appelli disperati erano forse apparsi eccessivi ai pm siciliani. Ma con le norme sul “Codice rosso” per i casi di maltrattamenti in famiglia, quegli stessi magistrati avrebbero avuto l’obbligo di ricevere Marianna entro 72 ore dalla prima denuncia. La polizia giudiziaria, a propria volta, avrebbe dovuto trasmettere immediatamente la notizia di reato al magistrato di turno, e ancora, il Tribunale sarebbe stato obbligato a tenere Marianna informata sulle misure cautelari che fossero eventualmente state adottate o meno nei confronti dell’aguzzino, suo marito. Non sarebbe andata così, se quella legge già ci fosse stata quando Marianna Manduca fu uccisa il 3 ottobre del 2007 a Palagonia, in provincia di Catania. Il motivo è semplice: nel momento in cui i pm di Caltagirone si fossero trovati costretti dalla legge ad ascoltare la donna entro 72 ore, due erano i casi: o l’avrebbero ascoltata sul serio, e probabilmente sarebbero così riusciti a comprendere la pericolosità del marito e a chiedere misure cautelari per impedirgli di nuocere; oppure se avessero violato la legge, se cioè non avessero subito ricevuto Marianna, l’azione civile promossa nei loro confronti dai tre figli orfani sarebbe andata inesorabilmente a segno. La Corte d’appello non avrebbe potuto che condannare i pm per «negligenza inescusabile e grave violazione di legge», come pure aveva fatto il Tribunale in primo grado. C’è ancora la Cassazione, certo. Gli avvocati Licia D’Amico e Alfredo Galasso, difensori dei 3 ragazzi, sono determinati a fare ricorso. Proveranno a dimostrare l’illogicità della sentenza di secondo grado, che ha revocato il risarcimento civile da 300mila euro dovuto dallo Stato per le colpe dei magistrati. Ma il vero quesito è: l’avvocatura dello Stato resisterà di nuovo? La decisione di ricorrere in appello fu assunta, nel 2017 da Paolo Gentiloni. Adesso a Palazzo Chigi c’è Giuseppe Conte, un avvocato. Nel suo esecutivo siedono i due ministri che hanno proposto la legge sul “Codice rosso”: la titolare della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno e il guardasigilli Alfonso Bonafede. Davvero da un simile Consiglio dei ministri partirà per l’avvocatura dello Stato l’ordine di andare a togliere i soldi ai ragazzini resi orfani dalla furia omicida del padre- aguzzino? Difficile, anche perché sarebbe una sconfessione dell’iniziativa assunta con il disegno di legge, ora gravato peraltro da altre norme che innalzano le pene per i reati di genere e rischiano di rallentare l’approvazione delle parti davvero utili. Resta però un dato: la legge sulla responsabilità civile dei magistrati continua a fare acqua da tutte le parti. Nonostante le modifiche introdotte dall’allora ministro Andrea Orlando. A giudicare le toghe sono altre toghe. Ne viene fuori quello che l’associazione Dire Donne in rete contro la violenza definisce «il quadro agghiacciante della violenza istituzionale». Tendenza alla «autoassoluzione», come dicono gli avvocati degli orfani di Marianna, tanto più inspiegabile se si pensa che anche quando la colpa di un magistrato viene riconosciuta, a pagare non è né lui né la presidenza del Consiglio che lo rappresenta in giudizio ma un’assicurazione. Costo annuo della polizza per il singolo pm: intorno ai 400 euro. La vita di Marianna non li valeva?
· Vincenzo Bommarito. Caltanissetta, pena sospesa a condannato all'ergastolo.
Caltanissetta, pena sospesa a condannato all'ergastolo. Vincenzo Bommarito era in carcere per la morte di Pietro Michele Licari, rapito il 13 gennaio 2007 e ritrovato senza vita nelle campagne di San Cipirello, scrive il 18 gennaio 2019 La Repubblica. La corte d'Appello di Caltanissetta ha sospeso la pena a Vincenzo Bommarito, condannato all'ergastolo per il sequestro, concluso con la morte dell'ostaggio, del possidente di Partinico (Palermo) Pietro Michele Licari. Licari era stato rapito il 13 gennaio 2007 e ritrovato senza vita, in un pozzo, nelle campagne di San Cipirello (Palermo) il 14 febbraio successivo. I giudici hanno scarcerato l'uomo in attesa del giudizio di revisione, chiesto e ottenuto dall'avvocato Cinzia Pecoraro e condiviso sia dalla Procura generale di Palermo che da quella di Caltanissetta, città in cui si svolgerà il giudizio sulle prove nuove, portate dal legale per dimostrare che il coimputato di Bommarito, Giuseppe Lo Biondo, che si era autoaccusato, coinvolgendo pure l'amico, avrebbe mentito. I giudici nisseni, pur rilevando che la scarcerazione non è una anticipazione del giudizio finale, osservano che il condannato ha già scontato 12 anni di carcere e che il processo di revisione comporterà molto tempo. Da qui la decisione di rimetterlo temporaneamente in libertà. Bommarito avrà solo l'obbligo di dimora nel comune di Borgetto (Palermo) e dovrà firmare quattro volte alla caserma dei carabinieri del paese.
Pietro Licari, proprietario terriero, era stato sequestrato lo scorso 15 gennaio. Il suo corpo senza vita è stato trovato in un pozzo vicino a Partinico. Palermo, morto l'imprenditore rapito, due fermati, uno confessa l'omicidio.
Interrogati gli autori, due operai che avevano lavorato per l'uomo sono stati a loro a indicare agli investigatore dove trovare il cadavere, scrive il 14 febbraio 2007 La Repubblica. Il corpo senza vita di Pietro Licari, il proprietario terriero rapito un mese fa nelle campagne di Partinico, in provincia di Palermo, è stato trovato oggi, in un pozzo, nella stessa zona. Su disposizione della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, i carabinieri hanno fermato due giovani, Giuseppe Lo Biondo, di 18 anni, residente a San Cipiriello e Vincenzo Bommarito, 22, di Borgetto. Sono stati condotti negli uffici della caserma di Partinico: si tratterebbe di operai che avevano lavorato per Licari. Sottoposti entrambi a interrogatorio, uno avrebbe confessato l'omicidio e poi indicato agli investigatori dove trovare il cadavere. Licari era stato sequestrato lo scorso 15 gennaio, mentre a bordo della propria auto stava raggiungendo la masseria di contrada Guastella, di proprietà della sua famiglia. Con due telefonate pervenute ai familiari residenti a Roma, i sequestratori avevano chiesto una cifra vicina a 300 mila euro per il suo rilascio. Il cadavere è stato scoperto poco prima delle 13.30 in un pozzo delle campagne tra San Giuseppe Jato e San Cipirrello, in provincia di Palermo. La svolta nelle indagini si è avuta poco dopo l'alba di oggi, quando i carabinieri, su disposizione dei magistrati della Dda, hanno individuato i due ragazzi che ora devono rispondere di sequestro di persona a scopo di estorsione con morte della vittima. Dopo la prima emissione del fermo di polizia giudiziaria a carico di uno di loro, i pm Francesco Del Bene e Maurizio De Lucia hanno disposto un secondo provvedimento di fermo a carico dell'altro presunto autore del sequestro.
"Omicidio prevedibile ergastolo per il rapitore", scrive il 12 marzo 2008 La Repubblica. Il suo giovanissimo complice, collaborando, si è già preso 13 anni e quattro mesi di carcere. Ma lui con i suoi silenzi e le sue negazioni va dritto dritto verso una condanna all'ergastolo. Lo hanno chiesto ieri i pm Adriana Blasco e Maurizio de Lucia ai giudici della seconda sezione della corte d' assise presieduta da Gioacchino Natoli davanti alla quale si sta celebrando il processo per l'uccisione del possidente di Partinico Pietro Licari, sequestrato il 13 gennaio del 2007 e morto di stenti un mese dopo in fondo al pozzo in cui veniva tenuto segregato. Ieri, al termine della requisitoria, il pm Maurizio de Lucia ha definito schiaccianti le prove a carico di Vincenzo Bommarito, unico imputato del processo, affittuario di alcuni dei terreni che il possidente aveva a Partinico. «Ad inchiodare Bommarito - ha detto de Lucia - ci sono anche riscontri molto solidi, come l'esame del Dna estratto dai mozziconi di sigarette ritrovati nel luogo in cui i due rapitori si appostarono la sera in cui Pietro Licari fu portato via». Secondo i due rappresentanti dell'accusa, la morte dell'ostaggio era ampiamente prevedibile e fu voluta dai due imputati, perché Pietro Licari fu tenuto in condizioni inumane dentro un pozzo, senza acqua nè cibo e senza la possibilità di muoversi. Decisive sono state le dichiarazioni del complice di Bommarito, Giuseppe Lo Biondo che, individuato dai carabinieri, confessò subito e portò gli investigatori a scoprire il cadavere di Licari in fondo al pozzo nelle campagne tra Borgetto e San Giuseppe Jato. Il ragazzo fece subito il nome di Bommarito e indicò il movente nel tentativo di strappare alla famiglia una grossa somma di denaro. La scorsa settimana, chiamato a ribadire le sue accuse in aula di fronte a Bommarito e dopo avergli inviato una lettera in cui si scusava di averlo coinvolto, Lo Biondo ha preferito tacere. Ma le prove raccolte a carico dell'imputato confermano tutta la ricostruzione della vicenda. Venerdì pomeriggio parleranno le parti civili, entro la fine del mese la sentenza.
Borgetto, 12 anni di carcere, il racconto di Vincenzo Bommarito, scrive Piero Longo il 21 Gennaio 2019 su partinicolive.it. “Sono nelle mani della giustizia, nella quale ho fiducia”. Sono le prime parole da libero di Vincenzo Bommarito, il giovane di Borgetto condannato all’ergastolo per il sequestro e la morte del possidente partinicese Pietro Michele Licari. Bommarito da qualche giorno è tornato a casa, la corte di appello di Caltanissetta ha sospeso la pena in vista del processo di revisione, chiesto ed ottenuto dall’avvocato Cinzia Pecoraro convinta della non colpevolezza del suo assistito. Vincenzo, ripercorre i dodici anni che hanno cambiato la sua vita, 12 anni in cui ha continuato a chiedersi perché Giuseppe Lo Biondo lo abbia accusato, 12 anni in cui ha continuato a sperare di poter dimostrare -dice – la sua innocenza.
Accusato di omicidio brutale, torna libero: "Ergastolano per 12 anni, vi racconto il mio inferno". Vincenzo Bommarito ha vissuto la sua giovinezza in carcere a Palermo: era stato condannato per il sequestro di Pietro Licari, concluso poi con la morte. Alle Iene racconta il suo incubo. I fatti sono avvenuti nel gennaio 2007, scrive la Redazione di Palermo Today l'11 marzo 2019. Libero dopo 12 anni di carcere. "Finalmente sono a casa dopo un lungo calvario". Parla così alle Iene, Vincenzo Bommarito, accusato di sequestro di persona e di omicidio di Pietro Licari, ricco possidente di Partinico, nel 2007, e per questo condannato all'ergastolo. Adesso però la condanna è stata sospesa perché il nuovo avvocato di Bommarito ha trovato elementi utili per riaprire gli indagini. Resta quell'incubo a occhi aperti. Dai 23 ai 35 anni in carcere: un'intera giovinezza trascorsa dietro le sbarre. L’allora 18enne Giuseppe Lo Biondo indicò Vincenzo Bommarito come suo complice. Da qui la condanna. "Ero in campagna, mi fermarono - racconta Bommarito alle Iene -. Mi portarono a Palermo in carcere. Lenzuola di carta, finestre senza vetri. Mai sentito un freddo così. Mi sono messo subito a letto, dopo 5-6 anni non capivo ancora dov'ero e non mi rendevo conto di quello che era successo". Giuseppe Lo Biondo ha scritto svariate lettere a Vincenzo per chiedere perdono ma quest’ultimo non vuole saperne più nulla. Pietro Licari fu rapito il 13 gennaio 2007 e rinvenuto cadavere un mese dopo in un pozzo a poca distanza dalla sua masseria in aperta campagna. Una morte dovuta agli stenti e al freddo. Giuseppe Lo Biondo è stato già condannato a 13 anni e 4 mesi di carcere in un altro troncone del processo, con il rito abbreviato. Bommarito ha sempre negato con forza di avere partecipato al rapimento dell'uomo per il quale aveva più volte lavorato, coltivando dei terreni di proprietà di Licari. Ma ad accusarlo furono le dichiarazioni di Lo Biondo, secondo il quale Bommarito non solo avrebbe rapito il possidente, ma l'idea sarebbe venuta proprio da lui. Il giorno dopo il sequestro, nel pomeriggio del 14 gennaio 2007, era arrivata la prima telefonata di richiesta di riscatto ai familiari dell'uomo, che vivono a Roma. Il 15 sera un'altra telefonata in cui si chiedevano 300 mila euro e dopo qualche giorno una terza telefonata. "Non sono stato io a rapire l'avvocato - ha sempre ribadito Bommarito - e non mi so spiegare perché Giuseppe Lo Biondo mi accusi. Io non credo di avere fatto dei torti a qualcuno".
Ergastolo per un crimine mai commesso: il caso di Vincenzo Bommarito, scrivono Le Iene il 10 marzo 2019. Vincenzo Bommarito ha scontato 12 anni di carcere per un crimine che non avrebbe mai commesso. Oggi il processo è stato riaperto e lui è tornato in libertà. Matteo Viviani ripercorre con lui e con il suo avvocato quella vicenda giudiziaria controversa. Vincenzo Bommarito è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Pietro Licari, un ricco possidente terriero Siciliano. A inchiodarlo ci sarebbe la testimonianza chiave di Giuseppe Lo Biondo, un ragazzo che frequentava Vincenzo e che sarebbe stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza mentre telefonava alla famiglia di Licari per chiedere un riscatto. Vincenzo viene rinchiuso in carcere il giorno prima del suo ventiduesimo compleanno. Molte cose però non tornano, e dopo 12 anni viene rilasciato e il processo riaperto. Matteo Viviani ripercorre insieme a Bommarito e il suo avvocato tutta la storia di questo incredibile caso di cronaca. Il sequestro di Licari fino alla morte nel pozzo dov’era prigioniero, le accuse di Lo Biondo, le prove dell’accusa e i nuovi elementi presentati dalla difesa. Cerchiamo di scoprire com’è possibile che una persona forse innocente abbia trascorso un terzo della sua vita dietro le sbarre. Vincenzo Bommarito è tornato in libertà dopo aver scontato 12 anni di carcere per un omicidio che non avrebbe mai commesso. Matteo Viviani ha analizzato con lui e con il suo avvocato tutte le prove. Pietro Licari, ricco possidente terriero siciliano è morto dopo essere stato sequestrato e rinchiuso in un pozzo. Vincenzo Bommarito è stato dichiarato colpevole dell’omicidio e condannato all’ergastolo dalla giustizia italiana. Il giorno prima del suo ventiduesimo compleanno è stato rinchiuso in carcere dove è rimasto per dodici lunghi anni. A inchiodare Vincenzo c’è la testimonianza di un ragazzo, Giuseppe Lo Biondo, che al tempo lavorava per lui come bracciante. Entrambi conoscevano Licari e spesso avevano lavorato per lui nelle sue terre. Lo Biondo era stato ripreso dalle videocamere di sorveglianza mentre telefonava alla famiglia Licari per chiedere il riscatto. Una volta finito nelle mani delle autorità, ha fatto il nome di Vincenzo. Le prove a sostegno della colpevolezza di Bommarito sarebbero principalmente tre. Primo, i tabulati telefonici, mostrano che i contatti tra Bommarito e Lo Biondo sono aumentati proprio durante i giorni del sequestro. “Il picco in realtà è avvenuto in concomitanza dei raccolti”, spiega l’avvocato. “Vincenzo produceva ortaggi e quando gli ortaggi dovevano essere raccolti si avvaleva della collaborazione di Lo Biondo”. Secondo, a casa di Licari sono stati trovati numerosi mozziconi di sigaretta con il dna di Vincenzo. Ma come abbiamo detto, Vincenzo era spesso a casa di Licari per lavoro e inoltre fa notare l’avvocato. “Inoltre non è possibile datare quei mozziconi”. Ultimo il movente. Bommarito secondo la sentenza del giudice aveva debiti proprio nei confronti di Licari. Ma sembra invece che questi debiti non fossero altro che “una rata non pagata di un mutuo per l’acquisto di un trattore”, spiega ancora l’avvocato. “Si tratta di un debito di 2.000 euro”. Nel processo che Bommarito dovrà affrontare il suo avvocato farà presente anche altre due cose. Delle lettere che Lo Biondo ha spedito a Vincenzo in cui si scusa di averlo accusato anche se non c’entrava nulla, solo perché in questo modo sperava in uno sconto della pena. Poi la cosa più importante, una telefonata fatta la sera del sequestro. Giuseppe Lo Biondo dice che quando hanno calato Licari nel pozzo erano le otto di sera, ma dai tabulati risulta una chiamata vocale alle 20.06 da Bommarito a Lo Biondo. Se fossero stati insieme a nascondere Licari, Vincenzo non avrebbe avuto nessun motivo di chiamare Giuseppe. L’accusa giustifica questa incongruenza dicendo che Lo Biondo si sarebbe confuso sull’orario e Licari sarebbe stato semplicemente calato prima nel pozzetto, poi Bommarito sarebbe tornato a casa a pulirsi. Ma, secondo la localizzazione del cellulare, Vincenzo quella sera non era nemmeno a casa, era a venti chilometri di distanza dal pozzetto. Ora il processo è stato riaperto e la pena di Vincenzo sospesa, ma questa storia non sarà finita fin che lui non verrà dichiarato innocente.
SEQUESTRO LICARI, SCARCERATO VINCENZO BOMMARITO. Dopo 12 anni processo di revisione e pena sospesa. Sequestro Licari, dopo 12 anni di carcere esce di prigione Vincenzo Bommarito: pena sospesa in attesa del processo di revisione approvato dalla Procura di Caltanissetta, scrive il 19.01.2019 Dario D'Angelo su Il Sussiadiario. Un nuovo colpo di scena nella vicenda del sequestro Licari, il possidente di Partinico rapito il 13 gennaio 2007 e morto di stenti all’interno di un pozzo, nelle campagne di San Cipirello (Palermo), il 14 febbraio successivo. Come riportato da La Repubblica, la corte d’Appello di Caltanissetta ha sospeso la pena a Vincenzo Bommarito, condannato all’ergastolo, in attesa del giudizio di revisione, chiesto e ottenuto dall’avvocato Cinzia Pecoraro. Il legale di Bommarito ha portato infatti nuove prove per dimostrare che il coimputato del suo assistito, Giuseppe Lo Biondo, che si era autoaccusato, mentì quando parlò di un coinvolgimento dell’amico nel sequestro Licari. I giudici di Caltanissetta, che hanno deciso di sospendere la pena di Bommarito, pur rilevando che la scarcerazione non è una anticipazione del giudizio finale, hanno motivato la loro decisione osservando che il Bommarito ha già scontato 12 anni di carcere e che il processo di revisione comporterà molto tempo. Chi non sembra essere d’accordo con questa decisione è la figlia di Pietro Michele Licari, Francesca, che intervistata da Il Giornale di Sicilia ha dichiarato: “Sono ancora convinta che Vincenzo Bommarito e Giuseppe Lo Biondo siano colpevoli. Lo Stato è lo Stato e sono sicura che la seconda volta non ci deluderà”. Francesca Licari commenta: “Non conosco -prosegue Francesca Licari- gli elementi nuovi portati dalla difesa. Se Bommarito non c’entra Lo Biondo dica chi è l’altro colpevole, Non ci credo che ha agito da solo, lui non conosceva mio padre, non aveva come identificarlo, non sapeva dove trovarlo. Bomamrito sì”. Come riportato da La Repubblica, Bommarito in attesa che il processo di revisione giunga al termine, avrà esclusivamente l’obbligo di dimora nel comune di Borgetto (Palermo) e dovrà firmare quattro volte alla caserma dei carabinieri del paese.
· «Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella».
«Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella». Vi racconto il mondo (cioè Arzana…) visto dopo un “sonno” di quarant’anni, scrive il 9 Marzo 2019 Il Dubbio. UN ERGASTOLANO SARDO CI RACCONTA LO STUPORE DI RIVEDERE IL MONDO. «Era il 9 gennaio, quando presentai la richiesta di permesso di necessità. Era morto mio cognato Marchioni Pietro, marito di mia sorella Trudu Raffaela. Il giorno dopo verso le 13,30 mi annunciarono che il permesso mi era stato concesso e che circa mezz’ora dopo mi avrebbero accompagnato. Puntuali, dopo un po’ partimmo per Arzana, il paese in cui ero nato e dove vivono i miei cari. Salimmo su un blindato molto diverso da tutti gli altri che avevo conosciuto e usato in una vita intera, i miei ultimi 40 anni. Diverso nel senso che, anche se dalla distanza di sicurezza a cui ero costretto, riuscivo a vedere attraverso il parabrezza venirmi incontro tanta bellezza, mentre sugli altri blindati venivo collocato dentro una piccolissima scatola occupata solo dal buio più totale, dove per evitare le peggiori sensazioni chiudevo gli occhi, e se avessi potuto in quei momenti avrei spento anche il mio cervello, ed io di viaggi immerso nel nulla ne ho fatti tanti. Uscito dal carcere dopo poche decine di metri imbucammo la SS131 direzione Nuoro – Sassari, e vedere tutta quella campagna e leggere tutti quei cartelli stradali che mi venivano incontro, mi procurava una strana sensazione, come se tutto mi ricordasse qualcosa, ma non capivo cosa… La mia memoria in questi ultimi anni è andata scemando, sicuramente gli effetti distruttivi del carcere a cui sono stato costretto per così lungo tempo. Sì, è vero, ho perso la memoria, ma sappiate che almeno a me è rimasta la dignità. Attraversi quel deserto sconosciuto, attraversai dei tunnel, cunicoli scavati sottoterra con una miriade di lucine che lampeggiavano dentro i miei occhi come degli spiedi infuocati che mi bruciavano, e mi davano anche la sensazione di trovarmi in piena campagna in una notte buia al massimo, rischiarata solo dalle lucciole. All’uscita di uno di questi antri bui, comparve davanti ai miei occhi Preda Leana, monumentale pietra collocata sul Gennargentu al limitare dei territori di Arzana, Gairo e Seui. La punta più alta del Gennargentu (Predas Carpias) era tutta innevata, c’era tanta neve, e se per qualche motivo si apriva lo sportello della macchia entrava un freddo cane. La temperatura doveva essere molto vicina allo zero, se non sotto. Arrivati al bivio Carmine prendemmo la strada per Arzana. Tutto era cambiato. Se pur luoghi da me frequentati in un lontano tempo, non mi riusciva di riconoscere con certezza quei posti. Svoltata una curva a gomito (prima de su paris de istancas) davanti ai miei occhi si presentò un vasto panorama, bellissimi luoghi che conoscevo. Mi sarebbe piaciuto dire ai miei accompagnatori di fermare un po’ la macchia per ammirare tanta straordinaria bellezza, ma non dissi niente. Chissà come avrebbero interpretato la mia richiesta, magari avrebbero potuto pensare che avevo un piano per la fuga, ma… ahi me! il tempo delle fughe, alla mia età, è volato via insieme alla tanta galera e non tornerà mai più. Arrivati al ponte de su Molina, imbucarono una strada nuova che io non conoscevo… ( e come avrei potuto! La strada era stata aperta una decina di anni dopo la mia forzata assenza) e in un attimo fummo al cimitero, proprio nel momento in cui seppellivano mio cognato Pietro. Mi fecero scendere dalla macchina davanti all’entrata del cimitero, luogo di pace e di tanti misteri, e credo anche di tante paure, sapendo che un giorno quel luogo desolatamente solo sarà la nostra casa per l’eternità. C’erano tante macchine parcheggiate e tantissima gente, che scrutavo e mi scrutava senza che ci conoscessimo. Entrai dentro questo enorme parcheggio incontrando i miei familiari e tante altre persone. Ci abbracciamo con i miei e raccolsi le condoglianze di tutti gli altri. Prima che finisse la funzione della tumulazione, fui scortato a casa di mia sorella in attesa che gli altri rientrassero dal cimitero. Percorremmo la strada in discesa fino al ponte de Niedha e prendemmo sulla sinistra imboccando la strada del corso, e fatte poche decine di metri svoltammo a destra percorrendo un tratto della via M. Virgilio, arrivati di fronte alla casa di zio Giovanni Nieddu detto ( cara niedda), svoltammo a destra passando davanti alla casa di zio Giuseppe Arzu (scorgia molentes), un po’ più avanti c’era la casa di zia Beatrice Tascedda (vedova Mereu), al suo fianco c’era la casa di Antonio Doa detto ( meurrone), lì appresso la casa di Cesare Stochino ( maceto), Cecilia Usai ( pringiutu), Giuseppe Pirarba ( su re Orodas), Angelo Doa ( casta mala) e parcheggiamo nel cortile della nostra vecchia casa dove io e le mie sorelle con mio fratello Danilo venimmo al mondo. Vedere quelle vecchie rovine mi riportò indietro nel tempo, quando giocavamo spensierati e felici con gli altri bambini del vicinato, e provai un dolore tremendo. Entrai in casa di mia sorella Raffaela accompagnato dalle mie bellissime pronipoti, Roberta e Federica. Se non fosse stato per loro, confuso come ero, credo che non avrei trovato nemmeno la porta di casa. Ci abbracciamo tutti. Erano presenti anche i figli e la moglie di mio nipote Adriano morto da vari anni. Si avvicinò la figlia maggiore, Anita. Ma io le dissi: “Ciao Samuè”. E lei: “Guarda che io sono Anita, Samuela è mia madre”. Che confusione avevo fatto! Samuela mi era rimasta impressa nella memoria come l’avevo vista la prima volta che la incontrai, e la figlia Anita era identica alla madre quando aveva la sua età. Stessa confusione feci con mia nipote Martina che non avevo mai incontrato… scambiai il marito per il fratello… Questo per dirvi quanto possono essere distruttivi 40 anni di carcere. Il tempo è corso via mentre io sono stato sempre fermo, eppure sono stato sempre convinto che stavo affrontando bene la situazione, convinto di camminare a passo con il tempo. Che illusione la mia! Forse ho pensato di poter fermare il tempo e di riprendermelo al mio risveglio dal coma. Tutto sbagliato. E per questo dico a tutte le persone in difficoltà: non lasciatevi ingannare, state al passo con il tempo, meglio anticiparlo che rimanere indietro, cercate di vivere tutto, ogni cosa nel momento in cui accade. Non lasciatevi scavalcare dal tempo come ho fatto io, o vivrete nel passato senza vedere il presente, che è la cosa che serve di più. Senza il presente non si vive, anzi è invisibile il vivere. Di confusioni ne ho fatte tante quel giorno… con i nomi, i volti, le parentele… Spero mi abbiano capito, e perdonato per tanta confusione. Ma dovete sapere che i miei vuoti di memoria non sono stati causati solo dal tempo che mi ha allontanato sempre di più dal tempo della vita. La causa di tanta rovina in me è anche e soprattutto la compressione senza limiti che mi ha imposto questo stato. Dopo circa un’ora e mezza ci rimettemmo nuovamente in viaggio. Destinazione nuovamente il ricovero di animali abbandonati in cui vivo da “secoli”. Attraversammo tutto il paese e vi dico che ho vissuto minuti di vera paura. Tutte le strade ero convinto che si fossero ristrette, che le case che le affiancavano volessero franarmi addosso. Tutto mi percuoteva la vista venendomi incontro a velocità sostenuta, come punte aguzze che volevano piantarsi nel mio petto. Io penso che quelle strade mi apparissero così strette a causa dei miei ricordi (lontani 40 anni), molto diversi, forse anche perché non si vedeva altro che macchine parcheggiate. La carreggiate erano invase da macchine, che erano d’intralcio non solo ai mezzi come quello su cui viaggiavo io, ma sarebbe stato difficoltoso anche per un pedone muoversi fra tanta “civiltà”. Credo che se non fosse per le persone incontrate a casa di mia sorella, avrei pensato che il mio amato paese fosse abitato solo da macchine, mostri di ferro. Persone in giro non se ne vedeva una. Certo secoli fa, quando ancora appartenevo al mondo dei vivi, di macchine non se ne vedevano tante. Ecco, in quei pochi minuti serviti per attraversare il paese, vedendo tutti quei disastrosi cambiamenti, tutte quelle case diroccate, per me è stato come attraversare tanti secoli. Tutto quel cambiamento non poteva essere avvenuto nei soli 40 anni della mia assenza. Penso che sicuramente è passato molto più tempo. Sono solo io a essermi fermato senza capire bene da quanto sono parcheggiato in questi musei statali dell’orrore. Che effetti disastrosi, direi quasi allucinanti, fanno vivere 40 anni di prigione! E che notte da incubo quando, al rientro, dopo aver cenato andai a letto. In quell’agitato sonno mi sono trovato nuovamente in paese dove io ero l’unico sopravvissuto, anzi io e un branco di cani agguerriti. Tutto il resto erano macerie, delle case che conoscevo fin da ragazzo non ne era rimasta una in piedi, non c’erano più macchine, ciò che rimaneva di loro era un ammasso di lamiere accartocciate Per tutta la notte sono stato assalito da quei cani e io a cercare di difendermi con un bastone, ma loro non mollavano, vedevano in me un lauto pasto, e mi costringevano a indietreggiare, finché dopo ore di terrore non sono finito in un buco che si era formato fra le macerie. Lì era talmente buio che anche i cani avevano paura a entrarci e mollarono la loro preda, e menomale che in quel momento mi sono svegliato da quell’incubo, se no chissà cos’altro avrei dovuto affrontare. Già le cose d’affrontare non mi mancano, per esempio la galera, questa vendetta di uno stato orbo, e incubo peggiore non esiste. Ma se ho potuto superare quella notte terribile, sono certo che continuerò a superare l’incubo in cui sono costretto da 40 anni».
· Tortora, Brizzi, De Luca, Tavecchio: i volti della gogna.
Caso Tortora: caro Verdelli, un ringraziamento e una critica. Il direttore di Repubblica ha sempre denunciato la “macelleria giudiziaria” a cui fu sottoposto il presentatore. Ma perché sul suo giornale non si dice che gli accusatori erano anche dei “pentiti”? Scrive Valter Vecellio il 10 Marzo 2019 su Il Dubbio. Il direttore di “Repubblica”, Carlo Verdelli, per quel che mi è dato sapere di lui, è un galantuomo, non solo un professionista di tutto rispetto. In questo mio scrivere c’è senz’altro un conflitto di interesse: ricordo un suo articolo del 2 maggio 2013, su “Repubblica”, sulla vicenda che ha visto protagonista- vittima Enzo Tortora. Non l’ho mai ringraziato per quell’articolo. Uno dei pochi onesti che mi è accaduto di leggere. La citazione naturalmente fa piacere, ma non è solo per questo. Titolo: “Il martirio di Tortora, il più grande esempio di macelleria giudiziaria, per cui nessuno ha pagato”. Comincia così: “Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l’ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l’enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese» (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un’ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su “Repubblica”, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell’opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, «tempi durissimi per gli strappalacrime», a Camilla Cederna, «se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto») con un editoriale controcorrente: E se Tortora fosse innocente?. «Non fosse stato per l’amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell’ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l’inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza ( 18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima». Il resto dell’articolo lo si può rintracciare in internet. Qui mi limito a dire che è una puntuale, accurata, documentata ricostruzione dell’accaduto; della barbarie che si è consumata. Dell’atroce e terrificante vicenda che costituisce una delle pagine più vergognose e basse della giustizia italiana. Non ho mai ringraziato Verdelli per quella citazione, per quel riconoscimento che – fatto da lui – mi è più caro di un premio giornalistico. Per questo sono saltato letteralmente dalla sedia, nel leggere, su “Repubblica” un articolo su Gianni Melluso che forse si giustifica solo con la giovane età di chi l’ha scritto, e la sua non conoscenza dei fatti. Come si fa, infatti, a scrivere: “… Quando Melluso iniziò a parlare con i magistrati, Tortora era già stato inchiodato da altri due accusatori: i boss Giovanni Pandico e Pasquale Barra detto ‘ o animale’…”, e non aggiungere che i due accusatori “inchiodarono” Tortora con accuse false, si rivelarono “pentiti” di nessun pentimento e collaborazione? Che Pandico e Barra erano “solo” mascalzoni a cui dei magistrati prestarono fede senza fare alcun riscontro, fecero tutti “carriera”?
I danni (frequenti) dei pentiti. Il commento di Piero Sansonetti del 9 Marzo 2019 su Il Dubbio. Gianni “il Bello”, 60 anni, che di cognome fa Melluso, è stato scarcerato perché riconosciuto innocente: non è vero che dodici anni fa diede ordine di assassinare Sabine Macarone. Chi è Gianni il Bello? Un siciliano, trasferito da ragazzino a Milano e diventato un uomo legato alla potentissima mala di Francis Turatello, “faccia D’Angelo”. Si pentì e lanciò le accuse che travolsero e schiantarono la vita di Enzo Tortora. Lo accusò di essere un trafficante di droga. I magistrati gli credettero senza verifiche e sbatterono Tortora in prigione, chiamarono i giornalisti a fotografarlo e a gioire, poi lo condannarono a 10 anni. I giudici dell’appello inorridirono di fronte a quelle bestialità. Tortora concluse la sua dichiarazione difensiva, al processo d’appello, con queste parole icastiche: «io sono innocente, signori giudici, spero lo siate anche voi”. Lo erano. Lo assolsero. Tortora però si ammalò e morì poco dopo. I magistrati che lo avevano fatto condannare fecero una gran carriera. Ora Melluso vive il contrappasso. Anche lui è stato condannato all’ergastolo per via di un pentito farlocco. Lo ha salvato la Cassazione. Lui ha detto che chiederà perdono in ginocchio alle figlie di Tortora. Loro hanno risposto: no grazie. Quando ci renderemo conto che per gestire i pentiti occorrono professionisti eccezionali? Falcone lo era. Pochi altri. Forse non disponiamo di queste professionalità. Così i pentiti diventano mine vaganti, fabbricatori di malagiustizia.
Tortora il vergognoso abbaglio. In carcere senza prove eppure poi nessuno ha pagato. Trentuno anni fa moriva Enzo Tortora, il presentatore che ha fatto la storia della tv, accusato da finti pentiti. Valter Vecellio il 18 Maggio 2019 su Il Dubbio. Il 18 maggio di trentun anni fa: quel giorno agenzie di stampa, e poi i notiziari radio- televisivi annunciano che Enzo Tortora è morto; il tumore che lo tormenta e lo fa soffrire da mesi, alla fine ha vinto. Fa in tempo, Enzo, a vedersi riconosciuta l’innocenza da anni proclamata: un anno prima la Corte di Cassazione lo ha assolto definitivamente dall’infamante accusa di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di droga, affiliato alla Camorra di Raffaele Cutolo. Si aggrappa alla vita con le unghie e i denti, per poter vedere quel verdetto. Poi arriva lo schianto. “Mi hanno fatto scoppiare una bomba dentro”, dice a proposito di quel tumore, e della vicenda che lo vede vittima- protagonista. Nel corso della requisitoria del primo processo, il Pubblico Ministero sillaba: “Ma lo sapete voi che più si cercavano le prove della sua innocenza, più si trovavano quelle della sua colpevolezza?”. Chissà che ricerche. Lo stesso Pubblico Ministero, tanti anni dopo, ammette l’errore. Che non può essere liquidato come “errore”, come “abbaglio”. Troppo semplice, troppo facile; perfino consolatorio definirlo un “errore”, un “abbaglio”. In realtà, fin da subito, contro Enzo non c’era nulla; e quel nulla era talmente visibile che anche un cieco lo avrebbe potuto vedere. Non si vide, perché non si volle vedere. Non si capì perché non si volle capire. Contro Tortora non c’era nulla. L’architrave dell’ipotesi accusatoria si regge sulla parola di due falsi pentiti: uno psicopatico, Giovanni Pandico; e Pasquale Barra detto, a ragione, ‘ o animale: in carcere uccide il gangster milanese Francis Turatello, lo sventra, ne addenta le viscere. Poi, a ruota, vengono un’altra ventina di sedicenti “pentiti”: tutti a raccontare balle, una più grande dell’altra, per poter beneficiare dei vantaggi concessi ai “pentiti”. Accuse che con fatica e infinita pazienza vengono smontate: la difesa di Tortora fa una vera e propria contro- inchiesta, che demolisce, letteralmente, l’inchiesta della procura napoletana. Una vicenda che ha dell’incredibile per la quale nessuno poi paga: non i falsi “pentiti”; non i magistrati della pubblica accusa, che anzi, fanno carriera. Tortora invece patisce una lunga carcerazione. Al suo fianco il Partito Radicale di Marco Pannella che lo elegge al Parlamento Europeo ( poi si dimette, rinunciando all’immunità); Leonardo Sciascia, Piero Angela, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Vittorio Feltri, Massimo Fini, chi scrive; davvero in pochi. Tanti, al contrario, si producono nel crucifige. Se è stata una pagina nera per la magistratura napoletana, ancora più nera lo è stata per il giornalismo, che acriticamente ha pubblicato pagine e pagine di falsità infamanti, senza controllare, senza verificare. Eppure nulla giustificava quello spettacolare arresto. Anni fa ho intervistato per il Tg2 la figlia di Tortora, Silvia. Intervista che ancora oggi mette i brividi: Chiedo: Quando Tortora venne arrestato, cosa c’era oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra? “Nulla”.
E’ stato pedinato, controllato? “No”.
Intercettazioni telefoniche? “No”.
Ispezioni bancarie? “No”.
Definito “cinico mercante di morte”, su quali prove? “Nessuna”.
Qualcuno ha chiesto scusa a suo padre? “Nessuno”.
Gli accusatori hanno pagato per le loro false accuse? “No”.
Sull’ondata di questo scandalo, radicali, socialisti, liberali, raccolgono le firme per tre referendum per la giustizia giusta; tra i tre, uno per la responsabilità del magistrato che commette colpa grave. I referendum vengono poi vinti a furor di popolo; e traditi da un Parlamento che disattende platealmente il volere popolare.
Ora Tortora riposa al Monumentale di Milano, con accanto una copia de “La colonna infame” di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe dettata da Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Chissà.
Enzo Tortora, la pagina più nera per il giornalismo e la magistratura. Valter Vecellio il 18 Maggio 2018 su Il Dubbio. Trent’anni fa moriva il giornalista, stroncato da un tumore dopo aver subito anni di persecuzione giudiziaria e mediatica volontaria e in malafede. Riavvolgere il nastro del ricordo, perché il caso Tortora non scolorisca nella memoria collettiva e individuale; e perché tanti sono quelli che possiamo definire “gli eroi della sesta giornata”: coloro che ora si “esibiscono” nel tentativo di accaparrarsi dei meriti che non hanno, ben altro è stato a suo tempo il comportamento tenuto; ben altre le posizioni assunte.
Il 18 maggio 1988 Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Anni dopo, Carlo Verdelli ( non l’ho mai fatto, me ne dolgo, lo ringrazio ora), su “ Repubblica”, scrive: “ Non fosse stato per i radicali ( da Pannella a Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell’opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora con un editoriale controcorrente: ‘ E se Tortora fosse innocente? ‘. Non fosse stato per l’amore e la fiducia incrollabile delle figlie e delle compagne ( da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell’ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l’inizio del calvario di Enzo Tortora ( 17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza ( 18 maggio 1988, cancro ai polmoni), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima”.
Tortora è arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata: lo si fa uscire solo quando si è ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. La prima di una infinita serie di mascalzonate. Con Enzo nasce una solida amicizia; conservo parecchie sue lettere, scritte dal carcere, a rileggerle ancora oggi, trascorsi tanti anni, corre un brivido.
16 settembre 1983: “ Da tempo volevo dirti grazie… Hai “scommesso” su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua “puntata”. Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il “caso Tortora è il caso Italia”. Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non “onorevoli”… Se dal mio male può venire un po’ di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo”.
2 maggio 1984: “… Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l’Italia “ha abolito la pena di morte”. Abbiamo un boja in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in “attesa” di un giudizio che non arriva mai. L’uomo qui è niente, ricordatevelo. L’uomo qui può, anzi deve attendere. L’uomo qui è una “pratica” che va “evasa” con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale…”.
15 luglio 1985: “… In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell’obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s’è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d’ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente”.
7 ottobre 1985: “… Sono stato condannato e processato dalla N. G. O., Nuova Giustizia Organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita…”.
2 aprile 1986: “… Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all’estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano…”.
17 agosto 1987: “… Siamo molti… ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l’incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito… Sono ancora lì, al loro posto… Staremo a vedere…”.
Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “Perché? ”. Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.
Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della DC, Cuto- lo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post- terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post- terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. “Cinico mercante di morte”, lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: “Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza”. Le “prove” erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricorda-no di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali.
Arriviamo ora al nostro “perché? ” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori – compensati poi con gli appalti – e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostru- zione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti- cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… Documenti ufficiali, non congetture.
Come un documento di straordinaria e inquietante efficacia, l’intervista fatta per il “TG2” con Silvia, la figlia di Enzo.
Quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era?
“Nulla”.
Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista?
“No, mai”.
Intercettazioni telefoniche?
“Nessuna”.
Ispezioni patrimoniali, bancarie?
“Nessuna”.
Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre?
“Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”.
Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove?
“Nessuna”.
Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove?
Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”.
Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto?
“No”. Candidato al Parlamento Europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la “sua” ossessione. Ora tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei radicali per la giustizia giusta. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è cosa ormai assodata. Nessuno dei “pentiti” che lo ha accusato è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.
Vittorio Feltri, la storia della "suora camorrista": la malefatta della magistratura. Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Riproponiamo una storia incredibile accaduta ad una suora durante il processo contro Enzo Tortora. Vittorio Feltri la raccontò e alla fine l' imputata riuscì a cavarsela. Da allora ad oggi non è cambiato nulla nella giustizia italiana. In attesa dell' imminente gran finale, il processone di Poggioreale va avanti stancamente, fra il generale disinteresse degli italiani, persino dei napoletani. È inutile: o è di scena Tortora e allora i riflettori si accendono, oppure quello che succede in aula resta nell' ombra. Neanche il nome di Renato Pozzetto, recentemente tirato in ballo da un pentito di turno, che ha accusato il comico di aver comprato a Saronno una «derrata» di cocaina dalla camorra, è servito a interrompere il letargo dell' opinione pubblica. Eppure non si può dire che nel migliaio di comparse che fanno da «spalle» al presentatore di «Portobello», non ve ne siano alcune che meritano attenzione, dato che, almeno a sentir loro, sarebbero vittime di tragici errori giudiziari. Fra le storie minori passate sotto silenzio, o quasi, benché cariche di risvolti penosi, c' è quella di suor Aldina Murelli, 53 anni, finita nel mucchio degli imputati, perché Pandico ha detto ai giudici che l' organizzazione l' aveva assunta, naturalmente pagando, come postina. Insomma, era lei, insospettabile religiosa, l' incaricata di Cutolo allo smistamento della corrispondenza calda nelle carceri: un lavoro che le riusciva facilmente, ha aggiunto il pentito, perché la veste che indossava era il più efficace dei lasciapassare. E nel famoso blitz d' inizio estate 1983, suor Aldina fu prelevata di notte nel convento e scaraventata in galera, non prima della rituale foto fra gli agenti che l' avevano catturata. La sua immagine, occhi smarriti ed espressione intontita, apparve su tutti i giornali; ma ben presto sbiadì, sovrastata da quella più illustre di Tortora, e fu dimenticata. Un paio d' anni di oblio totale, da cui soltanto una decina di giorni fa è riemersa, ma stavolta senza clamore: qualche riga di agenzia, un trafiletto invisibile nelle pagine meno ghiotte.
IL DETTAGLIO. Ma la notizia, nella prosa disadorna del cronista frettoloso, conteneva un dettaglio da far sobbalzare il lettore: il pubblico ministero ha chiesto per la monaca una pena di sei anni, che la parifica, in questo processo, ai più incalliti delinquenti. Come mai un trattamento così duro? Il fatto è che il magistrato, secondo una fredda interpretazione del codice, non poteva far diversamente. Anche alla suora, quanto ai killer, ha contestato, come si dice nel gergo delle toghe, il reato di cui all' articolo 416 bis: associazione per delinquere a scopo camorristico. Sarebbe lecito obiettare che le poteva almeno accordare delle attenuanti, ma evitiamo di entrare in questioni tecniche. Semmai ci preme di evidenziare una frase della requisitoria dell' accusa che ci sembra illuminante. Questa: «E poco importa che il nobile fine della Murelli fosse la redenzione e che ella sia stata volgarmente strumentalizzata da uomini disposti a tutto». Significa, cioè, che le viene riconosciuto non solo di essere stata in buona fede, ma addirittura raggirata. Ma allora, si può essere camorristi senza saperlo? La risposta ai giuristi. Ma andiamo a vedere in che cosa consisteva l' attività che è valsa a suor Aldina la patente di cutoliana di ferro. I documenti sono del suo legale, l' avvocato Antonio Viscardi che, quando ha udito le aspirazioni del pm per la propria assistita, sei anni, per poco non è svenuto. «E per fortuna - dice - che la religiosa non era presente, avrebbe rischiato un colpo». Scartabelliamo nel dossier e scopriamo che l' unico accusatore è Pandico, non esiste cioè un secondo pentito che confermi le sue rivelazioni. «Il che - osserva Antonio Viscardi - indica che il pm ha preso per oro colato le parole del camorrista più loquace di Napoli, senza porsi un sol dubbio».
IL CARDINALE BORROMEO. Ma come ha fatto la monaca a farsi incastrare? Tutto comincia quattro o cinque anni fa, quando Aldina, già da vari lustri, è entrata nell' Istituto della Carità di Portici e da un trentennio insegna nelle elementari. Ma la cattedra non le basta; e neppure la vita di convento, preghiere e meditazione, le sembrano sufficienti a soddisfare la vocazione. Vuol fare qualcosa di più. È accanita lettrice del Manzoni, tra i pochi autori concessi a chi ha i voti; e c'è un personaggio che l' affascina in modo particolare: Borromeo, quello che dà una regolata all' Innominato. La redenzione dei mascalzoni, ecco a che cosa bisogna dedicarsi: e la suora, secondo il classico ottimismo di coloro che hanno fede, parte in quarta. Si mette a scrivere ai detenuti di Poggioreale, specialmente ai peggiori; quindi tra i destinatari non poteva mancare Pandico. Letterine ingenue, piene di buoni sentimenti, che su qualche disperato dietro le sbarre hanno effetto; e al convento arrivano le prime risposte che per lei sono il segno del successo. Aldina Murelli è soprannominata dai carcerati «la nostra santa». Compone anche poesie, manda qualche pacco ai più bisognosi, visita i parenti dei reclusi, si fa in quattro per accontentare tutti, anche quelli di altre prigioni. E man mano che la missione si afferma, il suo progetto si fa ambizioso: vuole arrivare a Cutolo. «Se redimo lui - pensa -, recupero automaticamente il suo esercito. Proprio come Borromeo con l' Innominato». Pandico si offre da tramite e le affida un'«ambasciata»: spedire al capataz, all' Asinara, una busta prechiusa. Ad Aldina non par vero di compiere il primo passo: invia il plico con una raccomandata e consegna a Pandico una ricevuta. Ed è così che si tira addosso l' accusa di camorrista. Perché il pentito dirà che quella missiva era in codice, segreto di cui soltanto lui, la «postina» e il boss erano depositari. Falso? Pandico chiamato a decifrare la lettera non ha aperto bocca. Eppure questa sarebbe la prova che la monaca è un' affiliata. Per la verità c' è ne sarebbe un' altra: un libro che lei ha donato al delatore, in alcune pagine del quale si intravedono delle sottolineature, anche queste giudicate espressioni in codice, ma che nessuno è stato capace di leggere se non letteralmente, quindi in modo insignificante. «Gli elementi, come si può constatare, sono piuttosto aleatori - sostiene l' avvocato Viscardi -, ma sono stati sufficienti a esporla all' umiliazione della galera in tre luoghi diversi: Pozzuoli, Poggioreale e Matera, dove è immaginabile che cosa abbia sopportato. Non sarebbero mancate opportunità più serie per approfondire l' indagine. Per esempio: Pandico dichiara che la "postina" era pagata con dei vaglia; perché non è stata fatta una verifica negli uffici postali? E perché non un sopralluogo nel convento? Se i quattrini li ha riscossi, dove li ha nascosti? E perché si è trascurato di esaminare la personalità di Aldina, che tutti concordano nel definire straordinariamente limpida? Perché ostinarsi a non capire che una donna che ha preso il velo a sedici anni, e cresciuta in una famiglia così pia da aver dato altre due figlie alla clausura, non può essere scaltra come Pandico la dipinge?».
LA BUONA FEDE. Con un ritratto, peraltro, di cui la stessa accusa attenua i colori non negando all'imputata la buona fede, ma che sostanzialmente è stato accolto come prova di colpevolezza. La suora, nonostante tutto, è fiduciosa: dopo lo choc dell'arresto si è ripresa, in prigione ha continuato a fare da assistente sociale e spirituale alle detenute. «Qui - confidava all' avvocato - ho imparato veramente a capire certi drammi e a rendermi più utile agli altri. Un' esperienza che chiunque predichi l' amore per il prossimo dovrebbe fare». E quando le hanno concesso, cinque mesi dopo averla rinchiusa, gli arresti domiciliari, quasi si è dispiaciuta. Ora è nel suo istituto oltre i muri del quale non può andare. Non le è consentito di insegnare: legge e prega. Nell' apprendere che il pm vuole che torni in carcere per scontare sei anni, è impallidita. «Non è la pena che mi spaventa - ha detto -, ma l' ingiustizia. Ho solo cercato di fare del bene, non mi aspettavo né riconoscenza né lodi, ma una punizione così sarebbe troppo. Non credo che arriveranno a tanto, se però questa sarà la volontà di Dio, sono pronta». Dietro le grate, l' attesa della sentenza è trepidante. Suor Aldina e le consorelle la trascorrono tra una novena e un rosario. Non si tratta solamente del destino di una monaca sfortunata, ma di quello di tutta la piccola comunità: dall' estate dell' 83, molta gente gira al largo dal monastero e non vi manda più i figli a scuola. L' abitudine alla sofferenza, le religiose se la sono fatta; e anche una condanna non le troverà impreparate: a differenza di altri perdoneranno. di Vittorio Feltri
Brizzi, De Luca, Tavecchio: i tre volti della gogna. Il regista, il politico, il capo del calcio italiano, tre vicende diverse, ma il linciaggio mediatico è sempre lo stesso, scrive Piero Sansonetti il 21 Novembre 2017 su Il Dubbio. Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica.
Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente.
Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi.
Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto.
Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella.
Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: «Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano». E di seguito al twitt don Enzo – che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso – ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo…
· "Per Sallusti ingiusta detenzione". E Strasburgo condanna l'Italia.
"Per Sallusti ingiusta detenzione". E Strasburgo condanna l'Italia. La Cedu: "Dalla magistratura ingerenza nella libertà di espressione". E lo Stato dovrà risarcire il direttore del Giornale, scrive Clarissa Gigante, Giovedì 07/03/2019 su Il Giornale. Il direttore de ilGiornale Alessandro Sallusti non doveva essere arrestato per diffamazione e in quel caso da parte delle toghe c'è stata un'ingerenza nella libertà di espressione. A stabilrlo ora è la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) di Strasburgo che ha condannato l'Italia al risarcimento per "ingiusta detenzione" e per aver violato l'articolo 10 della convenzione europea dei diritti dell'uomo. A Sallusti venne notificato l'ordine di arresti domiciliari il 26 novembre del 2012 dopo una condanna definitva per diffamazione e omesso controllo presentata contro di lui dal giudice Giuseppe Cocilovo. Il sabato successivo - il primo dicembre - gli agenti entrarono nella sede del quotidiano in via Gaetano Negri 4 per dare seguito alla misura, interrompendo la riunione di redazione del mattino e portando il direttore ai domiciliari (da cui poi "evase" simbolicamente). Poi, il 22 dicembre dello stesso anno, l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano commutò la pena detentiva in un'ammenda, invitando il Parlamento a modificare le norme e le pene che regolano la diffamazione. Ora la corte di Strasburgo ha stabilito che quella misura ha rappresentato un'ingerenza della magistratura nella libertà di espressione e ha condannato lo Stato a risarcire Sallusti con dodici mila euro per le ''sofferenze cagionate'' e 5 mila euro per costi e spese. "Spero che questa sentenza faccia giurisprudenza affinché un giornalista che non commette dei reati non possa essere mai più arrestato per fatti inerenti alla sua professione", commenta all'agenzia Adnkronos Sallusti, "Sono soddisfatto, mi dispiace aver dovuto scomodare la Corte europea per una cosa che avrebbe dovuto essere evidente a qualsiasi Corte italiana di buon senso". La vicenda era scaturita da due articoli pubblicati su Libero - diretto allora proprio da Sallusti - nel febbraio 2007 in cui Renato Farina, con lo pseudonimo di Dreyfus, commentava la decisione di un giudice di autorizzare l'aborto per una 13enne. Ad aprile del 2007 il giudice tutelare aveva presentato una denuncia penale per diffamazione nei confronti di Sallusti che nel gennaio 2009 era stato condannato a una multa per omesso controllo sul contenuto dell'articolo. In appello, nel giugno 2011, la pena è stata aumentata a un anno e due mesi di reclusione e a 30 mila euro di risarcimento. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza e ha privato della libertà Sallusti nel settembre 2012, pena poi trasformata dal tribunale in arresti domiciliari.
Alessandro Sallusti risarcito massacra i magistrati: "Pagate per quella porcata. Vi brindo in faccia", scrive l'8 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il suo arresto fu ingiusto e ora deve essere risarcito. Si parla di Alessandro Sallusti. E ne parla anche il direttore nel suo fondo su Il Giornale: "La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato ieri lo Stato italiano a risarcirmi, con dodicimila euro più le spese, per l'ingiusta detenzione che ho subito nel novembre del 2012 in seguito alla sentenza definitiva a un anno e mezzo di carcere nel processo per diffamazione e omesso controllo, intentato contro di me dal giudice Giuseppe Cocilovo. Si è trattato - dice la Corte - di una forzatura della magistratura italiana che in spregio al diritto ha violato la libertà di informazione e cagionato sofferenze al sottoscritto", premette Sallusti. Dunque il direttore spiega di essere "ovviamente contento, mi spiace solo che a pagare il conto debba essere lo Stato e non gli autori materiali della porcata, cioè quei magistrati che mi hanno trattato, e bollato, come delinquente abituale, prendendo evidentemente fischi per fiaschi". Un durissimo attacco alla magistratura, in un crescendo: "I giudici che hanno sbagliato a condannarmi non pagheranno, i colleghi che mi sospesero non finiranno a loro volta sotto processo disciplinare per il loro errore, commesso in un mix di malafede e pregiudizio in quanto direttore del giornale della famiglia Berlusconi". Sallusti, infine, sottolinea come ci sia voluta la "cattiva Europa per imporre a questo paese un po' di giustizia a prescindere dalle idee politiche degli attori in campo". Infine la chiusa, che sa di sfida: "Per questi motivi non ho intenzione, come vorrebbe la prassi, di devolvere in beneficenza l'indennizzo. Pagherò da bere, alla faccia di giudici e colleghi che mi hanno umiliato, ai non pochi che si schierarono dalla mia parte. Siete tutti invitati, paga lo Stato", conclude Sallusti.
Alessandro Sallusti per “il Giornale” l'8 marzo 2019. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato ieri lo Stato italiano a risarcirmi, con dodicimila euro più le spese, per l'ingiusta detenzione che ho subito nel novembre del 2012 in seguito alla sentenza definitiva a un anno e mezzo di carcere nel processo per diffamazione e omesso controllo, intentato contro di me dal giudice Giuseppe Cocilovo. Si è trattato - dice la Corte - di una forzatura della magistratura italiana che in spregio al diritto ha violato la libertà di informazione e «cagionato sofferenze» al sottoscritto. Ovviamente sono contento, mi spiace solo che a pagare il conto debba essere lo Stato e non gli autori materiali della porcata, cioè quei magistrati che mi hanno trattato, e bollato, come delinquente abituale, prendendo evidentemente fischi per fiaschi. Alcuni dei quali ancora oggi mi perseguitano con cause e querele per essermi difeso, in quei giorni caldi, dalle loro accuse. La sentenza, più che per la mia trascurabile figura, dovrebbe essere importante per tutta la categoria, esposta com' è agli umori e alle incursioni politiche della magistratura. Non mi illudo che sia così (ieri la notizia è stata snobbata da quasi tutti i siti giornalistici) perché c' è una buona fetta di colleghi dichiaratamente di sinistra che di quella magistratura è succube, quando non complice, e che al mio arresto brindò senza neppure nasconderlo. Non dimentico che alla condanna seguì - caso senza precedenti - un processo sommario dei probiviri dell'Ordine che terminò con una condanna di sospensione dalla professione (poi annullata in Appello) nonostante il presidente della Repubblica avesse già, dopo poche settimane di domiciliari, annullato la pena detentiva giudicandola abnorme e ingiusta. I giudici che hanno sbagliato a condannarmi non pagheranno, i colleghi che mi sospesero non finiranno a loro volta sotto processo disciplinare per il loro errore, commesso in un mix di malafede e pregiudizio in quanto direttore del giornale della famiglia Berlusconi. Anzi, sono certo che ancora oggi sia i primi sia i secondi si vantino di quello che hanno fatto, del resto l'ideologia è sorda, cieca e muta di fronte alla verità. C' è voluta la «cattiva» Europa per imporre a questo Paese un po' di giustizia a prescindere dalle idee politiche degli attori in campo. Per questi motivi non ho intenzione, come vorrebbe la prassi, di devolvere in beneficenza l'indennizzo. Pagherò da bere, alla faccia di giudici e colleghi che mi hanno umiliato, ai non pochi che si schierarono dalla mia parte. Siete tutti invitati, paga lo Stato.
Feltri, scandalo italiano: "Sallusti in galera, i giudici non pagano un'ostia. Quegli idioti dei politici...", scrive l'8 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. È ufficiale, l'Italia in materia di libertà di stampa è come la Turchia. I giornalisti non allineati al regime e che scrivono cose sgradite devono andare in galera. Vengono condannati e blindati. Nel 2012 toccò ad Alessandro Sallusti, oggi direttore del Giornale, essere arrestato e confinato ai domiciliari per una vicenda paradossale che non vale la pena di rammentare se non per sommi capi. Su Libero uscì un commento a riguardo di una ragazzina di 13 anni che fu sottoposta ad un aborto. L' articolo non era offensivo nei confronti di nessuno, ma stigmatizzava il fatto non comune. Non ricordo da chi, il quotidiano fu querelato, e il tribunale prima, poi la Cassazione, inflissero al responsabile del nostro foglio addirittura una pena detentiva: oltre un anno di carcere. Roba da matti. Il povero Alessandro, che neppure era stato l'autore del pezzo incriminato, fu costretto in casa, come un delinquente, per quaranta giorni finché il presidente della Repubblica non gli concesse la grazia, tramutando in sanzione pecuniaria il castigo della prigione. Ovviamente Sallusti fece ricorso alla Corte di Strasburgo affinché gli rendesse giustizia. A distanza di sette anni è arrivata la sentenza europea che gli dà ragione. Egli, in base al principio che regola la libertà di espressione, non poteva finire al gabbio. E ora lo Stato dovrà risarcire il collega: 12 mila euro più 5 di spese legali, a dimostrazione che il giornalista è stato vittima di un errore giudiziario. Peccato che coloro che tale errore hanno commesso non pagheranno un'ostia. Un uomo viene rinchiuso per aver fatto il proprio lavoro, quello del direttore responsabile, e i signori che hanno sbagliato la fanno franca, perché considerati intoccabili quali dei dell'Olimpo. Una assurdità. Se io cronista calpesto una buccia di banana vado dietro le sbarre anche se incolpevole, mentre i giudici che calpestano il diritto a mio danno la sfangano. Essi talvolta interpretano la legge a capocchia e nessuno tira loro le orecchie e neanche il bavero. Ciononostante non me la prendo con le toghe, ci mancherebbe, bensì con quegli idioti dei politici, compresi quelli che ho votato, i quali non sono capaci di riformare il codice penale fascista che per la diffamazione a mezzo stampa prevede i ceppi anziché, come avviene nel mondo civile, un semplice risarcimento pecuniario. A suo tempo pregai Berlusconi di intervenire in questo senso, ma neanche lui è riuscito a risolvere il problema. In Italia i giornalisti continuano ad essere equiparati a criminali comuni. E ciò mi fa girare i santissimi. Vittorio Feltri
· «Sono scafisti, dategli l’ergastolo» In cella 4 anni, poi assolti. E i media zitti.
«Sono scafisti, dategli l’ergastolo» In cella 4 anni, poi assolti. E i media zitti. Sette persone (due siriani, un libico, quattro marocchini) sono assolti dall’accusa di omicidio colposo plurimo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio. Per loro la procura di Palermo aveva chiesto l’ergastolo, scrive Valter Vecellio l'1 Marzo 2019 su Il Dubbio. Su qualche giornale (neppure tutti, e i pochi con rarefatti articoli in pagine interne) c’era la notizia che sette persone (due siriani, un libico, quattro marocchini) sono assolti dall’accusa di omicidio colposo plurimo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio. La procura di Palermo aveva chiesto l’ergastolo: ritenuti responsabili del naufragio di un barcone e relativa morte di almeno 56 persone. Il processo (luogo dove si forma la prova, dove ci si deve convincere se gli elementi raccolti sono sufficienti per una condanna, oppure “l’impianto accusatorio” non regge) è stato seguito poco, e male da tv e giornali; una sorta di regola, tanto più applicata quanto il procedimento giudiziario è “storico”, “importante”, “eccezionale”; tantissimi esempi si possono fare, a conforto di questa affermazione. Questo per dire che la lettura delle cronache dei giornali o degli altri mezzi di comunicazione non consente di affermare se aveva ragione la procura, o il tribunale che ha assolto. Come sia, non è questo, il punto che qui interessa. Il punto è che la strage si è consumata nell’agosto del 2015. Il primo verdetto assolutorio è del 26 febbraio 2019: quattro anni per stabilire se si sia o no colpevoli di omicidio colposo plurimo, favoreggiamento clandestino dell’immigrazione, naufragio. Per inciso: cinque dei sette sono rimasti in carcere fino al giorno della sentenza. E non è finita: c’è la possibilità che fra 90 giorni, quando saranno note (forse) le motivazioni, la procura palermitana impugni la sentenza. Ci vorrebbe un Marco Pannella, un Leonardo Sciascia, per evidenziare la “normale” assurdità, il grottesco paradosso di questo quotidiano modo di (non) amministrare la giustizia. Ci vorrebbe anche un ministro della Giustizia capace, di fronte a notizie e fatti come questi, di un sussulto di dignità; e, anche, di farsi domande, cercare risposte. Ci vorrebbero. Non ci sono.
· Nicola Sodano. Finito il calvario: assolto l'ex sindaco di Mantova.
Finito il calvario: assolto l'ex sindaco di Mantova. Dopo 1.478 giorni Sodano (Fi) scagionato dall'accusa di corruzione: "Su di me tante falsità", scrive Fabrizio Boschi, Martedì 19/02/2019, su Il Giornale. La solita giustizia ad orologeria. Protagonista di questa assurda vicenda giudiziaria, specchio di come funzionano i tribunali in Italia, è l'ex sindaco di Mantova Nicola Sodano (Forza Italia). Tutti assolti perché il fatto non sussiste. Questo processo che non avrebbe mai dovuto cominciare, quello per la lottizzazione Lagocastello, è finito praticamente senza iniziare. Lo ha cassato il gup del tribunale di Roma Roberto Saulino, chiamato a decidere, in sede di udienza preliminare, se rinviare a giudizio i sette imputati, o meno. Saulino ha dichiarato che un processo del genere sarebbe stato del tutto inutile per la pressoché totale assenza di prove d'accusa. Ed invece, da quel febbraio 2015 sono passati quattro lunghi anni, quando i carabinieri fecero un blitz nel Comune di Mantova. Si chiude così con una sentenza di assoluzione di primo grado, certo, ma che sa di sentenza definitiva, il processo a carico di Sodano, e degli altri imputati coinvolti nel procedimento: l'imprenditore Antonio Muto, a giudizio con l'ex senatore di Forza Italia Luigi Grillo, l'ex presidente del Consiglio di Stato Pasquale De Lise, l'ex senatore Franco Bonferroni, il commercialista Attilio Fanini e l'ex consigliere comunale di Reggio Emilia, Tarcisio Costante Zobbi. Il procedimento, nato a Brescia e finito a Roma per competenza territoriale, era stato stralciato dal processo Pesci sulle presunte infiltrazioni della 'ndrangheta nel mantovano, perché tanto la vicenda quanto gli imputati di Lagocastello erano risultati estranei a scenari di mafia. Per l'accusa gli imputati, a vario titolo e in fasi diverse, avrebbero esercitato pressioni su ministero e Consiglio di Stato per aggiustare la pratica Lagocastello, lottizzazione per 200 villette e un hotel su un'area di 400mila metri quadrati. «È la giusta risposta a tante pagine di odio e falsità ha commentato Sodano togliendosi qualche sassolino dalle scarpe -, la fine di 1.478 giorni di sofferenza che hanno cambiato la storia politica di questa città, perché quell'avviso di garanzia era arrivato nel pieno della campagna per il mio secondo mandato. Come mai proprio allora? Sono arrivato vivo alla fine. L'avevo giurato sulla tomba di mio padre che questa faccenda doveva finire con giustizia e così è stato. Ora penso sia il momento di riflettere».
· Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni: “La gente deve capire che sono innocente”.
Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni: “La gente deve capire che sono innocente”. Nel 2007 fu condannata a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele. Il prete amico: ora ha ricostruito la sua vita, scrivono Franco Giubilei ed Enrico Martinet l'8/02/2019 su La Stampa. «Da un lato sono contenta, dall’altro vorrei trovare la maniera di far capire alla gente che non sono stata io». Desiderio di Annamaria Franzoni che è ora una donna libera. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlioletto Samuele nella villetta di Cogne il 30 gennaio 2002, entrò nel carcere bolognese della Dozza nel 2007, ne uscì nel 2014 per scontare il resto della pena ai domiciliari nella casa di famiglia a Ripoli Santa Cristina, Appennino emiliano. Si è sempre professata innocente. Samuele aveva 3 anni e lei lo lasciò solo in casa per 8 minuti: «Qualcuno me lo ha ucciso». Era stata condannata a 16 anni, poi ridotti a meno di 11 grazie all’indulto, un periodo che la buona condotta e la partecipazione a progetti di reinserimento le ha permesso di accorciare ulteriormente, regolando con alcuni mesi di anticipo il suo debito con la giustizia.
Ora la villetta di Ripoli è deserta: al cancello è appeso il cartello «Vendesi». I Franzoni e la famiglia di Annamaria si sono trasferiti in una casa isolata «non lontano da qui», dicono i vicini. La riservatezza, in questa minuscola frazione di montagna, è totale: la gente si limita a dire che il marito, Stefano Lorenzi, lavora nell’azienda dei Franzoni e torna a casa a tarda sera. Con Annamaria c’è anche il figlio minore, avuto un anno dopo l’omicidio di Samuele, mentre il fratello più grande non vive coi genitori. Per i compaesani Annamaria «è una persona normale, gentile, com’è sempre stata». Il suo legale, Paola Savio, di Torino, dice: «L’appello che ho sempre rivolto e rivolgo anche oggi è di dimenticarla. Occorre pensare che ci sono familiari e che hanno sofferto con lei». Quando andò ai domiciliari Annamaria le disse: «Non vorrò mai più dire niente, per me la storia è finita qui». Ancora Savio: «Questa famiglia ha bisogno di riconquistare l’intimità». Nella cooperativa sociale di don Renato Nicolini Annamaria ha lavorato nel laboratorio di sartoria. «Quando c’è un rapporto forte e affettuoso con la famiglia e l’ambiente d’origine, la persona si reinserisce. È questo che fa la differenza. Ormai è un po’ che non la vedo. Siamo buoni amici, a distanza. Adesso ha ricostruito la sua vita, in famiglia», dice il sacerdote. «No, guardi, sono al lavoro. La ringrazio, ma io non ho commenti da fare». Fedele a se stesso Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, mai una parola di troppo e rari momenti di rabbia. Sempre accanto alla moglie. Ogni frase conclusa dicendo «è innocente». Quel giorno, il 30 gennaio 2002, Stefano era a 30 chilometri dalla villetta di Montroz. Inverno gelido, senza neve. Quando Samuele arrivò esanime al pronto soccorso della città, in elicottero, qualcuno parlò perfino di un morso di cane. La testa del bimbo era straziata da 17 colpi. Era stato colpito nel lettone di mamma e papà e poi coperto, anche il viso, con il lenzuolo.
Franzoni, le tappe della vicenda di Cogne. ANSA. Annamaria disse di averlo trovato così, al ritorno dalla fermata dello scuolabus, dove aveva accompagnato il primogenito. E chiamò la vicina di casa, il medico di famiglia Ada Satragni che disse che a quel bimbo «era scoppiata la testa». E l’indagine cominciò con un trambusto, tredici persone entrarono in quella casa. L’arma del delitto non fu mai trovata: uno zoccolo, una piccozza, un portacenere di cristallo, un mestolo; le ipotesi furono tante. Perizie e contro perizie. L’arresto per pigiama e zoccoli macchiati di sangue e quegli 8 minuti trascorsi tra l’andare e venire dallo scuolabus. Un tempo troppo breve per pensare a un assassino in agguato, poi fuggito senza lasciare traccia. Il tribunale del riesame le ridiede la libertà. L’avvocato era Carlo Federico Grosso. «Ero convinto e lo sono ancora dell’innocenza di Annamaria. Negli atti non vi erano elementi per una condanna». Il padre di Annamaria, Giorgio, chiamò l’avvocato Carlo Taormina. La condanna in primo grado a 30 anni, poi l’appello a 16. Prima dell’appello Taormina cominciò un’indagine difensiva che diventò il processo «Cogne bis» per inquinamento della scena del delitto. Taormina lasciò il mandato. Oggi dice: «L’inchiesta fu fatta male. Sono contento per Annamaria. Spero che lavori così riesce a pagarmi la parcella, 400 mila euro».
Cogne, Franzoni è libera: «Credetemi, sono innocente», scrive Giovedì 7 Febbraio 2019 Il Messaggero. Annamaria Franzoni è una donna libera, che continua a proclamarsi innocente. «Vorrei trovare la maniera di far capire alla gente che non sono stata io», ripete alle persone che le stanno vicino. Condannata nel 2008 per l'omicidio del figlioletto Samuele di tre anni, avvenuto a Cogne il 30 gennaio 2002, ha ricevuto nelle scorse settimane dal tribunale di Sorveglianza di Bologna la comunicazione che la sua pena di 16 anni è completamente espiata, non ha più obblighi restrittivi. Annamaria Franzoni colpevole ma i misteri restano. Era uscita dal carcere nel 2014 e da allora era in detenzione domiciliare a Ripoli Santa Cristina, isolata frazione di San Benedetto Val Di Sambro, sull'Appennino bolognese, dove vive la sua famiglia. Da quel momento la protagonista di uno dei più gravi delitti mediatici degli ultimi anni, in passato ospite anche di talk show televisivi dove andava a difendersi dalle accuse, conduce una vita più che riservata. Anche oggi, il suo avvocato Paola Savio lancia un appello per il diritto all'oblio della sua assistita: «È quello che ho sempre rivolto da quando è iniziata l'esecuzione della pena e che rivolgo anche oggi: dimenticarla». Per il legale «occorre pensare che ci sono familiari che hanno sofferto con lei». Da poco Franzoni e il marito si sono trasferiti, hanno comprato una casa nuova in un paese vicino al borgo di Ripoli. Come a Ripoli, anche nella nuova sistemazione è circondata da vicini che sono con lei. La conoscono da anni, si fidano: «Le facevamo fare la babysitter ai nostri figli», dicono. Nella casa vive anche il figlio minore, nato dopo la morte di Samuele. Il campanello suona a vuoto, qualcuno da dentro abbassa le tapparelle. La famiglia non vuole parlare. «Si è sempre comportata bene, si è attenuta alle regole, ora ha il sacrosanto diritto di stare tranquilla», conferma il suo avvocato. Franzoni è libera prima del previsto proprio grazie alla sua buona condotta. Ai 16 anni ne sono stati sottratti tre per l'indulto, il resto invece sono giorni di liberazione anticipata di cui ha usufruito: un beneficio che ha come presupposto che il detenuto partecipi all'opera di rieducazione e di reinserimento nella società. Ed è così che è stato giudicato questo caso, come sottolinea anche lo psichiatra Augusto Balloni, lo specialista che firmò la perizia decisiva, cinque anni fa, per la scarcerazione: «Sono proprio contento. Questo caso è l'esempio che quando tutti si mettono d'impegno per fare in modo che le cose funzionino si ottengono risultati: io ho sempre detto che la pena deve essere rieducativa», spiega. Uscita dal carcere Annamaria aveva lavorato in una coop sociale, per un pò. Ora, spiegano i vicini, ogni tanto dà una mano nell'agriturismo di famiglia. «Ha ricostruito interamente la sua vita», dice don Giovanni Nicolini, il sacerdote che l'accolse per il lavoro. Una vita ricostruita in una casa nuova, dalla quale non è più costretta, come prima, a vedere il piccolo cimitero di Santa Cristina, dove è sepolto Samuele. Don Nicolini: ha ricostruito la sua vita. «Quando c'è un rapporto forte e affettuoso con la famiglia di origine, la persona si reinserisce. È questo che fa la differenza». Don Giovanni Nicolini, sacerdote bolognese che accolse Anna Maria Franzoni a lavorare in una cooperativa sociale quando fu ammessa al lavoro esterno dal carcere, commenta così la notizia della fine della pena per la donna condannata per il delitto di Cogne. «Ormai è un pò che non la vedo, posso dire che siamo buoni amici, a distanza. Lei ha una vita di famiglia» e non va più a lavorare nel laboratorio di sartoria perché «adesso ha ricostruito interamente la sua vita».
Franzoni a Cogne dopo la libertà: «Finalmente mi godo la nuova vita». Nel borgo sull’Appennino bolognese dove Anna Maria vive protetta dalla famiglia. Il vicino: «Le affiderei i miei figli», scrive Gianluca Rotondi l'8 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. San Rocco è un fortino assediato. Il piccolo borgo sull’Appennino bolognese dove Annamaria Franzoni ha scelto di vivere da donna libera è un crocicchio di strade e villette isolate dove si conoscono tutti. Dista solo una manciata di chilometri da Ripoli Santa Cristina, il paesino dove è nata e che ha segnato tutte le tappe di questa storia infinita che dopo 17 anni è arrivata al punto di svolta. Eppure sembra che il tempo si sia fermato, con i pochi residenti e i tanti parenti a fare da scudo per proteggere la «bimba», come tutti da sempre chiamano la mamma di Cogne. Sembra di essere tornati ai giorni dell’arresto quando su queste montagne c’erano più giornalisti che abitanti. Tutto è come allora, compresa la poca voglia di parlare e l’influenza che ancora esercita la famiglia Franzoni, una dinastia che col padre Giorgio al timone ha tirato su mezzo paese e ora ha eretto un muro di silenzio.
Protetta da parenti e amici. Anna Maria se ne sta chiusa nella villetta bianca dove abita con la sua famiglia da novembre, sulla facciata una grande stella cometa, il ricordo del primo Natale passato qui. È protetta dai parenti e dagli amici che l’hanno vista crescere e in tutti questi anni si sono sempre schierati dalla sua parte. Come Giulia e sua sorella che venerdì le hanno portato una busta con la spesa aprendosi un varco tra cronisti e cameramen. L’hanno affidata a una ragazza, l’unica a mettere il naso fuori di casa. «Le ho parlato poco fa al telefono, è felice e sollevata. Ha detto che ora è finalmente libera di vivere la sua vita, di godersi quella libertà che per troppi anni non ha avuto. Noi non abbiamo mai avuto dubbi sulla sua innocenza, la conosciamo bene e sappiamo che non può averlo fatto».
«Le affiderei i miei figli». Qui la pensano tutti così, un copione mandato a memoria senza mai un dubbio. Antonio Bignami vive davanti alla nuova casa dei Franzoni, li ha visti traslocare a novembre e stabilirsi qui, a pochi tornanti dal padre Giorgio e non lontano dall’azienda agricola di famiglia: «Era tranquilla, aspettava questa notizia con impazienza. La conosco da sempre, faceva da babysitter ai miei figli e glieli affiderei ancora. Ho festeggiato le nozze d’argento nell’agriturismo dei Franzoni e Annamaria ci ha fatto la torta. Per lo Stato resta colpevole ma lei vuole dimostrare di non esserlo. Ripete che è innocente».
Innocente. È questo il pensiero fisso di Annamaria, una donna divisa tra la voglia di essere dimenticata e l’esigenza di dire che a dispetto delle sentenze non è stata lei a uccidere Samuele. Ma lei e la sua famiglia allargata hanno scelto la strategia del silenzio. Non una parola, solo indifferenza. Stesso copione nell’azienda di famiglia dove le poche parole spese sono per i cronisti «brutta gente». A metà pomeriggio arrivano i carabinieri, li hanno chiamati dalla villetta per chiedere di allontanare i giornalisti dalla proprietà. I militari identificano tutti. I pochi passanti che si fermano a parlare vivono con fastidio questa nuova ribalta mediatica: «Vuole essere lasciata in pace, dimenticata». Ma non vacillano: «Non è stata lei, ha sofferto anche troppo». Tutt’altra atmosfera si respira a Cogne dove la gente non ha dimenticato gli anni delle accuse e dei veleni: «Se potevano incastravano gente del posto, vicini di casa. Ha incolpato dei poveracci, cercato di colpire chi non c’entrava. Meglio non torni qui». Ma Annamaria li è tornata qualche giorno a novembre con la famiglia, proprio nella villetta di Montroz dove il 30 gennaio 2002 fu ucciso Samuele. Era già libera.
Annamaria Franzoni, le voci da Cogne: "Voleva incastrare gente di qui, non perdoniamo". Tre mesi fa è tornata con la famiglia per qualche giorno di vacanza nella villetta dell'omicidio. Un nuovo vicino di casa la difende: "Famiglia equilibrata, io le affiderei i miei figli". Il generale Garofano: "Confessi, purtroppo l'assassina del piccolo Samuele è lei", scrive il 09 febbraio 2019 Today. A novembre 2018 Annamaria Franzoni ha soggiornato con la famiglia per un certo periodo di tempo nella tristemente nota villetta in frazione Montroz di Cogne, in cui venne ucciso il piccolo Samuele Lorenzi in un giorno d'inverno di 17 anni fa. Lo scrive l'Ansa. Annamaria Franzoni è libera: ha terminato di scontare la pena a 16 anni per l'omicidio del figlio. In quei giorni di novembre era già da alcune settimane in libertà. La villetta dove si consumò il tragico omicidio del piccolo Samuele è stata dissequestrata nel 2013, e risulta ancora intestata ad Annamaria e al marito, Stefano Lorenzi. Lui nel corso degli anni ci è tornato diverse volte, specie in estate, con i figli.
Il giudice: "Le faccio gli auguri per il futuro". "Sono contento anche oggi della decisione che prendemmo all'epoca, per quanto fu una decisione sofferta e impopolare". Lo dice Francesco Maisto, il giudice, ora in pensione, che era presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna quando venne disposto prima il lavoro esterno e poi la detenzione domiciliare speciale, concessa nel 2014, a Annamaria Franzoni. "Faccio gli auguri a lei per il futuro e anche alla sua famigliola ricostruita", dice ora il magistrato, raggiunto al telefono dall'ANSA. La decisione non fu affatto semplice perché prima di assumerla "si dispose un'integrazione della perizia psichiatrica, dopo che nell'arco dei processi ce n'erano state altre e tutte discordanti tra loro". E poi, "decidemmo dopo aver dato a Franzoni una sorta di aut aut, dicendole di dire la verità. E lei superò questa prova di resistenza, continuò a proclamare la sua innocenza. Ma per ottenere le misure alternative - ricorda il giudice - non è necessario confessare i fatti, come stabilito dalla Corte costituzionale".
Il vicino di casa: "Le affiderei i miei figli". "Quando i nostri bambini erano piccoli lei gli faceva da baby sitter. Per me sono una famiglia di persone assolutamente equilibrate, brave e comunque anche nelle persone più equilibrate può succedere un colpo di follia, se è stato quello". A dirlo un vicino di casa di Annamaria Franzoni. Glieli affiderebbe ancora? "Si certo", ha risposto ai cronisti il vicino di casa di Monteacuto Vallese, paese del bolognese. "Non lo so se è lei o non è lei la colpevole. Io non sono un investigatore, io guardo da fuori", ha aggiunto. "Lei non ha mai parlato di quel momento. Che è innocente, credo lo dica a tutti".
Cogne, residenti: "Voleva incastrare gente di qui, non la perdoniamo". "Ha incolpato dei poveracci che forse non potevano difendersi. Questa è la cosa che non possiamo perdonare". E poi: "Se potevano incastravano gente del posto, i vicini di casa. Li conoscevo si è no ma se stanno a casa loro è meglio". E ancora: "Il padre e il marito, tutti, hanno tentato di colpire la gente di qua al massimo che si poteva. Hanno fatto falsificazioni enormi", e: "Sarà meglio che non venga più qui. Ha colpito tutti quelli di Cogne". Parlano così alcuni residenti di Cogne, interpellati dal Tgr della Valle d'Aosta sul ritorno in libertà di Annamaria Franzoni.
"Annamaria Franzoni confessi l'omicidio del figlio". "Annamaria Franzoni confessi, purtroppo l'assassina del piccolo Samuele è lei". Il generale Luciano Garofano, l'ex comandante del Ris di Parma che ha condotto le indagini sul delitto di Samuele a Cogne, fa un appello ad Annamaria Franzoni che si è sempre dichiarata innocente: Posso comprendere il desiderio della signora Franzoni di riabilitarsi - afferma Garofano all'Adnkronos -Mi auguro ovviamente che abbia rielaborato il lutto e abbia risolto tutti i problemi che l'hanno portata ad uccidere il figlio perché l'assassina di Samuele purtroppo, al di là della comprensione delle problematiche sottese all'omicidio, è la signora Franzoni". Continua Garofano: "Le prove scientifiche non hanno mai mostrato una possibile alternativa per una serie di motivi, non solo legati alla modalità di aggressione, ma anche alle problematiche di cui soffriva". L'ex comandante del Ris annota ancora che "c'è una tendenza a discutere oltre i processi bene incardinati. Mi sembra che ultimamente ci sia una concentrazione di casi chiusi in maniera convincente in cui si vogliono trovare soluzioni alternative. In questo caso non è assolutamente possibile. Il caso Cogne è uno dei casi con giudizio assolutamente lineare. Abbiamo condotto indagini con periti tedeschi sia per il giudice che per l'imputata, con periti italiani di altissimo livello, garantendo il contraddittorio delle parti".
Ci sono prigioni che non finiscono neanche quando hai scontato la tua pena: la condanna di Annamaria Franzoni. Appena uscita ha chiesto di essere dimenticata e ha detto che vuole andare via dall’Italia. Suo figlio Davide lavora già all’estero, scrive Pierangelo Sapegno su Tiscali l'8 febbraio 2019. Annamaria Franzoni, appena tornata libera, ha chiesto l’unica cosa che nessuno potrà mai darle: quella di essere dimenticata. Perché la sua storia appartiene ormai alla Storia più grande del nostro Paese, ne ha cambiato i modi, i tempi e i cuori. Prima di lei, del piccolo Samuele ucciso nel grande letto in quella villetta delle bambole, una sola volta, tanti anni prima, gli italiani si erano ammucchiati davanti alla tv per un fatto di cronaca, nel 1981, quando il piccolo Alfredino Rampi trovò la morte nel pozzo senza fondo di Vermicino. Ma se allora erano state la pietas e la speranza a catturare il pubblico di fronte a una tragedia che si consumava sotto gli occhi delle telecamere, come se tutti noi volendo assistere alla vita avessimo incontrato la morte, è solo l’orrore della morte a radunare la stessa folla 21 anni dopo. Quando il 30 gennaio del 2002, in quella casetta di pietra e di legno e di balconi riempiti dai gerani, sulla salita di Montroz, sopra la strada di Cogne, viene trovato Samuele, di 3 anni appena, con la testa maciullata, gli americani sono già entrati a Kabul per vendicare le 2974 vittime dell’11 settembre e il mondo sta affacciato sulla guerra con tutto il suo carico di odio e di paura. La cronaca di quel delitto comincia alle 8,28 della mattina, nel momento in cui Annamaria Franzoni chiama il 118 con la voce concitata e le parole spezzate perché suo figlio sta vomitando sangue e non sa che cosa possa essergli successo. Nel tardo pomeriggio, Meo Ponte, inviato di Repubblica, dice alla moglie che aspetta l’arresto della madre e poi «stasera sono già a casa, perché è tutto finito». Non è finito ancora adesso, che sono passati 17 anni. Ma non è il giallo a catturare il pubblico: la stragrande maggioranza degli italiani è colpevolista, come i giornali e le televisioni. Gli innocentisti sono tutti e soltanto racchiusi nel suo paese, a Monteacuto e Ripoli Santa Cristina, sugli appennini bolognesi, fra la gente che conosce Annamaria da sempre e pensa che sia impossibile. Quello che rende la vicenda così mediatica è invece il canto del cigno della tv, prima del grande avvento del web e dei social. La televisione cattura la storia e la rende propria come un grande reality con la scansione di una fiction, cominciando a sviluppare ed eccitare la partecipazione del pubblico con tutto il suo carico prorompente di odio e di condanna. Nell’era del Grande Fratello, inaugurato due anni prima su Canale 5, la Franzoni sembra prestarsi incredibilmente a questo Gioco Assurdo come un qualsiasi concorrente da nominare per uscire dalla casa. La prima intervista la rilascia a Studio Aperto, spezzando continuamente le sue parole con lacrime e singhiozzi, per poi chiedere al giornalista, alla fine dell’intervista: «Ho pianto troppo?». Ma con il Grande Fratello le regole sono diverse e l’occhio della telecamera ti insegue sempre. Quella domanda la distrugge. Ma la sua processione continua, va a piangere a Porta a Porta e confessa al Maurizio Costanzo Show di aspettare un altro bambino. E mentre Vespa inaugura i plastici e le aule di tribunale dentro uno studio televisivo, lei cerca invano di scappare, richiudendosi nella sua casa di Ripoli Santa Cristina. Ormai è troppo tardi. Quello che conta non è più la cronaca dei fatti, ma la sua personalità. Non importa che la vicenda abbia punti oscuri che non spiegano la certezza della colpa, dall’orario effettivo della morte di Samuele all’arma mai ritrovata, dalle lesioni della vittima alle posizioni dell’assassino. Il tempo è il dubbio che unisce le due tesi, le due facce dello stesso momento: lei esce di casa dalle 8,16 alle 8,24 per accompagnare l’altro figlio Davide allo scuolabus. Se il delitto è avvenuto attorno alle 8 e 10, sostiene la sua difesa, come avrebbe potuto in così poco tempo uccidere, lavarsi, cambiare l’abito, disfarsi dell’arma, preparare il bimbo e andare a prendere il pullman come se niente fosse? L’accusa sostiene il contrario: che non c’è traccia di nessun’altro in quella casa e che 8 minuti (il tempo in cui lei non c’era) comunque non basterebbero per entrare, uccidere e scappare. Ma non conta niente, perché quello che interessa adesso alla gente è solo lei. La sua personalità è oggetto di rilievi psicologici e psichiatrici oltre che di dibattiti assurdi in tv. Le ultime perizie (che lei rifiuta invano) le attribuiscono una personalità affetta da «nevrosi isterica», cioé portata alla teatralità e alla simulazione, perché incapace di elaborare in modo maturo le problematiche della quotidianità. Nessun’altro protagonista della cronaca prima di lei ha mai avuto tanta attenzione dalla tv. Anche la scelta del suo legale è condizionata dalla televisione e così decide di affidarsi a Carlo Taormina che a differenza di Federico Grosso è molto presente e battagliero nel piccolo schermo. Finisce persino dentro a un mucchio di canzoni. Da «Cattiva» di Emanuele Bersani («cattiva e spietata è la mia curiosità, impregnata di pioggia televisiva») a «La paranza» di Daniele Silvestri («la paranza è una danza che si balla nella latitanza... Così uno di Cogne andrà a Taormina in prima istanza»). Miss Keta canta «In gabbia non ci vado», «in Smart con la Franzoni nella cerchia dei bastioni». E Marco Richetto scrive «Finche nulla cambierà»: «In tv zoomano sulla bara, le tragedie alzano l’auditel. Avrei voluto fermare la Franzoni quando il diavolo le faceva compiere quelle azioni». Al processo d’appello a Torino distribuiscono i biglietti per entrare in aula e ci sono persino i bagarini nelle lunghe code che si formano davanti ai cancelli. In questa soap opera senza fine lei non smette mai di piangere, come fanno i concorrenti dei reality per conquistare il voto del pubblico, e lo fa fino all’ultimo chiedendo alla giuria «il coraggio» di crederle. Il 27 aprile 2007 è condannata a 16 anni e un anno dopo, il 21 maggio del 2008, la Cassazione conferma la sentenza. C’è una gran folla quando i carabinieri vengono a prenderla. Se è vero che da quel momento ha cercato il silenzio, quello che non ha mai ottenuto ancora adesso è l’oblio. Non te ne puoi andare così dalla tv, dal suo Grande Show senza rete, se non è lei a deciderlo. Annamaria Franzoni ha detto che vuole andare via dall’Italia. E suo figlio Davide lavora già all’estero. Tanto tempo è passato e tante cose sono cambiate. Ma ci sono prigioni che non aprono mai le sbarre, che sono peggio di un tribunale e di qualsiasi sentenza, che non finiscono neanche quando hai scontato la tua pena. Sono le nostre prigioni.
Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 10 febbraio 2019. L'Italia è quel Paese dove l'arresto di un boss mafioso fa meno risonanza mediatica della liberazione di un condannato che ha scontato la sua pena. Soprattutto se quest' ultimo è una madre giudicata colpevole di avere assassinato il suo figlioletto di 3 anni. Il fatto che Annamaria Franzoni sia tornata in libertà ha suscitato un clamore esagerato. Si tratta senz'altro di una notizia, ma non così rilevante da giustificare il modo in cui è stata proposta al pubblico sia da telegiornali che da quotidiani, ossia in dosi massicce e addirittura pedanti fino a farne oggetto di talk-show che ci hanno fatto vivere una sorta di déjà vu: sembrava fossimo tornati all' epoca in cui il delitto fu commesso e la vicenda dominava su tutti i media. Inevitabile che siano montate le polemiche, condite dall' odio e dal quel giustizialismo che sono tanto in voga sulla nostra penisola. Sembra che per tutti sia uno scandalo che il mostro sia già in libertà dopo neanche undici anni di espiazione tra carcere e domiciliari. Franzoni avrebbe dovuto permanere in carcere 16 anni, poi con l'indulto di tre anni e la buona condotta si è giunti a questa riduzione dei tempi della pena, dai più ritenuta inaccettabile. Ma non abbiamo dubbi che gli stessi si sarebbero indignati anche se la donna avesse trascorso in gattabuia 16 anni e un giorno, poiché si crede che il sistema penitenziario sia una sorta di calderone dell'inferno ove rinchiudere per sempre coloro che sono considerati criminali e non un luogo in cui il reo deve essere rieducato e dal quale poi deve essere reinserito in società una volta saldato il debito con la giustizia. Sui social network si sono moltiplicati i giudizi di condanna: c' è chi avrebbe dato ad Annamaria l'ergastolo, chi 30 anni, chi 40, ovviamente senza sconti, chi addirittura la sedia elettrica. Mancavano solo le torture e poi il rogo. E ci consideriamo un Paese civile: un detenuto esce dalla prigione e noi lo accogliamo schifati augurandogli ogni atrocità. Ma ciò che più stupisce è che nei programmi televisivi, al fine di intrattenere i telespettatori, si sia ricominciato dal principio, ossia ad indagare sul fatto di cronaca - nonostante una sentenza passata in giudicato e addirittura una pena espiata -, rispolverando vecchie intercettazioni, ricostruendo la vicenda, facendo ipotesi e illazioni stuzzicanti su questa madre e sul perché abbia massacrato il figlio fingendo poi di avere dimenticato tutto. Mentre diamo prova di disumanità, ci sentiamo tutti mondi: poiché la mamma assassina è lei, mica noi, e deve marcire dietro le sbarre. La signora in questi giorni sta vivendo come una di quelle povere bestie chiuse dentro le gabbie degli zoo, circondate da gente curiosa e obiettivi. Ha telecamere puntate addosso e giornalisti e fotografi appostati davanti casa. Insomma, ella pensava di uscire dal carcere ma - paradosso - ne è entrata. E chissà cosa si aspettano di immortalare i miei colleghi che piantonano la sua porta? Forse di mandare in onda la faccia di un'assassina che è tornata libera e felice? Se Franzoni è colpevole come è stato stabilito all' esito del processo, il rimorso non l'abbandonerà mai. E già a questo non avrà scampo. Se invece è innocente, e il dubbio è lecito, si tratta di una mamma a cui hanno trucidato un figlio e che poi è stata accusata di questo crimine orrendo. Perché continuare ad infierire persino ora che ha saldato il debito ed ha riacquistato la libertà? Quando diavolo ci sentiremo paghi? Probabilmente mai. Il momento più delicato del recupero è proprio quello del reinserimento post-penitenziario. Ed è anche il più temuto dai detenuti, dal momento che il carcere, per quanto angusto ed insopportabile, li protegge da ciò che si trova fuori: il rigetto sociale, la mancanza di perdono e il pregiudizio. A volte i carcerati sono davvero pronti ad uscire dalla cella. Il punto è che la comunità non è pronta mai ad accoglierli. Li isola. Li scansa. Li esclude. Li guarda con diffidenza. O con curiosità morbosa. Proprio come viene osservata Annamaria. La società civile è l'ultimo anello, e non per questo il meno importante, che segna la realizzazione o il fallimento dello scopo stesso della carcerazione, che non è imprigionare ma redimere. Tutto questo ha fatto riaffiorare in me il ricordo mai sopito di un ragazzo che conoscevo, di nome Antonio, il quale, condannato per violenza sessuale di gruppo e scontata per intero la sua pena, l'ultima notte che avrebbe dovuto trascorrere in carcere prima di tornare alla sua esistenza si impiccò con le lenzuola pulite che gli aveva lavato e stirato la sua mamma. Antonio aveva poco più di vent' anni e si era sempre proclamato innocente. Quando al mattino aprirono la sua cella lo trovarono appeso e già freddo. Era troppo tardi. Il giovane lasciò una lettera in cui spiegava i motivi che lo avevano indotto al suicidio: la vita fuori dalla prigione gli faceva troppa paura poiché la gente lo avrebbe sempre considerato autore del crimine a suo giudizio più vile, e lui non avrebbe potuto sopportare quel marchio addosso. Non vedeva più un futuro. Si vergognava davanti alla società, al cui giudizio impietoso non ci si può sottrarre se non scomparendo. Ma forse Antonio non si è ammazzato. Lo abbiamo ucciso tutti noi. Noi che ci sentiamo candidi. Come sepolcri imbiancati.
Katharina Miroslawa, stanca di dirsi innocente.
L’ex ballerina Katharina Miroslawa, 33 anni dopo il delitto del suo amante: «Abito a Vienna e vendo vini». Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Andrea Pasqualetto su Corriere.it. L’avevamo lasciata con la valigia in mano sul pontile della Giudecca, una calda mattina d’estate del 2013. Era il suo primo giorno di libertà dopo 12 anni di carcere passati nel penitenziario femminile dell’isola veneziana. «Non so esattamente dove andrò, non so cosa farò», diceva disorientata. La ritroviamo sei anni dopo a Vienna, con una bottiglia di vino in mano e un calice nell’altra. «Cantine Rechsteiner di Oderzo, uvaggio incrociato di Riesling renano con Pinot bianco, annata 2018...», spiega lei in questo ristorante fusion asiatico mentre avvicina il bicchiere al naso per poi ruotarlo. Ecco dov’è e cosa fa Katharina Miroslawa: degusta, importa e vende vini italiani a Vienna, la sua città. «Lavoro anche per una società di software aziendali, al computer, senza fretta che non ho più l’età delle corse...». Lo dice con un certo orgoglio, l’ex ballerina polacca condannata nel ‘93 a 21 anni e 6 mesi di reclusione per il delitto dell’imprenditore Carlo Mazza. Ricordate? Passò alla storia del crimine italiano come il giallo di Carnevale, che appassionò i media anche per il fatto che Mazza, trovato cadavere a Parma il 9 febbraio 1986 a bordo di una Renault, era il suo amante. La giustizia risolse così il cold case: lei la mandante e suo marito Witold Kielbasinski il killer. L’avrebbero fatto per due polizze vita da un milione di euro intestate a lei, da incassare in caso di morte di Mazza e naturalmente mai incassate. A poco servì la confessione del marito che si attribuì ogni responsabilità scagionandola, seppur tardivamente: «Ho agito per gelosia, non per denaro», giurò. «Io c’ero ma ad uccidere materialmente Mazza è stato Dimosthenes Dimopoulos», un amico greco, che nel frattempo era stato assolto in via definitiva. E inutile fu anche la costante, feroce protesta d’innocenza di Katharina: «Non c’entro nulla con l’omicidio, io ero innamorata di Carlo e volevo lui». L’ex ballerina, oggi cinquantasettenne, ci porta dunque nel suo ufficio casalingo di commerciante di vini che si affaccia su Nussdorfer Strasse, in un quartiere semicentrale della capitale austriaca. Si tratta di un grande ed elegante appartamento che condivide con Karl Gustav, professione manager informatico, svedese. È il suo nuovo compagno e presto sarà suo marito, si augura Katharina: «Ho divorziato da Witold, posso farlo», sorride ricordando con una certa soddisfazione il giorno della firma sulla rottura del matrimonio: «Non ho neanche dovuto rivederlo, non volevo rivederlo». Witold è anche il padre di suo figlio ed è l’uomo con il quale ha vissuto gli anni vagabondi del matrimonio, nei quali per guadagnarsi da vivere portavano in giro per l’Italia uno spettacolo sexy. L’attrazione era lei, che ballava in lingerie nei locali notturni. Fu in una di queste esibizioni che conobbe Mazza, finendo per frequentarlo. Quel che successe poi lei ora lo spiega così, seduta sul sofà mentre sorseggia un Riesling: «Premessa: le ferite rimangono ma oggi ho ritrovato una certa serenità e posso parlare del delitto senza chiedere nulla a nessuno perché ormai ho rinunciato a cercare le prove della mia innocenza. Servirebbe troppo tempo e io non ne ho e, soprattutto, voglio guardare avanti, voglio vivere, dopo aver perso tanti anni inutilmente, fra ricerche, processi, galera...». Riflette, sospira: «Ho sbagliato. Ho sbagliato per eccesso di trasparenza, di responsabilità, di verità. Mi spiego: quando con Witold siamo rientrati ad Amburgo dopo il lungo tour, il nostro rapporto era già finito. Ci univa solo nostro figlio. Un giorno gli dissi che sarei andata in vacanza con Carlo alle Mauritius, e lì sbagliai. Lui sapeva della nostra relazione e in un momento di rabbia mi aveva anche detto che se fosse andata avanti avrebbe ucciso me e lui, ma non avevo dato molto peso a quelle parole. Gli avevo ricordato che si sarebbe dovuto occupare di nostro figlio per due settimane, il tempo della vacanza. Troppo, gli avevo detto troppo. Witold reagì con un “ah sì!”, senza aggiungere altro. Ecco, in quel momento ho sentito come un pugno allo stomaco. Ho ancora nella memoria questa sensazione. Avevo sparato troppo alto, avevo fatto l’errore... Quando in quei giorni non l’ho più visto mi sono venuti tanti dubbi...». Witold ha confessato di essersi fiondato con l’amico greco a uccidere Mazza. «Ho saputo poi che Dimopoulos era uno che sapeva maneggiare le armi contrariamente a Witold. E ho saputo anche che era rimasto colpito da me, il giorno in cui Witold me lo presentò. Ho pensato che forse per questo motivo anche lui voleva in qualche modo vendicare mio marito». Altri sospiri. «Comunque sia, sono stata una vigliacca: nonostante i dubbi, non ho mai voluto sapere cosa successe. Non l’ho mai saputo fino a quando Witold ha confessato, ma ormai era troppo tardi e io ero già stata condannata definitivamente». L’errore, la vigliaccheria, la paura della verità. «Ma io non sono la mandante, non aveva senso uccidere l’uomo con cui volevo vivere. L’ha ucciso Witold, per disperazione...». Dopo tanti anni Katharina è tornata a Parma. L’ha fatto in silenzio, con Karl, ed è voluta andare al cimitero, sulla tomba di Carlo Mazza. «Non l’avevo mai fatto prima perché non me la sentivo, non sarei riuscita a guardare quella foto. Ora però è diverso... “Ciao Carlo”, gli ho detto. Karl si è commosso». C’è un solo pensiero che le inumidisce gli occhi: il ricordo di suo figlio Niki. Oggi è un uomo e l’ha resa nonna. Allora era un ragazzo rimasto di colpo senza genitori, finiti entrambi in carcere per un delitto. «Niki ha contatti con me e con Witold che oggi è libero. È sempre stato molto rispettoso con entrambi... Non sono mai riuscita a parlargli della vicenda. Mi fa stare troppo male anche solo pensare a quel che gli è successo...». Si ferma, cerca un fazzoletto: «Passiamo ad altro, per favore». Il futuro? «Per il momento ho queste attività, i vini, il software, che mi porta anche a viaggiare: vado spesso in Italia, nelle terre del vino, in Veneto, Friuli, Marche, Toscana... per il software sono stata a Las Vegas. In vacanza invece in Egitto. Insomma, ho ripreso a vivere. Il futuro? L’idea è quella di tornare in Italia con Karl, magari da pensionati. Mi piace il clima, la gente, parlo la lingua». E la revisione del processo, la battaglia di una vita? «Basta, ho rinunciato. Chi sapeva tutto è morto: era l’avvocato Ugolini che difendeva me e Witold. Si è portato nella tomba tante verità. Poi ci sarebbe il greco che se parlasse cambierebbero molte cose. L’ho cercato a lungo, poi ho smesso... non si può vivere di solo passato... Anche se quando ci penso mi verrebbe voglia di riprovarci. Ma insomma, Dimopoulos, se esisti ancora, per favore, parla». Accende la tivù e mette su Canale 5. «È incredibile», scuote la testa Karl, «guarda solo programmi italiani».
· Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere da innocente: chiede 66 milioni di euro di risarcimento.
Firenze, 22 anni in carcere da innocente: chiede 66 milioni di euro di risarcimento. Giuseppe Gulotta, vittima di un errore giudiziario per l'omicidio di due giovani carabinieri della caserma di Alcamo Marina (Trapani) nel gennaio del 1976, è stato poi assolto dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria, scrive il 25 gennaio 2019 La Repubblica. Ha trascorso 22 anni in carcere da innocente. Oggi Giuseppe Gulotta, accusato per errore dell'omicidio di due giovani carabinieri della caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani, nel 26 gennaio del 1976, chiede un risarcimento di 66 milioni di euro. Nell'atto, depositato al tribunale di Firenze dagli avvocati Baldassare Lauria e Pardo Cellini, viene citata l’Arma dei carabinieri per responsabilità penale. Gulotta venne arrestato e condannato all'ergastolo quando aveva appena 18 anni. Fu poi assolto dalla Corte d'appello di Reggio Calabria che, nel 2016, gli riconobbe un risarcimento di sei milioni e mezzo di euro, con una provvisionale, cioè un anticipo, di 500 mila euro. L'uomo, che oggi ha 60 anni, è stato vittima del più grosso errore giudiziario della storia d'Italia. Nel 1976 faceva il muratore, e aveva fatto domanda per entrare nella Guardia di Finanza. Il 13 febbraio venne prelevato dai carabinieri, portato in caserma, legato mani e piedi a una sedia, picchiato, minacciato di morte con una pistola che gli graffiava le guance. Botte e insulti. Così per dieci ore finché "sporco di sangue, lacrime, bava, pipì" si rassegnò a confessare quello che gli urlavano i carabinieri, pur di porre fine a quell'incubo. La sua vita precipitò in una voragine. Solo dopo anni di tormenti, con quell'accusa sulla testa, Gulotta è riuscito a dimostrare la sua totale innocenza nel processo di revisione che si è celebrato a Reggio Calabria e si è concluso con la sua assoluzione con formula piena il 13 febbraio 2012, esattamente 36 anni dopo il giorno del suo arresto. Il 20 luglio successivo si è chiuso con l'assoluzione anche il processo di revisione per Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, i presunti complici, fuggiti in Brasile prima della sentenza definitiva e rimasti 22 anni lontani dall'Italia. E infine è stato celebrato il processo di revisione anche nei confronti di Giovanni Mandalà, morto in cella, disperato, nel 1998. "È la prima volta in duecento anni di storia che l’Arma dei carabinieri viene citata per responsabilità penale - ha spiegato l’avvocato Lauria alla Nazione -. Ci sono due aspetti che sono contenuti nell’atto depositato: il primo riguarda la responsabilità dello Stato per non aver codificato negli anni il reato di tortura. Il secondo profilo è quello che attiene agli atti di tortura posti in essere in una sede istituzionale (la caserma dei carabinieri) da personale appartenente all’Arma che ha generato un gravissimo errore giudiziario". Il legale ha ricordato che "è stata la stessa Cassazione a dire di rivolgerci all’Arma per il risarcimento del danno subìto per le torture, perché il giudice è stato indotto nell’errore dalla falsa confessione estorta".
Gulotta, l'ergastolano innocente, fu torturato dallo Stato: “Nessun risarcimento”. Le Iene il 23 novembre 2019. L’avvocatura dello Stato respinge la richiesta di risarcimento di Giuseppe Gulotta. L’ex muratore di Firenze a 18 anni è stato costretto a confessare due omicidi sotto la tortura da parte dei carabinieri che lo hanno interrogato. A Giulio Golia ha raccontato il dramma di quei 22 anni in carcere da innocente. “Le carte non dimostrano il fatto dannoso”. A dirlo è l’avvocatura dello Stato, cioè i legali del governo, che non intendono riconoscere alcun risarcimento a Giuseppe Gulotta. L’ex muratore della provincia di Firenze costretto a confessare omicidi mai commessi sotto la minaccia di torture. Vi abbiamo raccontato la sua vicenda tanto drammatica quanto assurda nel servizio di Giulio Golia, che potete vedere qui sopra. Ha passato 22 anni della sua vita dietro le sbarre. Da innocente. Una tragedia della mala giustizia che è stata “risarcita” nel 2012 con 6.5 milioni di euro. Ma lui ha chiesto altri 66 milioni per le torture subìte, forte del parere della Cassazione. Tre anni fa a Le Iene ha raccontato un’odissea iniziata nel 1976. Dopo l’omicidio di due carabinieri in provincia di Trapani, era stato condannato all’ergastolo: “Credo che lì dentro, specialmente da innocente, capiti a chiunque di pensare di farla finita”, ha confessato a Giulio Golia. Nove processi dopo e 22 anni passati rinchiuso in prigione, nel 2012 per Gulotta arriva la giustizia. Quella vera, che riconosce il terribile errore commesso nelle aule di tribunale e gli apre finalmente la porta della cella. Peccato che Gulotta, ai tempi dell’arresto 18enne, da quella cella ne sia uscito a 40. È stata la Corte d’appello di Reggio Calabria a stabilire che la confessione di Gulotta, perché l’uomo per quegli omicidi firmò una confessione, fu estorta in modo indegno: torture e sevizie irripetibili da parte di alcuni militari dell’Arma. “Avevamo lasciato il codice penale fuori dalla caserma”, ha raccontato l’unico carabiniere che aveva avuto il coraggio di parlare di quelle torture a Giulio Golia. “Schiaffoni, minacce, obbligo di bere acqua e sale per mezzo di un imbuto, scariche elettriche ai genitali e ai piedi”. Per la richiesta del nuovo risarcimento di 66 milioni di euro, Gulotta ha citato in giudizio la stessa Arma dei carabinieri e la Presidenza del consiglio. Ma per l’avvocatura dello Stato quelle torture è come se non ci fossero state, contrariamente a quanto ha certificato la Cassazione.
I legali dell'esecutivo: "non ha prove". 22 anni in cella, innocente. Il governo: non risarciamo. Nicola Biondo 23 Novembre 2019 su Il Riformista.it. L’avvocato del popolo Giuseppe Conte sa che cosa scrivono i suoi legali? Probabilmente no. Eppure questa storia lo riguarda da vicino. C’è un uomo di 61 anni, si chiama Giuseppe Gulotta e ha passato più della metà della sua vita nei tribunali, ha scontato 22 anni di carcere, è stato torturato in una caserma dei carabinieri di Alcamo, in Sicilia, affinché confessasse un delitto atroce mai commesso, aver ucciso due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Il processo che lo ha spedito all’ergastolo insieme ad altri quattro compagni di sventure era basato su una lunghissima serie di prove false e di abusi, una frode processuale. Dopo trentotto anni Gulotta è stato riabilitato, una sentenza di Cassazione gli ha ridato l’onore e la libertà. Gulotta è un timido. Finisce in tv in prima serata a raccontare la sua vita randagia e il miracolo che l’ha salvata, ma non si monta la testa, mai una parola fuori posto: è stato un detenuto modello e da libero è un modello di moderazione. Ringrazia i giudici, ricorda sempre le vittime della strage di Alcamo e ha un piccolo sogno nel cassetto: che le istituzioni gli mandino un segnale, un gesto di conciliazione, di solidarietà. La sua storia, arrivata fino al salotto tv di Fabio Fazio, non ottiene però davvero le luci dei riflettori mainstream che avrebbe meritato. Non si fa vivo nessuno. Perché mai? Probabilmente perché quella di Gulotta è una storia “maledetta”. Maledetta come tutte le storie di mafia e di antimafia. A capeggiare il nucleo che tortura e manda Gulotta all’ergastolo, insieme ad altri quattro ragazzi di cui due minorenni, è infatti il colonnello Giuseppe Russo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Russo viene ucciso nel ‘77, l’anno successivo ai fatti di Alcamo che costano la prigione a Gulotta. Anno in cui la sua squadra si macchia di un altro orribile episodio. A seguito della morte del loro capo, ucciso per mano mafiosa a Ficuzza, torturano tre pastori analfabeti. Ma torniamo a Gulotta e alla sua solitudine. Che qualcosa non funzioni viene percepito anche dalla Suprema Corte. Mentre la Cassazione chiede la sua assoluzione, l’avvocatura dello Stato va giù durissima: Gulotta è colpevole, non è mai stato torturato, vi sta prendendo in giro. «Per chi lavorate voi?», sbotta in aula il Procuratore Generale rivolgendosi ai legali dello Stato. Incredibile vero? La Corte condanna l’Avvocatura a una pena pecuniaria, hanno portato avanti una lite temeraria. Soldi pubblici, ovvio (e scusate la retorica). È l’inizio del cortocircuito. Due anni dopo la stessa avvocatura si oppone al risarcimento per l’ex-ergastolano, «non merita nulla, è colpevole». Le sentenze della Cassazione per questi principi del Foro sono evidentemente carta straccia: un colpo di Stato contro lo Stato di diritto. Siete sicuri di essere al sicuro? Per tornare alla nostra storia, il risarcimento per Gulotta arriva ma è parziale: 6 milioni di euro per 22 anni in carcere e 36 di processi. La Corte che lo accorda aggiunge che Gulotta «avrebbe dovuto agire con una tipica azione aquiliana verso i militari responsabili dei fatti di reato che assume essere stati causa della sua ingiusta condanna evocando in giudizio pure i competenti Ministeri con cui quei militari si trovavano in rapporto di immedesimazione organica». E siamo ad oggi. Martedì si apre a Firenze un processo per risarcimento danni, a essere citato è il vertice del Governo: da Conte ai ministri della Difesa e Interno, Guerini e Lamorgese e con loro il Comando generale dell’Arma e i tre carabinieri che operarono abusi e torture. È la prima volta, mai nessuno aveva “osato tanto”. Ma di nuovo per gli avvocati del governo nulla è dovuto. E la faccia feroce che ancora una volta lo Stato mostra a Gulotta riesce anche a piegarsi in un ghigno che in confronto il Marchese del Grillo appare San Francesco. Non solo secondo gli avvocati del governo «non ci sono prove degli abusi», ma ammesso che ci siano stati i reati sono prescritti ( si parla di tortura e prove false, non di una mancata notifica) e quindi è prescritto l’eventuale risarcimento. E si arriva agli insulti in carta bollata e con le stimmate del governo: Gulotta, scrivono gli avvocati di Conte «ha prodotto in questo processo solo carte» per provare il danno ricevuto. E che cosa avrebbe dovuto produrre secondo gli azzeccagarbugli del Governo, fiaschi di vino e stracotto di asino? Attenzione, questo punto riguarda tutti non solo Gulotta. Perché quelle che vengono definite solo “carte” sono sentenze di Cassazione, sentenze di tribunali, indagini compiute da Procure. Come può lo Stato far finta che non esistano, come può negarle? Può capitare a chiunque. Non basta. Secondo l’Avvocatura Gulotta ha già ricevuto “una macroscopica cifra”. Della serie, che cosa vuole ancora? Alzi la mano chi farebbe a cambio, chi baratterebbe la propria vita, 22 anni di carcere e 38 di processi con 5 milioni? E siamo alla fine. Martedì prossimo si apre a Firenze il processo di risarcimento, da una parte una vittima conclamata, dall’altra lo Stato, l’Arma dei Carabinieri, il vertice del Governo. È la prima volta: perché Gulotta, e i suoi avvocati Pardo Cellini e Saro Lauria, sono coraggiosi e testardi. Qualsiasi sia l’entità del risarcimento c’è un principio da ribadire: non siamo sudditi. E se questo fosse un film l’avvocato del popolo Giuseppe Conte si presenterebbe in aula e prenderebbe posto accanto a Giuseppe Gulotta, al cittadino modello Giuseppe Gulotta. Che lo Stato ha lasciato sempre solo. Lo lasceranno solo anche i parlamentari di questo Paese? Sicuri che vogliano arrendersi a un simile abominio?
· I giudici: il “mostro” Brega Massone vittima delle intercettazioni.
I giudici: il “mostro” Brega Massone vittima delle intercettazioni, scrive Simona Musco il 19 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Le motivazioni dei magistrati che hanno tolto l’ergastolo al dottore accusato di aver ucciso pazienti. Brega Massone fu «vittima» di una «semplicistica enfatizzazione mass- mediatica di brani di conversazione». E non voleva uccidere i pazienti che ha operato, proprio in virtù di quell’ «ego smisurato» che l’accusa ha utilizzato contro di lui come prova del contrario. Sono durissime le valutazioni della seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Milano, che ad ottobre scorso ha ridotto le condanne inflitte al cardiochirurgo della clinica “Santa Rita” Pierpaolo Brega Massone e al suo vice Fabio Presicci, riqualificando il reato da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. I due erano accusati per la morte, rispettivamente, di quattro e due pazienti in sala operatoria. Brega Massone, che nel primo appello è stato condannato all’ergastolo, si è visto ridurre la condanna a 15 anni, mentre Presicci da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi. Una sentenza alla quale si è arrivati dopo i dubbi sollevati, a giugno 2017, dalla Cassazione, che ha annullato con rinvio la condanna del primo processo d’appello: per i giudici non si poteva parlare di dolo per le vittime, uccise, secondo l’accusa, da «interventi inutili», effettuati solo per «monetizzare» i rimborsi del sistema sanitario nazionale. Un concetto che il procuratore generale Massimo Gaballo ha ribadito anche nella requisitoria dell’appello bis, definendo gli imputati come «perfettamente consapevoli di non poter dominare il rischio post operatorio». Un’immagine che a Brega Massone è valsa, negli anni, la qualifica di «chirurgo killer». Questo ruolo, secondo il suo avvocato, Nicola Madia, sarebbe stato «costruito accuratamente» dai media, come «un abito su misura, l’abito di un mostro». Tanto che perfino la Rai, nel 2014, aveva programmato per la prima serata di sabato una fiction sul caso, dal titolo «Operazione clinica degli errori». Con al centro di tutto «il mostro» Brega Massone, nonostante le condanne non ancora definitive. Le motivazioni della seconda sentenza d’appello, però, fanno emergere un quadro molto più morbido rispetto a quello rappresentato, negli anni, da accusa e giornali. «Nessuna delle prove raccolte supporta l’ardita ipotesi di morti volontarie» per i pazienti che non sono sopravvissuti agli interventi, «ovvero del loro decesso accettato e messo in conto come tale. Nessuna prova è riuscita a dimostrare – si legge – il dolo eventuale, per la palese insussistenza, in ciascuno dei quattro casi clinici esaminati, di una disponibilità interiore degli imputati, assimilabile ad un atteggiamento psicologico volontaristico, ad accettare l’evento negativo, poi verificatosi». Insomma, «è insostenibile» che il rischio di morte dei pazienti sia stato messo in conto e «accettato» dai medici. Per i giudici è dunque necessario escludere, «con convinzione», la sostenibilità giuridica del dolo, anche quello eventuale, in quanto «in tutti i casi esplorati la complessa realtà volitiva di quest’ultimo coefficiente psichico è, in definitiva, svaporata nella mera accettazione del rischio: espressione tra le più abusate, ambigue, non chiare, dell’armamentario concettuale e lessicale della materia in esame». Un’espressione «di maniera» e «inutile» per discriminare fra dolo e colpa cosciente, laddove è invece necessario «andare alla ricerca della volontà». Nel caso delle morti avvenute nella clinica Santa Rita, scrivono i giudici, «l’indagine si è fermata alla rappresentazione del rischio senza neppure affrontare l’accettazione di un definito evento e, men che meno, la ricerca della volontà o meglio di qualcosa ad essa equivalente nella considerazione umana». E, forse, non è un caso, aggiungono, che tale ricerca «infruttuosa» porti «ad un approdo contrario» a quello ipotizzato dalle accuse. Ma le critiche mosse dai giudici nella sentenza vanno oltre sul piano generale: anche di fronte al «narcisismo» o alla «spregiudicatezza nella sperimentazione scientifica», alla «sete di guadagno o altre spinte emotive» estranee all’esclusivo interesse del malato, sottolineano, «in ogni caso la morte del paziente è sempre, per il medico, un fallimento professionale prima che umano» che, a lungo andare, vanifica «l’obiettivo egoistico perseguito». Il processo e la sua risonanza mediatica, sottolineano i giudici, si sono soffermati soprattutto sulla figura di Brega Massone, dipinto «con la massima severità quale individuo più che come chirurgo». Un medico al quale, anche nel corso del processo, sono state «riconosciute abilità tecniche» pur «ritorcendogliele contro». Ma la spinta «all’eccessivo interventismo» del cardiochirurgo è, principalmente, «sorretta dall’autostima, dalla consapevolezza di sé, da orgogliosa presunzione e perfino megalomania», motivo per cui «non può essere liquidata come improponibile la prospettazione difensiva che pone (ragionevolmente) in dubbio il requisito della rappresentazione e, vieppiù, della volizione». Perché mai rischiare la propria fama, la propria sete di affermazione – si chiedono i giudici – perché opacizzare il proprio successo personale rappresentandosi – ed accettando – la morte dei pazienti, negazione stessa dello scopo perseguito?. Sarebbe stato «illogico e irrazionale», affermano ancora, «perché anche il più cinico e spregiudicato degli operatori si avvede che l’obiettivo di profitto eventualmente perseguito verrà frustrato e negato proprio in ragione del susseguirsi di eventi infausti provocati da interventi inutili o devianti». Brega Massone «è il primo della classe» e la sua vanità non sarebbe disgiunta «dalla voglia di fare bene». Una «passione maniacale» ed uno «stakanovismo» su cui anche i colleghi ironizzano. L’interesse economico e di profitto personale della professione «tanto amata» c’è, «ma non necessariamente in contrapposizione e a sacrificio dei pazienti».
· Armando Riccardo. La camorra lo accusò per vendetta: agente assolto dopo 8 anni.
La camorra lo accusò per vendetta: agente assolto dopo 8 anni. «Pm e Gup avevano creduto ai collaboratori di giustizia e non alle prove schiaccianti delle loro bugie». Ecco la storia di Armando Riccardo, scrive Errico Novi il 20 gennaio 2019 su "Il Dubbio". A Napoli non si è nuovi ad assurdità simili. È nel Palazzo di giustizia di quella città che hanno massacrato Enzo Tortora. E in giorni come questi va anche ricordato come l’infame supplizio inflitto a Enzo sulla base di invenzioni dei pentiti sia cominciato con lo show delle manette ai polsi immortalate da paparazzi convocati per l’evento. Quella del poliziotto Armando Riccardo non è una storia di ostensione del mostro ma con il triste precedente partenopeo ha in comune il potere insensato concesso ai collaboratori di giustizia. Riccardo è stato assolto mercoledì scorso dall’accusa di aver preso tangenti dalla camorra di Secondigliano. Otto anni di procedimento penale, quasi 18 trascorsi dall’epoca dei presunti reati. Più che presunti, inventati di sana pianta dai pentiti. I capi di imputazione, risalenti al 2001, si fondavano tutti sul racconto di malavitosi, secondo i quali l’ex “falco” della Questura di Napoli, oggi 44enne, avrebbe ottenuto cifre fino a 20 milioni di lire per occultare prove dello spaccio e omettere controlli. Risultato: l’agente, all’epoca già insignito da qualcosa come 32 encomi solenni, protagonista di attività investigative importantissime tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, ha visto intanto andare in pezzi vita privata e carriera. Ora è alla Polfer a Roma. Si è separato della moglie, ha fatto i conti con «gravi problemi economici», come ha raccontato al Corriere del Mezzogiorno. Difficile non considerare discutibili le scelte della Procura di Napoli e del gup che nel 2010 lo rinviò a giudizio, nonostante il suo difensore, Paolo Abenante, avesse portato prove granitiche e ridicolizzato le menzogne dei collaboratori di giustizia. Il virus delle false accuse ad Armando Riccardo si diffonde dopo che nel ’ 99 l’allora “falco” della questura arresta 99 affiliati ai clan di Secondigliano. Una botta memorabile a quella che già all’epoca era la più importante piazza di spaccio del Mediterraneo. Roba da fare carriera. Ancora oggi i suoi capi di allora, tra i quali l’attuale questore di Napoli Antonio De Iesu, lo ricordano come un «poliziotto implacabile». Tra i meriti sul campo c’è anche quello di aver individuato in un giovane camorrista, Rosario Privato, uno dei responsabili della morte di Silvia Ruotolo, la mamma uccisa da un proiettile vagante, nel ’ 97 al Vomero, in un regolamento di conti fra spacciatori. Il livello e il valore delle azioni paradossalmente incoraggiano i pentiti a sceglierlo come bersaglio. Forse con il concorso dei veleni che arrivano al poliziotto dal suo stesso fronte. Nel 2006 scova in un garage 8 chili di droga: il titolare però è cognato di un altro agente della narcotici. E sarà proprio quest’ultimo a presenziare alle “rivelazioni” di alcuni dei pentiti che infangano Riccardo. I primi guarda caso vengono dal rione Monterosa, cuore di Scampia. Fantasticano di una tangente da 20mila euro pagata dal potente clan Prestieri, “guardiaspalle” dei Di Lauro, in modo che Riccardo facesse sparire delle foto che provavano i traffici. I pm gli credono e ottengono dal giudice la misura cautelare in carcere. Quindici giorni a Santa Maria Capua Vetere. L’avvocato Abenante, che ancora oggi difende il poliziotto, ottiene subito l’annullamento dal Riesame: gli indizi di colpevolezza non esistono. Ma è un segnale: ci sono giudici che credono a occhi chiusi ai pentiti, anche se altri non ci cascano. Finisce che nel 2010 il gup di Napoli rinvia l’agente a giudizio per “corruzione con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa”. «Eppure», racconta Abenante, «già in quell’udienza preliminare esibiamo prove che smontano tutto. Testimonianze e documenti dimostrano che il giorno della consegna della presunta tangente da 20 milioni Riccardo è altrove, impegnato in altra operazione insieme con un collega diverso da quello ritenuto suo correo nel fantomatico traffico col clan Prestieri. Rispetto ad altre testimonianze di altri collaboratori di giustizia, sempre risalenti ai primi anni Duemila, viene fuori che il tempo in cui i pentiti collocano il pagamento di tangenti a Riccardo da parte dei clan corrisponde a un’epoca in cui il mio assistito non solo non è ancora arruolato in polizia, ma risulta addirittura minorenne». Menzogne palesi. Eppure il giudice dell’udienza preliminare crede ai pentiti. Il dibattimento inizierà in ritardo. Alla fine trascorrono 8 anni prima di arrivare all’assoluzione di lunedì scorso. Con la formula «perché il fatto non sussiste», fa notare l’avvocato. Come si spiega un così grave errore di Procura e gup? «I collaboratori sono a caccia di menzogne», nota Abenante. «Vengono lautamente stipendiati. E ogni racconto falso prolunga tale condizione. Ma soprattutto», osserva con amarezza il difensore, «si tende a ribaltare il principio, sancito dal codice e dalla Cassazione, per cui andrebbe presunta l’inattendibilità del pentito. Avviene il contrario: è dell’accusato che ormai si dà per acquisita l’inattendibilità, anche quando fornisce prove certe come nel nostro caso». Chiederà risarcimento per ingiusta detenzione, Armando Riccardo. «Devolverò la somma in beneficenza», dichiara. E chiederà al ministro dell’Interno Salvini di intervenire affinché venga subito archiviato il procedimento disciplinare che gli ha bloccato la carriera. «Rivoglio l’onore», spiega. Che forse è il sistema di gestione dei pentiti a non meritare.
· Cosimo Commisso. «Non uccise nessuno né ordinò gli omicidi».
«Non uccise nessuno né ordinò gli omicidi». Assolto dopo 26 anni. All’assoluzione si è arrivati a seguito di due annullamenti con rinvio da parte della Cassazione, scrive Simona Musco il 12 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Ventisei anni dopo l’arresto, 20 dopo la condanna, Cosimo Commisso, classe ’ 50, alias “u quagghjia”, non è più il mandante di quegli omicidi che gli erano costati l’ergastolo. Ora è libero. Una sentenza clamorosa quella della Corte d’appello di Napoli, che, come riporta Gazzetta del Sud, ha annullato la condanna all’ergastolo pronunciata dalla Corte di assise d’appello di Reggio Calabria il 24 luglio 1998, diventata definitiva il 12 maggio 1999 «per non aver commesso il fatto». Commisso era ritenuto mandante di cinque omicidi e tre tentati omicidi tra il 1989 e il 1991, quando a Siderno, nel cuore della Locride, era in corso la sanguinosa faida tra i Commisso e i Costa. Ogni omicidio, secondo la sentenza “Siderno Group”, «è stato realizzato in attuazione di un programma di eliminazione dei componenti il clan avversario, previa individuazione delle vittime e degli esecutori materiali da parte dei capi delle rispettive consorterie», ovvero Cosimo Commisso e Giuseppe Costa, leader del clan rivale e, oggi, collaboratore di giustizia. Erano loro due, secondo le sentenze, i «capi delle rispettive organizzazioni» e avevano agito facendo prevalere «le motivazioni dell’odio su ogni barlume di umanità», perché, diceva Costa, «la guerra è guerra». Un ruolo di vertice che, a Commisso era stato riconosciuto grazie anche alle dichiarazioni di numerosi pentiti – sette nel corso del processo e, più avanti, a condanna già avvenuta, anche da Costa – «i quali avevano ricostruito la linea di successione nel ruolo di capocosca dal 1975 in poi siccome attribuito, dopo l’uccisione di Antonio Macrì, dapprima a Francesco Commisso, quindi a Vincenzo Commisso» e poi al “quagghjia”. All’assoluzione si è arrivati a seguito di due annullamenti con rinvio da parte della Cassazione. L’ennesimo ricorso in Cassazione ha portato Commisso davanti ai giudici di Napoli, dove i giudici hanno assolto Commisso, basandosi sulle nuove prove. Fino al 1987 c’erano solo loro, i Commisso, al cui interno i Costa avevano operato, fino ad un certo punto, solo come affiliati, occupandosi del traffico di droga, il cui ricavato veniva reinvestito dai Commisso nel controllo degli appalti pubblici a Siderno. Alcuni contrasti, però, minarono il rapporto tra le “famiglie”, fino allo scontro armato: i Commisso accusarono i Costa di aver intrapreso iniziative autonome. Il casus belli fu rappresentato da un furto d’armi a casa di Cosimo Commisso, attribuito proprio ai rivali, che pagarono con la morte di Luciano Costa, fratello di Giuseppe, massacrato il 21 gennaio 1987. Quella morte comportò la rottura definitiva degli equilibri ed una successione vertiginosa di fatti di sangue. Lo scontro, però, si rivelò ben presto impari: pochi gli uomini dei Costa, un esercito quello dei Commisso, che hanno così decimato gli avversari, che hanno contato 26 morti su 34 omicidi complessivi. La richiesta di revisione. Grazie ad un memoriale lungo 150 pagine, nel 2015, Commisso è riuscito ad ottenere la revisione del processo. «Non è seriamente sostenibile – si leggeva nella sentenza di condanna – che un delitto eccellente come quelli in questione fosse stato deliberato da persona collocata in posizione men che verticistica della gerarchia mafiosa del clan». In quanto capocosca, dunque, Commisso non poteva non sapere. Ma le prove che le cose siano andate così, aveva stabilito la Cassazione pronunciandosi sulla revisione, vanno rintracciate con assoluta certezza. Al “quagghjia” erano stati attribuiti il duplice omicidio di Giordano Donato e Massimiliano Costante, il tentato omicidio e l’omicidio di Giuliano Costa, i tentati omicidi di Giuseppe Costa e Gandolfo Cascio, e gli omicidi di Vincenzo Costa e Vincenzo Filippone. Inizialmente l’accusa gli aveva contestato 20 morti e 15 tentati omicidi che però, secondo Commisso e i suoi legali, potevano avere moventi diversi. Tra questi c’è l’omicidio del carabiniere- killer Giordano, trovato morto sulla Limina, assieme a Costante, il 17 luglio del 1991, quasi decapitato, su una Lancia Thema in fiamme. Giordano, killer a pagamento della famiglia Costa, sarebbe morto per aver ucciso Luciano Commisso, fratello di un altro Cosimo Commisso, classe ’ 54, freddato sul lungomare di Siderno. Nonostante il legame di parentela fosse blando, per i giudici Luciano e “u quagghjia” avevano un rapporto molto più intimo, motivo per cui poteva esser stato lui ad ordinare quella vendetta. Ma Giordano era vicino anche al clan Cataldo di Locri, ritenuto alleato dei Costa, elemento, questo, che per i legali poteva inserire la sua morte in un altro possibile contesto di vendetta.
· La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa.
La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa. Aveva 19 anni quando il 3 maggio 1983 la madre del suo allora fidanzato l’accusò di averle portato via due banconote dalla borsetta in casa. Riabilitazione impossibile, deve rinunciare agli incarichi nell’Organismo di vigilanza, scrive Luigi Ferrarella il 2 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Fa la manager e a 55 anni vorrebbe entrare nell’Organismo di vigilanza (Odv) di una impresa di costruzioni che fattura alcuni milioni di euro. Ma non ci riesce. Perché da 35 anni resta ostaggio di due banconote da 50.000 lire che avrebbe rubato nel 1983 alla madre dell’allora suo fidanzato. Ostaggio dell’impossibilità di ritrovare adesso quella mancata suocera. E ostaggio quindi della macchina burocratica che, per legge, continua tuttavia a pretendere, per poterle riconoscere l’istituto giuridico della «riabilitazione» e dunque la cancellazione della condanna per furto, la prova dell’oggi impossibile risarcimento di quelle banconote all’allora derubata (e oggi introvabile) parte civile. La «riabilitazione», istituto alla ribalta nel maggio scorso quando se ne avvalse Silvio Berlusconi dopo aver espiato ai servizi sociali la condanna a 4 anni per frode fiscale, permette al condannato — se siano passati tre anni e abbia manifestato ravvedimento, mantenuto buona condotta e risarcito i danni — di ottenere la cancellazione dei reati dal casellario giudiziario e quindi l’estinzione delle pene accessorie. È quello che servirebbe alla 55enne manager quando nel 2017 sta per entrare nell’Odv di una impresa e si accorge di non potere perché dal passato riemerge un dato ostativo: quella condanna per furto sul casellario giudiziario. Aveva 19 anni quando il 3 maggio 1983 la madre del suo allora fidanzato l’accusò di averle portato via dei soldi dalla borsetta in casa, soldi che invece nella sua difesa erano la compensazione di un dare e avere con il ragazzo. Costui però al processo non l’aveva confermato, e in sentenza il giudice estensore Antonio Nova aveva condannato il 10 luglio 1984 l’imputata a 10 mesi di reclusione per furto e 500.000 lire di multa, pena sospesa dalla condizionale. Vuoi per la giovane età, vuoi per l’inesperienza, la donna aveva perso consapevolezza del prosieguo processuale della condanna, che era diventata definitiva poco dopo, il 5 marzo 1985. Nella primavera 2017, per entrare nell’Odv, le serve appunto cancellarla dal casellario. E domanda quindi la riabilitazione al Tribunale di Sorveglianza, che però la boccia perché «l’interessata non ha fornito prova dell’avvenuto risarcimento del danno». La donna, tramite l’avvocato Piergiorgio Weiss, spiega allora che la mancata suocera (con la quale non aveva più avuto alcun rapporto) in quel 1984 si era sì costituita parte civile e aveva ottenuto dal Tribunale il titolo al risarcimento dei danni, ma in seguito non glieli aveva mai chiesti; e, soprattutto, che a distanza di oltre un trentennio non si ha la più pallida idea di dove rintracciarla. Decide allora di fare una donazione a un ente di ricerca contro il cancro, ma i giudici la ritengono bassa. Allora la raddoppia, portandola a 400 euro (a fronte del controvalore delle due banconote da 50.000 lire), ma di nuovo il Tribunale solleva il problema della mancata ricerca anagrafica della parte civile. È un adempimento impossibile, protesta la manager, perché anche l’Anagrafe, consultata, risponde di non sapere indicare l’eventuale nuovo domicilio in assenza almeno di data e luogo di nascita della signora, di cui la condannata conosce però solo nome e cognome in quanto ulteriori dati non figuravano nemmeno sulla sentenza di condanna di 34 anni fa. E alla fine, per la gioia dei paradossi burocratici e dei casi buffi della vita, la manager si arrende. Addio agli Organismi di vigilanza delle imprese. E convivenza forzata, invece, con l’ineliminabile peso delle banconote da 50.000 lire di 34 anni fa.
· Strage di Erba e la revisione della sentenza.
Strage di Erba, indagato Azouz: calunnie verso Olindo e Rosa. Azouz Marzouk avrebbe accusato ingiustamente i coniugi Romano di aver fatto confessioni mendaci: Olindo e Rosa sono in carcere in quanto, secondo la giustizia, sono autori della strage di Erba perpetrata nel dicembre 2006. Marco Della Corte, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. Azouz Marzouk risulta essere indagato per aver ingiustamente calunniato i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, autori secondo la giustizia della strage di Erba del 2006. Questo è avvenuto nel corso della sua istanza di revisione della sentenza di condanna all'ergastolo per la coppia, presentata lo scorso aprile. Azouz, che nel corso della strage perse moglie, figlio e suocera, aveva messo in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa, ma in tal modo avrebbe tecnicamente affermato che i coniugi Romano dichiararono informazioni mendaci. Come leggiamo dall'Ansa è stato il pm Giancarla Serafini a chiedere il rinvio a giudizio per Azouz Marzouk. L'uomo avrebbe incolpato ingiustamente Olindo e Rosa del reato di autocalunnia, nonostante fosse consapevole della loro presunta innocenza. Questo nonostante in un primo momento lo stesso Azouz avesse ammesso la colpevolezza dei coniugi Romano in seno alla strage di Erba, che vide la morte di quattro innocenti "con dichiarazioni rese in sede di interrogatorio il 10 gennaio 2017 dinanzi al pubblico ministero della Procura di Como". Dopo quanto avvenuto, Azouz rischia ora di dover affrontare un processo a suo carico. Secondo quanto ricostruito dalle indagini, l'11 dicembre 2006, Olindo e Rosa uccisero a colpi di martello e a sprangate Raffaella Castagna, il figlioletto Yousseff, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Scampò miracolosamente alla morte il marito di quest'ultima, Mario Frigerio, i cui aggressori credettero morto. L'uomo si salvò grazie ad una malformazione congenita alla carotide. Subito dopo la strage, l'abitazione teatro del delitto fu data alle fiamme dagli stessi assassini. I coniugi Romano sono stati dichiarati definitivamente colpevoli dei precitati omicidi dalla corte suprema di cassazione di Roma in data 3 maggio 2011. Rosa e Olindo stanno attualmente scontando la pena dell'ergastolo.
Erba, Cassazione: «Vizio di forma, rivalutare richiesta di nuove indagini della difesa». Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it. Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all’ergastolo per la strage di Erba, segnano un punto a loro favore: per un vizio di forma, infatti, la Cassazione ha deciso di rimandare ai giudici della Corte di Assise di Como l’istanza con cui la difesa aveva chiesto nuovi accertamenti. I giudici di Como, lo scorso aprile, si erano opposti alle richieste di accesso ai server delle intercettazioni e a quelle di acquisire un cellulare Motorola ed esaminare dei reperti biologici. Ma la decisione era stata emessa senza contraddittorio tra le parti. Adesso la Corte di merito dovrà rivalutare le istanze convocando le difese. Secondo i giudici di Como, le richieste dei legali della coppia omicida sono immotivate e inutili «a distruggere l’impianto su cui è fondata» la condanna definitiva.
Le Iene il 13 settembre 2019. Accolta la richiesta dei legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all'ergastolo per la strage di Erba, dopo il no in aprile dei giudici di Como a nuovi accertamenti su alcuni reperti mai analizzati. Il Tribunale del capoluogo lombardo dovrà fissare un’udienza per discuterne. La Cassazione dice sì agli avvocati di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all’ergastolo per la strage di Erba. Il tribunale di Como dovrà discutere in un’udienza la loro richiesta di nuovi accertamenti su alcuni reperti mai analizzati dopo i 4 omicidi dell'11 dicembre 2006 (vennero uccisi Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini). Sarà la Corte d’assise di Como a dover fissare l’udienza per valutare se possano essere avviati o meno nuovi accertamenti. È l’ultimo sviluppo del caso che abbiamo seguito con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sviluppata con numerosi servizi e uno Speciale (qui sopra potete vedere il servizio che abbiamo dedicato proprio al no dei giudici di Como in aprile alla richiesta). È l’ennesimo colpo di scena in una storia fatta di molte sentenze e controsentenze tra Cassazione, Tribunale di Como e di Brescia. Si pensava che reperti che la difesa di Rosa Olindo ora vorrebbe fossero andati distrutti. Poi sono stati fortuitamente ritrovati all’interno di alcuni scatoloni e plichi. Sempre al Tribunale di Como, presso l’ufficio corpi di reato a seguito di un riordino degli archivi. Tra questi reperti ci sarebbero campioni biologici trovati sul luogo della strage e un vecchio telefono cellulare. "Nel nostro ricorso avevano chiesto che si tornasse davanti ai giudici di Como perché la loro precedente decisione era stata presa senza contraddittorio delle parti. Ora sarà fissata un'udienza che noi potremo chiedere sia anche pubblica", dice l'avvocato Fabio Schembri che difende Rosa e Olindo. Nei mesi scorsi la Corte d’assise di Como, nel documento che potete leggere per intero a questo link, spiegava che la decisione sulle eventuali nuove analisi dei reperti rimasti doveva tornare alla Corte di Cassazione, appellandosi a un’altra sentenza che non riguarda la strage di Erba. Ora il nuovo sviluppo che potrebbe finalmente fare chiarezza su questi reperti mai analizzati.
Strage di Erba, la Cassazione riapre il caso: atti a Como per i reperti “dimenticati”. I legali di Olindo e Rosa pronti a chiedere la revisione. Simona Musco il 14 Settembre 2019 su Il Dubbio. La storia della strage di Erba potrebbe essere riscritta. E per farlo sarà necessario stabilire se analizzare o meno le prove finora ignorate, che secondo la difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romani potrebbero raccontare un’altra verità su quanto accaduto l’ 11 dicembre 2006. A deciderlo è stata ieri la prima sezione penale della Cassazione, che ha accolto per vizio di forma il ricorso presentato dai legali dei coniugi contro il no pronunciato dai giudici di Como lo scorso aprile alla richiesta di procedere con nuove analisi. E ora la Corte d’assise della città lombarda dovrà fissare un’udienza, a cui tutte le parti potranno partecipare, per decidere se possano essere avviati o meno tali accertamenti. Una storia ancora caratterizzata da dubbi e incertezze, nonostante la sentenza definitiva pronunciata il 3 maggio 2011 che stabilì la colpevolezza di Rosa e Olindo. Nella strage, consumata nell’appartamento di una corte ristrutturata ad Erba, persero la vita Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, si salvò perché creduto morto dagli assalitori. Dopo quell’efferato delitto, l’appartamento venne dato alle fiamme, nel tentativo di cancellare ogni traccia. Ma qualcosa, secondo la difesa, è rimasta negli scatoloni troppo a lungo, pur potendo risultare decisivo per stabilire la verità dei fatti. Si tratta, in particolare, di alcune intercettazioni su Frigerio e i coniugi mai entrate nel processo, sparite, ma recuperabili con un accesso al server della procura. Intercettazioni la cui assenza ha lasciato un buco di una settimana nei dialoghi finiti nel processo. Ma tra le prove mai analizzate ci sono anche un telefono cellulare, formazioni pilifere rinvenute sulla felpa del piccolo Youssef mai esaminate, dei margini ungueali, macchie di sangue e un’impronta palmare che non appartiene né agli imputati, né alle vittime o ai soccorritori e attribuita ad un soggetto sconosciuto alle indagini. Prove che la difesa vuole invece analizzare, con lo scopo di completare e depositare una richiesta di revisione del processo. Ieri, dunque, la Cassazione ha qualificato il ricorso come opposizione, trasmettendo di nuovo gli atti alla Corte d’assise di Como, che ora dovrà decidere il da farsi, dopo quattro anni di richieste, durante le quali tutti i tentativi della difesa sono rimbalzati tra Como, Brescia e Roma più volte. Lo scopo degli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico D’Ascola è quello di fare degli accertamenti tecnici sui reperti, richiesta sulla quale i giudici di Como prima e quelli di Brescia poi si sono dichiarati incompetenti. La questione è approdata dunque in Cassazione la prima volta nel 2017, quando gli Ermellini hanno indicato Brescia come sede e l’incidente probatorio come istituto processuale. Ma dopo una prima udienza a Brescia, durante la quale era stato fissato il calendario per la nomina dei periti, l’istanza di incidente probatorio è stata dichiarata a sorpresa inammissibile. «Abbiamo così proposto un ulteriore ricorso in Cassazione – spiega Schembri al Dubbio – e il 12 luglio 2018 i giudici si sono pronunciati, rigettando. Ma ancora prima della decisione, quella stessa mattina, un cancelliere dell’ufficio corpi di reato di Como si è recato all’inceneritore, distruggendo buona parte di reperti, nonostante due provvedimenti dell’autorità giudiziaria che sospendevano la distruzione». La Cassazione, rigettando la richiesta di incidente probatorio, aveva però specificato che era diritto della difesa «la possibilità di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova anche al fine di promuovere il giudizio di revisione», ma attraverso l’accertamento tecnico irripetibile e quindi in contraddittorio tra le parti. E a farlo doveva essere la Corte d’assise di Como. Da qui la nuova richiesta di poter analizzare i reperti, di nuovo rigettata dal tribunale, che ha però chiesto un intervento della Suprema Corte per fare chiarezza sui poteri del giudice dell’esecuzione. Allo stesso tempo, la difesa aveva fatto un’opposizione al provvedimento con richiesta di fissazione di un’udienza pubblica. E così si è arrivati alla decisione di ieri, che potrebbe presto portare ad una richiesta di revisione. Il tutto mentre si attende di conoscere come sono andati i fatti che hanno portato alla distruzione delle prove lo scorso anno, ovvero una tenda in casa Cherubini, dei cuscini, un cellulare mai analizzato – e poi riapparso senza spiegazione in un plico aperto – dei mazzi di chiavi, un accendino e alcuni indumenti delle vittime, anche quelli in buona parte mai analizzati. «Dopo la confessione di Olindo e Rosa – ha spiegato ancora Schembri – forse non si ritenne opportuno insistere con le indagini esaminando altro materiale». Ma da tempo i legali dei coniugi – che continuano a professarsi innocenti – e il marito di Raffaella Castagna, Azouz Marzouk, che recentemente ha dichiarato di conoscere i nomi dei veri assassini, chiedono la riapertura del caso, provando a ridisegnare i contorni di una storia definita da tre gradi di giudizio, terminati tutti con la condanna all’ergastolo di Rosa e Olindo. Alla base della condanna c’erano tre prove: una macchia di sangue nell’auto di Olindo, la prima confessione dei due – poi ritrattata – e il riconoscimento del testimone oculare, Mario Frigerio. Ma la vicenda cristallizzata dai tribunali, secondo Azouz, inizialmente sospettato ma scagionato perché in Tunisia al momento del delitto, non racconterebbe la verità. Così, su sua richiesta, l’avvocato Luca D’Auria ha presentato nei mesi scorsi al Tribunale di Milano un sollecito per la richiesta di revisione del processo sulla strage di Erba. «Le carte dicono chi è stato», ha dichiarato Azouz a Telelombardia, secondo cui i veri responsabili sono entrati a processo «da testimoni». Secondo Schembri, inoltre, i tre gradi di giudizio sarebbero stati caratterizzati da una serie di imprecisioni. A partire dalle confessioni, «zeppe di errori», ha spiegato. «Anche la sentenza dice che Rosa è delirante, così come la confessione di Olindo contiene 243 tra errori, “non so” e “non ricordo”». Una confessione, sostiene la difesa, determinata dalla volontà dei due di non separarsi, così come invece paventato dagli investigatori. «C’è un’intercettazione ambientale in cui Olindo dice a Rosa di voler confessare per prendersi la responsabilità e farla tornare a casa. Ma lei risponde che non c’è nulla da confessare, dal momento che sono innocenti – ha aggiunto – per poi essere la prima a farlo e far partire una gara a chi si assume le responsabilità che finisce con una ritrattazione». E anche la testimonianza di Frigerio, secondo il legale, sarebbe poco attendibile: nei primi 15 giorni, infatti, l’uomo aveva indicato un soggetto sconosciuto, di carnagione olivastra, non del posto. C’è poi un altro dato, l’assenza di tracce di Olindo e Rosa sulla scena del crimine, né delle vittime nella casa dei coniugi. Mentre la macchia in auto di Olindo, «potrebbe essere frutto di una contaminazione da parte degli stessi carabinieri, che potrebbero averla trasportata dalla scena del crimine alla macchina – aggiunge Schembri – tant’è non vi sono altre tracce e non esiste una foto della stessa della rilevazione col luminol» .
Strage di Erba: la storia dell'inchiesta su Rosa e Olindo. Dalla strage dell'11 dicembre 2006 con 4 morti alla battaglia processuale contro i due presunti responsabili. Giorgio Sturlese Tosi il 13 settembre 2019 su Panorama. Torna in aula la strage di Erba. Per un vizio di forma la Corte di Cassazione, accogliendo la richiesta dei difensori di Rosa Bazzi e Olindo Romano, ha rimandato alla Corte di Appello di Como il compito di fissare un’udienza per decidere se ammettere nuovi accertamenti, in contraddittorio tra le parti di accusa e difesa, su alcuni profili biologici mai analizzati e repertati nell’appartamento di via Diaz, a Erba, in cui l’11 dicembre del 2006. morirono Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la mamma Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini mentre il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, rimase gravemente ferito. Ma, nuovi accertamenti a parte, la vicenda giudiziaria, nonostante le sentenze all’ergastolo, è destinata a riaprirsi: “"Al di là dei reperti – ha affermato il legale di Rosa e Olindo, l’avvocato Fabio Schembri a margine della decisione della Suprema corte - noi comunque presenteremo una richiesta di revisione del processo”. La sera dell’11 dicembre 2006 i vigili del fuoco intervengono per spegnere il fuoco in un appartamento di via Diaz, a Erba. Domato l’incendio, entrano nella casa e trovano quattro cadaveri e un ferito grave. Sono Raffaella Castagna, 30 anni; suo figlio Youssef Marzouk, 2 anni e tre mesi; la madre Paola Galli, 57 anni; la vicina di casa Valeria Cherubini, 55 anni. Il sopravvissuto si chiama Mario Frigerio, ha 65 anni ed è il marito della Cherubini. L’assassino lo ha sgozzato ma non poteva sapere che il signor Frigerio ha una malformazione congenita: la carotide non viene recisa e lui si salva. Quando sarà in grado di parlare - con un sibilo pieno di rabbia, fatica e amarezza - sarà l’unico testimone oculare di quel che è accaduto quella sera. Azouz Marzouk, 26 anni, marito di Raffaella, diventa il sospettato principale anche per i precedenti penali per droga. Ma Azouz, si cpre presto, è in Tunisia. La svolta arriva meno di un mese dopo. L’8 gennaio 2007 Rosa Bazzi e Olindo Romano, che vivono nella stessa corte della strage, vengono fermati e portati in carcere. Le liti condominiali che la coppia aveva con le vittime della strage erano note e a giorni sarebbero culminate in un’aula di tribunale. I due coniugi sostengono di avere un alibi: quella sera erano a cena in un fast food di Como. Agli inquirenti esibiscono lo scontrino che lo dimostra. Ma c’è uno scarto di due ore, compatibile con gli omicidi. Tra gli indizi contro di loro, in fase di indagine, l’accensione della lavatrice dopo l’incendio, alcune tracce sospette sui loro indumenti e una macchiolina di sangue maschile sul tappetino della loro auto che le analisi dimostreranno appartenere a Mario Frigerio. Due giorni dopo il fermo, il 10 gennaio 2007, sia Rosa Bazzi che Olindo Romano, pur con differenti versioni, confessano i delitti. Poi ritratteranno dicendo di essersi inventati tutto, ma restano in carcere. Un anno dopo, il 29 gennaio 2008 inizia il processo. La procura ritiene che la coppia abbia agito intorno alle 19. Armati di coltello e spranga, entrano nell’appartamento di Raffaella Castagna, la prima ad essere colpita. Poi si rivolgono alla madre, Paolo, e infine al piccolo Youssef, ucciso nel suo lettino. Quindi danno fuoco all’appartamento per cancellare le tracce. Un grido attirano i vicini: Valeria Cherubini e il marito Mario Frigerio scendono a vedere e si imbattono negli assassini. Rosa uccide la donna, Olindo accoltella alla gola l’uomo. Che dopo una lunga convalescenza riconosce in Olindo il suo aggressore. La sentenza arriva il 26 novembre 2008. Ergastolo per entrambi. Confermato in appello e in Cassazione. Rosa e Olindo, dalle carceri di Opera e Bollate, continuano a dichiararsi innocenti. Da anni gli avvocati difensori della coppia si battono per ribaltare le sentenze, adducendo imprecisioni, incongruenze, lacune e omissioni investigative. In particolare puntando sulla assenza di tracce degli assassini sul luogo del delitto (l’appartamento era stato letteralmente allagato dai vigili del fuoco impegnati a spegnere l’incendio e la scena del crimine era stata compromessa dall’ingresso dei soccorritori) e sulla ritardata testimonianza di Mario Frigerio che, sul letto dell’ospedale e incalzato da un investigatore, aveva più volte affermato che non era stato assalito da Olindo. Lo stesso Frigerio, deceduto nel 2014, al processo, aveva poi più volte affermato di essere certo di riconoscere Olindo Romano nell’assassino. La decisione della Cassazione potrebbe ora portare alla riapertura del caso.
Da Radiocusanocampus il 20 settembre 2019. Strage di Erba. La Cassazione nei giorni scorsi ha accolto la richiesta dei legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all’ergastolo, di trasmettere alla Corte d’Assise di Como la richiesta di nuovi accertamenti: sui server delle intercettazioni ambientali, su un cellulare Motorola e su numerosi reperti biologici rinvenuti sulla scena del crimine. I giudici ora dovranno fissare un'udienza pubblica, per decidere se possano essere avviati o meno nuovi accertamenti sulla strage in cui l'11 dicembre 2006 trovarono la morte: Raffaella Castagna, suo figlio di due anni Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Se ne è parlato a “La Storia Oscura” su Radio Cusano Campus. E’ intervenuto anche Azouz Marzouk, all’epoca dei fatti marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef. Tornato in Italia dopo un periodo in Tunisia quasi da “esiliato”, Azouz Marzouk ha messo in piedi un team di esperti e consulenti per cercare di far luce sulla strage di Erba. Al microfono di Fabio Camillacci, Azouz Marzouk ha detto: “Sono voluto tornare in Italia per cercare la verità, per cercare di vincere un’altra battaglia. Ho voluto creare questo team di esperti e consulenti per far chiarezza sulla strage di Erba e avere l’opportunità di poter riaprire questo caso pieno di dubbi e lati oscuri. E’ giusto che si facciano nuove indagini: ecco perché ho chiesto loro di approfondire tutte le piste alternative che all’epoca non furono seguite, anzi furono proprio ignorate. Io ho una mia idea su chi siano i veri assassini, ma lo dirò solo nelle sedi opportune. Quando me lo chiederanno, quando verrò ascoltato come ho chiesto, sicuramente lo dirò; ho presentato una richiesta ben precisa tramite il mio avvocato. E sarò presente anche all’udienza pubblica che la Corte d’Assise di Como dovrebbe fissare a breve come chiesto dalla Cassazione. Perché credo che ci sia del dolo nei tanti errori commessi sia durante le prime indagini, che durante i vari gradi di giudizio. E tutte le strane cose accadute negli ultimi tempi confermano questo mio pensiero. Non può essere un caso che alcuni reperti importanti trovati sulla scena del crimine siano stati inopinatamente bruciati proprio nel giorno in cui la Corte di Cassazione era chiamata a pronunciarsi. Ma ci sono troppi lati oscuri: se tre indizi fanno una prova, in questo caso gli indizi sono più di tre. E la conferma sta nel fatto che tutti noi indagati fummo catechizzati per indirizzare le indagini in un certo modo contro Olindo e Rosa. E tutto questo -ha aggiunto Azouz Marzouk- è stato fatto prima dei processi, niente è stato fatto dopo: è stato tutto preparato. Inoltre, ricordo bene che ai difensori dei coniugi Romano fu impedito di fare ulteriori accertamenti. Basta leggere bene le carte dei processi per capire che all’ergastolo ci sono due innocenti. Pertanto, mi auguro si possa arrivare a una revisione del processo grazie ai nuovi elementi e ai nuovi reperti acquisiti dalla difesa. Sicuramente il riconoscimento di un errore giudiziario farebbe onore alla giustizia italiana: sarebbe peggio se chiudessero ancora gli occhi e lasciassero così le cose. Riconoscere i propri errori è da signori non da deboli. Vorrei chiudere precisando che io non sto chiedendo di scarcerare Rosa e Olindo ma di fare finalmente chiarezza sui tanti lati oscuri di questa brutta storia”.
Da “Telelombardia” il 13 settembre 2019. Di seguito uno stralcio delle dichiarazioni di Azouz Marzouk rilasciate in esclusiva ieri sera durante la diretta della trasmissione “Iceberg Lombardia” in onda dalle 20.30 alle 23 su Telelombardia. Dopo 8 anni passati in Tunisia, si tratta della prima partecipazione di Azouz Marzouk a una trasmissione televisiva in studio dal suo rientro in Italia».
È tornato in Italia per chiedere l’eredità di sua moglie Raffaella Castagna?
«Sicuramente tutto quello che mi spetta lo chiederò, quello sicuro. Non credo sia uno scandalo pensarci, se mi spetta qualcosa me la prenderò e basta. Ho già incaricato qualcuno per capire com’è la situazione. Io non capisco cos’è la cosa brutta di uno che… Se mi spetta una parte di eredità perché non prenderla. Non credo sia una cosa grave questa. Se mi spetta una parte dell’eredità di mia moglie, non credo ci si debba scandalizzare».
Perché all’epoca non è andato in aula a raccontare la sua verità?
«Mi hanno consigliato di stare zitto, sono stati I miei avvocati dell’epoca. Ero in carcere e mi avevano dato l'espulsione, quindi ho preferito non dire nulla. Avevo il timore di essere espulso direttamente dal carcere. Mi hanno detto di rinnegare tutto. E così purtroppo ho fatto. Tornato in Tunisia mi sentivo in colpa per non aver detto quello che pensavo allora».
Ha in mente nomi e cognomi di chi – secondo lei – avrebbe compiuto la strage?
«Ho un'idea e non posso dire chi secondo me ha fatto quella strage. Ho nomi e cognomi precisi. Stiamo facendo indagini a 360 gradi, anche su Rosa e Olindo. Quando sarò chiamato da un magistrato dirò i nomi che ho in mente... Più di una persona, in tanti comunque. Sto leggendo i verbali, quando parlo è perché li ho letti e so benissimo cosa c’è scritto. Io sto facendo chiarezza su tutto. Ho dato mandato ai miei consulenti di indagare anche sulla pista della droga a cui io non credo, al momento i miei esperti non stanno indagando sui fratelli Castagna, se ci saranno delle contraddizioni indagheremo su di loro».
Perché secondo lei Rosa e Olindo hanno confessato?
«Sono convinto che Rosa e Olindo non c'entrino nulla. La mia battaglia è quella di far avere giustizia a tutte e quattro le vittime della strage. Quando ti trovi con le spalle contro il muro e non hai nessuno puoi arrivare a confessare e io l'ho vissuto sulla mia pelle. Ho fatto il carcere da innocente. Io ho patteggiato una condanna per spaccio... Che non avevo mai fatto. Non sono mai stato uno spacciatore. Voi non sapete cosa succede quando si è in carcere, la realtà è tutt'altra rispetto a quello che vediamo nei film. Ho patteggiato una colpa che non ho mai commesso. Semmai a spacciare erano i miei familiari, io lo ripeto, non ho mai spacciato in vita mia. E ora sono pronto a chiedere la revisione anche di quei processi. Il timbro di spacciatore non lo sopporto più perché non ho mai spacciato».
Perché oggi li ritiene credibili quando dicono di non essere loro gli autori della strage?
«E’ impossibile, risentendo le loro recenti interviste ancora di più… Ci sono dei dettagli raccontati soprattutto da Rosa Bazzi, lei è più determinata di Olindo. Secondo me lui è andato in tilt. Lei sta dando delle cose che sono scioccanti e anche vere».
E’ vero che volevate costruire un parco giochi in Tunisia?
«No, il progetto con mia moglie Raffaella era quello di fare un ostello per gli studenti. Appartamenti per i ragazzi che vengono da fuori città, con un asilo nido a Zaghouan che è città universitaria. Era per questo che Raffaella aveva chiesto dei soldi ai suoi famigliari. Avremmo dovuto parlarne a Natale di quel maledetto anno. Doveva essere il primo Natale assieme, dopo anni che non parlavo con i Castagna, purtroppo qualcuno non voleva che accadesse…»
Si pente del periodo in cui veniva ospitato in Tv e faceva serate nei locali?
«No, non mi pento. Se qualcuno mi giudica senza sapere il motivo io me ne frego. Le prime persone che hanno pensato ad Azouz sono state Fabrizio Corona e Lele Mora. Quando sono tornato in Italia ho perso tutto, anche le minime cose come i vestiti e un alloggio dove dormire. Mora e Corona mi sono stati vicini. Sono fiero della loro amicizia. E tutt’ora sono amico di Lele Mora, purtroppo non ho avuto la fortuna di vedere Fabrizio Corona ma è un amico».
Ha mai pianto?
«Mia moglie mi chiama Iceberg. Sono troppo freddo. Ma ho pianto... ho avuto dei momenti di crisi. Non è facile vivere e sopravvivere, ma sono andato avanti nella vita. Nel telefono ho tutte le foto dei cadaveri di Raffaella e Youssef, le cancellerò solo quando troverò i veri responsabili. Quando penso che non ho fatto abbastanza le guardo e mi ricarico, mi do la forza per combattere la mia battaglia».
Vuole mandare un messaggio a qualcuno?
«La giustizia ha funzionato con me dandomi l'opportunità di rientrare in Italia, voglio mandare un messaggio al Ministro della giustizia Bonafede: Per favore continui a indagare su quello che è accaduto sul caso di Rosa e Olindo. Le risposte servono anche a tutti voi».
L’ERBA DEL VICINO È SEMPRE MONETIZZABILE. Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 6 giugno 2019. Azouz Marzouk è tornato in Italia dopo dieci anni dalla sua espulsione e la sua presenza, in un solo giorno di permanenza sul suolo italiano, si è già fatta sentire. Prima ha avvisato un paio di giornalisti del suo arrivo così da rilasciare la sua prima intervista a Studio Aperto in cui annuncia trionfalmente di sapere chi sono i veri assassini della strage di Erba e di conoscere pure il movente. Così, per creare suspense. Poi ha dichiarato afflitto al Giorno: "Finché sarò vivo lotterò perché ci sia giustizia per quelle quattro anime che sono morte". Commovente. Nel frattempo è apparso pure il suo nuovo avvocato veronese, Simone Giuseppe Bergamini, che ha spiegato sempre ai giornali quanto l' espulsione del suo assistito sia stata anomala. Ma non è finita qui. Ieri, sulla bacheca Facebook del programma Sono innocente, qualcuno si è accorto dell' annuncio datato 27 maggio di tal Giovanni Deidda. Lo stesso annuncio è stato inviato via email alle redazioni di vari giornali sempre dal Deidda: "Azouz Marzouk torna in Italia. Non risponderà più a chiamate dei media. Potete rivolgervi a me se interessati, per concertare i termini economici per rilascio di esclusive o interviste basate sulle dichiarazioni che farà in Tribunale al fine di far scarcerare Rosa e Olindo ingiustamente condannati. Il legale incaricato che andrà a breve a Tunisi per riportarlo in Italia - Simone Bergamini del foro di Verona - parimenti vi inviterà a contattare solo me per la gestione dell' agenda. Saluti. Ombretta Panizzari". Seguiva numero di cellulare. Telefono a questa Ombretta, le chiedo se conduca le trattative economiche per conto di Azouz. "Guardi, io sono amica di un amico dell' avvocato Bergamini, il signor Deidda, che mi ha buttata in trincea per gestire questa cosa. Sento le proposte economiche, faccio da passacarte, Azouz tiene famiglia!". Le faccio notare che la precedente è stata trucidata, chiedo se non sia anomalo chiedere soldi per ottenere giustizia per la morte dei propri cari. "Stupisce che la verità abbia un prezzo, lo so, ma visto che hanno cominciato a fare offerte!". A quel punto afferma di essere in compagnia di questo Giovanni Deidda. "Glielo passo che lui è più rampante", mi dice. "Io sono amico personale dell' avvocato Bergamini, il quale mi ha detto di non voler entrare in questo mercanteggiare. Mi ha spiegato che lui vuole la scarcerazione di Rosa e Olindo, Azouz vuole i soldi, quindi ci siamo seduti intorno al tavolo e mi ha detto 'come ne esco?' e io 'secondo me ne esci se c' è una terza persona che prova a mediare gli interessi di Azouz, che sono quelli di lucro". Replico che l' interesse di Azouz dovrebbe essere la verità. "Lui vuole monetizzare, non mi faccio domande. Mi hanno chiamato mille redazioni, Quarto grado, Tg5 e fanno discorsi del tipo "Quanto volete? Sì, ma se io pago poi quell' altro viene a sapere che ho pagato!". Le Iene hanno chiamato direttamente ad Azouz, hanno detto siamo amici, siamo venuti a Tunisi, mettiamoci d' accordo tra di noi", è tutto un cinema!". A quel punto Deidda mi chiede se io sia la giornalista che tempo fa, sul Fatto, aveva scritto che la moglie di Bossetti era stata pagata 30 mila euro per andare in tv. Confermo e chiedo il perché me lo domandi. "Ho cercato su google se c' era 'un borsino' delle ospitate tv, è venuto fuori il tuo articolo, non sapevo se quello che chiedeva Azouz avesse un senso, il tuo articolo in effetti suggeriva di sì". Domando se chiede 30.000 euro anche Azouz. "Di più. Quarto grado propone due ospitate, ho parlato con la Maltagliati, vediamo". Mi sembra tutto surreale. Telefono ad Azouz, gli domando perché si affidi a questo Deidda per le trattative. "Ho chiamato il mio avvocato, dice che poi mi spiegherà". "In che senso?". "Lo conosce lui". "Ma chiedi soldi o no per andare in tv?". "Non nego e non affermo". "Saprai se vuoi essere pagato.". "Non so nulla, non so rispondere, fa tutto l' avvocato". "Sei tu che decidi se vuoi soldi o no. Li vuoi?". "Non so risponderti". Insomma, tutto per amor di verità. Che mestizia.
LE ''IENE'' REPLICANO ALL'ARTICOLO DELLA LUCARELLI. Un articolo del Fatto Quotidiano di oggi, a proposito della nostra inchiesta sulla Strage di Erba, racconta che a fronte della richiesta di soldi in cambio di un’intervista da parte dell’entourage di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella Castagna e un figlio di due anni, noi lo avremmo chiamato direttamente per metterci d’accordo, dicendo che noi "siamo amici". La questione è semplicissima: questo presunto “accordo” è completamente falso e non è mai avvenuto, innanzitutto perché Le Iene non hanno mai pagato nessuno per parlare con noi o rivelare qualcosa. E quando abbiamo intervistato Azouz nell’ambito della nostra inchiesta, non ci ha mai chiesto soldi. Inoltre la nostra trasmissione, come voi ben sapete in questo momento è in pausa e tornerà solo tra qualche mese, quindi in realtà per il momento non avremmo avuto alcun motivo di concordare una nuova intervista con Azouz da realizzare in questi giorni in Italia. La notizia della richiesta di soldi da parte di un incaricato dell’avvocato del tunisino, da pochi giorni rientrato in Italia dopo circa 10 anni di espulsione, seppur non ci riguarda è comunque da condannare. Perché la verità non ha prezzo e oltretutto il suo entourage vorrebbe farlo pagare per parlare dell’omicidio della sua ex moglie e di suo figlio. Inoltre dal punto di vista di non crede alla colpevolezza di Rosa e Olindo, come dichiarato da Azouz Marzouk in questi mesi, è controproducente: così facendo il centro dell’attenzione si sposta sulla richiesta di soldi in sé e si allontana dalla questione principale, cioè dal dubbio sollevato da alcuni giornalisti investigativi sul fatto che le due persone condannate all’ergastolo per quella strage siano in realtà innocenti. Se da un lato critichiamo la richiesta di soldi da parte dell’entourage di Azouz, dall’altra non capiamo come mai per la seconda volta a proposito della strage di Erba Il Fatto Quotidiano attribuisca virgolettati a Le Iene senza aver fatto alcuna verifica con noi, cosa grave essendo il contenuto di quei virgolettati assolutamente falso. In un precedente articolo a settembre, prima ancora fosse andato in onda il primo capitolo della nostra inchiesta, Il Fatto Quotidiano sosteneva che avremmo rivolto per strada a Pietro Castagna, fratello di Raffaella, morta nella strage, questa domanda: “Ma non ti vergogni ad andare in giro tranquillamente con due vecchietti innocenti in carcere?”. Questa cosa è falsa. Come potete vedere con i vostri occhi cliccando qui e guardando l’intervista che abbiamo pubblicato nel corso del nostro Speciale, che vi riproponiamo in alto (in fondo all'articolo trovate gli articoli e i servizi successivi). Ma le falsità non finiscono qui. Sempre in quell’articolo Il Fatto Quotidiano raccontava testualmente ai suoi lettori che “Azouz Marzouk ha fatto causa ai Castagna perché vuole la metà del valore della casa della strage che i cattivi della storia, gli avidi Castagna, hanno donato alla Caritas”. Da una verifica fatta da Le Iene direttamente con la famiglia Castagna risulta che questa data dal giornale, guidato da un direttore scrupoloso come Marco Travaglio, purtroppo è una vera e propria fake news, che accredita l’immagine di Azouz Marzouk, come interessato ai soldi più che alla scoperta della verità. Qualche mese dopo l’iniziativa dell’entourage di Marzouk di chiedere soldi preventivamente a chi fosse interessato a sue dichiarazioni quindi fa un favore proprio a chi in passato ha raccontato una bufala sul suo conto e allo stesso tempo sostiene a spada tratta la colpevolezza di Rosa e Olindo e la bontà delle indagini e delle sentenze passate in giudicato. L’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone invece di dubbi su quella inchiesta e sugli atti finiti nei processi ne ha sollevati parecchi. Rosa Bazzi e Olindo Romano sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva per gli omicidi di Raffaella Castagna, del figlio di due anni Youssef Marzouk, della madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini l’11 dicembre 2006 a Erba (Como). Movente: le continue liti condominiali. Però non tutto porta nella direzione della loro colpevolezza, a partire dai rilievi del famoso Ris di Parma: dei due non c’è traccia sulla scena del crimine, come viceversa non ci sono tracce del sangue delle vittime nella loro casa, dove secondo la ricostruzione degli inquirenti i due si sarebbero recati subito dopo la carneficina di 4 innocenti. Ecco in breve i punti principali (ognuno con il link alla corrispondente parte completa dell’inchiesta) su cui ci siamo soffermati e che potete ripercorrere anche tra lo Speciale integrale qui sopra e i servizi successivi in basso:
- il riconoscimento di Olindo da parte del supertestimone Mario Frigerio, unico sopravvissuto alla strage che però in un primo tempo aveva indicato un’altra persona;
- la mancata trascrizione negli atti di molte intercettazioni decisive o addirittura la totale sparizione di alcune di esse;
- una ricostruzione alternativa a quella della sentenza, su dove sarebbe stata colpita a morte la vicina del piano di sopra Valeria Cherubini, dinamica che se accertata potrebbe scagionare Rosa e Olindo;
- le confessioni, poi ritrattate e piene di errori dei coniugi Romano, riproponendo parti dell’intervista esclusiva che abbiamo fatto in carcere a Olindo Romano, che con noi ha parlato per la prima volta in tv a 12 anni dalla strage;
- le possibili piste alternative (su questo abbiamo rintracciato in Tunisia un possibile testimone importante, mai sentito con gli inquirenti) e di questo abbiamo parlato anche con il fratello di Raffaella Castagna, Pietro, che si dice ancora convinto della colpevolezza dei coniugi Romano;
- le "confessioni video" di Rosa Bazzi e di Olindo Romano: molti particolari che sembrano non tornare;
- la pista di una possibile vendetta della ‘ndrangheta contro Azouz, legata al traffico di droga. Ma anche i presunti rapporti sessuali con un detenuto legato ai clan, che potrebbero essere avvenuti in carcere e che avrebbero potuto scatenare una punizione. Piste e ricostruzioni che Azouz nega;
- i reperti mai analizzati della strage, distrutti proprio quando la Cassazione aveva dato il via libera alle analisi;
- la lunga intervista esclusiva in carcere a Rosa Bazzi che, proclamandosi anche lei innocente e parlando in esclusiva anche lei con noi per la prima volta in tv dopo 12 anni, ha parlato di Pietro Castagna e ha contestato l’operato del criminologo e psichiatra Massimo Picozzi, il perito che registrò “le video confessioni”, su incarico del primo difensore d’ufficio Pietro Troiano;
Ogni passo di questo scrupoloso e lungo lavoro d’inchiesta è stato controllato e verificato in ogni minimo dettaglio. Ci confrontavamo con la condanna all'ergastolo in tutti e tre i gradi di giudizio e, nel massimo rispetto delle sentenze, abbiamo indagato i tanti punti oscuri di una verità che neanche 26 giudici hanno saputo spiegare. L’insinuazione di un possibile accordo con Azouz a fronte di una sua richiesta di essere pagato ci fa ridere. Nei nostri servizi abbiamo raccontato come da sempre sia considerato un personaggio discusso per come ha vissuto il dopo strage, per le sue frequentazioni con Lele Mora e Fabrizio Corona e per i suoi precedenti per droga. Alcune rivelazioni inedite che abbiamo pubblicato, come quelle della moglie di suo cugino riguardo ai presunti rapporti sessuali avvenuti in carcere mentre era detenuto, di certo non gli hanno fatto piacere. Chi ha seguito in questi mesi la nostra inchiesta non ha bisogno di ulteriori chiarimenti. Ma ci chiediamo: perché attribuire virgolettati dal contenuto falso alle Iene, senza verificare direttamente con chi è coinvolto? Perché anticipare virgolettati inesistenti di interviste ancora non andate in onda? E quando poi il virgolettato attribuito al nostro inviato è smentito dall’intervista mandata in onda, perché non rettificare quanto fatto credere ai propri lettori? Infine come nasce una fake news, così grossolana, come la causa intentata dal tunisino agli ex cognati per ottenere la casa della strage? Le richieste di Azouz Marzouk di riaprire le indagini hanno dato fastidio a qualcuno? Tra bufale e insinuazioni, l’unica cosa certa è lo scrupoloso lavoro d’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone, come contributo alla ricerca della verità, che cogliamo l’occasione di riproporvi in alto nello Speciale andato in onda su Italia1 e qui sotto negli articoli e servizi che sono seguiti durante la trasmissione.
Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” il 7 giugno 2019. Ieri Le Iene, dal loro sito, hanno criticato il Fatto Quotidiano e il direttore Marco Travaglio per l' articolo di Selvaggia Lucarelli pubblicato ieri: "Azouz è tornato e concede le interviste (a pagamento)". Selvaggia Lucarelli ha replicato sulla propria pagina Facebook e su quella delle Iene. Pubblichiamo anche qui sul giornale la sua risposta. Amici delle Iene, le vostre lezioni di giornalismo mi regalano sempre squarci di buonumore, dunque vi ringrazio per avermi regalato un sorriso anche oggi. Lezioni da parte di chi firma l'inchiesta su Erba, ovvero Antonino Monteleone e udite udite Marco Occhipinti, già autore di tutta l' inchiesta sul caso Stamina, per giunta. Sebbene abbiate cercato di coinvolgere il mio direttore Marco Travaglio in questa letterina piccata su quante bugie racconti il Fatto Quotidiano a proposito delle vostre accurate inchieste su Erba, mi tocca prendervi per mano e spiegarvi, io, autrice dell' articolo sul vostro amico Azouz e le richieste economiche per sue eventuali interviste, quello che dice l' articolo. Del resto, nella materia "comprensione del testo" sembrate avere qualche lieve problema. L'articolo non dice che voi avete proposto soldi ad Azouz. L' articolo riporta un virgolettato dell' incaricato dell' avvocato di Azouz alle mediazioni economiche il quale dice: " Le Iene hanno chiamato direttamente Azouz, hanno detto siamo amici, siamo venuti a Tunisi, mettiamoci d' accordo tra di noi". Quindi il signore dice che voi avete proposto ad Azouz un' intervista in amicizia, non fa alcun riferimento a cachet e ad accordi economici presi. Del resto, il vostro rapporto "speciale" è ampiamente documentato dallo spazio che avete dato a questo galantuomo affidabilissimo nella vostra "inchiesta". Ah, la telefonata è registrata, non sia mai che dubitiate. Vi avrei dovuto chiamare per "verificare", dite. Non c' era nulla da verificare. E poi Le Iene che parlano di verifiche, certo Le iene che permettono di far dire in televisione all' assassina Rosa Bazzi: "Pietro Castagna deve sedersi a tavola con me e vedere chi è colpevole di noi due". Accuse fondate e verificate, certo. Riguardo invece alle imprecisioni da me riportate sulla vostra intervista a Pietro Castagna, è vero, non siete stati aggressivi o scorretti. Lo avete soltanto chiamato fingendovi una ragazza interessata ad arredare una villa a Como, gli avete dato un finto appuntamento a cui si è presentato Antonino Monteleone, il quale lo ha poi intervistato con microfono e telecamera nascosta come se anziché una vittima della strage Pietro Castagna fosse un personaggio losco, a cui carpire chissà quali dichiarazioni. E, infine, avete mandato in onda l' intervista rubata con l' inganno, oltre a diverse puntate in cui avete gettato ombre ignobili sui fratelli Castagna. Infine, vi ricordo che Azouz ha accusato Carlo Castagna di essersi appropriato dell' eredità che gli spettava. Non solo, ebbe a lamentarsi pure del fatto che il povero Castagna ritirò una moto intestata alla moglie Raffaella (moto abbandonata da un meccanico con un fermo per una tassa rifiuti non pagata e delle riparazioni eseguite e mai pagate. Debiti che pagò Carlo Castagna). È tutto ampiamente documentato, solo che voi non ve ne siete accorti, troppo presi a scrivere letterine a Marco Travaglio gnegnegnè-allora-io-lo-dico-al-tuo- direttore. Cari saluti, come sempre.
Strage di Erba, «un detenuto innamorato di Rosa Bazzi». Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Anna Campaniello e Annalisa Grandi su Corriere.it. Olindo Romano e Rosa Bazzi, i coniugi condannati all’ergastolo per la strage di Erba, continuano ad incontrarsi periodicamente nel carcere di Opera. Tre colloqui al mese, salvo imprevisti. Una routine che dura ormai da una decina d’anni nella quale, nell’ultimo periodo, si sarebbe inserito un imprevisto potenzialmente esplosivo: un altro uomo, un detenuto di Bollate, che sarebbe entrato nella vita di Rosa. Conferme ufficiali, al momento, non ce ne sono. Il legale dei coniugi, Fabio Schembri, pur precisando che «la vita sentimentale dei miei assistiti non è argomento che mi riguardi», è portato a escludere nuove relazioni per Rosa. «Parlo più con Olindo, che per quanto ne sappia io è sempre innamorato di sua moglie – dice il legale -. Non mi ha parlato di problemi coniugali e nessuno dei due mi ha chiesto di modificare la cadenza o la modalità dei loro incontri, che avvengono regolarmente nel carcere di Opera, dove Rosa viene accompagnata per vedere il marito. Poi ci sono anche le telefonate». A Bollate però, dove è detenuta Rosa Bazzi, che oggi ha 55 anni e lavora all’interno del penitenziario, le voci sulla “relazione” tra la donna di Erba condannata in via definitiva per il massacro di Raffaella Castagna, Youssef Marzouk, Paola Galli e Valeria Cherubini e per il ferimento di Mario Frigerio e un altro detenuto si susseguono da tempo. E alle voci si sarebbe aggiunta anche la decisione del detenuto innamorato di rinunciare alla semilibertà pur di non essere allontanato da Rosa. «Voci che personalmente non mi risultato – commenta Fabio Schembri –. Lo vedo come un attacco personale. E penso che se chi ce l’ha con Rosa e Olindo è arrivato a provare a colpirli in questo modo si sta davvero raschiando il fondo del barile. Se i loro avversari pensano di attaccarli toccando la sfera personale, davvero sono caduti in basso». In attesa di, eventuali, ulteriori sviluppi, Olindo continua a lavorare nella cucina del carcere di Opera. E aspetta gli agognati appuntamenti con la moglie. Almeno, fino a quando l’agenda dei coniugi rimarrà quella attuale. Nei giorni scorsi si è tornato a parlare della strage di Erba perché Azouz Marzouk ha fatto richiesta alla procura generale di Milano per la revisione della sentenza che ha condannato Rosa e Olindo al carcere a vita per gli omicidi avvenuti l’11 dicembre del 2006 del figlio o Youssef Marzouk di poco più di 2 anni, la moglie Raffaella Castagna, la suocera Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. «Olindo e Rosa sono innocenti» ha sostenuto l’uomo nell’istanza, in cui si contesta la genuinità della confessione della coppia. E domenica sera, per la prima volta dopo 12 anni, proprio dal carcere di Bollate ha parlato alle «Iene» Rosa Bazzi, sostenendo nuovamente l’innocenza sua e del marito e raccontando di aver visto un uomo nella palazzina della strage nei minuti precedenti il quadruplice omicidio.
Strage Erba, Rosa e Olindo innocenti? Incongruenze e movente: i dubbi (Quarto Grado). Emanuela Longo 26.04.2019 su Il Sussidiario. Strage di Erba, i coniugi Rosa e Olindo sono davvero innocenti? Tutti i dubbi attorno al caso al centro della nuova puntata di Quarto Grado. I riflettori tornano ad accendersi sulla strage di Erba nel corso della trasmissione Quarto Grado. Dopo le parole di Rosa Bazzi nell’intervista esclusiva per la trasmissione Le Iene, i dubbi su quanto accadde realmente quell’11 dicembre 2006 sono aumentati. Realmente la Bazzi e il marito Olindo Romano si resero autori di una vera e propria strage nel quale furono brutalmente uccisi Raffaella Castagna, il figlioletto Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini? Secondo quanto anticipato dalla pagina Facebook della trasmissione di Rete 4, questa sera per la prima volta interverrà nello studio del programma una persona che potrebbe fare chiarezza su molti dubbi. Nessun indizio su chi possa essere l’autorevole protagonista della parentesi dedicata alla strage di Erba. In questi anni, sono stati in tanti a raccontare, commentare ed ipotizzare ciò che accadde tredici anni fa, tra loro anche Paolo Franceschetti, come rammenta Money.it, il quale sin dal 2007 sostiene l’innocenza dei coniugi Rosa e Olindo. L’ex avvocato, blogger ed esperto di delitti rituali, aveva intravisto numerose incongruenze rispetto alle accuse mosse ai due coniugi condannati all’ergastolo dalla giustizia italiana. Subito dopo la strage di Erba, Franceschetti sostenne l’innocenza di Rosa e Olindo partendo da diverse incongruenze e numerosi elementi. Tra questi anche l’ipotesi secondo cui le confessioni dei due coniugi potessero essere state indotte. Secondo la visione del blogger, la strage di Erba avrebbe gli stessi contorni di molti altri delitti celebri commessi per scopi esoterico-rituali in cui non si trova l’arma del delitto e in cui il movente appare debole. I presunti carnefici, in questo senso, diventerebbero vittime di un sistema in cui si fatica a far emergere le reali responsabilità. L’intero quadro ha spesso dimostrato di avere delle numerose incongruenze tra i rilievi tecnici e la ricostruzione degli omicidi. Lo stesso movente, dicevamo, appare molto debole: davvero Rosa e Olindo avrebbero eliminato i loro vicini per dei semplici screzi? Inoltre, la strage sarebbe stata compiuta da veri e propri professionisti: possibile che uno spazzino ed una casalinga sarebbero stati capaci di fare tutto ciò? Stasera, forse, potrebbero emergere nuovi spunti di riflessione che potrebbero mettere in dubbio la posizione di Rosa e Olindo emersa nei tre differenti gradi di giudizio.
Strage di Erba, Rosa Bazzi a Le Iene: "Ho visto un uomo nella palazzina”, scrivono Le Iene il 15 aprile 2019. La donna, condannata col marito Olindo Romano per la strage di Erba, parla per la prima volta in tv dopo 12 anni nella nuova puntata dell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti affrontando tutti gli aspetti fondamentali delle indagini. E per la prima volta racconta di aver detto ai carabinieri di una strana presenza poche ore prima del quadruplice omicidio “Sto pagando le mie confessioni, non sto pagando perché son salita, perché non sono salita: sto pagando le mie confessioni”. Le Iene intervistano in esclusiva nel carcere di Bollate (Milano) Rosa Bazzi, condannata all'ergastolo assieme al marito Olindo Romano, per la strage di Erba dell'11 dicembre 2006 in cui sono stati uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. È la prima volta che Rosa parla davanti a una telecamera negli ultimi 12 anni, cioè da quando è rinchiusa in carcere per quella strage che il pm Astori ha definito “la più atroce impresa criminale della storia della repubblica”. Rosa Bazzi, secondo tre sentenze, 26 giudici e la grandissima parte dell’opinione pubblica italiana è considerata uno dei mostri di Erba. E la donna, che dopo molto tempo ha accettato la nostra intervista, si mostra subito emozionata e tesa, e quasi vorrebbe interrompere l'intervista. Si alza e lascia la sedia vuota sotto i riflettori: “Mi sembra di avere 100 occhi, di essere ancora un’altra volta giudicata. Non è facile, forse voi è il vostro lavoro, mi trovo veramente in disagio”. Poi però, rimanendo seduta accanto al suo avvocato, si “scioglie” e iniziamo a parlare della verità processuale, quella verità che la vede insieme al marito Olindo artefice di quella terribile strage: “Non siamo stati noi due...non hanno svolto bene il lavoro che hanno fatto… se lo facevano bene cioè come mai spariscono le cose adesso che potevano andare a controllarli allora…perché devono sparire reperti che non hai niente da tenere nascosto, lasciali, così se c’è la mia impronta avete da dire bon, siete stati voi basta, chiudiamo il discorso, chiudiamo tutto, basta…”. Il riferimento di Rosa è ai reperti mai analizzati, una parte dei quali nel luglio scorso erano stati incredibilmente distrutti all’interno del tribunale di Como e proprio il giorno stesso in cui la Cassazione aveva autorizzato la Corte d’Assise di Como a farli valutare. Una questione sulla quale anche il legale dei due, Fabio Schembri ha qualcosa da dire: “Si ha paura che magari da questi accertamenti possa uscire qualche cosa di diverso, magari dna di soggetti sconosciuti a questo punto no? Se non si avesse questa paura sarebbe banale fare questi accertamenti, nel giro di un mese a spese nostre avremmo gli accertamenti, per eventualmente individuare del dna di soggetti allo stato sconosciuti alle indagini”. Torniamo alla versione di Rosa Bazzi e cominciamo proprio da quella sera, e dall’alibi che i due avrebbero inizialmente dichiarato di avere, raccontando di aver lasciato la corte di Via Diaz per raggiungere Como, guardare le vetrine e poi cenare in un McDonald’s. E se lo scontrino che hanno mostrato agli inquirenti riporta come orario le 21:37, Rosa spiega di essere andata col marito prima un po’ in giro, e poi di avere cenato al McDonald’s. Ma è sul luogo del delitto che Rosa ci racconta una cosa di cui mai aveva parlato, una presenza sospetta nelle ore che hanno preceduto quell’orribile strage: “Gliel’ho detto anche ai carabinieri, perché quando siamo usciti noi abbiamo visto un signore… abbiamo visto e… però non, non ci hanno neanche ascoltato… . L’abbiamo detto sempre al maresciallo Gallorini. Noi abbiamo visto un signore, con una borsa in mano aveva un giaccone e un cappello. E’ entrato…… nella corte, è entrato nella porta…con un sacchetto di plastica, questo me lo ricordo, perché questa cosa ce l’ho ancora nella mente”. Un uomo, spiega ancora Rosa che andava verso la palazzina della strage e vi entrava. Sul motivo della confessione piena resa da Rosa agli inquirenti, anche considerato quell’alibi comasco, Rosa dice: “Bella domanda… chiediamolo all’Olindo, glielo chiediamo ai carabinieri…”. “Ma è possibile che pur di stare insieme voi due vi accollate quattro omicidi? Pur di non essere separati?”, chiede Antonino Monteleone alla donna. “Allora era così, cioè io non sapendo perché non mi era mai successa una cosa del genere… allora le cose erano così, adesso le cose sono cambiate e…”. Rosa, che si dice pentita solo del fatto di essersi fatta convincere da Olindo a confessare qualcosa che continua a giurare di non aver mai commesso, parla dell’unico errore di “accollarci quello che ci hanno detto i carabinieri… perché abbiamo avuto fiducia noi del maresciallo Gallorini, perché se non hai fiducia in un carabinieri, un maresciallo, di chi puoi avere fiducia? come noi qua in carcere abbiamo fiducia, come io ho fiducia degli avvocati… se non abbiamo fiducia di qualcuno di quelli più in alto di noi”. Una confessione la sua, racconta ancora Rosa, in qualche modo guidata dagli inquirenti che le avrebbero fatto vedere passo passo le foto della strage. E su cui dice: “E’ stato pesante vedere le foto, è stato pesante tutto questa cosa, cioè non so come spiegargliela…non è stato bello vedere le foto quel giorno lì… non è stato bello…”. “Foto viste una per volta o tutte insieme?”, le chiede la Iena Antonino Monteleone. “No tutte insieme, il tavolo era grande come questo e… no, un pochettino di più e… c’erano tutte delle…”. “Quando hai visto quelle foto che cosa hai provato? che cosa hai pensato?”, le chiediamo ancora. “E’ stata una cosa non bella, è stata una cosa molto brutta… chi l’ha fatto veramente è stato atroce… cioè ho avuto proprio addosso una rabbia fortissima…”. Sulla confessione poi, Rosa azzarda anche un’ipotesi piuttosto grave e non dimostrata, cioè che il maresciallo Gallorini non solo le abbia raccontato alcuni particolari della strage, ma che lo abbia fatto fuori casa per evitare di essere registrato dalle microspie. E quando affrontiamo il fatto che non ci siano in realtà schiaccianti prove scientifiche che inchiodino lei e suo marito, Rosa aggiunge: “Beh però non… non c’era neanche niente da trovare. Perché… su una cosa del genere credo che scendevi… che… eri in un lago di sangue vedendo le foto era una cosa indescrivibile…”. E un’impronta dei due, spiega ancora Rosa, “non l’hanno mai trovata, né in casa nostra né da nessun’altra parte”…“Qualunque cosa e non hanno trovato niente in casa nostra? Cioè posso essere brava a pulire ma guardi che loro trovano su casi molto… cioè sono entrati in casa nostra ci hanno ribaltato la casa, cioè sono stati al piano di sopra, hanno ribaltato e non hanno trovato niente…”. Solo due giorni fa è arrivata la richiesta di revisione del processo da parte di Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, l’unico parente (tra i familiari) delle vittime che non è soddisfatto delle decisioni dei giudici. “Beh… mi fa piacere”, dice Rosa, “sono molto contenta di questa cosa però lui lo sa chi è stato. Mi sto facendo 12 anni, mi son fatta… non capisco come mai che se lo sa.. mah, se lui dice che siamo innocenti perché sa che non siamo stati noi… perché non dici chi è stato?” “Perché tu hai un’idea di chi è stato a commettere la strage?”, le chiede a bruciapelo Antonino Monteleone. “Beh… bisogna vedere le amicizie che aveva Marzouk, e bisogna vedere le amicizie che aveva la Raffaella… eee… quando hai le amicizie di roba di droga o spacci quelle cose lì… non è che sono delle persone che… son bravi… no? no!”. L’intervista a Rosa Bazzi non finisce qua e il resto lo mostreremo nella prossima puntata. Una puntata nella quale Rosa ci racconterà, ovviamente dal suo punto d’osservazione, la sua esperienza nel rapportarsi con alcuni dei protagonisti di questa storia. Clicca qui per lo speciale “Rosa e Olindo: due innocenti all’ergastolo?” e qui per l’analoga intervista esclusiva in carcere a Olindo Romano. Qui sotto trovate gli ultimi servizi dedicati al caso.
Esclusivo. Strage di Erba, Rosa Bazzi parla di Pietro Castagna. Scrive il 24 aprile 2019 Le Iene. Nuovo appuntamento con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. E con la seconda parte dell’intervista esclusiva in carcere a Rosa Bazzi, condannata in via definitiva per la strage di Erba. Parla di Pietro Castagna, se la prende con giudici e inquirenti e lancia il suo grido disperato: “Sono dentro da 12 anni per qualcosa che non ho commesso e perché bruciano le prove che potrebbero farmi uscire?”. A parlare, per la prima volta in tv dopo 12 anni, è Rosa Bazzi nella seconda parte dell’intervista esclusiva con Le Iene dal carcere di Bollate, dopo che una settimana fa vi abbiamo trasmesso la prima. E questi sono solo alcuni degli elementi clamorosi che emergono da questo nuovo appuntamento con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla strage di Erba, ovvero sull’omicidio di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk, della madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini avvenuto a Erba (Como) l’11 dicembre 2006 per cui sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva Rosa Bazzi e il marito Olindo Romano. Del caso ci occupiamo da mesi, anche con lo speciale “Rosa e Olindo: due innocenti all’ergastolo?” (clicca qui per vederlo). Qualche mese fa abbiamo intervistato in carcere, sempre in esclusiva, anche Olindo Romano. Rosa Bazzi si proclama innocente ed è convinta di pagare con il carcere solo per la sua confessione, poi smentita, suggeritale da una prima strategia difensiva, che venne presentata anche in video. La sua confessione agli inquirenti, tra l’altro, era piena di errori e contraddizioni, come quella del marito Olindo Romano. Il criminologo Massimo Picozzi, che girò quei video, e l’avvocato della coppia del tempo, Pietro Troiano, si rifiutano però di parlarne con noi. Nella prima parte dell’intervista, Rosa Bazzi ha detto di aver visto entrare nella palazzina la sera della strage un uomo mai visto prima, con una giacca, un cappello e un sacchetto di plastica. E di aver informato i carabinieri, ma di non essere stata ascoltata. Dopo queste dichiarazioni Azouz Marzouk, che perso la moglie e il figlio nella strage, ha chiesto alla Procura Generale di Milano, ha chiesto sia audita la detenuta, in vista di una richiesta di revisione del processo. Sui giornali si parlava invece soltanto di un presunto nuovo amore della donna nato in carcere, che Le Iene stasera sono in grado di smentire, avendo parlato sia con la direzione dell'istituto penitenziario di Bollate, sia con il detenuto, che un giornale di Como sosteneva si fosse innamorato di Rosa. Gli interessati sostengono non ci sia niente di vero e la difesa di Rosa e Olindo si chiede se non si tratti di un gossip inventato per far parlare d'altro, piuttosto che ascoltare tutto ciò che Rosa Bazzi ha voluto denunciare nel corso della lunga intervista. Antonino Monteleone l'avverte: "Questa intervista che stiamo girando, indispettirà i fratelli di Raffaella Castagna che quando vedranno Rosa che spiega le sue ragioni, loro diranno questa cosa ci fa soffrire, perché loro sono sicuramente colpevoli e noi siamo le vittime incolpevoli di questa strage". E Rosa risponde: "Beh hanno ragione perché gli è morta una sorella, gli è morta una mamma e un nipotino. Però proprio colpevoli non devono proprio dire che siamo colpevoli, devono sedersi a tavola con me, e vedere, poi Pietro deve sedersi a tavola con me e vedere chi è colpevole di noi due. Non lo tagliare questo pezzettino". "Cioè, qual è il problema", le chiede Monteleone. "Ti dico se io fossi Pietro Castagna, no? Direi ma io non ho fatto le indagini, le ha fatte qualcuno al posto mio sì, io non ho giudicato, qualcun altro ha giudicato per me. Perché io non dovrei fidarmi di quello che dicono i giudici, che sono la massima autorità che può occuparsi di risolvere un caso di omicidio del genere? Cioè se i giudici mi hanno detto che Rosa Bazzi e Olindo Romano sono colpevoli… il fatto che loro siano in galera per noi è motivo di soddisfazione. Chi ha tolto la vita ai miei cari, marcisce in galera. Eh tu adesso però… mi fai capire che punti l’indice contro Pietro, è un po’ impegnativa come cosa. Perché dici questa cosa?". E Rosa Bazzi risponde: "Perché erano sempre in guerra, erano sempre a litigare, forse litigavano di più loro che noi due, io e la Raffaella, per il casino", paragonando le liti tra i due fratelli a quelle tra lei e la vicina di casa. Antonino Monteleone le chiede: "Ma l'hai visto Pietro, ti pare uno che avrebbe potuto uccidere quelle persone?". La risposta della Bazzi è lapidaria: “Questo non lo so. Lei ha visto me e Olindo che ammazziamo quattro cristiani?!”. Pietro Castagna era stato avvicinato dalla Iena durante lo speciale sulla Strage di Erba “Rosa e Olindo, innocenti all’ergastolo” di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Nella quinta parte, Castagna si è detto convinto della colpevolezza di Rosa e Olindo e che “non ci sono assassini in libertà”. Rosa Bazzi racconta di essersi confrontata più volte anche a Olindo di quelle famose confessioni: “Se avessi fatto di testa mia, non l’avrei fatte”. Su lei e Olindo preferisce comunque non aggiungere molto di più, anche se le “divergenze” sono palesi. Ora spera di poter avere intanto il permesso di lavorare fuori dal carcere. Si commuove, si ferma nel racconto, e dopo aver passeggiato un po’ per la stanza, poi riprende. Dal futuro si aspetta che venga fuori la verità anche se ha perso fiducia nella giustizia dopo gli errori che secondo lei sarebbero stati commessi durante le indagini e i processi: “Loro sono fuori e io in carcere, è meglio due stupidi in carcere che ammettere gli errori”. Come sarà se e quando uscirà dal carcere? “Me lo chiedo tutti i giorni, tra paura e insicurezze, anche se oggi ho più coraggio. Io lo so che non ho fatto niente”.
Strage di Erba, Azouz Marzouk chiede la revisione della sentenza. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Corriere.it. Azouz Marzouk ha chiesto alla procura generale di Milano la revisione della sentenza che ha condannato all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi per la strage di Erba, in cui, l’11 dicembre 2006, furono uccisi il figlio Youssef Marzouk, la moglie Raffaella Castagna, la suocera Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. La richiesta è stata presentata dal suo legale, l’avvocato Luca D’Auria, si legge «per frode processuale».
Più volte Marzouk ha messo in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa. «Nei verbali — ha sostenuto in una recente intervista — ci sono troppe contraddizioni. Ad esempio, lo schizzo di sangue di Raffaella sull’interno della porta d’ingresso di casa mia, e questo significa che Raffaella è stata colpita dentro casa non fuori. Quindi, gli assassini erano già dentro casa mia. La macchia di sangue della Cherubini (la vicina di casa, ndr) sul corridoio che porta a casa mia e questo significa che è stata colpita lì. Dopo di che gli assassini sono fuggiti passando dal terrazzo di casa della stessa Cherubini visto che non potevano uscire dalle scale».
Strage di Erba, Azouz Marzouk chiede la revisione della sentenza. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 da Tgcom24. Azouz Marzouk ha chiesto alla Procura generale di Milano di raccogliere elementi per la revisione della sentenza di condanna all'ergastolo per la strage di Erba, per la quale sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi. Azouz, marito e padre di due delle vittime, aveva messo più volte in dubbio la colpevolezza della coppia, rea confessa e che poi aveva ritrattato. Nella strage, compiuta l'11 dicembre 2006, vennero uccise quattro persone. L'avvocato di Azouz, Luca d'Auria, contesta in particolare la genuinità della confessione della coppia, condannata in via definitiva all'ergastolo in Cassazione. Sarebbero troppi gli "errori" contenuti nelle confessioni rispetto a quanto emerso dalle indagini. La stessa difesa dei coniugi Romano è al lavoro per una richiesta di revisione della sentenza e nei mesi scorsi aveva chiesto l'accesso ad alcuni reperti mai analizzati sulla scena del delitto, come un accendino, un mazzo di chiavi e alcuni peli ritrovati nell'appartamento. A questo proposito gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e il professor Nico D'Ascola hanno di recente inviato al pm di Como una richiesta di accesso ai reperti, sempre in previsione di una richiesta di revisione della sentenza per l'ex netturbino e l'ex donna delle pulizie reclusi rispettivamente a Opera e a Bollate (Milano). Nella strage furono uccisi Raffaella Castagna, moglie di Azouz, il figlio Youssef, di poco più di due anni, la madre di Raffaella, Paola Galli, e una loro vicina di casa, Valeria Cherubini. Rimase gravemente ferito, e divenne il principale testimone contro i coniugi Romano, Mario Frigerio, che morì anni dopo.
Strage Erba, Azouz Marzouk chiede revisione della sentenza: "So chi ha ucciso mio figlio, Rosa e Olindo non c'entrano". La richiesta presentata dal suo legale alla procura generale di Milano, scrive La Repubblica l'11 aprile 2019. "So chi ha ucciso mio figlio, Rosa e Olindo non c'entrano": con queste parole Azouz Marzouk, tramite il suo legale Luca D'Auria, ha chiesto alla Procura generale di Milano di raccogliere elementi ai fini della revisione della sentenza di condanna all'ergastolo per la strage di Erba (quattro vittime e un ferito grave) l'11 dicembre del 2006, per la quale sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi. Per loro la sentenza definitiva all'ergastolo è arrivata la scorsa estate, quando la Cassazione ha respinto la richiesta di revisione del processo avanzata dalla coppia. L'avvocato d'Auria contesta in particolare la genuinità della confessione della coppia, condannata in via definitiva all'ergastolo in Cassazione. Sarebbero troppi gli "errori" contenuti nelle confessioni rispetto a quanto emerso in seguito. Azouz, marito e padre di due delle vittime, in più interviste agli organi di stampa aveva messo in dubbio la colpevolezza della coppia, rea confessa che poi aveva ritrattato gli omicidi di Raffaella Castagna e del suo figlioletto Youssef (moglie e figlio di Marzouk), la madre di Raffaella Castagna, Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini. Suo marito Mario Frigerio, unico sopravvissuto alla strage, è morto nel 2014. In questi mesi ci sono state molte polemiche per alcuni servizi della trasmissione tv Le Iene che hanno avanzato dubbi sulla colpevolezza della coppia. Adesso, in una intervista a Telelombardia: "Sono convinto che esiste un'altra storia. E anche le carte dicono chi è stato. Se leggete le carte si capisce chi è stato. La pista della 'ndrangheta non c'entra niente, quella è una teoria che loro hanno voluto tirare fuori. Ci sono tutte telecamere lì vicino alla piazza. Non ne hanno neanche tirata fuori una. Tutti questi elementi non vi fanno pensare a nulla? A me confermano la mia tesi...La mia tesi è che so chi è andato... Chi è...So chi ha interesse ad ammazzare mio figlio e mia moglie". Una persona che Marzouk dice di conoscere "sicuramente". La stessa difesa dei coniugi Romano è al lavoro per una richiesta di revisione della sentenza e, nei mesi scorsi, ha chiesto l'accesso a dei reperti della scena del delitto che non sarebbero mai stati analizzati, come un accendino, un mazzo di chiavi e dei peli ritrovati nell'appartamento. A questo proposito, gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e il professor Nico D'Ascola hanno di recente inviato al pm di Como una richiesta di accesso ai reperti, sempre in previsione di una richiesta di revisione della sentenza per l'ex netturbino e l'ex donna delle pulizie reclusi rispettivamente a Opera e a Bollate, a Milano.
Strage di Erba, l’ultima di Azouz: «So chi è stato». L’uomo che ha perso moglie e figlio è convinto dell’innocenza dei due coniugi condannati, scrive Simona Musco il 13 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Adesso so chi ha ucciso mia moglie e mio figlio. È una persona che conosco, Rosa e Olindo non c’entrano». Le parole di Azouz Marzouk, l’uomo che ha perso la famiglia nella ‘ Strage di Erba’, uno dei più controversi casi di cronaca della storia italiana, sono un fulmine a ciel sereno. E provano a ridisegnare i contorni di una storia definita da tre gradi di giudizio, terminati tutti con la condanna all’ergastolo di Rosa Bazzi e Olindo Romano, diventate definitive il 3 maggio 2011. Nella strage, compiuta l’ 11 dicembre 2006 nell’appartamento di una corte ristrutturata nel centro della cittadina lombarda, furono uccisi a colpi di coltello e spranga Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini con il suo cane. Il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, si salvò perché creduto morto dagli assalitori, grazie ad una malformazione congenita alla carotide che gli permise di non morire. Dopo la strage, l’appartamento fu incendiato. Alla base della condanna c’erano tre prove: una macchia di sangue nell’auto di Olindo, la prima confessione dei due – poi ritrattata – e il riconoscimento del testimone oculare, Mario Frigerio. Ma la storia cristallizzata dai tribunali, secondo Azouz, inizialmente sospettato ma scagionato perché in Tunisia al momento del delitto, non sarebbe la verità. Così l’avvocato Luca D’Auria ha presentato al Tribunale di Milano un sollecito firmato da Azouz per la richiesta di revisione del processo sulla strage di Erba. «Le carte dicono chi è stato», ha dichiarato l’uomo a Telelombardia. E per lui i veri responsabili sono entrati a processo «da testimoni». Parole che potrebbero dare man forte alla tesi dei legali dei coniugi, che da anni cercano di ottenere un incidente probatorio «sulle prove ignorate», finalizzato alla richiesta di revisione. Secondo Fabio Schembri, le confessioni di Rosa e Olindo, sarebbero «zeppe di errori», spiega al Dubbio. «Anche la sentenza dice che Rosa è delirante, così come la confessione di Olindo contiene 243 tra errori, “non so” e “non ricordo”». Una confessione, sostiene la difesa, determinata dalla volontà dei due di non separarsi, come provato da «un’intercettazione ambientale: Olindo disse a Rosa di voler confessare per assumersi la responsabilità e farla tornare a casa. Ma lei – spiega – rispose che non c’era nulla da confessare, dal momento che erano innocenti». Ma fu Rosa a confessare per prima, per poi confessare entrambi, fino alla ritrattazione in aula. Anche la testimonianza di Frigerio, secondo il legale, sarebbe poco attendibile: nei primi 15 giorni, infatti, l’uomo indicò un soggetto sconosciuto, di carnagione olivastra, non del posto. «Solo in seguito ad un colloquio suggestivo con il luogotenente della stazione di Erba – sostiene Schembri – che fin da subito aveva sospettato dei coniugi, Frigerio fece il suo nome». C’è poi un altro dato, l’assenza di tracce di Olindo e Rosa sulla scena del crimine e di quelle delle vittime nella casa dei coniugi. C’era, però, un’impronta palmare mai attribuita a nessuno, mentre la macchia in auto di Olindo «potrebbe essere frutto di una contaminazione innocente da parte degli stessi carabinieri, che potrebbero averla trasportata dalla scena del crimine – aggiunge Schembri – tant’è non vi sono altre tracce e non esiste una foto della rilevazione della stessa col luminol». La richiesta di incidente probatorio, dopo un rimpallo tra le Corti d’Appello di Como e Brescia e la Cassazione, si è inceppata quando gran parte dei reperti depositati presso l’ufficio dei corpi di reato di Como sono stati distrutti. E pochi giorni fa la Corte d’Assise di Como ha rigettato la nuova richiesta di analisi dei reperti rimasti. Tutto, dunque, tornerà in Cassazione, nel tentativo di trovare gli elementi utili alla richiesta di revisione. E le parole di Azouz, ora, potrebbero aggiungersi come ulteriore elemento. «Bisogna vedere cosa ha da dire – conclude Schembri – Più o meno posso immaginare a chi si riferisce, scorgendo le carte. Potrebbe anche esserci una pista finora non valutata. Di sicuro c’erano moventi più forti rispetto alle banali liti condominiali». Rosa e Olindo, ora, «vivono nella speranza, ma anche nella paura dell’illusione».
Strage di Erba: scontro sui reperti mai analizzati, scrive l'8 aprile 2019 la redazione de Le Iene. Antonino Monteleone, nel nuovo servizio dell'inchiesta che sta portando avanti con Marco Occhipinti, ci racconta l'incredibile vicenda delle possibili prove mai usate e distrutte in parte dal personale del Tribunale di Como. Che adesso si rifiuta di analizzare le prove rimaste, come ordinato invece dalla Cassazione. No all’analisi dei reperti trovati sulla scena della strage di Erba e mai analizzati prima d’ora: tocca alla Cassazione decidere. È la sostanza della risposta della Corte di Assise di Como, che di fatto rifiuta di adeguarsi a quanto stabilito a luglio scorso dalla Corte di Cassazione. Reperti, come il possibile materiale biologico sotto alle unghie del piccolo Youssef Marzouk, o i capelli trovati sulla sua felpa, che potrebbero rappresentare una svolta alle indagini sul caso. O forse addirittura capovolgere la posizione giudiziaria delle sole persone in carcere, Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo per il massacro dell’11 dicembre 2006 a Erba (Como) in cui morirono Raffaella Castagna, il figlioletto di due anni Youssef Marzouk, la nonna del bambino e madre di Raffaella, Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. È l’ennesimo colpo di scena in una storia fatta di assurdi rimpalli di responsabilità tra Cassazione, Corte d’assise di Como e Corte d’assise di Brescia. Un rimpallo che va avanti ormai da quasi 5 anni, con la difesa di Rosa e Olindo che continua a chiedere semplicemente di poter analizzare quei reperti mai analizzati. E si chiede: “Qualcuno ha paura che vengano fatte queste analisi?”. Una domanda che nasce dal fatto che questo ennesimo rifiuto arriva dopo un episodio che ha costretto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a inviare gli ispettori al Tribunale Como: proprio il 12 luglio 2018, giorno in cui la Cassazione decideva che dovesse essere la Corte d’Assise di Como a dover dare il via all’analisi di quei reperti (che la difesa poteva far eseguire ma a proprie spese) e nonostante un divieto esplicito di distruzione dei reperti, un cancelliere del tribunale di Como, incredibilmente, aveva mandato al macero parte dei reperti. Parliamo di oggetti che, potenzialmente, avrebbero potuto contenere informazioni molto utili. L’avvocato della difesa, Schembri spiega: “E’ come se ci volessero togliere delle armi, cioè andare al buio… i tre quarti dei reperti che avremmo voluto analizzare già sono stati distrutti. Se non ci si attiene neppure alle sentenze della Corte di Cassazione sul caso specifico significa che si teme grandemente che questi accertamenti vengano fatti insomma…” E cosa ancora più assurda, in tutta questa intricata vicenda, è il fatto che un'altra parte di questi reperti, che si pensava fosse andata distrutta, era stata fortuitamente ritrovata all’interno di alcuni scatoloni e plichi. Sempre al Tribunale di Como, presso l’ufficio corpi di reato a seguito di un riordino degli archivi. E tra questi reperti quello che il Ris indica come reperto 44, un cellulare di marca Nokia che potrebbe essere compatibile con quello usato da Raffaella Castagna. Anche questo, incredibilmente, mai analizzato. La Corte d’Assise di Como, nel documento che potete leggere per intero a questo link, spiega in sostanza che la decisione sulle eventuali nuove analisi dei reperti rimasti debba tornare alla Corte di Cassazione. E lo fa però appellandosi a un’altra sentenza che riguarda certamente un altro caso, ma non la strage di Erba. La Iena Antonino Monteleone è andato parlare proprio con Angelo Fusaro, il cancelliere del tribunale di Como presunto responsabile della distruzione dei reperti della prima della sentenza della Cassazione. Ma lui, dopo aver provato a farci allontanare dalla vigilanza, ci minaccia: “ehhhh ma io adesso vi faccio la denuncia perché non è possibile”. “Ma scusi hanno denunciato lei perché ha distrutto quei reperti!”, spiega Antonino Monteleone e lui: “No, non è vero!” E allora Le Iene provano a chiamare il suo superiore, il responsabile dell’ufficio dei corpi di reato del tribunale, la dottoressa Valsecchi, ma anche lei ha la bocca cucitissima. Un’altra importante novità che vogliamo dirvi è che Rosa Bazzi ha finalmente accettato di essere intervistata dalle Iene con telecamere e microfoni. Quindi andremo a trovarla, e le faremo tutte quelle domande che vorremmo farle da quando abbiamo iniziato ad occuparci di questa storia…
Delitto di Erba, boom di polemiche sulla puntata revisionista delle Iene. "Rosa e Olindo: due innocenti all'ergastolo?": dopo 13 anni e tre gradi di giudizio, la trasmissione insinua il dubbio che nel delitto sia coinvolto Castagna, fratello di Raffaella, scrive Paolo G. Brera il 30 gennaio 2019 su La Repubblica. Forse non è andato granché bene come share (9,9%), lo show giudiziario delle “Iene” con riedizione revisionista del processo di Erba; ma in quanto a polemiche sta facendo il pienone. Il delitto ha avuto tre gradi di giudizio con altrettante condanne, ma a distanza di 13 anni si è guadagnato una puntata speciale di 50 minuti della trasmissione Mediaset con un titolo decisamente eloquente: “Rosa e Olindo: due innocenti all’ergastolo?”. La lunga inchiesta firmata da Antonino Monteleone e Marco Occhipinti punta sul jolly del “supertestimone” Chemcoum Ben Brahim, sparito da anni in Tunisia. Uno spacciatore che raccontò già allora – e ha ripetuto alle Iene in trasferta, accompagnate da Azouz Marzouk che nel delitto perse la moglie Raffaella e il figlio – di aver visto quella sera un italiano uscire dalla casa della strage, davanti alla quale si trovava, e di averlo riconosciuto “al 90 per cento” in Pietro Castagna, fratello di Raffaella. Anni dopo aver perso sorella, mamma e nipote per un delitto su cui la giustizia ha scritto la parola fine, Pietro si ritrova così in tv nel ruolo – affibbiatogli dalla trasmissione senza mai dirlo esplicitamente - di sospetto stragista di famiglia. Lo hanno pure fermato per strada, ma lui cortesemente ha rifiutato di concedere l’intervista scambiando però due chiacchiere con l’inviato delle Iene. Senza ovviamente sapere che era non solo microfonato, ma pure seguito discretamente da una telecamera. E via con gli spezzoni dell’intervista in carcere a Olindo, una perla che già si era conquistata le sue belle polemiche. E via con l’expertise del giornalista Edoardo Montolli: su “L’enigma di Erba” ci ha scritto due libri, l'altro dei quali si intitola “Il grande abbaglio. Due innocenti verso l’ergastolo”. Nel luogo dove di solito si esercita la giustizia, il tribunale, ventisei giudici quel presunto enigma lo avrebbero pure risolto con solenni condanne, ma evidentemente non solo non hanno convinto Montolli ma neppure Antonino Monteleone: “Ventisei giudici possono essersi sbagliati”, dice il giornalista delle Iene, commentando la quinta puntata della saga revisionista. L’ennesima performance delle Iene, intanto, si sta prendendo una vagonata di contestazioni social. Una per tutti: “Siete imbarazzanti, per non dire vergognosi. Pensavo che dopo Stamina aveste toccato il fondo – scrive Davide Boba Naldi - ma avete comprato una pala”.
Le Iene, Selvaggia Lucarelli dichiara guerra al programma: "Perché deve chiudere", scrive il 30 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Selvaggia Lucarelli non ha mandato giù la puntata speciale de Le Iene su Italia 1 sulla strage di Erba, così come diversi telespettatori che già durante la trasmissione protestavano anche per le insinuazioni e le accuse contro Pietro Castagna, che in quel delitto ha perso la madre, la sorella e il nipotino. Su Twitter, la blogger del Fatto quotidiano ha aggiunto un nuovo attacco alla trasmissione Mediaset, con la quale non ha mai avuto un buon rapporto: "Dopo il servizio de #leiene con pesanti insinuazioni su Pietro Castagna, figlio fratello zio delle vittime della tragedia di Erba, oggi Pietro Castagna si è svegliato così. Con il popolino che ora lo vede come un assassino. In un paese civile questo programma andrebbe chiuso ora". Come riportato da Tvblog, la Lucarelli si è schierata dalla parte di moltissimi telespettatori i quali non hanno accettato il fatto che Castagna sia stato additato dalla redazione del programma come “possibile pista alternativa” rispetto ai coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all’ergastolo e ora sostenuti da una campagna mediatica innocentista.
Da Le Iene del 23 febbraio 2019. Le Iene entrano in possesso di un documento inedito, dal contenuto clamoroso e che tutti hanno cercato e avrebbero voluto pubblicare in questi anni. È un video girato due mesi dopo la stage, in cui Olindo Romano racconta i particolari della strage al criminologo Massimo Picozzi, allora consulente del difensore d'ufficio. Il filmato, mai pubblicato prima d'ora e mai entrato a processo, aggiunge nuovi fondati dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la “Strage di Erba”. Il video viene girato circa un mese dopo che i due coniugi si autoaccusano del delitto, a un mese esatto dal massacro, avvenuto l'11 dicembre del 2006. Il contenuto delle confessioni è carico di incredibili inesattezze ed errori grossolani nella ricostruzione della dinamica. Rosa e Olindo sbagliano o non ricordano. Tra le altre cose: l’orario della strage; il fatto che non ci fosse illuminazione; l’ordine e la dinamica di aggressione delle vittime, in pratica chi avrebbe ucciso chi; le armi del delitto utilizzate; il loro abbigliamento; la loro via di fuga. Oggi Le Iene sono in grado di aggiungere un nuovo tassello nella ricostruzione degli eventi, questa volta con un nuovo e prezioso documento, fino ad oggi rimasto assolutamente inedito per la televisione. Olindo Romano ha accettato di rendere pubblico, esclusivamente attraverso il nostro programma, (vedi lettera di Olindo Romano in fondo all'articolo) i filmati realizzati due mesi dopo la strage dal criminologo Massimo Picozzi, che incaricato dal difensore d’ufficio Pietro Troiano, dovevano servire a dimostrare l’infermità mentale dei due coniugi e, pertanto, ottenere la loro non punibilità.
Il criminologo Picozzi “intervista” Rosa e Olindo nel corso di tre incontri ciascuno avvenuti tra febbraio e aprile 2007. Da questi incontri all'epoca viene fuori solo il più noto di questi filmati: quello dove Rosa Bazzi racconta, tra le lacrime, il movente e la dinamica dell’efferato pluriomicidio. Un filmato che non sarà considerato una prova valida dai Giudici, ma che comunque verrà proiettato in aula al processo e diffuso da ogni televisione, rafforzando in tutti la convinzione di avere di fronte una spietata assassina. Eppure anche in quel racconto, registrato diverse settimane dopo la confessione davanti ai pubblici ministeri, non mancano le enormi inesattezze e le assolute incongruenze. I contenuti del filmato inedito di Olindo Romano, sono ancora più clamorosi. Perché confrontati con il racconto di Rosa, ma soprattutto con la dinamica certificata dalle sentenze, rendono i dubbi sulla loro reale colpevolezza ancora più forti. Quello che all’epoca dei fatti era il difensore d’ufficio dei coniugi, l’avvocato Pietro Troiano, non sa che le prove in mano alla Procura sono meno solide di quello che sembra. La perizia del Ris di Parma che stabilisce con assoluta certezza che nessuna traccia di Rosa e Olindo è presente sulla scena del crimine e che nessuna traccia delle vittime è presente in casa dei due, verrà infatti depositata molto più avanti. Per questo motivo l’avvocato Troiano avrebbe deciso la strategia difensiva che puntava ad ottenere l’infermità mentale. Da qui il suggerimento, a Rosa e Olindo, di essere molto convincenti davanti all’obbiettivo della telecamera del criminologo Massimo Picozzi.
Erba, Rosa Bazzi attacca il suo primo avvocato. Le Iene 7 maggio 2019. La donna contro il primo difensore di lei e del marito Olindo Romano, Pietro Troiano, nell'inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla strage di Erba. Dov'era l'avvocato d'ufficio durante gli interrogatori? Che fine hanno fatto i soldi del conto degli arrestati. Qualcuno ha violato il segreto professionale facendo vedere i colloqui psichiatrici al giornalista Pino Corrias che li ha raccontati nel libro “Vicini da Morire” ancor prima che iniziasse il processo? Nuovo appuntamento con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla strage di Erba per la quale Rosa Bazzi e Olindo Romano sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo (per gli omicidi, nello specifico, di Raffaella Castagna, del figlio di due anni Youssef Marzouk, della madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini dell’11 dicembre 2006). Per i due viene nominato l’avvocato d’ufficio Pietro Troiano. “Ha fatto proprio un bel po’ di danno”, dice Rosa Bazzi nel corso dell’intervista esclusiva che le abbiamo fatto nel carcere di Bollate (clicca qui per la prima parte dell’intervista, qui per la seconda, qui per la terza e qui per tutto il nostro Speciale Iene). In questo appuntamento ci concentriamo sui dubbi di Rosa Bazzi e dei nuovi difensori di fiducia Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, subentrati a Troiano, dopo i primi 5 mesi di carcere. Perché l’avvocato difensore di allora, Pietro Troiano, avrebbe consentito che i due confessassero con le foto della strage davanti? Perché avrebbe permesso che a Rosa fosse letta la confessione del marito Olindo? Era sempre presente durante gli interrogatori che si svolsero entrambi nel pomeriggio del 12 gennaio 2007. Se confrontati, i verbali dei due interrogatori non tornano gli orari di inizio e fine verbali, nel senso che ci sarebbe una sovrapposizione di orari per cui l'avvocato non sarebbe potuto essere presente a fianco dei propri assistiti nello stesso momento. Ma anche non torna la durata delle registrazioni audio se confrontata con gli orari dei verbali, perché mancano più di due ore. C’è poi un altro punto che sembra non tornare e che riguarda i soldi sul conto unico che avevano Rosa e Olindo. “Noi veniamo a scoprire che il Tfr da 6mila euro dalla Eco Nord che Olindo avrebbe dovuto ricevere finisce sul conto corrente dell’avvocato Troiano, tanto che poi il conto di Troiano viene pignorato dalla parte civile, cioè dalla famiglia Frigerio, marito e figli di Valeria Cherubini" (la vicina di casa del piano di sopra morta con più di 40 colpi, il cranio fracassato e la lingua tagliata), sostiene l’avvocato Schembri. Quando è costato l’avvocato Troiano? Rosa Bazzi risponde che “Troiano ci ha fatto firmare dei fogli in bianco e ha detto che ci pensava lui a mettere la cifra, di non preoccuparsi”. Una cosa che se fosse vera sarebbe molto grave. C’è poi un altro dubbio sollevato dall’attuale difesa, sulle “video confessioni” di Rosa e Olindo realizzati dallo psichiatra Massimo Picozzi che dovevano servire solamente per una perizia psichiatrica. L'avvocato Troiano ha consegnato nelle mani dell’accusa il video in cui Rosa confessa i dettagli del massacro, senza però depositare alcuna perizia psichiatrica insieme ad esso. Un video che finisce poi anche in una trasmissione televisiva e convince gli italiani della sua colpevolezza. Perché il collegio difensivo mette a disposizione dell’accusa questo filmato? Nel servizio precedente dedicato al caso, Antonino Monteleone è andato dallo psichiatra Massimo Picozzi per fare alcune domande. Ma non abbiamo ottenuto alcuna risposta dallo psichiatra. Siamo andati allora dal difensore che lo aveva incaricato: l’avvocato Troiano. “Non posso rispondere nulla. Ho ancora il segreto professionale”, ci ha detto. “Non voglio entrare nelle mie scelte professionali assunte da parte dei miei assistiti. C’erano strategie ben definite. I miei clienti erano rei confessi”. La Iena contesta l'avvocato, punto per punto, tutti i dubbi sollevati da Rosa Bazzi e la sua nuova difesa e non sempre Pietro Troiano accetta di fare luce sui tanti nodi ancora irrisolti di questa scabrosa vicenda.
PICOZZI E RAMPONI. Da Le Iene il 30 aprile 2019. “Lui mi faceva le domande e mi spiegava quello che avevo da dire…mi spiegava “perché guarda Rosy, che vai contro o vai a fare, fai questo fai quello, devi dire così devi fare così, quando è il momento ti devi agitare, cioè muovi le braccia così, muovi le braccia così”. “Lui” è il criminologo Massimo Picozzi, all'epoca consulente della difesa, e la donna a cui avrebbe dato dei suggerimenti nel raccontare disperata i dettagli della strage di Erba, è proprio lei: Rosa Bazzi. Sarebbe la nuova tesi che la donna, condannata insieme al marito all’ergastolo per la strage dell’11 dicembre 2006 che costò la vita a 4 persone, 3 donne e un bambino, farebbe dal carcere di Bollate, dove è reclusa da 12 anni, nell’intervista esclusiva concessa a Le Iene, della quale vedrete un nuovo capitolo martedì a partire dalle 21.10 su Italia 1. Quel video ha un'importanza strategica sugli sviluppi della strage di Erba, perché finito nelle mani dei pm e poi di una trasmissione tv: nato come strumento voluto dalla difesa, una volta reso pubblico convinse tutta Italia che Rosa Bazzi fosse colpevole, molto tempo prima che fosse effettivamente condannata. Riguardo ai colloqui psichiatrici video registrati con Massimo Picozzi la detenuta racconta ad Antonino Monteleone particolari difficili da credere, perché se fossero veri, consentirebbero di vedere quel video sotto un’altra prospettiva. “Lui aveva spento la telecamera… mi aveva detto come muovere le mani come agitarmi, cioè… tutte queste cose. questo me l’aveva detto Picozzi”. E ci sarebbe un altro punto di questa vicenda che coinvolgerebbe ancora al consulente la difesa dei coniugi Romano, sempre riguardo a questi video- appunti per una perizia psichiatrica a Rosa e Olindo. Non solo il video in cui Rosa racconta la strage tra le lacrime finirà nelle mani della pubblica accusa, senza che venga depositata alcuna perizia psichiatrica, unica finalità per la quale erano stati realizzate quelle riprese. Ma buona parte dei contenuti del video di Rosa e anche di quello di Olindo, che non è mai stato depositato in Procura, sarebbero finiti non si sa come in un libro scritto dal giornalista Pino Corrias e pubblicato prima ancora che il processo a marito e moglie cominciasse. E questo denunciano i nuovi avvocati difensori di Rosa e Olindo, sarebbe una cosa molto grave. Chi fece vedere, abusivamente, i video al giornalista Corrias? Nel libro “Vicini da Morire”, oltre al contenuto trascritto di quei colloqui tra i detenuti e Massimo Picozzi, troviamo virgolettati attribuiti sia all’avvocato difensore Troiano, sia allo stesso consulente Picozzi, che compare anche tra i ringraziamenti dell’autore: loro, i componenti del collegio difensivo, erano gli unici che all'epoca sarebbero stati in possesso di quei video. E lo stesso Corrias, sentito in aula, ha raccontato: “ho visto un video, che è stato registrato in sede di perizia psichiatrica da Massimo Picozzi”. Quando però gli viene chiesto chi gli abbia mandato quei video e se fosse stato Picozzi, Corrias preferisce non rivelare la sua fonte. Antonino Monteleone decide allora di andare a sentire proprio il professor Picozzi per capire cosa ne pensa e qual è la sua versione dei fatti. “Professore una cosa molto importante, che quando Olindo e Rosa ritrattarono, lei consegnò tutto il materiale… ma in realtà il materiale presenta dei tagli, lei ha nella sua disponibilità il materiale?”, gli chiede la Iena. Ma Picozzi non ha intenzione di rispondere, neanche alla seconda domanda di Monteleone: “L’altra cosa che volevo chiederle è come mai Rosa chiede se era andata bene o era andata male in testa e in coda a dei tagli e delle dissolvenze che ci sono nel filmato…”. Niente, ancora nessuna risposta. E quando gli chiediamo come sia possibile che il giornalista e autore del libro Pino Corrias abbia visto il video di Olindo, tanto da contenerne alcuni estratti, Massimo Picozzi resta in silenzio, guardando fisso nel vuoto.
LETTERA DI EDOARDO MONTOLLI A DAGOSPIA il 30 aprile 2019. Caro Dago, in concomitanza con la nuova puntata de Le Iene di stasera sulla strage di Erba, Il Giorno riporta la clamorosa notizia che la Corte d’Assise di Como ha bocciato definitivamente le istanze di Olindo Romano e Rosa Bazzi di esaminare i reperti della strage mai analizzati, scrivendo testualmente, che la sentenza è «in applicazione dell’orientamento della Cassazione su ciò che attiene le attività di investigazione difensiva». Tutti i quotidiani e i tg, come quasi sempre capita in questa vicenda, si sono buttati a riprendere la news, talmente clamorosa e fresca che Oggi l’ha pubblicata tre settimane fa e Le Iene l’hanno contestualmente mandata in onda all’epoca. Anche se le cose non stanno esattamente come le raccontano in queste ore: la Corte d’Assise di Como, infatti, è tutt’altro che allineata con la Cassazione, che anzi aveva autorizzato gli esami. I giudici lariani scrivono però che il parere della Suprema Corte non è «vincolante per questo giudice dell’esecuzione, in quanto pronunciato in diverso procedimento definito dalla Corte d’Appello di Brescia». A Como, in sostanza, finchè non arriverà un parere delle Sezioni Unite, non vogliono saperne di autorizzare le analisi e quindi chiedono di distruggere anche ciò che in tribunale è stato dimenticato dall’incenerimento illecito della scorsa estate, quando la gran parte del materiale fu bruciato pure di fronte a due espressi divieti dei giudici e in attesa della decisione della Suprema Corte. A beneficio dei tuoi lettori, ti allego l’articolo di Oggi di tre settimane fa e il documento in oggetto della Corte d’Assise, in modo che ognuno possa farsi un’opinione. Già che ci siamo, ti allego anche l’opposizione fatta a Como dalla difesa di Olindo e Rosa, che, come riporto domani su Oggi, ha chiesto stavolta un’udienza pubblica, cosicchè il cittadino constati di persona quanto sta accadendo. La difesa rileva nel provvedimento in parte una “nullità assoluta” e in parte “abnormità”, fermo restando che non si capisce perché siano stati confiscati e per la gran parte distrutti oggetti come pc, telefonini, indumenti che erano estranei al reato e che andavano restituiti ai legittimi proprietari o eredi quale che fosse il loro valore. Non a caso, nei processi sulla strage, non fu predisposta alcuna confisca. Questo, giusto per correttezza d’informazione. Non vorrei infatti che la vecchia notizia data da Il Giorno proprio stamane e fatta risaltare in maniera esorbitante da tutti i quotidiani e i tg, distraesse il pubblico dal lavoro d’inchiesta sul caso svolto dalle Iene e che stasera, come hai dato conto, andrà avanti, approfondendo la questione Rosa Bazzi-Massimo Picozzi. Perché purtroppo è molto facile distrarsi in una vicenda del genere, vuoi con una notizia vecchia, vuoi con un gossip. A proposito di tale argomento, debbo rilevare che nel frattempo si sono perse le tracce delle notizie sul falso amante di Rosa Bazzi, che, giornali e tg a parte, non è mai esistito, se non nel breve frangente temporale di un’altra puntata de Le Iene sulla strage. Cordialmente, Edoardo Montolli.
La Strage di Erba, il delitto di Avetrana e gli altri casi di cronaca. Cosa accomuna i casi giudiziari forieri di dubbi sulla colpevolezza dei condannati?
La strategia difensiva. La presenza dei consulenti mediatici. La nomina di avvocati di ufficio. La loro sudditanza ai Pubblici Ministeri.
MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI. Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare. Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso. Come estorcere una confessione.
HOW TO FORCE A CONFESSION: Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto.
MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza. La promessa di una via d’uscita.
THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia. Offrire una ricompensa.
OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo. Suggerire le parole per la confessione.
FORCING LANGUAGE
Video tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00. Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...
Yara Gambirasio e quelle confessioni mai rese. Rosa, Olindo, Sabrina Misseri e gli altri, scrive il 22/06/2014 L'Huffington Post. La storia di Yara ha diviso e scatenato le polemiche. Chi difende Massimo Giuseppe Bossetti e chi invece lo vede come il colpevole dell'omicidio della piccola. La sua confessione negata però non è la prima. La Stampa rivive tutti i casi di cronaca dove i colpevoli hanno negato sempre tutto. Nel reticolo di dolori che percorre l’indagine sulla fine di Yara lascia due gocce di stupore e di tenerezza la voce della madre di Giuseppe Bossetti, in carcere perché accusato dell’omicidio: «La scienza ha sbagliato». Difende il figlio, la famiglia di ieri e di oggi, il proprio passato e il proprio onore. L’ostinato negare è una costante del processo, per innocenza o per fede nell’effetto del dubbio, per un attimo d’ombra della mente o per vergogna sociale.
Rosa e Olindo Romano: all'inizio avevano confessato, poi ritrattato parlando di "lavaggio del cervello". Non è bastato. Sono stati condannati all'ergastolo nel 2011.
Anna Maria Franzoni: Ha sempre negato, in tribunale come in Tv, rifiutando l'ipotesi della rimozione mentale. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio Samuele.
Paolo Stroppiana: ha sempre negato, ma le sue menzogne lo hanno alla fine condannato: sta scontando 14 anni per la morte di Marina di Modica.
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: omicidio colposo 6 anni e favoreggiamento (2 anni) per l'omcidio di Marta Russo. Teorizzavano il delitto perfetto.
Sabrina Misseri: Tutti la ricordano sempre in TY per la scomparsa della cugina Sarah Scazzi. Poi la condanna senza confessione.
Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive il 17 novembre 2010 La Repubblica. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all' incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull' omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrinae sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l'inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.
Roberta Bruzzone, la criminologa da fiction che difende Misseri, scrive Benedetta Sangirardi Sabato 13 novembre 2010 su affaritaliani.it. Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Aiuta anche le donne e le vittime di violenza. E' consulente tecnico di Telefono Rosa nell’ambito di casi di violenza domestica, violenza sessuale, di stalking e di omicidio. Ha maturato numerose esperienze formative in Italia e all’estero, tra cui un periodo di training in USA presso l’University of California nella sede di San Francisco. E' membro del comitato scientifico della Polizia Postale e delle Comunicazioni. Svolge attività di docenza in vari corsi di perfezionamento e master universitari di numerose Università italiane. Ma non è tutto. La bionda acclamata da diversi blog per la sua bellezza è anche docente universitario, Presidente dell'Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell'International Association of Crime Analysts, Direttore Scientifico de “La Caramella buona Onlus” (associazione di volontariato contro la pedocriminalità). E poi è conduttrice tv, la sua, forse, vera inclinazione. Autrice e conduttrice del Programma TV "La scena del crimine" su un'emittente locale romana e del programma "Donne mortali" su Sky. Insomma, la signora Bruzzone sa il fatto suo. Ed è entrata a gamba tesa nel delitto forse più seguito di tutti i tempi, togliendo spazio ai legali vari, da Vito Russo a Daniele Galoppa. D'altra parte lei non si concede troppo alle tv, come invece fanno gli avvocati e tutti gli altri protagonisti di questa vicenda. Lei resta in disparte, parla quando lo ritiene necessario, mostra la sua bellezza anche un po' provocante. E difende Michele Misseri, assicurando che è una persona dolce "che ha molto a cuore sua figlia Sabrina". Anche se fino a un mese fa era uno sporco pedofilo.
La criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone inizialmente fu consulente della difesa di Michele Misseri, poi lasciò l’incarico per divergenze con la linea difensiva. L’uomo si autoaccusò dell'omicidio della piccola Sarah Scazzi e accusò la criminologa e il suo primo avvocato, Daniele Galoppa, di averlo indotto a incolpare la figlia Sabrina del delitto, motivo per cui la Bruzzone accusò di calunnia Misseri.
Strage di Erba, video inedito di Rosa Bazzi. Confessione è una messinscena? (Le Iene 26 febbraio 2019).
Antonino Monteleone: «Eppure quel video di Rosa, a cui non crede nemmeno suo marito, è girato per far ottenere ad entrambi l’infermità mentale, finì in mano ai Pubblici Ministeri e convinse tutta Italia della loro colpevolezza».
Avv. Fabio Schembri, il nuovo difensore di Rosa ed Olindo: «Che sia finito nel fascicolo del Pubblico Ministero prima di un processo, un colloquio psichiatrico, mi sembra che non è un fatto scorretto, è un fatto incredibile. Diciamola così. Cioè…»
Antonino Monteleone: «Lei dice che è un fatto grave…»
Avv. Fabio Schembri «Ho appreso che è stato detto che quel video sarebbe finito nel fascicolo del Pubblico Ministero perché c’era la denuncia da parte di Rosa di uno stupro. D’accordo? Bene. La denucnoia di stupro si può fare senza video. Uno denuncia uno stupro, poi si fa sentire, se si vuol far sentire, appunto dai pubblici ministeri. Io non so per quale motivo si sia fatta questa scelta».
Antonino Monteleone «Che bisogno c’era di depositare quel video di Rosa. Non sarebbe bastato presentare una denuncia per stupro? Perché il difensore d’ufficio, Pietro Troiano fece quella scelta che poi si sarebbe rivelata davvero disastrosa?»
Erba, quali sono i 5 reperti mai analizzati (e le prove che hanno condannato Olindo e Rosa). Tornano a sperare Olindo Romano e Rosa Bazzi, i due coniugi condannati all’ergastolo per la strage di Erba. La Cassazione ha dato l’ok all’esame di 5 reperti della scena del crimine finora mai analizzati. Ecco quali sono e quali furono le prove che hanno decretato la condanna all’ergastolo in tre gradi di giudizio, scrive su Fanpage il 27 novembre 2018 Angela Marino. Neanche la Cassazione sembra aver misso fine al giallo di Erba. Proprio la Suprema Corte che pochi mesi fa aveva respinto la richiesta d'incidente probatorio avanzata per alcuni reperti dalla difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, i due coniugi condananti per l'omicidio di quattro persone tra cui un bimbo, ha recentemente concesso che ci proceda all'accertamento irripetibile. Cosa vuol dire questo? Alcuni dei reperti recuperati dopo la distruzione delle prove disposta lo scorso luglio dall'ufficio corpi di reato, verranno riesaminati per rilevare tracce di quelli che, secondo i legali della difesa, gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D'Ascola, sarebbero i veri autori della strage.
Le cinque prove da esaminare. Dalla scena della strage del condominio di Erba, dove nel 2006 persero la vita Paola Galli (60 anni), Raffaella Castagna (30 anni), Youssef Marzouk (2 anni) e Valeria Cherubini (55 anni), sono stati estratti questi elementi, che verranno esaminati:
Un accendino trovato sul luogo del crimine e 19 mozziconi di sigaretta;
Una tenda alla quale una delle vittime si aggrappò durante l'aggressione;
Un mazzo di chiavi;
Tre giubbotti;
Alcune formazioni pilifere (peli e capelli) rinvenute sugli abiti del piccolo Youssef.
Le prove che hanno decretato la condanna. Già nel 2008, a due anni dai fatti, Corte d'Assise emise una sentenza di colpevolezza (poi confermata nei successivi due gradi di giudizio) che non lasciava troppi dubbi. Ecco le prove, all'epoca considerate granitiche, per cui furono condannati al carcere a vita.
La confessione firmata da entrambi, con dettagli che solo gli assassini potevano conoscere, e confermata da autopsia. Rosa Bazzi confessò di aver ammazzato il piccolo Youssef con un solo fendente alla gola, circostanza che confermata in sede di autopsia. Il video choc realizzato dal consulente della difesa, il criminologo Massimo Picozzi, dove Olindo confessa lasciandosi andare a commenti da brivido. "Quando ho ucciso non ho provato né piacere né disgusto. Era una cosa naturale, come ammazzare un coniglio. Non mi dispiace per niente". Il video diventò una prova schiacciante per l'accusa. Picozzi ipotizzò che la depressione di cui erano affetti poteva essere considerata alla stregua della "malattia mentale". Nelle stesse confessioni Olindo dichiarò di essere dispiaciuto di non aver eliminato anche i carabinieri: "Quando l'8 gennaio arrivarono per dirci di seguirli in caserma, non sapevamo che ci volessero arrestare. Se avessimo sospettato, tra me e mia moglie quei tre carabinieri non sarebbero usciti vivi da casa".
La traccia di sangue di Valeria Cherubini, mista a sangue maschile, nel battitacco dell'auto di proprietà della famiglia Romano-Bazzi, considerata la prova regina, accanto alla confessione duplice.
La testimonianza di Marco Frigerio, unico sopravvissuto alla strage e deceduto nel 2003. "Vidi Olindo, mi fissò che degli occhi da assassino, non dimenticherò mai il suo sguardo, era una belva".
Il movente: Olindo e Rosa avevano una storia di tensioni e litigi con i vicini di casa. Raffaella Castagna aveva addirittura denunciato la coppia per un'aggressione con due pugni. Di lei l'Olindo reo confesso dirà: "(Raffaella Castagna è arrivata (nel condominio) tre mesi dopo di noi ed è finita la pace. Prima con gli amici, poi con uan decina di extracomunitari, ‘negri'. Ci passavano dentro tutti i tossici e io un sacco di volte ho chiamato i carabinieri, ma non succedeva niente".
Roberta Bruzzone dalla parte di Olindo e Rosa. Tra i tecnici della difesa anche la criminologa, Roberta Bruzzone, che al settimanale ‘Giallo', dichiara: "Rosa e Olindo sono innocenti e lo dimostreremo. Sulla base della relazione dei Ris di Parma sulla scena non c'erano tracce riconducibili a nessuno dei due. La traccia di sangue trovata nell'auto di Olindo, a nostro giudizio, fu lasciata per errore dagli inquirenti stessi quando entrarono nel veicolo per esaminarlo. L'unico superstite, Mario Frigerio all'inizio non riconobbe in Olindo il suo aggressore, che descrisse com un uomo di colore. A tal proposito vogliamo capire come mai, alcune registrazioni delle sue prime testimonianze in cui parlava appunto di uno straniero, siano andate perdute".
L'attesa nel carcere di Opera. Olindo e Rosa attendono nel carcere di Opera, dove entrambi sono reclusi (lui lavora come aiuto cuoco, lei alle pulizie) per la strage del Comasco. Delle confessioni che all'epoca resero oggi dicono che si trattava della strategia difensiva concordata con gli avvocati. Resta un punto interrogativo su un'accusa molto pesante, che all'indomani della confessione Rosa Bazzi rivolse contro Azouz Marzouk, rispettivamente marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef Marzouk, due delle quattro vittime. La moglie di Olindo disse di essere stata stuprata da Marzouk: "Era pazzo di me", dichiarò.
Strage di Erba, esclusivo: le video “confessioni” di Rosa. Una messinscena? Scrivono il 26 febbraio 2019 Le Iene. Un video mai visto prima di Rosa Bazzi che parla del presunto stupro di Azouz. E due momenti, all’inizio e alla fine del filmato, che fanno pensare che sia tutto una messinscena. Ecco il nuovo servizio dell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla strage di Erba. Quello che vedete in questo servizio è un documento video totalmente inedito, ovvero la “confessione” ripresa dal criminologo Massimo Picozzi di Rosa Bazzi, che ha autorizzato solo Le Iene a trasmetterlo come prima ha fatto anche il marito. Ve la mostriamo infatti dopo che domenica scorsa abbiamo mandato in onda l’analoga “confessione” di Olindo Romano, sempre in esclusiva assoluta e dopo aver incontrato Rosa in carcere. E con il video di oggi scopriamo due piccoli dettagli che potrebbero essere la prova di quale fossero la natura e le intenzioni di quei filmati. I coniugi hanno prima confessato e poi ritrattato i 4 omicidi dell’11 dicembre 2006 a Erba (Como) di Raffaella Castagna, il figlio Youssef di due anni, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, per cui sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo. Movente: le continue liti condominiali. Noi de Le Iene nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, di cui in fondo all’articolo potete ripercorre le ultime tappe, compreso lo speciale, vi stiamo raccontando da tempo possibili dubbi e possibili piste alternative. I video delle “confessioni”, secondo il racconto di Olindo, sono stati girati perché la strategia difensiva dell’avvocato d’ufficio che seguiva all’inizio i coniugi perché non si potevano permettere un altro legale puntava all’infermità mentale. Rosa e Olindo poi hanno ritrattato tutto. Olindo nel suo video commette molti errori nella ricostruzione e si contraddice con la versione di Rosa. In tutto lui commette 243 errori, quelli della moglie sono incalcolabili: sulla dinamica della strage, le armi usate e i colpi inferti alle vittime. Finora è stato era stato diffuso un solo video, diventato celebre, in cui Rosa Bazzi confessava in lacrime la strage e raccontava di essere stata violentata da Azouz Marzouk una storia quest’ultima a cui i giudici non hanno mai creduto e a cui tra l’altro non credeva nemmeno Olindo a quanto ha detto durante l’intervista in carcere che vi abbiamo mostrato domenica). Azouz nella strage ha perso la moglie Raffaella Castagna e il figlio di due anni Youssef. Oggi vi mostriamo un altro video inedito, girato nell'aprile 2007, due mesi dopo i precedenti. Abbiamo notato due dettagli che sembrano confermare la versione di Olindo, ovvero che i video fossero una messinscena per puntare a ottenere l’infermità mentale. All’inizio e alla fine sono rimasti, forse per un errore di montaggio nella dissolvenza, una frase di Rosa che dice sorridente: “…altra volta, male?”, a cui il criminologo risponde: “bene tutto sommato”. E poi ancora in risposta a “Va bene dai, fermiamoci qui” di Picozzi lei che sempre sorridendo chiede “Male?”. Aumenta il sospetto della “messinscena”, eventualmente già ripetuta o da ripetere, soprattutto guardando la faccia sorridente di Rosa e considerando che aveva appena raccontato de massacro di quattro persone e del presunto stupro ricevuto. Cosa ci fosse da sorridere e cosa intendesse lo psichiatra Picozzi con “bene tutto sommato”, se non fosse tutta una messa in scena, non riusciamo a capirlo. Rosa Bazzi, incontrando in carcere Antonino Monteleone, ha raccontato che le veniva suggerito cosa doveva dire e come doveva dirlo. Ascoltare le parole di Rosa Bazzi con questa premessa rincara la dose dei dubbi. Nel video racconta dello stupro subito da Azouz, che avrebbe scatenato la rabbia omicida secondo una prima versione (secondo Olindo era stata invece la causa in Tribunale con i vicini che li attendeva). Arriva a dire che la moglie di Azouz era “invidiosa di noi due” e addirittura che “gli interessava mio marito e voleva a tutti i costi rovinare il mio matrimonio” o che “diceva sempre che Olindo era un bel ragazzo”.
Strage di Erba, video inedito di Rosa Bazzi. Confessione è una messinscena? (Le Iene). Strage di Erba, Le Iene portano alla luce l’esistenza di un nuovo video di Rosa Bazzi che dimostrerebbe la messinscena della sua confessione, scrive il 27.02.2019 Carmine Massimo Balsamo su Il Sussidiario. Prosegue l’inchiesta de Le Iene sulla strage di Erba: dopo la video “confessione” di Olindo Romano, spunta un nuovo filmato che ritrae questa volta Rosa Bazzi a colloquio con il criminologo Massimo Picozzi. Antonino Monteleone, nel corso di una vista al carcere di Bollate per incontrare Rosa senza telecamere, ha scoperto l’esistenza di due nuovi video. Fino ad oggi era nota l’esistenza di solo due video girati due mesi dopo la strage dallo psichiatra e criminologo Massimo Picozzi su incarico del difensore d’ufficio Pietro Troiano: la strategia difensiva era quella di dimostrare l’infermità mentale dei due indagati. Nel primo Rosa Bazzi racconta in lacrime i dettagli della strage: il filmato ideo viene ai pm e mostrato ai giudici, convincendo tutti della sua colpevolezza. Ma se si fosse inventata la carneficina come lo stupro di Azouz? Le loro confessioni contengono centinaia di incongruenze rispetto che gli inquirenti hanno accertato come fatti certi. Il video inedito di Olindo Romano contiene numerose contraddizioni rispetto a quanto raccontato ai pm e dalla moglie Rosa e ora sono venuti alla luce altri filmati mai visti prima. Come spiega l’inviato de Le Iene, bisogna prestare attenzione a due particolari sorprendenti, pochi secondi importantissimi per capire la vera natura di quei video. All’inizio e alla fine delle riprese Rosa dice qualcosa che effettivamente potrebbe confermare la versione dei fatti di Olindo: in testa e in coda al video c’è la dissolvenza, un effetto che maschera un taglio. Questo significa che il video non è integrale, Picozzi e Rosa prima e dopo questi tagli si dicono qualcosa che lo psichiatra ritiene superfluo o che non vuole si senta. All’inizio del video Rosa sta già parlando, la frase è tagliata ma si sente distintamente Rosa che dice «altra volta, male?»: Picozzi le risponde «bene, tutto sommato». Rosa stava raccontando di aver massacrato tre donne e un bambino e di aver subito uno stupro; cosa è andato bene, tutto sommato e perché lei ride? Potrebbe essere una messinscena e una conferma sembrerebbe arrivare dalla fine del video: dopo venti minuti a parlare dell’improbabile violenza sessuale di Azouz, Rosa dice «male?» sorridendo e con un tono in cerca di conferme. Cosa si sono detti subito dopo? Durante l’incontro nel carcere di Bollate, Rosa sostiene che le venisse detto cosa dire e come dirlo. Clicca qui per vedere il video. (Aggiornamento di Massimo Balsamo).
Strage di Erba, i coniugi Romano per la prima volta non sono in tribunale. Sentite le dichiarazioni della donna registrate nel giugno dello scorso anno. Rosa Bazzi: "Azouz mi violentò quell'uomo era pazzo di me". "Mi ripeteva che mentre era in galera non faceva che pensare a me". Marzouk, in aula, ascolta sorridendo. "La signora non è il mio tipo...", scrive il 10 marzo 2008 La Repubblica. Per la prima volta dall'inizio del processo per la strage di Erba, Olindo Romano e Rosa Bazzi non si presentano in aula. Ma restano comunque protagonisti dell'udienza in Corte d'Assise a Como. Soprattutto Rosa, perché questo è il giorno in cui vengono sentite le registrazioni del colloquio che la donna ebbe il 18 giugno del 2007 con il pm Massimo Astori. Quando cioè raccontò di aver subito violenza sessuale da parte di Azouz Marzouk, padre e marito di due delle quattro vittime. Il racconto è dettagliato. "Era cotto di me - sostiene la donna - una mattina è arrivato con il suo furgone. L'ho sentito litigare con Raffaella. Sono uscita a stendere i panni. Lui era sugli scalini a fumare. Sono andata in lavanderia. Ho sentito dei rumori e pensato fosse mio marito. Invece era Marzouk. Mi sono sentita 'fredda', brandendo un vaso gli ho intimato di uscire. Tremavo dalla paura perché ero sola in casa". "Lui - continua - ripeteva che mentre era in galera non faceva altro che pensare a me. Gli dicevo di uscire, di pensare alla famiglia, mi sono voltata e lui mi ha afferrato". A quel punto, insiste la donna, Marzouk "ha cominciato a strapparmi la maglietta rosa che indossavo. Ho cercato di difendermi ma mi ha sbattuta sul divano dicendo che ho un corpo più bello di quello di sua moglie". In aula, Marzouk ascolta attentamente e non trattiene qualche sorriso ironico. "A un certo punto - prosegue Rosa Bazzi nella registrazione - mi ha strappato gonna e mutandine. Ho cercato di difendermi inutilmente, di lottare. Lui era sopra di me, sul divano, siamo caduti. Ho capito che era entrato in me. Mi diceva che era bellissimo, che avrebbe ucciso il mio Olindo per portarmi in Tunisia. Sono andata a lavarmi in doccia. E' arrivato mio marito. Non gli ho mai detto cos'è accaduto". Né, continua, ha sporto denuncia "perché tanto i carabinieri non mi avrebbero dato retta". Nelle registrazioni la strage diventa il modo di Rosa Bazzi di vendicarsi di Marzouk: "Era il mio scopo. Vedevo lui su Raffaella, sulla mamma, sul bambino e sui signori di sopra. Il volto di lui che mi sorrideva, bello e soddisfatto. Vedevo lui, vedevo la scena di quello che abbiamo fatto sul divano". La replica di Marzouk arriva al termine della registrazione: "Non ho mai tradito la mia Raffaella e voglio anche aggiungere che quella bella signora non è il mio tipo", scrive su un biglietto affidato al suo legale, Roberto Tropenscovino, che lo legge ai cronisti. L'udienza si era aperta con l'ascolto dei nastri degli interrogatori di convalida del fermo cui furono sottoposti i due coniugi davanti al gip Nicoletta Cremona. Interrogatori in cui Rosa Bazzi e Olindo Romano confermano le confessioni già rese nei giorni precedenti. Protagonista ancora Rosa, che si assume l'esclusiva responsabilità dell'omicidio del piccolo Youssuf "perché urlava e piangeva, mi faceva venire il mal di testa". Nega la premeditazione: "Volevo solo spaventare, non uccidere. Olindo non voleva. Ma io non ne potevo più con quel mio mal di testa insopportabile". La testimonianza si conclude con la donna che, in lacrime, ricostruisce i delitti, in particolare quello del bambino: "L'ho accoltellato, è vero. Ma non l'ho picchiato, proprio no. Più colpivo, più mi sentivo forte. Sentivo che stavo riconquistando la mia vita". Il processo proseguirà il prossimo 13 marzo. Nella prossima udienza saranno sentiti i primi testi della difesa. Degli originari 150 ne sono stati ammessi 30. Ad alcuni hanno rinunciato gli stessi difensori.
Olindo: "Le nostre confessioni? Parte della strategia difensiva". Romano, condannato all'ergastolo insieme alla moglie: "Siamo innocenti, speriamo che ci sia un giudice onesto", scrive Felice Manti, Lunedì 29/10/2018, su Il Giornale. «Le nostre confessioni facevano parte di una strategia difensiva che non ha funzionato. Ma io e mia moglie siamo innocenti. Speriamo che in Italia ci sia un giudice onesto». È un Olindo Romano sorridente e impacciato a parlare alla Iena Antonino Monteleone ieri sera durante la sesta puntata della trasmissione di Italia Uno che ha rilanciato i dubbi sull'inchiesta e sul processo che ha portato alla condanna all'ergastolo per Olindo e la moglie Rosa Bazzi, colpevoli secondo 26 giudici di aver ucciso Raffaella Castagna e suo figlio di due anni Youssef Marzouk, Paola Galli la nonna del bambino, e Valeria Cherubini, la vicina del piano di sopra, e di aver ferito mortalmente il marito della Cherubini, Mario Frigerio, che a processo riconoscerà la coppia come autori della mattanza che l'11 dicembre 2006 in via Diaz sconvolse per sempre la tranquillità e la fama di Erba. Per la legge e l'opinione pubblica sono stati riconosciuti da un testimone («Ma io con Frigerio non ce l'ho mai avuta, lo hanno manipolato e girato come una patata», dice Olindo), incastrati da una traccia di sangue trovata sull'auto e inchiodati da una confessione. Prove che la trasmissione ha smontato, una a una, basandosi su riscontri di periti, documenti in parte già usciti come sul Giornale nei mesi precedenti e successivi alle fasi del processo e da testimonianze inedite. Ieri il colpo di scena finale: chi si aspettava un Olindo pentito, rancoroso, cinico, è rimasto deluso. Ma le sue accuse contro l'ex legale, i pm e i carabinieri sono pesanti. Si parte dalle confessioni, arrivate, dice Monteleone, «dopo due giorni di isolamento, l'ergastolo prospettato come una certezza, la promessa di benefici di pena in caso di confessione e l'ingenua speranza di Olindo di poter ottenere una cella matrimoniale». «I carabinieri ci hanno detto che eravamo messi male, se non confessi non vedi più tua moglie... anche quello ha influito racconta Olindo Romano - Hanno fatto leva sui nostri sentimenti, e lì è saltato tutto». E i dettagli che solo gli assassini potevano conoscere? «Quando abbiamo confessato i pm ci hanno mostrato delle foto, ce li hanno fatti vedere loro...», ammette candidamente «dove non riuscivamo ad arrivare ci correggevano un po' loro... e alcuni dettagli noi li abbiamo praticamente visti su un mucchio di fotografie sul tavolo». Poi si passa al racconto sui rapporti con le vittime e sull'odio come movente. Olindo racconta le feste a casa Castagna-Marzouk fino «alle due, le tre di mattina... io mi dovevo svegliare alle cinque...» e delle liti continue «ma dalla Raffaella siamo saliti anche a prendere il caffè!», racconta. Senza dirsi stupito che Azouz Marzouk, il tunisino espulso per spaccio di droga che nella strage ha perso moglie e figlio, lo consideri innocente: «Io penso che lo abbia sempre pensato. Non l'ha mai detto prima perché era nei casini». Chi sono i veri assassini? Gli chiede Monteleone. «Sicuramente professionisti, se non han lasciato in giro niente. Sto pagando al posto loro. Ma quando vieni accusato ingiustamente ti guardi bene da puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo». Un po' di freddezza la riserva solo nei confronti di Carlo Castagna («Come ha fatto a perdonarci? Non saprei...»). E sul video in cui Rosa Bazzi racconta la mattanza in maniera delirante e poi denuncia di essere stata stuprata da Azouz rivela: «Da quello che so io, questa denuncia qui, è stata suggerita dall'avvocato (Pietro Troiano, nominato d'ufficio, ndr) che avevamo, perché aveva quella sua strategia lì. Ci aveva detto di esser convincenti». Ma secondo Olindo chi ascoltava la confessione (il perito della difesa Massimo Picozzi, ndr) avrebbe dovuto capire che erano tutte balle («Essendo un professore riuscirà a capire che c'è qualcosa che non va. Invece no...»). Una strategia difensiva che, se fosse vera, si è dimostrata catastrofica. Ma Romano non ce l'ha con il suo ex legale: «Ha sbagliato, però è stato travolto anche lui eh. Noi non eravamo all'altezza della situazione per dire, no? Ma lui era messo come noi».
Rosa e Olindo, le Iene e la nuova bomba: "Cinque plichi, uno aperto". Indagini manomesse, è la prova? Scrive il 12 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Spuntano 5 plichi scomparsi nel giallo di Erba. Uno di questi, sarebbe stato addirittura aperto senza redigere apposito verbale. È quanto si legge su una nota informativa del Tribunale di Como, Ufficio Corpi di Reato, indirizzata ai difensori di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati definitivamente in quanto ritenuti colpevoli del noto massacro consumatosi ad Erba (Co) la sera dell'11 dicembre 2006. È quanto ha appreso l'Adnkronos da Fabio Schembri, il difensore di Olindo Romano e il giornalista Antonino Monteleone. La notizia è al centro del servizio delle Iene, in onda martedì sera su Italia 1. Ecco quanto scrivono testualmente i magistrati: "D'ordine del Presidente della Sezione Penale e della Corte d'Assise dott.ssa Valeria Costi, si comunica che, durante le attività di riordino degli archivi dei corpi di reato, è stato rinvenuto uno scatolone contenente cinque plichi di reperti relativi al procedimento in oggetto, quattro aventi numero C.R. 5012/07, contenenti una tanica, otto coltelli, un affilacoltelli, un mazzo di chiavi ed un abbonamento, ed uno avente numero C.R. 4928/07, contenente un cellulare". Di questi cinque plichi, uno in particolare risultava essere aperto "senza che vi fosse allegato verbale di apertura. Si è quindi proceduto, ai sensi dell'art. 82 c. 2 disp. att. c.p.p., a redigere il relativo verbale di verificazione". L'avvocato Sghembri spiega all'Adnkronos: "Dunque sono stati ritrovati dei plichi, alcuni sono stati manomessi. E questo senza dimenticare che "a Brescia l'incidente probatorio dapprima era stato ammesso, poi revocato. Noi abbiamo fatto ricorso in Cassazione - ricorda il legale - e abbiamo appreso che i reperti erano stati bruciati. Il tribunale di Como invece adesso ci informa di uno scatolone contenente cinque reperti, uno dei quali aperto ma senza verbale di apertura. Il fatto che non ci sia il verbale è sospetto tanto che lo stesso Tribunale ha proceduto con una procedura di verificazione. Ne prendiamo atto ed attendiamo che il Tribunale in modo trasparente ci spieghi cosa è accaduto, in modo che si faccia chiarezza. Nel frattempo - conclude - procederemo all'esame dei plichi rimasti. Ma soprattutto vogliamo comprendere cosa sia accaduto: come mai i plichi bruciati, distrutti all'improvviso ricompaiono?".
Le Iene, nuova pista sconvolgente sulla strage di Erba: ipotesi della vendetta della 'ndrangheta contro Azouz, scrive il 20 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Continua lo speciale de le Iene sulla strage di Erba per la quale Rosa Bazzi e Olindo Romano sono stati condannati all’ergastolo con l’accusa di omicidio di Raffaella Castagna, del figlioletto di due anni Youssef, di Paola Galli, madre della prima e nonna del bambino, e della vicina di casa Valeria Cherubini. La redazione del programma di Italia 1 non crede alla colpevolezza dei coniugi né al movente delle liti condominiali. Così, nella puntata del 19 febbraio, gli inviati Antonino Monteleone e Marco Occhipinti hanno seguito una nuova pista, quella di una possibile vendetta della ‘ndrangheta ai danni di Azouz Marzouk che, nell’efferato massacro, ha perso la compagna Raffaella e il figlio Youssef. Un’ipotesi rafforzata dalle rivelazioni di Marta Calzolaro, la moglie del cugino di Azouz. La donna, ai microfoni delle Iene, ha riferito particolari sconvolgenti, parlando di liti in carcere tra Marzouk e, appunto, alcuni esponenti del clan mafioso per lo spaccio di droga a Erba. L’accusa più pesante di Marta è, però, quella che riguarda l’ipotesi di rapporti sessuali tra Azouz e alcuni figli dei boss della ‘ndrangheta. "In carcere Azouz aveva rapporti con ragazzini maggiorenni. Avevamo pensato: mica che aveva toccato qualche figlio di qualche calabrese importante?". Questo, secondo la Calzolaro, il vero motivo che avrebbe portato i rappresentanti del clan a vendicarsi, colpendo direttamente la famiglia del marocchino. Una dichiarazione piuttosto grave e, ovviamente, interamente da verificare. Intanto se Azouz ha smentito la parte relativa agli rapporti sessuali, ha ammesso la veridicità sulla rissa con i calabresi e, in particolare, con il pregiudicato Maurizio Agrati. Infatti, a seguito dello scontro, lo stesso Marzouk è stato trasferito in un’altra struttura.
Strage di Erba: una vendetta della 'Ndrangheta? Scrivono il 20 febbraio 2019 Le Iene. La testimonianza esclusiva della moglie del cugino di Azouz Marzouk apre una possibile pista alternativa nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla strage di Erba. Marta Calzolaro racconta nei dettagli lo scontro in carcere di Azouz con esponenti della ’Ndrangheta e ipotizza anche suoi rapporti sessuali con figli di boss. Una testimonianza esclusiva apre una possibile pista alternativa, quella di una vendetta della ’Ndrangheta, nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla Strage di Erba. Per la strage sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva Rosa Bazzi e Olindo Romano. Per l’omicidio l’11 dicembre 2006 a Erba (Como) di Raffaella Castagna, il figlio Youssef di due anni, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Movente: le continue liti condominiali. Martedì scorso vi abbiamo raccontato del ritrovamento, una settimana dopo lo speciale Iene “Rosa e Olindo, due innocenti all’ergastolo?”, di reperti mai analizzati. La nuova testimonianza che vi proponiamo è quella di Marta Calzolaro, moglie del cugino di Azouz Marzouk, mai messa a verbale dai Carabinieri per sua richiesta: al tempo aveva paura di subire ritorsioni pure lei. Anche ai militari avrebbe già detto che il movente della strage poteva essere quello di una vendetta della ’Ndrangheta, che controllava lo spaccio a Erba, dopo le liti pesanti in carcere di Azouz, coinvolto anche lui nello spaccio, con alcuni esponenti mafiosi calabresi. È una pista a cui Azouz, che nella strage ha perso la moglie e un figlio, dice di non credere. Marta Calzolaro rincara la dose: “In carcere Azouz aveva rapporti con ragazzini maggiorenni. Avevamo pensato: mica che aveva toccato qualche figlio di qualche calabrese importante?”. La sua testimonianza è ovviamente tutta da verificare. Quando gliene parliamo, Azouz Marzouk si mette a ridere. Smentisce qualsiasi rapporto omosessuale con ragazzi in carcere, non la rissa con “i calabresi” che ha portato al suo trasferimento di carcere. Una delle persone con cui si è scontrato è Maurizio Agrati, temutissimo esponente della ’Ndrangheta.
· Giorgio Magliocca. Arrestato per camorra, poi assolto: «Fu un incubo..».
Arrestato per camorra, poi assolto: «Fu un incubo..». Giorgio Magliocca, candidato di Fi alle europee. Accusato di favori ai clan, l’avvocato e presidente della provincia di caserta racconta: «in cella 10 mesi per un incontro col boss che però era al 41 bis…» Errico Novi il 14 Maggio 2019 su Il Dubbio. Volete un esempio di errore giudiziario, di quelli clamorosi? Può raccontarvelo Giorgio Magliocca, presidente della provincia di Caserta e oggi candidato alle Europee per Forza Italia. «L’ho vissuto sulla mia pelle: quasi 11 mesi di detenzione cautelare, in gran parte in carcere, per un’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto in primo grado e assolto anche in appello, con la formula “perché il fatto non sussiste”. Ho ottenuto un risarcimento per ingiusta detenzione da 90mila euro. E nessuno può comprendere, meglio del sottoscritto, Silvio Berlusconi quando dice che dopo essere stato ingiustamente cacciato dalle istituzioni vuole tornarci in virtù del consenso popolare». Magliocca, avvocato di professione con un passato da componente dello staff dell’allora sindaco di Roma Alemanno, ha imparato a liberarsi anche del rancore. Oltre ad essere rieletto sindaco del suo comune, Pignataro Maggiore, e appunto presidente della Provincia, ha incassato le scuse di molti che avevano giocato al tiro al bersaglio dopo il suo arresto nel 2011. Persino Roberto Saviano ha ammesso l’errore. Ma non è stato Magliocca a cercare, nella candidatura a Strasburgo, un ulteriore risarcimento. «Quello credo di averlo già ampiamente ottenuto», dice, «sia sul piano strettamente giudiziario che dal punto di vista politico». E in effetti, «dopo essere stato accusato da un pentito di aver incontrato un boss alla vigilia delle Comunali del 2006, quando mi sono ripresentato per la carica di primo cittadino nel 2016, cinque anni dopo l’arresto, con la fascia tricolore ho ottenuto anche il risarcimento morale che era legittimo pretendere». Poi l’ulteriore onore della elezione al vertice della Provincia nel 2017. Cosicché al riconoscimento popolare si è aggiunto anche quello del sistema politico. «Non ho sentito certo il bisogno di sollecitare la candidatura alle Europee come ulteriore riscontro, ma tengo a contribuire all’affermazione di Berlusconi, in una tornata elettorale che riveste uno straordinario significato anche rispetto alla sua vicenda giudiziaria». Ma non è che la storia personale di Magliocca sia a sua volta poco significativa, seppure sotto la specie di un’accusa per concorso esterno in un comune campano relativamente piccolo. Anzi, il caso del sindaco- avvocato resta clamoroso. Venne arrestato e processato perché un pentito del clan Ligato, cosca satellite dei Casalesi, offrì ai pm della Dda di Napoli una storiella tanto fantasiosa quanto suggestiva: il colloquio riservato e fatale fra Magliocca e il boss della zona, pochi giorni prima delle Comunali di maggio 2006. Ci volle quasi un anno, ed è questo forse l’aspetto ancora più grave della vicenda, per accertare che quel malavitoso, all’epoca del presunto incontro a cena, era detenuto al 41 bis. Una storia al limite dell’incredibile. Altrettanto sorprendente fu la scelta di proporre ricorso in appello da parte uno solo dei quattro pm che fino al dibattimento in primo grado avevano sostenuto l’accusa. Nel secondo grado di giudizio venne di nuovo giù il teorema. Sono arrivati così non solo l’assoluzione definitiva nel 2014, ma anche i 90mila euro di risarcimento della Stato. «Non è irrilevante neppure questo, perché alcune sentenze della Cassazione hanno precluso il riconoscimento del ristoro per ingiusta detenzione in quei casi in cui il magistrato abbia comunque potuto essere ingannato dagli indizi. Nel mio caso, nel caso della mia innocenza, non c’erano dubbi». Dietro l’errore della magistratura antimafia partenopea pare ci sia stato anche l’eccesso di “coinvolgimento emotivo” di uno dei poliziotti che condussero materialmente le indagini: un antiberlusconiano convinto, che prima lasciava sui social frasi del tipo «meglio un figlio morto che elettore di Forza Italia» e poi costruiva i rapporti ai quali i pm diedero ascolto. Alcuni parlamentari del Pd, i prima linea Pina Picierno, fecero delle accuse infondate a Magliocca una battaglia personale. Tutti, lei compresa, si scusarono. «Tuttora gli avvisi di garanzia vengono spacciati mediaticamente per accertamenti di colpevolezza», riflette il candidato di Fi alle Europee. «Non ci si rende conto che a volte la magistratura deve notificartelo semplicemente in base alla denuncia di un tuo oppositore politico. Io posso dire di aver avuto giustizia, ma battersi perché la giustizia si affermi è un impegno che non si può mai dismettere. Ecco perché, quando mi è stato proposto, alla fine ho trovato giusto essere al fianco di Berlusconi in una sfida che non è solo elettorale».
· Parla Lorenzo Diana: «Io, rovinato dalle bugie di un pentito».
Parla Lorenzo Diana: «Io, rovinato dalle bugie di un pentito». L’Odissea dell’ex senatore del Pds, icona dell’antimafia, infangato da un’intercettazione e poi scagionato da ogni accusa di collusioni con le cosche. Simona Musco il 16 Maggio 2019 su Il Dubbio. Quattro anni di indagini e poi la richiesta d’archiviazione. Quella dell’ex senatore del Pds Lorenzo Diana è una storia strana, che racconta con precisione e dovizia di particolari il rapporto perverso che spesso si innesca tra avviso di garanzia e gogna mediatica. E di come una vita di impegno contro la camorra possa essere fatta passare per il suo esatto contrario. Mille e quattrocento giorni dopo il 3 luglio 2015, giorno in cui a casa Diana arriva la notifica di un’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa, «l’incubo è finito», dice al Dubbio il paladino caduto dell’antimafia. Ma il prezzo è già stato abbondantemente pagato. Perché nonostante la stessa Dda abbia chiesto, lo scorso 8 maggio, l’archiviazione per l’ex componente della Commissione antimafia, il fango che lo ha travolto rimane attaccato addosso. Il clan dei casalesi lo voleva morto, quel Lorenzo Diana che nel suo paese, San Cipriano d’Aversa, era ritenuto l’istituzione politica più influente. Ci ha provato con una bomba, poi è passata alle minacce con una lettera del boss Francesco Schiavone “Sandokan” spedita direttamente dal carcere. Ma nulla è stato efficace come la delegittimazione, arrivata per bocca di due pentiti, che lo hanno descritto come il facilitatore degli accordi tra la Cpl Concordia e i vertici del clan. Per la Dda, Diana si sarebbe attivato per sbloccare gli atti necessari a far sì che diversi lavori andassero alle imprese legate ai vertici del clan. Un castello d’accuse fondato, in alcuni casi, sull’evidenza, sconcertante, dell’impegno antimafia di Diana. Usata, invece, come se significasse il suo esatto contrario. «Io lo sapevo che sarebbe finito tutto, perché ho sempre lottato, in prima linea, contro la camorra, a volte in solitudine, quando lo Stato ed i giornali erano assenti nel nostro territorio mentre il clan cresceva – racconta – Ho combattuto con coraggio, quasi folle, e senza risparmiarmi fino al rischio della propria vita e dei miei familiari». Diana è l’unico politico che Roberto Saviano, in “Gomorra”, descrive come strenuo nemico della camorra. Eppure viene tirato dentro quella macchina infernale, attendendo ben tre anni prima di essere interrogato da un magistrato. «Abbiamo fatto due richieste – spiega – ma sono stato sentito solo l’anno scorso». Perché? «Non lo so», dice spontaneo. In attesa di quella convocazione decide, però, di testimoniare al processo parallelo contro i vertici della coop Cpl Concordia, dove Diana, nel 2017, riesce a smontare le accuse già una prima volta. «In un passaggio della sentenza di quel processo – spiega – viene riconosciuto il mio impegno per promuovere il mio territorio e contrastare la camorra. Pur non essendo io l’imputato, quei giudici mi davano ragione. E quella coop che io avrei favorito, la stessa che avrebbe avuto rapporti con la camorra, ne è uscita come vittima». Ma ancora non basta. Le accuse, dice Diana, sono «esilaranti e incredibili». E c’è un abisso, ora, tra il loro clamore e il silenzio dopo il passo indietro della procura. «Ciò che mi ha stupito è che nessuno abbia tenuto conto delle dichiarazioni di Massimiliano Caterino, braccio destro del boss Michele Zagaria, che il 14 luglio 2014 mi ha definito un nemico del clan. Questa frase – spiega l’ex senatore – nei verbali non compare. Ma ne compare un’altra, quella in cui mi descrive come l’uomo politico più importante della zona e, dunque, quello che necessariamente sapeva tutto ciò che accadeva in Comune». Com’è possibile che di quella prima dichiarazione non ci sia traccia? «Bella domanda», risponde. Ma lui e il suo difensore, Francesco Picca, la trovano lo stesso. Per caso, in un altro processo seguito dal legale. «Per questo dico: si indaghi presto o bene sulla legittimità dell’indagine a mio carico», insiste Diana. Il tassello in più, ora, è la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura, che dà atto alla difesa di aver dimostrato che le accuse erano infondate e che gli atti utilizzati per costruirle dimostravano il suo impegno antimafia. Come nel caso della casa confiscata che, secondo l’accusa, sarebbe stata occupata da un killer della camorra proprio grazie a Diana. «Il pm Maurizio Giordano, nella richiesta d’archiviazione, ha riconosciuto il mio impegno col Prefetto affinché quella casa non venisse dichiarata inagibile, per evitarne l’abbattimento e, quindi, che potessero ricostruire sul terreno, che non era stato confiscato», racconta. Il che significa che quel capo d’accusa rappresentava, in realtà, una prova della sua battaglia contro il clan, come ammesso dallo stesso pm. Per mettere fine al calvario manca la decisione del giudice sulla richiesta di archiviazione, l’ultimo passo pesante e pigro della giustizia. «Non è più tollerabile che il principio costituzionale di presunzione di innocenza sia sostituito, di fatto, dalla presunzione di colpevolezza», dice. Da quel 3 luglio ad oggi per Diana sono stati giorni «di amarezza e isolamento», durante i quali ha scelto deliberatamente di astenersi da qualsiasi momento pubblico, per difendersi. Ma la lotta è apparsa subito come quella di Davide contro Golia. «Appena mi è stato notificato l’avviso di garanzia sono stato sbattuto sui giornali per giorni e ci sono rimasto per anni spiega – descritto come il falso paladino antimafia. Eppure ho deciso di combattere mettendo a rischio la mia vita e quella della mia famiglia, perché sono convinto non ci possa essere libertà senza contrastare la camorra, in un posto dove lo Stato, per 20 anni, è stato completamente assente». Fino al 1995, quando l’operazione Spartacus portò in cella un centinaio di uomini dei clan e, nella sua vita, la scorta, che lo ha seguito ovunque per 21 anni. «Era sempre con me – sottolinea se anche avessi voluto fare affari con i clan non mi sarebbe stato possibile». Rifarebbe tutto, spiega. E anche se ora lo Stato chiede sommessamente scusa, «ho già pagato una condanna pesantissima, la campagna che ha fatto sedimentare l’idea che sono un colluso. Sia chiaro: oggi più che mai difendo l’autonomia della magistratura e la legittimità di indagare su chiunque, anche su di me. Nessuno può essere al di sopra di ogni sospetto. Si indaghi, ma presto e bene. C’è la necessità di una riforma della giustizia – aggiunge – La politica ha le proprie responsabilità e me le prendo anche io, per quel poco tempo in cui sono stato parlamentare. Una giustizia lenta è inefficace, diventa disumana e fa perdere fiducia. Invece deve tornare a garantire i diritti del cittadino. Ma ora come ora, se non hai spalle solide puoi rimanerci sotto». Diana vuole fare ancora la sua parte, nonostante tutto. «Per il resto della mia vita – spiega – cercherò di dare un contributo per la riforma della giustizia. Ho ancora fiducia, perché l’ho amata tutta la vita. E come diceva Borsellino, proprio perché la amo, lotto per cambiarla. Perché così non merita la fiducia dei cittadini».
· Nino Marano. Una vita fra le sbarre.
Ancora un giro di chiave. Nino Marano. Una vita fra le sbarre di Emma D'Aquino. Descrizione del libro: “Ancora un giro di chiave” è il libro d’esordio della giornalista del Tg1 Emma D’Aquino, una ricostruzione toccante e incredibile della storia del detenuto Nino Marano. È il 31 gennaio del 1965 quando Nino Marano è arrestato per furto. La sua colpa è quella di aver rubato melanzane e peperoni, una bicicletta e una Motom 48; quest’ultima, dice, per poter andare a lavorare da manovale. Mentre Saragat è presidente della Repubblica e i Beatles stanno conquistando la Penisola, Nino Marano si accinge a cominciare la sua odissea nera, che lo porterà da un penitenziario all’altro d’Italia. Mediano di cinque figli, con una madre casalinga e un padre bracciante, Nino Marano è cresciuto in una Sicilia affamata e in una casa che sa di miseria. Al suo primo processo non può neanche servirsi di un avvocato e il giudice che lo condanna considera i suoi furti «in continuazione», imponendogli quasi undici anni di galera. Nino entra ed esce dalla prigione di Catania fino al 13 giugno del 1973, quando comincerà il suo peregrinare, da nord a sud, per le sezioni di alta sicurezza delle carceri dell’Italia intera, da Pianosa a Voghera, da Alghero a Porto Azzurro fino a Palermo. Solo il 22 maggio 2014, dopo quarantanove anni, due omicidi, due tentati omicidi e un ergastolo, Nino Marano otterrà la libertà condizionale dal Tribunale di sorveglianza di Torino. La storia incredibile del detenuto più longevo d’Italia, per reati commessi in carcere, è raccontata con spietatezza e poesia da Emma D’Aquino, in questo libro destinato a toccare i lettori nel profondo: “Ancora un giro di chiave. Nino Marano. Una vita fra le sbarre”.
EMMA D'AQUINO presenterà il libro "Ancora un giro di chiave ". Il Quotidiano.it venerdì 02/08/2019. Per gli "Incontri con l'autore - estate 2019" EMMA D'AQUINO presenterà il libro "Ancora un giro di chiave " Sabato 3 Agosto alle ore 21,30 al Circolo nautico. L'evento è organizzato dall'associazione "I Luoghi della Scrittura", dalla libreria "La Bibliofila" con il contributo e il sostegno dell'Amministrazione Comunale e della Regione Marche. Conversano con l'autrice Giovanna Frastalli e Remo Croci.
EMMA D'AQUINO (Catania, 1966) laureata in Scienze Politiche, in Rai dal 1997, è stata a lungo inviata di Porta a Porta. È stata inviata a New York dopo l'attentato alle Torri Gemelle, ha seguito i più importanti fatti di cronaca, da Cogne all'omicidio di Sarah Scazzi e Meredith Kercher, dal terremoto dell'Aquila al crollo del Ponte Morandi a Genova. Nel 2003 approda al Tg1, lavorando nelle redazioni di Tv7 e Speciale Tg1. Dopo aver condotto il Tg1 delle 13.30, ora conduce anche l'edizione delle 20.00.
IL LIBRO. Nino Marano. La storia. È il 31 gennaio del 1965 quando Nino Marano entra in carcere per aver rubato melanzane e peperoni, la ruota di un'Ape e una bicicletta. L'aveva rubata, racconta, «per andare a lavorare come manovale, non l'avessi mai fatto. Ci sono rimasto per un'eternità. La cella, la coabitazione coatta mi hanno trasformato. Dietro quelle sbarre le mie mani si sono macchiate di sangue e io sono diventato un assassino». Il presidente della Repubblica è Giuseppe Saragat, s'inaugura il traforo del Monte Bianco e i Beatles arrivano in Italia ma Nino sembra uscito da un romanzo di Verga: menzanu, mediano di cinque figli, madre casalinga, padre bracciante, una casa «che puzzava di fame». Non ha neanche un avvocato quando un giudice si occupa per la prima volta di lui: i furti vengono considerati «in continuazione», fanno cumulo, e lui si ritrova con una condanna a quasi undici anni. Entra ed esce di prigione fino al 13 giugno del 1973, quando varcando la soglia del penitenziario di Catania ha inizio il suo peregrinare, da nord a sud, per le patrie galere: da Pianosa a Voghera, da Alghero a Porto Azzurro fino a Palermo, spesso nelle sezioni di Alta Sicurezza. Il 22 maggio 2014, dopo quarantanove anni, due omicidi, due tentati omicidi e due condanne all'ergastolo, Nino Marano, il detenuto più longevo d'Italia per reati commessi in carcere, ha ottenuto la libertà condizionale e si è riaffacciato al mondo, compiendo la sua «metamorfosi». Un viaggio umano appassionante, una storia incredibile. «Vivo nell'inferno, Emma», mi disse una volta al telefono. Il suo è un inferno interiore, dell'anima. È l'inferno dei ricordi. È il prezzo che sta pagando per quello che ha fatto. Io in lui ho conosciuto l'uomo, e più Nino si mostrava nudo, indifeso, più la sua storia di uomo mi affascinava. Raccontarla è stato un viaggio umano appassionante.
"Ancora un giro di chiave". Emma D'Aquino e la morale senza morale del carcere. Maria Cristina Giongo su Avvenire, 5 maggio 2019. È possibile provare un sentimento di pietà nei confronti di un criminale, al di là dell'atto del perdono? Questa è la domanda più coinvolgente sottintesa nel libro della giornalista televisiva Emma D'Aquino, "Ancora un giro di chiave. Nino Marano. Una vita fra le sbarre", (Baldini e Castoldi, pagine 184, euro 17,00) imperniato sulla vita di Nino Marano: il detenuto più longevo d'Italia per reati commessi in carcere, dove è rimasto 49 anni. Accusato di due omicidi e due tentati omicidi, per un totale di due condanne all'ergastolo. L'interlocutrice è Emma D'Aquino, forse in una delle più lunghe interviste della sua carriera, iniziata in Rai nel 1997. Uno di fronte all'altra. Fra loro lo spettro di quelle sbarre, chiuse e riaperte parecchie volte. A cominciare da quel lontano 31 gennaio del 1965 quando in cella entrò per aver rubato melanzane e peperoni, la ruota di un'Ape e una bicicletta. L'infanzia di Marano è segnata dalla povertà, dalla fame: "È la fame di un bambino è la più dura, la più feroce". Infatti quando a soli 7 anni ruba quella bicicletta lo considera soltanto l'appropriazione di un mezzo indispensabile per andare a lavorare e portare qualche spicciolo in quella triste casa dove il padre perpetra ripetute violenze nei confronti della mamma: a cui un giorno si ribella cercando di proteggerla. Allora in un impeto d'ira lo afferra per il collo e lo stringe forte. Quando molla la presa lui, che aveva una zappa in mano, gliela tira contro una gamba, provocandogli una profonda ferita. "Oggi guardo quella carne ricresciuta male sotto la cicatrice e mi consolo all'idea di portare addosso anch'io una parte della sofferenza che fu di mia madre", racconta Marano. In seguito diventa, come lui stesso si definisce, "un delinquente per conto proprio", senza affiliazioni a clan mafiosi, passando da un penitenziario all'altro. Fra quelle mura diventa un assassino, assetato di vendetta, come quella attuata contro il malvivente che aveva accusato ingiustamente suo fratello di un'aggressione. Una volta, per difendere un giovane violentato da due detenuti ne accoltella uno. Lo mettono in isolamento. Ad Emma D'Aquino dice: "Ho difeso un ragazzino da un pervertito". Questa è la sua morale, senza morale. Basata sul "male necessario," che assurdamente considera come un'arma di "legittima" difesa contro una società ingiusta e crudele. A questo punto l'autrice si chiede: Marmo è diventato un uomo violento in carcere, o lo era anche prima? Lo sarebbe stato se nato e vissuto in un diverso ambiente familiare e sociale? Un libro interessante, che procede con lo stesso ritmo di un film d'azione, soprattutto nel racconto dei suoi tentativi di fuga. Spietato in alcune descrizioni, misericordioso verso la moglie Sarina che lo ama incrollabile danna vita, lo segue nei suoi trasferimenti da una prigione all'altra, a volte anche con i bambini. Sempre più stanca, curva sotto il peso di una vita fatta di tanto lavoro e sofferenze, scandita dalla speranza nella scarcerazione del marito, in un ultimo definitivo giro di chiave.
· Aldo Scardella, suicida da innocente.
Il fratello si uccise in carcere da innocente: «Dov’è la giustizia?». Pubblicato sabato, 27 luglio 2019 Jacopo Storni su Corriere.it. «Sono abituato alle ingiustizie, mi sento sconfitto come uomo e come cittadino». Con queste parole Cristiano Scardella commenta il suicidio del fratello Aldo, suicida in carcere 33 anni fa e vittima di malagiustizia. La vicenda è quella di Aldo Scardella, 24enne studente universitario a Cagliari. E’ il 23 dicembre 1985. Due criminali derubano il supermercato di proprietà di Giovanni Battista Pinna. Camuffati con dei passamontagna, irrompono nel negozio ed esplodono colpi d’arma da fuoco. L’esercente muore nella sparatoria e i due malviventi scappano dal luogo del delitto attraverso una via che porta al complesso residenziale dove vive Scardella, che verrà ingiustamente incarcerato. Lo studente fu arrestato su ordine del pm Sergio De Nicola, nonostante l’esito negativo di una perquisizione in casa sua. Il giovane Scardella fu trovato morto per impiccagione nella sua cella il 2 luglio, dopo 185 giorni di durissima prigionia con lunghi giorni di isolamento. «Dopo 33 anni dalla morte di mio fratello, nessuno ha pagato, non sono emerse le responsabilità degli inquirenti, non si è dato risposta concreta alla sua morte». Cristiano trova analogie col caso Cucchi: «La vicenda di mio fratello è simile, soprattutto per quanto riguarda il mistero che aleggia sopra la sua morte, non si capisce se si è ucciso o se è stato ucciso». L’associazione Aivm (Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia) offre sostegno gratuito alle persone che si ritengono vittime di malagiustizia ed errori giudiziari. In occasione dell’anniversario della morte di Scardella, ha intervistato il fratello Cristiano Scardella. «Coloro che si occuparono della vicenda di Aldo sapevano che era innocente, perché sapevano in quale mondo era maturato il delitto del commerciante – ha detto Cristiano - Volevano lui come colpevole per non disturbare qualcuno che in quel momento faceva comodo». Secondo Cristiano, quella vicenda «ha sensibilizzato l’opinione pubblica ed anche le coscienze nell’ambiente sardo: l’isolamento adesso può durare al massimo 15 giorni». Anche il giornalista Enzo Tortora, vittima anche lui di malagiustizia, si occupò del caso e fece la sua prima uscita pubblica dopo la sua definitiva assoluzione il 23 settembre 1986, andando a rendere omaggio alla tomba di Scardella, morto due mesi e mezzo prima. In quell’occasione, Tortora disse: «Capisco profondamente che cosa l’ha spinto a uccidersi. È stata la disperazione, il dolore per un’accusa ingiusta». Prima del suicidio, Scardella scrisse un biglietto con su scritto: «Vi chiedo perdono, se mi trovo in questa situazione lo devo solo a me stesso, ho deciso di farla finita. Perdonatemi per i guai che ho causato. Muoio innocente». Il caso fu chiuso soltanto nel 2002, con la condanna di Walter Camba e Adriano Peddio, facenti parte della «banda di Is Mirrionis» e già noti alle forze dell’ordine per precedenti penali.